Paleo news - Società Paleontologica Italiana

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Paleo news - Società Paleontologica Italiana
Supplemento al Bollettino della Società Paleontologica Italiana v.44 n.3
Poste Italiane S.p.A.- Sped.Abbon.Posale - D.L. 353/2003 (conv.in L.27/02/2004 n.46) art.1, comma 1, DCB, Modena CPO
Numero 13
Novembre 2005
PaleoItalia
Newsletter della Società Paleontologica Italiana
SOCIETÀ PALEONTOLOGICA ITALIANA
MODENA
PALEOITALIA
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Numero 13
Questo fascicolo di PaleoItalia si presenta piuttosto corposo. E’ con
soddisfazione che posso affermare che, per la prima volta, diversi contributi
sono arrivati spontaneamente in redazione. Spero che non si sia trattato di
un evento isolato, ma che segni realmente un cambio di tendenza!
Credo che l’articolo del Dott. Dal Sasso sulle tecniche di preparazione
dei fossili sia particolarmente gradito ai soci paleontofili. D’accordo con
l’autore abbiamo deciso di dividerlo in due parti: la seconda sarà pubblicata
nel prossimo fascicolo.
Il fascicolo risulta ricco, ma l’Agenda è stranamente quasi vuota. Per
esperienza so che quando si prepara qualcosa si pianifica tutto in ampio
anticipo. Chiedo quindi a chi organizza congressi, mostre, corsi, o altre
manifestazioni in Italia di comunicarcelo tenendo conto dei tempi di uscita
di PaleoItalia, in modo da inserire le informazioni nella rivista in tempo
utile. In questo modo anche gli organizzatori avranno un’ulteriore pubblicità
per le loro iniziative.
Buona lettura!
Carlo Corradini
GLI INDIRIZZI ELETTRONICI DELLA S.P.I.
Bollettino della Società Paleontologica Italiana
PaleoItalia
Biblioteca
Tesoreria
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IN COPERTINA
Maretia pareti Manzoni, 1878
Riprodotto da: Manzoni, A., 1878, “Gli echinodermi fossili dello Schier delle
colline di Bologna”, Besonders abgedruckt aus dem XXXIX Bande der
Denkschriften der Mathematisch-naturwiessenschaftlichen Classe der
Kaiserlichen Akademie der Wiessenschaften, Wien.
Tav. 4, fig. 33.
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PALEOITALIA
PALEOITALIA
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Urbino, 20-22 maggio 2005
RESOCONTI DI CONVEGNI
GIORNATE DI PALEONTOLOGIA 2005
RODOLFO COCCIONI
Dal 20 al 22 Maggio 2005 si sono
tenute a Urbino, presso il Campus
Scientifico dell’Università “Carlo
Bo”, le “V Giornate di Paleontologia” con escursioni nel territorio
circostante. Il Convegno è stato
organizzato dal Prof. Rodolfo
Coccioni, Direttore dell’Istituto di
Geologia e del Centro di Geobiologia, in collaborazione con la
Società Paleontologica Italiana.
Sotto uno splendido sole
primaverile, hanno partecipato al
Convegno oltre 100 tra paleontologi
e paleontofili, provenienti da tutta
Italia e anche dall’estero.
La partecipazione dei giovani
ricercatori è stata numerosa e
vivace, evidente dimostrazione della
vitalità culturale della Paleontologia
e dell’eccezionale possibilità offerta
dalle Giornate di Paleontologia per
scambiare esperienze ed ambiti di
lavoro.
Numerosi i contributi scientifici:
26 comunicazioni orali e 27 posters.
L’apertura del Convegno, con il Prof. Antonio Russo, Presidente della Società
Paleontologica Italiana, ed i Prof. Rodolfo Coccioni, Francesca Bosellini, Renato Posenato
ed Andrea Tintori.
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PALEOITALIA
Foto di gruppo al Campus Scientifico.
Le comunicazioni sono state
distribuite in cinque sessioni
scientifiche e in una sessione poster.
Gli argomenti trattati hanno
interessato la Paleontologia
sistematica, la Biostratigrafia, la
Micropaleontologia ambientale, la
Paleoecologia, la Paleontologia dei
Vertebrati, la Paleobotanica e la
valorizzazione dei patrimonio
paleontologico.
I contributi scientifici presentati
sono stati raccolti in un volume di
87 pagine che insieme al CD
“Leonardo, i fossili e le rocce”
realizzato dal Centro di Geobiologia
è stato distribuito a tutti i
partecipanti al momento dell’iscrizione.
Il Convegno si è aperto con il
saluto del Prof. Coccioni a cui è
seguito quello del Prof. Antonio
Russo, Presidente della Società
Paleontologica Italiana. L’intera
giornata è stata quindi dedicata alle
comunicazioni scientifiche suddivise
in quattro sessioni presiedute dai
Prof. Ruggero Matteucci, Antonio
Russo, Tassos Kotsakis, Franco
Russo e Antonietta Cerchi.
La prima giornata ha trovato la
sua conclusione nella cena sociale
alla Palazzina Sabatelli, tipico ed
accogliente ristorante delle Marche
settentrionali. In un clima conviviale
i partecipanti hanno avuto la
possibilità di gustare piatti e vini della
Valle del Metauro.
La maggior parte della mattinata
della seconda giornata è stata
dedicata alla quinta sessione
scientifica presieduta dal Prof.
Piero De Castro ed alla sessione
poster. Nella tarda mattinata si è
tenuta l’Adunanza Generale della
Società Paleontologica Italiana. Il
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Presidente, a nome di tutto il
Consiglio Direttivo, ha proposto la
nomina a Socio Onorario del Prof.
Piero De Castro raccogliendo il
consenso entusiastico dell’Assemblea.
Il pomeriggio di Sabato 21
Maggio e la giornata di Domenica
22 Maggio sono stati interamente
dedicati all’appassionante ed
interessante visita ai diversi Musei
paleontologici dell’area compresa
tra Romagna e Marche.
Per l’occasione una breve guida
è stata realizzata dai Prof. Rodolfo
Coccioni e Walter Monacchi e
distribuita ai partecipanti. La guida
suggerisce gli itinerari paleontologici
di visita nelle vallate intorno ad
Urbino, concentrandosi sulle realtà
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museali più interessanti e che
conservano le testimonianze dei
fossili locali.
Sono stati visitati il Museo dei
Fossili di Mondaino (RN), il Museo
Civico Archeologico e Paleontologico di Macerata Feltria (PU), il
Museo Geo-Territoriale di Cantiano
(PU), il Museo dei Fossili e dei
Minerali del Monte Nerone di
Apecchio (PU) ed il Museo
Geopaleontologico Naturalistico
Antropico ed Ornitologico “Brancaleoni” di Piobbico (PU). Tutti i
Musei hanno spalancato le porte dei
loro preziosi tesori con un’ospitalità
davvero calorosa.
Le giornate si sono concluse con
un gradevolissimo pranzo all’aperto,
in un caratteristico ristorante nei
I giovani ricercatori durante l’allegra cena sociale.
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PALEOITALIA
La visita al Museo dei Fossili di Mondaino (RN).
pressi di Piobbico. I partecipanti si
sono salutati con un frizzante brindisi
e un arrivederci alle VI Giornate di
Paleontologia del 2006, a Trieste.
Ancora una volta è doveroso
esprimere i più calorosi ringraziamenti ai “Coccioni boys” che con
la loro continua e solerte assistenza
hanno reso possibile l’attuazione di
questa iniziativa. E’ importante
infine ricordare che la Commissione
regionale per i beni e le attività
culturali delle Marche si è pronunciata unanimemente nell’esprimere
apprezzamento per le attività svolte
nell’ambito delle V Giornate di
Paleontologia, sottolineando il valore
di coniugare l’approfondimento
scientifico dei temi del convegno con
la valorizzazione dei Musei che
conservano preziose testimonianze
della ricchezza paleontologica e
geologica del territorio compreso tra
Romagna e Marche.
PALEOITALIA
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APPUNTI SULLA PREPARAZIONE E
CONSERVAZIONE DEI FOSSILI
I – La preparazione meccanica
CRISTIANO DAL SASSO
Introduzione
Quando un fossile viene alla luce,
spesso è ancora inglobato in una
matrice rocciosa. Inoltre può essere
fragile e necessita di essere
consolidato, o ancora può essere
estratto in frammenti separati e va
quindi ricomposto. La preparazione
dei fossili è un po’ l’equivalente di
ciò che in campo artistico si chiama
restauro. Senza pensare ad un vero
e proprio laboratorio, abbiamo
bisogno di un minimo di attrezzatura:
un tavolo per appoggiarvi i fossili e
gli strumenti, resine e collanti, un
microscopio, un piccolo compressore per gli utensili pneumatici
e una presa di corrente per gli
attrezzi elettrici, nonché vaschette
e acidi per le preparazioni chimiche.
E’ bene dotarsi anche di occhiali e
guanti da cantiere e mascherine
Vista parziale di un laboratorio di paleontologia.
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PALEOITALIA
protettive per polveri e vapori, che
permettano di lavorare in sicurezza.
La preparazione dei fossili
“Preparare” significa portare alla
luce tutte le parti anatomiche
conservatesi nel fossile, asportando
la matrice rocciosa che lo ricopre.
L’intervento deve comunque
rispettare le caratteristiche dell’esemplare così come sono state
conservate dai naturali processi di
fossilizzazione. Oltre ai mezzi tecnici
serve anche una certa dose di
manualità ma soprattutto tanta
pazienza. Infatti si tratta di un lavoro
molto lungo e di precisione, che può
richiedere giorni, mesi o, per
esemplari di grandi dimensioni, anni
interi.
Un fossile si può presentare
integro e compatto, e in questo caso
si procede direttamente alla
preparazione, oppure fratturato in
più pezzi al momento dell’estrazione; in tal caso deve essere
ricomposto con colle epossidiche,
cianoacrilati o, meglio ancora, con
resine acriliche reversibili. L’importante è valutare se sia meglio
compiere l’operazione prima, durante o dopo la preparazione e in
quale successione: un incollaggio
precoce di alcune parti, infatti, può
impedire che altre parti si vadano a
incastrare perfettamente.
Concettualmente il risultato finale
di una preparazione paleontologica
dovrebbe essere la completa liberazione del fossile dal sedimento.
Spesso ciò è possibile: fusti vegetali,
gusci o modelli di molluschi e di altri
invertebrati, o ancora scheletri di
vertebrati i cui resti fossili non siano
Riassemblaggio finale (post-preparazione)
di lastre di scisto bituminoso contenenti lo
scheletro di un ittiosauro di 5,70 m
(Besanosaurus leptorhynchus).
stati eccessivamente compressi e
deformati dai processi diagenetici,
possono essere estratti a tutto tondo
e, nel caso di scheletri completi,
ricomposti tridimensionalmente in
connessione anatomica, tenuti
assieme da uno scheletro metallico
tale da non danneggiare i pezzi
originali. Preparare in questo modo
un modello interno di ammonite o di
un gasteropode è una delle operazioni che più comunemente
professionisti e appassionati si
trovano ad affrontare e che, salvo
eccezioni, presenta le minori difficoltà. Di solito, infatti, la forma del
fossile è chiaramente prevedibile
anche nelle parti ancora nascoste
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sotto la matrice e il fossile stesso si
presenta in genere abbastanza
resistente.
In molti giacimenti, e in
particolare in quasi tutti i depositi a
conservazione eccezionale (konservat-lagerstätten), nei quali si
rinvengono anche organismi a corpo
molle, artropodi e vertebrati con
scheletri in connessione anatomica
i cui resti fossili sono fortemente
compressi su una superficie di
strato, gli esemplari devono essere
necessariamente lasciati saldati alla
matrice rocciosa e messi in luce
come fossero dei bassorilievi. In
alcuni casi, specie per ragioni di
studio, sui fossili su lastra si può
eseguire una preparazione atta a
renderli osservabili su entrambe le
facce, quella “libera” e quella
saldata alla matrice. In questo caso
si procede pulendo accuratamente
la faccia libera, si compie un rilievo
fotografico, si esegue un calco
molto preciso dell’esemplare e si
ricopre il tutto con uno strato di
resina trasparente; quindi si prepara
il fossile dall’altro lato. Alla fine di
questo processo il fossile resta
inglobato nella resina, mentre la
matrice rocciosa viene completamente rimossa.
Tecniche di preparazione
Si possono distinguere due
tecniche fondamentali di preparazione: quella meccanica, eseguita a mano con l’aiuto di vari
utensili, e quella chimica, eseguita
con bagni in soluzioni acide. Le
tecniche che si possono impiegare
variano molto a seconda della natura
del fossile e della matrice che lo
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ingloba. Se la matrice è incoerente
(un’argilla, per esempio) il fossile
può essere liberato mediante
preparazione meccanica o con un
apparecchio a ultrasuoni; se la
matrice è coerente e il fossile ha una
composizione mineralogica differente (per esempio, se la matrice è
calcarea e il fossile è fosfatizzato o
silicizzato) e non è eccessivamente
compresso e deformato, si può
utilizzare una tecnica di preparazione chimica in acido; se la
matrice è coerente e di composizione mista (ad esempio una
matrice marnoso-calcarea) ci si
può avvalere di una combinazione
di tecniche chimico-meccaniche; se
la matrice è coerente e marnosa,
terrigena o bituminosa, oppure se il
fossile, indipendentemente dalla
natura chimica della matrice, è
compresso, fragile o minuto,
conviene effettuare una preparazione meccanica manuale.
La preparazione meccanica
Per la rimozione meccanica della
matrice si possono impiegare
attrezzi a percussione quali
microscalpelli e cesellatori pneumatici, apparecchi abrasivi quali
sabbiatrici e microsabbiatrici,
martelli e scalpelli convenzionali,
bulini, puntali, chiodi e spilli. L’uso
di levigatrici, frese e altri utensili ad
albero rotante è utile per asportare
la matrice ma non è consigliato per
pulire il fossile in quanto il
movimento rotatorio, a differenza di
un moto ben calibrato di percussione, causa una macinazione e
una levigatura del reperto.
Come procedura standard, in
una preparazione meccanica si
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oculari, tanto per intenderci) o di una
visiera dotata di lenti con un
ingrandimento di almeno 10x. Tutte
queste operazioni generano una
grande quantità di microdetriti e di
polvere, quindi si rende necessario
ripulire continuamente le superfici
con dei pennellini.
Gli utensili pneumatici, come questo
microscalpello, necessitano di un
compressore ma garantiscono un alto
numero di percussioni (fino a 36.000 al
minuto) e un’escursione minima della
punta, che riduce il rischio di danneggiare
i fossili.
inizierà con le operazioni di
sgrossatura, asportando le porzioni
di matrice più voluminose.
Avvicinandosi alla superficie del
fossile sarà necessario procedere
con più delicatezza e maggiore
precisione, quindi si ricorrerà alla
preparazione manuale con punte
sempre più piccole. La preparazione
meccanica di particolari anatomici
dell’ordine dei millimetri, o ancora
più minuti, deve essere effettuata
con l’aiuto di un microscopio
stereoscopico (quello con due
Punte, chiodi e spilli sono strumenti
fondamentali per una preparazione
paleontologica. Le punte in acciaio vengono
usate per “affettare” piccole porzioni di
matrice sopra e intorno al fossile. Per
arrivare a contatto con il reperto (nella foto,
il baby dinosauro Scipionyx samniticus) è
meglio usare chiodini di ferro e spilli
entomologici: sono meno aggressivi
dell’acciaio e, se montati su appositi
mandrini e affilati con carta vetrata a grana
fine, permettono di lavorare su piccoli
particolari con estrema precisione.
PALEOITALIA
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PALEOITALIA
CRASSOSTREA, OVVERO COME
CONQUISTARE UN NUOVO AMBIENTE
LUCA RAGAINI
Nonostante la loro natura sessile,
gli ostreidi riferibili al genere
Crassostrea Sacco, 1897 sono
vissuti e vivono tuttora prevalentemente su fondi mobili o poco
consolidati. Questa affinità tessiturale può apparire a prima vista
contraddittoria se si considera da un
lato la rarità di solide basi per
l’ancoraggio tipica di questi substrati
e dall’altro le notevoli dimensioni, e
talora anche il peso, che hanno
raggiunto molte di queste forme.
Tuttavia mettendo in campo
numerose strategie adattative questi,
così come altri, ostreidi sono riusciti
a conquistare tali ambienti dove le
risorse trofiche a disposizione dei
sospensivori sono abbondanti
(Seilacher, 1984).
Anche se l’origine e lo status
tassonomico degli ostreidi (qui intesi
come superfamiglia Ostreoidea)
sono argomenti tuttora assai dibattuti
e controversi (Harry, 1985;
Lawrence, 1995; Màrquez-Aliaga et
al., 2005), i paleontologi sono
concordi nel ritenere che i primi
rappresentanti del gruppo (tra cui
Umbrostrea crassidiformis, del
Trias Medio della Germania, è la
specie più antica) vivessero
cementati a substrati solidi. Già nel
Giurassico, tuttavia, compaiono
forme in grado di colonizzare
substrati fangosi, come dimostrato
anche dal rappresentante più antico
del genere Crassostrea (C. tetoriensis, Giurassico Medio del
Giappone) e successi-vamente da
altri taxa della famiglia Ostreidae,
sottofamiglia Crasso-streinae
(Konbostrea, Saccostrea, Striostrea, ecc.).
Le strategie utilizzate nella
conquista di questi nuovi ambienti
sono molteplici e talvolta hanno
Fig.1 – Esemplari di C. tetoriensis cementati
tra loro a formare una piccola colonia.
Lunghezza della barra = 2 cm. (da
Komatsu et al., 2002; modificato).
PALEOITALIA
Esemplare di Gryphaea arcuata in
posizione fisiologica. Lunghezza della
barra = 2 cm. (da Seilacher, 1984;
modificato)
portato a morfologie bizzarre, ma
nella sostanza sono riconducibili a
due tipologie principali cui
corrispondono da un lato le forme
cosiddette “reclinate” (che riescono
a galleggiare sul sedimento) e
dall’altro quelle che sfruttano parte
delle valve (tipicamente l’area
dorsale) per ancorarsi passivamente
sul fondo.
Gryphaea, rappresentante tipico
della prima categoria, ha una
geometria fortemente inequivalve
con una valva sinistra molto
convessa, spessa e caratterizzata da
una microstruttura compatta che si
Lopha ed Arctostrea in
posizione fisiologica.
Notare l’andamento a
zig-zag della commissura di Arctostrea
maggiormente accentuato nella parte convessa (anteriore) che è
quella rivolta verso la
corrente per ottenere una
maggiore stabilità. Lunghezza della barra = 1
cm (da Seilacher, 1984;
modificato).
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è rivelata idonea a stabilizzare
l’organismo sul substrato.
Anche altri ostreidi hanno
adottato una postura reclinata
differenziandosi però da Gryphaea
e generi simili per la presenza di
particolari microstrutture del guscio,
quali camere, elementi a nido d’ape,
vescicole, ecc., che nella sostanza
hanno lo scopo di alleggerire il
guscio senza comprometterne la
solidità. Per evitare l’affondamento
e contestualmente ancorare la
conchiglia al substrato sono stati
inoltre utilizzati vari accorgimenti,
come ad esempio una forma a
ventaglio associata all’andamento a
zig-zag della commissura (Lopha),
caratteristica quest’ultima che in
altri casi è invece associata
all’allungamento e curvatura a ferro
di cavallo delle valve (“Arctostrea”).
Pur nella loro variegata
morfologia, tutte le forme reclinate
hanno un denominatore comune
rappresentato dalla necessità di
mantenere la commissura (od
almeno gran parte di essa) al di
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PALEOITALIA
Profilo di Crassostrea gravistesta in
posizione fisiologica. Notare la
commissura al sopra dell’interfaccia
acqua-sedimento e la migrazione del centro
di gravità (G) che durante le fasi di crescita
si posiziona sempre al di sopra del
corrispondente centro di galleggiamento (B)
per mantenere condizioni di equilibrio. (da
Chinzei, 1995; modificato)
sopra dell’interfaccia acquasedimento: in caso contrario, infatti,
le particelle sedimentarie finirebbero
per intasare le branchie provocando
il soffocamento dell’organismo.
Gli ostreidi che sfruttano invece
parte delle valve come elemento di
ancoraggio passivo hanno un modo
di vita sostanzialmente seminfaunale e questo ha portato allo
sviluppo di morfologie piuttosto
diverse rispetto alle precedenti, ma
tutte caratterizzate da una
microstruttura “leggera” del guscio
per la presenza degli elementi già
descritti in precedenza. Tipiche di
questo gruppo sono le forme
allungate in senso dorso-ventrale,
come quelle coniche di Saccostrea
e Striostrea oppure quella a “stick”
di Konbostrea konbo, esempio di
crescita estrema in altezza che ha
portato questa specie a raggiungere
dimensioni record (oltre 1 m)
(Chinzei, 1986).
Konbostrea e Saccostrea,
ostreidi di fondi mobili ancorati
passivamente al substrato
tramite la(e) valva(e) e
particolarmente sviluppati in
altezza. Lunghezza della barra
= 1 cm (da Seilacher, 1984;
modificato).
PALEOITALIA
Anche Crassostrea ha spesso
utilizzato lo sviluppo esasperato in
altezza, con la parte dorsale del
guscio sfruttata come ancora e le
parti molli relegate in quella ventrale,
quale strategia per poter colonizzare
sedimenti mobili o scarsamente
consolidati. E’ il caso, ad esempio,
della forma miocenica Crassostrea
gryphoides (Jimenez et al., 1991)
o della nuova specie recentemente
rinvenuta nel Pleistocene dell’Ecuador (Ragaini et al., 2004) che
associano a tale caratteristica una
più leggera struttura del guscio,
ottenuta grazie alla presenza di
depositi carbonatici porosi
(“chalky”), ed un modo di vita
gregario in cui gli individui sono in
posizione verticale ed accostati gli
uni agli altri per aumentare la
stabilità. Talvolta tali accorgimenti
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si rivelano insufficienti ed agenti
idrodinamici quali, ad esempio, moto
ondoso e correnti possono orientare
diversamente gli esemplari; in tal
caso il tentativo di riconquistare
l’originaria posizione verticale può
dare come risultato morfologie
piuttosto bizzarre (v. figura a
pag.16). L’associazione di individui
in piccoli aggregati (in questo caso
tramite cementazione) per meglio
contrastare la tendenza allo sprofondamento nel substrato era già
presente in Crassostrea tetoriensis,
il più antico rappre-sentante del
genere (Komatsu et al., 2002).
Gli esemplari delle specie fossili
di Crassostrea, ed in particolare
quelle del Terziario e del Quaternario, hanno spesso raggiunto
dimensioni ragguardevoli (fino a 60
cm di altezza e 15 cm di spessore)
Livello a Crassostrea nel Pleistocene dell’Ecuador. Notare gli esemplari dislocati rispetto
alla posizione fisiologica verticale.
16
PALEOITALIA
Valva
sinistra
di
Crassostrea che evidenzia
distinte fasi di accrescimento separate da tre
drastici cambiamenti nella
direzione di crescita dovuti
a successive dislo-cazion1
dell’esemplare (da Checa e
Jimenez-Jimenez, 2003;
modificato).
evocate anche dai loro stessi nomi:
C. gigantissima, C. gravitesta, C.
ingens, C. titan, ecc.. A queste si
contrappongono le specie attuali (C.
angulata, C. columbiensis, C.
gigas, C. rizophorae, C. virginica,
ecc.) che evidenziano dimensioni
assai più contenute. Per cercare di
spiegare tale differenza sono state
avanzate alcune ipotesi tra cui
un’elevata velocità di crescita
associata ad una maggiore longevità
per la mancanza di predazione
umana oppure la co-presenza di
organismi fotosimbionti. Più
recentemente (Kirby, 2001) è stata
ipotizzata una relazione diretta tra
dimensioni del guscio e caratteristiche ambientali. Le specie a
guscio sottile, sia attuali che fossili,
sarebbero ristrette ad ambienti
marginali di transizione a salinità
estremamente variabile (estuari
salmastri, lagune iperaline, ecc.)
oppure a zone intertidali caratterizzate da esposizioni più o meno
prolungate; tali ambienti avrebbero
agito come veri e propri rifugi
ecologici nei confronti dei predatori
marini. Sia i gasteropodi perforatori,
infatti, che altri predatori come
crostacei, vermi piatti, octopodi,
asteroidi, pesci, ecc., non sono in
grado di sopportare variazioni
importanti della salinità, mentre
forme attuali di Crassostrea
possono tollerare anche escursioni
da 0‰ al 42‰ (Harry, 1985;
Shumway, 1996). Le specie a guscio
spesso sono invece ritenute tipiche
di ambienti francamente marini (in
genere di limitata profondità) dove
il fenomeno della predazione è
piuttosto diffuso. In questo caso la
difesa contro i predatori è legata
all’aumento di spessore delle valve
e l’efficacia di questo deterrente è
testimoniata anche dalle numerose
perforazioni incomplete rinvenute su
numerosi esemplari.
In conclusione, forme sospensivore sessili caratterizzate da
notevoli dimensioni sembrerebbero
a prima vista poco adatte a vivere
su fondi mobili, dove i substrati idonei
per l’ancoraggio sono rari e dove gli
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organismi si devono confrontare con
il pericolo del seppellimento o
comunque del soffocamento. Il
genere Crassostrea rappresenta un
esempio di come, attraverso
l’adozione di efficaci strategie
adattative, gli invertebrati marini
siano stati in grado di colonizzare
ambienti per certi versi ostili, ma
fonte di importanti risorse trofiche.
Bibliografia
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Kirby, M.X., 2001, Differences in growth
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and Quaternary Crassostrea oysters:
Paleobiology, 27(1): 84-103.
Komatsu, T., Chinzei, K., zachera, M.S. &
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et al., The eastern oyster: Crassostrea
virginica: 467-513, Maryland Sea Grant
College.
PALEOITALIA
18
RISPOLVERANDO I CELACANTI!
LUCIA LOPS
Quando iniziai ad occuparmi di
celacanti fossili, convinta del fatto
che anche l’approfondimento delle
forme di vita attuali è premessa
importante in qualsiasi studio
paleontologico, inevitabilmente mi
imbattei nell’affascinante storia
legata alla scoperta scientifica del
primo esemplare dell’unico genere
ancora vivente di celacanto e mi
chiesi incredula: “Chissà quante
volte, prima del 1938, gli indigeni
delle Isole Comore (Oceano
Indiano) avranno issato a bordo delle
loro imbarcazioni esemplari di
Latimeria, ignari di aver catturato
un pesce di un gruppo ittico creduto
estinto insieme ai Dinosauri (65
milioni di anni fa)?!?”. Al di là delle
domande di chi, come me, rimane
sempre affascinato da quante
scoperte scientifiche avvengano per
caso, ci sono anche quegli
interrogativi posti dal cosiddetto
pubblico “non addetto ai lavori”. “Chi
sono i celacanti?”, per esempio, è il
quesito più semplice, e nello stesso
Latimeria chalumnae.
tempo più imbarazzante, a cui ci si
trova a dover rispondere quando si
presentano i celacanti fossili,
ingiustamente troppo spesso
snobbati dalla paleontologia italiana
(e non) e, invece, meritevoli di una
maggiore attenzione. Eh sì, parlare
di “dinosauri” ai più è cosa semplice:
la parola “Dinosauro” rievoca subito
alla loro mente forme animali ben
precise, il nome “celacanto” è
spesso ingiustamente associato ad
un grosso punto di domanda!
Un identikit molto semplice dei
celacanti potrebbe essere il
seguente: essi sono Crossopterigi,
cioè pesci assai diversi da quelli che
comunemente siamo abituati a
vedere in pescheria (Attinopterigi).
Tanto per cominciare, a differenza
dei pesci con le pinne raggiate che
siamo soliti trovarci nel piatto al
ristorante, i celacanti hanno
caratteristiche pinne lobate, ossia
dotate di un robusto lobo carnoso
che protrude dal corpo, sorretto da
articolazioni ossee e muscoli
propri.Con sole due specie viventi
(Latimeria chalumnae e Latimeria
moenadensis), i celacanti rappresentano numericamente oggi solo un
ramo secondario nell’evoluzione
ittica e, in confronto alle circa
venticinquemila specie viventi di
teleostei appaiono poca cosa ma, se
si pensa che i celacanti, data la loro
PALEOITALIA
innegabile parentela con i ripidisti,
potrebbero esser considerati un po’
come “cugini” degli antenati dei
Tetrapodi… l’importanza evolutiva
del gruppo non è davvero da
sottovalutare!
Il confronto della morfologia
scheletrica di base di Latimeria con
quella degli esemplari fossili
(Devoniano medio - Cretaceo
superiore) ci rivela l’incredibile
capacità di conservazione dimostrata dall’intero gruppo per circa
400 milioni di anni, dal Devoniano
ad oggi! Nei fossili, come nelle
specie attuali, si ritrovano non solo
le caratteristiche pinne lobate, ma
anche altri caratteri propri di questi
pesci, come ad esempio la singolare
pinna caudale a ventaglio e a tre lobi,
l’organo rostrale per l’elettroricezione, la notocorda e il giunto
intracranico per spalancare al
massimo la bocca. Se i celacanti,
come gli Attinopterigi, nella disperata
lotta alla sopravvivenza del meglio
adattato, si fossero tanto dati da fare
a cambiare morfologicamente per
divenire più competitivi possibile, e
non fossero sopravvissuti come
19
Cranio di Latimeria, unico genere attualmente vivente di celacanto.
“fossili viventi”, pressoché
inalterati per centinaia di milioni
d’anni, l’anatomia comparata
avrebbe perso, probabilmente, degli
elementi fondamentali di studio, sia
per il confronto con le forme fossili
che per la ricostruzione della storia
evolutiva che dai Pesci può aver
portato agli antenati dei primi
Tetrapodi.
Abitanti in passato di quasi tutte
le acque (dolci e salate) del Nostro
Pianeta, con la sola eccezione
dell’Antartide, i celacanti, resistettero allo “spauracchio” dell’estinzione, presentatosi a loro più volte
dal Devoniano medio al Cretaceo
Esemplare del genere Holophagus del Giurassico Inferiore.
20
PALEOITALIA
Esemplare MPUM 9289 (Norico, Triassico Superiore), attualmente in fase di studio.
sup. Essi, a dispetto di ogni
minaccioso cambiamento ambientale, continuarono ad esistere
mantenendo una struttura morfologica di base invariata e non
specializzata... e questa è la cosa
davvero incredibile e piena di
fascino di tutto il gruppo! Il loro
“modello morfologico”, forse proprio
per la sua primitiva semplicità, risultò
incredibilmente adattabile, fin da
quando comparvero come pesci
marini nel Devoniano. Anche se
l’alta conservazione del semplice
piano strutturale di base del gruppo,
macroscopicamente, ha determinato
una (apparente?) generale bassa
diversità tassonomica, più in
dettaglio, i celacanti fossili rivelano
una variabilità, nella minuta
ornamentazione di scaglie, di ossa
craniche e di raggi delle pinne.
Anche le proporzioni e la forma
delle ossa del cranio, nonché la
lunghezza del terzo lobo caudale
centrale degli esemplari fossili
studiati e il punto d’inserzione delle
pinne sono divenuti importanti
caratteri diagnostici.
I celacanti fossili entrarono di
diritto nella storia della Paleontologia
nel 1836, quando Louis Agassiz
ritrovò il primo fossile di questo
gruppo. Fu allora che ebbero il via
studi e descrizioni di numerosi
generi e specie di celacanti, rinvenuti
un po’ in tutte le parti del mondo
(Germania, Inghilterra, Stati Uniti,
Madagascar, Spitzbergen, Groenlandia...).
Anche l’Italia “diede alla luce”
numerosi celacanti fossili: il primo
esemplare scoperto e studiato, ad
esempio, proveniva dalla località del
Triassico Medio di Perledo (Lecco);
l’ultimo celacanto ad essere
nominato in un lavoro di un paleontologo italiano (De Alessandri) fu,
invece, Undina picena del Triassico superiore, nell’ormai lontano
1910! Mentre la bibliografia estera
esprime ancor oggi il suo interesse
per i celacanti fossili, gran parte degli
esemplari italiani, purtroppo, pur
facenti parte anche di importanti
collezioni paleontologiche di molti
musei italiani, giace ancora senza
nome e studio.
Occuparsi oggi di celacanti
italiani, dopo che, per quasi un
secolo, di questi fossili non se ne
occupò più nessuno, è una bella
PALEOITALIA
“gatta da pelare”. Fare ricerca su
questi pesci fossili significa
rassegnarsi ad affrontare numerose
problematiche come, ad esempio,
consultare fonti bibliografiche
vecchie, corredate di un linguaggio
scientifico non adeguato alle
esigenze delle più moderne
descrizioni anatomiche dei fossili.
Questo implica dover essere
costretti a recarsi di persona presso
i vari musei che hanno in custodia i
celacanti fossili, allo scopo di
verificare direttamente la morfologia
degli esemplari e poterla confrontare con quella che via via si
scopre nei nuovi esemplari su cui si
ha la possibilità di lavorare
direttamente. Avere per le mani
fossili di celacanti triassici significa
cimentarsi con la preparazione per
lo studio di pesci mediamente di 3035 cm, con importanti eccezioni
capaci di raggiungere anche il
metro; significa misurare la propria
pazienza e mettere in conto
centinaia di ore destinate al
microscopio per la rimozione meccanica della matrice che ancora
ricopre la delicatissima ornamentazione di scaglie ed ossa. Tutto
questo, neanche a dirlo, rallenta
inevitabilmente la ricerca e limita gli
esemplari a disposizione per
Particolare delle scaglie
dell’esemplare MPUM 9289
(Norico, Triassico Superiore.
21
qualsiasi ulteriore confronto a breve
termine.
Saggiare la sistematica dei
celacanti poi significa impazzire fra
decine e decine di nomi, spesso
istituiti arbitrariamente su sparuti
resti. La cattiva conservazione di
molti celacanti e la loro mancata
completezza sono stati i principali
co-fattori scatenanti tutta la
confusione che ancora regna
signora tra i celacanti. “Undina
picena”, uno dei più celebri
celacanti fossili norici (Triassico
sup.) italiani (Giffoni, nel salernitano), è un esempio delle
ingarbugliate vicende tassonomiche
che comunemente accompagnano
anche altri fossili del gruppo
protagonista di queste mie righe. La
sua storia inizia nel 1862 e, nell’arco
di quasi un secolo, diversi illustri
Autori gli attribuiscono tre nomi di
genere diversi che, in ordine
cronologico, sono: Urocomus,
Undina, Holophagus. Questi
“magnifici tre” generi, sembrerebbero non esser proprio tutti la
stessa cosa visto che oltretutto
vennero istituiti su materiale di
diversa età (rispettivamente
Triassico sup., Giurassico sup. e
Giurassico inf.) e di diverso possibile
ambiente di vita (acque basse
22
PALEOITALIA
Cranio dell’esemplare indeterminato MPUM 9151 (Norico, Triassico Superiore),
attualmente in fase di studio.
costiere per i primi due generi e
acque decisamente di mare più
aperto per l’ultimo). É per questa
serie di contraddizioni che il nome
del fossile è ancora in “stand by”
da oltre un secolo e, a dir la verità, il
suo cattivo stato di conservazione
non aiuta molto a dargli un definitivo
“battesimo”! Forse sarebbe il caso
di ritornare a chiamarlo semplicemente Urocomus picenus, nome
per altro datogli da Costa, suo stesso
scopritore. Come se non bastasse
la stessa validità del nome generico
“Undina” è stata messa in discussione senza tuttavia che si giungesse
ad una conclusione definitiva sulla
questione. Ciò crea non poche
difficoltà a chi, nel tentativo di
determinare un celacanto fossile,
voglia dargli eventualmente il nome
generico di “Undina”! Se a questo
punto state pensando: “Che pizza
questi celacanti, ecco perché tutti li
hanno mandati al diavolo!”, avete
tutta la mia comprensione ma vi
assicuro che anche un solo piccolo
contributo come il mio alla
paleontologia di un Paese come
l’Italia, dalle gloriose tradizioni nella
ricerca dei fossili, può riempire il
cuore di grande soddisfazione.
Dopo quasi un secolo da De
Alessandri, sotto la guida del prof.
A. Tintori dell’Università degli Studi
di Milano, mi avvicino allo studio di
alcuni celacanti fossili provenienti
principalmente da scavi condotti, a
PALEOITALIA
partire dalla seconda metà degli anni
’70 dello scorso secolo, presso le
Prealpi lombarde dal Dipartimento
di Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Milano. Si tratta
di esemplari del Norico, piuttosto
completi e ben conservati, ben
appropriati al confronto e allo studio
sistematico anche se incredibilmente lunghi da preparare. Alcuni
di essi sembrano riservarci
l’inaspettata sorpresa di essere
differenti dai celacanti triassici già
noti in Italia (compreso “Undina
picena”!) e all’estero, suggerendo
una maggior diversità del gruppo
proprio sul finir del Triassico.
Questo non è però tutto: la
successione triassica italiana, già
nota da tempo per i suoi siti
ricchissimi di vertebrati marini che
hanno permesso di ricostruire le
vicende evolutive dei pesci, appare
molto interessante anche per i
celacanti, la cui evoluzione potrebbe
essere seguita per un intervallo di
almeno 30 milioni d’anni, grazie agli
esemplari provenienti dai vari piani
del Triassico. Dalle Dolomiti di
Braies, per esempio, provengono
celacantidi dell’Anisico, dal Monte
San Giorgio quelli del Ladinico
inferiore, da Raibl-Cave del Predil
quelli del Carnico, da Giffoni e dalle
Prealpi bergamasche e del Friuli
quelli del Norico. Allargando poi il
nostro sguardo dalla varietà dei
generi raccolti in Italia a quella
testimoniata dal Triassico inferiore
23
di località straniere come Groenlandia, Svalbard, Madagascar e
Canada si potrebbe iniziare a
delineare meglio la reale diversità
tassonomica di questi pesci che, a
partire dal Giurassico superiore, si
ridurrà drasticamente nel numero
dei generi, fino a “Latimeria”,
l’unico ancora vivente.
Mentre ci si accinge agli ulteriori
approfondimenti paleontologici sul
gruppo, attendiamo con curiosità
anche i risultati dei numerosissimi
studi biologici condotti “in vivo” su
Latimeria, certi che ancora importanti informazioni potrebbero
regalare anche alla paleontologia,
sfatando, ancora una volta, la
sciocca idea che il paleontologo sia
solo uno “studioso di cadaveri”.
Forse, come pochi, il paleontologo
studia invece la vita e, con le sue
ricerche e i suoi continui approfondimenti sul mondo vivente
attuale, si adopera a far rivivere tutto
un mondo scomparso estremamente
dinamico. Con il supporto delle
informazioni raccolte dal Presente,
lo studioso di fossili riesce ogni volta
in quell’affascinante ricostruzione
del Passato che è in grado di farci
immaginare quegli organismi, morti
anche centinaia di milioni di anni fa,
come vivi e, come tali, capaci di
nutrirsi e muoversi in una ben
precisa maniera, in un ben preciso
ambiente in cui si riproducevano con
l’inspiegabile istinto di sfuggire
all’Estinzione!
24
PALEOITALIA
LE ESCURSIONI DEI SOCI PALEONTOFILI
NEL 2005
JORDI ORSO
Dopo il successo delle escursioni paleontologiche dell’anno scorso sono
felice poter constatare che l’interesse dei soci paleontofili all’iniziativa
continua. Devo ammettere che i paleontologi professionisti interpellati a
guidarci non si sono fatto pregare due volte. Così sono riuscita a creare con
loro anche quest’anno un bel calendario di 5 escursioni con una cinquantina
di partecipanti:
20.3. e 7.5.2005, Neogene, Torrente Stirone (Castell’Arquato), Prof. Sergio
Raffi
16.7.2005, Museo di Storia Naturale di Milano, Laboratorio paleontologico e
visita alle collezioni, Dr. Cristiano Dal Sasso
8.10.2005, Paleogene, Bolca, Prof. Andrea Tintori
23.10. 2005, Paleogene, Colli Berici, Dr. Davide Bassi
Per far partecipare tutti i soci alle nostre esperienze e scoperte ho cercato di
descrivere le prime escursioni in un breve resoconto. Così potete leggere qui di
seguito quello che abbiamo imparato con i piedi bagnati nel torrente Stirone,
e cosa ci ha insegnato la visita al Monte Toraro lo scorso ottobre (Per ragioni
di spazio questo articolo non era stato pubblicato nell’edizione precedente).
Abbiamo fatto una visita guidata interessantissima al Museo di Storia
Naturale di Milano, ma al posto di una descrizione troverete un articolo del Dr.
Dal Sasso sull’argomento che più ci toccava: la preparazione e conservazione
di fossili.
Vorrei cogliere l’occasione per ringraziare i prof. Raffi e Tintori e i dott.
Bassi e Dal Sasso con tutto il cuore non solo per la loro straordinaria
disponibilità ed instancabile pazienza, ma anche per il loro importante aiuto
redazionale.
Esplorando il torrente Stirone
guida scientifica: Prof. Sergio Raffi
date: 20/3/2005, 7/5/2005
età geologica: Neogene: Miocene, Pliocene, Pleistocene
località: Castell’Arquato, Parco Nazionale dello Stirone:
1) Ponte di Scipione, 2) San Nicomede
equipaggiamento: stivali di gomma almeno fino al ginocchio
difficoltà: nessuna
partecipanti: 14 (da Torino, Milano, Genova, Ragusa, Piacenza, Parma e Firenze)
La prima escursione paleontologica del 2005 per i soci SPI è
stata programmata per il 20 marzo,
e il 7 maggio abbiamo fatto il bis.
PALEOITALIA
Come punto d’incontro avevamo
scelto il parcheggio lungo l’Arda a
Castell’Arquato (PZ). L’argomento:
sedimenti e fossili del Pliocene con
speciale riferimento al tema del
“Lago-Mare”, i cui sedimenti nel
Mediterraneo costituiscono il tetto
del Miocene. Il programma prevede
uno stop al ponte Scipione, distante
un paio di chilometri da Castell’Arquato, e poi l’esplorazione
verso valle del torrente Stirone. Ci
guida il prof. Sergio Raffi che l’anno
scorso ci ha fatto conoscere
l’emozione dei calanchi del Monte
Giogo, sempre nei pressi di
Castell’Arquato.
Partiamo per il ponte Scipione e
scendiamo sulla riva. Con la
coloratissima carta geologica in
mano Sergio ci introduce brevemente all’orogenesi degli Appennini e all’evoluzione del Golfo
Padano. Grazie alla successione
degli strati incisi dal torrente Stirone
che immerge verso Nord Est è
possibile seguire in dettaglio, strato
per strato, l’evoluzione geologica e
paleoclimatica del Bacino da golfo
dell’Adriatico ad attuale pianura
alluvionale padana. Sotto il ponte
Scipione, dove inizia l’escursione,
affiora la base della successione
lacustre Messiniana, costituita
localmente da banchi di conglomerati. Al di sopra si succedono
alternanze di livelli sabbiosi e limosi.
Negli appunti distribuitoci da Sergio
sono raffigurate alcune specie di
ostracodi, i microfossili che sono
stati utilizzati dagli autori per
interpretare come fluvio-lacustri tali
sedimenti. Chi non è familiare con
la storia geologica del Mediterraneo
si meraviglierà delle testimonianze
25
di un passato lacustre del Mare
Nostrum. Ma Sergio ci spiega il
fenomeno della crisi di salinità
mediterranea, le sue cause ed i suoi
effetti sia a livello locale che globale
e ci illustra brevemente le fasi
principali dell’evoluzione del
Miocene superiore (Messiniano) del
Mediterraneo partendo dall’evidenza geologica: ad una fase ancora
francamente marina, ma con indizi
progres-sivamente più evidenti di
variazioni climatico-oceanografiche,
segue la precipitazione delle
cosiddette evaporiti (gessi, salgemma, ecc) che documentano la
“crisi di salinità”. Al di sopra della
suc-cessione evaporitica, talora di
grande spessore, seguono le successioni di Lago-Mare estese a tutto
il Mediterraneo, qui ben rappresentate dalla base della sezione neoautoctona del torrente Stirone.
Cos’era successo 7 milioni di
anni fa? Appare evidente che grazie
all’interazione di fattori tettonici, che
portarono alla chiusura delle vie di
comunicazioni mioceniche con
l’Atlantico (lo Stretto Subbetico e
quello Subrifano) e grazie al clima
Ponte Scipione, il punto di partenza
dell’escursione
26
PALEOITALIA
Panoramica del tratto Messiniano del torrente Stirone.
decisamente arido il mare subì un
lungo periodo di forte evaporazione
che lo portò quasi al prosciugamento. I grandi giacimenti di
gesso e zolfo nell’area mediterranea
ne sono testimoni. E’ molto
probabile che l’instaurarsi di una
successiva situazione di “LagoMare” estesa a tutto il Paleomediterraneo sia dovuta oltre che ad
un completo isolamento dall’Atlantico, ad un aumento delle precipitazioni e/o ad un flusso di acqua
da oriente (dalla Paratetide).
Il problema della “crisi di
salinità” del Mediterraneo è ancora
oggetto di un acceso dibattito, sia
per quanto riguarda le sue cause
che il contesto ambientale della
precipitazione dei sali marini e
glacio-eustatici che controllavano
ciclicamente l’afflusso di acqua nel
mediterraneo.
Da un punto di vista biologico
Sergio ci spiega che la crisi di salinità
è la diretta responsabile della
scomparsa della fauna marina del
Paleomediterraneo. Rimane però il
fatto che con il ripristino delle
condizioni marine, che definisce
storicamente la base del Pliocene
(Zancleano), gran parte di questa
fauna ricompare nel Mediterraneo.
L’ipotesi più probabile è che questa
fauna sia sopravvissuta nei
“santuari” atlantici limitrofi al
Mediterraneo e non interessati alla
crisi di salinità.
Seguendo per 50 m il torrente
Sergio ci mostra il limite Miocene/
PALEOITALIA
Pliocene (M/P) caratterizzato
localmente da una netta discordanza
angolare. Gli strati Pliocenici fin
dalla loro base sono caratterizzati da
fossili di ambiente marino (foraminiferi, ostracodi, molluschi) di
ambiente batiale. In un intervallo di
pochi cm si passa dunque da un
ambiente fluvio-lacustre ad un
ambiente marino profondo,
probabilmente intorno ai 300-400 m.
Ci rendiamo conto di stare di fronte
alla testimonianza di avvenimenti
stravolgenti, e tutto d’un tratto
l’affioramento che a prima vista non
ci era sembrato tanto spettacolare
assume tutt’altro carattere.
Guardandolo ci sembra di sentire il
rombo delle acque marine, mentre
all’inizio dello Zancleano ritornarono
a riprendere possesso della loro
vecchia sede.
Torniamo alle macchine per
affrontare il torrente più a valle.
Muniti di stivali di gomma
scendiamo nell’acqua che qui è
abbastanza alta. Bisogna camminare strusciando, alzando i piedi
il meno possibile, pena un freddo
pediluvio in piena regola. Nel
prossimo affioramento Sergio ci fa
notare un’intercalazione clastica
nella successione pelitica caratterizzata dalla dominanza di
Lucinidae (bivalvi). Si ritiene che
questa formazione calcare sia
precipitata come sottoprodotto dei
processi metabolici di colonie di
batteri chemiotrofici che utilizzavano emanazioni di acido
solfidrico e metano che probabilmente venivano a giorno
tramite un sistema di piccole faglie.
I lucinidi che vivono in simbiosi con
questi batteri costituiscono “un
27
segnale” molto facile da cogliere di
questo particolare fenomeno. Le
emanazioni gassose fredde, i “cold
seeps” della letteratura, ci
richiamano alla mente le sorgenti
idrotermali sottomarine e le teorie
sull’origine dei primi esseri viventi.
I dati micropaleontologici
suggeriscono che al di sopra di
questi livelli clastici la sezione sia già
pienamente ascrivibile ad un
Piacenziano medio. Ai livelli del
chemioherma a lucinidi seguono
strati di pelite omogenea a cui presto
si alternano livelli più chiari, molto
“leggeri”, e fittamente stratificati,
interpretabili come sapropels. La
fitta stratificazione indica che non
sono stati popolati da organismi
bentonici che con le loro attività li
avrebbero “omogeneizzati”. I dati a
disposizione, ed in particolare il fatto
che questi livelli, costituiti
prevalentemente da diatomee, siano
molto ricchi di sostanze organiche,
suggeriscono che la mancanza di
bioturbazione sia dovuta alla
mancanza di ossigeno. Il ritrovamento di pesci fossili (non da noi,
s’intende) nei livelli diatomitici
costituisce un ulteriore prova di
Il limite Miocene/Pliocene al torrente
Stirone.
28
PALEOITALIA
questa interpretazione. I sapropels
ci danno l’occasione di discussione
sulla relazione tra clima e cicli
astronomici. Le cause ed il contesto
deposizionale dei sapropels nel
Mediterraneo durante il Pliocene è
ancora oggetto di dibattito. La loro
formazione implica un consumo di
ossigeno sul fondo ed un mancato
ripristino imputabile al mancato
“rifornimento” di acqua dello strato
fotico ricca di ossigeno. Questo
scenario è evidentemente controllato dall’andamento ciclico del
clima con particolare riferimento alle
precipitazioni ed all’apporto fluviale.
Riprendiamo a scendere verso
livelli sempre più recenti. Nello stop
successivo Sergio ci indica alcuni
buoni esempi di “debris flow”, flussi
Alcuni partecipanti ...con i piedi a mollo..
gravitativi di detriti, in questo caso
organogeni (alghe calcaree, briozoi,
coralli e molluschi). Alternati ai
“debris flows” troviamo livelli
dominati da associazioni oligotipiche
a Corbula gibba, caratteristiche di
situazioni ad elevata torbidità. Sergio
ci spiega brevemente la fisiologia
della specie adattata a ”trattare”
grandi quantità di particelle in
sospensione senza incorrere nel
pericolo di intasamento delle
branchie.
Bisogna nuovamente attraversare il torrente e allora la cosa si
complica. I miei stivali di gomma mi
arrivano fino al ginocchio, ma qui
l’acqua è più alta e non basta più
strusciare i piedi. Con invidia guardo
i “pantastivaloni” da pescatore degli
PALEOITALIA
altri, quando uno dei partecipanti,
Stefano, senza tanti complimenti mi
carica sulle spalle e mi trasporta
sana e salva sull’altra sponda.
Wow! Non lontano scopriamo uno
spettacolare icnofossile, probabilmente la tana di un grande artropode
che ricalca esattamente la forma
dell’animale.
Nei depositi fluviali vicino alla
riva notiamo un grosso sasso verde.
Che ci fa una pietra di serpentino
tutta sola nel torrente Stirone? Ed
ecco un’altro esempio del potere
informativo straordinario di un
semplice, si fa per dire, corso
d’acqua: Sergio ci ricorda che a
monte esistono affioramenti di
ofioliti di cui i serpentini fanno parte.
Queste rocce antichissime originarie del mantello superiore
costituivano la crosta oceanica, e
anche le lave eruttate dai vulcani
submarini dell’antico “Oceano
Ligure Piemontese”. Alla fine della
loro lunga storia geologica queste
rocce furono trasportate dalle forze
orogenetiche a costituire il crinale
dell’Appennino
dell’Emilia
Occidentale e qui furono erose e
trasportate dai corsi d’acqua, di
nuovo, verso il mare.
Ma ora è tempo di picnic e ci
portiamo con le macchine a San
Nicomede, dove nelle vicinanze del
cimitero esiste in riva al torrente
un’area attrezzata a questo scopo.
Mentre pranziamo vediamo due
guardie ecologiche attraversare
l’area e, chiacchierando con loro, ci
rendiamo conto che il Parco
Regionale dello Stirone è ben
sorvegliato. Qui non solo i fossili
stanno al sicuro, ma anche il
Gruccione (Merops apiaster) dal
29
Le tracce fossili non sono rare nei depositi
lungo lo Stirone.
piumaggio cangiante, che nidifica
nelle sabbie Pleistoceniche delle
scarpate del torrente. Proprio per
proteggere questa specie dalla
primavera fino alla tarda estate, per
un lungo tratto, viene vietato (e
impedito) l’accesso al Torrente.
Finito il frugale pasto riprendiamo l’escursione. Da qui si
accede al torrente comodamente,
mentre prima raggiungerlo era stato
piuttosto avventurosa per via della
vegetazione fitta, fitta. Il posto del
picnic si trova proprio di fronte ad
un piccolo promontorio che con la
sua punta alzata ricorda la prua di
una nave che solca l’oceano. Si nota
molto bene la discordanza angolare
tra il banco sommitale e gli strati
sottostanti. Ci troviamo al limite
locale del Plio-Pleistocene che si
basa sulla prima comparsa del
famoso ospite boreale Arctica
islandica, peraltro ben visibile, ma
(fortunatamente) irragiungibile, nei
sedimenti della sponda opposta.
Colpisce, anche se è un dato ormai
risaputo, che questa specie che oggi
domina le associazioni del Mare del
Nord (!), all’inizio del Pleistocene
abbia esteso la sua distribuzione al
30
PALEOITALIA
Mediterraneo. La successione in cui
è localizzato il limite Plio-Pleistocene
è letteralmente costituita da fossili
ed in particolare da detriti di alghe
calcaree, briozoi e molluschi.
Affiorano qua e là bellissimi
esemplari di Lutraria sp. Pecten
jacobaeus, Glycymeris inflatus,
Glycymeris glycymeris, ecc, talora
in posizione di vita. Osserviamo che
la grande maggioranza delle specie
che troviamo sono ancora viventi.
In effetti è ben noto che le specie di
affinità tropicale sono già scomparse
durante il Pliocene.
Per raggiungere “l’ultima
spiaggia” dobbiamo risalire il
versante divenuto sempre più alto e
ripido. Il suolo è bagnato e non solo
ci fa scivolare continuamente, ma
gli stivali vi sprofondano e si riesce
solo con fatica a liberali dal morso
tenace dell’argilla. Camminando
lungo la riva nel tratto pleistocenico
Sergio ci illustra dall’alto la
situazione paleoecologica caratterizzata dall’alternanza di livelli
fossiliferi circalitorali con quelli
infralitorali. In altre parole, durante
quel periodo ci sono stati continui
cambiamenti eustatici, infatti prima
Arctica islandica.
si nota la tendenza verso un ritiro
progressivo del mare e i livelli
lacustri a Dreissenia, Melanopsis
e Neritina lo confermano. Ma ecco
che il mare avanza di nuovo e si
entra in un ambiente lagunare
ipoalino a cui seguono ancora livelli
marini di ambiente infralitorale
caratterizzati da Chamelea gallina
e Glycymeris insubrica. Il mare si
ritira ancora e di nuovo si ripresenta
un ambiente lagunare. Scendiamo
nella “laguna”. Il versante anche qui
è coperto da una vera giungla e ci
vorrebbe un macete per raggiungere
il torrente, ma ce la facciamo lo
stesso, grazie all’impeto di uno dei
nostri amici. La laguna rivela una
limitata biodiversità, cioè poche
specie, ma molti individui, un
fenomeno tipico di ambienti instabili.
Ma attenzione! Una nuova trasgressione ci riporta in un ambiente
infralitorale caratterizzato dalle
stesse specie che si ritrovano
nell’Adriatico. Ed ecco, finalmente,
comparire “l’ultima spiaggia”! Era
ora. Stefano, eroicamente, mi da un
altro passaggio per raggiungere un
isolotto di ghiaia in mezzo al torrente
per vedere meglio i depositi
continentali fluvio-lacustri al di sopra
delle sabbie marine. Il mare ormai
si è ritirato definitivamente.
Questo tratto caratterizzato
dall’alternanza di depositi lagunari
e infralitorali non è difficile da
interpretare. Infatti è sufficiente
conoscere pochissime specie per
dare una spiegazione corretta degli
ambienti. La bassissima diversità
specifica dei macrofossili, rappresentati quasi esclusivamente da
Cerastoderma glaucum, Cerithium sp. e Venerupis senescens e
PALEOITALIA
nel contempo il numero enorme
degli esemplari ci permette di fare
un preciso riferimento ad un
ambiente lagunare ipoalino. Invece
l’aumento seppure limitato della
diversità specifica e la presenza di
specie anche attualmente molto
comuni come Spisula subtruncata, Mactra corallina, Glycymeris insubrica, Chamelea
gallina, Donax trunculus, ecc.
consentono facilmente di ricono-
31
scere ambienti del tutto simili alle
spiagge attuali dell’Adriatico.
Siamo intorno al milione di anni.
Abbiamo percorso un arco di tempo
notevole, quasi 6 milioni di anni, dal
Messiniano al Pleistocene Inferiore,
e a qualcuno fanno male i piedi. E’
ora di ritornare a casa. Prima di
salutarci ci fermiamo ad un bar per
ripassare brevemente le emozioni
del nostro tuffo geologico nel Mare
Mediterraneo.
Laboratori di campagna di Stratigrafia e
Paleontologia
guida scientifica: Dr. Davide Bassi, Università di Ferrara
data: 17.10.2004
età geologica: Giurassico Inferiore
località: Tonezza del Cimone (VI), Monte Toraro
equipaggiamento: da media montagna
difficoltà: nessuna
partecipanti: 11 (Milano, Bergamo, Verona, Vicenza, Ancona)
Dopo giorni di pioggia ecco
finalmente tutte le nostre preghiere
esaudite: una domenica di sole! Un
vero dono degli dei, vista la
propensione al brutto tempo di
quest’autunno 2004. L’appuntamento con un bel gruppetto di undici
paleontofili per l’ultima escursione
di quell’anno era stato fissato per le
ore 9.30 davanti alla piazzetta della
chiesa di Tonezza del Cimone
(Vicenza).
Lasciando il paese alle nostre
spalle ci siamo portati a circa 2.000
m di altezza passando prima per la
Strada dei Fiorentini e raggiungendo
poi il Monte Toraro. Ci attendeva
un panorama mozzafiato. Le
precipitazioni dei giorni scorsi
avevano steso una coltre bianca su
tutte le cime circostanti. Anche
lungo il nostro sentiero, un leggero
velo bianco era rimasto sul pendio
esposto a nord. Sotto, a perdita
d’occhio, si stendevano gli altipiani
di Asiago e di Folgaria ed in
lontananza le cime del Pasubio
innevate. Che spettacolo!
Dopo un breve e facile percorso
a piedi ci siamo fermati per una
prima osservazione sul campo. Tra
le rocce, i pini mughi indicavano un
32
PALEOITALIA
I partecipanti
all’escursione.
ambiente calcareo, e c’era ancora
qualche coraggiosa genzianella dal
colore viola chiaro. Ovviamente
l’attenzione di tutti era concentrata
su quelle rocce promettenti, cariche
di fossili. Grande fu la sorpresa
quando il dott. Davide Bassi, la
nostra guida, invece di spiegare
subito il loro contenuto ci chiese a
bruciapelo, indicando la sequenza di
rocce davanti a noi, come avremmo
definito uno “strato”! Ora, lo
sappiamo tutti che cos’è uno strato,
ci mancherebbe altro! Tuttavia,
definirlo nel modo corretto non era
poi così facile. Ognuno cercò di
darne una definizione e quindi
uscirono altri termini: orizzonte,
lamina, formazione, banco,
bancone. E poi tutti a cercare le
parole adatte per descrivere anche
una successione stratigrafica; c’era
chi parlava di successioni di strati,
chi invece di membri e qualcuno tirò
fuori la formazione, e l’orizzonte?
Dove mettiamo l’orizzonte? Lezione
di geologia interattiva, che spasso!
È proprio questo che manca
all’autodidatta – e la maggior parte
dei paleontofili sembra che lo siano
– il dialogo con un esperto, con uno
che ti costringe a strutturare quello
che hai appreso strada facendo, uno
che esige delle risposte concrete e
definizioni esatte. Eravamo
entusiasti della nostra collaborazione
alla “lezione”. Ma i fossili erano
sempre lì che ci aspettavano.
Il dott. Bassi ci fece osservare
come le superfici degli strati non
erano piane, ma piuttosto ondulate,
con bozzi grossi come un pugno.
Provenienti da questi strati si erano
staccate dei blocchi che, sparse al
lato del sentiero, mostravano sulla
loro superficie delle grosse
protuberanze, dei tunnel fossilizzati,
evidenti tracce di organismi
scavatori: le icniti!
Che cosa ci raccontano questi
fossili? Ecco aprirsi un’altra finestra
didattica. Certamente, i fossili non
hanno il dono della parola, ma
mettendo insieme dei dati, per
PALEOITALIA
esempio la loro disposizione, il tipo
di sedimento in cui si trovano
inglobati, la loro morfologia, lo stato
di conservazione, le associazioni di
cui fanno parte, si possono trarre
delle conclusioni sull’ambiente in cui
vivevano e anche sulle loro strategie
di vita.
In uno degli strati che
costituivano l’affioramento si
potevano notare delle sottili fasce
più scure, lunghe circa 15 cm e
luccicanti per il loro contenuto di
calcite. Dai caratteri geometrici di
queste “fasce” abbiamo dedotto che
si trattava di organismi e non di
strutture sedimentarie. Osservandoli
meglio abbiamo scoperto che molti
sembravano accoppiati, una
“fascia” leggermente concava e
l’altra convessa che si congiungevano alle estremità… e la nostra
conclusione? Qui avevamo a che
fare con dei bivalvi, grossi come una
mano! Erano visibili solamente le
loro sezioni trasversali, ma ce
n’erano tanti, strato sopra strato, un
vero cimitero: un’altra indicazione
sull’ambiente di deposizione, dato
che le conchiglie erano ancora in
connessione fisiologica. Nel
frattempo posavamo per una foto
ricordo.
Dopo l’emozionante banco a
grossi bivalvi ci aspettava un’altra
scoperta didattica. Avevamo già
notato in alcuni strati delle sequenze
di due o tre fascette orizzontali di
fossili molto abbondanti e molto
concentrati, mentre il resto dello
stesso strato ne era praticamente
privo. Un accumulo così denso
doveva avere un’origine repentina.
Si trattava, infatti, di accumuli
conchigliari dovuto ad una
33
Gli strati bioturbati.
tempesta! Il confronto fra le varie
litologie presenti nell’affioramento
ha permesso poi di avere un quadro
generale della classificazione delle
rocce carbonatiche. Gli argomenti
trattati stimolarono poi un’ampia
discussione sulle caratteristiche di
vari ambienti deposizionali e da qui
abbiamo avuto l’opportunità di
conoscere il principio di Walther che
risale al 1894!
Avevamo raccolto moltissime
informazioni e si era fatto tardi. Lo
stomaco reclamava la nostra
attenzione. Così, dopo un ultimo
sguardo carezzevole al panorama e
ai fossili lasciammo il sentiero,
scendendo non solo geograficamente, ma anche nel tempo. Il
concetto di “spazio-tempo”, forse
più familiare nel campo astronomico,
è particolarmente presente nei
fossili. In loro la quarta dimensione,
il tempo, diventa concreta, specie
quando si trovano ancora nell’originaria successione stratigrafica
invece che in una bella vetrina al
museo.
A proposito, qui ci troviamo nel
Giurassico Inferiore, che corrisponde più o meno a 200 milioni di
34
PALEOITALIA
I banchi con abbondanti accumuli
conchigliari.
anni fa. Litostratigraficamente
parlando stavamo osservando i
fossili della Formazione Rotzo che
fa parte del Gruppo dei Calcari
Grigi… con l’occasione ci siamo
rinfrescati alcune nozioni di
stratigrafia.
Alla fine ci siamo diretti con le
automobili verso il rifugio Malga
Valbona, dove ci aspettavano
polenta, funghi e canederli in brodo,
tutto buono, cibo, vino, il caldo della
stufa e, come dessert, la gioia delle
nostre scoperte! E qui il dott. Bassi,
riassumendo le nostre informazioni
raccolte sul campo, ci spiegò vita,
morte e… “miracoli” dei fossili
trovati a quota 2.000 m. Così
abbiamo saputo che i grossi bivalvi
si chiamano Lithiotis problema-
tica, Cochlearites loppianus e
Lithoperna scutata. Si tratta di
bivalvi gregari, dato che vivono a
stretto contatto fisico, guscio a
guscio, formando così delle vere
colonie alte fino ai 3-4 metri e
larghe qualche centinaio di metri. I
dati paleoecologici suggeriscono
una vita in ambiente lagunare, dal
moto ondoso non troppo
movimentato, infossati quasi
interamente nel sedimento un po’
fangoso. Come dimensione i
Lithiotis sono davvero eccezionali
con i loro 30-40 cm di lunghezza.
Siamo rimasti talmente contenti
della “lezione” che abbiamo chiesto
al dott. Bassi di poter fare il bis
l’ottobre prossimo, questa volta nei
Colli Berici.
PALEOITALIA
RESOCONTI DI CONVEGNI
35
Ferrara, 30 agosto - 3 settembre 2005
INTERNATIONAL FOSSIL ALGAE ASSOCIATION
5th REGIONAL SYMPOSIUM
DAVIDE BASSI
Il Simposio Regionale dell’Associazione Internazionale di Alghe Fossili
(IFAA) tenutosi a Ferrara il 30 e 31 Agosto ha ospitato numerosi ricercatori
sia di università italiane che straniere (Spagna, Germania, Francia, Norvegia,
Slovenia, Croazia, Romania, Israele, Cina, Stati Uniti). Alle sessioni
scientifiche hanno fatto seguito tre giorni di escursioni in
campagna (Colli Berici, Monti Lessini, Val d’Adige, Carso triestino e
sloveno). I prossimi appuntamenti dell’IFAA saranno il Congresso
Internazionale a Zagabria (2007) ed il Simposio Regionale a Milano
(Università di Milano Bicocca, 2009). Si ringraziano l’Università degli Studi
di Ferrara, la ditta Montura/Tasci di Rovereto (TN) e l’Amministrazione
Provinciale di Ferrara per aver contribuito alla realizzazione del Simposio.
I partecipanti al Simposio di Ferrara (Dipartimento delle Risorse Naturali e Culturali).
PALEOITALIA
36
Dottorato di Ricerca in Paleontologia
(Consorzio Modena – Bologna – Roma)
II ciclo nuova serie (XVI ciclo)
TESI DI DOTTORATO
L’ATTIVITÀ MICROBICA IN ROCCE
CARBONATICHE PRODOTTE IN ECOSISTEMI
CHEMIOSINTETICI: DOCUMENTAZIONE
FOSSILE E POTENZIALE DI PRESERVAZIONE
BARBARA CAVALAZZI
Supervisore: Prof. R. Barbieri
Questo studio è stato intrapreso
al fine di valutare il ruolo giocato
dalla attività microbica chemiosintetica (chemiosintesi=processo di
ossidazione chimica che fornisce
energia alla biosintesi) nella genesi
di corpi carbonatici generati in aree
di vent idrotermali e cold seep,
ovvero in aree caratterizzate dalla
fuoriuscita di fluidi ricchi di solfati e
solfuri, CO, CO2 e idrocarburi. È
oramai noto che i vent idrotermali e
i seep di idrocarburi si sviluppano in
differenti contesti geotettonici e
determinano la formazione di
particolari interfacce geochimiche e
biologiche (Peckmann e Thiel,
2004). Le aree caratterizzate dal
venting/seepage di idrocarburi,
tipicamente irregolari e intermittenti,
sono attualmente dominate e
contraddistinte da lussureggianti
chemio-ecosistemi composti da
comunità di batteri con metabolismo
chemiosintetico (=processo di
ossidazione chimica che fornisce
energia alla biosintesi) e ricche
megafaune di invertebrati zolfo
(H2S-, SO4=)-tolleranti e chemio-
simbionti. Generalmente, questi
batteri ossidano i fluidi rilasciati e
determinano un generale incremento
di alcalinità (pH), la cui conseguenza
diretta è la formazione di precipitati
autigeni, ovvero la formazione di
rocce e minerali biologicamente
indotti. Si tratta principalmente di
depositi silicatici ricchi in solfuri/
solfati/metalli in aree di vent
idrotermali e accumuli massivi di
carbonati (metano-derivati) in aree
di cold seep. I processi microbici
che predominano nei sedimenti
(anossici) ricchi di metano sono
l’ossidazione anaerobica del metano
(OAM) e la riduzione dei solfati
(RS) (Orphan et al., 2002). Inoltre,
il 13 C derivato dall’OAM dei
processi microbici e dall’ossidazione
del CO 2 viene fissato nei Cacarbonati autigeni durante la loro
precipitazione, conferendo ai
carbonati prodotti il segnale
geochimico tipicamente negativo.
Il riconoscimento di tali
peculiarità, ma non solo, permette
l’individuazione di queste
manifestazioni a carattere effimero
PALEOITALIA
nel record attuale e fornisco
importanti chiavi di lettura per quello
fossile. Oggi sono noti per il
Cenozoico molti depositi da paleoseep, mentre le informazioni circa
quelli del Mesozoico e del
Paleozoico sono, soprattutto per
quest’ultimo, estremamente frammentarie. E se molti studi sono stati
condotti nel tentativo di valutare gli
elementi diagnostici utili nel
riconoscimento delle aree di paleovent/seep (Cavagna et al., 1999;
Campbell et al., 2002; Peckmann &
Thiel, 2004), pochi sono gli studi
finalizzati a comprendere e, quindi,
documentare cosa dell’intensa
37
attività microbica chemiosintetica,
che caratterizza queste aree, può
essere fossilizzato; infatti, sono noti
in letteratura relativamente pochi
esempi di fossili microbici in aree di
venting/seepage. Il potenziale di
fossilizzazione delle comunità
microbiche chemiosintetiche deriva
dalla possibilità di costruire corpi
geologici in gran parte (anche se non
esclusivamente) costituiti da
carbonati autigeni (auto-micrite).
Questi depositi carbonatici, oltre a
preservare i resti degli invertebrati,
possono contenere molti elementi
testimonianti l’intensa attività
microbica che si osserva negli
Fig. 1 - Localizzazione geografica dei paleo-seep da cui provengono i campioni studiati.
(1) Paleo-seep del torrente Stirone (Pliocene, Appennino emiliano). (2) Paleo-seep di
Pietralunga (Miocene, Appenino romagnolo). (3) Paleo-seep di Roccapalumba (Miocene,
Sicilia occidentale). (4) Paleo-vent e -seep della Catena dello Hamar Laghdad, Kess kess
mound (Devoniano, Anti Atlante, Marocco orientale). (5) Paleo-seep di El Borj (Siluriano,
Medio Atlante, Marocco centrale).
38
PALEOITALIA
analoghi attuali. Proprio queste
testimonianze (fossili morfologici e
segnale geochimico) hanno
costituito il principale oggetto della
presente ricerca. A tale scopo è
stato intrapreso uno studio multidisciplinare che coinvolge, di fatto,
settori specifici di discipline come
la micropalentologia microbica, la
geochimica isotopica e la geomicrobiologia.
I carbonati qui studiati sono stati
campionati in successive campagne
geologico-paleontologiche condotte
durante il 2002 e 2004 in differenti
località geografiche dell’Italia e del
Marocco (figura 1), e appartengono
a differenti contesti geologici di età
molto differenti (Neogene, Paleozoico).
I materiali studiati hanno
permesso di ottenere informazioni di
attività microbica chemiosintetica
fossile per un intervallo di tempo
ampio (del Neogene e del Paleozoico) e soprattutto documentare
paleo-seep fra i più antichi
attualmente conosciuti. I metodi di
indagine adottati in questa ricerca
hanno previsto l’utilizzo di tecniche
diversificate riguardo sia il
trattamento dei materiali (sezioni
sottili paleontologico/petrografiche,
attacchi con HCl, sezioni lucide,
microcarote e polveri), sia le
modalità di osservazione (stereomicroscopi, microscopi ottici
polarizzatori, microscopi elettronici
a scansione dotati di rivelatori di
elettroni secondari, di elettroni
retrodiffusi e per microanalisi;
diffrattometro a raggi-X, spettrometro di massa).
Lo studio delle caratteristiche
sedimentologiche, mineralogicopetrografiche, macro- e micro-
Fig.2 - Gli spettacolari Kess kess mound della Catena dello Hamar Laghdad (Devoniano,
Anti Atlante, Marocco orientale).
PALEOITALIA
39
- resti cellulari e biofilm fossilizzati:
batteri filamentosi fossili (fig. 4),
filamenti organici e biofilm
fossilizzati (fig. 5),
- minerali biologicamente indotti o
autigeni: micrite cripto-cristallina,
pirite neomorfica, barite euedrale,
dolomite sferoidale e romboedrica,
micro-dolomite.
Fig.3 - Fotografia al microscopio ottico
polarizzatore di micro-fabric clotted (cc)
osservato in sezione sottile, carbonato
autogeno del paleo-seep di Roccapalumba,
Miocene inferiore, Sicilia occidentale. Scala
di riferimento = 200μm.
paleontologiche e geochimiche dei
carbonati dei palei-seep investigati
ha permesso di descrivere molte
potenziali testimonianze di attività
microbica fossile (fig. 3, 4, 5). Le
osservazioni condotte alla scala
sub-microscopica del segnale
geochimico associate a quelle
condotte alla scala micro- e
mesoscopica dei fabric biosedimentari e (bio-)marker morfologici hanno permesso di individuare
(tab. I):
- fabric sedimentari microbicamente mediati: fabric clotted (fig.
3), tuft e microtuft, euendoliti, orli
di corrosione/dissoluzione dei
carbonati, splay aragonitici,
botroidi di calcite e aragonite;
- fabric stromatolitici microbicamente indotti: fabric stromatolitici
e microstromatoliti e laminati;
(tappeti di) microfossili
filamentosi;
La biogenicità (Schopf, 1999;
Knoll, 1999) di strutture e nanostrutture descritte in questo studio
come fossili microbici è stata
sostenuta sulla base del confronto
morfologico con analoghi sia attuali
sia fossili, nonché sulla loro
composizione chimica (carboniosa),
per la loro frequenza nella roccia,
in qualità di membri di un
ecosistema, e per mostrare un tipo
di degradazione tafonomica
compatibile con i processi di
preservazione osservata. E sebbene
sia difficile stabilire una relazione
Fig. 4 - Fotografia al microscopio ottico
polarizzatore in sezione sottile di strutture
filamentose fossilizzate immerse in micrite
autogena. Scala di riferimento = 10μm.
40
PALEOITALIA
Fig. 5 - Fotografia al microscopio elettronico a scansione di strutture alveolari
tridimensionali osservate nella calcite gialla che occlude il sistema di cavità dei carbonati
autigeni del paleo-seep del torrente Stirone, Pliocene, Appennino emiliano. Si noti la
regolare architettura della struttura alveolare prodotta dalla fossilizzazione di biofilm.
diretta
fra
caratteristiche
metaboliche e morfologia di fossili
microbici senza ricorrere ai
biomarker molecolari, è stato
possibile ricavare alcune informazioni circa il comportamento
metabolico dei microfossili
riconosciuti sulla base di alcune
informazioni legate ai processi
tafonomici e di fossilizzazione,
nonché al segnale geochimico
(legato al frazionamento biologico)
e alle informazioni geomicrobiologiche ricavate e, ovviamente, al
contesto geologico più in generale.
Se alcune delle evidenze di
attività microbica qui descritte sono
state riconosciute sulla base del
confronto morfologico con analoghi
sia attuali sia fossili, come ad
esempio i fabric clotted (fig. 3) e
le micro-stromatoliti e filamenti
microbici fossili (fig. 4) dei mound
Devoniani della Catena dello Hamar
Laghdad, altre sono state interpretate qui per la prima volta come
il prodotto dell’attività microbica
chemiosintetica, come ad esempio i
biofilm tridimensionali del paleoseep del torrente Stirone (figura 4)
e del paleo-seep di El Borj, o i
cristalli di dolomite romboedrica dei
mound Devoniani della Catena dello
Hamar Laghdad.
PALEOITALIA
Gli ambienti di fuoriuscita di fluidi
ricchi di metano (vent/seep)
mostrano un elevato potenziale di
fossilizzazione legato principalmente
all’intensa attività microbica
(ossidazione aerobica e anaerobica
del metano, riduzione dei solfati e
ossidazione dei solfuri) e alla
conseguente diagenesi precoce del
41
(micro-)ambiente in cui proliferano,
ovvero si verifica un rapporto
elevato fra biomassa (non solo
microbica) e velocità di seppellimento (carbonati autigeni).
Inoltre, la disponibilità di ioni/cationi
strettamente legata alle caratteristiche chimico-fisiche stesse dei
chemio-ecosistemi microbici ali-
Tab. 1 - Tabella riassuntiva delle evidenze (dirette e indirette) di attività microbica
chemiosintetica fossile nei carbonati metano-derivati studiati.
42
PALEOITALIA
mentati da fluidi ricchi di metano
probabilmente favorisce i processi
di fossilizzazione. Infatti, la
possibilità di ritrovare fossilizzati
questi microrganismi (“fossili
morfologici ss.”: membrane e pareti
cellulari, biofilm e modelli interni)
potrebbe essere legata alla capacità
dei microrganismi microbici (batteri)
di complessare e/o fissare ioni/
cationi (a seconda dei casi),
determinando una sua rapida
mineralizzazione e favorendo la
preservazione delle loro complesse
e delicate (ultra-)strutture. Tuttavia,
molte sono le evidenze di attività
microbica fossile osservate e
descritte in questo studio, e solo in
pochi casi sono stati ritrovati
potenziali batteri fossili; la causa va
ricercata probabilmente nel fatto
che la nucleazione dei minerali
(soprattutto carbonati) potrebbe
prendere il suo via proprio dai
microrganismi soprattutto in
relazione alle loro piccole
dimensioni.
Bibliografia
Campbell, K.A., Farmer, J.D., Des Marais,
D., 2002. Ancient hydrocarbon seeps
from the Mesozoic convergent margin
of California: carbonate geochemistry,
fluids and paleoenvironments. Geofluids
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Cavagna, S., Clari, P., Martire, L., 1999.
The role of bacteria in the formation of
cold seep carbonates: geological evidence
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Sedimentary Geology 126, 253-270.
Schopf, 1999. Fossils and pseudofossils:
lessons from the hunt for early life on
Earth. In Size Limits of Very Small
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signature in rock. Discussion summary.
In Size Limits of Very Small
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Orphan, V.J., House, C.H., Hinrichs, K.U., McKeegan, K.D., DeLong, E.F.,
2002. Multiple archaeal groups mediate
methane oxidation in anoxic cold seep
sediments. Proc. Natl. Acad. Sci. 99,
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Peckmann, J., Thiel, V., 2004. Carbon
cycling at ancient methane-seeps.
Chemical Geology 205, 443-467.
PALEOITALIA
43
44
PALEOITALIA
PALEOITALIA
45
Notizie
contribuendo in modo notevole alla sedimentazione italiane
carbonatica d’acqua bassa. L’analisi di facies e la
successiva integrazione con dati paleoecologici hanno
permesso di ricostruire in modo dettagliato il modello paleoambientale delle
successioni dell’Eocene Superiore dei Colli Berici orientali. Le associazioni
bentoniche a macroforaminiferi ed alghe corallinacee si sviluppavano in
una rampa carbonatica mediana soggetta a tempeste. Queste ultime sono
state registrate nella successione studiata da strutture sedimentarie
canalizzate. Il modello paleoambientale suggerisce che i cambiamenti
significativi delle comunità bentoniche erano vincolati, almeno in parte,
dalle correnti di ritorno create dalle tempeste le quali rappresentavano un
ruolo importante sia nel controllare la natura dei fondali che nella
distribuzione delle risorse trofiche.
BASSI, D., 2005, Larger foraminiferal and coralline algal facies in an Upper Eocene storminfluenced, shallow-water carbonate platform (Colli Berici, north-eastern Italy).
Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology, 226 (2005), 17–35 [in inglese].
ASSOCIAZIONI A CORALLI PROMOTORI DI
BIODIVERSITÀ IN AMBIENTI BATIALI PLEISTOCENICI.
Presso Furnari, in Sicilia, affiora una paleoscarpata di faglia che, nel
Pleistocene inferiore, costituì in ambiente batiale (circa 400-500 m) la
superficie primaria per la colonizzazione da parte di “Coralli Bianchi” e
Isididi. Le colonie arborescenti di questi cnidari, sebbene rimanessero
isolate, raggiunsero presumibilmente altezze di diversi decimetri e forse
anche del metro e contribuirono ad incrementare la superficie e a creare
una considerevole differenziazione di microhabitat e nicchie per altri
organismi promuovendo lo sviluppo di un’associazione bentonica ricca e
diversificata. I frammenti dei coralli e i resti scheletrici degli organismi ad
essi associati, inoltre, si accumulavano ai piedi delle colonie e alla base
della scarpata contribuendo alla formazione di sedimento con l’aggiunta di
clasti biodetritici anche grossolani colonizzabili a loro volta da faune assenti
nei fondali fangosi limitrofi situati ad analoghe profondità. Lo studio condotto
sulle associazioni della faglia, dei substrati biodetritici e dei fondi fangosi
contigui ha permesso di ricostruire uno scenario simile a quello delle
biocostruzioni a coralli profondi dell’attuale Nord Atlantico.
DI GERONIMO I., MESSINA C., ROSSO A., SANFILIPPO R., SCIUTO F. & VERTINO A., 2005,
Enhanced biodiversity in the deep: Early Pleistocene coral communities from southern
Italy. In: Freiwald A. & Roberts J.M. (eds.) Deep-water Coral Ecosystems. Springer,
Berlin: 61-86 [in inglese].
46
PALEOITALIA
UN MACACO PLEISTOCENICO IN
ABRUZZO
Notizie
italiane
Nel corso dei lavori di coltivazione di una cava di calcare presso Rapino
(Chieti), nel Parco Nazionale della Maiella, è casualmente venuta alla luce
una piccola grotta denominata “Grotta degli Orsi Volanti” per la sua posizione
sospesa in parete a circa 150 metri di altezza. All’interno e presso quello
che doveva essere l’ingresso originale, sono stati rivenuti resti di una fauna
tardo pleistocenica ed industrie litiche musteriane. Fra gli esemplari fossili
è stata riconosciuta la porzione dorsale di un ramo mandibolare sinistro di
Macaca, con M1eM2, in buono stato di conservazione. Quello di “Grotta
degli Orsi Volanti” è il primo macaco ad oggi rinvenuto in Abruzzo, ed è
anche uno dei reperti più recenti, il più meridionale e orientale degli esemplari
italiani. La fauna associata alla Macaca è rappresentata da Ursus arctos,
U. spelaeus, Panthera leo, Bos primigenius, Cervus elaphus, Dama
dama, Capreolus capreolus, Sus scrofa, Meles meles, Equus
hydruntinus e Stephanorhinus sp. La presenza di E. hydruntinus e
Stephanorhinus insieme a strumenti musteriani suggerisce una
correlazione con gli stadi isotopici 5-3.
MAZZA P., RUSTIONI M., AGOSTINI S., ROSSI A., 2005, An unexpected Late Pleistocene
macaque remain from Grotta degli Orsi Volanti (Rapino, Chieti, central Italy). Geobios,
38, 211–217 [in inglese].
IPPOPOTAMI PLEISTOCENICI EUROPEI
L’individuazione delle specie ancestrali della terraferma da cui hanno avuto
origine gli ippopotami pleistocenici delle isole del Mediterraneo risulta
disturbata dalle incertezze tuttora esistenti circa la parentela esistente tra
Hippopotamus antiquus, diffuso in Europa dal pleistocene Inferiore
all’inizio del Pleistocene Medio e Hippopotamus amphibius, diffuso in
Europa dal Pleistocene Medio al Pleistocene Superiore. Lo studio dei
caratteri morfologici e biometrici del cranio e della mandibola, tuttavia,
sembra indicare H. antiquus come antenato di H. creutzburgi di Creta,
mentre H. amphibius sembra essere l’antenato di H. pentlandi di Sicilia
e Malta, da cui a sua volta discenderebbe H. melitensis di Malta. I caratteri
tipo-amphibius di Phanourios minutus di Cipro non indicano chiaramente
la derivazione, anche per le profonde modificazioni indotte dall’endemismo.
MARRA A. C., 2005. Pleistocene Hippopotamuses of Mediterranean islands: looking for
ancestors – In Alcover, J. A. & Bover, P. (Eds.): Proceedings of the Internation Symposyum
“Insular Vertebrate Evolution: the Palaeontological Approach”. Monographias de la Societat
d’Història Natral de Ils Balears, vol. 12. [in inglese].
PALEOITALIA
FUSULINE RIMANEGGIATE DELLA
SICILIA
47
Notizie
italiane
Diversi generi e specie di fusuline sono state identificate nella Formazione
Lercara affiorante in Sicilia e attribuita con certezza al Trias,. Si tratta di:
Reichelina sp., Schubertella paramelonica, Toriyamaia (?) sp.,
Neofusulinella lantenoisi, Yangchienia compressa, Rauserella staffý,
Darvasites contractus,Chalaroschwagerina (Taiyuanella?) aff.
davalensis, Levenella aff. evoluta, Pamirina darvasica, and
Neoschwagerina ex gr. craticulifera. Dell’asso-ciazione fanno anche
parte alcuni foraminiferi permiani e delle calcisfere, tra cui la specie
Asterosphaera pulchra. Questi microfossili indicano che, nella Formazione
Lercara sono stati rimaneggiati diversi piani del Permiano e forse anche il
Missipiano (Carbonifero inferiore). A causa di questi multipli
rimaneggaimenti, la Sicilia rimane dunque una regione controversa per
fare delle correlazioni biostratigrafiche e paleobiogeografiche, almeno per
quello che riguarda il Permiano.
CARCIONE L., D. VACHARD D., MARTINI R., ZANINETTI L., ABATE B., LO CICERO G., MONTANARI
L., 2004, Reworking of fusulinids and calcisphaerids in the Lercara Formation (Sicily,
Italy); geological implications.Compte Rendu Palevol, 3, 361-368 [in inglese].
PALEOITALIA
48
Paleo news
a cura di Paolo Serventi
[email protected]
LA “RESURREZIONE”
DELL’ORSO DELLE
CAVERNE (?)
Grazie al lavoro congiunto del
Lawrence Berkeley National
Laboratory e del Joint Genome
Institute (Stati Uniti), dell’Istituto
Max Planck di Antropologia
evolutiva (Germania) e dell’Università di Vienna (Austria), che
hanno lavorato sui resti, rinvenuti in
due caverne in Austria, è stata
ottenuta la mappa del DNA
dell’orso delle caverne. Infatti dallo
studio del patrimonio genetico
dell’orso, ricavato dalle analisi, sono
stati isolati 21 geni che sono stati
confrontati con altrettanti geni
appartenenti al cane (orso e cane
condividono il 92% del loro
patrimonio genetico). Giustificato
l’entusiasmo dei ricercatori per il
risultato ottenuto per la prima volta,
sapendo che il DNA comincia a
degradarsi immediatamente dopo la
morte dell’organismo, sottoposto
“Ma non potevamo clonare un topolino?!?”
agli “attacchi” dei microrganismi e
dell’ambiente esterno. Secondo gli
scienziati il limite massimo cui si può
risalire con questa analisi è di
100.000 anni e pertanto non è
possibile ricostruire il DNA dei
dinosauri. Pensano invece che
potrebbe essere realistico ottenere
la mappa genetica di lontani parenti
dell’uomo, come Homo neanderthaliensis.
La notizia è stata pubblicata il 2 giugno
nell’edizione on line della rivista Science.
IL PIÙ VECCHIO CONIGLIO
CONOSCIUTO
È stato trovato il “bis- bisbisnonno” di Bugs Bunny! Lo
scheletro pressoché intatto di un
coniglio, completo di cranio con i
lunghi denti frontali, le zampe
anteriori corte e quelle posteriori
lunghe, è stato trovato in Mongolia.
Questo fossile, chiamato Gomphos
elkema, rinvenuto da Guillermo
Rougier, con i colleghi della Scuola
di Medicina dell’Università di
Louisville, indicherebbe che i
lagomorfi (il gruppo che comprende
lepri etc.) apparvero dopo, e non
prima, la fine del Cretacico. Inoltre
gli odierni roditori e i conigli
avrebbero in comune un unico
predecessore. Il nuovo scheletro ha
circa 56 milioni di anni ed è 20
milioni di anni più vecchio del … più
vecchio coniglio mai rinvenuto.
La notizia riportata sul numero di febbraio
di Science.
PALEOITALIA
49
Paleo news
NUOVE SCOPERTE SU
CLOUDINA
Cloudina è uno dei più antichi
animali dotato di scheletro
mineralizzato in carbonato di calcio.
Questo piccolo fossile tubolare è
stato rinvenuto in rocce di circa 660
Ma, quindi prima della “esplosione
Cambriana”, avvenuta intorno ai 545
Ma. Cloudina è un importante
fossile stratigrafico, perché
caratterizza il periodo Ediacariano.
Tuttavia gli scienziati non sanno
ancora quale tipo di animale
Cloudina fosse o quale parte
rappresenti. Ora un
nuovo studio condotto su
fossili rinvenuti nella
Formazione di Dengying
nel sud della Cina da
ricercatori cinesi della
Northwest University
della città di Xi’an,
Cloudina conferma alcune osservazioni circa la forma di
Cloudina e fa delle ipotesi su come
vivesse. Gli autori osservano che il
“tubo” di Cloudina è una sorta di
nido privo di muri trasversali, che
contrad-dice la ricostruzione
tradizionale dei coni inseriti uno
dentro l’altro. Inoltre sono stati
trovati un certo numero di esemplari
che si separano in due tubi distinti;
ciò significherebbe, secondo i
ricercatori, che questo animale
avesse una riproduzione asessuata
attraverso gemmazione. La morfologia di Cloudina è simile al
moderno gruppo dei serpulidi,
invertebrati appartenenti agli anellidi
(vermi, n.d.r.), ma i ricercatori non
sono ancora sicuri se queste
“somiglianze” indichino una vera
relazione evoluzionistica o piuttosto
una convergenza evolutiva.
Il lavoro è apparso nel numero di Geology
di Aprile
SCOPERTO IL SESSO DEI
DINOSAURI?
Un gruppo di ricercatori
americani, coordinati dalla
paleontologa Mary Schweitzer
dell’Università North Carolina
State, pare abbia svelato il mistero
sul sesso dei dinosauri. Grazie a una
nuova tecnica che si basa sul
confronto dei tessuti ossei degli
uccelli (p.e. gli struzzi) con quelli dei
dinosauri, gli studiosi si sono resi
conto che il fossile di Tyrannosaurus rex, scoperto nel 2002 nel
Montana, ha all’interno del femore
uno strato osseo “medullary bone”
(osso midollare) molto simile a
quello degli uccelli attuali di sesso
femminile. Questa struttura ossea,
ricca di calcio, contiene piccoli vasi
sanguigni necessari a trasportare il
calcio alle uova in via di formazione.
Partendo da queste considerazioni
M. Schweitzer ha affermato che lo
scheletro di T. rex appartiene a una
femmina, che la scoperta è una
ulteriore prova del legame evolutivo
tra i dinosauri e gli uccelli e che da
questo momento sarà possibile
identificare il sesso dei dinosauri.
Link alla notizia: http://news.
nationalgeographic.com/news/2005/06/
0602_050602_dino_sex.html
50
PALEOITALIA
Paleo news
IL PRIMO UCCELLO
Il paleontologo cinese Ji Qiang,
noto per lo studio della fauna fossile
di Liaoning, ha dichiarato di aver
rinvenuto lo scheletro dell’uccello
più primitivo, addirittura più vecchio
dello stesso Archaeopteryx. Il reperto, del Giurassico superiore, è
stato trovato nel luglio scorso a
Fengning, a 120 chilometri da
Pechino, nel nord della Cina. Il
nuovo fossile, lungo circa 54 cm, è
stato chiamato Jinfengopteryx
elegans e ha la testa triangolare con
un becco provvisto di 36 denti. La
colonna vertebrale ha 12 vertebre
cervicali, 11 presacrali e 23 caudali.
La coda è lunga circa 27 cm e sono
presenti le “immancabili” penne.
Secondo Ji Qiang, Jinfengopteryx
è più primitivo di Archaeopteryx sia
per le zampe posteriori, che
nell’animale cinese sono più lunghe
di quelle anteriori, mentre in
Archaeopteryx le zampe anteriori
e posteriori sono quasi uguali, sia per
la dentatura che nel teropode cinese
è formata da un numero maggiore
di denti più alti rispetto a quelli del
“primo uccello” tedesco.
Link
alla
notizia:
http://
english.people.com.cn/200503/24/
eng20050324_178035.html
65 milioni di anni fa...
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LA FINE D
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MONDO E .ANZI
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PENTITEV
VETEVI!!!
EVOL
PALEOITALIA
51
Paleo Lex
a cura di Manuela Lugli
[email protected]
Il signor Giovanni Manai, socio SPI, mi sottopone il seguente quesito:
“In accoglimento all’invito fatto dalle Soprintendenze il sottoscritto
ed altri amici inviammo l’elenco del materiale in nostro possesso,
ritenendo così di “regolarizzare” la nostra posizione e non incorrere
in violazioni di legge.
L’elenco stilato comprendeva tutto il materiale posseduto, comprensivo
quindi anche di pezzi acquistati su bancarelle o ricevuto in dono, di
provenienza estera. Vorrei sapere se il materiale che non è di
provenienza italiana, ma incluso nell’elenco inviato a suo tempo alla
Soprintendenza debba essere trattato e custodito come il materiale di
provenienza italiana, disciplinato dalla legge sui beni culturali, oppure
se il materiale di provenienza estera è libero da vincoli.”
* * *
Occorre sottolineare qualora non fosse stato chiarito a sufficienza che le
cose che interessano la paleontologia (tanto per restringere il campo dei
beni culturali a ciò che ci interessa) possono essere di proprietà privata o
pubblica. Nell’articolo apparso sullo scorso numero di Paleoitalia sono stati
fatti alcuni esempi di ipotesi in cui le cose che interessano la paleontologia
di provenienza italiana possono essere di proprietà privata. In effetti
l’elenco può essere completato dalle cose che interessano la paleontologia
“acquistate da chi è stato autorizzato ad esercitarne il commercio”. E ciò
vale sia per i beni culturali di provenienza italiana, sia per quelli di
provenienza estera.
Ora l’inclusione nei famosi elenchi inviati alla Soprintendenza di un fossile
di proprietà privata, non ne muta certo la natura, nel senso che se il fossile
è di proprietà privata lo stesso rimane tale.
Le cose che interessano la paleontologia di proprietà privata (di provenienza
italiana o estera, non ha importanza) non sono soggette a vincoli. Esse non
debbono essere tenute a disposizione, ma possono essere liberamente
52
PALEOITALIA
trasferite e ciò fino a quando al privato non venisse notificata la dichiarazione
che accerta la sussistenza dell’interesse culturale secondo il meccanismo
previsto dagli artt. 13 e seguenti del codice dei beni culturali.
Ma tale eventualità potrebbe anche non verificarsi mai, né il privato cittadino
ha interesse a provocare un pronunciamento del Ministero dato che il bene
privato non è neppure potenzialmente vincolato.
Ad ogni modo va sottolineato che nel caso di beni di proprietà privata
l’interesse culturale che potrebbe giustificare l’interessamento del Ministero,
finalizzato all’apposizione del vincolo attraverso la notifica della
dichiarazione prevista dal citato art 13, deve essere, a norma dell’art. 10,
terzo comma lett. a) particolarmente importante.
PALEOITALIA
53
Paleolibreria
a cura di Annalisa Ferretti
[email protected]
Come vedrete sotto, questo numero di Paleolibreria esce in versione
monotematica. Particolare risalto viene infatti dato al recente volume di
Paleontologia dei Vertebrati, curato da Laura Bonfiglio ed edito dal Museo
Civico di Storia Naturale di Verona, che ha riunito i principali specialisti
italiani del settore nel tentativo, perfettamente riuscito, di sintetizzare le attuali
conoscenze sul patrimonio paleontologico a Vertebrati presente in Italia. Come
sempre, aspettiamo le vostre segnalazioni, anche per lavori a carattere “locale”
che ci sarebbe difficile conoscere altrimenti. Buona lettura a tutti
Paleontologia dei vertebrati in Italia.
Evoluzione biologica, significato ambientale e
paleogeografia, a cura di Laura Bonfiglio;
Memorie del Museo Civico di Storia Naturale
di Verona – 2.serie. Sezione Scienze della
Terra, 6, 2005, 238 pagine.
[Laura Bonfiglio] A distanza di 25 anni dalla
pubblicazione de “I vertebrati fossili italiani”,
catalogo della mostra allestita al Palazzo della
Gran Guardia di Verona nel 1980, questo
volume presenta un panorama aggiornato dello
stato delle conoscenze sui vertebrati fossili
italiani i quali, pur essendo relativamente rari
nella documentazione paleontologica rispetto
ai resti fossili di invertebrati, hanno grandissimo significato
paleobiogeografico e paleoambientale.
In questi venticinque anni le ricerche sui vertebrati fossili italiani hanno
avuto uno straordinario sviluppo con il riconoscimento di nuovi taxa, la
segnalazione di nuovi depositi, lo sviluppo dell’analisi tafonomica, la ricerca
di correlazioni con depositi marini, la definizione di scale biocronologiche
dettagliate e la integrazione dei dati paleontologici con quelli isotopici e
paleomagnetici, oltre che con datazioni geochimiche e numeriche. Il volume
registra puntualmente tutte le novità che sono emerse in questi anni. I
vertebrati fossili italiani sono presentati secondo un ordine cronologico, a
partire dal Paleozoico superiore fino al Quaternario e nei singoli capitoli,
coordinati da diversi specialisti (A.Tintori, T. Kotsakis, L. Rook ,W. Landini,
C. Petronio, L. Bonfiglio) sono esposti i risultati delle minuziose ricerche
condotte sui vertebrati fossili marini e continentali distribuiti in un intervallo
54
PALEOITALIA
temporale di qualche centinaio di milioni di anni. Del ricco patrimonio di
vertebrati fossili italiani illustrati nel volume fanno parte alcuni esemplari
unici al mondo per significato paleobiologico e per il contributo che possono
dare alla conoscenza della evoluzione dei viventi. Le nuove segnalazioni di
depositi contenenti resti di Dinosauri hanno portato contributi inaspettati
alla conoscenza della paleogeografia dell’area mediterranea durante l’Era
Mesozoica. I depositi cenozoici risultano straordinariamente ricchi di resti
di ambiente sia continentale che marino e alcuni dei nuovi siti segnalati
presentano un interesse globale sotto l’aspetto paleoambientale e
paleobiologico. I depositi a vertebrati continentali pleistocenici sono ordinati
in uno schema biocronologico preciso e ben documentato. Le ricerche sui
vertebrati pleistocenici insulari hanno dati interessanti risultati con il
riconoscimento di successive fasi di dispersione di “Complessi faunistici”
dal continente alle grandi isole italiane. La descrizione della litologia dei
depositi e il richiamo ai resti di invertebrati che frequentemente
accompagnano i vertebrati marini tende a ricostruire il quadro ambientale
che ha controllato la vita, la morte e i processi di fossilizzazione dei diversi
taxa. I frequenti richiami alle affinità tra i taxa presenti in Italia e quelli noti
in altre aree geografiche mettono in luce il significato paleobiogeografico
globale di alcuni dei vetebrati fossili italiani e ilustrano la successione degli
eventi che hanno preceduto la formazione della penisola italiana così come
è attualmente. La maturazione di una nuova sensibilità nei confronti dei
depositi fossiliferi a vertebrati come documenti della storia del territorio e
come “monumenti naturali” da conoscere e valorizzare, ha sostanzialmente
cambiato l’atteggiamento dei ricercatori e ha dato luogo a iniziative volte
alla tutela, alla valorizzazione e alla fruizione del ricco patrimonio dei depositi
a vertebrati fossili italiani, alle quali viene fatto anche riferimento nel volume.
Molte segnalazioni di siti importanti provengono da appassionati raccoglitori
di fossili. Si è voluto sottolineare anche questo aspetto in un’opera per la
quale si è scelto di utilizzare, nel rispetto del rigore scientifico, un linguaggio
semplice e comprensibile anche da non specialisti e che potrà avere anche
un valore educativo stimolando lo spirito di osservazione di qualche
appassionato.
Il volume, finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Verona
Vicenza Belluno e Ancona non è in vendita. Le copie disponibili possono
essere richieste alla Direzione del Museo Civico di Storia Naturale di Verona,
e-mail: [email protected]
INDICE DEL VOLUME
INTRODUZIONE, a cura di Laura Bonfiglio.
Presentazione, Laura Bonfiglio.
Cenni di Storia della Paleontologia dei vertebrati in Italia, Tassos Kotsakis.
Ricerca, recupero e progetti di valorizzazione, Laura Bonfiglio, Gabriella Mangano.
Insularità e vertebrati terrestri endemici, Laura Bonfiglio.
Bibliografia
PALEOITALIA
55
PALEOZOICO E MESOZOICO, a cura di Andrea Tintori.
Il Permo-Triassico marino- I siti minori, Andrea Tintori, Marco Avanzini, Fabio Dalla
Vecchia, Cristina Lombardo, Silvio Renesto, Ausonio Ronchi.
I Vertebrati continentali del Paleozoico e Mesozoico, Umberto Nicosia, Marco Avanzini,
Carmela Barbera, Maria Alessandra Conti, Fabio Dalla Vecchia, Cristiano Dal Sasso,
Piero Gianolla, Giuseppe Leonardi, Marco Loi, Nino Mariotti, Paolo Mietto, Michele
Morsilli, Anna Paganoni, Fabio Massimo Petti, Daniele Piubelli, Pasquale Raia, Silvio
Renesto, Eva Sacchi, Giuseppe Santi, Marco Signore
Il Triassico medio delle Prealpi Lombarde, Andrea Tintori, Cristiano Dal Sasso, Markus
Felber, Cristina Lombardo, Stefania Nosotti, Silvio Renesto, Giorgio Teruzzi
Il Norico marino dell’Italia Settentrionale, Andrea Tintori, Fabio Dalla Vecchia, Emanuele
Gozzi, Cristina Lombardo, Giuseppe Muscio, Silvio Renesto
Il Giurassico marino, Andrea Tintori, Cristiano Dal Sasso, Fabio Dalla Vecchia Umberto
Nicosia, Giorgio Teruzzi
Il Cretaceo marino, Fabio Dalla Vecchia, Carmela Barbera, Fabrizio Bizzarini, Sergio Bravi,
Massimo Delfino, Luca Giusberti, Guido Guidotti, Paolo Mietto, Cesare Papazzoni,
Guido Roghi, Marco Signore, Oronzo Simone.
Bibliografia
IL PALEOGENE, a cura di Tassos Kotsakis
I vertebrati marini, Walter Landini, Chiara Sorbini, Tassos Kotsakis, Giovanni Bianucci,
Andrea Tintori
I Vertebrati continentali, Tassos Kotsakis, Patrizia Argenti, Giancarlo Barisone, Massimo
Delfino, Maria Rita Palombo, Marco Pavia, Paolo Piras,
Bibliografia
IL MIOCENE, a cura di Lorenzo Rook
I Vertebrati marini, Walter Landini, Giovanni Bianucci, Michelangelo Bisconti, Giorgio
Carnevale, Chiara Sorbini, Angelo Varola
I Vertebrati della Pietra Leccese
Le terre emerse del Miocene, Lorenzo Rook, Tassos Kotsakis
I vertebrati continentali, Lorenzo Rook, Laura Abbazzi, Massimo Delfino, Marco Peter
Ferretti, Paul Mazza, Danilo Torre
Le associazioni a vertebrati continentali del Messiniano, Lorenzo Rook, Laura Abbazzi,
Massimo Delfino
Bibliografia
IL PLIO-PLEISTOCENE, a cura di Walter Landini e Carmelo Petronio
I Vertebrati marini, Walter Landini, Giovanni Bianucci, Michelangelo Bisconti, Giorgio
Carnevale, Chiara Sorbini
I Vertebrati Marini del Fiume Marecchia
Il Giacimento di Orciano (Pisa)
Le faune a mammiferi del Plio-Pleistocene, Carmelo Petronio, Anna Paola Anzidei, Claudia
Bedetti, Fabio Bona, Emanuele Di Canzio, Sergio Gentili, Paul Mazza, Maria Rita
Palombo, Marco Pavia, Leonardo Salari, Raffaele Sardella, Andrea Tintori
L’area di Villafranca d’Asti e l’Unità Faunistica di Triversa
I mammiferi fossili del ramo sud-occidentale del Bacino Tiberino, Umbria
Poggio Rosso (Valdarno superiore)
I vertebrati fossili delle ligniti di Pietrafitta, Bacino di Tavernelle/Pietrafitta
Torre in Pietra
La Polledrara di Cecanibbio (Roma)
La Caverna Generosa: un tipico deposito di Grotta ad Ursus spelaeus
Bibliografia
I VERTEBRATI DELLE ISOLE, A cura di Laura Bonfiglio
La Sardegna, Maria Rita Palombo, Laura Abbazzi, Chiara Angelone, Claudia Benedetti,
Massimo Delfino, Tassos Kotsakis, Federica Marcolini, Marco Pavia
La Sicilia, Laura Bonfiglio, Gianni Insacco, Gabriella Mangano, Federico Masini, Marco
Pavia, Daria Petruso
Le isole minori, Tassos Kotsakis, Laura Bonfiglio
Bibliografia
56
PALEOITALIA
PALEOWEB
a cura di Maurizio Gnoli
[email protected]
Dopo alcune puntate dedicate prevalentemente a siti stranieri, in questo
numero ci occupiamo solo di siti italiani. Gli anglosassoni sono soliti
distinguere i fossili in due categorie: 1) “bulk fossils”, o fossili veri e propri
e 2) “trace fossils”, le impronte e tracce fossili. È proprio di questi che
voglio suggerire un sito preparato dal
Dr. Paolo Monaco del Dipartimento
di Scienze della Terra dell’Università di Perugia dove tiene un corso
di Ichnologia e da lui chiamato
“MetaIchnology” http://www.
unipg.it/~pmonaco/Ichnologysite/
framePage.html. Nella videata
iniziale compare un’illustrazione di
come la paleoichnologia abbia
legami con molte discipline di
Scienze della Terra e biologiche ed
un testo introduttivo alla disciplina. Sulla sinistra compare un indice del
contenuto con 10 “bottoni” cliccabili: dalla storia dell’Ichnologia (1) agli
esempi di tracce fossili in Italia (10).
Lo stesso autore cura anche una
pagina web sui crostacei decapodi
fossili
http://www.unipg.it/
~pmonaco/Crustaceans/
framePage.html .
Credevate che avessi finito? NO,
almeno per l’anno accademico 2004/
2005 mi hanno “rifilato” (si fa per
dire) il Corso di Paleontologia del
Quaternario e poiché sono un curioso
navigatore ho trovato sul web un sito
curato dalla prof.ssa Maria Rita Palombo del Dipartimento di Scienze della
Terra, Università di Roma “La Sapienza”. Una vera esperta in materia
con più di 120 pubblicazioni che vi condurrà attraverso un fantastico
PALEOITALIA
57
argomento che ci riguarda molto da vicino in quanto è difficile parlare di
questo periodo geologico senza prendere in considerazione anche
l’evoluzione dei nostri antenati in un mondo non sempre ospitale. Andate
quindi al sito di “Quando in Italia vivevano gli elefanti”, alias: http://
w w w. l e o n a rd o d a v i n c i ro m a . i t / p u b l i c / A t t i v i t a C u l t u r a l i / 1 4 /
approfondimenti/approf_geologia/appfossili.htm e divertitevi! A mio
avviso il sito potrebbe
costituire un vero “Bignamino” sulla Paleontologia
del Quaternario. Vi
ricordate quando, alle
scuole superiori, per un
veloce ripasso prima di
una interrogazione o un
compito in classe su una
determinata materia si
ricorreva a quei volumetti,
i “Bignami” per l’appunto,
che pur essendo coincisi
non trascuravano nulla di
importante? Nella videata
iniziale compare sulla destra dell’indice dei contenuti un’immagine di
Elephas anticuus. L’indice comprende Premessa, Il Paleoclima, Le Faune
a Grandi Mammiferi, Villafranchiano, Galeriano, Aureliano, Aureliano
superiore, Bibliografia e Fonti Iconografiche. Il tutto con bellissime immagini.
Come potrete constatare di persona, viene trascurato ben poco.
Se qualcuno oltre alle notizie paleontologiche desidera conoscere
qualcosa sull’arte rupestre vada al: http://www.culture.gouv.fr/culture/
arcnat/lascaux/en/visite.htm dove potrà ammirare cosa erano capaci di
fare i nostri predecessori durante il Paleolitico superiore 10.000 anni fa a
Lascaux. Meno spettacolare ma
altrettanto importante (patrimonio
mondiale dell’umanità) sono i graffiti
della Val Canonica raggiungibili al: http:/
/www.arterupestre.net/territorio/
valcamonica.htm.
Cos’altro devo aggiungere, o prodi
nostromi, se non quello di levare le ancore
ed imperativamente navigare, navigare,
e se non c’è vento cominciare a soffiare
sulle vele o andare a motore, inquinando
il meno possibile, mi raccomando!
Promettendo d’ora in poi di continuare a dedicare sempre maggior spazio
a siti italiani, alla prossima …
PALEOITALIA
58
Agenda
Congressi e convegni
Società Paleontologica Italiana
Giornate di Paleontologia 2006
Corsi
Foraminiferi Planktonici
Eocenici
20-24 febbraio 2006
Perugia
giugno 2006
Trieste
Si prevedono due giornate di comunicazioni
scientifiche e due di escursione.
Informazioni più precise saranno disponibili
al più presto nel sito web della S.P.I.
(www.spi.unimo.it).
Per informazioni: Roberto Rettori - Dipartimento di Scienze della Terra, Piazza
Università, 1 - I-06100 Perugia; fax: 075
5852603; e-mail: [email protected]
Sito web: http://www.www.unipg.it/~denz/
Per ulteriori informazioni vedere la finestra
qui sotto.
INTERNATIONAL SCHOOL
ON PLANKTONIC FORAMINIFERA
5° CORSO
FORAMINIFERI PLANKTONICI EOCENICI
TASSONOMIA, BIOSTRATIGRAFIA E RELAZIONI FILOGENETICHE
Perugia, 20-24 Febbraio 2006
Prof. Isabella PREMOLI SILVA
Università di Milano
Con la collaborazione di: Dr. Maria Rose Petrizzo
Per informazioni:
Dr. Roberto Rettori - Dipartimento di Scienze della Terra, Piazza Università, 1 - I-06100
Perugia; tel.: 00390755852664; fax: 075 5852603; e-mail: [email protected]
Sito Web: http://www.unipg.it/~denz/
PALEOITALIA
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LA SOCIETÀ PALEONTOLOGICA ITALIANA
La Società Paleontologica Italiana è stata fondata nel 1948 con lo scopo di promuovere la ricerca scientifica paleontologica. L’associazione è aperta sia alle istituzioni, sia ai
singoli interessati alla paleontologia, sia a livello professionale che amatoriale. Per l’anno
2004, le quote associative sono le seguenti:
Socio Ordinario (paesi europei)
35 €
Socio Ordinario (extra U.E.)
45 €
Socio junior (under 30)
21 €
Istituzioni
100 €
Fin dal 1960 la S.P.I. pubblica il Bollettino della Società Paleontologica Italiana, che
è una rivista scientifica a valore internazionale, rivolta prevalentemente al mondo accademico e, conseguentemente, scritta quasi interamente in lingua inglese.
Dal 2000 il Bollettino viene affiancato da un supplemento semestrale in italiano,
PaleoItalia, diretto a tutti gli appassionati e cultori della paleontologia.
PALEOITALIA
Supplemento al Bollettino della Società Paleontologica Italiana, v.44, n.3, 2005
Direttore Responsabile: Enrico Serpagli
Segretario di Redazione: Carlo Corradini
Indirizzo della Redazione: Dipartimento del Museo di Paleobiologia e dell’Orto Botanico,
Università di Modena e Reggio Emilia, via Università 4, 41100 Modena. Tel. 059-2056523.
Stampa: Tipografia Moderna, via dei Lapidari 1/2, Bologna.
Autorizzazione Tribunale di Modena n. 616 del 16-09-1978
HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO
Davide Bassi, Dipartimento delle risorse culturali e naturali, Universtà di Ferrara,
corso Ercole I d’Este 32, 44100 Ferrara; [email protected]
Laura Bonfiglio, Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Messina,
salita Sperone 31, 98166 S. Agati di Messina. [email protected]
Barbara Cavalazzi, Dipartimento di Scienze della Terra e Geo-Ambientali,
Università di Bologna, via Zamboni 67, 40127 Bologna;
[email protected]
Rodolfo Coccioni, Dipartimento di Geologia, Università di Urbino, Campus
Scientifico Località Crocicchia, 61029 Urbino (PU)
Cristiano Dal Sasso, Museo Civico di Storia Naturale, Corso Venezia 55, 20121
Milano; [email protected]; [email protected]
Lucia Lops, Dipartimento di Scienze della Terra, Universtà di Milano, via
Mangiagalli 43, 20133 Milano; [email protected]
Jordi Orso, via Biancardi 2, 20149 Milano; [email protected]
Luca Ragaini, Dipartimento di Scienze della Terra, via S. Maria 53, 56126 Pisa;
[email protected]
60
PALEOITALIA
INDICE
Numero 13, Carlo Corradini
Cari Soci SPI, Antonio Russo
Giornate di Paleontologia 2005, Rodolfo Coccioni
Appunti sulla preparazione e sulla conservazione dei fossili.
I - preparazione meccanica, Cristiano Dal Sasso
Crassostrea, ovvero come conquistare un nuovo ambiente,
Luca Ragaini
p.
p.
p.
1
2
3
p.
7
p.
12
Rispolverando i celacanti!, Lucia Lops
Le escursioni dei soci paleontofili nel 2005, Jordi Orso
p.
p.
18
24
IFAA 5th Regional Symposium, Davide Bassi
p.
L’attività microbica in rocce carbonatiche prodotte in ecosistemi
ichemiosintetici: documentazione fossile e potenziale di preservazione,
Barbara Cavalazzi
p.
35
RUBRICHE
Notizie Italiane, Carlo Corradini
Paleo news, Paolo Serventi
PaleoLex, Manuela Lugli
Paleolibreria, Annalisa Ferretti
Paleoweb, Maurizio Gnoli
Agenda
p.
p.
p.
p.
p.
p.
36
43
48
51
53
56
58
NOTE PER GLI AUTORI
Gli articoli non devono superare le tre pagine dattiloscritte. È gradito un
corredo iconografico (fotografie, disegni, grafici, …); nel caso di fotografie a
colori, esse devono essere ben contrastate, in modo da avere una buona resa se
pubblicate in bianco e nero.
Gli autori possono fornire, se lo ritengono utile, alcune note bibliografiche.
Gli autori sono pregati di inviare i propri testi possibilmente tramite posta
elettronica, come “attached files”, oppure su dischetti da 3.5 pollici, specificando il programma di videoscrittura utilizzato. Le immagini digitalizzate vanno
salvate come file bmp o jpg, possibilmente a 300 dpi.
Di norma gli autori non avranno la possibilità di visionare le bozze. Agli
autori non saranno forniti estratti degli articoli.
Gli articoli e il materiale illustrativo devono essere inviati per posta elettronica
all’indirizzo: [email protected]
oppure, in caso di impossibilità, a: PaleoItalia – Dipartimento del Museo di
Paleobiologia e dell’Orto Botanico – Università di Modena e Reggio Emilia – via
Università 4 – 41100 Modena.