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19. dianoia
Rivista di filosofia
del Dipartimento di Filosofia e Comunicazione
dell’Università di Bologna
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19. dianoia
Sommario
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Profili dell’ombra
a cura di Annarita Angelini
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Annarita Angelini, Presentazione
Baldine Saint Girons, Lo stadio dell’ombra
Annarita Angelini, Ombre dei sensi e ombre del pensiero. Dal raggio ombroso alle
lezioni di tenebre
Raffaele Danna, L’«ombra del beato regno». Presenze umbratili nel Purgatorio di Dante
Marco Matteoli, Giordano Bruno e l’ombra della conoscenza
Florence Malhomme, Ombra e musica. La musica che siamo
Giuseppe Longo, L’infinito matematico “in prospettiva” e l’ombra dei possibili
Apparato iconografico
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Saggi
Diego Donna, Norma, segno, autorità. Spinoza interprete dei profeti
Beatrice Collina, Il rapporto tra economia ed etica nel dibattito austro-tedesco del
XIX secolo
Davide Spagnoli, Introduzione a Matematica ed ideologia: la politica degli infinitesimali
Joseph W. Dauben, Matematica ed ideologia: la politica degli infinitesimali
Diego Melegari, La verità di questo mondo. Rileggendo Tran-Duc-Thao
Riccardo Fedriga, Possibilità, scelta critica e impegno: Mario Dal Pra storico della filosofia
Daniela Marchitto, Sensazione di libertà e libertà senza azione: aspetti del dibattito contemporaneo
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Note e discussioni
Jonathan Molinari, “Collaborative paradigm” e pratica della complessità: sulla
nuova edizione inglese dell’Oratio pichiana
Gennaro Imbriano, Tra teoria della storia, iconologia e “ippologia politica”. Sulle
tracce del Nachlass di Reinhart Koselleck
Luca Scuccimarra, Nelle tenebre del Novecento. Una ricerca collettiva sulla violenza di massa
Valerio Portacci, Bioetica e diritto penale. Prospettive dell’autonomia
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Recensioni
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L’«ombra del beato regno».
Presenze umbratili nel Purgatorio di Dante
Raffaele Danna
The aim of this paper is to analyse the nature of shadow in Dante’s masterpiece. The analysis opens with a survey of the very different meanings
the said theme acquires throughout the work. Starting from this enquiry, it
is possible to infer the presence of a symbolic form of shadow, which can
be applied to different levels of the text. Shadow as a symbol enlightens the
ambiguous and intermediary condition of the human creature, of language,
of poetry and of the poem itself, opening a possible humanistic perspective
on Dante’s work. Dante’s Commedia seems to indicate a paradoxical enlightening nature of shadow.
Keywords: Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, Humanism,
symbolic form, intermediate entities.
1. L’ombra come simbolo
L’ombra è per sua natura ambigua. Si tratta di un ente intermedio fra luce
assoluta e assoluta tenebra1. La visione è possibile solo grazie alla presenza dell’ombra che media fra i due estremi in corrispondenza dei quali la vista viene meno: non siamo infatti in grado di distinguere oggetti (e, dunque, di vederli) né in condizioni di pura luce, né nel buio completo2. L’om-
1 Leonardo nel suo Trattato della pittura afferma: «l’ombra, nominata per il proprio
suo vocabolo, è da esser chiamata alleviazione di lume applicato alla superficie de’ corpi.
Della quale il principio è nel fine della luce, ed il fine è nelle tenebre». L. da Vinci, Trattato della pittura, a cura di A. Zevi, Milano, Savelli Editori, 1982, p. 237.
2 Questo vale anche nella Commedia, dove l’assenza di ombre (e quindi di segni) determina lo smarrimento di ogni sistema di riferimento. Cfr. Purgatorio (da questo momen-
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Raffaele Danna
bra è l’ente intermedio attraverso il quale la creatura umana può intra-vedere l’invisibile.
A una semplice indagine delle occorrenze del termine “ombra” nella
Commedia non è difficile accorgersi del suo significato particolarmente instabile. In prima approssimazione si può affermare che l’ombra indica il corpo aereo dell’anima trapassata3; ma questo significato prevalente non esclude che il termine sia impiegato da Dante anche a significare “mancanza di luce diretta”4, “ombra proiettata da un corpo” (sia celeste sia umano5) e ancora “indizio”, “visione incompleta”, “parvenza”6. Questa notevole variabilità
è un primo segnale dei numerosi paradossi che si raccolgono intorno all’ombra dantesca, intesa nell’accezione cassireriana di “forma simbolica”7.
Il proposito di queste pagine è quello di risalire da una ‘fenomenologia’
dell’ombra nel poema dantesco ad alcuni nodi teorici a essa sottesi per mostrarne infine le valenze simboliche. L’analisi verterà principalmente sulla
seconda cantica, sia perché si tratta della sede privilegiata delle epifanie
dell’ombra nella Commedia, sia perché l’ombra è elemento fondante e insieme rivelatore di una medietas che Dante associa al Purgatorio e, più in
generale, alla poesia.
2. Essere/avere
L’ombra nella Commedia, e in modo particolare nel Purgatorio, svolge un
ruolo di non sottovalutabile importanza. Basti considerare il fatto che le
to: Pg.), XIII, 4-9. Il testo della Commedia di riferimento è quello dell’edizione critica a cura di G. Petrocchi. Cfr. Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di
G. Petrocchi, Firenze, Casa Editrice Le Lettere, 1994.
3 Pg., XXV, 100-102.
4 Pg., IV, 104.
5
Pg., III, 90; Pg., IV, 104; Pg., V, 34.
6
Pd., I, 23 e XIII, 19.
7 Cfr. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche (1923), 3 voli., trad. it. E. Arnaud,
Firenze, La nuova Italia, 1961, vol. 1, Il linguaggio, p. 20: «il simbolo non è un rivestimento meramente accidentale del pensiero, ma il suo organo necessario ed essenziale. Esso non serve solamente allo scopo di comunicare un contenuto concettuale già bello e pronto, ma è lo strumento in virtù del quale si costituisce questo stesso contenuto e in virtù del
quale esso acquista la sua compiuta determinatezza. L’atto della determinazione concettuale di un contenuto procede di pari passo con l’atto del suo fissarsi in un qualche simbolo caratteristico».
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anime che Dante incontra durante il suo percorso sono chiamate generalmente «ombre» nelle prime due cantiche, mentre passano alla connotazione di «luci» a partire dai primi canti del Paradiso.
Dante abitua i suoi lettori a visualizzare gli episodi che mette in scena;
la sua poesia è fortemente rappresentativa e la dimensione visuale del poema è fondamentale. È di certo anche per questa caratteristica che il «sacrato poema» ha suscitato l’attenzione di numerosi artisti, i quali si sono
impegnati nel tentativo di dare una veste pittorica al testo. Eppure gli illustratori hanno spesso del tutto disatteso le indicazioni dantesche in materia di ombra8. La quasi sistematica disobbedienza alle indicazioni testuali
non può essere casuale e suggerisce piuttosto la consapevolezza, che già i
pittori del Rinascimento evidentemente ebbero, del fatto che l’ombra nell’opera dantesca svolga un ruolo diverso da quello semplicemente mimetico-riproduttivo. Vediamo un primo esempio delle connotazioni del tutto
particolari che Dante conferisce alle sue ombre; agli inizi del canto III leggiamo:
Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio,
rotto m’era dinanzi a la figura,
ch’avea in me de’ suoi raggi appoggio
io mi volsi dallato con paura
d’essere abbandonato, quand’io vidi
solo dinanzi a me la terra oscura9
Dante si accorge che è solo il suo corpo, e non quello della sua guida,
a proiettare l’ombra. Si tratta di un’indicazione di natura percettiva non
sottovalutabile, che si completa nella spiegazione di Virgilio:
8
Questo fatto può destare sorpresa dal momento che saremmo portati a credere che un
artista impegnato nella rappresentazione di un’opera letteraria vada alla ricerca di tutte le
indicazioni utili offerte dall’autore, e, a partire da quelle, costruisca la sua raffigurazione.
La sorpresa è ancora maggiore se si considera il ruolo fondamentale che l’ombra svolge
nelle tecniche di rappresentazione pittorica dal Quattrocento in poi, da quando cioè la Commedia propone una topica importante di soggetti iconografici. Si può di nuovo richiamare
a titolo esemplare Leonardo che nel suo Trattato della Pittura afferma: «ombra è privazione di luce, e sola opposizione de’ corpi densi opposti ai raggi luminosi; ombra è di natura
delle tenebre, lume è di natura della luce; l’uno nasconde e l’altro dimostra; sono sempre
in compagnia congiunti ai corpi; e l’ombra è di maggior potenza che il lume, imperocché
quella proibisce e priva interamente i corpi della luce, e la luce non può mai cacciare in tutto l’ombra dai corpi, cioè corpi densi»: L. da Vinci, Trattato della pittura, cit., p. 238.
9 Pg., III, 16-21.
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Raffaele Danna
Vespero è già colà dov’è sepolto
lo corpo dentro al quale io facea ombra:
Napoli l’ha e da Brandizio è tolto10.
Virgilio non ha un’ombra poiché il suo corpo terreno, in virtù del quale è possibile fare ombra, è sepolto in terra napoletana. Egli tuttavia non è
completamente privo di corpo, ma ne possiede uno di natura diversa da
quello di Dante: un corpo che non crea un’ombra, ma è un’ombra11. Si tratta nondimeno di un corpo in grado di avere passioni:
A sofferir tormenti, caldi e geli
simili corpi la Virtù dispone
che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli.
Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone12.
La possibilità di comprendere «come» la divina virtù «disponga» questi corpi-ombra a soffrire le pene infernali e purgatoriali viene da Virgilio
risolutamente negata, al punto che il tentativo della ragione di penetrare
questo mistero è considerato folle. Una folle speranza che è paragonata a
quella di chi crede di potere, con la sola «nostra ragione», (e la ragione è
Virgilio stesso) comprendere il dogma della Trinità, verità ultima che verrà mostrata a Dante solo al compiersi del suo percorso13.
Dante traccia dunque una netta demarcazione ontologica fra l’avere
un’ombra e l’essere un’ombra: la prima condizione è caratteristica dei corpi viventi, la seconda è peculiare allo stato delle anime separate. Non si può
escludere che gli ‘illustratori’ della Commedia abbiano cercato invano di individuare un espediente figurativo per restituire visivamente la distinzione
ontologica dantesca. Di fronte all’anfibologia essere/avere dell’ombra la
difficoltà del pittore è incomparabilmente maggiore rispetto a quella del
poeta. Nel disegno infatti il pittore non può prescindere dalla tecnica dell’ombra pittorica e del chiaroscuro (la cosiddetta ‘ombra portata’ e ‘ombra
di ancoraggio’) senza smarrire la tridimensionalità e la collocazione fisica
dei personaggi nello spazio. Nel caso della Commedia i personaggi non sono (o non sono più) fisici, ma per poterli visualizzare è necessario fare ri10
Pg., III, 25-27.
Come verrà dettagliatamente illustrato nel canto XXV.
12 Pg., III, 31-36.
13 Paradiso (da questo momento: Pd.), XXXIII, 127-132.
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corso a una rappresentazione sensibile che sia percepibile all’occhio dell’osservatore, della quale l’ombra e il chiaroscuro sono elementi costitutivi
e ineludibili. Situazione paradossale che determina come un poema costruito
come ekphrasis risulti pressoché impossibile a illustrare. L’immagine pittorica mortifica l’aspetto immaginativo (in senso neoplatonico) della Commedia; la ‘traduzione’ in immagine del linguaggio poetico dantesco è possibile solo a costo della perdita di alcuni suoi caratteri peculiari e intraducibili: primo tra tutti, la distinzione ontologica essere/avere ombra.
È verosimile che i pittori abbiano pienamente individuato l’originalità dell’ombra poetica di Dante, ma abbiano optato per una rappresentazione convenzionale dell’ombra pittorica a causa dell’impossibilità o dell’inefficacia di una
rinuncia alla tecnica del chiaroscuro. Commentando i versi citati, V. Stoichita afferma che «in questo passo fondamentale l’autore fa risaltare, con la chiarezza
e lo spirito poetico che gli sono propri, che l’ombra prodotta per proiezione è cosa legata alla vita» e che proprio per questo «nella Divina Commedia solo Dante ne “possiede” una, mentre gli altri, come Virgilio, ne sono “fatti”»14.
Dante ricorre spesso alla distinzione essere/avere nel Purgatorio poiché
questa differenza costituisce il segno grazie al quale le anime comprendono che il corpo di Dante è fatto di viva carne. Vediamone due esempi15:
Come color dinanzi vider rotta
la luce in terra dal mio destro canto,
sì che l’ombra era da me alla grotta
restaro, e trasser sé in dietro alquanto,
e tutti li altri che venieno appresso,
non sappiendo ’l perché, fenno altrettanto16.
Nel canto V:
Io m’era già da quell’ombre partito,
e seguitava le orme del mio duca,
quando di retro a me, drizzando il dito,
una gridò: «Vè che non par che luca
lo raggio da sinistra a quel di sotto,
e come vivo par che si conduca!»17.
14
V.I. Stoichita, Breve storia dell’ombra (1997), trad. it. di B. Sforza, Milano, Il Saggiatore, 2003, p. 44. Per un’analisi del tema dell’ombra nella tradizione iconografica della
Commedia, cfr. M. Villa, L’ombra della carne nel Purgatorio dantesco, «Rivista di studi italiani», XXX, 1 (2012), pp. 1-33.
15 Ma cfr. anche Pg. V, 25-27 e XXVI, 7-12.
16 Pg., III, 88-93.
17
Pg., V, 1-6.
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L’ombra proiettata dal corpo di Dante non è imitazione dell’esperienza
consueta, ma costituisce il segno della sua eccezionale condizione; a loro
volta le anime separate, che non proiettano nessuna ombra – come potremmo supporre – ma sono esse stesse ombre, suggeriscono la presenza
di qualcosa di invisibile se non, addirittura, di assente. Bastano queste poche osservazioni per suggerire come l’ombra dantesca non sia circoscrivibile al dominio della rappresentazione, né della duplicazione della dimensione corporea, ma costituisca invece un complesso simbolico significativo e coerente, pur nelle sue diverse accezioni.
3. Alba
È possibile individuare una prima declinazione della dimensione simbolica dell’ombra nel momento astronomico e metaforico dell’alba.
Poniamo innanzitutto alcune osservazioni di carattere generale. Nella
geografia del poema il monte Purgatorio si trova in una posizione intermedia rispetto agli altri due regni. Se si considera il cosmo dantesco da un
punto di vista esterno alla terra non è difficile constatare che Inferno e Purgatorio formano due coni per così dire concentrici – l’uno vuoto e l’altro
pieno – e che il viaggio di Dante attraverso essi segue un andamento a spirale, orientato sempre secondo la medesima direzione. Nel XXXIV dell’Inferno, nel momento in cui Dante e Virgilio si volgono aggrappandosi al
corpo di Lucifero18, si ha l’impressione di terminare una discesa e cominciare una salita; tale impressione è dovuta al fatto che si oltrepassa il baricentro dell’universo, con un movimento di conversione e di ribaltamento fisico e morale insieme. Il baricentro dell’universo è il centro di simmetria
che determina come la progressiva discesa verso il male coincida con l’inizio della salita in direzione del bene, senza che ciò comporti né un cambio
di direzione, né un cambio di luogo, ma, semplicemente, un’inversione prospettica. Se si tiene presente questo ribaltamento speculare si comprende
anche che la direzione sinistrorsa dell’itinerario di Dante nell’Inferno in
realtà coincide con quella destrorsa del Purgatorio. La rivoluzione completa compiuta nell’Inferno nella direzione della «man manca» corrisponde con precisione a quella purgatoriale, diretta sempre «a man destra». In
conseguenza di questa specularità, anche la direzione del male e quella del
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Inferno (da questo momento: If.), XXIV, 76-93.
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bene vengono a coincidere. Inoltre, il movimento spiraliforme del percorso dantesco che culmina nell’Eden si risolve in una traiettoria presumibilmente lineare nel Paradiso. Si tratta di un unico itinerario mondano diretto verso un’unica meta oltremondana, la cui giornata intermedia è costituita
dal Purgatorio.
Il monte Purgatorio è l’unico luogo del poema posto sulla superficie
terrestre; per questo motivo il tempo della seconda cantica è scandito secondo i ritmi terreni, vale a dire secondo il susseguirsi della notte e del
giorno19. Mentre gli altri due regni sono collocati nell’eternità, il Purgatorio è l’unica cantica caratterizzata da una dimensione effettivamente transizionale (i castighi cui le anime sono sottoposte sono provvisori) ed è perciò calata nella temporalità e nella progressione secondo il prima e il poi.
Proprio in virtù di questa posizione intermedia del monte, Dante è in grado di passare dal «loco d’ogne luce muto» alla «gloria di Colui che tutto
move» attraverso un susseguirsi di luci e di tenebre. Per tutte queste ragioni la seconda cantica ha una natura strutturalmente e cosmologicamente
umbratile, mediana fra la luce e la tenebra.
L’ombra, che si produce nel Purgatorio perché è luogo intermedio tra la
luce paradisiaca e il buio infernale, concorre a propria volta, e in modo determinante, alla fondazione della medietà propria alla seconda cantica. Dal
momento che è immerso in una dimensione temporalizzata, nel Purgatorio, a differenza di quanto accade nell’Inferno e nel Paradiso, il sole sorge
e tramonta. Dante ha buon gioco nello sfruttare con sapienza le opportunità poetiche e simboliche offerte da questa peculiarità. Richiamo un primo
esempio tratto dall’incipit del canto I:
Dolce color d’orïental zaffiro
che s’accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo puro insino al primo giro
Agli occhi miei ricominciò diletto
tosto ch’io usci’ fuor dell’aura morta
che m’avea contristati li occhi e ’l petto
lo bel pianeto che d’amar conforta
faceva tutto rider l’orïente,
velando i Pesci ch’ erano in sua scorta20.
19
È anche la cantica con la maggior quantità di indicazioni temporali (trentacinque contro le undici dell’Inferno e quelle ancora più rade del Paradiso).
20 Pg., I, 13-21.
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Il sole sorge quattro volte mentre Dante scala la montagna del Purgatorio: la prima, nel canto I; la seconda, nel canto IX; la terza, nel XIX (ma viene preannunciata nel XVIII21); la quarta nel XXVII. Il ritmo che accompagna l’apparire dell’alba nella seconda cantica è scandito dal numero 9:
una scansione novenaria che è già di per sé carica di significati allegorici
e simbolici. Ma la simbologia dell’alba, cioè il passaggio dalla tenebra notturna alla luce del giorno, è ancora più complessa. La collocazione di Dante rispetto alla montagna è conseguenza del suo percorso a spirale: nei canti I e IX il poeta osserva l’alba da una postazione a est del monte, mentre
nel canto XIX l’osservazione avviene da nord e nel canto XXVII da ovest.
Questa scansione geografica (cui corrisponde un orientamento temporale
preciso) è il manifestarsi oggettivo degli avanzamenti compiuti da Dante
nella struttura morale del monte. La prima alba annuncia l’entrata nel «secondo regno / dove l’uman spirito si purga»22, la seconda l’accesso al Purgatorio vero e proprio dopo il transito nell’Antipurgatorio, la terza segna il
passaggio alle cornici in cui si punisce l’incontinenza; infine la quarta precede immediatamente l’accesso al Paradiso terrestre: lì Dante tornerà a dirigere lo sguardo verso il sole che sorge da est, vale a dire nella direzione
del bene, portando a termine il suo moto di rivoluzione.
Le ultime tre albe – che sono quelle dotate di una funzione più propriamente strutturale – sono caratterizzate dalla presenza del sogno profetico. Come osserva G. Bondioni, il poeta sogna solo nel Purgatorio: «solo
nella prospettiva “media” di questo regno è possibile sottolineare la corporalità di Dante che porta al sonno e permette quindi il sogno». Quelli
che possono sembrare sogni nella prima cantica (If., III, 136 e 141-142)
sono in realtà «svenimento e obnubilamento della ragione, mentre il sogno
del Purgatorio è sempre sogno profetico e indica il passaggio dalla tenebra alla luce, dal sonno della ragione alla rivelazione del vero»23. Tali sogni sono possibili perché poco prima dell’alba la nostra mente si trova in
una condizione di particolare indipendenza dalle passioni del corpo e dagli stimoli esterni ed è in grado di volgersi entro sé e al di sopra di sé attingendo a visioni veritiere.
Quello del sogno profetico collocato nelle prime ore del mattino è un topos letterario di origine classica, ma la concezione dello «spirito peregri21 Cfr. La Divina Commedia, Purgatorio, a cura di G. Bondioni, Milano, Principato,
2010, p. 317.
22 Pg., I, 4-5.
23 La Divina Commedia, Purgatorio, a cura di G. Bondioni, cit., p. 318.
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no» come parte nobile e immaginativa dell’anima, in grado di congiungersi
alle intelligenze celesti nel momento del suo allontanamento dal corpo, è
di matrice averroistica e neoplatonica. Fonte di Dante è il De somno et vigilia di Alberto Magno, il quale a propria volta si colloca entro una tradizione che comprende Galeno, Proclo, Macrobio e Sinesio, ma anche Avicenna e Algazel24.
Non è raro nel poema – e così è anche a proposito del motivo del sogno
– che Dante produca crasi di tradizioni poetiche, letterarie e filosofiche,
anche tra loro eterogenee, nell’atto stesso del suo fare artistico. Nella fattispecie, Dante giustappone topos letterario e teoria filosofica per strutturare e giustificare a un tempo la sua narrazione. Tuttavia quello che qui interessa particolarmente segnalare è come il momento in cui Dante sceglie
di collocare tali sogni profetici – che altro non sono se non un modo con
cui la nostra mente coglie in nuce il vero – sia un momento umbratile. La
visione profetica si configura all’alba, il momento in cui si fa luce, ma non
vi è luce completa. Si tratta di un elemento simbolico significativo e ricorrente, più volte ribadito da Dante già nell’Inferno:
Ma se presso al mattin del ver si sogna25,
e ripreso nel Purgatorio:
Ne l’ora che comincia i tristi lai
la rondinella presso a la mattina
forse a memoria dei suoi primi guai
E che la mente nostra, peregrina
più da la carne e men da’ pensier presa,
a le sue visïon quasi è divina26.
E ancora:
Sì ruminando e sì mirando in quelle,
mi prese il sonno; il sonno che sovente,
anzi che ’l fatto sia, sa le novelle27.
La condizione di eccezionale, «quasi divina», capacità di vedere è costantemente associata all’alba incipiente, al primo fare luce del sole sul
24 Cfr. R. Klein, La forma e l’intelligibile (1970), trad. it. di R. Federici, Torino, Einaudi, 1975.
25
If., XXVI, 7.
26 Pg., IX, 13-18.
27 Pg., XXVII, 91-93.
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mondo, all’istante in cui le tenebre si diradano. Il momento intermedio dell’ombra si va dunque costantemente ad associare a situazioni liminari come il passaggio dalle tenebre alla luce, come il momento in cui lo «spirito
peregrino», corpo dell’anima, coglie verità nascoste agli occhi sensibili.
L’ombra dantesca, che abbiamo già visto essere dotata di uno statuto ontologico instabile, si colloca nel punto di transizione fra la notte e il giorno, fra l’apparenza e il disvelamento.
4. Corpo aereo
Le anime che Dante incontra nell’aldilà sono fatte di ombra, ma è nel canto XXV che viene dissipato ogni dubbio circa l’identificazione di ciò che «è
chiamata ombra» con il corpo aereo delle anime separate. Dante si rivela
coerente con la teoria della percezione tomista28 e cioè col fatto che l’essere umano «solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d’intelletto degno»29.
Ma poiché concepisce l’anima in sé come un ente di natura puramente intelligibile – una pura forma aristotelica – il pellegrino della Commedia non
può farne diretta esperienza. Un paradosso – sembrerebbe – data l’essenzialità degli incontri e dei dialoghi con le anime trapassate nel meccanismo
narrativo del poema. È per giustificare il paradosso che Dante ricorre alla
teoria del corpo aereo dell’anima, presentata nel discorso di Stazio.
Una volta separata dalla carne, l’anima si trova con «memoria, intelligenza e volontade / in atto molto più che prima agute»30, ma non perde
quella «virtù formativa» che aveva già esercitato sulla materia del corpo
informandola secondo il proprio ordine. Come nelle fasi di sviluppo del
feto tale virtù aveva plasmato la materia passiva fino a formarne un individuo, così, post mortem, «la virtù formativa raggia intorno / così e quanto
ne le membra vive»31 esercitando la sua azione sull’aria circostante che,
come un arcobaleno32, «virtualmente» si tinge dell’apparenza di un corpo.
Tale apparenza è il corpo aereo, cioè l’ombra:
28 Cfr. Aristotele, De sensu et sensato, VI, 445b; Metaph., II, I, 993b; Tommaso, Exp.
Metaph., II lect. i, 282.
29 Pd., IV, 41-42.
30
Pg., XXV, 83-84.
31 Pg., XXV, 89-90.
32 Nel suo saggio Che cos’è un’ombra, E. Gilson offre una lettura imprecisa dei versi
91-94 («E come l’aere, quand’è ben piorno, / per l’altrui raggio che ’n sé si riflette / di di-
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Però che quindi ha poscia sua paruta,
è chiamata ombra; e quindi organa poi
ciascun sentire infino a la veduta.
Quindi parliamo e quindi ridiam noi;
quindi facciam le lagrime e’ sospiri
che per lo monte aver sentiti puoi.
Secondo che ci affliggono i disiri
e li altri affetti, l’ombra si figura;
e quest’ è la cagion di che tu miri33.
Grazie a questo corpo, le anime non solo possono essere viste, ascoltate e in qualche modo rappresentate, ma sono anche in grado di «sofferir tormenti, caldi e geli» e di portare i segni delle pene o dei premi cui sono sottoposte, come nel caso dell’anima di Forese, la cui magrezza costituisce la
«cagion» che ha portato il poeta a interrogare le sue guide intorno alla natura delle anime trapassate34. È proprio per via del loro corpo aereo ed etereo, impalpabile, inafferrabile, evanescente, che le ombre sono dette «vane».
Sono numerosi gli episodi in cui le anime vengono rappresentate in accordo a questa teoria; basti pensare al fatto che solo il corpo di Dante è in
grado di offrire «l’appoggio» ai raggi solari e proiettare l’ombra di sé, o all’incontro di Dante e Casella35, o allo struggente tentativo di abbraccio tra
Virgilio e Stazio: «Frate / non far, ché tu se’ ombra e ombra vedi…»36. Ed
versi color diventa addorno / così l’aere vicin quivi si mette») affermando: «Cosa sono dunque le ombre in quanto personaggi poetici? Non sono corpi solidi, ma non si può neanche
dire che non siano nulla, poiché abbiamo appena visto che sono fatte d’aria condensata o
ispessita da esalazioni o vapori umidi» (E. Gilson, Che cos’è un’ombra, in Id., Dante e Beatrice, a cura di B. Garavelli, Milano, Medusa, 2004, (pp. 47-70), p. 60). Gilson immagina
i corpi aerei come composti di diafana aria condensata perché intende far risalire l’ombracorpo aereo di Dante a un passo della Summa Theologiae (I, 51, 2) in cui Tommaso tratta
del corpo degli angeli. Il critico afferma infatti: «i corpi assunti dagli angeli, come le ombre, sono solo aria condensata», pur riconoscendo che «benché la risposta di Dante al problema dell’ombra si ispiri visibilmente a quella di Tommaso al problema dell’angelo, non
è la stessa» (E. Gilson, Che cos’è un’ombra, cit., pp. 62-63). La lettura di Gilson, impegnata
a individuare la fonte del passo in Tommaso, smarrisce il fatto che l’ombra dantesca non sia
semplice aria condensata, ma sia «addorn[a] di diversi color» «per l’altrui raggio che ’n sé
si riflette». L’ombra dantesca dunque non è opaca, ma risplende di diversi colori; è paradossalmente un’ombra luminosa, un’ombra colorata.
33 Pg., XXV, 100-108.
34
Cfr. Tommaso, Summa Theol., I, 51, 2.
35 Pg., III, 76-82, ma cfr. anche If., VI, 36.
36 Pg., XXI, 131-132.
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è sempre il corpo aereo a conferire alle anime quella evanescente impalpabilità grazie alla quale il poeta, forte anche di una illustre tradizione classica37, conferisce alle sue ombre un carattere liminare tra apparenza e vanità: «ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto!»38. La teoria del corpo aereo,
dunque, si rivela adeguata a rispondere a numerosi interrogativi che si poneva Dante, interrogativi accennati nell’Inferno, ribaditi nei primi versi del
Purgatorio e affrontati direttamente, come non più evitabili, nel canto XXV.
Da un lato il corpo aereo è il mezzo attraverso il quale il poeta può giustificare come sostanze senza corpo siano sottoposte alle diverse forme di
«contrapasso»39, dall’altro tale teoria costituisce il perno su cui Dante fonda la possibilità stessa della rappresentazione del mondo ultraterreno. È
solo grazie al corpo aereo che l’irrappresentabile – la condizione delle anime separate dal corpo – può essere rappresentato; è solo grazie a esso che
le pure forme si rivestono di un’apparenza, di una veste sensibile immateriale, che è vana, fuor che ne l’aspetto. Ancora una volta l’ombra accompagna un momento di transizione. Nella sua accezione di corpo aereo l’ombra si rivela essere il tramite di una mediazione, di neoplatonica ascendenza, tra il sensibile e l’intelligibile, e in questo modo denuncia la propria natura di forma simbolica palesandosi quale strumento attraverso cui l’intelligibile si rende accessibile al senso e alla comunicazione40.
L’ombra, che abbiamo già visto collocarsi in momenti di transizione fra
il visibile e l’invisibile, acquista da questo punto di vista anche una valenza poietica: costituisce l’espediente poetico grazie al quale Dante, e più
precisamente l’immaginazione produttiva di Dante, produce una veste rappresentativa – che tale rimane: vana, fuor che ne l’aspetto – con la quale
riveste l’irrappresentabile e l’inesperibile.
Tuttavia la dottrina del corpo aereo non viene seguita in modo sistematico da Dante. Esistono infatti diversi passi in cui le ombre vengono presentate come dotate di una indiscutibile fisicità. Nella voce Ombra dell’Enciclopedia dantesca, F. Tollemanche e D. Consoli sostengono che «non
par dubbio che D[ante], partito – non è da escludere – dal proposito di raffigurare le anime come vanità che par persona, ombre vane fuor che ne
l’aspetto, dimentichi egli stesso per primo tale vanità, trattando le o[mbre]
37 Cfr. Virgilio, Eneide, II, 792-794 e VI, 700-1, verosimili fonti dirette del tentato abbraccio fra Dante e Casella.
38 Pg., II, 79.
39 If., XXVIII, 142.
40 Cfr. supra, nota 7.
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come cose salde, allorché una particolare esigenza d’arte, un forte bisogno
di concretezza e incisività espressiva […] prende il sopravvento su precalcolate ragioni o tesi programmatiche»41.
Abbiamo visto come nel canto II del Purgatorio il tentativo di abbraccio fra Dante e Casella, vale a dire fra un corpo terreno e un corpo aereo,
risulti vano in virtù della differenza materiale fra i corpi. Nel canto VI invece leggiamo:
ma di nostro paese e de la vita
ci ’inchiese; e ’l dolce duca incominciava
«Matua…», e l’ombra, tutta in sé romita,
surse ver’ lui del loco ove pria stava,
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello
de la tua Terra!»; e l’un l’altro abbracciava42.
Qui assistiamo a un abbraccio compiuto fra due corpi aerei, due ombre. Una possibile giustificazione di questo gesto può derivare dall’analogia tra corpi carnali e corpi aerei: come i primi possono interagire fra loro
in virtù del comune sostrato materiale, così i corpi aerei possono fare altrettanto. Una spiegazione che permette di rendere conto della maggior parte degli episodi del poema, ma non di tutti. Abbiamo già accennato alla circostanza nella quale Stazio, resosi conto di trovarsi di fronte all’ombra di
Virgilio, si getta ai suoi piedi, ma non riesce ad abbracciarli:
Già s’inchinava ad abbracciar li piedi
al mio dottor, ma el li disse: «Frate,
non far, ché tu se’ ombra e ombra vedi».
Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate
comprender de l’amor ch’a te mi scalda,
quand’ io dismento nostra vanitate
trattando l’ombre come cosa salda»43.
Occorre però tenere conto del fatto che Stazio è un personaggio in una
condizione del tutto eccezionale nell’economia del poema. Egli ha infatti
trascorso «cinquecent’anni e più» sulla cornice degli avari e dei prodighi e
solo nell’esatto momento in cui Dante e Virgilio attraversano quel luogo,
41 Voce Ombra a cura di F. Tollemanche e D. Consoli, in Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto della enciclopedia italiana, 1970.
42 Pg., VI, 70-75.
43
Pg., XXI, 130-136.
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la sua anima sente «libera volontà di miglior soglia»44, sente cioè il desiderio di salire al cielo. La sua è un’ombra in procinto di non essere più umbratile, un’ombra sul punto di «trasumanare»45. Le anime del Paradiso infatti non saranno più ombre, ma «vive luci»46. Per questo motivo Stazio accompagnerà Dante oltre il limite al quale Virgilio è costretto a fermarsi,
vale a dire il Lete. Stazio è in sé una figura liminare, un’anima in una condizione intermedia fra ombra e luce, ed è probabilmente per questo stato,
che lo differenzia da Virgilio e dalle altre ombre Purgatorio, che non riesce a realizzare l’abbraccio47.
L’eccezionalità dell’anima di Stazio viene anche ribadita dal fatto che
Dante non esita a paragonare il suo apparire al manifestarsi di Cristo ai due
discepoli in Emmaus:
Ed ecco, sì come ne scrive Luca
che Cristo apparve a’ due ch’erano in via,
già surto fuor de la sepulcral buca,
ci apparve un’ombra, e dietro a noi venìa,
dal piè guardando la turba che giace;
né ci addemmo di lei, sì parlò pria,
dicendo: «O frati miei, Dio vi dea pace»48.
Stazio viene esplicitamente paragonato al Cristo risorto. Si tratta di un
paragone di particolare rilevanza dal momento che in questi versi si trova
la seconda occorrenza nel poema della parola Cristo49. Non solo, l’episodio biblico cui Dante fa riferimento (Lc, 24, 13-35) costituisce un passo
peculiare: «mentre discorrevano e discutevano, Gesù si avvicinò e si mise
a camminare con loro. Ma i loro occhi erano impediti dal riconoscerlo»50.
44
Pg., XXI, 68-69.
Pd., I, 70.
46 Il termine “ombra” nel senso di “corpo aereo dell’anima” è attestato nella terza cantica, ma viene progressivamente sostituito con quello di “luce” dal momento che con l’avanzare dell’ascensione le anime si mostrano sempre più luminose. In tale accezione “ombra”
si trova ancora in Pd., V, 107 (dove oltretutto è usato in modo antifrastico) fino alla sua ultima comparsa in Pd., IX, 72, ove designa propriamente la condizione delle anime negli altri regni.
47 Va detto, tuttavia, che tutto ciò entra in contraddizione con quanto afferma Stazio
stesso, nel momento in cui confessa di dimenticarsi della «nostra vanitate».
48
Pg., XXI, 7-13.
49 La prima è al verso 87 del canto precedente.
50 Lc., 24, 16-17.
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Cristo risorto appare a due discepoli e parla loro senza che questi lo riconoscano; li accompagna lungo il cammino fino a quando «il sole ormai tramonta»51 e si ferma con loro per la cena. «Or avvenne che mentre si trovava a tavola con loro prese il pane, pronunciò la benedizione, lo spezzò e lo
distribuì loro. Allora si aprirono i loro occhi e lo riconobbero. Ma egli disparve ai loro sguardi»52. Sia Stazio che Cristo compaiono senza rivelare la
loro identità – Stazio rivelerà il proprio nome solo al verso 91 dello stesso
canto – ma soprattutto entrambi si trovano in una condizione eccezionale,
vale a dire quella di Cristo risorto con il corpo glorioso e di Stazio ormai
liberato dalla rete del castigo purgatoriale; condizione puntualmente sottolineata da Dante: «già surto fuor de la sepulcral buca»53.
Il corpo glorioso di Cristo risorto è un elemento denso di mistero e il
cardine della vicenda cristiana; il corpo aereo di Stazio si colloca all’interno dell’economia del poema in una condizione analoga. Quello che qui
occorre notare è che sarà proprio questa ombra-non ombra a illustrare la
teoria del corpo aereo – l’ombra che non fa ombra – come se il problema
venisse affrontato nel momento stesso del suo superamento, come se il problema della rappresentazione trovasse giustificazione solo nel suo compimento. Il corpo risorto di Cristo è precisamente il limite in cui il divino e
l’umano si trovano a coincidere nel modo più compiuto, il punto in cui il
Verbo e la carne vengono a sovrapporsi. Analogamente l’anima di Stazio
si trova in una posizione liminare, in transizione dall’ombra alla luce: è anch’essa in partenza verso un altro luogo e un’altra condizione. E in modo
analogo il corpo aereo è il punto in cui sensibile e intelligibile trovano conciliazione nella realizzazione dell’immagine poetica.
Bisogna notare che è questa anima eccezionale a fare luce su quella
questione alla quale Virgilio, nel canto III, non ha saputo dare risposta, perché «matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via
/ che tiene una sustanza in tre persone»54: è questa ultima ombra, per così
dire un’ombra in dissoluzione, a sviluppare i nodi che la ragione non può
sciogliere. Cristo, nella vicenda cristiana, costituisce quella figura che per-
51
Ivi, 24, 29.
Ivi, 24, 30-31.
53 Come nota anche la maggior parte dei commentatori, cfr. ad esempio A.M. Chiavacci-Leonardi: «L’anima che a un tratto sorge in piedi e si avvia al paradiso è ben propriamente
assomigliata al Cristo risorto dalla tomba» (in Commedia, 3 voli, a cura di A.M. Chiavacci-Leonardi, Milano, Mondadori, 1994, vol. 2, p. 616).
54 Pg., III, 31-36.
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mette al divino di mostrarsi senza abbagliare; nel corpo del Cristo incarnato
il Verbo divino si fa comprensibile, per così dire si riduce a misura della
creatura, e a tale misura subisce la passione. Nella parola e nelle azioni del
Figlio i fedeli possono intra-vedere il Padre. La figura di Cristo può essere intesa come ombra – ombra nel senso che fin qui si è delineato – del Padre55. Come il corpo aereo è l’apparenza umbratile con cui l’intelligibile si
rende apprensibile, così il Verbo divino incomprensibile si riveste di un
corpo di carne che parla la lingua degli uomini.
5. «Rationale» e «sensuale»
La teoria del corpo aereo autorizza la rappresentazione poetica delle anime separate dal loro corpo terreno e giustifica la possibilità di rappresentare e interagire con forme pure, vale a dire di trasporre sul piano della sensibilità un oggetto che di per sé non può avere manifestazione sensibile.
Le parole di Stazio sono rivelatrici:
Però che quindi ha poscia sua paruta,
è chiamata ombra; e quindi organa poi
ciascun sentire infino a la veduta56.
La perifrasi organare ciascun sentire infino a la veduta allude al compito precipuo che Dante assegna al linguaggio, vale a dire il portare a manifestazione sensibile concetti insiti nella mente dell’uomo. Questa infatti
è la funzione del linguaggio nel De vulgari eloquentia, che dante deriva
dalla Summa Theologiae di Tommaso: «Nihil est enim aliud loqui ad alterum, quam conceptus mentis alteri manifestare»57. Se si interpreta letteralmente il verbo «organare» come un “manifestare attraverso uno strumento/un organo”, risulta chiaro come l’ombra-corpo aereo svolga sul piano della finzione poetica una funzione analoga a quella che la lingua realizza sul piano della comunicazione ordinaria.
55
Un passo del Vangelo di Luca intorno all’annunciazione autorizza una simile interpretazione: «la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra; perciò quello che nascerà
sarà chiamato santo, Figlio di Dio». Lc., 1, 35.
56 Pg., XXV, 100-102.
57 Tommaso, Summa Theol., I, 107, I e III.
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Cum igitur homo non nature instinctu, sed ratione moveatur, et ipsa ratio vel
circa discretionem vel circa iudicium vel circa electionem diversificetur in
singulis, adeo ut fere quilibet sua propria specie videatur gaudere, per proprios actus vel passiones, ut brutum animal, neminem alium intelligere opinamur. Nec per spiritualem speculationem, ut angelum, alterum alterum introire contingit, cum grossitie atque opacitate mortalis corporis humanus
spiritus sit obtectus58.
Fedele alla gnoseologia aristotelico-tomista, l’ingegno umano «solo da
sensato apprende». Tuttavia l’intelletto possibile non appartiene al mondo
elementato, ma è una «angelica farfalla»59 di origine divina e, come tale,
partecipa della sfera intelligibile. La creatura umana è l’ente intermedio
per eccellenza, e intermedio è il suo modo di conoscere le cose. Come le
altre creature dotate di anima sensitiva, l’uomo apprende dal mondo dei
sensi, ma, come le intelligenze angeliche, è in grado di accedere alle essenze puramente intelligibili.
La teoria della creazione dell’anima individuale, così come è esposta
nel Convivio60 e nel canto XXV del Purgatorio, costituisce lo sfondo filosofico a partire dal quale interpretare la riflessione dantesca sul linguaggio.
Per Averroè l’intelletto possibile è una sostanza separata dalla materia e
disgiunta dall’anima sensitiva che è forma e atto del corpo, alla quale si
unisce solo nell’operazione dell’intendere. Per Tommaso invece l’intelletto è una facoltà dell’anima umana che Dio crea alla fine del processo genetico e che sostituisce la precedente anima sensitiva, la quale, ormai inutile, si corrompe. Dante, non solo poeta, ma anche e soprattutto filosofo
originale, «dissente – come segnala B. Nardi – dall’uno e dall’altro. Contro Averroè e contro Tommaso, egli ritiene che l’intelletto, creato da Dio,
si congiunge coll’anima sensitiva, sviluppatasi dalla virtù attiva del seme,
per formare con essa un’alma sola»61. L’anima del feto, attraverso l’azione della virtù informativa, coagula in sé le nature dell’anima vegetativa e
sensitiva, ma quando «l’articular del cerebro è perfetto / lo motor primo a
lui si volge lieto / sovra tant’arte di natura, e spira / spirito novo, di vertù
58
De vulgari eloquentia, I, III, 1.
Pg., X, 125. Dante riprende un luogo comune della tradizione classica che assume il
doppio significato di anima e farfalla del termine greco yucéh.
60
Convivio, IV, XXI, 2-5.
61 B. Nardi, Studi di filosofia medievale, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1960,
p. 54.
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repleto»62. Solo a quel punto la generazione dell’anima umana è compiuta
e «l’angelica farfalla» completa la sua metamorfosi da «animal» a «fante». Proprio perché quella umana è «un’alma sola», sintesi di «natura» e
«spirto novo», al momento della separazione dal corpo non torna a essere
pura forma, ma porta con sé anche quella virtù informativa che è il motore dello sviluppo naturale dell’individuo, e che, proprio per questo, conserva memoria dell’esistenza terrena: «ne porta seco e l’umano e il divino»63. È da questa peculiarità che deriva all’anima umana il rivestimento di
un corpo sottile e, grazie a questo corpo dell’anima, la conservazione di
un’individualità, di una storia, un’esperienza e di una conoscenza personale
anche dopo la separazione dalla carne e la trasformazione dell’individuo da
«cosa salda» in «ombra». L’anima umana ha dunque una natura sostanzialmente ancipite: come l’omonima «farfalla» (yuch
é ), essa non ha un luogo fisso potendosi librare tra il mondo sublunare e quello celeste e rimane
una pur nella pluralità delle fasi del suo ciclo metamorfico.
Sulla base di questa concezione dell’anima si comprendono le ragioni
filosofiche per le quali anche la conoscenza umana, e di conseguenza il suo
strumento, che è il linguaggio, debbano essere ibridi: come il loro fattore,
partecipano a loro volta di entrambe le nature. Secondo Dante il linguaggio è costituito al contempo da una glossa e da un logos, è formato da una
componente sensibile e materiale – il suono – e da una componente puramente intelligibile – il significato. Poiché negli effetti è possibile rintracciare la natura delle cause, nel linguaggio si rende manifesta una doppia
matrice, sensuale e razionale, rivelatrice della natura ancipite della conoscenza che lo ha forgiato per farne uso:
Oportuit ergo genus humanum ad comunicandas inter se conceptiones suas
aliquod rationale signum et sensuale habere: quia, cum de ratione accipere habeat et in rationem portare, rationale esse oportuit; cumque de una ratione in aliam nichil deferri possit nisi per medium sensuale, sensuale esse
oportuit. Quare, si tantum rationale esset, pertransire non posset; si tantum
sensuale, nec a ratione accipere nec in rationem deponere potuisset. Hoc
equidem signum est ipsum subiectum nobile de quo loquimur: nam sensuale quid est in quantum sonus est; rationale vero in quantum aliquid significare videtur ad placitum64.
62
Pg., XXV, 69-72.
Ivi, 81.
64 De vulgari eloquentia, I, III, 2.
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Come l’ombra-corpo aereo porta a manifestazione sensibile i moti invisibili delle facoltà dell’anima-pura forma, così nel mondo terreno l’uomo esprime i propri pensieri liberi e individuali attraverso il linguaggio.
Solo attraverso il medium linguistico diventa possibile esprimere extra contenuti intelligibili, per loro natura intangibili. Il linguaggio viene quindi a
caratterizzarsi come l’analogo di ciò che è l’ombra nella finzione poetica.
Umbratile dunque è anche il linguaggio poetico, cioè la forma nella quale
il linguaggio realizza il massimo della sua potenzialità espressiva, e il poema è l’esempio più perspicuo di questa caratteristica. La Commedia infatti realizza la propria umbratilità, vale a dire la propria costituzionale doppia polarità, nel suo esprimere lo «status animarum post mortem»65 (un
«concetto» per definizione non esperibile in hac vita) attraverso l’intera
progressione delle gradazioni di luce intermedie, cioè attraverso un percorso che va dal «luogo d’ogne luce muto» alla più diafana «luce intellettual». Stando all’argomentazione del De vulgari eloquentia, la poesia è
quell’attività in cui il nuovo linguaggio «illustre, cardinale, aulicum et curiale»66 prende forma attraverso l’arte dei poeti67. La poesia della Commedia esprime al grado sommo quel linguaggio che proprio per la sua natura
umbratile è capace di illuminare come il tenue chiarore dell’alba. La
poesia è per eccellenza «lucerna», come lo è l’ombra di Virgilio, poeta per
antonomasia, i cui versi sono stati capaci di «stenebrare» il cammino oscuro nel viaggio delle prime due cantiche.
6. «Lucerna»
La concezione dell’ombra come l’elemento cardine nel passaggio dalla tenebra alla luce è identificabile nel poema anche nella declinazione meta65
Epistola XIII, 24.
De vulgari eloquentia, XVI.
67 Come afferma con chiarezza K.O. Apel in L’idea di lingua nella tradizione dell’umanesimo da Dante a Vico (1963), trad. it. di L. Tosti, Bologna, il Mulino, 1975, p. 153:
Dante nel trattato arriva a delineare «l’idea platonica di una lingua colta italiana, che da
una parte si libri come norma e misura al di sopra dei dialetti realmente esistenti (Kant direbbe: come principio regolatore, a cui non può corrispondere nulla di empirico) e dall’altra tuttavia abbia un riflesso (redolet, alla lettera: «rende odore») maggiore o minore in ogni
empirico atteggiamento linguistico degli Italiani. […] Questa attualizzazione, a sua volta,
è opera dei poeti eminenti, che con essa testimoniano simultaneamente la realtà del vulgare illustre come comune forma colta di tutti i dialetti italiani».
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forica del termine «lucerna», nel significato di lume artificiale che mostra
nell’oscurità la via verso la meta. In questa accezione il sostantivo è attestato una prima volta nell’Inferno68, ma le occorrenze si fanno fitte solo nel
Purgatorio, ove il termine compare una prima volta nel canto I, nelle parole con le quali Catone chiede ragione ai due pellegrini della liceità della
loro uscita dalla «pregione etterna» dell’Inferno e del loro inatteso viaggio
«contro al cieco fiume»:
Chi v’ha guidati? O che vi fu lucerna?
Uscendo fuor de la profonda notte
che sempre nera fa la valle inferna?69
La maggior parte dei commentatori interpreta la «lucerna» di questo
verso come allegoria della grazia illuminante70, autorizzati in ciò dall’origine scritturale della sovrapposizione lucerna-grazia71. Tale lettura rischia
però di smarrire la connotazione più propria che Dante assegna alla lucerna nel suo essere lume artificiale.
Chi ha «guidato» Dante attraverso «la valle inferna» è Virgilio. E poiché Virgilio è allegoria della ragione, sembra ufficio della ragione e non
della grazia quello di avere indirizzato il transito nella «profonda notte».
La grazia inoltre, stando alla teologia scolastica72, è un atto di assoluta libertà da parte del divino, che interviene nella storia senza l’ausilio di alcun
intermediario. È la luce abbacinante di un evento soprannaturale, fuori dal
tempo, che non ha bisogno né possibilità di spiegazione, di fronte alla quale perde legittimità e senso non solo la richiesta di spiegazione pretesa dall’Uticense, ma anche quella nozione di «legge» inderogabile («son le leg-
68
If., XXVIII, 124.
Pg., I, 43-45.
70 Cfr. ad esempio (con riferimento anche all’immagine di Pg., VIII, 112) il Buti, l’Ottimo, il Landino e molti altri. Non mancano tuttavia commentatori che invece intendono la
metafora della lucerna-cera nel senso di lume della ragione naturale, come Benvenuto da
Imola, il Serravalle e R. Hollander (in R. Hollander, Purgatorio, New York, Doubleday/Anchor, 2003), il quale si stupisce per la prevalenza della lettura di “lucerna” come
“grazia”: «It is strange, in light of other images in the poem that make Virgil a light for
Dante (e.g., Purg. I, 43: lucerna; Purg. VI, 29: luce; Inf. I, 82; Purg. XVIII, 11; Purg. XXII,
68: lume) that so few commentators have thought that lucerna here even might refer to
Virgil».
71 Cfr. Salmo 118, 105: «lucerna pedibus meis verbum tuum».
72 Cfr. Tommaso. Summa Theol., I, II, 110-111.
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gi d’abisso così rotte?») alla quale il guardiano del Purgatorio si appella73.
È dunque la grazia altra cosa dalla lucerna artificiale che schiarisce, passo
dopo passo e nella misura del possibile, l’itinerario dantesco. Intendere il
sostantivo lucerna nel significato di grazia rischia di forzare il senso letterale del verso dantesco a meno di non entrare in contraddizione con la stessa struttura teologica del poema, per la quale la grazia ha una funzione e,
soprattutto, un’origine precisa. È innegabile che il percorso di Dante sia
sempre garantito dalla presenza di una grazia del tutto eccezionale74, ma
Dante sembra volere indirizzare l’attenzione più sulla figura di Virgilio che
non su Dio, su Maria o su Beatrice, dai quali discende la funzione di guida assunta dal poeta latino.
Virgilio è più di chiunque altro il personaggio che, a partire dal lume
della ragione, illumina il percorso dantesco. Non è un caso allora che Dante associ esplicitamente alla figura di Virgilio l’elemento simbolico della
«lucerna», quale lume artificiale e umano:
Se la lucerna che ti mena in alto
truovi nel tuo arbitrio tanta cera
quant’è mestiere fino al sommo smalto75.
È quindi possibile rintracciare un legame di natura metaforico-simbolica fra il lume artificiale, il personaggio di Virgilio, e la facoltà della ragione umana di illuminare la via76.
A tale riguardo si può notare che il carattere liminare della figura di Virgilio intesa come allegoria della ragione naturale trova una corrispondenza nel luogo al quale Dante lo assegna, il Limbo: l’unico luogo dell’Inferno che non sia immerso nell’oscurità. È illuminato infatti, sia pure solo in
parte, da un «foco»77 ed è precisamente nella parte illuminata del Limbo
che Virgilio dimora insieme agli altri «spiriti magni»78. Le anime assegna73
Pg., I, 46.
Come riconosce anche Virgilio stesso, cfr. Pg., I, 52-54: «Da me non venni / donna
scese del ciel per li cui prieghi / de la mia compagnia costui sovvenni».
75 Pg., VIII, 112-114.
76 Il rapporto fra ragione naturale e ragione illuminata dalla grazia costituisce una vexatissima quaestio della critica dantesca. Cfr. ad esempio M. Corti, La felicità mentale, in
M. Corti, Scritti su Cavalcanti e Dante, Torino, Einaudi, 2003; B. Nardi, Dante e la cultura medievale, Roma-Bari, Laterza, 1985; il commento al Convivio a cura di C. Vasoli e D.
De Robertis, Milano-Napoli, Ricciardi, 1988.
77 If., IV, 68.
78
Ivi, 119.
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te a quel girone sono le uniche della prima cantica a vivere in una condizione di nostalgia, di desiderio:
Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio79.
«Color che son sospesi»80 si trovano nel Limbo in virtù di una magnanimità che hanno raggiunto per mezzo delle sole facoltà naturali, senza essere illuminati dalla Rivelazione, dal momento che non hanno ricevuto la
Buona Novella. Tale eccezionale condizione nella struttura delle pene dell’inferno81 è resa possibile – o è allegoricamente rappresentata – dalla presenza simbolica del «foco» che priva le anime di quella cecità che invece
caratterizza tutti gli altri dannati82. Si comprende allora che la luce artificiale che permette alle anime del Limbo di provare desiderio è, già nell’Inferno, simbolo della ragione umana.
La relazione simbolica fra ragione e lucerna e la sua identificazione nella figura di Virgilio, già impostata nel canto IV dell’Inferno, arriva a piena
maturazione nei canti dedicati alla celebrazione del poeta latino. Leggiamo
le parole di Stazio e di Dante:
Al mio ardor fuor seme le faville
che mi scaldar, de la divina fiamma
onde sono allumati più di mille
de l’Eneida dico, la qual mamma
fummi e fummi nutrice poetando
sanz’essa non fermai peso di dramma.
[…]
Questi che guida in alto li occhi miei,
è quel Virgilio dal qual tu togliesti
forza a cantar de li uomini e d’i dèi83.
Stazio è stato acceso nell’amore cristiano dalle «faville» di quella «divina fiamma» che traluce dal poema di Virgilio, e che, come «mamma» e
«nutrice», ha propiziato per lui una ri-nascita che gli varrà l’ingresso tra i
79
Ivi, 40-42.
If., II, 52.
81 L’unica pena assegnata alle anime del Limbo è l’esclusione dai premi.
82
Tale rapporto simbolico viene supportato anche da una corrispondenza morfologica:
In If., IV, 103 tale luce viene già definita «lumera».
83 Pg., XXI, 94-98 e 124-126.
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beati. In questa immagine della poesia latina come nutrice potrebbe nascondersi un richiamo a un passo del De vulgari eloquentia:
Vulgarem locutionem appellamus eam, qua infantes adsuefiunt ab absistentibus, cum primitus distinguere voces incipiunt; vel, quod brevius dici
potest, vulgarem locutionem asserimus, quam sine omni regula, nutricem
imitantes, accipimus84.
Dante sembra suggerire la possibilità di uscita da una sorta di condizione in-fantile – quella rappresentata delle false credenze pagane – attraverso la lingua poetica. La poesia di Virgilio è stata in grado di «stenebrare»85 la verità a Stazio, pur con i mezzi delle sole facoltà umane. Solo a
questo punto, nel sentimento di commossa gratitudine verso la poesia di un
dannato, manifestato da un’anima innalzata alla beatitudine si compie il
significato di quella lucerna che Dante aveva già posto nel Limbo, e si dispiega la figura di Virgilio come eccellenza dell’umana ragione; di una ragione che cantando «stenebra»:
Se così è, qual sole o quai candele
ti stenebraron sì, che tu drizzasti
poscia di retro al pescator le vele?».
Ed elli a lui: «Tu prima m’inviasti
verso Parnaso a ber ne le sue grotte
e prima appresso Dio m’alluminasti.
Facesti come quei che va di notte
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte»86.
La poesia «allumina». Non si tratta di luce diretta, di manifestazione
patente, di diretto e immediato squadernamento, ma di ombra. Ombra intesa come limite tra tenebra e luce, come lucerna, come alba. Una luce artificiale e mai meridiana, la cui funzione del rischiarare comporta quella
dell’ombreggiare. Essa rappresenta l’ambiguità, o meglio, la natura ancipite dell’ombra, che è la stessa ambiguità del Purgatorio, la stessa della doppia e ancipite natura umana, la stessa che connota – come vedremo – la dimensione conoscitiva e ontologica del poema. È chiaro che Dante intende
fare come e più di quello che Virgilio («lo mio maestro e lo mio autore /
84
De vulgari eloquentia, I.
Pg., XXII, 62.
86
Pg., XXII, 61-69.
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[…] solo colui da cui io tolsi / lo bello stilo…») ha saputo e potuto fare. Virgilio infatti si fermerà prima del Lete, mentre Dante sarà in grado di ascendere fino all’Empireo. Più di Virgilio, ma non altro rispetto a Virgilio; più
potente della sua lucerna, ma non altro da una lucerna, nemmeno la poesia
di Dante potrà uscire dalla sua umana limitatezza, e così la Commedia non
potrà fare altro che illuminare la via, fare luce in mezzo alle tenebre. Per
quanto il percorso di Dante differisca da quello di Virgilio – Dante è perfettamente consapevole della necessità della rivelazione, della grazia e della fede per arrivare alla visione ultima – non per questo la sua poesia cesserà di essere umbratile. Dante sembra presentarsi come quei che va di notte, che porta il lume dietro e altri giova, ma pria di sé ha una luce dotta87.
Anche per questo, e sebbene illuminata dalla rivelazione e dalla Grazia, la
sua poesia non sarà in grado di sfuggire al limite invalicabile dell’ombra
cui anche Virgilio fu sottoposto: il limite della creatura umana e del suo
linguaggio, quello di essere corpo e mente, animale e razionale, logos e
glossa.
7. Umanesimo dantesco
Dante sembra intendere l’Eneide come una sorta di modello figurale, quasi che la Commedia si proponga di essere il compimento di quel percorso
che era iniziato con Virgilio e con la sua poesia88. I versi virgiliani sono
stati in grado di avvicinare gli uomini alla salvazione, illuminati solo dalla flebile luce della ragione umana, e la testimonianza di Stazio suggella
questo riconoscimento. Dante vede in Virgilio una sorta di profeta inconsapevole, un poeta che è stato in grado di spingere il proprio sguardo nostalgico fino a un’intuizione del mistero, capace di illuminare con la lucerna della sua arte un percorso che era a lui stesso oscuro. È significativo
che Dante espliciti questa posizione una volta raggiunto il Paradiso terrestre, vale a dire nei versi del Purgatorio nei quali fanno la loro comparsa le ultime ombre del poema. Qui Dante abbandona la guida di Virgilioragione per abbracciare quella di Beatrice-teologia ed è a questo punto del
viaggio che, insieme al mutamento di prospettiva, le parole di Virgilio as87
Cfr. Pg., XXII, 67-69: «Facesti come quei che va di notte, / che porta il lume dietro
e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte».
88 Cfr. If. II, 13-18, ove Dante sembra ammettere una continuità fra gli inferi virgiliani
e l’inferno dantesco.
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sumono il loro pieno significato: Virgilio è stato il poeta in grado di spingersi fino al Paradiso terrestre, il primo a penetrare l’«ombra perpetua»
della «divina foresta spessa e viva»89. Virgilio è stato colui che più di ogni
altro fu in grado di avvicinarsi alla visione di Matelda e del luogo eletto a
«nido» per l’umana natura.
La rappresentazione virgiliana del mondo agreste è all’origine dell’Eden
dantesco così come la nostalgia di Virgilio per la iustitia che ha abbandonato il mondo90 è all’origine del personaggio di Matelda-Astrea-Giustizia91. Non sorprende allora che Matelda appaia innanzitutto come una creatura virgiliana, introdotta attraverso riferimenti rigorosamente classici (Proserpina, Venere, Leandro), i quali però vengono successivamente superati
dall’autorità della parola rivelata, chiamata a «disnebbiare» le ombre che
ancora ingombrano la tradizione pre-cristiana:
Voi siete nuovi, e forse perch’ io rido»,
cominciò ella, «in questo luogo eletto
a l’umana natura per suo nido,
maravigliando tienvi alcun sospetto;
ma luce rende il salmo Delectasti,
che puote disnebbiar vostro intelletto92.
È in questi versi che la seconda grande fonte del poema – quella teologica e scritturale – completa quella virgiliana. «Io non Enea, io non Paulo
sono»93 aveva affermato Dante all’inizio del percorso; ora, fra le fronde del
Paradiso terrestre, a Enea si affianca Paolo, a Virgilio succede Beatrice.
Questo passaggio non avviene tuttavia senza che il ruolo di Virgilio non
riceva il suo pieno riconoscimento:
Quelli ch’anticamente poetaro
l’età de l’oro e suo stato felice,
forse in Parnaso esto loco sognaro.
Qui fu innocente l’umana radice;
qui primavera sempre e ogne frutto;
nettare è questo di che ciascun dice».
89
Pg., XXVIII, 2 e 31-33.
Cfr. Georg., II, 473-474.
91 Cfr. C.S. Singleton, La poesia della Divina Commedia, trad. it. G. Prampolini, Bologna, Il Mulino, 1978, pp. 337-357.
92 Pg., XXVIII, 76-81.
93 If., II, 32.
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Io mi rivolsi ’n dietro allora tutto
a’ miei poeti, e vidi che con riso
udito avëan l’ultimo costrutto;
poi a la bella donna torna’ il viso94.
Ma Virgilio non ha potuto che intravedere la condizione edenica poiché
non ha ricevuto la Buona Novella – le «luci»95 di Beatrice – e perciò il suo
percorso si arresta al fiume, senza poter attraversare quell’ultimo rito di
purificazione attraverso il quale si entra nel regno della grazia. C. S. Singleton osserva che il fiume costituisce «una frontiera che segna il confine
del Paradiso vero e proprio. Finché il pellegrino non lo ha attraversato, il
ritorno all’Eden non è completo. Soltanto quando è sulla “beata riva” dove sono Beatrice e Matelda, egli si trova nel luogo in cui Dio pose l’uomo
dopo averlo inizialmente creato fuori del giardino, secundum naturam»96.
Virgilio è la guida che permette il riscatto dell’individuo-Dante e che lo
guida fino alla sponda del Lete, coronato di un arbitrio «libero, dritto e sano»97. «Lo schema della formazione originale dell’uomo si ripete così nella ri-formazione di un uomo di nome Dante, che per primo perviene con
Virgilio a una condizione di giustizia entro la proporzione della sua natura e sotto la luce naturale, e poi, in un secondo momento, all’Eden vero e
proprio attraversando il […] fiume fino alla giustizia di Beatrice che trascende davvero ogni misura umana»98. Ma la condizione di giustizia sovraumana è esattamente quella cui Virgilio sa di non poter arrivare.
Una fonte rilevante per questi ultimi canti del Purgatorio sono alcuni
versi del libro II delle Georgiche. In questo testo Virgilio, figura in questo
emblematica del Limbo dantesco, cui è concesso il desiderare ma precluso l’appagamento del desiderio, vorrebbe accedere alle cose celesti, ma sa
di non esserne in grado causa un «frigidus circa […] praecordia sanguinis», e per questo accetta di arrestarsi alla contemplazione di una bellezza
agreste che Dante interpreta come giustizia naturale:
felix qui potuit rerum cognoscere causas,
atque metus omnis et inexorabile fatum
subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari.
94
Pg., XXVIII, 139-148.
Pd., XVIII, 55.
96
C.S. Singleton, La poesia della Divina Commedia, cit., pp. 447-448.
97 Pg., XXVII, 143.
98 C.S. Singleton, La poesia della Divina Commedia, cit., pp. 447-448.
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Fortunatus et ille, deos qui novit agrestis,
Panaque Silvanumque senem Nymphasque sorores99.
Come ha mostrato R.A. Shoaf100, quando Dante, nel XXX canto del
Purgatorio, deve evocare il passaggio cruciale dalla giustizia naturale a
quella sovrannaturale di Beatrice, ricorre proprio all’immagine delle Georgiche del gelo intorno al cuore, ma la riformula secondo la prospettiva
cristiana chiamando in causa la rivelazione e la grazia che sciolgono il gelo virgiliano in un pianto liberatore:
Sì come neve tra le vive travi
per lo dosso d’Italia si congela,
soffiata e stretta da li venti schiavi,
poi, liquefatta, in sé stessa trapela,
pur che la terra che perde ombra spiri,
sì che par foco fonder la candela;
così fui sanza lagrime e sospiri
anzi ’l cantar di quei che notan sempre
dietro a le note de li etterni giri;
ma poi che ’ntesi ne le dolci tempre
lor compatire a me, par che se detto
avesser: ‘Donna, perché sì lo stempre?’,
lo gel che m’era intorno al cor ristretto,
spirito e acqua fessi, e con angoscia
de la bocca e de li occhi uscì del petto101.
Se – come sostiene Shoaf – Virgilio nelle Georgiche teme di non poter
raggiungere l’immortalità della fama a causa del frigidus del suo cuore
«perché non può immaginare alcuna continuità fra la sua parte mortale […]
e la «scintilla» (semina) che aspira alle altezze e ai misteri dell’universo»,
nella prospettiva cristiana di Dante «la condizione che Virgilio temeva si rivela proprio essere […] realmente un mezzo per pervenire alla salvezza, alla trascendenza, alla giustizia. […] Ciò che è mortale non è gettato via, ma
innalzato, dentro una nuova forma, così come le lacrime sono ghiaccio in
una forma differente». Al momento del superamento della prospettiva na99
Georg., II, 490-494.
R.A. Shoaf, «Lo gel che m’era intorno al cor» (Purgatorio 30. 97) e «Frigidus circum praecordia sanguis» (Georgiche II. 484): la trascendenza dantesca di Virgilio, in G.C.
Alessio, R. Hollander (a cura di), Studi americani su Dante, Milano, Franco Angeli, 1989,
pp. 185-201.
101 Pg., XXX, 85-99.
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turale, Dante si volta verso il proprio «maestro» e «autore» e nel fare questo a un tempo lo abbandona e gli offre la ricompensa più grande: egli «“redime” Virgilio. Egli completa Virgilio come la grazia completa la natura»102; e il racconto dantesco prosegue in una linea di perfetta continuità il
percorso che era stato indicato dal più grande dei poeti e degli intelletti103.
In questo passaggio così delicato ritorna ancora una volta il simbolo dell’ombra. «Lo gel che m’era intorno al cor ristretto» si scioglie come la «candela» viene fusa dal «foco»104 o come il ghiaccio e le nevi raccolte dall’inverno vengono disgelate a mano a mano che la terra «perde ombra». Stiamo entrando in un dominio umbratile di natura diversa, perché diversa è la
sua fonte. All’apparire di Beatrice – «viva luce», e non più «lucerna» – Dante ricorre di nuovo alla simbologia dell’ombra, ma questa volta per negarla. Le ombre della foresta dell’Eden, fra le quali Matelda-Giustizia si mostra, vanno sempre più assottigliandosi con l’avvicinarsi della visione di
Beatrice; la terra via via «perde ombra» e l’apparire della «gentilissima»
coincide in modo esplicito con la negazione dell’elemento umbratile e con
il superamento della poetica virgiliana. All’apparire del lume divino le ombre si dissolvono: è la rivelazione, è la dissoluzione di ogni «velame».
O isplendor di viva luce etterna,
chi palido si fece sotto l’ombra
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,
che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te qual tu paresti
là dove armonizzando il ciel t’adombra,
quando ne l’aere aperto ti solvesti?105
Quell’ombra e quella fonte del Parnaso sono verosimilmente sia la foresta del monte sacro ad Apollo e la sua fonte Castalia, sia la «divina foresta
spessa e viva» e il Lete del Purgatorio, e sono chiamate a suggellare un’ulti102
R.A. Shoaf, «Lo gel che m’era intorno al cor», cit., pp. 191-192.
A titolo di suggestione si può richiamare qui quel «poca favilla gran fiamma seconda: / forse di retro a me con miglior voci / si pregherà perché Cirra risponda» [Pd., I, 34-36].
104
Ulteriore manifestazione della nostra lucerna.
105 Pg., XXXI, 139-145. Notevole in questo passo la rima ricca e derivativa in “ombra”.
È inoltre interessante notare che commentando questo passo il Landino faccia riferimento
al concetto di «divino furore»: «Et soggiugne che nessuno né per impallidire sobto e lauri
di Parnaso, né per bere nella fonte delle muse, fu sì inspirato di divino furore che potessi
exprimere qual fussi la luce di Beatrice quando fu scoperta» e ancora: «et imita Platone che
dixe la medesima sententia dimostrando che el luogho dove è Idio né huomo mai lo vide,
né poeta alchuno lo discripse».
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ma volta la coincidenza tra il Parnaso virgiliano e l’Eden dantesco. Il divino
e la rivelazione sono «viva luce», ma quello della poesia rimane pur sempre
un tentativo estremo («tentando a render te») entro i limiti, forzati fino all’estremo del linguaggio. La poesia di Dante, la sua «navicella dell’ingegno»
ormai si prepara a solcare un mare che «già mai non si corse», ma nemmeno a questo punto potrà uscire dal limite ancipite dalla propria natura.
L’ombra viene a essere allora la manifestazione, interna al poema, di
quello che è il poema stesso: il tentativo di «organare» in un’apparenza
umbratile – indizio e parvenza – un «concetto» che è in sé pura luce abbagliante – per ciò stesso in-visibile – ma che può essere intra-visto ed espresso in forma obliqua, attraverso un mediatore – il linguaggio – caratterizzato
anch’esso dalla propria natura intermedia e umbratile:
Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
è tanto, che non basta a dicer ‘poco’106.
Il linguaggio del poema è allora ombra, sebbene ombra del tutto eccezionale: si tratta di quell’ombra profetica che si crea «presso al mattin»107,
di quell’ombra-lucerna che addita la sorgente di ogni luce cui essa partecipa e cui essa continuamente tende. Questa è l’essenza dell’arte poetica e
la più alta finalità della parola in versi. Questo è il grandioso merito che Stazio riconosce a Virgilio:
Per te poeta fui, per te cristiano108.
Questo è infine il più alto scopo del poema dantesco: notare le parole che
arrivano dall’eterno, esprimere nella lingua dei vivi una verità immortale.
Tu nota; e sì come da me son porte,
così queste parole segna a’ vivi
del viver ch’è un correre a la morte109.
Come il Verbo ha dovuto incarnarsi per parlare alla creatura, come il concetto intelligibile deve trovare espressione linguistica sensibile, come la poesia deve usare figure e immagini, così il poema non può uscire dal limite dell’ombra. Il poema dantesco nella sua complessità e interezza si rivela essere
106
Pd., XXXIII, 122.
Cfr. supra p. 68.
108 Pg., XXII, 73.
109 Pg., XXXIII, 52-54.
107
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un’ombra che «manifesta», un’ombra che «allumina», un’ombra che tenta di
indicare, rimanendo all’interno dei limiti umani, l’esperienza dell’ineffabile:
«trasumanar significar per verba / non si poria; però l’essemplo basti / a cui
esperienza grazia serba110. La poesia della Commedia appare quasi mimesi
dell’incarnazione, un «segnare», un additare per verba alla verità del Verbo.
Un grandioso ossimoro organato con mezzi umani e sensibili addirittura
ostentati111, per alluminare112 un oggetto ineffabile, incomunicabile, transumano, ultrasensibile. Una «favilla sol» della «somma luce»113 come erano
stati i versi virgiliani per Stazio, o una «lucerna» artificiale, «vana fuor che
ne l’aspetto», che permette di intra-vedere la fonte di luce114.
Trattare le ombre «come cosa salda» e dimenticare «la loro vanitate» è
ciò che ogni artista opera nel momento in cui tenta di dare forma al proprio
concetto in un signum; significa comprendere la natura equivoca e ambivalente della comunicazione umana, accettare il limite stesso del linguaggio e spingersi fino ai confini dell’ineffabile realizzando un fictum che tuttavia mostri l’ombra del vero. Solo così si chiarisce il senso dell’invocazione proemiale che apre il Paradiso:
O divina virtù, se mi ti presti
tanto che l’ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,
vedra’mi al piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno115.
Solo così possiamo comprendere lo scopo supremo e finito della Commedia: manifestare «l’ombra del beato regno» poiché il regno di Dio e dei
beati rimane precluso alla visione diretta e immediata di colui che
[…] non vide mai l’ultima sera.
110
Pd., I, 70-72.
Ossimori, neologismi e ancora allitterazioni e sinestesie introdotte nei passaggi ai limiti dell’ineffabile, sono indice della volontà di ostentare il mezzo umano e sensoriale
(l’immagine, la parola, l’artificio retorico, ecc.) attraverso il quale dire ciò che va oltre il senso, la condizione e la parola umana.
112 Pg., XI, 79-81.
113 Cfr. Pg. XXI, 94-96.
114 «O somma luce che tanto ti levi / da’ concetti mortali, a la mia mente / ripresta un
poco di quel che parevi, / e fa la lingua mia tanto possente, / ch’una favilla sol de la tua gloria / possa lasciare a la futura gente» (Pd., XXXIII, 67-72).
115 Pd., I, 22-27.
111