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MARCO MARCHI
ALTRO NOVECENTO
Le Lettere
INDICE GENERALE
Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
p.
9
Riferimenti bibliografici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
19
I.
Tozzi. Ritorno di Novale . . . . . . . . . . . . . . . .
»
23
II.
Cifre del comico e della confessione:
La Piramide di Palazzeschi . . . . . . . . . . . . . .
»
53
III.
Centralità di Ungaretti . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
77
IV.
Malaparte e «Prospettive» . . . . . . . . . . . . . .
» 101
V.
Caproni.
Capoversi sul Seme del piangere . . . . . . . . . .
» 113
Luzi. Un viaggio nel viaggio:
Simone, il seme . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 147
Stanza dei poeti.
Su Parronchi e Sereni . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 159
VIII. Gatto. Le tentazioni della musica . . . . . . . .
» 167
IX.
Cattafi e gli oracoli della poesia . . . . . . . . . .
» 185
X.
«Una membrana segreta».
Raboni tra poesia e critica . . . . . . . . . . . . . .
» 195
VI.
VII.
XI.
Poesia a Firenze: gli anni Novanta . . . . . . . .
p. 207
XII.
Carifi. Un baluardo contro il nulla . . . . . . .
» 229
XIII. «Gonfie lune di cani».
Trinci e Leopardi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 243
XIV. Scrivere per il padre:
la Manzini, la Bettarini, Riccarelli . . . . . . . .
» 263
XV.
Baldacci. Perché Tozzi . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 309
Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 331
–6–
I
TOZZI. RITORNO DI NOVALE
Ciò che scrivo mi pare una tela intessuta di
fumo. Dietro, senza che il mio pensiero possa
toccarlo, è ciò che vedo.
(Novale, lettera del 22 aprile 1907)
La prima volta che ho creduto è stato dopo aver
visto un crocifisso disfatto dalla ruggine e dal
fumo. Era quasi informe e tutto nero: il corpo
non si riconosceva più dal legno della croce. […]
La ruggine era una crosta, alta un dito; a volerla
levare, si sciupava anche il corpo.
(Cose)
Novale è un libro importante, ineludibile per capire Tozzi, la sua poetica e la sua arte all’insegna del moderno: un
libro – oltre che bellissimo – essenziale, fondamentale e
fondante. Si tratta delle lettere che il giovane Federigo
Tozzi – all’inizio della corrispondenza neppure ventenne,
essendo nato il 1° gennaio del 1883 – indirizzò ad Emma
Palagi, una ragazza senese destinata in seguito a diventare – non senza molte peripezie, contrasti ed incertezze di
percorso che l’opera nel suo complesso testimonia – sua
moglie.
– 23 –
Il libro fu edito per la prima volta da Mondadori nel
1925, cinque anni dopo la precoce e inaspettata morte
dell’autore. Nella «nuova edizione» di Novale approntata nel 1984 dal figlio Glauco Tozzi per Vallecchi – quella
ormai da tanto tempo introvabile che ora presso Le Lettere si ripubblica – Emma vi compare non solo nelle vesti
vedovili di prima curatrice di un’opera postuma del
marito, ma come l’autrice di quell’unica, decisiva comunicazione epistolare lapidaria e seducente, a destinazione
per così dire allargata, che innesca sullo scorcio del 1902
il rapporto e dalla quale tutto il resto del libro dipende:
un telegrafico annuncio di giornale identificato tanti anni
dopo dalle ricerche del figlio, apparso l’8 novembre sull’edizione locale del quotidiano romano «La Tribuna»,
con il quale una sconosciuta signorina senese che si firma
Annalena invitava a corrispondere con lei.
«GIOVINE SIGNORINA DESIDERA CORRISPONDENZA EPISTOLARE. MOTIVINSI OFFERTE. ANNALENA, POSTA, SIENA».
Un invito seriamente avanzato e non rimasto inevaso. A
rispondere all’annuncio, letto da un gruppetto di amici
nella bottega di un barbiere presso cui quotidianamente
si raccolgono, sono stati in più d’uno: una gara tra ventenni scanzonati, pieni di vita e maliziosi. Tutti – stando
al ricordo-testimonianza di Giuseppe Mazzoni accolto
dal biografo Paolo Cesarini in Tutti gli anni di Tozzi e
dubitato invece da Glauco curatore di Novale – ci hanno
provato, incuriositi, divertiti soprattutto dal fatto di
poter poi leggere insieme e confrontare senza pudori le
rispettive risposte ricevute. Il gioco è andato avanti per
un po’, ma alla fine a stabilirsi come unico, privilegiato
corrispondente della misteriosa «scrittrice», è stato pro– 24 –
prio Federigo Tozzi, anche lui al riparo da facili identificazioni attraverso l’uso di falsi nomi, tutti in qualche
modo rivelatori, oltre che di suoi praticati modi di vivere e di sue attitudini ad esistere, della sua cultura di giovane scrittore ed artista: dapprima «Rodolfo», in ossequio alla subito celebre e sentimentalissima Bohème di
Giacomo Puccini, poi, scherzando con le proprie disgrazie e con la Bibbia, «Giobbe Giobbi», o ancora –
come Glauco Tozzi informa, ampliando ulteriormente la
gamma delle possibilità occultanti adottate – «James»,
da interpretare di nuovo per via di cultura, e cioè in riferimento a quel magnificato autore degli Ideali della vita,
l’americano William James, del quale nelle lettere più
antiche del libro esplicitamente e a più riprese si parla.
Anche attraverso l’impiego di pseudonimi, anche attraverso un gioco, la cultura di un presunto scrittore naïf
subito si rivela.
Dietro il nome fittizio di Annalena (l’allusione è presumibilmente alle sue origini fiorentino-romagnole: Annalena Malatesta) si cela Emma Palagi. Alla giovane
rispondono anche altri amici di Tozzi: il Mazzoni, Wolfango Valsecchi e lo stesso Arrigo Azzurrini, il barbiere
socialista di Via dei Rossi nella cui bottega è stato letto
l’annuncio. Di famiglia di origine fiorentina, nata a San
Marino l’11 febbraio 1881, Emma vive con il padre Ferdinando, insegnante di chimica e fisica nei ginnasi, e con
i fratelli. I pregiudizi della madre, Emilia Mariani, il suo
bisogno di aiuto in casa e la sua prematura scomparsa,
avvenuta quando Emma aveva appena sedici anni, l’hanno allontanata dagli studi al tempo della prima complementare. La ragazza, tuttavia, non ha rinunciato ad una
– 25 –
propria crescita culturale, leggendo molto e studiando
per proprio conto la lingua francese.
Tozzi vive allora a pensione nell’albergo dei Tre Re in
Calzoleria, a seguito di un burrascoso scontro con il
padre che non condivide le sue idee anarco-socialiste e i
suoi comportamenti in cui rivoluzione e poesia si intrecciano. Risposatosi dopo la morte di Annunziata Automi
– la mite «figlia di Spedale» madre di Tozzi – e nuovamente marito infedele, Ghigo del Sasso ha per amante
Rosina, una giovane cameriera che, spadroneggiando, è
riuscita a condurre con sé nella trattoria «Il Sasso»
all’Arco dei Rossi che egli gestisce (Ghigo del Sasso,
Federigo Tozzi pure lui) suoi parenti. Mantenuto dal
padre, artisticamente e libertariamente vivendo come il
Rodolfo della Bohème «da gran signore», Tozzi è lettore
di Marx, ammira il Ferri, ospita nella sua camera ai Tre
Re il giovane militante Silio Carpani, che gli propone, in
nome di quelle idee di cui Tozzi è già stato appassionato
portavoce in comizi in provincia e per le quali ha fondato a Siena con Giuseppe Mazzoni un circolo giovanile
socialista, attività di propaganda politica in Umbria e nel
Monferrato. E tuttavia, a descrivere la sua solitudine ed
esprimere il suo pressante bisogno comunicativo, a rappresentare un se stesso precipitato in un mondo infernale e incomprensibile, persecutorio e angosciante, valgono
gli esempi della letteratura, anche i più grandi, come quel
Dante ritrovabile nella discesa all’inferno di Nelle miniere di Boccheggiàno: pagine di taccuino precocissime, allora imminenti, che già costituiscono non tanto un documento di genere naturalista ispirato a Germinal di Zola
del misero mondo del lavoro e dell’ingiustizia sociale,
– 26 –
quanto uno scandaglio con gli occhi chiusi dell’io, un
formidabile e spietato sopralluogo psicologico in territori sepolti, in gironi della condanna sospesi e misteriosamente brulicanti: una discesa, come avrebbe detto Giuseppe Antonio Borgese – il suo più antico e convinto critico leader, spesso più attento e illuminante di quanto si
pensi – da «palombaro» del profondo.
«S’imagini – scrive Tozzi ad Annalena il 14 gennaio
1903 – di vedermi in una selva, solo, a’ piedi di tronchi
smisurati; e di lontano io oda avvicinarsi il latrato d’infiniti cani e io fugga, e la paura mi faccia correre e urlare
come un dannato nella selva delle arpie; ad un tratto, mi
sembra che una voce mi chiami, una voce melodiosa in
quell’inferno di suoni bestiali: io rispondo con un grido e
mi soffermo ansando, girando gli occhi smarriti… la voce
mi chiama, io singhiozzo – i cani sbucano, gli occhi sanguigni – io caccio un urlo di terrore e corro, corro mentre
la voce si spegne e gli animali sono alle mie calcagna. /
Que’ cani li infuria il Destino, e il suo ghigno cattivo è in
ogni persona e in ogni cosa. / Ma la selva finisce, i cani son
quieti: io ho finito di correre e di vivere all’aprirsi della
luce […]. Negli ultimi lampi di vita, ho gli occhi pieni di
fantasmi orribili e l’orizzonte me ne sembra oscurato». Il
Destino, per il momento, in linea con l’ateismo dichiarato
dal giovane corrispondente, sostituisce laicamente Dio;
ma dietro il Destino, come sarà per Dio, si nasconde la
figura del padre: la più clamorosa e bruciante smentita del
bene, l’invalidamento di ogni benevola promessa, l’accecamento di ogni affetto.
L’io stesso, sentendosi braccato e permanendo in realtà nell’incertezza delle tenebre, si fa quanto mai cangian– 27 –
te, instabile e insoddisfatto, scontento di estroversioni e
introversioni di sé: labirintico. Precocemente in Tozzi
l’interscambio letteratura-reale si afferma, favorito e
incrementato da quei libri osteggiati dal padre con il pretesto che fanno male alla vista, che rovinano gli occhi di
colui che anni dopo invocherà – facendo della letteratura poesia e del padre Dio – «Dimmelo tu, Signore, poi
che vedi / là dove a me la vista è stata tolta» (E m’è sembrato di portare addosso, in Specchi d’acqua). «Pensando
alla mia vita, al mio avvenire – si comunica già in Novale
in data 14 gennaio 1903, atteggiandosi spregiudicatamente ad artista e sottraendosi alle regolarizzazioni di
ritratto subito promosse dall’interlocutrice –, non posso
mai separare il reale dall’immaginario o dal fantastico».
Rimanendo in incognito e tacendo dapprima dei suoi
violenti e frequentissimi contrasti con il padre, Tozzi
confida ad Annalena, non senza travestimenti letterari
enfatizzanti e compiaciute forzature, le sue convinzioni
politiche e religiose (puntualmente contraddette dalla
destinataria delle lettere), i suoi interessi culturali ed artistici, il tragico epilogo del suo amore – un amore affrancante dal padre e dal padre violentemente contrastato –
per Isola, l’idealizzata Mimì pucciniana ritrovata a Firenze nel marzo del 1903 incinta di un altro uomo; le confessa anche, inevitabile complemento della sua fiera,
povera e spericolata bohème, l’inevitabile esistenza di un
«pacco di manoscritti» e il proposito di comporre
un’«operuccia dramatica» della quale ha già individuato
il soggetto: presumibilmente un dramma su Cecco
Angiolieri testimoniato in seguito, come progetto, da
Umberto Giunti, un altro degli amici di Tozzi d’allora.
– 28 –
Alle letture e alle conoscenze culturali partecipate all’ignota e poi identificata, incontrata e sempre più intimamente conosciuta Annalena (Max Nordau, Rostand, William James, Shakespeare, De Musset, Rousseau, Poe,
Eschilo, Zola, Manzoni, Ferri, Marx, Engels, Tolstoj, Mirbeau, Carducci, D’Annunzio) si affiancano le coeve consultazioni alla Biblioteca Comunale di Siena censite da
Paolo Cesarini e da Loredana Anderson: Boccaccio e i
classici della letteratura italiana, specie i più antichi; il
Prati, Pascoli e Pratesi; Lamartine, Béranger, Hugo,
Bourget, Chénier, Mickiewicz; La paura del fisiologo
Angelo Mosso, L’origine della specie di Darwin, Forza e
materia di Ludwig Büchner, gli Studi sul positivismo di
Roberto Ardigò, L’uomo delinquente di Lombroso, testi
di Proudhon; e ancora, con una disparità di orientamenti
tipica dell’autodidatta, gli Esercizi spirituali di S. Ignazio
di Loyola e Omero, l’Histoire de la littérature anglaise di
Taine e la Bibbia, il manuale di geometria dell’Amiot e gli
scritti d’arte del Venturi, molto Grand Larousse.
Tra vita e cultura, tra vita e letteratura. A questo denso e implicante discrimine, a quest’incrocio, le più antiche lettere di Novale colgono con assoluto tempismo
Tozzi ventenne dedito alla scrittura: oltre ai dichiarati
progetti, anche poesie, anche narrative pagine di diario
penetranti e sorprendenti come quelle che nella prima
edizione di Novale curata da Emma davano luogo a una
preziosa appendice documentaria di complemento, poi
dispersa e redistribuita secondo il piano delle «Opere»
vallecchiane dal figlio Glauco. Se è consuetudine invalsa far nascere Tozzi scrittore nel 1908, come pure scandirne in due sessenni geograficamente denominati – il
– 29 –
sessennio di Castagneto o senese e quello romano – la
sua opera era in effetti già iniziata, la sua breve ma intensissima stagione creativa già aveva preso avvio. Il «ritratto dell’artista da giovane» proposto dal libro è proprio
così che conferma, che si attesta e si articola, dando voce
a uno scrittore già nato, a un autore già fervidamente
all’opera.
Anche un evento traumatico come la scoperta di
Isola-Mimì a Firenze subito nelle lettere di Novale lievita
letterariamente, fruttifica, dando luogo a quelli che
potremmo definire i primissimi cartoni preparatori di un
romanzo a venire, intitolato inizialmente, forse, Primo
amore (tra vita e letteratura: Leopardi), poi Ghìsola e
infine Con gli occhi chiusi. Il messaggio è allarmato e
allarmante, il tono ormai confidenziale, nonostante il
«lei» e nonostante il fatto che i due corrispondenti non si
siano per il momento mai incontrati. Chi scrive rinunciando ad occultamenti e firmandosi per la prima volta
«Federigo» è incredulo e disperato, ancora sotto choc:
«…m’è avvenuta una cosa orribile… Andando improvvisamente a trovare la mia fidanzata, Mimì, – dopo quattro
mesi di assenza – l’ho trovata… l’ho trovata… Ed io l’avevo rispettata sempre come una sorella! Vorrei impazzire piuttosto che credere alla realtà di ciò». Siamo nel
marzo 1903, e anche se le lettere viaggiano di regola da
Siena a Siena, l’episodio giorni dopo diffusamente riferito e commentato – il ritrovamento della propria fidanzata in un’ambigua casa di sgravio e insieme di avvio alla
prostituzione – ha per scenario Firenze: «Mi accorsi (dico
così perché la prima volta avevo visto tutto annebbiato)
mi accorsi che la casa dove stava lei era quella di una
– 30 –
levatrice. Una casa orrida». La vista si offusca, gli occhi
quasi si chiudono di fronte al reale che per via di durezze e «misteriosi atti nostri» (così Tozzi in una sua celebre
dichiarazione di poetica, Come leggo io) già veicola il tragico, l’insospettato e l’inesplicabile. La cattiveria della
vita e la sua assurda crudeltà si impongono, un inevitabile banco di prova per chi affida alla scrittura la sua ricerca della verità si profila.
«Verità atroci e ributtanti» da una città dell’abbiezione, squallida, naturalistica ed allucinatoria, con i suoi
luoghi e le sue strade – da Via S. Cristoforo ai «viali dalla
parte di S. Gallo» –, con le sue amare sorprese e i suoi
pressanti inviti a chiudere gli occhi, a non vedere l’impossibile e l’inimmaginabile, il gorgo senza fondo del
male umano. È Firenze, è il mondo. Tra angoscia rinascente e incoraggiati vittimismi in cerca di comprensione, il drammatico epilogo di un amore è confidato a
un’altra giovane donna: ad una sconosciuta, alla quale
però fin dall’inizio del rapporto, tra onestà e provocatoria malizia, si è parlato liberamente e a più riprese di
Mimì, e alla quale adesso si pensa addirittura di inviare
(per un momento in realtà, poi subito pentendosi), nel
rafforzare l’ormai instaurata confidenza, il ritratto della
sventurata, irresistibile ragazza.
«Isola di Federigo» era già stato del resto il criptico
nom de plume che in una di quelle lettere in incognito
aveva offerto suggerimenti: almeno a noi lettori di Con gli
occhi chiusi, da Giacomo Debenedetti in poi il romanzocapolavoro in cui Tozzi racconterà la storia del suo contrastato amore per Isola, un’affascinante, avvenente e sfuggente contadina del podere paterno di Castagneto cono– 31 –
sciuta fin da bambino, nobilitandone letterariamente anche il nome in Ghìsola. In Novale non solo è possibile
recuperare molte delle occorrenze biografiche che faranno
da sfondo al romanzo, tracce narrative di episodi poi svolti o precise scene-madri come quella del culminante, conclusivo ritrovamento di Ghìsola, ma perfino un’immaginata, inedita prosecuzione del romanzo in chiave di acceso
naturalismo, con cui la scrittura compie immediatamente
le proprie vendette, facendo dell’adorata ragazza traditrice una vecchia puttana da bassifondi maledetti, morta sfinita dal vizio e vittima delle violenze del figlio sifilitico,
Martino, il degenere frutto della sua colpa. Poi, nella vita,
Tozzi avrebbe chiamato Mimì la sua cagna.
Un grande scrittore si profila, con la sua cultura e i
suoi doni; un caposaldo narrativo del Novecento come
Con gli occhi chiusi si annuncia, tra dolorose vicende
occorse e già simbolici «misteriosi atti nostri» del disamore che condurranno dieci anni dopo, per via di
scrittura, a quel romanzo ultimato e riletto da Tozzi in
compagnia della moglie scaldandosi al focolare della loro
casa di Castagneto, fuori Porta Camollia, nel dicembre
del 1913: un romanzo il cui finale non sarà ancora, alla
fine del ’13, definitivamente stabilito, destinato a rimanere aperto ed antinaturalisticamente efficiente, incerto
tra il perdono e il suo esatto contrario, tutto calato anche
così nella poetica dei «misteriosi atti nostri». Ancora una
lettera, tuttavia, una lettera cui si accenna nelle lettere del
«primo tempo» di Novale, recapitata adesso, nell’allestita finzione romanzesca che solo nel 1919 sarà pubblicata
da Treves, non a Federigo Tozzi ma a Pietro Rosi: «Un
giorno ricevette una lettera. La calligrafia della busta gli
– 32 –
dette subito il senso di un avvenimento inevitabile. Non
voleva aprirla. E lesse: “Ghìsola lo tradisce. Se vuole
averne la prova, vada in Via della Pergola...”. Vi era il
numero della casa, e un nome di donna; forse falso…».
Partecipe del rasserenato, intellettualmente fervido e
condiviso quadretto domestico all’insegna dell’arte, proprio Annalena: Emma Palagi, dal 30 maggio 1908 diventata la signora Tozzi.
Sta di fatto che alla prolungata e guardinga prima fase
di Novale si oppone nettamente il nucleo delle lettere
intercorse fra Tozzi e Emma Palagi dal settembre 1906 al
maggio 1908. Con la lettera dell’8 aprile 1903 si conclude la prima parte dell’opera e se ne inaugura un’altra,
diversamente intonata, all’insegna della confidenza e
della sincerità più esigente, secondo un registro comunicativo ormai compiutamente maturato, ma già da allora
preparato, già in nuce e a suo modo attivo in quel timido
e nel contempo intraprendente «Il mio nome è F…» con
relativo «Mi dica il suo» della lettera del 3 febbraio 1903,
cui aveva fatto seguito, con brusca irruzione, la storiaromanzo di Isola. Valgono al riguardo le indicazioni fornite da Emma, prima curatrice dell’opera: «Nessun’altra
lettera più resta dei tre anni intercorsi tra quest’ultima e
quella con cui s’inizia la raccolta seguente. Ma l’autore,
nelle pagine che seguono, dice quanto occorre a fare
intendere quello che resterebbe oscuro. Basti perciò
accennare che la relazione tra Lui e l’Annalena continuò
intima, per qualche mese. Poi venne interrotta. Indi
ripresa quando il Tozzi era malato agli occhi (1904) e
dopo poco di nuovo lasciata a cagione dei parenti che la
ostacolavano».
– 33 –
Una nuova, rinnovata e del tutto diversa storia d’amore per il giovane Federigo Tozzi, dunque, cui l’esercizio epistolare continuativamente e intensamente partecipa, ma tutt’altro che lineare, anch’essa difficile, intermittente e contrastata. I «parenti» cui la nota di Emma allude sono due padri, e tra essi – già presentatosi nelle lettere del «primo tempo», quando Tozzi si proclamava
ateo e anarco-socialista, perfino con gli attributi di un
veterotestamentario Dio adirato che scaccia Isola dal
podere – quello di Federigo, il dispotico, rude e intransigente Ghigo del Sasso.
Sotto il nome di Annalena, Emma è già stata la destinataria di fantasie e sogni esagerati, mischiati alla realtà
quotidiana del suo corrispondente: ha ricevuto «lettere
come stoffe orgogliose» che però coprono «l’ossa d’un
disperato», e tra le chiavi messe a sua disposizione per
decifrare il caso c’è da credere che essa fin da allora
abbia fatto stima di quella stilistica. Prima di arrivare alla
celebre lettera del 7 aprile 1903, fra tanta letteratura
Tozzi le ha già confessato, non solo per compiacerla o
sorprenderla, la natura individualistica del suo ribellismo, il «patologico» che è connesso alla sua necessità di
rivolta: l’odio contro i potenti, contro quanti possono
schiacciare e offendere, piegare e distruggere, svela già
un’origine e una giustificazione. Per Tozzi tutto è e sarà
«sentimentale»: il suo anarchismo e il suo socialismo
umanitario, come il suo ritorno alla religione e il suo
inquieto, controverso e perennemente insoddisfatto cattolicesimo, fino alle punte avanzate, nell’uno e nell’altro
campo, della militanza, o fino a quella sorta di doloroso
«laicismo da privazione» suggerito con acutezza da Luigi
– 34 –
Baldacci nella sua interpretazione dell’autore confluita in
Tozzi moderno.
Ma dal settembre 1906 Annalena è Emma. La medicina ritrovata per alleviare l’oppressione del cuore, e a lei
il cuore si confida: «Quando mi confido con te – scrive
Tozzi – sento dileguarsi ogni nebbia; ma dentro a me c’è
un essere che mi comanda, dinanzi al quale io tremo. E
quest’essere brutale ride di me, quand’io appoggio l’anima a chicchessia. E quest’essere, forse, è la mia verità.
Che vale amare, quand’esso non è contento, e urla, e
piange, e si curva per la rabbia? Ora tace, ascoltando ciò
che la mia anima sta per dire. Ora parla. E la mia anima
si dilegua dinanzi al padrone che comanda». Quell’essere (Emma lo sa) ha un nome; a quel nome è indissolubilmente legato un passato «terribile e grottesco» e con esso
il futuro di chi le dichiara di non poterla sposare, né ora
né mai. Il richiamo dell’essere che Tozzi porta con sé è
perentorio: una verità che esige rifugi all’interno di se
stessi inibendo ogni contatto con l’esterno. E il rifugio
obbligato tra le mura della propria anima è tutt’altro che
pacifico: un conflitto, un corpo a corpo ferocissimo con
un altro io che occupa il posto che si vorrebbe possedere per cominciare a comprendere il mondo o almeno, in
quella particolare circostanza, per non interrompere una
corrispondenza epistolare e non doversi accontentare del
ricordo dell’amore. «Un altro io con la sua ombra molesta, un altro io grave e muscoloso», come dirà lo scrittore in un aforisma di Barche capovolte, convogliando e
confondendo nell’accertamento resultanze psicologiche
derivate da William James («Oh questo terribile secondo
Me, sempre seduto mentre l’altro è in piedi ed agisce,
– 35 –
che vive, che soffre, che si agita. Questo secondo Me che
non ho mai potuto inebriare, far piangere, o addormentare. E come egli vede entro le cose, e come mi canzona!», in Le varie forme della coscienza religiosa) e un
impressionante ritratto fisionomico del padre come quello tramandatoci dal poco impressionabile Domenico
Giuliotti: «un quintale e mezzo d’omo con certe mani
che se le chiudeva diventavano magli» (Federigo Tozzi, in
«Il Mattino dell’Italia centrale», 19 maggio 1950).
La relazione con la fidanzata riprende quando Tozzi
(è il 20 gennaio del 1907) decide di «rompere affatto»
con il padre. Scrive allora «cose che non avrebbe mai
voluto rivelare», anche se poche righe prima (preterizione significativa, resa tale dall’urgenza dell’allontanamento) ha dichiarato che «di ciò ora non si sente di scrivere».
La «cura premurosa» di Emma ha il suo corso, specificandosi in consigli e rimproveri. Nell’avviato processo di
ricomposizione interiore è lei la madre che permette il
ritrovamento dell’antico io, che riconduce al naturale e
all’umano dopo l’esperienza del male che faceva vedere
gli uomini come «un pezzo di carnaccia con le budella
sudicie dentro» e produceva rapporti di affinità privilegiati con le cose e soprattutto con le piante. Ma la sostituzione di dipendenza che Tozzi va attuando non è, in
effetti, così lineare: Emma diventa «il secondo io a cui
ricorre il primo», un «altro io» sorridente, perennemente indulgente e comprensivo, ma il desiderio di ricostituire un affetto spaventoso, che dia terrore, è altrettanto
esplicitamente professato; Emma chiama il suo fidanzato
«bambino», e in seguito sarà dettagliatamente informata
che il semplice pensiero di un bambino qualunque mette
– 36 –
voglia di piangere a Federigo. «Tu a me sei, psicologicamente, ciò che per altrui è la divinità», conclude Tozzi
nella lettera del 20 agosto 1907: è la riprova che Emma si
è guadagnata a sufficienza anche gli attributi del padre.
«Chi teme il Signore onora suo padre / e, come a dei
padroni, serve ai suoi genitori», recita l’Ecclesiastico (3,
7). Emma riassume ormai quel binomio che nell’ubbidienza suggella il timor di Dio. Benché dalla parte dei
«figliuoli crocifissi» (lettera del 21 ottobre 1907), forse
proprio per questo e all’interno di questa solidarietà
complice e sacrificale che lo lega a Emma, Tozzi rende
lode a quella divinità che gli ha dato la capacità di esprimersi, che gliela ha fatta ritrovare; per lei, contraccambio
quanto mai in carattere, vorrebbe scrivere «un libro di
preghiere». Se con la sua parola il Signore fece le sue
opere, adesso c’è chi ha creato appositamente per lui l’intelligenza e l’affetto: «Perché prima d’allora egli non
sapeva scrivere». Così l’afasia e la dispersione dei pensieri e dei segni sono contraddette dalla scrittura che la
donna richiede; l’energia per produrre comincia a non
bruciarsi tutta in sfinimento prostrante privo di risultati.
Non a caso l’idea di un «breve dramma» che si era precocemente affacciata l’11 marzo di quell’anno dava ancora i brividi, ma si era fatta ad ogni modo registrare, anticipando non solo la stesura dell’atto unico L’eredità o la
composizione del ben più noto romanzo Il podere, ma la
vita stessa: «Una stanzetta col paravento che cela un letto
dov’è malato il padre del protagonista». Tozzi allora,
come il lettore vedrà, era a Roma con Emma, lontano dal
padre, e già nella lettera del 6 febbraio aveva esortato con
decisione la ragazza, ribadendo implicitamente timori e
– 37 –
conflitti, resistenti concorrenzialità e instaurate sostituzioni: «Non mi volere, finché io non abbia creato» (lettera del 6 febbraio 1907).
La figura del padre continua dunque ad imporsi,
ergendosi segretamente e potentemente in Novale a tema
privilegiato di un’opera appena iniziata, a suo unico elemento suscitatore e dedicatario. Ma anche l’opera, come
già nella prima sezione del libro, torna adesso a prendere forma: si insinua, irrompe, attraverso l’epistolario stesso prende corpo, accompagnandosi non solo materialmente come allegato a quelle lettere inviate, ma confondendo lettera e creazione letteraria; prevedendo addirittura di quei materiali scritti indirizzati a Emma, come nel
caso delle missive pontederine destinate a diventare pagine di Ricordi di un impiegato, mirate possibilità di reimpiego e di promozione testuale, o facendo di Emma stessa una copista paziente e letterariamente coinvolta di
testi da inviare a riviste e insieme un giudice al cui gradimento e ai cui pronunciamenti sottostare. La «novale», il
terreno pronto per essere seminato, già dà i suoi frutti.
Tranne che nei furori della gelosia che analogamente
Novale testimonia (in quei momenti la fidanzata è una
nuova Mimì acculturata che pubblica suoi scritti su riviste femminili, in balia dei dottori del nuovo Policlinico
romano dove lavora e di una città tentacolare in cui vive
da sola), Emma è dunque la donna che riconduce a Dio,
e potenzialmente a un Dio ignoto, che può operare la
riconciliazione, purificare e redimere. La sua castità è
strettamente necessaria: equivale, nell’educazione del
giovane Tozzi, dopo Isola, alle letture mistiche del Trecento che gli consentono di pensare ad un contatto con
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il divino in termini di gioia, presupponendo in quella
ascetica e devota sublimazione dei desideri e degli affetti l’appagamento e la pace. «Adorazione» ed «espiazione» si stabiliscono ben presto come modalità esclusive
del rapporto amoroso, sue idee portanti.
Ma ecco Paolo, il poco noto poema in prosa scritto
nell’estate del 1908, dopo che, in maggio, Ghigo del
Sasso è morto ed Emma è diventata la moglie di Tozzi.
Qui il padre morto è Dio (il testo ha inizio con il ricordo
di una celebrazione del Corpus Domini) ed Emma è
Chiara, una sorta di Beatrice dantesca incaricata di mediare rapporti, di ricondurre a Dio; a Dio – alla memoria
del padre – ci si rivolge addirittura in una epigrafe-«prefazione» aggiunta, nuovamente sussiegosa e forte come
un rimorso, scritta ad inchiostro rosso, che recita: «Dio,
io non so se il mio libro esprima sempre la vostra altezza,
e se io non ho errato qualche volta. Ma Voi mi correggerete in seguito, perché io mi sento sempre più vostro». I
segni particolari esibiti dalla carta d’identità del protagonista sono già quelli del personaggio tipico tozziano:
«fatti ineluttabili», «durezze», una «esperienza umiliante», forzata rinuncia partecipativa agli «aspetti quotidiani» dell’esistenza. Il problema biografico di fondo, una
volta letterarizzato, risulta messo a fuoco con una chiarezza sconcertante: «Io non conosco quale legge mi unisce ai miei genitori. Io sono divenuto un uomo senza
ch’io abbia la ragione della mia vita».
E riandiamo, per capire i significati profondi insiti in
questo testo ermetico, in cifra, del quale è protagonista
un superomistico eroe sconfitto (ancora «stoffe orgogliose» che coprono «l’ossa d’un disperato»), alle lettere di
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Novale, a quelle del giugno 1907, nei paraggi di quelle
splendide lettere autobiografiche che attraverso la rievocazione senza schermi del proprio passato rivelano Federigo a Emma e prima ancora a se stesso.
Un anno prima che Paolo prenda forma, Tozzi confessa alla fidanzata «un dispiacere oscurissimo». La colpa di
quel dispiacere è di Emma, è Emma stessa a Roma, e il
resoconto epistolare da inoltrare all’occasione nella capitale prevede un’ambientazione rigorosamente campestre.
Les Campagnes hallucinées, Les Villes tentaculaires sono
titoli di Émile Verhaeren che Tozzi fa già suoi, appuntandoli su un taccuino. Ma la lettera del 7 giugno 1907 si apre
con un Tozzi autobiografico pensoso, seduto sull’inforcatura di un ciliegio (il ciliegio che ritroveremo in Bestie e in
Con gli occhi chiusi), un Tozzi che dà voce alle sue recriminazioni vittimistiche nobilitandole esteticamente attraverso un riferimento a Segantini e proponendole poi nei
termini più spicci di un’immagine: una fidanzata non più
efficientista e spregiudicata infermiera romana presso il
Policlinico, ma già a Siena, in campagna, con lui, sotto
quell’albero a raccogliere le ciliege.
Una scena – nonostante precedenti bocciature della
musica di Pietro Mascagni, poi riviste – da Amico Fritz
mascagnano, un idillio del desiderio. E il greppo su cui
Emma gli appare, seduta anch’essa, diventa un «bel
greppo». Tozzi, lo dice lui stesso, è «così fatto»: il ciliegio gli fa bene, lo rasserena; è a Siena, non a Roma (checché ne pensi Emma) che le «melucce del suo sogno»
maturano. Ha questo sottile profumo provocatorio l’invio di fiori strappati ad un altro albero da frutto del
podere, da accludere alla corrispondenza del giorno
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come a lui una bambina ha offerto una «rosuccia». È la
canzone di Suzel che precede il duetto delle ciliegie: «–
Bel cavalier, sarà per la tua sposa... / – Piccina, grazie! La
sposa non l’ho!».
La provocazione sottintesa si rafforza e si chiarisce di
lì a poco: «Ero venuto qui a casa pensando di scriverti;
ma i miei pensieri sono rimasti fuori. Li sento fuori tra un
raggio di sole e una zolla verde». In realtà il 10 giugno
1907 Tozzi scrive sì un’altra lettera, ma nell’adeguarsi alle
esigenze di un quotidiano altrimenti valutato risponde ad
Emma come alle sue contadine: «pensando ai campi»,
declassandola, adottando il silenzio dei gesti spensierati e
infantili come suo codice, trasgressivamente mostrandosi incline a sostituire il segreto inebriante di sensazioni a
contatto con la natura alle parole che Emma, la divinizzata Maieuta dello scrittore e dell’uomo che devono
nascere, esige.
Scaduto un magistero, incrinato un culto, è come se
da un momento all’altro si profilasse ridotta all’insignificanza un’intera vicenda d’amore protrattasi per anni. «O
dentro o fuori», scrive Emma ad un’amica; «o dentro o
fuori» è l’aut aut brutalmente formulato da Federigo tramite affermazioni in apparenza innocue, tese a colpevolizzare un’assenza, una casa vuota, una creatura eccitante
e ambigua complice del creazionismo: «quando penso a
te, tutta la mia anima si muove come le foglie di una
vigna». La prospettazione della persecutoria e risorgente
fuga dagli altri «per certe strade silvestri, senza scopo»
(così ancora nella lettera del 19 giugno) suona come una
minaccia assimilativa feroce, solo bilanciata dall’assimilazione di Emma a un piacere solare gustato in solitudine,
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en plein air: l’ossimorico abbraccio sensuale del «tipo
eterno», bellezza e purezza da Paradiso dantesco, proiettato sullo sfondo più congruo della natura e non tra il
cemento della calda, afosa Via XX Settembre di Roma.
«Adoro anche la tua carne come un’ostia», si legge ancora in Novale, la chiave privilegiata per avviarsi alla lettura del criptico poema in prosa.
La composizione di Paolo, lo dicevamo, risale alla
prima estate del 1908. Abbiamo già avuto modo di notare come nel corso di Novale Emma si sia guadagnata a
sufficienza gli attributi parentali necessari al suo corrispondente, richiesti dalla biografia e dall’immaginario di
chi in sostanza ignora – come viene meravigliosamente
alla superficie in accezione di problema fondante nel
poema in prosa – quali rapporti lo leghino a chi lo ha
voluto. Se «Nessun affetto» era stato il motto del Tozzi
della solitudine cui avevano corrisposto in termini paraletterari il vuoto di Novale e l’unica pagina coeva «Vorrei
uccidere tutti», di quella sorta di ascetismo dell’ambizione tra «misticismo cristiano» e «imaginazione pagana» che Paolo letterariamente svolge attraverso i riferimenti culturali d’obbligo – dalla letteratura alla cultura
scientifica, alle scritture mistiche – Emma è generosamente riconosciuta responsabile, implicata fino all’abbiezione che contamina il suo ricordo con il ricordo di
Ghìsola, l’innocenza tradita, il mondo fatto carne.
Come si legge in Santa Teresa d’Avila, un’attestata lettura di Tozzi: «Quando contempla il Sole divino, lo
splendore l’abbaglia; quando guarda se stessa il fango le
offusca la vista: la colombella è diventata cieca». Con gli
occhi chiusi, Bestie. Gli uomini erano bestie, allora: come
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in Paolo, come sarà nel romanzo dell’isterica Adele, con
le sue «grandi bende» che le coprono gli occhi, come
negli aforismi senza cornici narrative di Barche capovolte,
come nei capolavori imminenti o già nati (si pensi a una
novella, Il ciuchino, databile proprio grazie ad una comunicazione di Novale febbraio 1908) dell’incipiente maturità tozziana.
Un «anno troppo lontano dalla vita» si rivela retrospettivamente – nella lettera del 22 marzo 1907 –
quello più antico, anteriore, della malattia agli occhi,
anche se l’officina dello scrittore ha già al suo attivo il
«socchiudere gli occhi che sono due sogni dell’anima
stanca» – fra dannunziano-metamorfiche «plaghe di bellezza» e «angoscia» – di una poesia datata 21 ottobre
1903, Come in ruscello di rose vermiglie. Paolo dichiara
per suo conto fittizia l’opera di ricongiungimento all’umano e al naturale attribuibile a Emma, e riconferma
invece i privilegi dolorosi del divino che tenta Tozzi. «Ha
fatto una siepe intorno a me, e non posso uscire; / ha reso
pesanti le mie catene. / Anche se grido e gemo, / Egli soffoca la mia preghiera. / Ha posto un recinto intorno alle
mie strade con pietre levigate, / i miei sentieri ha reso
tortuosi» (Lamentazioni 3, 7-9). E ancora dalle Lamentazioni: «Un orso in agguato egli è per me, / un leone in
luoghi nascosti»; «Egli mi ha condotto e fatto camminare / nella tenebra e non nella luce» (rispettivamente 3, 10
e 3, 2). Ed ecco Paolo: «Dio, talvolta è proprio sopra di
noi. […] E le nostre lingue avrebbero voglia di parlare
quel che è quasi un affanno velato dell’anima. Molti vi si
sono provati. Ma è come se avessero perduto, di un tratto, la bocca». Oppure, di nuovo nei toni grandiosi di una
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persecuzione veterotestamentaria: «Noi dobbiamo sparire come una folla spinta dal panico. […] Noi siamo
menati da una furia che ignoriamo. Da Dio, forse? […]
Non abbiamo nessun appoggio reale per i nostri pensieri intimi. Le nostre luci sono spente. […] E la nostra
anima trema. Essa ha anche ribrezzo di se stessa: È simile a una donna che sogna i propri figli che non avrà».
Due temi – quello della creazione e del concepimento
che la perpetua e quello dell’espressione linguistica – tornano ad intrecciarsi, indissolubilmente: né più né meno di
come avvenne con esiti tecnicamente ineccepibili al principio dei tempi, quando un Dio parlante disse e fu fatto.
Chi concepisce è complice di Dio, e si capisce allora come
la donna in Tozzi non possa essere che un animale pericolosamente vessatorio fra altri animali o un idealissimo
fantôme d’amour a sfondo feticistico. Sia che cerchi l’amore sia che cerchi Dio, il personaggio tozziano si risolverà costantemente in un personaggio di tipo tragico.
L’eroismo di Paolo è già un esclusivismo coatto, il suo
ambizioso estetismo sgargiante fino all’oro e al colore del
sangue è una bugia difficile da sostenere, un atto mistico
incapace di annullare la durezza della realtà, di consentire spolpate trascendenze, di sollevare macigni. Il conflitto si configura insomma, a ben vedere, nel senso di divinità congiurate che ostacolano qualsiasi percorso ascensionale e finiscono con l’impedire l’ammissione nella loro
schiera ristretta al nuovo dio presunto.
«Non mi volere, finché io non abbia creato» è, d’altra
parte, la riprova di ciò che intendesse Tozzi per accettabilità umana. Anche nell’attesa riabilitativa di poter essere di nuovo uno scrittore, un altro tema-base della poeti– 44 –
ca tozziana si delinea. C’è un’invidia creazionale in Tozzi,
che reagisce alla gelosia paterna dell’esistente e piange la
propria incapacità di procedere ad una creazione alternativa: impossibilità anche di dire, di far corrispondere
automaticamente il nome alla cosa, il discorso alla storia,
com’è della parola rivelata, che è nel contempo ordine e
ordinamento. «Ma le parole che noi diamo ai nostri pensieri sono fittizie. Noi sappiamo che le cose non hanno
alcun nome», constata dolorosamente Paolo accennando
a una carenza di motivazioni destinata a ripercuotersi su
tutto l’universo.
Ma nel febbraio del 1907 Tozzi era distante dal podere, non pensava di dovervi ritornare a così breve scadenza, di dover soggiacere di nuovo tra quei confini alle sue
lusinghe e ai suoi inganni. «Poi – continua la lettera del
7 giugno, la lettera che potremmo definire del ritorno del
figliol prodigo – sono andato nel pisellaio, dove erano le
contadine che s’empievano i grembiuli, e ho mangiato
molti piselli, lasciando il guscio attaccato alla pianta».
Federigo è il signorino, il figlio del padrone; e l’associazione funziona segretamente a livello di registrazione
cronistica: «Mio padre andava in cantina per empire
alcuni barili. E mi ha dato mezzo bicchiere di vino».
Ancora Novale, 1907: il 18 luglio parlare di progetti
matrimoniali con il padre risulterà impossibile perché
«s’è arrabbiato con una contadina. Per causa di un ramo
di olivo, che quella aveva trascinato a casa senza farlo
sapere».
Non diversamente Adele, l’alter ego femminile che
Tozzi farà di lì a poco seguire a quello di Paolo (di nuovo,
assieme alla scienza di William James e alle Névroses di
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Pierre Janet, suggestioni mascagnane in sottofondo: Iris),
passerà ore tra il verde che circonda la sua casa ad esaltarsi e martoriarsi patologicamente, da isterica, per un
raggio di sole che investe un sentiero o una piantina riarsa che si risolleva a contatto con l’acqua. Il ciliegio riappare: «Ella si avvicina, abbassa una rama e tocca una piccia; provandone piacere. Poi, assalita dal desiderio di
assaggiarla, diviene rossa e rilascia la rama. Si imagina di
aver provato rimorso della tentazione; non sa più quel
che fa; e sconvolta e tremante spicca un salto e mangia
due ciliege. Ma, saltando, ha calpestato un tralcio della
grande rosa che empie tutta la facciata della casa. “Questo tralcio – ella mormora – è stato tirato giù dal vento”.
Guarda i segni delle sue scarpe, che lo hanno sbucciato.
Ed ha come un sentimento folle; ha ribrezzo di tutta la
pianta, che bisognerebbe tagliare e sostituire con un’altra, che avesse tutti i tralci intatti. Diviene inquieta; vorrebbe fare qualche cosa che fosse grande così come tutta
la natura; e le par di dover fuggire». Anche l’affanno narratologico di Paolo, al di là di ogni precocità stilistica, si
capisce: l’eroe animalescamente «razzola», «raspa» (il
verbo è usato anche in una lettera di Novale in riferimento a «pensieri oscuri» come «cani affamati» e
«anima»), e arriva al traguardo silenzioso dell’angoscia
con il fiato mozzo. L’arte di Tozzi è in atto.
«Il primo che adulò le mie speranze, predisse che io
avrei scritto dopo averti sposata» (Novale, 27 marzo
1907). E in effetti nell’estate del 1908, quando Tozzi scriveva Paolo, Emma Palagi era diventata sua moglie e
Ghigo del Sasso era morto. A Castagneto restavano
soprattutto la campagna e la pienezza di una stagione
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topica. Ad aiutare lo scrittore, torniamo a dirlo, c’era
anche una cultura ormai fattasi vigile ed esigente, per cui
già prima di Barche capovolte, un altro dono estivo paragonabile a quello di Paolo, le «piccole canne» di Pan
potevano essere avvicinate nuovamente alla bocca e fatte
suonare. Ciò nonostante il Tozzi che continuava a immaginarsi ragazzo orgoglioso tra le vigne non era cambiato:
neppure la psicologia associazionistica di William James
(in Paolo fortemente attiva, esibita talvolta al pari del
Nietzsche di Così parlò Zarathustra e del Vangelo come
afflato pedagogico-dimostrativo e, quel che conta, operante dietro la patina sapienziale-simbolista del testo) era
servita a emanciparlo dall’incubo del suo passato, a fargli scoprire se stesso e qualcosa del mistero; neppure la
letteratura di D’Annunzio, di Huysmans, di Maeterlinck,
di Régnier, di Wilde, neppure gli onirismi omologabili di
Dante e di Poe o la visionarietà cattolica del Passavanti;
né Whitman né Conti; neppure la Bibbia. Si profilavano
la prosecuzione di una ricerca originalissima – quella dei
«misteriosi atti nostri» – e il finale di un romanzo non
ancora scritto, impresso come Paolo dal suggello mortale: «Sono allegro ho detto? Ohimè, si è rivelata la faccia
già. Quanta grandine su le vigne!» (lettera del 28 marzo
1907). Questo è Remigio Selmi, questo è Il podere.
Ciò non toglie che la fondamentale saldatura tra psiche
e anima, Dio e destino, ricerca religiosa e ricerca scientifica, si sia impostata, e proprio in Novale, culminando laddove Emma appare espressamente elevata da Federigo – e
non soltanto con una dedica sull’esemplare del libro conservato – a custode dell’«altra Bibbia», il «libro di psicologia» identificabile con i Principii di psicologia di William
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James: riaffermando proprie originali e qualificanti esigenze di conoscenza, di inesausto scandaglio dei «misteriosi
atti nostri» delegato a parole, ben oltre qualsiasi auspicata
pacificazione di tipo fideistico e ben oltre le semplificanti
ipotesi positive di quel Lombroso chiamato in causa da
una nota di Emma. La cultura scientifica di Tozzi si stabiliva insomma come un’essenziale linea di ricerca che
avrebbe portato di lì a poco lo scrittore perfino alla conoscenza, come oggi si sa, di vari testi di Henri Bergson e di
un compendio d’autore dei Tre saggi sulla sessualità di
Freud: una direttrice di origine jamesiana, presto coniugata ad una pratica quotidiana della scrittura (i «documenti
psicologici» ai quali si accenna nella lettera del 13 dicembre 1902, gli «Aforismi» di cui espressamente si parla
all’altezza cronologica del 23 settembre 1907 in una lettera non integralmente restituita da Glauco Tozzi), non
meno che alle ibridazioni di genere mistico-religioso effettuabili nel segno di un’anima caterinianamente «ansietata»
o, ancora per via culturale, delle jamesiane Varie forme
della coscienza religiosa.
«E, quando io scrivo Signore – dirà uno degli aforismi
di Barche capovolte –, intendo parlare di uno stato speciale della nostra anima» (Penelope). E dopo il finale del
Podere – e dopo il suo inizio, soprattutto, in cui il padre
di Remigio Selmi, Giacomo, morendo trascolora anch’egli in un Dio crocifisso, in un figlio di un altro padre –
viene in mente quello che con tutta probabilità, pregresso, segreto e modernissimo, è il vero finale di Con gli
occhi chiusi.
Ecco Domenico, Dominicus, l’uomo di Dio ormai
ridotto a un despota esautorato, patetico e più che mai
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imprendibile, costretto come tutti a tacere, a doversi distrarre: «Seduto su la sedia che gli serviva da più di vent’anni, lo seguiva con lo sguardo tenendo le mani in tasca
dei calzoni e appoggiando al muro il capo già calvo. Ma
non diceva niente, procurando di distrarsi con i servi e con
qualche cliente che andava a salutarlo». Questo, sul finire
del romanzo, Domenico Rosi: quel Domenico che un
tempo, secondo una presupposta complicità che un luogo
del testo visibilizza, «credeva che Dio, quasi per accontentarlo, avesse pensato, insieme con lui, alla sua fortuna»;
quel Domenico capace di dire a Pietro, con la naturalezza
seducente del proprio linguaggio popolare e realistico:
«Perché preferisci di stare lontano da me che sono tuo
padre? Dio ti deve toccare il cuore. Non te ne accorgi?».
Ed ecco Pietro Rosi, il suo addio vendicativo e commosso all’infanzia che sta per lasciarsi alle spalle: «Pensava al lume così quieto e sempre eguale, con la campana di latta. Pensava alla poltrona della mamma, sotto il
cui guanciale era una specie di cassetto di legno, dov’ella aveva tenuto i gomitoli delle lane e i suoi due soli libri,
due romanzi a dispense illustrate. Pensava ai quattro
guanciali a cui ella s’appoggiava; i quali si erano deformati ciascuno in modo riconoscibile. Pensava all’odore
dell’acqua di Colonia, alle boccette antisteriche, ad una
crocettina d’oro consunto. / Prima d’addormentarsi nel
suo letto duro, ricordava tutte le cose più note; alle quali
portava un’affezione intensa per quanto incosciente. Gli
pareva di dover dare un’altra impronta e un altro significato a tali cose. Ghìsola sarebbe stata la rinnovatrice. Ed
egli provava la stessa dolcezza che aveva provato stando
insieme con lei».
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Fino a qui, in un mix modernissimo di sensi, sensazioni e sentimenti, i ricordi, gli oggetti reliquiari del passato e
le speranze del futuro. Eppure… «Spenta la candela – è
un «figliuolo crocifisso» che concorrenzialmente e mimeticamente crede di poter abbandonare l’indomani la sua
vecchia vita, di rifarsi, di uscire dal buio che ad apertura di
Con gli occhi chiusi un padre ha imposto ad una trattoria e
a tutto il mondo soffiando sulla fiammella di un’altra candela –, si voltava dalla parte del muro e dormiva. / Domenico, verso la mezzanotte, attraversava la camera, con in
mano la lucerna di ottone. E allora Pietro si destava e gli
veniva voglia d’alzare il capo. Ma l’altra porta si richiudeva; ed egli rimaneva con quello scontento di quando è
interrotta una disposizione d’animo».
Ghìsola non sarà in grado di svolgere alcuna funzione
di riscatto, l’ingresso di Pietro nel mondo degli adulti si
rivelerà presto un’illusione. «Ma le nostre vicende intime
– come si legge in Paolo – sono inevitabili. La conscienza è la resistenza che opponiamo loro». Il cerchio perfetto che Tozzi e l’enigmatico padrone della luce hanno
voluto nelle pagine di un testo-capolavoro che già in
Novale si annuncia si infrange e subito si ridisegna: Ghìsola rimane assente, resta persona sostanzialmente estranea ai fatti, e il dialogo che continua – muto, notturno,
del tutto intimo e del tutto inevitabile, esclusivo – è quello tra padre e figlio. Ed anche Novale sta per concludersi, «da Siena a Siena», a Castagneto: «È agonizzante.
Non mi muovo da qua», «È spirato stamani alle otto». È
la prima e l’ultima notte, «con gli occhi chiusi».
Inaspettate e slittanti cristologie dell’umana sofferenza, insalvifiche, senza redenzione, precocemente attive a
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ben vedere anche nel «primo tempo» di Novale: in un
ricordo emerso, quando Tozzi già amava una «giovinetta», immaginata partecipe con la madre e il padre, una
cameriera e due amici, della scoperta della morte e del
compianto: «Una volta, dopo aver sofferto una lunga
malattia – ero ancora in convalescenza – mi capitò di trovarmi solo in camera. / Non so perché guardandomi
nello specchio i miei occhi si inumidirono ed io mi volsi
a guardare un piccolo crocifisso d’avorio che stava su la
parete de la stanza» (lettera del 21 dicembre 1902).
Così, in maniera non troppo diversa da Ghìsola che a
un certo punto della storia scompare, anche il programma retrospettivo-edificante affidato da Emma alla pubblicazione di Novale nel senso di un testimoniabile,
patrocinato e pacificante approdo o ritorno religioso
dello scrittore (pure, volendo, nei termini di una propria
coinvolta presenza, di un’autobiografia personale in
quell’evocazione di lontane vicende differita e ritrovata
efficiente) decadeva, e ne riusciva invece uno dei libri più
avvincenti di Federigo Tozzi: un libro ineludibile per
capirlo, e tra i suoi più belli.
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