DE ANGELIS, Luca. `Il Bue Ebreo. Per un Levi senza levismi

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DE ANGELIS, Luca. `Il Bue Ebreo. Per un Levi senza levismi
DE ANGELIS, Luca. ‘Il Bue Ebreo. Per un Levi senza levismi’. Ricercare le radici: Primo Levi lettore-­‐‑Lettori di Primo Levi. Nuovi studi su Primo Levi, a cura di Raniero Speelman, Elisabetta Tonello & Silvia Gaiga. ITALIANISTICA ULTRAIECTINA 8. Utrecht: Igitur Publishing, 2014. ISBN 978-­‐‑90-­‐‑6701-­‐‑038-­‐‑2. RIASSUNTO Nel corso degli ultimi decenni si è affermata la nuova religione civile dell’Olocausto, avente una sua ritualità ed un suo cerimoniale, e caratterizzata “da una specifica retorica e da un precetto dominante: il dovere della memoria”; essa si fonda su alcuni “numi tutelari oggetto di glorificazione, i sopravvissuti, e sulle loro testimonianze” (E. Bembassa). Uno di questi è per l’appunto Primo Levi, la cui figura è stata avvolta da una sorta di ‘mitologia’. La gravità dei fatti della Shoah fa sì che l’“accoglienza da parte del pubblico” non abbia “nulla a che vedere con la letteratura”, come ha avvertito Danilo Kiš. L’effetto Shoah si propaga e contagia tutto, condizionando pesantemente anche le valutazioni ed i giudizi critici: da qui una vera e propria serie di luoghi comuni su Levi, di ‘levismi’, perlopiù indotti dall’evento monstruum della Shoah. La vis polemica della poesia ‘Pio’ finisce, ad esempio, per rivelare, al di là del ‘noto’ distacco spassionato da philosophe, i sentimenti di protesta e di collera del testimone di Auschwitz, celate da uno “straordinario esercizio di autocontrollo ” (T. Judt). PAROLE CHIAVE Shoahità, vittima, protesta, autocontrollo, levismo © Gli autori Gli atti del convegno Ricercare le radici. Primo Levi lettore-­‐‑Lettori di Primo Levi. Nuovi studi su Primo Levi (Ferrara 4-­‐‑5 aprile 2013), sono il volume 8 della collana ITALIANISTICA ULTRAIECTINA. STUDIES IN ITALIAN LANGUAGE AND CULTURE, pubblicata da Igitur Publishing, ISSN 1874-­‐‑9577 (http://www.italianisticaultraiectina.org). 1 IL BUE EBREO. PER UN LEVI SENZA LEVISMI. Luca De Angelis Non mi succede quasi mai di perdere il controllo. P. Levi PREAMBOLO Altrove ho avuto modo di definire sommariamente la shoahità, in breve quella specifica condizione di scrittura, diversa da qualsiasi altra, dello scrittore che ha fatto esperienza della Shoah e che per cogente insopprimibile necessità interiore si appresta a scriverne, con “fede disperata nella testimonianza” (Wiesel), in un tormentato ed inestricabile aggregato di implicazioni, spesso contrastanti tra loro.1 Come è noto, Levi non “si adattò a diventare uno scrittore come gli altri; anche quando la fortuna gli arrise si tenne lontano dai riflettori. Con discrezione e senso del pudore, opponeva agli autori della sua generazione un’irriducibile diversità che gli derivava dalla sua condizione di testimone”.2 Stando alle considerazioni di Imre Kertész la problematica della shoahità let-­‐‑
teraria inerisce ai fattori della ‘fantasia’ e dell’ ‘immaginazione’, più esattamente di “quanto l’immaginazione sia capace di elaborare, di assimilare il dato di fatto dell’Olocausto e quanto l’Olocausto grazie all’immaginazione ricettiva sia diventato parte della nostra quotidianità etica. Perché si tratta di questo, e se dobbiamo parlare di letteratura ed Olocausto, dobbiamo parlare di ciò”.3 L’Olocausto aveva dato vita ad una specie di cultura, o per meglio dire ad “un’esperienza del mondo”, ad “un’e-­‐‑
sperienza universale”, al punto che “la comunità ebraica stessa è una rinnovata espe-­‐‑
rienza universale grazie all’Olocausto. In uno dei miei romanzi l’ho definito come forma dell’esistenza spirituale”.4 Alla determinazione di questa particolare condizione della scrittura Kertesz aggiungeva altre considerazioni: “L’Olocausto e le condizioni di vita in cui scrivevo dell’Olocausto si erano fusi in modo indissolubile. Per me l’Olocausto si declinava sempre al presente”. Ad un’ora incerta i ricordi del campo ritornavano, in un este-­‐‑
nuante ed opprimente eterno presente: “Su qualsiasi cosa rifletto, rifletto sempre su Auschwitz, anche se apparentemente parlo di tutt’altro. Sono il medium dello spirito di Auschwitz. È Auschwitz che parla dal mio interno”.5 Semel in Auschwitz semper in Auschwitz. Nell’atto della rappresentazione la shoahità agisce grosso modo come una cate-­‐‑
goria trascendentale kantiana, nella scrittura come nella lettura. Questo spiega perché l’ombra inquieta di Auschwitz si allunghi in modo tetro financo nel leggere una poesia così innocente come ‘Il bove’ di Giosuè Carducci, tra i testi più noti della lette-­‐‑
ratura italiana, una poesia che molti bambini italiani in età scolare, con infantile cantilena, hanno mandato a memoria. Con la poesia ‘Pio’ Levi, da ebreo e uomo della Shoah, riscrive la lirica carducciana, sotto l’influenza condizionante della shoahità. Contestualmente ha luogo quel pro-­‐‑
2 cesso che George Steiner, mutuando il concetto da Ben Johnson, ha definito di ‘in-­‐‑
gestione’, nel senso di “appropriazione personale e viscerale” di un testo, dove nella rilettura che “un poeta fa di un altro poeta all’interno della poesia, l’ermeneutica legge il testo vivo che Ermete, il messaggero, ha riportato dal mondo dei testi immor-­‐‑
tali”.6 DUE POESIE Questi sono i versi de ‘Il bove’, la celeberrima poesia di Carducci, dalla rilevanza pressoché ‘nazional-­‐‑popolare’, tratta dalla raccolta Rime Nuove (1861-­‐‑1887): T’amo, o pio bove; e mite un sentimento di vigore e di pace al cor m’infondi, o che solenne come un monumento tu guardi i campi liberi e fecondi, o che al giogo inchinandoti contento l’agil opra de l’uom grave secondi: ei t’esorta e ti punge, e tu co ‘l lento giro de’pazienti occhi rispondi. Da la larga narice umida e nera fuma il tuo spirto, e come un inno lieto il mugghio nel sereno aer si perde; e del grave occhio glauco entro l’austera dolcezza si rispecchia ampio e quïeto il divino del pian silenzio verde.7 La rivisitazione e la rilettura dell’idillio carducciano da parte di Levi si intitola semplicemente ‘Pio’, reca la data 18 maggio 1984, ed è tratta da Ad ora incerta. Per effetto della shoahità, questa specie di categoria immanente all’atto della scrittura del sopravvissuto, l’ode bucolica perde il suo candore e la sua innocenza: Pio bove un corno. Pio per costrizione, Pio contro voglia, pio contro natura, Pio per arcadia, pio per eufemismo. Ci vuole un bel coraggio a dirmi pio E a dedicarmi perfino un sonetto. Pio sarà Lei, professore, Dotto in greco e latino, Premio Nobel, che Batte alle chiuse imposte coi ramicelli di fiori In mancanza di meglio Mentre io m'ʹinchino al giogo, pensi quanto contento. Fosse stato presente quando m'ʹhan reso pio Le sarebbe passata la voglia di fare versi E a mezzogiorno di mangiare il lesso. O pensa che io non veda, qui sul prato, 3 Il mio fratello intero, erto, collerico, Che con un solo colpo delle reni Insemina la mia sorella vacca? Oy gevàlt! Inaudita violenza La violenza di farmi nonviolento.8 La riscrittura di Levi, scrittore della Shoah, stravolge la serafica poesia pastorale e su di essa cala Auschwitz. In essa, come attraverso un prisma, si riflette una densità sinistra di allusioni e di suggestioni sub specie Auschwitz. Confesso che dopo l’‘ingestione’ leviana non mi è stato più possibile leggere la poesia carducciana come prima. Come Kafka – autore obblgato quando si parla di Levi, avendo esercitato su di lui una ben nota fascinazione – si avvalse di figure zoologiche e di storie di animali (che tanto piacquero a Buber), allo stesso modo si serve del processo di antropomorfizzazione con lo scopo di illustrare la condizione dell’ebreo. In tutta evidenza quello leviano è un bue ebreo dichiarato, che parla ed impreca in yiddish: “Oy gevàlt!”.9 Si esce da Arcadia e si entra ad Auschwitz. Non è dato sbagliare: il bue protesta nel linguaggio dei ‘sommersi’, di coloro che hanno raggiunto il fondo e non sono tornati per testimoniare. Questo bue ebreo è anche ‘pio’, un bue hassid, o meglio è un bue che è stato ‘reso pio’, dapprima castrandolo e poi costringendolo ad inchinarsi al giogo. La foca-­‐‑
lizzazione interna presuppone la medesimazione con il bue. Di grande potenza sono la pregnanza simbolica e la carica allusiva: si va dall'ʹ aqedâ, ‘il legamento’ (d’emblée il pensiero va al sacrificio-­‐‑messa in scena di Isacco), alla sottomissione al ‘giogo’, che richiama il giogo della Torah (‘ol hatorà), in senso lato, quella che Neher definiva la “dura felicità di essere ebreo”. Nel Talmud, definito da Levi “la miglior merce della vita”, tra le tante cose ci si interroga sulla presenza del male e, per illustrare le modalità con cui vengono addossati i carichi esistenziali agli uomini, viene istituita una similitudine, che arieggia la situazione del ‘pio bove’ leviano: un padrone terriero che aveva due vacche, una forte e l'ʹaltra debole. La domanda è: a quale delle due si deve mettere il giogo? Certamente a quella forte; allo stesso modo Dio si comporta con il giusto. Il ricorso midrashico non esaurisce la fitta tessitura concettuale e allegorica della poesia di Levi riferibile all’ebreitudine. Intanto, a ragione Wiesel riteneva che non fosse tanto Dio “il problema di Primo Levi”, bensì ciò che “l’uomo fa o non fa, le malefatte dell’uomo, la sua deriva o il suo eroismo”.10 Tra loro c’erano differenze non irrilevanti: “Avevo bisogno di Dio, Primo no”: aveva visto “troppe sofferenze umane per non ribellarsi a una religione che pretende di imporre ad esse il suo senso e la sua legge”.11 Del resto ribellione e protesta sono componenti ebraiche fondamentali di Levi; d’altra parte “l’ingiustizia può ispirare la collera o la rivolta, ma non la disperazione”.12 Sono noti i suoi commenti in fatto di Teodicea, in occasione del dialo-­‐‑
go con Camon: c’è stato Auschwitz, quindi non può esistere Dio (in margine la celebre postilla: “non trovo soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo”). Lo 4 stesso ateismo al fondo è da considerare la forma più immediata di protesta contro l’insondabile giustizia divina. Nella poesia di Levi si rifiuta in modo veemente l’investitura di ‘pio bove’, tanto più se non la si è scelta, se ha avuto luogo ‘per costrizione’, ‘contro voglia’, ‘contro na-­‐‑
tura’. Il bue ebreo di Levi si mostra tutt’altro che cedevole a chinare il capo offrendolo al giogo, che inveisce per la castrazione subita, in attesa di stramazzare sotto il peso dei sacchi, affettuosamente ucciso da una nerbata, come Repiscitto il povero somaro ‘cipollaro’ nel sonetto del Belli (‘Se more’), ricordato da Levi nella Ricerca delle radici, “che muore una morte da martire”.13 Come annotava Giorgio Vigolo, “sotto l’appa-­‐‑
rente scherzosità” del sonetto, come per il ‘Bove’ carducciano, c’è “un grosso contrab-­‐‑
bando di cose penose”, che il grande poeta romano tratta con una “pietà, nascosta sotto il riso, per gli esseri inferiori, avviliti, degradati”.14 Non c’è dubbio che il sonetto del Belli, in chi ha conosciuto e vissuto Auschwitz, rievocasse scene di ordinaria brutalità concentrazionaria. UNA RETORICA DELLA SOFFERENZA Nella protesta del bue riecheggia quella dell’uomo ebreo, rivolta all'ʹinsensata elezione ad essere pio malgré lui, all'ʹimpossibilità di essere uomo come tutti gli altri, né buono, né cattivo, né pio, né empio. Nel giudaismo antico, anche perché inevitabile, la sofferenza veniva elaborata e trasformata in energia vitale. L’eroismo religioso passivo dei martiri attribuiva alla sofferenza un senso, una valenza consola-­‐‑
toria, perché considerata un segno di Dio, per cui s'ʹinvitava “il pio a sopportare la persecuzione in silenzio, confidando nella sua bontà, e ad attenderne la fine. L’accet-­‐‑
tazione della sofferenza non esclude assolutamente il lamento o la protesta”.15 In un modo o nell’altro sulla poesia aleggia l’eterna figura di Giobbe, peraltro indicato da Levi nella personale antologia La ricerca delle radici, simbolo principe della sofferenza ingiusta, “la cui storia splendida e atroce racchiude in sé la domanda di tutti i tempi”. Secondo Lévinas la sofferenza dell’innocente e del giusto, per una giustizia che non aveva trionfo, era concretamente vissuta come ebraismo. Di fatto, però, la tradizione ebraica, più che mai opportuna la mise en relief di Wiesel, “nega valore alla sofferenza”, soprattutto quella fine a se stessa, per meglio dire “scegliere la sofferenza è contro la tradizione”, e non solo per il chassidismo, che nel merito si era pronunciato in modo perentorio. D'ʹaltronde, Freud alla fidanzata scrisse puntualizzando che “l'ʹebreo è per la gioia, e la gioia è per l'ʹebreo”.16 E quando il buon Philip Roth in un romanzo fa esplodere in modo irriverente e sacrilego la sua insofferenza: “Mi esce dagli occhi! Basta uffa!, la saga degli Ebrei sofferenti! Fatemi un favore, mia gente, e andate a prendervela in culo voi e la vostra eredità sofferente, e mettetevela nel vostro culo sofferente che è meglio”, si colloca nel solco della tradizione più di quanto si possa pensare.17 L’ebraismo inneggia alla vita, ritenendo che nella sofferenza non ci sia alcun futuro. Gli stessi romanzi della sofferenza che hanno riscosso un enorme successo di lettura, come ad esempio L’ultimo dei giusti di Schwarz-­‐‑Bart oppure il Diario di Anne Frank, 5 nella misura in cui “questa sorta di scritti riferiscono il destino ebraico, oppure lo proiettano, o lo significano unicamente sotto il segno della sofferenza, non erano da considerare dei romanzi interamente ebraici ma un po’cristiani, e andavano incontro ad un certo desiderio di espiazione del mondo colpevole”.18 La rappresentazione delle esperienze dell’esilio secondo i codici consolidati di una ‘storia lacrimale’, di una Leidengeschichte, improntata ad una visione vittimaria, finiva per sconfinare in una retorica della sofferenza. Come precisa Wiesel: “Sì, c’è molta sofferenza, ma la nostra non è una teologia della sofferenza […] dire che soffriamo per Dio sarebbe già dare una giustificazione e un significato religioso alla sofferenza che degli uomini ci hanno fatto subire”.19 Dalla sua prospettiva laica Levi non esita a denunciare tutta la stoltezza implicita nell’ipotesi della sofferenza intesa come messa alla prova da parte di Dio. La sofferenza deve essere evitata in ogni mo-­‐‑
do: “l’unico dovere che ha l’uomo al mondo, secondo me, laico, è di evitare la sofferenza agli altri e a se stessi”.20 Il bue leviano la rifiuta insieme all’idea di una passiva rassegnazione. Benché i suoi ragionamenti lo attestino su posizioni agnostico-­‐‑atee, (c’è però “una sorta di contraddizione in termini quando un ebreo si pretende ebreo ateo”, fa presente Arnold Mandel),21agli occhi dello scrittore della shoahità, il racconto di Giob-­‐‑
be risulta esemplare del destino del popolo ebraico e delle sofferenze ingiustamente patite, ma le illogiche o incomprensibili disposizioni divine vengono contestate. Del resto il Giobbe ebreo (contrariamente a quello cristiano) è tutt’altro che paziente, non si sottomette in silenzio alla volontà dell’Eterno. Nella poesia la voce del bue si so-­‐‑
vrappone quella di Levi, priva del benché minimo accenno a teologizzare il genoci-­‐‑
dio, perciò si disconosce la prova soggiogante che non ha alcuna virtù nobilitante, di quel “tremendo privilegio” della “sua generazione e del suo popolo”, elezione a suo giudizio inaccettabile: troppo ingente ed eccessiva la sproporzione tra un ‘privilegio’ di questo genere e gli effetti che ne risultano. Con la Shoah l’ebreo è divenuto l’universale incarnazione della vittima. Oltre a ciò, nel corso degli anni si è arrivati ad una ‘stilizzazione’ che ha prodotto “un conformismo dell’Olocausto, un sentimentalismo dell’Olocausto” (Kertész). Molto facile che questo ‘sentimentalismo’ collocasse in automatico l’ebreo, in quanto monumentale figurazione vittimaria “sul lato banale della virtù” (Brodskij), che in un qualche modo si fosse indotti ad attribuirle un quid pluris quanto a prestigio e supe-­‐‑
riorità morale. Il fatto è che le vittime “ci affascinano proprio perché sono in una posi-­‐‑
zione di vittima. Si tratta di una situazione che rischia di autoalimentarsi. La vittima piace”.22 Così come piace e rassicura l'ʹimmagine del placido bove arcadico di Carduc-­‐‑
ci, ma essere vittima non piace al bue di Levi che muggisce in yiddish, in una condizione vittimale, anche per il fatto di passare inascoltato, essendo privo della possibilità di un linguaggio (se non il disarticolato “mugolio animale” di cui si è parlato in Dello scrivere oscuro). Primo Levi offre al bue una voce, una parola umana, che è quella dei ‘sommersi’, oltraggiata e protestaria. Alla fine si fa largo un concetto urticante, che contrasta le facili esaltazioni della vittima e che sgonfia i trionfalismi delle martirologie: “Non è detto che la vittima sia 6 pura, sia totalmente esente da colpa”.23 D’altra parte, quale merito o quale virtù ci sarebbe nell’essere vittima? Come ha scritto Anna Langfus: “Un uomo che soffre non è per forza di cose un santo. È un uomo che soffre e basta”. La sofferenza non nobilita affatto, così sembra ragionare il bove leviano che forse sarebbe stato d’accordo con György Konrád: “Gli ebrei hanno accettato il ruolo romantico della vittima, e questa è stata una colpevole mancanza di responsabilità morale”.24 Per di più, lo statuto di e-­‐‑
terna vittima, “questa sproporzionata esibizione di vittimologia genera l’impressione che l’ebreo sia colui che è stato gassato, e che sia esistito per questo”.25 Non senza qualche ambiguità Lévinas parlava di “un’essenza ultima” del giudaismo, che forse aveva a che fare con “un’innata disposizione al sacrificio involontario, alla sua persecuzione”.26 Lec, invece, se ne uscì con un graffiante pensiero: “Per garantirgli il martirio Dio diede a suo figlio le sembianze di ebreo”.27 Facezie a parte, la condizione vittimaria e le inclinazioni bovine al giogo non sono ineluttabile questione di cellule, conseguenze genetiche inscritte nell’esistenza ebraica. BISONTI EBRAICI In occasione dell’incontro con Philip Roth (1986), Levi si trovò a parlare di Se non ora quando (1981), singolare romanzo spaghetti-­‐‑yiddishkeit, aspramente criticato in America per il carattere convenzionale e raccogliticcio della sua rappresentazione del mondo ebraico-­‐‑orientale. In effetti era una cultura che non gli apparteneva. Tuttavia, per qunto mi riguarda, il romanzo attrae proprio per l’incontro tra questo ebraismo ‘esotico’ e quello occidentale, familiare di Argonopoli, su cui Alberto Cavaglion ha scritto pagine suggestive.28 Per la sua appassionata acculturazione Levi parlò di “un’avventura intellet-­‐‑
tuale”, arrivando a definire il libro ‘liberatorio’, e l’anno che impiegò a scriverlo: “un anno felice”. Levi enuncia le motivazioni che lo hanno spinto a scrivere quest’opera, che è solo di qualche anno precedente a ‘Pio’: non si trattò solo della volontà di dimo-­‐‑
strare di essere uno scrittore ‘in piena regola’, in grado di imbastire storie ed in-­‐‑
ventare figure umane, ma anche “combattere un luogo comune ancora prevalente in Italia: un ebreo è una persona mite, uno studioso (religioso o laico) inadatto alla guerra, umiliato, che ha sopportato secoli di persecuzione senza mai reagire. Mi sembrava doveroso rendere omaggio a quegli ebrei che, in condizioni disperate, tro-­‐‑
varono il coraggio e la capacità di resistere”.29 Con questo romanzo si intendeva infirmare il cliché degli ebrei mansueti ed ar-­‐‑
rendevoli, lasciatisi docilmente accompagnare allo sterminio “come un branco di pecore al macello”. La diffusione di questa similitudine viene generalmente attribuita ad Abba Kovner, capo dei resistenti di Vilna, ad un suo intervento nel manifesto della Gioventù sionista (31 dicembre 1941), nell’intento di spronare gli ebrei aux armes, a non lasciarsi deportare in vagoni bestiame: “Non lasciamoci condurre al macello. È vero che siamo deboli e impotenti ma la sola risposta all’omicida è l’autodifesa”.30 Nel romanzo campeggia una canzone, ‘una specie di marcia’, composta dal par-­‐‑
tigiano Gedale, che guida una banda di ebrei polacchi e russi unitisi alla resistenza: 7 Ci riconoscete? Siamo le pecore del ghetto, Tosate per mille anni, rassegnate all’offesa Siamo i sarti, i copisti ed i cantori Appassiti nell’ombra della Croce. Ora abbiamo imparato a sparare, e colpiamo diritto Se non sono io per me, chi sarà per me? Se non così, come? E se non ora, quando? I nostri fratelli sono saliti in cielo Per i camini di Sobibór e di Treblinka, Si sono scavati una tomba nell’aria Solo noi pochi siamo sopravvissuti Per l’onore del nostro popolo sommerso Per la vendetta e la testimonianza […] Siamo i figli di Davide e gli ostinati di Massada. Ognuno di noi porta in tasca la pietra Che ha frantumato la fronte di Golia. Fratelli, via dall’Europa delle tombe: Saliamo insieme verso la terra Dove saremo uomini fra gli altri uomini […]31 In Se non ora quando, anziché del bue soggiogato e “reso pio”, nella banda di partigia-­‐‑
ni, faceva la sua comparsa “un bisonte ebraico”, combattivo e tutt’altro che rassegna-­‐‑
to, che ha imparato a sparare diritto per colpire, a difendere l’onore ebraico, “per la vendetta e la testimonianza” come gli ebrei indomabili del ghetto di Varsavia, la di-­‐‑
mostrazione che anche “dove tutto è perduto, è concesso all’uomo di salvare, insieme con la propria dignità, quella delle generazioni avvenire”.32 Con orgoglio si sfatava la parte di vittima sacrificale da sempre assegnata all’ebreo.33 Gli episodi di resistenza ebraica ebbero grande importanza in Israele, nella mitologia fondativa dei ‘halutzim. Lo spirito guerriero e l’animus pugnandi degli insorti di Varsavia idealmente davano continuità alla leggendaria e indomita resistenza di Massada. Nella nascente formazione nazionale si promuoveva l’idea di hebreus novus, e la creazione di una nuova cultura, che avrebbe cancellato la mentalità e la passività disonorevoli della diaspora, ispirandosi all’idea-­‐‑guida di gevura (‘eroismo’).34 La vecchia onomastica veniva abbandonata, ‘sionizzata’, per il fatto che quella della diaspora faceva “pensare a degli ebrei deboli portati al macello e rinchiu-­‐‑
si nei campi di concentramento come bestiame”.35 Il sionismo offriva la ricetta per avviare una vera e propria mutazione genetica degli infermi e malaticci ebrei della diaspora; non solo dall’essere “la razza più co-­‐‑
smopolita della terra” si andava – secondo Arthur Koestler – verso modi ed ideali “provinciali e sciovinisti”. Si affermava il modello virile e aitante del sabra, del “Tarzan della Giudea”: se i genitori della diaspora “erano sensibilissimi fasci di nervi in corpi imperfetti”, i nuovi ebrei avevano nervi come “corde di frusta”, mentre e i loro corpi erano “quelli di un’orda di Tarzan ebrei vaganti per i colli di Giudea”.36 Vladimir Jabotinsky evidenziava la discrepanza tra la mentalità sionista e quella degli ebrei devoti alla Torah: 8 Il ghetto disprezzava la virilità fisica, il principio del potere maschile come veniva compreso e venerato da tutti i popoli liberi nella storia. Il coraggio fisico e la forza fisica non servivano a nulla, la prodezza fisica era semmai un oggetto di ridicolo. L’unico vero e riconosciuto eroismo del ghetto consisteva nella soppressione di sé e nella caparbia ubbidienza al volere dell’alto.37 Si condannava l’immagine dell'ʹebreo della diaspora, sottomesso ed ‘impotente’, docile come lo può essere un bove, un toro che è castrato a tal fine.38 Primo Levi associa in modo esplicito l’esser “reso pio” anche alla brutalità della castrazione e alla privazione della potenza sessuale: “O pensa che io non veda, qui sul prato,/ Il mio fratello intero, erto, collerico,/ Che con un solo colpo delle reni/ Insemina la mia sorella vacca?”. In Eretz Israel i sopravvissuti ai campi di sterminio vengono emarginati: “si com-­‐‑
piangono, si giunge fino ad ospitarli, ma non si rispettano”, prendeva atto con amarezza e sconforto Wiesel. Hanno deciso di non lasciare l’Europa quando dovevano: se hanno sofferto la colpa è loro. Nell’ambito del culto della forza che caratterizza l’israelità, quegli ebrei rappresentano il contro-­‐‑modello negativo, “l’aspetto peggiore della storia ebraica, l’Ebreo debole, prono, che ha bisogno di essere protetto; personificano la diaspora e le sue indegnità”.39 I nuovi ebrei, agguerriti e trionfanti, rinfacciano apertamente ai sopravvissuti la loro passività (vengono addirittura apostrofati sabonim, ‘saponette’, dai giovani studenti), la loro imbelle rassegnazione, il loro pecorismo. Ricorrente è la similitudine, che è diventato lo slogan della resistenza israeliana: “Siamo seicentomila e abbiamo battuto sei eserciti arabi ben equipaggiati; voi eravate sei milioni e vi siete lasciati portare come pecore al macello?”. Alle vittime, al limite va il compatimento o un po’ di pietà. Si ce-­‐‑
lebrano “le virtù eroiche del sionismo”, mentre si condannano “i misfatti della dia-­‐‑
spora” che “perverte l’uomo e lo disonora”, un atteggiamento passivo che ha portato alla distruzione degli ebrei europei.40 Per quanto, per sua strutturale conformazione mentale Levi rimaneva fermo e convinto uomo della diaspora (rispetto all’israelità “essere ebrei vuol dire un’altra cosa”), vivo assertore dei suoi valori: “Io ebreo diasporico, molto più italiano che ebreo, preferirei che il baricentro dell’ebraismo rimanesse fuori di Israele […] il meglio della cultura ebraica è legato al fatto di essere dispersa, policentrica”.41 Ciò non toglie che con la figura del bove Levi rifiuti una presunta disposizione al sacrificio dell’ebreo, che ‘contento si inchina al giogo’. Una certa cultura tende a ce-­‐‑
lebrare il vittimismo ed il martirio, come il bove, che nella poesia accoglie “co ‘l lento giro de’ pazienti occhi”, le esortazioni e gli sproni al lavoro dell’uomo (“ei t’esorta e ti punge”). Ma giustizia vuole che audietur altera pars: davvero quel mugghio è da consi-­‐‑
derare “un inno lieto” che si disperde nella tranquillità dei campi, come scrive Carducci? Sicuramente è più rassicurante pensarlo, esattamente come lo è (almeno per i più) leggere Primo Levi, assurto a modello di una testimonianza spassionata e scevra di risentimenti. Cynthia Ozick questo lo faceva presente, in una lettura di cui l'ʹopera di Levi aveva un disperato bisogno: 9 Tra gli scriba dell’Olocausto Levi sembra essere quello che meno affligge, meno ferisce, meno implica il lettore. Un’attitudine scientifica o oggettiva sarà certamente informativa, ma declinerà ogni parvenza di agitazione. Ciò che abbiamo ricevuto da Levi, di conseguenza, è il ritratto di un ossimoro psicologico: l’infero cicerone di buone maniere, l’orrore mortale dalla voce decorosa. 42 I suoi libri sono “i più facili da accettare” proprio per la mancanza di rabbia o odio manifesti: “non ha importunato o arringato, drammatizzato o poetizzato, brandito il pugno o gridato o fatto politica”, anzi il più delle volte “si è tenuto lontano dall’accusare, dal rimproverare, dall’insistere e dal diffamare, dal compiangersi e dal protestare” apertamente, limitandosi “all’osservazione, all’annotazione ed al riserbo”. Tuttavia, pur con questo approccio asettico di ‘naturalista’, da Darwin dei campi di sterminio, pur con tutti gli elogi della chiarezza e le censure dello scrivere oscuro, la sua scrittura palesa un cuore di tenebra, dimostrandosi lontano anni luce dall’“essere un testimone pacifico”.43 Nella piena fluviale di studi e saggi su Levi, Cynthia Ozick è una splendida voce fuori dal coro, che si distingue per sensibilità ed autonomia di pensiero, per mirabile amore della verità (merce rara tra le legioni di ermeneuti leviani), al grido: “Nessuno deve fraintendere Primo Levi”. Nel corso della sua convincente disamina, la scrittrice americana riportava due pareri illustri, quello di Irving Howe che parlava di “dignità imperturbabile” e quello di James Atlas, che riferiva di una “magistrale equanimità”: entrambi secondarono fin troppo le professioni di pacata compostezza di Levi facendo in modo e maniera di inverarla nella lettura. Questi giudizi sotto sotto tradiscono invero la pietosa convinzione che l’inferno concentrazionario ebbe una volta per tutte a cessare con la liberazione e la fuoriuscita dai lager, tutto questo è però un autoinganno: quando tutto finisce tutto inizia, ed era proprio ciò che il mondo non voleva. Malauguratamente quella beata prospettiva risultava irreale e non trovava riscontro nella temperatura emotiva della febbricitante scrittura del testimone. La proverbiale pacatezza che, alla leggera, gli viene attribuita, mostra matter of fact di essere una parvenza. Non posso, insomma, che condividere la percezione ‘inquieta’ di Tony Judt, altra voce eterodossa, quando lucidamente osser-­‐‑
va che “la prosa di Levi è complessa, sensibile, composta. In generale è ‘più fredda’ delle altre memorie; per questo, quando improvvisamente si accende e si fa incande-­‐‑
scente per la rabbia repressa, è la più devastante di tutte”.44 L’ULTIMO GRIDO Primo Levi si impose di raccontare in modo calmo e ‘freddo’, in realtà la sua parola è prossima all’urlo, ad un grido rabbioso nella notte, pur essendo qualcosa che per indole e forma mentis sue, non gli era consentito accettare. Secondo Romain Gary, “il grido è sempre stato la più alta espressione dell’uomo”, maggiormente in tempi in cui l’umanità farnetica ed è incapace di “un linguaggio coerente e fraterno”.45 Rifacendosi al pensiero chassidico Wiesel afferma che “Il vero grido è quello che non 10 viene emesso. È il grido represso”.46 In un’intervista Primo Levi ammetteva di avere “abbastanza poche reazioni emotive [sic!], e quelle poche tendo a censurarle, a spe-­‐‑
gnerle, tanto più quando sto scrivendo; cioè non mi piace scrivere d’impeto, neanche parlare d’impeto, e gli impeti che mi vengono dentro tendo a… strozzarli a metà strada”.47 Fa parte del suo carattere questo ‘grido’ insonorizzato, messo a tacere, ma anche del “suo altruismo di scrittore”, perché è del tutto “altruistico evitare le emozioni incontrollabili, il predicare, la catarsi dell’ira, quando tutto ciò così chiaramente chiede giustizia di fronte a una vertigine abominevole e senza precedenti di crimini e criminali”.48 Questo anche per dire che le apparenze non sono affatto da salvare e che quello di Levi è per l’appunto un grido vero, perché muto, un gemito di protesta soffocato. Ma quando finalmente arriva ad esprimersi ed esce dalla strozza, ecco che dirompe, come nel bue, in un “Oy gevàlt!”, con sacrosanti accenti di protesta. In questo grido, più di ogni altra cosa, mi è dato riconoscere il carattere e la potenza della parola di Primo Levi, in consonanza pure con la saggezza zoharica secondo cui “L’uomo ha sempre se non l’ultima parola, almeno l’ultimo grido. Quest’istante segna la nascita dell’arte”.49 Questo grido contenuto e possente affiora nei Sommersi e i salvati come massa lavica dal sottosuolo, da un sostrato di magma incandescente. Come ha scritto la Ozick: […] il "ʺdistacco"ʺ ha da tempo lasciato il campo alla convulsione. Ciò che prima era trattenuto implode adesso in queste pagine. […] Le convulsioni dell'ʹira hanno alterato la natura della pro-­‐‑
sa, e se possiamo giudicare dal suicidio di Levi, anche quella dell'ʹindividuo. È interessante come quasi nessuno sia stato disposto ad ammettere che la testimonianza finale di Levi era satura di una rabbia mortale, come se fosse troppo crudele squarciare il velo dello spirito puro. Può essere crudele; ma è la stessa mano di Levi che squarcia il velo e dispone la miccia.[…] E cosa ne è dei precedenti volumi? Che ne è stato della loro lucida calma, dell’assenza d’odio, della serenità magistrale, del distacco spassionato? I lettori non hanno frainteso il tono di Levi, almeno finora. I sommersi e i salvati fa sembrare credibile che il ritegno di quarant’anni sia stato assunto grazie a una solida aderenza a una elevata idée fixe, forse a un autoinganno: l’immagine di come un uomo civile debba comportarsi quando sta documentando la ferocia più disumana. Il risultato è stato il consenso di tutto il mondo.50 La scrittrice americana avrebbe pure voluto (ed io con lei) che si indagassero una volta per tutte le ragioni delle pervicaci resistenze e dell’impossibilità di accettare la ‘rabbia’, le “convulsioni dell’ira”, le recrudescenze di vergogna e di sdegno, reazioni peraltro assolutamente fisiologiche. Questa inchiesta non è mai stata fatta, per cui sempre più si ventila l’ipotesi di un ‘autoinganno’, il sortilegio di una “semplificazio-­‐‑
ne allarmante”, di melliflue ambiguità, fino a parlare, a ragion veduta, in taluni casi di “spregevole montatura pubblicitaria”, talora di ‘vigliaccheria’.51 Non c’è dubbio che sia stato anche Levi stesso a contribuire al locus tritus del suo pro-­‐‑
filo ufficiale. Nella prefazione a Se questo è un uomo, presentava la sua narrazione come una documentazione “per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano”. 52 Levi si è messo in posa da philosophe, d’altra parte il contegno stile 11 razionale-­‐‑illuminista che informa la narrazione, la compostezza epiteliale che apparentemente escludeva l’imprecazione e la rabbia, erano strategici, funzionali a suscitare nel lettore l’indignazione: È più efficace una testimonianza fatta con ritegno che una fatta con sdegno: lo sdegno deve essere del lettore, non dell’autore e non è detto che lo sdegno dell’autore diventi sdegno del lettore. Io ho voluto fornire al lettore la materia prima per il suo sdegno.53 Umanamente sembra cosa impossibile parlare in modo freddo e distaccato di così tanto orrore e di così tante atrocità, senza che trapelasse nulla dell’urlo silente, invece così non è parso alla maggior parte dei commentatori. Eppure, dove porta scrivere la Shoah? Il più delle volte “Sbocca solo sul buio e sulla follia” è la risposta di Wiesel. Ma tant’è, nelle operazioni di accomodamento, se non di vera e propria rimozione, delle vicende del genocidio nelle zone più riposte della coscienza contemporanea dell'ʹOccidente, si è promossa un’immagine di Primo Levi conciliante e ragionevole, dalla vaga mitezza ‘bovina’ in odore di santità. Difficile dissipare la sgradevole sensazione che sull’uomo ferito, di una ferita insanabile e poco santificante, irrime-­‐‑
diabilmente oltraggiato durante il suo soggiorno agli inferi, sia stato steso un “balsa-­‐‑
mo falsificatore”, riconducibile a “quell’illusoria, o auto-­‐‑ingannatoria, aureola di buo-­‐‑
ni sentimenti (o nel caso peggiore, assenza di cattivi sentimenti) che generalmente si accompagnano al nome di Levi”.54 Avanzo il sospetto, confortato da Cynthia Ozick, che Levi è stato per così dire ‘costretto’ malgré lui “in una falsa posizione”, proprio come il bue carducciano: reso “pio per costrizione”, eretto a “solenne monumento”, non campestre, ma della me-­‐‑
moria che Levi, in anni recenti, è diventato; per davvero “l’infero cicerone di buone maniere”, che forse non aveva mai voluto essere: “La mia idea è che Primo fosse stufo di essere un modello, un testimone che andava ripetendo sempre lo stesso canovaccio” considerava, e probabilmente a ragione, Luciana Nissim Momigliano.55 Levi offriva una testimonianza dalle intonazioni rassicuranti e più facili da accettare, che non andavano a disturbare la quiete pubblica. “Non sono stati pochi ad essere caduti nel tranello che era stato loro teso per anni dal misurato richiamo di Levi alla ragione e all’ottimismo”.56 Ma in quel modello monumentale di decoroso e mansueto testimone, avvicinabile al docile pio bove carducciano, era come se vi fosse stato costretto: perché lo si è voluto così. Senza che ce se ne accorgesse, su di lui, come sul bue, era stata praticata una forma violenza: la violenza inaudita di farlo non violento, lamentata nella lingua dei sommersi. Nel respingere al mittente, per nulla onorato, il titolo di pia-­‐‑vittima (“Pio sarà Lei, professore”) di cui, sia il deportato sia il bove, avrebbero fatto volentieri a meno, si fa largo la sensazione che Levi, consciamente o meno, avesse voluto riferirsi ad altri che al povero Carducci, magari ai pastorelli ed altre anime belle in Arcadia (ma non in Auschwitz): davvero tanta umile rassegnazione, impressa negli occhi estrema-­‐‑
mente umani ed ebrei del bove, doveva infondere il “mite sentimento di vigore e di pace” celebrato dal Premio Nobel? 12 HA RAGIONE LEI, È PROPRIO UN MITO Ecco perché quello del pio bove appare sempre più un diverso modo di dire ‘tu’. Forse un’indiretta risposta, per uscire da un cliché costrittivo e a scanso di malintesi, a chi come Jean Améry, provocando o fraintendendo, gli aveva dato del ‘perdonatore’ (Vergeber), ritenendolo, chissà perché (per l’immaginaria mitezza bovina del testimone?), una persona disposta a perdonare sempre e chiunque (un Verzeihende). Nei Sommersi e i salvati Levi dedica un accorato capitolo ad Améry, nel quale ha modo di specificare, una volta per sempre, la sua posizione e come stanno veramente le cose: egli ammette di non nutrire il suo rancore ed il suo ‘risentimento’, coltivati per una forma di coerenza, tuttavia come rigetta l’epiteto di pio, così rifiuta quello di perdonatore. Semplicemente perché è un termine impreciso dice, ma lo fa con malcelata irritazione, che trapela dal tono emotivo: Ho saputo qualche anno fa che, in una sua lettera alla comune amica Hety S [chmitt-­‐‑Maas] di cui parlerò in seguito, Améry mi ha definito il ‘perdonatore’. Non la considero un’offesa né una lode, bensì un’imprecisione. Non ho la tendenza a perdonare, non ho mai perdonato nessuno dei nostri nemici di allora […] perché non conosco atti umani che possano cancellare una colpa; chiedo giustizia, ma non sono capace, personalmente, di fare a pugni né di rendere il colpo.57 Si fa riferimento alla “morale del Zurückschlagen”, del “rendere il colpo” sostenuta dall’intellettuale austriaco, alla quale Levi si sentiva inadatto: “non per santità evan-­‐‑
gelica né per aristocrazia intellettualistica”, ma per indole, per “intrinseca inca-­‐‑
pacità”, ammettendo la sua “assoluta inferiorità” ad esprimere la sua ammirazione per il coraggio. Quella volta che si provò a rispondere con le mani, in occasione della grottesca colluttazione con il nano Elias, ebbe la chiara consapevolezza di “tradire me stesso, e di trasgredire ad una norma trasmessami da innumerevoli antenati”. Queste erano pure le ragioni per cui “la mia carriera partigiana è stata così breve, dolorosa, stupida e tragica: recitavo la parte di un altro”.58 Se la resistenza ebraica in Russia e in Polonia ebbe un’importanza notevole, in primo luogo sul piano simbolico, non si deve tuttavia dimenticare che i resistenti si trovarono in un drammatico conflitto interiore ad agire contrariamente all’educazione alla non violenza che era stata loro impartita. In Se non ora quando non si cede alla corriva esaltazione dell’eroismo dei combattenti, non ci si dimentica degli scrupoli dei talmudisti che si rifiutano di sparare contro degli esseri umani, perché viene comandato di ‘non uccidere’. C’era di che riflettere ed interrogarsi su quali fossero i veri valori: “Mendel, come lo stesso Primo Levi, è incessantemente dilaniato da queste due opposte esigenze. Pensa sia importante, ma anche orribile, che vi siano partigiani ebrei”.59 Nel romanzo Mendel ritiene che “Il sangue non si paga col sangue. Il sangue si paga con la giustizia” e di nutrire “un prepotente bisogno di giustizia, non di vendetta”. Ri-­‐‑
chiedere questo non equivale affatto a remissività, ma è un’istanza umana, oltre che profondamente ebraica: “Vittima dell’ingiustizia, l’Ebreo è nemico di chi fonda la sua giustizia sull’ingiustizia”.60 Alla fine credo che Levi la pensasse come Wiesel: “Essere 13 ebreo, al tempo dell’Olocausto, significava forse non comprendere. Avendo rifiutato il delitto come mezzo di sopravvivenza e la morte come soluzione, si accettava di vivere e di morire senza comprendere. Contava solo la volontà di rimanere ebrei, ossia vittime, ossia essere umani”.61 Fare a pugni e restituire il colpo erano fuori dalla portata di Levi, sia per strut-­‐‑
tura caratteriale che per imprinting culturale. A questo proposito sono da ricordare le preziose confessioni dello scrittore raccolte da Paola Valabrega (febbraio 1981), relative al ‘mito’ di un Primo Levi “indignato che non prova odio verso i nazisti”. Levi non può che confermare: effettivamente si tratta di un mito (non l’unico), con cui artificialmente si è modellato il suo profilo: Ha ragione lei, è proprio un mito. È una domanda che mi ossessiona […] In certi momenti quasi quasi mi vergogno di non provare odio, sembra che sia prescritto, sembra che sia concepito come una mostruosità uno che non riesce materialmente a mobilitarsi nel senso dell’odio. Però è proprio così, è vero, è una delle mie sordità, se vogliamo, una mia amputazione psicologica che era già nota […] al tempo in cui ero studente ed ero già allora leggendario come Primo Levi che non si arrabbia mai. I miei compagni di scuola cristiani, al tempo delle leggi razziali, avevano notato e me lo rimproveravano amorevolmente. Io ero indignato, ma manifestazioni clamorose non le posseggo. L’odio in sé, l’ho scritto e lo ripeto, a cosa serve? Si confonde con il desiderio di giustizia, ma son due cose diverse. In sé è mal pilotato, può portare dei danni. Ho detto per paradosso che mi vergogno di non odiare. In realtà mi trovo abbastanza bene così.62 Più che odio o risentimento, che tendono a confondersi con “il desiderio di giustizia”, in Levi si deve parlare di indignazione, spesso soffocata come il suo grido. Se il più delle volte, “quasi mai”, ci si trova di fronte “manifestazioni clamorose” di perdita di self control, non vuol dire che i momenti di indignazione e di collera manchino, anzi quando si verificano, come in Pio, sono massimamente rivelatori. La vis polemica della poesia finisce invero per documentare “lo straordinario esercizio di autocontrollo negli scritti di Levi”.63 Levi non si riteneva affatto un perdonatore: “Perdonare non è verbo mio”. Come precisava ancora Ozick, non lo si poteva considerare “moralmente neutro, e mai lo è stato. Non è un ‘perdonatore’ (solamente qualcuno dalla coscienza offuscata può presupporre di rivendicare tale diritto nell’interesse di chi è stato ucciso) e non è dedito, come molti credono, a un’assenza di rancore verso gli strateghi delle atrocità e i loro seguaci”.64 Potrò sbagliare, ma tra le esternazioni colleriche e di sdegno del bue mi par proprio di udire anche questa: “Perdonatore un corno!”. IL PESO DEI FATTI Non è mai troppo tardi per uscire dal modello di un Levi costruito ad uso e consumo delle coscienza del mondo e restituire un Primo Levi senza levismi. Questa poesia, apparente divertissement, è tutt’altro che innocua, ed ha un considerevole potenziale liberatorio, avendo dato voce ad emozioni il più delle volte censurate. Essa contrasta 14 con la rappresentazione canonico-­‐‑istituzionale e artefatta di Levi. Desta meraviglia osservare come questo testo, in cui si profila un Levi insolito e fuori copione, sia stato, se non disdegnato, almeno ignorato o fatto oggetto di rimozione.65 Non solo, si riscontra anche che quel “sarcasmo feroce” (Cavaglion) che affiora dai versi, più spesso è stato disinnescato, reso inoffensivo, banalizzato ad amabile e ridanciana parodia, in cui “anche il severo Levi si concede una risata aperta”.66 Non si è prestato orecchio al lamento, per nulla flebile del bue, nel linguaggio dei gassati: decisamente troppo perché si possa passarci sopra come sul candore di una bonaria parodia. Nel corso dei decenni la percezione della Shoah è evidentemente mutata e con essa la considerazione di Primo Levi. La tendenza sempre più crescente a ‘monumen-­‐‑
talizzare’ lo scrittore è in linea con la nuova religione civile dell’Olocausto, in cui Auschwitz è diventata una sorta di nuovo Sinai, che si è dotata “di riti, cerimonie, sacerdoti, luoghi di pellegrinaggi e martiri”, e caratterizzata “da una specifica reto-­‐‑
rica e da un precetto dominante: il dovere della memoria”. Una religione che si appoggia “ad alcuni numi tutelari oggetto di glorificazione, i sopravvissuti, e sulle loro testimonianze”, al punto che alcuni storici, (Alvin Rosenfeld è uno di questi), proponevano di considerare le poesie e i romanzi della shoahità “come dei testi ‘sacri’ e non semplicemente letterari”.67 Come spiegava Valentina Pisanty, la Shoah considerata in quanto “evento a parte della storia umana, irrappresentabile non (solo) in conseguenza della sua estrema traumaticità, bensì di una cesura deontica, di un sistema di interdizioni e prescrizioni sancito dai custodi della memoria”, viene coinvolta in un processo di ‘sacralizzazione’; l’avvenimento “viene estrapolato dalla serie dei fatti storici e ricollocato in una dimensione ‘altra’”: gli effetti sono estremamente dilaganti ed invasivi: “gli oggetti che rientrano nel campo gravitazionale della Shoah – testi, perso-­‐‑
ne, frammenti e luoghi – assorbono per contagio la sacralità”, tutto questo fa sì che sia doveroso parlare di Auschwitz e dei suoi testi, ma possibile “solo nei modi e con i toni prescritti”.68 Danilo Kiš, del resto, bene ha fatto a metterci in guardia dal “peso dei fatti”, co-­‐‑
me quelli straordinari dell’Olocausto: esso risulta assai “pericoloso per la letteratu-­‐‑
ra”, in particolare per i facili sconfinamenti nell’“extraletterario”, ravvisabile, per esempio, nell’“accoglienza da parte del pubblico, che non ha nulla a che vedere con la letteratura”.69 La Shoah, in effetti, si propaga e influisce su tutto, pertanto c’è il pericolo concreto che condizioni pesantemente anche le valutazioni ed i giudizi critici. Non solo, “le sofferenze del passato entrano […] in competizione fra loro per attirare l’attenzione del pubblico e delle istituzioni. La sofferenza più è percepita come oscena, più esige compensazioni per essere risarcita”.70 Si dava, insomma, la concreta possibilità che il cupo incombere della Shoah, questo incomparabile evento monstrum, a causa dell’indistinto sentimento di colpabilità del mondo, potesse indurre a disdicevoli azioni di compensazione, aprire le cateratte ad indecorosi ‘risarcimenti letterari’. Non si può far finta di niente e dimenticare che fino ad allora era stato relegato al ruolo di mero testimone. Tutto è cambiato in con-­‐‑
comitanza con la nuova religione della Shoah: per quella che veniva ignorata e non 15 legittimata come letteratura, successivamente si è registrata, tra gli addetti ai lavori, una gara imbarazzante, a chi più magnificava le sue qualità letterarie-­‐‑artistiche di scrittore, di quello che da lui è sempre stato avvertito un ‘altrui mestiere’, una pratica scrutata con sospetto, in quanto testimone e portavoce della shoahità, una condizione che gli ha impedito di vivere sino in fondo il ruolo di scrittore. Si è passati da una negazione ad un’esaltazione, così, beatamente, senza curarsi più di tanto di questioni non così trascurabili ed accessorie: può la scrittura della testimonianza essere letteratura? Wiesel, ad esempio, liquidava la faccenda in modo tranchant: “La letteratura dell'ʹOlocausto non esiste, non può esistere”, anzi “lo stesso termine è un controsenso”, perché Auschwitz nega ogni letteratura, come nega tutti i sistemi, tutte le dottrine” per cui “un romanzo su Auschwitz non è un romanzo o non è su Auschwitz”.71 Ad ogni modo il processo di beatificazione che è stato avviato nei riguardi di Primo Levi tra i fumi degli incensi e le solenni commemorazioni non giova di certo a diradare gli orizzonti e far chiarezza. Non è questo il modo per rendergli gli onori dovuti. “Nessuno fraintenda Primo Levi”: il monito severo di Cynthia Ozick ho ritenuto di doverlo accogliere come un dovere morale. Personalmente ho la convin-­‐‑
zione di evitare, almeno in parte, i fraintendimenti spogliando Levi dei costrittivi caratteri ‘bovini’ e restando in ascolto della parole offerte al pio bove sacrificale, in nome di tutte le vittime soggiogate che non hanno avuto possibilità di parlare e di far conoscere. E alle ‘virtù comuni’ dell’uomo che a Primo Levi sono state attribuite, voglio annoverare anche il santo diritto alla protesta e alla collera. NOTE Cfr. L. De Angelis. ‘Nell’oscurità le parole pesano il doppio. Note a Primo Levi’, in Mémoire oblige. Ri-­‐‑
flessioni sull’opera di Primo Levi, a cura di A. Neiger. Trento: Dipartimento di Studi Letterari, Linguistici e Filologici 2009, 73 –107. 2 D. Meghnagi. Ricomporre l’infranto. L’esperienza dei sopravvissuti alla Shoah. Venezia: Marsilio 2005, 21. 3 I. Kertész. ‘La lunga ombra oscura’, in Il secolo infelice. Milano: Bompiani 2007, 47-­‐‑55. 4 Ibidem. 5 I. Kertés. Dossier K. Milano: Feltrinelli 2009, 167. 6 G. Steiner. Vere presenze. Milano: Garzanti 1992, 35; 26. 7 G. Carducci. Opere scelte, Poesie, a cura di M. Saccenti. Torino: Utet 1993, 423. 8 P. Levi, Ad ora incerta. Milano: Garzanti 1984, 77. 9 Come chiarisce Leo Rosten, il termine deriva dal tedesco Gewalt: ‘potere’, ‘forza’, ed è impiegato sia come interiezione che come sostantivo, per lo più in tre accezioni: “1. Grido di paura, stupore massimo. ‘Gevàlt! Che cosa è successo?’; 2. Grido di soccorso. ‘Gevàlt! Aiuto! Al ladro! 3. Espressione di protesta disperata: ‘Gevàlt! Mio Dio, basta!’ ”. Nella poesia di Levi viene utilizzato in quest’ultimo 1
16 significato. Esiste inoltre il proverbio: “Si viene al mondo con un òy! e lo si lascia con un gevàlt!”. L. Rosten, Oy oy oy. Milano: Mondadori 1999, 115. 10 E. Wiesel-­‐‑M. De Saint Cheron. Il male e l’esilio. Milano: Baldini&Castoldi 2001, 273. 11 E. Wiesel. Tutti i fiumi vanno al mare. Milano: Bompiani 2002, 100. 12 E. Wiesel. Dopo la Notte. Milano: Garzanti 2004, 254. 13 P. Levi. La ricerca delle radici in Opere. Torino: Einaudi 1997, 1481-­‐‑1482. 14 Il commento di Vigolo, citato anche da Levi, è in G.G. Belli. Sonetti, a cura di G. Vigolo. Milano: Mondadori 1984, 320. 15 E. Bembassa. La sofferenza come identità. Verona: Ombre corte 2009, 23. 16 Cit. in D. Meghnagi. Il Padre e la legge. Venezia: Marsilio 1992, 15. 17 P. Roth. Il lamento di Portnoy. Milano: Bompiani 1981, 91-­‐‑92. 18 Solitude d’Israel, données et débats, a cura di J. Halpérin e G. Lewitte. Paris: PUF 1975, 83. 19 E. Wiesel-­‐‑M. De Saint Cheron. Il male e l’esilio, cit., 211. 20 ‘Conversazione con Daniela Amsallem’ (15 luglio 1980), in Prmo Levi, Riga, N° 13, Marcos y Marcos 1997, 57. 21 L’ebreo, si sa, è “malato di Dio” e lo è anche Levi. Le pagine di Alberto Cavaglion, Un altro modo di dire io, le reputo tra le più penetranti che siano state scritte su Levi. Secondo Cavaglion è necessario “ri-­‐‑
vedere la visione consolidata – e confortevole – di un Levi indifferente a ogni provvidenzialismo, laico indefesso”; ci si disinteressa del Levi “non insensibile alla trascendenza, ai problemi della fede, della Scrittura”, al punto che non può che destare sorpresa che “negli ultimi anni della sua vita Levi abbia potuto accettare di essere considerato il capofila degli ebrei italiani, che se ne facesse in qualche misura il portavoce”, che quel modo diverso di dire ‘io’ che già rimbomba di un clangore solenne nello Shemà proemiale passi inascoltato: “pochi aggiungono che l'ʹepigrafe è poca cosa rispetto al ‘modo diverso di dire io’, alla voce di Dio che pervade il libro”. A. Cavaglion. Ebrei senza saperlo. Napoli: L’ancora del Mediterraneo 2002, 85-­‐‑91. 22 E. Bembassa, cit., 192. 23 Intervista di M. Vigevani (Bollettino della Comunità Israelitica di Milano, XL, 5, maggio 1984), in Primo Levi. Conversazioni e interviste 1963-­‐‑1987, a cura di M. Belpoliti. Torino: Einaudi 1997, 218. Cfr. il recente pamphlet di D. Giglioli. Critica della vittima. Roma: Nottetempo 2014. 24 G. Konràd. Ebrei il popolo universale. Udine: Gaspari 2013, 21. 25 E. Bembassa, cit., 150. 26 E. Lévinas. Difficile libertà. Milano: Jaka Book 2004, 280. 27 S.J. Lec. Altri pensieri spettinati. Milano: Bompiani 1999, 101. 28 A. Cavaglion. Notizie da Argon. Torino: Instar 2006. 29 P. Roth. Chiacchiere di bottega. Torino: Einaudi 2004, 16. 30 Cit. in R. Wistrich. Hitler e l’Olocausto. Milano: Rizzoli 2003, 89. 31 P. Levi. Se non ora quando, in Opere, vol. II. Torino: Einaudi 1988, 336-­‐‑337. 32 P. Levi. I temerari del ghetto, in Opere, Pagine sparse, 1186. 33 Sebbene non particolarmente numerose, le rivolte ci furono: la più importante resta senz’altro quella gloriosa di Varsavia (dal 19 aprile al 15 maggio 1943), e quelle registrate nel ghetto di Bialystok (in seguito si ebbero rivolte in altri venti ghetti orientali) e nei campi di sterminio di Treblinka e di Sobibor. Chi riusciva a scampare alla morte finiva nei boschi ad ingrossare le fila dei partigiani attivi nella resistenza. Per una prima visione d’insieme rimando al classico di Y. Suhl. Ed essi si ribellarono. Storia della resistenza ebraica contro il nazismo. Milano: Mursia 1969. 34 Su questi temi rimando al bel libro di I. Zertal. Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia. Torino: Einaudi 2008. 35 S. Sand. Come ho smesso di essere ebreo. Milano: Rizzoli 2013, 79. 36 A. Koestler. Ladri nella notte, cit., 164. 37 Cit. in C. Shindler. Israele. Dal 1948 a oggi. Trieste: Beit 2011, 121. 17 La castrazione nel comparto veterinario-­‐‑zootecnico serve a produrre esemplari con particolari carat-­‐‑
teristiche caratteriali, per l'ʹappunto maschi ‘senza attributi’, molto meno aggressivi, meglio gestibili dagli allevatori. 39 E. Wiesel. Tutti i fiumi vanno al mare, cit., 205. 40 Ibidem, 206. 41 Intervista di Gad Lerner (L’Espresso, 30 settembre 1984) in Primo Levi. Conversazioni e interviste 1963-­‐‑
1987, cit., 308. 42 L’articolo apparso in The New Republic, 21 marzo 1988, poi confluito in C. Ozick. Metaphor and Memory,. New York: Vintage Books 1991, è compreso in Primo Levi. Un'ʹantologia della critica, a cura di E. Ferrero. Torino: Einaudi, 154. 43 Ibidem. 44 T. Judt. L’età dell’oblio. Bari: Laterza 2009, 60. 45 R. Gary. Chiaro di donna. Bellinzona: Casagrande 2001, 87-­‐‑88. 46 E. Wiesel-­‐‑M. De Saint Cheron. Il male e l’esilio, cit., 164. 47 ‘Conversazione con Daniela Amsallem’, in Riga, cit.: 55. 48 C. Ozick, cit., 151. 49 E. Wiesel. La città della fortuna. Firenze: Giuntina 1990, 100. 50 C. Ozick, cit., 161. 51 Il titolo nell’edizione originale francese del lodevole libro di Françoise Carasso recita Primo Levi, le parti pris de la clarté. Belin, Paris, 1997, mentre nell’edizione italiana, con una sciagurata scelta editoriale è stato snaturato e tradotto: La scelta della chiarezza (Torino: Einaudi 2009) e di questa emendatio non si dà alcuna spiegazione. L’operazione è molto sospetta e ambigua: troppo politically uncorrect parlare di ‘partito preso’ da Levi, quasi che così facendo si andasse a sminuire la figura di Levi? Ma un ‘partito preso’ è evidentemente altra cosa da ‘scelta’. L’atteggiamento del testimone verso la chiarezza è per davvero qualcosa di simile ad un parti pris. Esso porta i segni delle aporie e delle disperazioni del-­‐‑
l’espressività che attanagliano il reduce: “la chiarezza della sua scrittura non è semplice trasparenza innocente, è il risultato di un partito preso nello stesso tempo estetico, politico ed etico. È rifiuto dell’oscuro, diffidenza nei riguardi dell’indicibile. È inseparabile da un umanesimo per il quale comprendere e farsi comprendere sono i valori supremi. Ma fino a dove questo partito preso è sostenibile per una scrittura che si radica in un’esperienza ‘impossibile da trasmettere’?”. F. Carasso, Primo Levi, le parti pris de la clarté, cit., 12-­‐‑13. La corruzione del titolo, oltre che uno stravolgimento del senso del libro della Carasso, è anche una disebraizzazione. In particolare penso a quelle peculiarità ben note della scrittura ebraica (beninteso: Primo Levi non è uno scrittore ebreo perché è nato ebreo o perché è stato ad Auschwitz!) sottolineate da Edmond Jabès: “C’è una scrittura ebraica che ci turba perché ha saputo preservarsi in tutti i tempi. Scrittura che abita nella scrittura. La riconosciamo dalla caparbietà a risollevarsi, a mettersi in discussione, a ritornare sull’indicibile”. E. Jabès. Il libro dei margini. Firenze: Sansoni 1986, 177. 52 Faccio rifermento all’ottima e dettagliata edizione di Se questo è un uomo, a cura di Alberto Cavaglion.Torino: Einaudi 2012, 3. 53 Le considerazioni di Levi figurano nella già menzionata intervista di Vigevani, in Primo Levi, conversazioni e interviste, cit., 214. 54 C. Ozick, cit., 154. 55 Cit. da F. Lucrezi. La parola di Hurbinek. Morte di Primo Levi. Firenze: Giuntina 2005, 44. 56 D. Meghnagi. Ricomporre l’infranto, cit., 61. 57 P. Levi. I sommersi e i salvati, in Opere, cit., 1098-­‐‑1099. 58 Ibidem, 1098. 59 F. Carasso. La scelta della chiarezza, cit., 144. 60 E. Jabès. Il libro delle interrogazioni. Reggio Emilia: Elitropia 1982, 74. 61 E. Wiesel. Essere ebreo oggi. Brescia: Morcelliana 1985, 25. 38
18 ‘Conversazione con Paola Valabrega’, in Primo Levi, Riga, cit., 74-­‐‑82. Cfr. il puntuale contributo di A. Neiger. ‘Il risentimento del sopravvissuto. Una riflessione intorno a Jean Améry e Primo Levi’, in Primo Levi, il mestiere di raccontare il dovere di ricordare, Atti del Convegno (Trento, 14 maggio 1997) a cura di A. Neiger. Fossombrone: Metauro 1998, 70. 63 T. Judt, cit., 62. 64 C. Ozick, cit., 160. 65 Ad esempio, non si ritrova alcun accenno al bue nemmeno nella sostanziosa compilazione del Bestiario leviano di M. Belpoliti, nel numero di Riga dedicato a Primo Levi. 66 G. Lagorio. ‘La memoria perenne e la poesia ‘Ad ora incerta’’, in P. Frassica, a cura di. Primo Levi as Witness. Fiesole: Casalini 1990, 70. Cit. da A. Neiger, cit., 71. 67 E. Bembassa, cit., pp. 116, 121. 68 V. Pisanty, Abusi di memoria, Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, Milano-­‐‑Torino, Bruno Mondadori, 2012, pp 99-­‐‑100. 69 D. Kis, Homo poeticus, , Milano, Adelphi, 2009, pp. 174-­‐‑175. 70 E. Bembassa, cit., p. 10. 71 E. Wiesel. Un ebreo oggi, cit., 193-­‐‑228. 62
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