Ricreazione in psicoanalisi Immagini al cinema e stati dissociati del Sé

Transcript

Ricreazione in psicoanalisi Immagini al cinema e stati dissociati del Sé
Ricreazione in psicoanalisi
Immagini al cinema e stati dissociati del Sé
PAOLO BOCCARA E GIUSEPPE RIEFOLO «Io ricreo l’opera: trasformo l’esecuzione in composizione».
Glenn Gould (1974)
Premessa Che genere di ascolto deve mettere in atto lo psicoanalista nella sua stanza di analisi? Sono
solo le parole del paziente, le sue frasi, le sue idee, i simboli da decifrare e da offrirgli con nuovi
significati? O è anche attraverso l’emergenza delle proprie immagini mentali sulle immagini
ascoltate, che l’analista sostiene il processo analitico?
Quando l’analista si ritrova a pensare intorno al racconto di un sogno, deve andare a scoprire
il suo «vero» significato o deve calarsi dentro quelle immagini per descrivere cosa «fanno» nella
sua mente? Cosa deve imparare ad essere uno psicoanalista? Deve tenere conto dell’intersezione
delle storie apparenti che toccano le reciproche infinite configurazioni del suo Sé e del Sé del
paziente? Deve avere la capacità di seguire (e a volte proporre esplicitamente) anche le divagazioni
della sua mente «ai diversi gradi di vicinanza/distanza dall’area della coscienza» (Bollas, 2009, 9)?
Per provare a rispondere a talune di queste domande su pazienti e analisti del nostro tempo,
nelle note che seguono parleremo di parole e di immagini, occupandoci anche di una simmetria che
da tempo cerchiamo di indagare: quella tra la stanza di analisi e la sala cinematografica. Il modello
del film si presta, secondo noi, a sostenere l’analista nel percorso di rappresentazione di elementi
sospesi del campo intersoggettivo condiviso col paziente, proprio come capita a un regista che tenta
di mettere in immagini le sensazioni sospese che lo incalzano. Infatti: «se potevo dirlo a parole, che
bisogno c’era di dipingerla?» (Hopper, 1960).
Attraverso alcuni esempi, suggeriamo un parallelismo tra le posizioni dello spettatore e del
regista con quelle dell’analista e del paziente e, inoltre, ci soffermeremo sui livelli di simmetria tra
la comunicazione analitica e quella del cinema.
Suggeriamo infine, attraverso l’analisi di una recente opera cinematografica, l’uso del film e
del contesto della sala cinematografica a due livelli: da un lato, come modello di un particolare
funzionamento mentale e come confronto con particolari aspetti del dialogo analitico. E, ad un altro
livello, come elemento regredito che può concorrere all’attivazione di processi sospesi anche nella
stanza di analisi. L’analista, prima di capire, partecipa dello stesso registro di cui si compone
l’oggetto del suo studio e questo registro lo può cogliere attraverso una sorta di «cecità», ovvero di
specialistica disattenzione (libere associazioni, attenzione fluttuante, rêverie), capace di introdurlo
laddove il messaggio si formula. A nostro parere, è proprio questa condizione mentale di
1 disattenzione che può essere ricondotta a quella esperienza di creazione di contenuti mentali
conosciuti e non pensati, di «ricreazione» nella sua doppia accezione: «distrazione come utile pausa
associata all’idea di rinvigorimento e sollievo» e «nuova creazione» nel senso di una «sorta di
riciclaggio in senso creativo» (Devoto- Oli, 1987).
Il lavoro dello psicoanalista e la ri-­‐creazione Freud (1892-95) usava una metafora archeologica per evocare e descrivere il lavoro dello
psicoanalista che porta alla luce dopo lunga sepoltura reliquie inestimabili, anche se mutilate,
dell'antichità, che il tempo ha sotterrato. Nel tempo abbiamo imparato a riconoscere nello
psicoanalista anche (e forse soprattutto) uno storico che può acquisire, specialmente in modo
indiretto e attraverso particolari accorgimenti, i documenti più importanti. I documenti di cui si va
alla ricerca sono fondamentalmente stati emotivi del Sé, sospesi e dissociati; verità emotive, non
necessariamente le più antiche, ma sicuramente quelle che nel tempo della vita di ciascuno sono
state meno accettate, meno espresse, meno comunicate (a se stessi e agli altri).
Archeologia, quindi, ma anche storia e ricostruzione. E poi trasformazione e ricreazione. Ricreazione nel senso di un processo che non soltanto ripropone un’esperienza passata che può essere
in sé potenzialmente trasformativa, ma che attiva un’esperienza che, nella ripresentazione in un
nuovo contesto relazionale, viene creata da entrambi gli interlocutori in modo diverso e attuale.
Un’esperienza ricreativa che può essere anche un’utile pausa tra i diversi momenti di emergenza
drammatica delle emozioni più nascoste e che utilizza il rapporto con l’altro per rendere possibile
l’utilizzo di qualcosa che da soli non si è riusciti ad avvicinare, proprio come avveniva a volte a
scuola nell’intervallo delle lezioni. Un incontro che utilizza l’altro anche come intervallo e sollievo
da un percorso esclusivamente individuale (e di per sé in talune circostanze pure impossibile) e che
si permette di riconoscere nell’altro qualcosa di proprio per riciclarlo in senso creativo per Sé.
In un tale percorso (e mai come in questo caso il percorso può anche essere la meta), gli
analisti cercano di essere vicini all’analizzando nei suoi sforzi di riattivare e ricreare forme di
esperienza organizzata. Essi tentano di creare nuove modalità di comprensione della realtà, interna
ed esterna. Provano a dare valore a nuovi canali di conoscenza, che non risiedono solo nella più
elevata auto-comprensione a cui l’individuo può sempre attingere, ma nella possibilità che si generi
un più ampio registro di pensieri, sentimenti, sensazioni ed emozioni, attraverso una modalità
specificatamente analitica di stare insieme.
Nello stesso tempo gli analisti diventano particolari contenitori dell’esperienza di confusione
ed ignoranza e anzi, se continuano a procedere in questa direzione, di fronte ad un analizzando che
lamenti di comprendere al presente meno di quanto capisse all’inizio, cominciano a far accettare e a
far sperimentare la potenzialità creativa della distrazione e insieme lo scomodo sentimento
dell’ignoranza (e ciò vale per gli analisti nella stanza di analisi quanto per gli spettatori al cinema).
Pittogramma e coscienza Per tentare di descrivere l’esperienza della visione di un film, potremmo parlare dell’attivazione di qualcosa che, parafrasando Bion, si potrebbe chiamare «apparato per 2 creare immagini». Si tratterebbe di una disposizione primitiva della mente che è precedente, distinta e non necessariamente in connessione diretta con «l’apparato per pensare» di cui parla Bion. È una caratteristica dell’esperienza in cui una mente ben funzionante, automaticamente e continuamente, trascrive in pittogrammi (Aulagnier, 1975) le continue posizioni del corpo rispetto alla realtà che lo contiene (Damasio, 1994; 1999). Tali pittogrammi non necessariamente diventano pensieri e non sono ancora in relazione ad elementi dell’ordine temporale (Freud, 1904; Stenius, 1960; Loch, 1985). Anche nella stanza di analisi «l’analista deve rivestire il materiale del paziente servendosi della propria immaginazione» (Winnicott, 1959, 174) attraverso pittogrammi che appartengono alla propria esperienza. Ed è proprio attraverso l’incontro del racconto grezzo del paziente con i pittogrammi prodotti continuamente dall’analista, che si descrive il primo livello di trasformazione di una storia sospesa in una nuova storia (Boccara, Riefolo, Gaddini, 2000), che si potrà tessere nella stanza di analisi. Sul piano cinematografico, un film toccherà e attiverà pittogrammi potenziali nella disponibilità dello spettatore e, anche in questo caso, è «la violenza dell’incontro» (Aulagnier, 1975, 64) che selezionerà pittogrammi i quali, attraverso le urgenze dello spettatore, assumeranno dimensioni contingenti e soggettive. Vivendo l’esperienza del film, lo spettatore organizzerà una propria storia che, pur prendendo spunto dallo stimolo dell’incontro, si discosterà, come vedremo in un paragrafo successivo, dalla storia narrata dal regista. Le storie che si tessono nella stanza di analisi, come quelle della sala cinematografica, sono storie modulate dall’esperienza dell’incontro: se le cose funzionano, nessuno uscirà dalla stanza di analisi con la storia che portava all’inizio, così come nessuno spettatore, nella medesima sala cinematografica, vedrà mai lo stesso film del suo vicino di poltrona. Si tratta di una considerazione molto chiara ad alcuni registi: «Per Godard quel che è sullo schermo è già morto. Solo lo sguardo dello spettatore gli insuffla vita» (Kiarostami, 2003, 56). Sia neurobiologi che psicoanalisti suggeriscono che la coscienza nasce con la comparsa di immagini. I neurobiologi, comunque, sembrano avere una considerazione delle «immagini» più ampia rispetto agli analisti, in quanto si riferiscono ad una unità neuronale e sinaptica capace di riproporre una esperienza sensoriale e che quindi può riguardare ogni livello sensoriale. Gli analisti invece, forse perché «nati dal sogno» e dall’isteria, che sono categorie visive per eccellenza (Freud, Breuer, 1892-­‐95, 417), quando parlano di immagini si riferiscono espressamente alle capacità iconiche della mente, ovvero la capacità della mente di rappresentare visivamente la cosa e le emozioni che fanno parte del dialogo analitico. Damasio, a più riprese, ha definito la coscienza come continua registrazione di stati somatici del Sé e, pertanto, le immagini come le infinite tessere degli stati del Sé somatico, che persistono poi nel Sé come una sorta di «disposizione potenziale» e che continuamente possono essere rievocate e riorganizzate poiché «…l’origine di ogni storia è che, nell’incontro con un oggetto, l’organismo è stato cambiato» (Damasio, 1994, 424n)1. In una lettera a Fliess, c’è un appunto di Freud che fa riflettere soprattutto sui nessi che negli ultimi tempi si evidenziano tra tesi neurobiologiche e psicoanalitiche, ovvero sulla relazione fra eventi e coscienza e, quindi, sulla dinamica che introduce alla funzione delle 1 Edelman (1992) parla di unità elementari dell’esperienza che definisce Gruppi Neuronali (GN) capaci di organizzare «immagini». 3 immagini da parte del soggetto. Per Freud, nella fase in cui era particolarmente impegnato nella redazione del settimo capitolo dell’Interpretazione dei sogni, esiste un nesso preciso fra la registrazione di uno stimolo percettivo e l’uso di questi elementi percettivi. Freud (1904) suggerisce che le percezioni nascano nei neuroni W e che, pur contribuendo allo stato di coscienza, non abbiano alcun accesso alla memoria. Ipotizza quindi una prima trascrizione, traccia mestica, della percezione la quale «si struttura in base ad associazioni di simultaneità…» e che «è del tutto incapace di pervenire alla coscienza». Propone poi l’esistenza di una seconda fase nella quale la trascrizione «…è ordinata in base ad altre relazioni, per esempio causali”, in cui si struttura l’inconscio e che permette al sogno, «per via retrograda» (Freud, 1899, 495) di collegare lo stimolo diurno o l’elemento traumatico con l’esperienza inconscia rimossa. Infine, suggerisce una terza fase in cui la riscrittura è «connessa alla rappresentazione della parola» (Freud, lettera 112 a Fliess del 6.12.1896). Molti anni dopo Loch (1985, 252) recupera questa sequenza e suggerisce che la prima trascrizione sia da considerare una «rappresentazione iconica», mentre la seconda una «rappresentazione enactive» (Bruner, cit. in Horowirz, 1972). Nella riflessione che proponiamo, siamo particolarmente interessati alla situazione di passaggio fra la rappresentazione iconica e la rappresentazione enactive, ovvero alla trascrizione dell’evento e alla sua relazione con il contesto in cui viene sperimentata2. In questo passaggio si compie l’uso dell’immagine che entra a descrivere una particolare esperienza del soggetto: «un’immagine di per sé non afferma nulla e ad essa deve essere conferita attraverso o nella lingua una funzione» (Stenius, 1969, cit. in Loch,1985, 254). Se da un lato l’immagine – nell’essere collegata a precisi eventi – viene ad assumere una funzione specifica, evocando precise situazioni della nostra esperienza, parallelamente realizza un primo impoverimento delle disposizioni potenziali di cui può essere capace. È la stessa riflessione che propone Bollas (2000) quando, in margine all’analisi dell’isteria, propone che «l’immagine vale mille scene» (p. 141), suggerendo come il recupero del linguaggio iconico interessa gli analisti in quanto è un linguaggio regredito capace di riportare paziente ed analista in una dimensione precedente – potremmo dire, sul confine – dell’assunzione soggettiva del significato. Questo livello di regressione «formale» (Freud, 1899, 500) apre al movimento essenziale dell’analisi come processo. Da un lato il linguaggio iconico permette al paziente di riposizionarsi nel tempo e nel contesto a cui quelle immagini portano e, contemporaneamente, la riapertura dei processi di pensiero espone nuovamente il soggetto alle «mille scene» di cui ciascuna immagine è capace e che non sono mai state realizzate prima. È in questa linea che suggeriamo una prima simmetria fra paziente e analista nella stanza d’analisi e lo spettatore che partecipa alla proiezione di un film nella sala cinematografica. In entrambi i casi, la regressione al registro delle immagini permette che le storie, proposte dal paziente o dal regista, possano essere ricreate nel particolare e speciale incontro con la sensibilità e le urgenze dell’analista o dello spettatore: «lo spettatore deve 2 Damasio (1994) metterebbe in relazione la trascrizione dell’evento correlato con le infinite informazioni che giungono al cervello sullo stato somatico del soggetto in quel preciso istante. Il centro della rappresentazione enactive per Damasio è per definizione lo stato somatico del soggetto, quanto per Freud e per la psicoanalisi concerne invece la relazione del soggetto con il contesto in cui viene a cogliere ed organizzare percezioni. 4 intervenire se vuole capire tutto… deve collaborare nel proprio interesse, perché il film si arricchisca» (Kiarostami, 2003, 55). Infatti come le storie che attraversano la stanza di analisi si arricchiranno – in ogni caso – d’infiniti nuovi vertici da cui essere osservate e sperimentate, così la storia raccontata dal regista – in ogni caso – assumerà una declinazione soggettiva per ciascun spettatore di quel film. Da Bion in poi gli psicoanalisti sanno che quando le storie incontrano un’altra mente non saranno mai più le stesse. Stati ipnoidi e il buio in sala Come il paziente ha bisogno della mente dell’analista per ricreare una storia, così il regista ha bisogno dello spettatore per sviluppare le potenziali sintonie o assonanze di cui può essere capace o meno il proprio film: «lo spettatore ha una mente creativa… ha sempre la curiosità di immaginare cosa c’è al di fuori del campo di visione… Questi due occhi presi in prestito sono ciò che voglio catturare» (Kiarostami, 2003, 55-­‐56). Sappiamo, infatti, che un film è più o meno riuscito nella misura in cui promuove e aderisce ad urgenze emotive dello spettatore, mentre i film meno riusciti sono quelli in cui la storia rimane estranea ed esterna allo spettatore: «So … cosa non mi piace nei film. Non mi piace quando ci si limita a raccontare una storia e fare un surrogato della letteratura… Da qualche tempo sto pensando a un altro cinema che mi renda più esigente e si definisca come settima arte. In questo cinema c’è musica, sogno, storia, poesia» (Kiarostami, 2003. 54). Suggeriamo di cogliere la situazione analitica e la sala cinematografica come dispositivi capaci di sollecitare quegli stati della mente che Janet, Breuer e Freud, descrivevano come «stati ipnoidi della mente» e che, proprio attraverso il particolare uso del dispositivo iconico, permettono l’emergenza di stati del Sé dissociati (Bromberg, 1998) o traumaticamente bloccati, insieme al recupero di quelle potenzialità inespresse di cui sarebbe capace l’immagine proprio quando è stata saturata da un evento. Un particolare stato di coscienza che Janet (1894, 308) descriverebbe come faiblesse de la synthése psychique e di riduzione della fonction du reél, altamente instabile e sensibile alla possibilità di ri-­‐creazione di nuove storie, veniva descritto dai clinici della scuola della Salpétriére come «stato ipnoide»3. Una condizione in cui, sul piano patologico, la coscienza del soggetto è molto esposta alla suggestione, potendo essere modificata dal potere di un evento o di soggetto esterno, incapace, al tempo stesso di relazionarsi con un campo di realtà ampia. Infatti: «l’assetto mentale dell’analista dovrebbe essere sempre e solo stabile? Sicuramente no» (Ferro, 2002, 12). Pensiamo che la sala cinematografica, come la stanza di analisi, solleciti livelli di regressione in cui viene sospesa, a vari livelli di intensità, la coesione dei plurimi stati del Sé (Bromberg, 1998; 2006) del soggetto. In tale stato di regressione si organizza una maggiore sospensione degli stati del Sé del soggetto che lo espongono a uno stato di «scissione» transitoria, in cui la nuova storia che si tesse nella stanza di analisi (come nella sala cinematografica) concorre a riorganizzare nuove configurazioni del Sé del soggetto. 3 Freud accetterà solo inizialmente il concetto di stati ipnoidi soprattutto perché proposti da Breuer, ma dopo gli Studi, sostanzialmente non se ne occuperà più, mentre essi rimangono centrali in tutta la teorizzazione di Janet dei fenomeni psicopatologici soprattutto isterici. 5 Proponiamo la dimensione dello stato ipnoide come funzionali e transitori stati di scissione del Sé (che Janet definisce di désagrégation) che tendono a ricomporsi o difensivamente o in modo creativo secondo quella che Janet definiva come nuova ed originale recomposition réversible degli elementi scissi4. Suggeriamo che, nello «stato ipnoide» della stanza di analisi come del buio della sala cinematografica, il racconto del paziente e la proiezione del film attivino e sostengano continuamente il continuo dialogo fra dissociazioni difensive e dissociazioni creative (Bromberg, 2006; Riefolo, 2011). Un evento concreto esterno come la visione di un film, all’interno di un contesto che permette un gradevole ed inevitabile stato di regressione, sul piano creativo permetterà nello spettatore l’emergere di configurazioni o stati del Sé urgenti, fino a quel momento secondari allo stato più vigile della coscienza. Stati del Sé che potranno essere colti partecipando attivamente, coinvolgendosi e persino entrando nel film, esattamente come gli stati ipnoidi di Janet permettevano al soggetto di sperimentare realmente l’esistenza di altre personalità – spesso nettamente in contrasto con la personalità prima del soggetto – che potevano essere vissute, seppure per brevi fasi transitorie5. La situazione di regressione ipnoide della sala cinematografica, insieme allo stato di partecipazione «ipnoide» alle vicende del film a cui ogni spettatore – come W. Allen ne La rosa purpurea del Cairo (1985) – partecipa con la propria storia e le proprie urgenze, attiva contemporaneamente competenze di dissociazione difensiva finalizzate al mantenimento della continuità del Sé (Bromberg, 2006). La funzione difensiva della dissociazione permetterà allo spettatore di partecipare ad una storia e al tempo stesso di tenerla, attraverso lo schermo, ad una sufficiente distanza da sé. A differenza che per gli stati ipnoidi della psicopatologia, in questa dimensione lo spettatore sarà capace di osservarsi all’interno di quell’esperienza sapendo continuamente di essere dentro una sala cinematografica e in un particolare stato emotivo. Da un lato sarà completamente preso dalle identificazioni con ciò che si svolge nello schermo, mentre contemporaneamente tenterà di organizzare giudizi e valutazioni sul film che sta osservando e, ancor più, tenterà confronti con la visione e il significato colto dagli altri spettatori, cercando un’uniformità o un senso proprio da attribuire all’evento del film che si svolge sullo schermo. Lo spettatore e il paziente nella stanza di analisi, a differenza degli isterici di Janet e Breuer, godono del doppio statuto di poter accedere allo stato ipnoide sapendo che potranno uscirne.6 Mille spettatori nella stanza di analisi. La posizione iconica, o della visione del film, è una posizione dell’ordine materno: essere accolti da immagini che sono lì per noi, che non impongono significati e che sono sensibili ad 4 Per una più precisa descrizione delle vicende cliniche e storiche dei concetti di scissione e dissociazione, rinviamo a (Ferro, Riefolo, 2006, il cap. 3). 5 «questi fenomeni inconsapevoli, non sono continuamente inconsci, ma lo sono solo transitoriamente” (Janet, 1894, 309) 6 È come nel recente film di W. Allen (Migdnight in Paris, 2011). in cui il protagonista Gill – il cui viaggio nel passato comincia puntualmente allo scoccare delle campane di mezzanotte – ripete continuamente «sono di passaggio…sono un turista… non ho un indirizzo qui a Parigi. La cerco io…». 6 assumere i significati che noi vorremo dare loro. Al tempo stesso, l’uscita dal cinema e le luci che s’impongono alla fine del film (e che significano la sospensione dello stato sognante) li consideriamo dell’ordine paterno: un elemento terzo, dell’ordine della realtà, che si interpone fra lo spettatore e la condizione iconica. È il momento in cui confrontiamo i nostri significati con quelli degli altri e con quelli supposti del regista, il momento in cui scopriamo il nostro pensiero attraverso le differenze o le contiguità con quelle dell’altro, il momento dell’eccitamento, della vergogna e dell’impotenza. Ovviamente, per quanto anche nella regressione che si organizza nella stanza di analisi prevalga il registro della comunicazione iconica, la dinamica della seduta analitica è molto più complessa rispetto a quella della sala cinematografica. Nella stanza di analisi lo spettatore/analista continuamente si farà prendere dalla passività creativa del registro iconico, per poi continuamente riemergere con le proprie considerazioni alimentative o discriminate verso la storia del paziente. Potremmo dire che la differenza sostanziale è che nella sala cinematografica il film è uno solo, mentre nella stanza di analisi i film proposti sono infiniti poiché continuamente l’analista propone il proprio punto di vista al paziente. E mentre nella stanza di analisi il paziente a quel punto modificherà la trama della propria storia e riproporrà all’analista sempre un nuovo film, nella sala cinematografica lo spettatore, accogliendo dal proprio vertice il suggerimento del regista, non potrà modificare con i propri suggerimenti la trama proposta dal regista, poiché in quel contesto non è possibile «…fruire di quell’unica validazione che nella stanza di analisi è la risposta del paziente all’interpretazione» (Ferro, 2010, 54.). Le infinite storie possibili nella stanza di analisi, corrispondono invece, nella sala cinematografica, alle infinite storie che ciascuno spettatore potrà cogliere da un identico stimolo bidimensionale che si svolge sullo schermo. In linea con questa suggestione potremmo suggerire che gli spettatori che siedono nella sala cinematografica rappresentino le infinite, potenziali e dissociate configurazioni del Sé (Bromberg, 1998; 2006) del paziente (e dell’analista) che si compongono nella stanza di analisi: «ho nello studio fantasmi che ascoltano il paziente e si animano ascoltandolo» (Mitchell, 1993, 134). In una stessa seduta si alternano posizioni paterne, discriminate, e materne, alimentative e discriminanti, da parte dell’analista: si tratta di rivedere – questa volta insieme ad un altro e in una condizione particolare – una storia per coglierne, o persino costruire, significati fino ad allora solo potenziali e, al tempo stesso, di fermarsi a discutere su ciò che è stato visto e sulla funzione di ciò che è stato visto, rispetto alle infinite posizioni del Sé, continuamente trasformate proprio dall’esperienza del «vedere insieme in una dimensione nuova». La situazione analitica è un ‘film’ in cui lo spettatore/analista può entrare nella storia, interloquendo con i personaggi, modificandola inevitabilmente: «…il paziente emerge dalle libere associazioni e, improvvisamente, vede qualcosa che non aveva visto prima: può interrompere la rêvérie dell’analista per fare un commento oggettivante. L’immagine… la sua facilitazione da parte di un altro sensibile e accogliente, … la sua interruzione da parte di un altro che viene da fuori (ed è contemporaneamente parte di tutto il nostro modo di pensare), sono tutte modalità di conoscenza che valgono per ogni vita, ma si trovano unite solamente all’interno di una psicoanalisi» (Bollas, 1999, 55-­‐56). La visione di un film ricrea, a nostro 7 parere, l’esatta dimensione della regressione analitica dell’«essere soli in presenza di qualcuno» (Winnicott, 1965). Infatti, anche se ci si reca al cinema da soli, un film si vede sempre con qualcuno. Il film come «mobilizzazione di emozioni dissociate o sospese»: il caso Scorsese. Il recente documentario di Martin Scorsese su Elia Kazan, A letter to Elia (2010), è un’opera
creativa particolarmente interessante per riflettere sull’influenza che possono avere le immagini nel
contribuire a riconoscere particolari emozioni del proprio mondo interno e quelle che scaturiscono
dal mondo che ci circonda.
A letter to Elia è un film che esplora tre dimensioni. Quella creativa del regista Elia Kazan
che, attraverso i suoi primi film, si rappresenta come parte di una famiglia di immigrati che entra
con varie difficoltà nel nuovo continente americano e che, nelle opere dell’età matura, ci parla del
suo ‘tradimento’ politico durante l’epoca maccartista e del conseguente cambiamento dei legami
familiari con i suoi tanti colleghi con cui aveva avuto i più stretti rapporti. C’è poi la dimensione ricreativa dello spettatore Martin Scorsese che, mentre scorrono le immagini dei più bei film di
Kazan, ci accompagna con voce emozionata e commossa, prima, attraverso i suoi ricordi infantili
quando a dieci o dodici anni andava al cinema per le prime volte e poi, quando ci racconta di come
ha conosciuto Kazan e di come ha rivisto le scene di quegli stessi film con l’animo di un regista di
fronte ad un maestro eccezionale. Ad un terzo livello, infine ci siamo noi, spettatori del
documentario che, appunto, mentre impariamo qualcosa in più su come si costruiscono i film per
chi li fa e per chi li guarda, scopriamo quanto quelle stesse immagini così famose ci abbiano
influenzato in modo molto diverso da quei due grandi spettatori/registi che conosciamo da tanti
anni.
«Quando ho cominciato a fare film – ci racconta Scorsese – girando una scena mi chiedevo: avrà l’onestà, l’occhio per i dettagli, la potenza amorevole che ho riscontrato nei film di Elia Kazan? Credo che chiunque giri un film faccia la stessa esperienza. Guardando un film c’è un momento che stimola dentro di noi qualcosa che ci resta dentro, diventando il modello che ci prefiggiamo quasi inconsciamente. Ecco cosa le opere di Kazan significavano per me, e in un certo senso significano ancora. Ma opere del genere non arrivano dal nulla, devi averle vissute. Il sorriso di Kazan, che significava? Il sorriso dell’Anatolia: i greci dell’Anatolia erano sempre terrorizzati di fare passi falsi». America, America fu un film speciale per Scorsese, perché è la storia del passaggio dal vecchio al nuovo mondo e scopre che la storia della famiglia di Kazan era in realtà anche la sua. L’anima di un immigrato, un certo modo di guardare il mondo dal di fuori, stando sempre in guardia, veniva tramandato dal vecchio mondo alla nuova generazione: «paura», «risentimento», «non fidarsi di nessuno» (sia fuori che a casa), proprio come se dovesse essere sempre così. Kazan capiva quanto ciò pesasse quando si diventava grandi. E Scorsese riconosceva lo stesso peso che ti porti dietro tutta la vita, che senti come un diritto di nascita. «A volte però se le cose ti vanno in un certo modo, puoi trovare una nuova casa, puoi crearti una 8 nuova casa. Kazan trovò la sua nuova casa facendo film. Mescolò prima memorie e poi memorie e realtà». Per Elia Kazan la cosa essenziale nel fare un film era provare a esprimersi senza falsità o pretese: «Se susciti un’emozione vera o ogni altra emozione potente – diceva spesso ai suoi allievi – se la susciti e la usi, hai qualcosa di unico e d’insolito». Ecco di che cosa si tratta nel fare un film: «Suscitare emozioni negli attori e nel pubblico! ». E anche sul lavoro sugli attori: «Non puoi tirarne fuori niente se le emozioni non ce l’hanno dentro. È quasi impossibile farla franca con la falsità davanti alla macchina da presa. La macchina da presa mostra quello che succede realmente. Se c’è, c’è. E se non c’è…». Per il giovanissimo Martin Scorsese il cinema era inizialmente un rifugio. Lì imparava che la
vita e il mondo intorno a lui si potevano rendere una forma d’arte. Entrava al cinema e, dopo aver
pagato 15 centesimi e raggiunto il suo posto, era «in salvo ed in pace». «Quando vidi per la prima
volta a dieci anni “Fronte del porto”, riconobbi che quella era la gente che vedevo tutti i giorni.
Era dove abitavo io, nei posti dove ero cresciuto che conoscevo da sempre. Vedevo le facce di
quella gente che normalmente non incontravo negli altri film, il loro aspetto, il modo di muoversi,
la stessa miscela di durezza e di tenerezza. Era come se il mondo da cui provenivo avesse
importanza, come se la gente che conoscevo avesse importanza, malgrado i loro difetti. Con quel
film per me cominciò qualcosa». Di quella realtà ne esisteva una versione stilizzata nei film che
aveva visto fino ad allora. Ma Marlon Brando era tutta un’altra cosa. La sua goffaggine, la
sensazione di non essere nessuno, la vedeva tutti i giorni in se stesso e negli altri, e in Brando c’era
tutta. Quelli erano personaggi che nel suo quartiere amava e insieme odiava: «io li guardavo e mi
chiedevo: chi poteva stare con loro? Chi poteva amarli? In quel film si sentiva il loro desiderio di
stare con qualcuno che facesse sparire il loro dolore. Ero davvero turbato da tutto il risentimento e
la rabbia che venivano allo scoperto. Ci si conosceva tutti nel mio quartiere, era come un piccolo
paese. Ti prendevi il meglio e il peggio. Era un posto in cui nessuno voleva vivere ma dove era
costretto a stare. Si vedevano cose per le strade, negli androni e di notte sotto la sopraelevata che ti
sarebbero rimaste dentro».
Quel film scriveva qualcosa di se stesso nella mente del piccolo Scorsese e lo trasformava in
qualcosa di diverso da ciò che era prima di entrare nella sala cinematografica. Lo rendeva più
consapevole del luogo in cui abitava, gli permetteva di riconoscere anche l’inquietudine che
derivava da quei posti, dalla gente che frequentava. E poi penetrava anche più internamente:
«Ancora oggi, ogni volta che guardo una particolare scena, mi dimentico della macchina da presa.
Vedo solo due fratelli che si affrontano. Adesso vedo anche la bravura di tutti, ma allora vivevo nel
film, dentro il film, assorbendo tutto. Credo che ciò che più mi colpì nel profondo, fu proprio il
rapporto tra i due fratelli, il tradimento. Tradire: la cosa peggiore che si possa fare, soprattutto se
a tradirti è tuo fratello. Forse ero tanto colpito a causa del mio rapporto di allora con mio fratello
maggiore: allora vivevamo tutti in tre stanze e sembrava che ci fosse sempre qualche tensione…».
Nel film c’era effettivamente un tema sottostante, quella parte che è sempre stata vista alla
luce della testimonianza di Kazan. Le scene in cui Kazan e il personaggio di Marlon Brando si
confondevano parlavano in fondo delle conseguenze angosciose della sua deposizione nel '52 alla
Commissione sulle attività antiamericane. Rappresentavano il significato di quel tradimento contro
otto suoi amici del «Group Theatre», ex tesserati come lui del Partito Comunista, ed esprimevano le
emozioni che probabilmente lui stesso aveva suscitato nell’altro: un fratello che si sentiva tradito da
un altro fratello.
9 Per Scorsese, all’oscuro di quella vicenda «storica», le emozioni evocate da quelle scene e
vissute come sue, lo avvicinavano invece per la prima volta a quell’ambivalenza affettiva che
sentiva di provare per suo fratello. Veniva a sapere così molto di più delle sue proprie emozioni nei
confronti di suo fratello e della sua famiglia e di cui prima di quelle scene forse non era riuscito mai
a sopportarne la conoscenza, la visione appunto. Iniziava a dare senso in quel modo a quella
particolare tensione, a quell’esperienza emotiva forse ancora troppo forte e inesprimibile che
provava in casa e che il film riusciva a preservare, evitando nello stesso tempo che non ne finisse
vittima. Attraverso il cinema di Kazan, il piccolo Scorsese aveva intrapreso un percorso che serviva
ad arrivare ai propri sentimenti più velati, anzi a ricrearli, inevitabilmente a trasformarli.
Ed è questo il punto: non è il fatto in sé che evoca un ricordo, una somiglianza, un’empatia,
ma sono le esperienze emotive, che ciascuno prova, a emergere dietro quei fatti. Esperienze che se
per il protagonista del film sono la dimostrazione di un tragico personale destino, per lo spettatore
diventavano l’occasione per riconoscere dentro di sé qualcosa di proprio, da cui magari si era fino
ad allora allontanato con una immancabile sorpresa e un comprensibile sconcerto. Ed è esattamente
quello che può accadere, come abbiamo già detto, durante un percorso analitico.
Anche un altro famoso film, La valle dell’Eden, suscitò nel piccolo Scorsese vere emozioni,
che non conosceva né sapeva di provare. Ci confessa che lo vide molte volte; in realtà, lo seguiva da
un cinema all’altro della città. Lo vedeva sempre da solo. «Quanto vi racconto non c’entra con la
storia del cinema – ci sussurra quasi nel documentario – credo abbia a che vedere con dare e
ricevere. Guardando un film c’è un momento che stimola dentro di voi qualcosa che vi resta dentro,
diventando il modello che vi prefiggete quasi inconsciamente. Se susciti un’emozione vera o ogni
altra emozione potente, se la susciti e la usi, hai qualcosa di unico e di insolito. Ecco di che cosa si
tratta. Quando andavo a vedere “La valle dell’Eden”, guardavo il film e sentivo di trovarmi lì,
dentro il film, con James Dean che si aggirava in un posto vietato, proibito. Un adolescente in un
mondo di adulti che tentava di spingersi più dentro che può. Lui entrò e mi portò con sé. Quella
famiglia, il tavolo da pranzo: era un campo di battaglia. Un fratello apparentemente buono, un
altro apparentemente cattivo. All’inizio assegnai il ruolo di cattivo a mio fratello adolescente. Il
che lasciava a me quello del buono. Ma mi ritrovai ad essere combattuto, provavo gli stessi
sentimenti del fratello cattivo. Solo che a casa non mi era permesso di esprimerli».
Quel film continuava a farlo sentire a disagio. I film che aveva visto prima non parlavano di
sentimenti del genere e così pensò per tanto tempo di essere il solo a provare quelle emozioni, che si
trattasse di qualcosa di tra lui e quel particolare film. Quando lo vide per la prima volta non era
ancora concentrato su tecnica e recitazione, reagiva solo a quello che era genuino e ciò che non lo
era: «Le inquadrature, il controllo dei movimenti in ogni inquadratura, tutto mi dava la sensazione
che chi aveva girato il film mi conoscesse, forse meglio di quanto mi conoscessi io stesso. Sentivo
quanto stava per succedere, volevo distogliere lo sguardo ma non potevo. Le emozioni andavano
fuori controllo. Nessuno era buono e nessuno era cattivo. Era spaventoso, perché io sapevo per
esperienza che poteva andare così. Il film mi scatenava emozioni che fluttuavano nell’aria e che
non si potevano contenere e mettere via ordinatamente».
Ancora oggi quando, guardandosi indietro, Scorsese si rende conto di quanto sia stato
importante per lui quel film. Tutto ciò che non sapeva esprimere all’età di 12 anni, il film lo
esprimeva per lui. Tornava a vederlo e riviveva i sentimenti e le lotte con la sua famiglia ogni volta:
«Guardare ripetutamente il film era una catarsi! Più vedevo il film e più capivo la presenza di un
artista dietro la macchina da presa. In seguito ho tentato di capire come facesse Kazan, perché mi
10 colpisse con tanta potenza. Colore, recitazione, montaggio, suono, movimenti della macchina da
presa, luci. Studiavo tutto. Ma tanti anni fa guardando il film (e continuando a guardarlo) trasposi
la mia lotta, i miei riti di passaggio in questo film. Mi parlava in un modo che nessun altro
sembrava capace di fare. In definitiva credo che attraverso queste due straordinarie esperienze,
proiettai su Elia Kazan qualcosa di cui sentivo il bisogno. Dovunque egli fosse, da qualunque posto
venisse, chiunque egli fosse, proiettai su di lui il ruolo di padre. Un padre diverso, ma un padre!».
Al cospetto delle vicissitudini delle storie dei personaggi di Marlon Brando o di James Dean,
pur venendo a conoscere dalle prime scene del film alcuni particolari della loro vita sicuramente
diversi dalla propria, Scorsese sente in qualche modo che non è del tutto esterno, appunto, solo
come uno spettatore, rispetto alle emozioni che quelle storie gli suscitano.
In fondo è questo aspetto che ha decretato da sempre il successo, o meno, di alcuni film: la
scoperta attraverso di essi di proprie emozioni e del fatto che esse sono comuni ad altri come noi o
solo apparentemente diversi da noi. Le vicende dei protagonisti dei film sono molto spesso la
metafora della segreta soggettività dello spettatore. Le emozioni provate in sala di fronte alle scene
dei film diventano vere in quanto vengono scoperte e ricreate nella mente di chi le guarda,
soprattutto se vengono confrontate in quel momento con la propria tendenza a volerle negare o
anche semplicemente metterle da parte. L’autenticità (Boccara, Gaddini, Riefolo, 2010)
dell’esperienza nasce proprio dal fatto che lo spettatore reagisce alle immagini che ha di fronte
come se riconoscesse finalmente qualcosa che è dentro di sé e che, una volta svelato, non può più
essere facilmente oggetto di travestimenti ulteriori.
Imparare ad accogliere e, poi, a ricostruire quei propri sentimenti (e i pensieri selvaggi che ne
derivano), permette allora di avviare un processo di vera e propria nuova creazione che diventa
l’essenza del percorso. Martin Scorsese riusciva al cinema a sognare esperienze emotive altrimenti
non sognabili, perché non era in grado di fare uso da solo della propria esperienza emotiva vissuta,
passata e presente, e il racconto per immagini del film diventava per lui un dispositivo capace di
attivare processi sospesi.
Per concludere
Bollas (1999, 144) usa la metafora della sala cinematografica per descrivere una particolare
disposizione e capacità del Sé, di dissociare dal Sé aspetti di «interposizione», ovvero traumatici,
per osservarli e riviverli all’interno di una atmosfera dissociata che li rappresenti esistenti, pur
separati, esterni al Sé. In tal senso il dispositivo «sala cinematografica» permette di contattare
continuamente (soprattutto quando è necessario o inevitabile) queste parti del Sé mortificate, per
sentirle presenti, ma – come in un film – separate, pur se, per un attimo, sentite appartenenti al Sé.
La metafora «sala cinematografica» spiega in modo chiaro, a nostro parere, anche un uso
economico del processo della dissociazione che si compie nel continuo dialogo fra dissociazioni
difensive e dissociazioni creative. Il contesto regredito della «sala cinematografica» permette allo
spettatore di vivere ogni volta uno stato ipnoide dove antiche scene della sua vita, sollecitate dalla
visione di quel film, possono emergere. Il film permette poi identificazioni parziali e transitorie, e al
tempo stesso protegge dagli altri effetti più coinvolgenti della storia, perché la visione è in parte
collocata in una dimensione comunque esterna, appartenente allo schermo. Il film, nella dimensione
in cui ci è di aiuto, autorizza storie sospese: ci fa pensare e vivere in un altro mondo, ma ci permette
11 gli intervalli necessari per sentirci al riparo da quelle esperienze e per ricrearle dentro di noi con
maggiore serenità.7
La fine del film, come la fine della seduta analitica, ci riporta poi alla realtà quotidiana, ovvero ad una ricomposizione e recupero delle consuete ed ampie capacità di synthése psychique (Janet) della nostra coscienza. Al cinema il passaggio è segnato dalla riaccensione delle luci nella sala, come nella stanza di analisi da un piccolo, ma inequivocabile, segnale dell’analista che anticipa il commiato. All’uscita dal cinema le considerazioni sul film, per quanto ci aiutino nella dolorosa ricomposizione dello stato ipnoide in cui si è compiuta la partecipazione al film, risultano come un impoverimento di quella transitoria esperienza, soprattutto quando si sia trattato di un film particolarmente appassionante. Per questo, come analisti, stiamo attenti a non sostenere i commenti del paziente a quanto accaduto in seduta, quando si ricompone per salutarci e andare via, così come, invece – quando spettatori – cediamo spesso alla compulsione a dover commentare il film mentre usciamo dalla sala. Ecco che il dispositivo del cinema può suggerire allora agli analisti l’importanza delle trasformazione delle «strutture per pensare», prima che del contenuto dei pensieri. Come lo spettatore al cinema, anche l’analista mette a disposizione le proprie immagini a seguito dello stimolo portato dal racconto a cui assiste e, come la narrazione del film permette ad ogni spettatore di uscire dal cinema con un proprio film diverso da quello di ogni altro spettatore, ogni narrazione portata nella stanza di analisi prenderà infinite direzioni e soluzioni, tutte imprevedibili e tutte relative alle infinite variabili dell’incontro analitico. Si crea così una nuova narrativa che, partendo dalla verità emotiva dell’esperienza vissuta, utilizza parole che non ripresentano semplicemente l’esperienza ma che creano una esperienza. Scrive Ogden (2009, 8): «Quando l’esperienza emotiva di un individuo è così disturbante da renderlo incapace di sognarla (cioè di compiere con essa un lavoro inconscio), egli ha bisogno dell’aiuto di un’altra persona per sognare la sua esperienza non sognabile». Il sognatore pone in opera nella sua interpretazione di una situazione emotiva «i più primitivi e i più maturi aspetti di sé e questi aspetti del sé parlano l’uno all’altro in modo reciprocamente trasformativo» (Ogden, 2009, 5). Il film non sta semplicemente svelando ciò che era in forma latente, piuttosto, proprio nel dare forma dotata di senso a ciò che è vero per una esperienza emotiva, modifica per questo la realtà, la ricrea. SINTESI E PAROLE CHIAVE
L’esperienza della visione di un film può essere associata all’esperienza analitica dove l’analista
partecipa al discorso del paziente non solo ascoltando, ma soprattutto utilizzando un proprio apparato di
immagini che continuamente rivestono di personaggi e di scene il discorso del paziente. Come nella sala
cinematografica l’esperienza di incontro con un dispositivo che produce immagini assume il doppio statuto
della «ricreazione»: da un lato momento di sospensione di organizzazioni ben definite, mentre da un altro
vertice, trasformazione di elementi proposti dal regista/paziente. L’esperienza della visione di un film può
essere riportata, inoltre, allo stato regressivo di sospensione dei nessi logici che Breuer e Janet descrivevano
come stati ipnoidi. Infine il film A letter to Elia di M. Scorsese permette di riflettere sui possibili usi di un
7 È quanto propone uno dei personaggi che, sempre in Migdnight in Paris, (2011), Gill incontra dopo la mezzanotte nel suo vagare ipnoide per Parigi: «è normale! Tu vivi in due mondi! Mi sembra assolutamente naturale!». 12 film: da parte del regista la creazione di una storia, ma al tempo stesso la ri-creazione di una storia che lo
rappresenta protagonista e spettatore. Infine l’uso che di un film possiamo fare noi spettatori.
PAROLE CHIAVE: Dissociazione, film psicoanalitici, Kazan, ricreazione, stato ipnoide.
BIBLIOGRAFIA
Aulagnier P. (1975). La violenza dell’interpretazione. Dal pittogramma all’enunciato. Roma, Borla, 1994. Auster P. (2002). Il libro delle illusioni. Torino, Einaudi, 2003.
Bergman I. (1987). Lanterna Magica. Milano, Garzanti.
Boccara P., Riefolo G., Gaddini A. (2000). Cinema e sogno nello spazio psicoanalitico. In Bolognini (a cura
di), Il sogno cento anni dopo. Torino, Bollati Boringhieri.
Boccara P., Riefolo G. (2002). Psicoanalisti al cinema. Alcune considerazioni di metodo su «cinema e
psicoanalisi». Riv. Psicoanal., 48, 691-705.
Bollas Ch. (1999). Il mistero delle cose. Milano, Cortina, 2001.
Bollas Ch. (2000). Isteria. Milano, Cortina, 2001.
Bromberg Ph. M. (1998-­‐2001). Clinica del trauma e della dissociazione. Milano, Cortina, 2007. Bromberg Ph. M. (2006). Destare il sognatore. Milano, Cortina, 2009. Horowitz M. J. (1972). Modes of representation of thoughts. Int. J. Am. Psychoanal. Assn., 20, 793-818.
Damasio A. (1994). L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano. Milano, Adelphi, 1995. Damasio A. (1999). Emozione e Coscienza, Milano, Adelphi, 2000. Devoto G., Oli G.C. (1987). Nuovo Vocabolario Illustrativo della Lingua Italiana. Milano, Selezione dal Reader’s Digest. Edelman G. M. (1992). Sulla materia della mente. Milano, Adelphi, 1993. Ferro A. (2002). Fattori di malattia, fattori di guarigione, Milano, Cortina. Ferro A. (2006). Da una psicoanalisi dei contenuti e delle memorie a una psicoanalisi per gli apparati per sognare, sentire, pensare: transfert, transfer, trasferimenti, Riv. di Psicoanal., 52, 401-­‐478. Ferro A. (2007). Evitare le emozioni, vivere le emozioni. Milano, Cortina. Ferro A. (2010). Tormenti di anime. Milano, Cortina, Ferro F. M., Riefolo G. (2006). Isteria e campo della dissociazione. Roma, Borla. Freud S., Breuer J. (1892-­‐1895). Studi sull’isteria. O.S.F., 1. Freud S. (1893). Meccanismo psichico dei fenomeni isterici. O.S.F., 2.
Freud S. (1896). Etiologia dell’isteria. O.S.F., 2.
Freud S. (1899). L’interpretazione dei sogni, O.S.F., 3. Freud S. (1904). Lettere a Wilhelm Fliess, 1887-­‐1904. Torino, Bollati Boringhieri, 1986. Glenn Gould (1974). Glenn Gould: The Alchemist (Documentario di B. Monsaingeon) EMI Archive Film.
Hooper E. (1960). Il teatro del silenzio: l’arte di Edward Hopper di Walter Wells. N.Y., Phaidon Press,
2007.
Janet P. (1894). L’automatisme psychologique (2° ed.). Paris, Alcan. Janet P. (1911). L’état mental des hystériques, (2° ed.). Paris, Alcan. Kiarostami A. (2003). Due o tre cose che so di me. In Barbera A., Resegotti E. (a cura di), Kiarostami. Milano, Electa. Le Doux J. (2002). Il Sé sinaptico. Come il nostro cervello ci fa diventare quelli che siamo. Milano, Cortina. Loch W. (1985). Ammerkungen zur Pathogenese und Psychodinamik der Hysterie. Jahrbuch der Psychoanalyse, 17, 135-­‐174. In F. Scalzone, G. Zontini (a cura di), Perché l'isteria? Attualità di una malattia ontologica. Napoli, Liguori, 1999. 13 Loewald H.W. (1955). Hypnoid state, repression, abreaction and recollection. J. Amer. Psychoanal. Assn., 3, 201-­‐210. Mitchell S. A. (1993). Influenza e autonomia in psicoanalisi. Torino, Bollati Boringhieri, 1999. Ogden T.H. (2009) Riscoprire la psicoanalisi. Milano, CIS.
Ogden T. H. (2005). L’arte della psicoanalisi. Milano, Cortina, 2008.
Riefolo G. (2009). Le visioni di uno psicoanalista. Torino, Antigone.
Riefolo G. (2011). Un processo circolare. Scissione e dissociazioni nell’evoluzione del processo analitico. Gli argonauti (in stampa). Scalzone F., Zontini G. (1999). (a cura di). Perché l'isteria? Attualità di una malattia ontologica. Napoli, Liguori. Stenius E. (1960). Wittgenstein’s Tractatus, a critical exposition of its main lines of thought. Oxford, Blackwell. Thoret Y., Giraud A.C., Ducerf B. (1999). La dissociation hystérique dans les textes de Janet et Freud avant 1911. L’ Evol.. Psychiatr., 64, 749-­‐764. Winnicott D.W. (1959). Classificazione: esiste un contributo psicoanalitico alla classificazione psichiatrica? In Sviluppo affettivo e ambiente. Roma, Armando, 1970. Winnicott D.W. (1965). La capacità di essere solo. In Sviluppo affettivo e ambiente. Roma, Armando, 1970. 14