scarica il colloquio critico con l`artista
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L.W.: Interessante parallelo, lo stesso artificio che hai usato per catturare il momento di attraversamento dell’oggetto in “Forma potenziale di coscienza”? L’intento qui sembrerebbe essere quello di rappresentare il punto di superamento del limite, il passaggio da una dimensione ad un’altra. Seguendo la mia esperienza personale, è solo dopo aver superato un proprio limite che ci si rende conto di averlo valicato, non durante il processo. Allo stesso modo, il passaggio da una dimensione conoscitiva ad un’altra, può avvenire in un istante inafferabile alla consapevolezza. I gestaltici chiamano “insight” l’avvento fulmineo di un’immagine interna capace di trasformare la figura in un’altra forma, capace di farci assumere un altro punto di vista. “Forma potenziale di coscienza” è un ulteriore intento di catturare l’ineffabile? F.P.: La curiosità ha sempre spinto l’uomo ad esplorare le frontiere della conoscenza. In ogni epoca le scoperte scientifiche hanno alimentato le sperimentazioni artistiche e viceversa. La fisica quantistica ci offre nuovi immaginari da decifrare e comprendere, legati alle forze che agiscono fra le particelle subatomiche, e l’arte partecipa alla visualizzazione del fenomeno. “Forma potenziale di coscienza” allude all’interazione tra le particelle che danno origine alle strutture stabili che formano il mondo materiale. Astraendo tale concetto, direi che se l’interazione tra elementi produce materia attraverso lo scambio di energia, allora l’interazione tra artisti può produrre significato attraverso lo scambio di saperi e di visioni. Tale è il desiderio che ho realizzato attivando il laboratorio NoMade a Roma. Uno spazio attrezzato dove gli artisti possono interagire con altri artisti, artigiani, creativi per realizzare progetti personali o collettivi. COLLOQUIO CRITICO con Fabio Pennacchia di Lea Walter Lea Walter: L’evento a Corte in occasione di Open House è stato chiamato “Visioni Amplificate” a partire da una delle opere installative che hai scelto di mettere in mostra dentro e fuori lo studio Corte. Due lenti tenute in tensione da fili trasparenti che vanno a formare una tela per intrappolare lo sguardo...o lo spazio? Com’è nata l’opera e come si è sviluppata nel progetto “Enhanced Vision Practice”? Fabio Pennacchia: “Visione Amplificata” sorge dalla necessità di osservazione dell’intorno quale pratica di sperimentazione artistica al seguito del recupero di centinaia di lenti da vista dismesse per obsolescenza. La prima è stata presentata, con il testo critico di Micol Di Veroli, alla IV Edizione della Bienal del Fin del Mundo, a Mar de Plata (Argentina, 2014). Ho scelto di istallarla in dialogo con la Casa del Puente, realizzata da Amancio Williams nel 1943, costruzione dall’aspetto leggero nonostante sia in cemento armato. Da quella prima installazione, le successive hanno sempre puntato a luoghi ove prevedevo e auspicavo una futura interazione artistica. Le lenti sarebbero presto diventate nodi di una rete globale di artisti in movimento. La lente viene posizionata in un punto specifico e circoscrive il campo di azione potenziale, disegnando i contorni dello spazio dove agire. Da quel momento la lente appartiene a quello spazio e lo definisce diventandone il fuoco. “Enhanced Vision” è un tentativo di creazione di un territorio connettivo tra luoghi apparentemente distanti, ma uniti da un pensiero comune: Creare Spazio! Riferimenti bibliografici: L.W.: Questo pensiero ci riporta immediatamente alla concezione heideggeriana della scultura, quale opera che non deve occupare uno spazio, ma piuttosto farlo. Creare Spazi dove l’uomo può procedere. Il suo saggio “L’Arte e lo Spazio” inizia con questa citazione di Aristotele: “Sembra essere cosa di grande importanza e difficile da afferrare il Topos” - cioè lo spazio-luogo. Quale topos cercano di afferrare le tue lenti? Alberto Boatto, Lo Sguardo dal di Fuori, 1981 Italo Calvino, Le Cosmicomiche, 1965 Italo Calvino, Lezioni Americane, 1988 Fritjof Capra, Il Tao della Fisica, 1975 Francesco Careri, Walkscapes, 2006 Bruce Chatwin, Anatomia dell’Irrequietezza,1997 Martin Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, 1936 Hans Ulrich Obrist, Fare una Mostra, 2014 Vezio Ruggieri, L’esperienza estetica, 1997 Main sponsor F.P.: Il momento più delicato risiede nella scelta condivisa del punto dove verrà istallata la lente; Il processo di concertazione permette di vedere e riflettere sul luogo in maniera diversa, valorizzandone i punti critici e le risorse. Come lo sguardo del ricercatore modifica necessariamente il campo di osservazione, lo sguardo dell’artista, simboleggiato dalla lente, cambierà lo spazio d’intervento. Essa è un’opera partecipata tra più artisti, ognuno è invitato a trasmettere il suo punto di vista sull’ambiente che la lente gli ha permesso di percepire e di svelare inviandomi una cartolina. Così, “Enhanced Vision” diventa una pratica tra più attori e innesca una riflessione dinamica sul luogo dell’arte e sull’autorialità dell’opera. Sponsor tecnici L.W.: Sotto questa luce, “Enhanced Vision” sembrerebbe piuttosto un progetto curatoriale che, secondo Hans Ulrich Obrist: “sostanzialmente si riassume nel mettere in relazione le culture fra loro, accostandone gli elementi. Compito del curatore è raccordare, fare in modo che elementi diversi entrino in contatto fra loro: lo si potrebbe definire un tentativo d’impollinazione fra culture, o un modo di disegnare mappe, che schiude percorsi nuovi attraverso una città, un popolo o un mondo”. F.P.: Più che un progetto, “Enhanced Vision” è una pratica per individuare, ovunque ci si trovi, un punto nello spazio capace di racchiudere tutto il paesaggio come ci insegna Alberto Boatto, che ho scelto come padrino metafisico dell’opera. Questa pratica implica la conoscenza delle persone che vivono e curano un particolare spazio-luogo. In Ecuador, per esempio, ho istallato la lente con Tomas Bucheli, responsabile del dipartimento di educazione del Centro de Arte Contemporanea di Quito nel piccolo spazio verde retrostante al Centro che è scenario della riappropriazione della comunità attraverso l’orto pubblico e delle strutture per l’esercizio fisico. Nel tempo, ho rielaborato le modalità di tessitura della rete, concentrando nel rito di consegna della lente l’atto fondante del patto tra artisti “nomadi” mossi dallo stesso desiderio di condivisione. Esso può avvenire in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. È il momento, l’istante che conta e racchiude il concetto stesso di rete di artisti nomadi. Perché essere nomadi non significa non avere un luogo di appartenenza. Il nomade è colui capace di crearsi molteplici porti di approdo, mantenendo, iscritta nella carne, la cognizione di avere un luogo dove tornare. Pertanto l’incontro e il relativo patto di fiducia può avvenire anche “fuori casa”. Mi preme insistere sul fatto che creare rete non vuol dire disperdere energie, anzi, vuol dire concentrarle. Al riguardo, vorrei portare l’esperienza di un mastro falegname di Torre del Fiscale a Roma, Giuseppe Pasculli, che dopo rigorosi studi sul sistema economico-finanziario odierno, ha sposato il metodo della moneta parallela di cui un’esperienza di maggior successo è il WIR Svizzero. Attraverso la messa in rete di competenze presenti nel tessuto comunitario, Giuseppe sta mettendo in pratica un altro tipo di economia territoriale più sostenibile della vigente. È importante che ogni artista, attore della rete, ponga attenzione e cura al proprio nodo, creando le condizioni per l’approdo di altri. La rete ha senso se è composta da forti identità dispari che hanno intenzione di dialogare ed, eventualmente, spostarsi apportando ad ogni contesto la loro specifica parola. “Visione Amplificata” permette di avere molteplici punti di vista in contemporanea. Da ogni nodo, da ogni punto fisso si possono percepire molteplici paesaggi. In uno stesso campo visivo vengono racchiusi diversi panorami. L’arte diventa cosi la chiave per ampliare le possibilità di azione, di movimento, di creazione. L.W.: ...e di percezione. Punto di vista, messa a fuoco, obiettivo, condivisione mi fa riflettere (appunto!) sull’importanza della vista in quest’opera. Forse perché nel linguaggio che usiamo per trasmettere le idee e i concetti astratti, predomina il campo semantico della visione. Differentemente, quando riferiamo di un’esperienza estetica ci avvaliamo di altri campi semantici in quanto essa si compone grazie ad altri canali sensoriali. Infatti, Ruggieri indica che il sentimento estetico si costruisce attraverso le informazioni di ritorno che la periferia corporea, ossia i muscoli, invia al sistema nervoso centrale. I muscoli reagiscono, anzi riproducono, attraverso micro variazioni di tono, la forma percepita dai recettori della vista nel caso di un oggetto d’arte. È la riproduzione delle linee di tensione, che caratterizzano lo stimolo, a connotare l’esperienza estetica che viviamo nell’asse piacere-dispiacere. Potremmo dire che la vista è il senso della conoscenza e la propriocezione (sensibilità dei muscoli) quello del sentimento. Entrambi coinvolti nel processo chiamato “decodificazione imitativa”. La serie “Variazioni sul cono” mantengono lo spettatore in sospensione, in quel particolare stato di tensione che precede la scarica. Diventiamo testimoni della cattura di un momento critico, di un passaggio trasformativo. Proviamo lo stesso strano piacere nel guardare attenti il procedere cauto del funambolo sul suo filo teso. Ottimo modo di attirare l’attenzione (che non è altro che una tensione verso)! F.P.: Certamente! Mi torna in mente la sensazione provocata dalla scultura “Apollo e Dafne” di Bernini che in qualche modo rappresenta le forze dell’attrazione, fondamentali per afferrare l’essenza del bello e del piacere. L.W.: O come nell’estasi di Santa Teresa d’Avila dove veniamo catturati proprio dallo stato di tensione culmine che precede la risoluzione. Anche qui la conoscenza dei processi psicofisiologici ci aiuta a comprendere le basi sulle quali poggia l’esperienza estetica. Il comportamento istintivo (sessuale, di nutrimento o di attacco-fuga) si divide in due fasi, una appetitiva e una consumatoria. Direi che le opere della serie “Variazioni sul cono” si concentrano sulla prima fase. Anche a teatro, si dice agli attori di non dare tutto ma piuttosto di trattenere quel po’ da accendere e mantenere l’appetito degli spettatori lungo la tensione drammatica. Mostrare un qualcosa di risolto non lascerebbe spazio all’immaginario altrui di colmare attivamente il vuoto, il silenzio. è forse questo il motore della tua ricerca e l’essenza della tua poetica? F.P.: Il mio tentativo è in effetti quello di catturare, fermare il delicato momento di equilibrio che può raggiungere un oggetto sottoposto alle fatali leggi della gravità. L’equilibrio per me è il lasso di tempo che intercorre tra un collasso e l’altro. La sfida, prometeica forse, risiede nel sovvertire le leggi della fisica, contrapponendo alla forza gravitazionale, che sarebbe l’unica ad agire sull’oggetto, una forza magnetica che ne impedisca la caduta. L’artificio magnetico, in questo caso, permette di allungare quel breve e inafferabile stato di grazia che percepiamo dell’oggetto nel suo appoggio controverso. È come se congelassi il momento di massima carica potenziale alludendo alla caduta che non avviene. Mi ricorda la pietra “movediza” di Tandil in Argentina dove un masso di trecento tonnellate è rimasto in bilico sull’orlo di un precipizio, da tempi immemori. Per gli indigeni essa è parte della loro visione cosmogonica, simbolo della forza divina. Oggi gli abitanti di Tandil al seguito del suo crollo nel 1912, l’hanno ricostruita ancorandola alla montagna e resa icona della città e del territorio circostante. Direi che allo stesso modo con cui l’uomo tenta di spiegare le leggi naturali attraverso il mito, l’artista usa l’artificio per rappresentare le leggi dell’esistenza. L.W.: Sotto questa luce, “Enhanced Vision” sembrerebbe piuttosto un progetto curatoriale che, secondo Hans Ulrich Obrist: “sostanzialmente si riassume nel mettere in relazione le culture fra loro, accostandone gli elementi. Compito del curatore è raccordare, fare in modo che elementi diversi entrino in contatto fra loro: lo si potrebbe definire un tentativo d’impollinazione fra culture, o un modo di disegnare mappe, che schiude percorsi nuovi attraverso una città, un popolo o un mondo”. F.P.: Più che un progetto, “Enhanced Vision” è una pratica per individuare, ovunque ci si trovi, un punto nello spazio capace di racchiudere tutto il paesaggio come ci insegna Alberto Boatto, che ho scelto come padrino metafisico dell’opera. Questa pratica implica la conoscenza delle persone che vivono e curano un particolare spazio-luogo. In Ecuador, per esempio, ho istallato la lente con Tomas Bucheli, responsabile del dipartimento di educazione del Centro de Arte Contemporanea di Quito nel piccolo spazio verde retrostante al Centro che è scenario della riappropriazione della comunità attraverso l’orto pubblico e delle strutture per l’esercizio fisico. Nel tempo, ho rielaborato le modalità di tessitura della rete, concentrando nel rito di consegna della lente l’atto fondante del patto tra artisti “nomadi” mossi dallo stesso desiderio di condivisione. Esso può avvenire in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. È il momento, l’istante che conta e racchiude il concetto stesso di rete di artisti nomadi. Perché essere nomadi non significa non avere un luogo di appartenenza. Il nomade è colui capace di crearsi molteplici porti di approdo, mantenendo, iscritta nella carne, la cognizione di avere un luogo dove tornare. Pertanto l’incontro e il relativo patto di fiducia può avvenire anche “fuori casa”. Mi preme insistere sul fatto che creare rete non vuol dire disperdere energie, anzi, vuol dire concentrarle. Al riguardo, vorrei portare l’esperienza di un mastro falegname di Torre del Fiscale a Roma, Giuseppe Pasculli, che dopo rigorosi studi sul sistema economico-finanziario odierno, ha sposato il metodo della moneta parallela di cui un’esperienza di maggior successo è il WIR Svizzero. Attraverso la messa in rete di competenze presenti nel tessuto comunitario, Giuseppe sta mettendo in pratica un altro tipo di economia territoriale più sostenibile della vigente. È importante che ogni artista, attore della rete, ponga attenzione e cura al proprio nodo, creando le condizioni per l’approdo di altri. La rete ha senso se è composta da forti identità dispari che hanno intenzione di dialogare ed, eventualmente, spostarsi apportando ad ogni contesto la loro specifica parola. “Visione Amplificata” permette di avere molteplici punti di vista in contemporanea. Da ogni nodo, da ogni punto fisso si possono percepire molteplici paesaggi. In uno stesso campo visivo vengono racchiusi diversi panorami. L’arte diventa cosi la chiave per ampliare le possibilità di azione, di movimento, di creazione. L.W.: ...e di percezione. Punto di vista, messa a fuoco, obiettivo, condivisione mi fa riflettere (appunto!) sull’importanza della vista in quest’opera. Forse perché nel linguaggio che usiamo per trasmettere le idee e i concetti astratti, predomina il campo semantico della visione. Differentemente, quando riferiamo di un’esperienza estetica ci avvaliamo di altri campi semantici in quanto essa si compone grazie ad altri canali sensoriali. Infatti, Ruggieri indica che il sentimento estetico si costruisce attraverso le informazioni di ritorno che la periferia corporea, ossia i muscoli, invia al sistema nervoso centrale. I muscoli reagiscono, anzi riproducono, attraverso micro variazioni di tono, la forma percepita dai recettori della vista nel caso di un oggetto d’arte. È la riproduzione delle linee di tensione, che caratterizzano lo stimolo, a connotare l’esperienza estetica che viviamo nell’asse piacere-dispiacere. Potremmo dire che la vista è il senso della conoscenza e la propriocezione (sensibilità dei muscoli) quello del sentimento. Entrambi coinvolti nel processo chiamato “decodificazione imitativa”. La serie “Variazioni sul cono” mantengono lo spettatore in sospensione, in quel particolare stato di tensione che precede la scarica. Diventiamo testimoni della cattura di un momento critico, di un passaggio trasformativo. Proviamo lo stesso strano piacere nel guardare attenti il procedere cauto del funambolo sul suo filo teso. Ottimo modo di attirare l’attenzione (che non è altro che una tensione verso)! F.P.: Certamente! Mi torna in mente la sensazione provocata dalla scultura “Apollo e Dafne” di Bernini che in qualche modo rappresenta le forze dell’attrazione, fondamentali per afferrare l’essenza del bello e del piacere. L.W.: O come nell’estasi di Santa Teresa d’Avila dove veniamo catturati proprio dallo stato di tensione culmine che precede la risoluzione. Anche qui la conoscenza dei processi psicofisiologici ci aiuta a comprendere le basi sulle quali poggia l’esperienza estetica. Il comportamento istintivo (sessuale, di nutrimento o di attacco-fuga) si divide in due fasi, una appetitiva e una consumatoria. Direi che le opere della serie “Variazioni sul cono” si concentrano sulla prima fase. Anche a teatro, si dice agli attori di non dare tutto ma piuttosto di trattenere quel po’ da accendere e mantenere l’appetito degli spettatori lungo la tensione drammatica. Mostrare un qualcosa di risolto non lascerebbe spazio all’immaginario altrui di colmare attivamente il vuoto, il silenzio. è forse questo il motore della tua ricerca e l’essenza della tua poetica? F.P.: Il mio tentativo è in effetti quello di catturare, fermare il delicato momento di equilibrio che può raggiungere un oggetto sottoposto alle fatali leggi della gravità. L’equilibrio per me è il lasso di tempo che intercorre tra un collasso e l’altro. La sfida, prometeica forse, risiede nel sovvertire le leggi della fisica, contrapponendo alla forza gravitazionale, che sarebbe l’unica ad agire sull’oggetto, una forza magnetica che ne impedisca la caduta. L’artificio magnetico, in questo caso, permette di allungare quel breve e inafferabile stato di grazia che percepiamo dell’oggetto nel suo appoggio controverso. È come se congelassi il momento di massima carica potenziale alludendo alla caduta che non avviene. Mi ricorda la pietra “movediza” di Tandil in Argentina dove un masso di trecento tonnellate è rimasto in bilico sull’orlo di un precipizio, da tempi immemori. Per gli indigeni essa è parte della loro visione cosmogonica, simbolo della forza divina. Oggi gli abitanti di Tandil al seguito del suo crollo nel 1912, l’hanno ricostruita ancorandola alla montagna e resa icona della città e del territorio circostante. Direi che allo stesso modo con cui l’uomo tenta di spiegare le leggi naturali attraverso il mito, l’artista usa l’artificio per rappresentare le leggi dell’esistenza. L.W.: Interessante parallelo, lo stesso artificio che hai usato per catturare il momento di attraversamento dell’oggetto in “Forma potenziale di coscienza”? L’intento qui sembrerebbe essere quello di rappresentare il punto di superamento del limite, il passaggio da una dimensione ad un’altra. Seguendo la mia esperienza personale, è solo dopo aver superato un proprio limite che ci si rende conto di averlo valicato, non durante il processo. Allo stesso modo, il passaggio da una dimensione conoscitiva ad un’altra, può avvenire in un istante inafferabile alla consapevolezza. I gestaltici chiamano “insight” l’avvento fulmineo di un’immagine interna capace di trasformare la figura in un’altra forma, capace di farci assumere un altro punto di vista. “Forma potenziale di coscienza” è un ulteriore intento di catturare l’ineffabile? F.P.: La curiosità ha sempre spinto l’uomo ad esplorare le frontiere della conoscenza. In ogni epoca le scoperte scientifiche hanno alimentato le sperimentazioni artistiche e viceversa. La fisica quantistica ci offre nuovi immaginari da decifrare e comprendere, legati alle forze che agiscono fra le particelle subatomiche, e l’arte partecipa alla visualizzazione del fenomeno. “Forma potenziale di coscienza” allude all’interazione tra le particelle che danno origine alle strutture stabili che formano il mondo materiale. Astraendo tale concetto, direi che se l’interazione tra elementi produce materia attraverso lo scambio di energia, allora l’interazione tra artisti può produrre significato attraverso lo scambio di saperi e di visioni. Tale è il desiderio che ho realizzato attivando il laboratorio NoMade a Roma. Uno spazio attrezzato dove gli artisti possono interagire con altri artisti, artigiani, creativi per realizzare progetti personali o collettivi. COLLOQUIO CRITICO con Fabio Pennacchia di Lea Walter Lea Walter: L’evento a Corte in occasione di Open House è stato chiamato “Visioni Amplificate” a partire da una delle opere installative che hai scelto di mettere in mostra dentro e fuori lo studio Corte. Due lenti tenute in tensione da fili trasparenti che vanno a formare una tela per intrappolare lo sguardo...o lo spazio? Com’è nata l’opera e come si è sviluppata nel progetto “Enhanced Vision Practice”? Fabio Pennacchia: “Visione Amplificata” sorge dalla necessità di osservazione dell’intorno quale pratica di sperimentazione artistica al seguito del recupero di centinaia di lenti da vista dismesse per obsolescenza. La prima è stata presentata, con il testo critico di Micol Di Veroli, alla IV Edizione della Bienal del Fin del Mundo, a Mar de Plata (Argentina, 2014). Ho scelto di istallarla in dialogo con la Casa del Puente, realizzata da Amancio Williams nel 1943, costruzione dall’aspetto leggero nonostante sia in cemento armato. Da quella prima installazione, le successive hanno sempre puntato a luoghi ove prevedevo e auspicavo una futura interazione artistica. Le lenti sarebbero presto diventate nodi di una rete globale di artisti in movimento. La lente viene posizionata in un punto specifico e circoscrive il campo di azione potenziale, disegnando i contorni dello spazio dove agire. Da quel momento la lente appartiene a quello spazio e lo definisce diventandone il fuoco. “Enhanced Vision” è un tentativo di creazione di un territorio connettivo tra luoghi apparentemente distanti, ma uniti da un pensiero comune: Creare Spazio! Riferimenti bibliografici: L.W.: Questo pensiero ci riporta immediatamente alla concezione heideggeriana della scultura, quale opera che non deve occupare uno spazio, ma piuttosto farlo. Creare Spazi dove l’uomo può procedere. Il suo saggio “L’Arte e lo Spazio” inizia con questa citazione di Aristotele: “Sembra essere cosa di grande importanza e difficile da afferrare il Topos” - cioè lo spazio-luogo. Quale topos cercano di afferrare le tue lenti? Alberto Boatto, Lo Sguardo dal di Fuori, 1981 Italo Calvino, Le Cosmicomiche, 1965 Italo Calvino, Lezioni Americane, 1988 Fritjof Capra, Il Tao della Fisica, 1975 Francesco Careri, Walkscapes, 2006 Bruce Chatwin, Anatomia dell’Irrequietezza,1997 Martin Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, 1936 Hans Ulrich Obrist, Fare una Mostra, 2014 Vezio Ruggieri, L’esperienza estetica, 1997 Main sponsor F.P.: Il momento più delicato risiede nella scelta condivisa del punto dove verrà istallata la lente; Il processo di concertazione permette di vedere e riflettere sul luogo in maniera diversa, valorizzandone i punti critici e le risorse. Come lo sguardo del ricercatore modifica necessariamente il campo di osservazione, lo sguardo dell’artista, simboleggiato dalla lente, cambierà lo spazio d’intervento. Essa è un’opera partecipata tra più artisti, ognuno è invitato a trasmettere il suo punto di vista sull’ambiente che la lente gli ha permesso di percepire e di svelare inviandomi una cartolina. Così, “Enhanced Vision” diventa una pratica tra più attori e innesca una riflessione dinamica sul luogo dell’arte e sull’autorialità dell’opera. Sponsor tecnici