Chomsky - Articoli Vari - Netsaver Paul
Transcript
Chomsky - Articoli Vari - Netsaver Paul
Noam Chomsky - Note sull'anarchismo Il presente saggio costituisce la rielaborazione dell'introduzione all’edizione inglese di L’anarchisme: de la théorie à la pratique di DANIEL GUERIN. Uno scrittore francese, simpatizzante anarchico, scriveva nell'ultimo decennio del secolo scorso che "l'anarchia ha le spalle larghe; come la carta, sopporta qualunque cosa" - ivi compresi, egli notava, coloro le cui azioni sono di tal fatta che "un nemico mortale dell'anarchia non avrebbe potuto agire meglio". Sono molti gli stili di pensiero e d'azione che sono stati qualificati come "anarchico". Sarebbe vano tentare di unificare tutte queste tendenze contrastanti in una qualche ideologia o teoria generale. E quand'anche si tenti di rintracciare nella storia del pensiero libertario una tradizione vivente in evoluzione, come fa Guérin nel suo L'anarchisme, rimane difficile formularne le dottrine come una ben determinata teoria della società e del mutamento sociale. Lo storico anarchico Rudolf Rocker, che traccia un profilo sistematico dello sviluppo del pensiero anarchico in direzione dell'anarcosindacalismo, secondo un'impostazione molto prossima a quella del lavoro di Guérin, puntualizza esattamente la questione quando scrive che l'anarchismo non costituisce "un sistema sociale definito e in sé concluso, quanto piuttosto una ben determinata tendenza nello sviluppo storico dell'umanità che, in contrasto con la tutela intellettuale imposta da tutte le istituzioni clericali e governative, lotta per il libero e incondizionato dispiegamento delle forze individuali e sociali della vita. La libertà stessa è soltanto un concetto relativo, e non assoluto, poiché tende costantemente ad espandersi e a coinvolgere sfere sempre più ampie in una crescente varietà di modi. Per l'anarchico, la libertà non è un astratto concetto filosofico, ma la concreta possibilità vitale per ogni essere umano di sviluppare appieno tutte le potenzialità, le facoltà, le doti che la natura gli ha donato, volgendole a vantaggio della società. Minore è il peso della tutela ecclesiastica e politica in questo naturale sviluppo, e tanto più ricca e armonica diverrà la personalità umana, tanto più decisamente essa diverrà la misura della cultura intellettuale della società in cui è cresciuta." Ci si potrebbe chiedere che valore abbia studiare una "ben determinata tendenza nello sviluppo storico dell'umanità" che non si traduce in una specifica e particolareggiata teoria sociale. In effetti, molti commentatori liquidano l'anarchismo in quanto concezione utopistica, informe, primitiva, o comunque incompatibile con la realtà di una società complessa. Nulla peraltro impedirà di sostenere una tesi alquanto diversa: che in ogni fase della storia il nostro compito deve consistere nello smantellamento di quelle forme di autorità e d'oppressione che sopravvivono a un'epoca in cui potevano 1 anche trovare giustificazione nelle esigenze di sicurezza, di sopravvivenza o di sviluppo economico, ma che ormai contribuiscono a deprimere - anziché ad elevare le condizioni materiali e spirituali della vita. In tal caso, non ci sarà una dottrina stabile del mutamento sociale, valida per il presente come per il futuro, e nemmeno necessariamente un'idea specifica e immutabile degli scopi ai quali dovrebbe tendere il mutamento sociale. Sta di fatto che le nostre cognizioni sulla natura umana e sul ventaglio delle forme sociali realizzabili sono così rudimentali che ogni dottrina di ampio respiro va riguardata con grande scetticismo, allo stesso modo come lo scetticismo è di prammatica quando si sente dire che la "natura umana" o le "esigenze" o la "complessità della vita moderna" impongono questa o quella forma di oppressione o di potere autocratico. Ciò nondimeno, in un dato momento storico abbiamo tutte le ragioni di conferire a questa ben determinata tendenza nello sviluppo storico dell'umanità, per quanto ce lo consentono le nostre cognizioni, uno specifico contenuto concreto, corrispondente ai compiti del momento. Per Rocker, "il problema che si pone nel nostro tempo è quello di liberare l'uomo dalla maledizione dello sfruttamento economico e dell'asservimento politico e sociale"; e il metodo non consiste né nella conquista e nell'esercizio del Potere statale, né nel cretinismo parlamentare, bensì nel "riorganizzare la vita economica dei Popoli da cima a fondo, edificandola nello spirito del socialismo". Ma solo i produttori stessi sono idonei a questo compito, essendo i soli creatori di valore della società dalla quale può scaturire un nuovo futuro. Spetta loro il compito di liberare il lavoro da tutti i ceppi impostigli dallo sfruttamento economico, di liberare la società da tutte le istituzioni e le procedure del Potere politico, e di spianare la via ad una alleanza di gruppi spontanei di uomini e donne fondata sul lavoro cooperativo e su di un'amministrazione Pianificata delle cose nell'interesse della comunità. Preparare le masse lavoratrici della città e della campagna in vista di questo scopo grandioso e unificarle in una forza militante è l'obiettivo del moderno anarcosindacalismo, e in questo obiettivo si risolvono interamente i suoi intenti [p. 108]. In quanto socialista, Rocker dà ovviamente per scontato "che la vera, definitiva e completa liberazione dei lavoratori è possibile soltanto ad una condizione: quella dell'appropriazione del capitale, e cioè della materia prima e degli strumenti del lavoro, terra compresa, da parte dell’intero corpo dei lavoratori".In quanto anarcosindacalista, egli insiste altresì sulla necessità che le organizzazioni operaie creino "non solo le idee, ma anche i fatti dello stesso futuro" durante il periodo prerivoluzionario, che esse prefigurino già in se stesse le strutture della società futura - prospettando una rivoluzione sociale che smantelli l'apparato statale e che espropri ad un tempo gli espropriatori. "Ciò che noi poniamo al posto del governo è l'organizzazione industriale". 2 Gli anarcosindacalisti sono convinti che un ordine economico socialista non può essere istituito mediante i decreti o gli ordinamenti di un governo, ma soltanto mediante la collaborazione solidale dei lavoratori intellettuali e manuali in ogni singolo settore della produzione; ossia mediante l'assunzione della direzione di tutti gli stabilimenti da parte dei produttori stessi modo tale che i diversi gruppi, stabilimenti e settori dell’industria vengano ad essere dei membri indipendenti di un organismo economico generale e portino avanti sistematicamente la produzione e la distribuzione dei prodotti nell'interesse della comunità, sulla base di accordi reciproci [P. 49]. Rocker scriveva nel momento in cui tali idee erano state messe in pratica in modo drammatico durante la rivoluzione spagnola. Proprio alla vigilia dello scoppio della rivoluzione, l’economista anarcosindacalista Diego Abad de Santillan aveva scritto: ... nell'affrontare il problema della trasformazione sociale, la rivoluzione non può considerare lo stato come un suo mezzo, ma deve fondarsi sull'organizzazione dei produttori. Abbiamo seguito questo principio e non vediamo quale necessità vi sia dell'ipotesi di un potere superiore al lavoro organizzato, al fine di instaurare un nuovo ordine di cose. Ringrazieremo chiunque ci volesse chiarire quale funzione possa mai avere lo stato in un’organizzazione economica in cui la proprietà privata sia stata abolita e in cui non ci sia più spazio per il parassitismo e per privilegi particolari. La soppressione dello stato non può essere una questione da prendere con le molle; compito della rivoluzione dev'essere appunto quello di spazzare via lo stato. O la rivoluzione consegna la ricchezza sociale nelle mani dei produttori e in questo caso i produttori si organizzeranno ai fini della debita distribuzione collettiva e lo stato non avrà ragione d'essere; oppure la rivoluzione non consegna la ricchezza sociale nelle mani dei produttori, e in questo caso la rivoluzione sarà stata un inganno e lo stato continuerà ad esistere. Il nostro consiglio federale dell'economia non è un potere politico ma un potere di regolazione economica e amministrativa. Esso riceve il suo orientamento dal basso e opera in conformità alle risoluzioni delle assemblee regionali e nazionali. Non è che un organo di collegamento, e nient’altro. In una lettera del 1883, cosi Engels esprimeva il suo dissenso da questa concezione: Gli anarchici capovolgono l'intera questione. Essi dichiarano che la rivoluzione proletaria deve incominciare con l'abolizione dell'organizzazione politica dello stato. [... ] 3 Ma distruggerlo in un istante come quello significherebbe distruggere l'unico organismo per mezzo del quale il proletariato vittorioso può far valere il potere appena conquistato, può tenere a bada i suoi avversari capitalistici e imporre quella rivoluzione economica della società senza la quale l'intera vittoria dovrebbe necessariamente concludersi in una sconfitta e in un massacro della classe operaia simile a quello seguito alla Comune di Parigi Viceversa, gli anarchici - e Bakunin nel più eloquente dei modi - mettevano in guardia dai pericoli della "burocrazia rossa", che si sarebbe rivelata "il più basso e tragico inganno prodotto dal nostro secolo". L'anarcosindacalista Fernand Pelloutier si chiedeva: "Lo stato transitorio che si è costretti a subire dev'essere necessariamente, fatalmente, una galera collettivista? Non può consistere in una organizzazione libertaria esclusivamente limitata ai bisogni della produzione e del consumo, essendo scomparsa Ogni istituzione politica? ". Non pretendo di conoscere la risposta a tale quesito. Ma sembra chiaro che ove non ci sia modo di trovare una risposta positiva, le possibilità di una rivoluzione veramente democratica che realizzi gli ideali umanistici della sinistra non sono molte. Martin Buber poneva il problema in termini lapidari, allorché scriveva: "Non è nella natura delle cose aspettarsi che un alberello trasformato in mazza possa mettere foglie". La questione della conquista o della distruzione del potere statale è quello che Buber considerava il motivo fondamentale del suo dissenso da Marx. In un modo o nell'altro, il problema è sorto a più riprese nel corso dei cent'anni successivi, dividendo i "libertari" dagli "autoritari". A dispetto delle predizioni di Bakunin sulla burocrazia rossa, e del loro inveramento sotto la dittatura staliniana, sarebbe ovviamente un errore grossolano interpretare le controversie di un secolo fa alla luce delle affermazioni dei movimenti sociali contemporanei in merito alle loro pretese origini storiche. In particolare, è specioso considerare il Bolscevismo come l'"applicazione pratica del marxismo". Al contrario, di gran lunga più convincente è in proposito la critica da sinistra del Bolscevismo, che tiene conto delle circostanze storiche della rivoluzione russa: La sinistra antibolscevíca del movimento operaio si opponeva ai leninisti in quanto essi non sfruttavano più a fondo i rivolgimenti russi per scopi strettamente proletari. I leninisti caddero prigionieri delle condizioni ambientali e si servirono del movimento rivoluzionario internazionale per soddisfare delle esigenze specificamente russe, che ben presto divennero sinonimo delle esigenze del partito-stato bolscevico. Gli aspetti borghesi della rivoluzione russa vennero a questo punto rintracciati nel Bolscevismo stesso: nel leninismo si giunse a vedere un settore della socíaldemocrazia internazionale, che se ne differenziava solo su questioni tattiche . 4 Se si volesse cercare un'unica idea guida nella tradizione anarchica, quest'idea sarebbe a mio avviso quella espressa da Bakunin là dove, parlando della Comune di Parigi, egli tracciava di sé questo autoritratto: Io sono un amante fanatico della libertà, considerandola l'unico mezzo in seno al quale possono svilupparsi e crescere l'intelligenza, la dignità e la felicità degli uomini; non di questa libertà tutta formale, concessa, misurata e sottoposta a regolamento dallo stato, menzogna eterna e che in realtà non rappresenta mai nient'altro all’infuori del privilegio di alcuni fondato sulla schiavitù di tutti; non di questa libertà individualista, egoista, meschina e fittizia, vantata dalla scuola di .-J. Rousseau, come da tutte le altre scuole del liberalismo borghese, e che considera quello che essa dice diritto di tutti, rappresentato dallo stato, come il limite del diritto di ognuno, ciò che tende necessariamente e sempre alla riduzione a zero del diritto di ognuno. No, io intendo la sola libertà che sia veramente degna di tale nome, la libertà che consiste nel pieno sviluppo delle potenze materiali, intellettuali e morali le quali si trovano allo stato di facoltà latenti in ognuno; la libertà che non riconosce altre restrizioni all'infuori di quelle che sono tracciate dalle leggi della nostra stessa natura: in guisa che, propriamente parlando, non vi siano restrizioni, poiché tali leggi non ci sono imposte da qualche legislatore dal di fuori che si trovi sia accanto, sia al di sopra di noi; esse ci sono immanenti, inerenti e costituiscono la base stessa di tutto il nostro essere, tanto materiale che intellettuale e morale; invece dunque di trovare in esse un limite, noi dobbiamo considerarle come le condizioni reali e come la ragione effettiva della nostra libertà . Queste idee provengono dall'Illuminismo; la loro radice è nel Discorso sull'origine dell'ineguaglianza di Rousseau, nei Limiti dell'attività dello Stato di Humboldt, nell'insistenza con cui Kant afferma, nella sua difesa della rivoluzione francese, che la libertà è una condizione indispensabile per raggiungere la maturità richiesta per l'esercizio della libertà stessa, e non un dono da concedere una volta che sia stata raggiunta tale maturità (cfr. cap. IX, PP. 476-77). Con lo sviluppo del capitalismo industriale, di un nuovo e imprevisto sistema d'ingiustizie, è toccato al socialismo libertario conservare ed estendere il messaggio umanistico radicale dell'Illuminismo e gli ideali liberali classici che sono stati stravolti in un'ideologia al servizio dell’ordine sociale emergente. Difatti, in base agli stessi principi che inducevano il liberalismo classico ad opporsi all'intervento dello stato nella vita sociale, anche i rapporti sociali capitalistici appaiono inaccettabili. Ciò risulta chiaro, ad esempio, dal classico Saggio sui limiti dell'attività dello Stato di Humboldt, che ha anticipato e forse ispirato il discorso di Mill e sul quale ritorneremo più avanti (cap. IX, PP. 482-87). Questo classico del pensiero liberale, ultimato nel 1792, è nella sua essenza profondamente, seppur prematuramente, anticapitalista. Per farne un'ideologia del capitalismo industriale, le sue idee vanno annacquate fino a renderle irriconoscibili. 5 La visione humboldtiana di una società in cui le catene sociali sono sostituite da vincoli sociali di reciprocità, e il lavoro sia svolto in piena libertà, richiama alla mente il giovane Marx (cfr. cap. IX, nota 15), con la sua analisi della "alienazione del lavoro allorché l'attività lavorativa è estranea al lavoratore... e non parte dalla sua stessa natura, [sicché] egli non si realizza ma nega se stesso nel lavoro [e ne esce] esausto nel fisico e abbrutito nella mente". La tesi, cioè, che il lavoro alienato " ricaccia alcuni lavoratori in condizioni di lavoro barbare e altri li riduce a macchine", privando in tal modo l'uomo del suo "attributo specifico" della "libera attività consapevole", della "vita produttiva". Analogamente, Marx pensa ad "un essere umano di tipo nuovo che ha bisogno dei suoi simili... [L'associazione dei lavoratori viene ad essere] l'effettivo, concreto tentativo di creare la trama sociale dei futuri rapporti umani". E’ vero che il pensiero libertario classico è contrario all'intervento dello stato nella vita sociale, in nome di assunti più profondi circa il bisogno umano di libertà, di diversità e di libera associazione. Ma proprio in base agli stessi assunti, i rapporti di produzione capitalistici, il lavoro salariato, la competitività, l'ideologia dell'"individualismo possessivo", tutto ciò va considerato come qualcosa di fondamentalmente disumano. Il socialismo libertario va considerato propriamente come l'erede degli ideali libertari dell'Illuminismo. Rudolf Rocker definisce l'anarchismo moderno come "la confluenza di due grandi correnti che durante e dopo la rivoluzione francese hanno trovato un'espressione tanto caratteristica nella vita intellettuale europea: il socialismo e il liberalismo". Le idee del liberalismo classico, egli sostiene, crollarono di fronte alla realtà delle forme economiche capitalistiche. L'anarchismo è necessariamente anticapitalistico in quanto " si oppone allo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo ". Ma l'anarchismo si oppone anche al "dominio dell'uomo sull'uomo". Esso non si stanca d'affermare che " il socialismo sarà libero o non sarà affatto. Nel riconoscimento di questa verità sta l'autentica e profonda giustificazione dell'esistenza dell'anarchismo". Da questo punto di vista, l'anarchismo si può considerare come l'ala libertaria del socialismo. Ed è in questo spirito che Daniel Guérin ha affrontato lo studio dell'anarchismo nel suo L'anarchisme e in altri scritti. Guérin riprende l'affermazione di Adolph Fischer secondo cui "ogni anarchico è un socialista, ma non ogni socialista è necessariamente un anarchico". Similmente, nel suo "manifesto anarchico" del 1865 (il programma della sua progettata fratellanza rivoluzionaria internazionale) Bakunin fissava il principio che ogni aderente doveva,tanto per cominciare, essere socialista. Un anarchico conseguentemente non può che essere contrario alla proprietà privata dei mezzi di produzione e alla schiavitù del salario che di questo sistema è parte integrante, in quanto entrambe incompatibili con il principio che il lavoro dev'essere svolto liberamente e sotto il controllo del produttore. Come diceva Marx, i socialisti auspicano una società in cui il lavoro diventi "non soltanto un mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita ", cosa impossibile finché il lavoratore è spinto 6 dall'autorità o dal bisogno esterno anziché dal profondo della sua intima natura: "nessuna forma di lavoro salariato, sebbene l'una possa eliminare gli inconvenienti dell'altra, può eliminare gli inconvenienti del lavoro salariato stesso". Un anarchico conseguentemente non può che essere contrario non solo all'alienazione del lavoro, ma anche all'instupidente parcellizzazione del lavoro che si determina allorché i mezzi per sviluppare la produzione mutilano l'operaio facendone un uomo parziale, lo avviliscono a insignificante appendice della macchina, distruggono con il tormento del suo lavoro il contenuto del lavoro stesso, gli estraniano le potenze intellettuali del processo lavorativo nella stessa misura in cui a quest'ultimo la scienza viene incorporata come potenza autonoma....... In tutto ciò Marx vedeva non già un risvolto inevitabile dell'industrializzazione, quanto piuttosto un aspetto dei rapporti di produzione capitalistici. La società del futuro deve provvedere a " sostituire all'individuo parziale odierno... ridotto a mero frammento di uomo, l'individuo totalmente sviluppato, adatto a una varietà di lavori, per il quale le differenti funzioni sociali non sono che tanti modi di dispiegare liberamente le proprie potenzialità naturali". Condizione indispensabile di questo mutamento è l'abolizione del capitale e del lavoro salariato in quanto categorie economiche (per non parlare degli eserciti industriali dello "stato operaio" o delle diverse forme moderne di totalitarismo o di capitalismo di stato). La riduzione dell'uomo ad appendice della macchina, a strumento parcellare di produzione, potrebbe in linea di principio essere eliminata, anziché esasperata, con lo sviluppo e l’uso appropriato della tecnologia, ma non nelle condizioni di controllo autocratico della produzione da parte di coloro che fanno dell’uomo uno strumento da utilizzare ai propri fini, senza tenere conto, per dirla con Humboldt, dei suoi intenti individuali. Gli anarcosindacalisti hanno tentato, già in regime di capitalismo, di costituire "libere associazioni di liberi produttori" che si impegnassero nella lotta militante preparandosi ad appropriarsi su basi democratiche dell'organizzazione della produzione. Queste associazioni sarebbero servite da "scuole pratiche di anarchismo ". Se la proprietà privata dei mezzi di produzione è, secondo la frase spesso citata da Proudhon, solo una forma di "furto" - "lo sfruttamento dei deboli da parte dei forti" il controllo della produzione ad opera di una burocrazia statale, per benevole che ne siano le intenzioni, non crea neppure esso le condizioni nelle quali il lavoro, manuale e intellettuale, può diventare il primo bisogno della vita. Nel suo attacco contro il diritto al controllo privato o burocratico dei mezzi di produzione, l’anarchico si schiera a fianco di coloro che lottano per portare a termine "la terza ed ultima fase storica dell'emancipazione ": dopo che la prima ha trasformato gli schiavi in servi, e la seconda i servi in salariati, la terza abolirà il proletariato con un ultimo atto di liberazione che consegnerà il controllo dell'economia nelle mani di libere associazioni volontarie di produttori (Fourier, 7 1848). Sempre nel I848, De Tocquevílle denunciava il pericolo incombente sulla " civiltà ": Finché il diritto di proprietà è stato l'origine e il fondamento di molti altri diritti, esso veniva difeso con facilità - o meglio, non veniva nemmeno attaccato; esso rappresentava quindi la cittadella della società, mentre tutti gli altri diritti non ne rappresentavano che le fortificazioni esterne; esso non sosteneva l'urto principale dell'attacco, ed anzi non correva seri pericoli di assalto. Ma oggi che il diritto di proprietà è considerato come l'ultimo baluardo del mondo aristocratico, oggi che esso solo rimane in piedi come unico privilegio in una società egualizzata, la faccenda è diversa. Si pensi a quanto sta accadendo nei cuori delle classi lavoratrici, anche se debbo ammettere che finora sono rimaste tranquille. E’ vero che sono infiammate meno di prima da passioni politiche in senso stretto; ma non vedete che le loro passioni, lungí dall'essere politiche, sono diventate sociali? Non vedete che a poco a poco si diffondono nelle loro file idee e opinioni che non mirano semplicemente ad abolire questa o quella legge, questo o quel governo, ma a sconvolgere le fondamenta stesse della società? Gli operai di Parigi nel 1871 ruppero il silenzio, e procedettero ad abolire la proprietà, la base di ogni civiltà! Sì, o signori, la Comune voleva abolire quella proprietà di classe che fa del lavoro di molti la ricchezza di pochi. Essa voleva l'espropriazione degli espropriatori. Voleva fare della proprietà individuale una realtà, trasformando i mezzi di produzione, la terra e il capitale, che ora sono essenzialmente mezzi di asservimento e di sfruttamento del capitale, in semplice strumento di lavoro libero e associato La Comune, naturalmente, fu soffocata nel sangue. Il carattere della "civiltà" che gli operai parigini cercavano di abbattere con il loro attacco alle "fondamenta stesse della società" si palesò ancora una volta nel momento in cui le truppe del governo riconquistarono Parigi dalle mani della sua popolazione. Come scrisse Marx, con parole tanto amare quanto veritiere: La civiltà e la giustizia dell'ordine borghese si mostrano nella loro luce sinistra ogni volta che gli schiavi e gli sfruttati di quest'ordine insorgono contro i loro padroni. Allora questa civiltà e questa giustizia si svelano come nuda barbarie e vendetta ex lege. [...] Le azioni diaboliche della soldatesca rispecchiano lo spirito innato di quella civiltà di cui essa è la vendicatrice mercenaria. [...] La borghesia di tutto il mondo, che assiste con compiacimento al massacro dopo la battaglia, rabbrividisce di orrore al veder profanati la calce e i mattoni! [Ibid., pp. 925-26, 927]. Nonostante la soppressione violenta della Comune, Bakunin scrisse che Parigi segnava l'inizio di una nuova epoca, "quella della completa e definitiva 8 emancipazione delle masse popolari e della loro vera solidarietà futura, al di sopra e malgrado le frontiere degli stati... la prossima rivoluzione dell'uomo, internazionale e fondata sulla solidarietà, segnerà la resurrezione di Parigi" - una rivoluzione di cui il mondo è ancora in attesa. L'anarchico conseguentemente dovrebbe dunque essere ad un tempo un socialista, ma un socialista di tipo particolare. Non solo egli sarà contrario all'alienazione e alla parcellizzazione del lavoro e mirerà all'appropriazione del capitale da parte dell'intera massa dei lavoratori, ma insisterà perché quest'appropriazione sia diretta, e non attuata per il tramite di una qualsiasi forza d'élite che agisca in un modo o nell'altro in nome del proletariato. In breve, sarà contrario alla organizzazione della produzione da parte del governo. Vale a dire al socialismo di stato, al dominio dei funzionari statali sulla produzione e al dominio dei dirigenti, degli scienziati e dei funzionari di fabbrica sul luogo di produzione... L'obiettivo della classe operaia è la liberazione dallo sfruttamento. Quest'obiettivo non sarà né mai potrà essere raggiunto da una nuova classe dirigente che si sostituisca al governo della borghesia. Si realizzerà soltanto con il controllo degli stessi operai sulla produzione. Queste osservazioni sono tratte dalle Cinque tesi sulla lotta di classe del marxista di sinistra Anton Pannekoek, uno dei più insigni teorici del movimento comunista dei consigli. E difatti il marxismo radicale fa tutt'uno con le correnti anarchiche. A titolo di ulteriore chiarimento, si consideri il seguente profilo del "socialismo rivoluzionario ": Il socialista rivoluzionario nega che la proprietà statale possa avere altra conseguenza che non sia il dispotismo burocratico. Si è visto perché lo stato non può gestire democraticamente l'industria. L'industria può essere controllata e gestita democraticamente dagli operai, mediante l'elezione diretta di comitati d'amministrazione emananti dalle loro stesse file. Il socialismo sarà essenzialmente un sistema industriale; il suo corpo elettorale sarà di tipo industriale. Pertanto, coloro che portano avanti le attività sociali e le industrie della società saranno direttamente rappresentati nei consigli locali e centrali dell’amministrazione sociale. In questo modo il potere di tali di tali delegati emanerà dal basso, che svolgono il lavoro e conoscono i bisogni della comunità. da coloro Quando si riunirà il comitato centrale dell'amministrazione industriale, esso sarà rappresentativo di ogni momento dell'attività sociale. Da ciò consegue che lo stato politico o territoriale del capitalismo sarà sostituito dal comitato d'amministrazione industriale del socialismo. La transizione dall'uno all'altro 9 sistema sociale costituirà la rivoluzione sociale. Nel corso della storia lo stato politico ha sempre significato il governo degli uomini da parte delle classi dominanti; la repubblica del socialismo sarà il governo dell'industria gestito per conto dell'intera comunità. Il primo significava la soggezione economica e politica della maggioranza degli uomini; il secondo significherà la libertà economica di tutti gli uomini - e sarà perciò una vera democrazia. Questa dichiarazione programmatica compare nel libro di William Paul, The State, Its Origins and Functions, scritto agli inizi del 1917 - Poco prima di Stato e rivoluzione, forse la più libertaria delle opere di Lenin. Paul, che più tardi sarebbe stato tra i fondatori del partito comunista britannico, faceva allora parte del Socialíst Labour Party di ispirazione marxista-deleonista. La sua critica del socialismo di stato richiama la dottrina libertaria degli anarchici nell'affermazione di principio che, siccome la proprietà e la gestione statale porterebbero al dispotismo burocratico, la rivoluzione sociale deve invece instaurare l'organizzazione industriale della società fondata sul controllo operaio diretto. Di enunciazioni analoghe se ne potrebbero citare molte. Ma la cosa di gran lunga più importante è che queste idee sono state messe in pratica nel corso di spontanee azioni rivoluzionarie, come ad esempio in Germania e in Italia dopo la prima guerra mondiale e in Spagna (non solo nelle campagne, ma anche nell'industrializzata Barcellona) nel 1936. Si potrebbe sostenere che un qualche tipo di comunismo conciliare costituisce la forma naturale del socialismo rivoluzionario in una società industriale. Essa rispecchia l'intuizione del fatto che la democrazia viene ad essere pesantemente limitata laddove il sistema industriale è controllato da un'élite autocratica di qualsiasi tipo, sia essa costituita da proprietari, dirigenti d'azienda o tecnocrati, ovvero da un partito "d'avanguardia" o da una burocrazia statale. In queste concezioni di dominio autoritario gli ideali liberali classici, ulteriormente sviluppati da Marx, da Bakunin e da tutti i veri rivoluzionari, non possono trovare attuazione; l'uomo non sarà libero di dispiegare al massimo le proprie potenzialità, e il produttore rimarrà un "frammento di uomo ", degradato a strumento di un processo produttivo governato dall'alto. L'espressione "spontanea azione rivoluzionaria" può prestarsi a equivoci. Gli anarcosindacalisti, perlomeno, prendevano molto sul serio il richiamo di Bakunin alla necessità che i lavoratori creassero "non solo le idee, ma anche i fatti dello stesso futuro" durante il periodo prerivoluzionario. Le realizzazioni della rivoluzione popolare spagnola, in particolare, affondavano le radici in un paziente lavoro pluriennale d'organizzazione e d'educazione, quale componente di una lunga tradizione di impegno e di militanza. Le risoluzioni del Congresso di Madrid del giugno 1931 e del Congresso di Saragozza del maggio 1936 preannunciavano per 10 molti versi i provvedimenti della rivoluzione, e lo stesso può dirsi delle idee un po' diverse abbozzate da Santillan nel suo progetto abbastanza particolareggiato dell'organizzazione sociale ed economica che la rivoluzione avrebbe dovuto instaurare. Scrive Guérin: "La rivoluzione spagnola era relativamente matura nella mente dei pensatori libertari, come pure nella coscienza popolare". E quando in seguito all'insurrezione franchista i fermenti degli inizi del 1936 esplosero in una rivoluzione sociale, esistevano organizzazioni dei lavoratori che possedevano la struttura, l'esperienza e la consapevolezza necessarie per intraprendere l'opera di ricostruzione sociale. Nell'introduzione ad una raccolta di documenti relativi alla collettivizzazione in Spagna, l'anarchico Augustin Souchy scrive: Per molti anni, gli anarchici e i sindacalisti spagnoli avevano considerato come loro compito supremo la trasformazione sociale della società. Nelle loro assemblee sindacali e nei loro gruppi, sui loro giornali, opuscoli e libri, il problema della rivoluzione era stato discusso incessantemente e in maniera sistematica. Ecco quanto stava a monte delle realizzazioni spontanee, del lavoro costruttivo della rivoluzione spagnola. La voce del socialismo libertario, inteso nel senso appena detto, è finita soffocata nelle società industriali dell'ultimo cinquantennio. Le ideologie dominanti sono state quelle del socialismo di stato e del capitalismo di stato (che negli Stati Uniti si è venuto sempre più militarizzando, per motivi tutt'altro che oscuri). Ma da qualche anno a questa parte si assiste ad una ripresa d'interesse. Le tesi di Anton Pannekoek da me citate sono riportate in un recente opuscolo di un gruppo operaio rivoluzionario francese (Informations Correspondence Ouvrière). Le osservazioni di William Paul sul socialismo rivoluzionario sono riprese in una relazione presentata da Walter Kendall al Convegno nazionale sul controllo operaio di Sheffield, in Inghilterra, nel marzo 1969. In questo paese il movimento per il controllo operaio è divenuto negli ultimi anni una forza consistente. Esso ha organizzato diversi convegni e prodotto una mole notevole di pubblicazioni, e conta tra i suoi attivisti degli esponenti di alcune tra le più importanti organizzazioni sindacali. L'Unione dei metalmeccanici e dei metallurgici, ad esempio, ha adottato, quale linea ufficiale, un programma di nazionalizzazione delle industrie di base sotto il "controllo operaio a tutti i livelli". Sviluppi analoghi si registrano nell'Europa continentale. Il maggio '68 ha naturalmente ravvivato ancor più l'interesse per il comunismo conciliare e le sue idee in Francia e in Germania, così com'è accaduto in Inghilterra. Data la generale impronta conservatrice della nostra società fortemente ideologizzata, non desta eccessiva sorpresa il fatto che gli Stati Uniti siano rimasti relativamente alieni da questi sviluppi. Ma anche qui la situazione potrebbe cambiare. L'erosione della mitologia della guerra fredda rende quanto meno possibile sollevare questi problemi in ambienti sempre più vasti. Se si riuscirà a rintuzzare l'attuale ondata 11 repressiva, se la sinistra saprà vincere le proprie tendenze più suicide e costruire sulle basi di quanto è stato realizzato nel corso dell’ultimo decennio, allora il problema di come organizzare la società in forma veramente democratica, con un controllo democratico sul posto di lavoro e in seno alla comunità, dovrebbe diventare una questione intellettuale di primaria importanza per coloro che sono sensibili ai problemi della società contemporanea e, con lo sviluppo di un movimento di massa per il socialismo libertario, dalla teoria si dovrebbe passare all'azione. Nel suo manifesto del 1865 Bakunin prediceva che un contributo alla rivoluzione sociale sarebbe venuto da " quella parte intelligente e veramente nobile della gioventù che, pur appartenendo per nascita alle classi privilegiate, nelle sue generose convinzioni e ardenti aspirazioni abbraccia la causa del Popolo". Forse nella rivolta del movimento studentesco degli anni sessanta si può vedere un passo avanti verso l'avverarsi di questa profezia. Daniel Guérin ha avviato quello che egli definisce un "processo di riabilitazione" dell'anarchismo. Egli sostiene, in modo a mio avviso convincente, che "le idee costruttive dell'anarchismo sono sempre vive, e che esse possono, a condizione di essere riesaminate e passate al vaglio, aiutare il pensiero socialista contemporaneo a prendere un nuovo indirizzo [e] contribuire ad arricchire il marxismo". Dalle " spalle larghe " dell’anarchismo egli ha trascelto per un più attento esame quelle idee ed azioni che si possono definire di impronta socialista libertaria. E’ un'operazione logica e giustificata. Questa impostazione permette di includere in un unico quadro i principali portavoce dell'anarchismo e le azioni di massa che sono state ispirate da sentimenti ed ideali anarchici. Guérin non si interessa solamente del pensiero anarchico, ma anche delle azioni spontanee delle forze popolari che di fatto creano nuove forme sociali nel corso della lotta rivoluzionaria. Egli si interessa tanto della creatività sociale quanto della creatività intellettuale. Inoltre, egli cerca di ricavare dalle esperienze costruttive del passato una lezione che valga ad arricchire la teoria della liberazione sociale. Per coloro che desiderano non solo capire il mondo, ma anche cambiarlo, questo è il modo giusto di studiare la storia dell'anarchismo. Guérin considera l'anarchismo del XIX secolo come un movimento essenzialmente dottrinale, mentre il XX secolo, per gli anarchici, sarebbe stato un periodo di "pratica rivoluzionaria ". Il suo libro L'anarchisme rispecchia questo giudizio. La sua interpretazione dell’anarchismo guarda consapevolmente al futuro. Arthur Rosenberg ebbe ad osservare che è una caratteristica delle rivoluzioni popolari quella di voler sostituire ad "un'autorità feudale o centralizzata che governa con la forza" un sistema di tipo "comunale" che comporta "la rovina e la dissoluzione del vecchio stato ". Tale sistema sarà o il socialismo, o "una forma estrema della democrazia quale premessa 12 del socialismo, stante che il socialismo può essere realizzato solo in un mondo che fruisca al più alto grado possibile della libertà individuale". Era questo, egli nota, un ideale comune a Marx e agli anarchici. Questa lotta naturale per la liberazione contrasta con la tendenza dominante della centralizzazione della vita economica e politica. Un secolo fa Marx scrisse che le masse lavoratrici di Parigi " sentirono che vi era una sola alternativa: o la Comune o l'Impero, sotto qualsiasi nome questo potesse ripresentarsi ". L'Impero le aveva rovinate economicamente con lo sperpero delle ricchezze pubbliche, con le truffe finanziarie su larga scala che esso aveva favorito, con l'impulso dato all'accelerazione artificiale della concentrazione del capitale e con la concomitante espropriazione di una gran parte del loro ceto. Le aveva soppresse politicamente, le aveva scandalizzate moralmente con le sue orge, aveva offeso il loro volterríanismo affidando l'istruzione dei loro figli ai Fréres Ignorantins, aveva rivoltato il loro sentimento nazionale di francesi precipitandoli a capofitto in una guerra che per le rovine provocate aveva lasciato un solo compenso: la scomparsa dell'Impero. Il miserabile Secondo Impero era " l'unica forma di governo possibile in un periodo in cui la borghesia aveva già perduto la facoltà di governare la nazione" Non è molto difficile riformulare queste osservazioni in modo da farle aderire alla realtà dei sistemi imperiali del 1970. Il problema di "liberare l'uomo dalla maledizione dello sfruttamento economico e dell'asservimento politico e sociale" rimane il problema del nostro tempo. E finché rimarrà tale, le dottrine e la prassi rivoluzionaria del socialismo libertario serviranno d'ispirazione e di guida. 13 Testo tratto da "Capire il potere" di Noam Chomsky <http://www.tmcrew.org/archiviochomsky/> "Vedete, finchè ci sarà il controllo privato dell'economia non importano le forme di governo, perchè i governi sono impotenti. Si potranno avere partiti a cui la gente aderisce mobilitandosi per determinare una linea d'azione, ma sulla politica questo avrà sempre un ruolo assolutamente marginale. Il fatto è che il potere sta sempre altrove". Impedire la democrazia in Italia "...è stato questo il primo grande impegno postbellico (dopo la seconda guerra mondiale Nda) degli Stati Uniti: distruggere la resistenza antifascista in tutto il mondo per rimettere al potere organizzazioni più o meno fasciste, e anche molti collaboratori del fascismo. E' successo dappertutto: da paesi europei come Italia, Francia e Grecia fino a posti come Korea e la Thailandia. E' il primo capitolo della storia del dopoguerra: come abbiamo frantumato i sindacati italiani, francesi e giapponesi e sventato la concretissima minaccia della democrazia popolare che stava nascendo in tutto il mondo alla fine della guerra. Il primo grosso intervento americano fu in Italia nel 1948, quando interferimmo nelle elezioni, e si trattò di un operazione di rilievo. Vedete, gli strateghi statunitensi temevano che le elezioni democratiche sfociassero in una vittoria del movimento antifascista , e questa possibilità doveva essere scongiurata per la solita ragione: gli interessi degli Stati Uniti non vogliono al governo gente con il tipo sbagliato di priorità. E nel caso dell'Italia fecero un enorme sforzo per impedire che le forze democratiche popolari che avevano condotto la resistenza antifascista vincessero le elezioni dopo la guerra. L'opposizione americana alla democrazia italiana è giunta al punto di sponsorizzare un colpo di stato militare verso la fine degli anni sessanta per tenere fuori i comunisti (cioè i partiti operai) dal governo. Ed è probabile che quando tutti i documenti interni americani saranno rivelati al pubblico scopriremmo che l'Italia è stata il bersaglio principale delle operazioni della CIA per anni. A quanto pare, lo è stata fino al 1975, cioè fin dove arrivano i documenti declassificati. Stessa storia in Francia e in tutta Europa. A ben pensarci, il principale motivo per la divisione della Germania in una parte occidentale e una orientale (non dimenticate che è partita dall'Occidente) è stato spiegato abbastanza bene da George Kennan (del dipartimento di Stato americano), uno dei principali architetti del mondo postbellico. Nel 1946 Kennan scrisse: dobbiamo "murare" la Germania Ovest (bella espressione) dalla zona orientale a causa che si sviluppi un movimento comunista tedesco troppo forte. La Germania è un paese importante, potente, e visto che allora il mondo era abbastanza spostato verso la socialdemocrazia un movimento socialista unificato in un posto come la Germania o il Giappone sarebbe stato assolutamente intollerato. Così ci è toccato murare la Germania Ovest dalla parte orientale per impedire che accadesse. L'Italia era un problema particolarmente spinoso perchè lì la resistenza antifascista era fortissima, estremamente popolare e rispettata. La Francia aveva un sistema di propaganda molto migliore dell'Italia, perciò sappiamo molto più della resistenza francese rispetto a quella italiana, ma in realtà la resistenza italiana fu di gran lunga più significativa di quella francese. La gente che si impegnò nella resistenza francese era coraggiosissima e lodevolissima, ma costituiva un settore limitato della società: durante l'occupazione nazista la Francia nel suo complesso era stata per lo più collaborazionista. Invece l'Italia era un caso diverso: la resistenza italiana era talmente forte che in pratica aveva liberato da sola l'Italia del Nord e teneva bloccate sei o sette divisioni tedesche; il movimento operaio era molto organizzato, con un forte appoggio da prte della popolazione. Quando gli eserciti americano e britannico arrivarono al Nord, furono costretti a rovesciare il governo che era già stato insediato dalla resitenza in quelle regioni e a sabotare i numerosi progressi fatti versi il controllo operaio delle industrie. E rimisero al posto di comando i vecchi padroni, dal momento che la rimozione di questi collaboratori del fascismo era stat una "destituzione arbitraria" dei legittimi proprietari: usarono proprio questa espressione. Quindi sabotammo anche le procedure democratiche perchè era evidente che le elezioni successive sarebbero state vinte dalla resistenza e non dagli screditati conservatori. In Italia c'era il pericolo che vincesse la democrazia - il governo statunitense la definiva tecnicamente "comunismo" - e come al solito bisognava impedirlo. La stessa cosa successe in quegli anni anche altrove, e in alcuni paesi con maggiore uso della violenza. Perciò per distruggere la resistenza antinazista in Grecia e rimettere al potere i complici dei nazisti c'è voluta una guerra in cui sono morte forse centosessantamila persone e ottocentomila sono scappate dalle loro case, tanto che il paese non si è ancora ripreso da quel trauma. In Corea furono uccise centomila persone alla fine degli anni quaranta, ancor prima che cominciasse la vera e propria guerra di Corea. Invece in Italia fu sufficente organizzare forme di sovversione, compito che gli Stati Uniti presero molto sul serio. Così abbiamo fondato leggi massoniche di estrema destra e gruppi paramilitari terroristici, abbiamo riportato i crumiri e la polizia fascista, gli abbiamo tolto il cibo, abbiamo fatto in modo che la loro economia non funzionasse. Il primo memorandum del Consiglio di sicurezza nazionale, NSC 1, parla dell'Italia e delle elezioni italiane e afferma che se i comunisti prendono il potere con le elezioni in maniera legittima e democratica gli Stati Uniti devono dichiarare l'emergenza nazionale, la Sesta flotta nel Mediterraneo dev'essere messa in stato d'allerta e si devono avviare attività sovversive in Italia allo scopo di rovesciare il governo e piani di contingenza in vista di un intervento militare diretto: ripeto, se la resistenza avesse vinto elezioni democratiche legali. E non era tanto per ridere, niente affatto, c'era gente ai massimi livelli del governo statunitense che assumeva posizioni anche più estreme di queste. Per esempio, il già citato George Kennan, che viene reputato un grande spirito umanitario, riteneva che dovessimo invadere l'Italia ancora prima delle elezioni senza nemmeno permettere che succedesse una cosa del genere, ma poi fu trattenuto da altri che sostenevano che forse potevamo influenzare le elezioni minacciandoli di farli morire di fame e con ampio utilizzo di terrorismo e sovversione, una tattica che alla fine si è rivelata efficace. Una politica simile era seguita dagli Stati Uniti ancora negli anni settanta, quando si fermano i documenti che sono stati declassificati. La documentazione di cui disponiamo finora arriva fino al 1975, quando il rapporto della commissione Pike della Camera fornì parecchie informazioni sulle attività sovversive americane, ma chissà se tali attività non sono continuate anche dopo. (...) Come dicevo, politiche del genere sono state messe in atto in Francia, Germania, Giappone e altrove. Gli Stati Uniti hanno anche resciuscitato la mafia come parte dello sforzo per spaccare il movimento dei lavoratori europei dopo la guerra. La mafia era stat praticamente eliminata dai fascisti, che in genere non accettano alcuna concorrenza e sono molto rigidi. Hitler e Mussolini avevano praticamente eliminato la mafia, ma quando l'esercito di liberazione americano attraversò la Sicilia e l'Italia del Sud fino alla Francia la resciuscito come strumento per impedire gli scioperi. Vedete, gli Stati Uniti avevano bisogno di gorilla per spezzare le ginocchia degli scioperanti: e dove la trovate gente del genere? La risposta fu: nella mafia. In Francia la CIA, in collaborazione tra l'altro con i capi del movimento sindacale americano, fece risorgere la mafia corsa. E i mafiosi non lo fanno solo per divertirsi, sapete: forse se la passano anche, ma vogliono qualcosa in cambio. In cambio della repressione del movimento sindacale francese hanno ottenuto il permesso di far ripartire il traffico d'eroina, che sotto i fascisti era stato ridotto praticamente a zero. Ecco l'origine della famosa "French Connection", la principale struttura del narcotraffico nel dopoguerra. In quel periodo ci furono anche operazioni clandestine che coinvolgevano il Vaticano, il dipartimento di Stato americano e i servizi segreti britannici e americani, operazioni tese a salvare e utilizzare molti dei peggiori criminali di guerra nazisti, impiegandoli esattamente nello stesso genere di attività per cui li usavano i nazisti, contro la resistenza in Europa occidentale e poi all'Est. Per esempio, il tipo che aveva inventato le camere a gas, Walter Rauff, fu fatto entrare in clandestinità perchè organizzasse la attività antiinsurrezionali in Cile. Il capo dei servizi segreti nazisti sul fronte orientale, Reinhard Gehlen , si unì ai servizi segreti americani per fare lo stesso lavoro nell'Europa dell'Est. Il "macellaio di Lione", Klaus Barbie, lavorò per gli americani spiando i francesi fino a quando non furono costretti a evacuarlo attraverso la "rotta dei topi", gestita dal Vaticano, verso l'America Latina, dove finì la sua carriera. Anche questo faceva parte del complessivo sforzo postbellico degli Stati Uniti per distruggere ogni prospettiva di democrazia indipendente, ed è andata come speravano. Democrazia di Mercato in un Ordine Neoliberista: Dottrine e Realtà Davie Lecture, Università di Città del Capo, Maggio 1997 Noam Chomsky Sono stato invitato a parlare di alcuni aspetti della libertà umana e della libertà accademica, un invito che offre molte scelte. Mi concentrerò su alcuni semplici temi. Libertà senza opportunità è un dono del diavolo, ed il rifiuto a fornire tali opportunità è criminale. Il destino dei più vulnerabili offre una chiara misura della distanza che ci separa da quella che potremmo definire come "civiltà." Mentre parlo, mille bambini moriranno di malattie facilmente prevenibili, e un numero quasi doppio di donne morirà o soffrirà di gravi complicazioni legate alla gravidanza o al parto, per la mancanza di semplici cure e medicinali. L'UNICEF stima che per rimediare a tali tragedie, e per assicurare l'accesso generale a servizi sociali di base, sarebbe sufficiente un quarto delle spese militari annuali dei "paesi in via di sviluppo," e circa il 10% della spesa militare americana. È con questo background in mente che qualsiasi seria discussione sulla libertà umana dovrebbe procedere. È dai più accettato che la cura per queste gravi malattie sociali è a portata di mano. Tali speranze non sono senza fondamento. Gli ultimi anni hanno testimoniato alla caduta di brutali dittature, ad un progresso della ricerca scientifica che offre grandi promesse, e a molte altre ragioni per cui essere ottimisti per un promettente futuro. I discorsi dei privilegiati traboccano di fiducia e trionfalismo: il percorso in avanti è noto, e non ce ne sono altri. Il tema di base, articolato con forza e chiarezza, è che "la vittoria dell'America nella guerra fredda è stata una vittoria per un insieme di principi politici ed economici: democrazia e libero mercato." Questi principi sono "l'ondata del futuro (un futuro di cui l'America è sia guardiano che modello." Sto citando il principale commentatore politico del New York Times, ma l'immagine è convenzionale, diffusamente ripetuta, ed accettata come generalmente accurata anche dai critici. Veniva anche enunciata come la "Dottrina Clinton," la quale dichiarava che la nostra nuova missione è di "consolidare la vittoria della democrazia e di mercati aperti" appena ottenuta. Una serie di discordanze permane: ad un estremo "l'idealismo Wilsoniano" (da Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti negli anni a cavallo della prima guerra mondiale, ndt) urge alla continua dedizione alla tradizionale missione di benevolenza; all'altro estremo, i "realisti" obiettano che potremmo non avere i mezzi per condurre questa crociata di "migliorismo globale", e che dovremmo evitare di trascurare i nostri interessi nel perseguire il servizio degli altri. Tra questi due estremi, ci è dato ad intendere, va cercata la via per un mondo migliore. La realtà sembra a me alquanto diversa. La gamma di opinioni abbracciata dal corrente dibattito politico ha scarsa rilevanza nella definizione delle politiche realmente perseguite, come è vero delle passate politiche: né gli Stati Uniti né alcun'altra nazione sono stati guidati dal "migliorismo globale". La democrazia è sotto assedio in tutto il mondo, inclusi i principali paesi industrializzati; perlomeno, democrazia nel senso vero del termine, ovvero democrazia che offra alla popolazione l'opportunità di gestire i propri interessi collettivi ed individuali. Qualcosa di molto simile si può dire del libero mercato. L'assedio alla democrazia ed al libero mercato sono inoltre profondamente legati. Le loro radici vanno cercate nell'enorme potere di corporations dalla struttura fondamentalmente totalitaria, sempre più interdipendenti e dipendenti da potenti stati, e totalmente sollevate da ogni responsabilità verso il pubblico. Il loro potere continua a crescere come conseguenza di politiche sociali che mirano a globalizzare il modello strutturale del terzo mondo, con settori della società di enorme ricchezza e privilegio, a fianco di un incremento de "la proporzione di coloro che lavoreranno sotto tutte le privazioni della vita, e segretamente aspireranno ad una più equa distribuzione dei suoi frutti," come James Madison, uno degli artefici della democrazia americana, predisse 200 anni fa. Queste scelte politiche sono più chiaramente evidenti nelle società anglo-americane, ma si stanno estendendo ovunque. E non possono certo essere attribuite a quello che "il libero mercato ha deciso, nella sua infinita ma mistica saggezza," a "l'implacabile avanzata della 'rivoluzione di mercato'," a "il ruvido individualismo Reaganiano," o alla "nuova ortodossia" che "permette pieno controllo al mercato." Le citazioni sono di esponenti liberal e di sinistra, in qualche caso piuttosto critici. L'analisi è simile, ed in genere euforica, se consideriamo la rimanente gamma di opinioni. La realtà è invece che l'intervento statale occupa un ruolo decisivo, come nel passato, e le linee guida delle politiche perseguite sono difficilmente una novità. La corrente versione di tali politiche riflette "il chiaro soggiogamento del lavoro da parte del capitale" da più di 15 anni, nelle parole della stampa economica (Business Week, ndt), che spesso articola con franchezza l'opinione di una comunità economica (*business comunity*) con un'alta coscienza di classe, e impegnata in una continua lotta di classe. Se queste mie percezioni sono corrette, è chiaro che il percorso verso un mondo più giusto e più libero cade ben al di fuori di quello tracciato da potere e privilegio. Non ho la pretesa di voler provare tali conclusioni qui, ma solo di suggerire che tali conclusioni sono abbastanza credibili da essere considerate con attenzione. E di suggerire altresì che le attuali dottrine potrebbero difficilmente sopravvivere non fosse che sono funzionali ad "irreggimentare la mente collettiva quanto lo è un esercito ad irreggimentare i suoi soldati", per citare la massima di un liberal dell'era Roosevelt-Kennedy, Edward Bernays, dal suo classico manuale per l'industria delle pubbliche relazioni, industria di cui Bernays era uno dei fondatori e principali rappresentanti. Bernays traeva dalla sua esperienza nel Committee on Public Information (Comitato per l'Informazione Pubblica), l'agenzia di propaganda di stato di Woodrow Wilson. "Chiaramente, era stato il successo della propaganda durante la guerra (prima guerra mondiale, ndt) che aveva aperto gli occhi delle poche persone di senno sulle enormi possibilità di irreggimentare la mente collettiva" scrisse. Il suo obiettivo era di adattare queste esperienze ai bisogni della "minoranza intelligente," principalmente business leaders, il cui compito è "la manipolazione cosciente ed astuta delle abitudini organizzate e delle opinioni delle masse." Questa "manipolazione del consenso" è "l'essenza del processo democratico," scriveva Bernays poco prima di ricevere un alto riconoscimento dalla American Psychological Association nel 1949. L'importanza di controllare la mente collettiva è stata riconosciuta con crescente chiarezza in seguito ai successi di lotte popolari nell'estendere le modalità democratiche. Queste lotte hanno portato più volte a quello che le elite liberal chiamano la "crisi della democrazia," ovvero il fenomeno per cui cittadini normalmente passivi ed apatici si organizzano e cercano di entrare nell'arena politica per perseguire i propri interessi e richieste, minacciando così la stabilità e l'ordine. Come illustrato da Bernays, con "il suffragio universale e l'istruzione obbligatoria, ... finalmente anche la borghesia temeva la gente comune. Ché le masse promettevano di conquistare il regno," una tendenza fortunatamente corretta (o così viene auspicato) grazie all'ideazione e realizzazione di nuovi metodi per "plasmare la mente delle masse." In entrambe le principali democrazie occidentali c'era la crescente consapevolezza che l'enormemente efficace sistema di propaganda della Prima Guerra Mondiale aveva fornito una preziosa lezione che "andava ora applicata" ne "l'organizzazione della lotta politica," come veniva eloquentemente espresso dal segretario del British Conservative Party settant'anni fa. Negli Stati Uniti simili conclusioni venivano tratte dai liberal Wilsoniani, compresi pubblici intellettuali e prominenti esponenti dell'allora in ascesa disciplina di Scienze Politiche. In un altro angolo della civiltà occidentale, Adolf Hitler prometteva che la Germania non sarebbe stata battuta ancora nella guerra propagandistica, ed ideava nuovi metodi per applicare le tecniche della propaganda angloamericana alla lotta politica in patria. Negli Stati Uniti, il mondo del business metteva in guardia da "i pericoli che incombono sugli industriali," conseguenza de "il potere politico ottenuto dalle masse," ed urgeva a condurre e vincere "l'eterna lotta per la conquista della mente dell'uomo", a "indottrinare il popolo con il pensiero capitalista" fino a che "questi [potrà] ripetere a memoria questo pensiero con sufficiente precisione"; e così via, in un impressionante crescendo di pensieri ed azioni che costituiscono uno dei temi dominanti della storia moderna. Per scoprire il vero significato dei "principi politici ed economici" promossi come "l'ondata del futuro", è necessario guardare oltre le frasi retoriche e le dichiarazioni ufficiali, ed investigare le pratiche effettive e la documentazione interna. L'analisi approfondita di casi specifici è il metodo più efficace, ma gli esempi vanno selezionati con cura, per dare una visione bilanciata. Un approccio efficace è quello di esaminare proprio quegli esempi che i proponenti delle dottrine stesse considerano "a favore." Un altro approccio è quello di selezionare quegli esempi dove l'influenza (degli Stati Uniti, ndt) è massima e le ingerenze esterne minime, cosicché possiamo esaminare i principi operativi nella loro forma più pura. Se per esempio vogliamo stabilire che cosa il Kremlino intendesse per diritti umani e democrazia, non prestiamo granché attenzione alle sdegnate denunce della Pravda sul razzismo negli USA o sul terrorismo di stato nei suoi stati clienti. Ancor meno alle loro rivendicazioni di nobili motivi. È molto più istruttivo guardare allo stato dei diritti umani e della democrazia nelle "democrazie popolari" dell'Europa dell'Est. Il punto è elementare, e va quindi applicato anche all'auto-designato "guardiano e modello", gli Stati Uniti. L'America Latina è l'ovvio terreno di prova, particolarmente la regione centro-americana e caraibica, dove per quasi un secolo Washington ha goduto di una quasi totale mancanza di interferenze esterne, cosicché i principi guida della politica, e dell'attuale "Washington consensus" neoliberista sono rivelati più chiaramente dall'esaminare lo stato della regione e come questi si è realizzato. È interessante notare che tale approccio di analisi viene molto raramente adottato, ed in quei rari casi, immediatamente castigato come estremista se non peggio. La "crociata [di Washington] per la democrazia", come viene chiamata, fu condotta con particolare fervore durante gli anni della presidenza Reagan, con l'America Latina come area scelta. I risultati sono comunemente offerti come prominente illustrazione di come gli Stati Uniti fossero diventati "un'ispirazione per il trionfo della democrazia nei nostri giorni," per citare gli editori del principale giornale del neoliberismo americano (NYT). L'autore, Sanford Lakoff, individua ne "lo storico North American Free Trade Agreement (NAFTA - trattato nord-americano per il libero commercio, ndt)" un potenziale strumento di democratizzazione. Nella regione di tradizionale influenza statunitense, scrive, le nazioni si stanno muovendo verso la democrazia, dopo "aver sopravvissuto ad interventi militari" e "perverse guerre civili." Cominciamo allora con l'esaminare più da vicino proprio questi casi recenti, gli ovvi candidati data la preponderante influenza statunitense, e i casi che vengono regolarmente scelti per illustrare i successi e le promesse della "Missione americana." La principale "barriera alla realizzazione" della democrazia, suggerisce Lakoff, sono gli interessi campanilistici (*vested*) che cercano di salvaguardare "i mercati interni" (ovvero, di prevenire corporations straniere (principalmente statunitensi) dall'acquisire un ancora maggior controllo della società. Ci è quindi dato ad intendere che la democrazia viene rafforzata dal delegare un sempre maggior numero di decisioni a tirannie private, principalmente straniere, totalmente irresponsabili verso il pubblico, mentre l'arena pubblica subisce un'ulteriore contrazione come conseguenza di uno stato che viene "minimizzato" in accordo con i "principi politici ed economici" del neoliberismo finalmente trionfante. Uno studio della Banca Mondiale indica che la nuova ortodossia rappresenta "un drammatico cambio di direzione da un ideale politico pluralista e partecipativo, verso un ideale autoritario e tecnocratico...," un ideale in pieno accordo con gli elementi fondanti del pensiero liberal e progressista del ventesimo secolo e, in un altra variante, con il modello Leninista; i due sono più simili di quanto spesso riconosciuto. Ragionare sulla logica tacita che motiva tale ortodossia è molto istruttivo al fine di meglio comprendere i concetti di democrazia e mercato nel loro significato operativo. Lakoff nel suo articolo non elabora ulteriormente sul "revival della democrazia" in America Latina, ma cita una fonte autorevole, una collezione di scritti che include un contributo sulla "crociata" di Washington degli anni 80. L'autore è Thomas Carothers, che unisce credenziali accademiche e "prospettiva dell'insider", avendo lavorato in "programmi per il miglioramento della democrazia" al dipartimento di stato durante la presidenza Reagan. Carothers considera "l'impulso statunitense a promuovere la democrazia" come "sincero," ma essenzialmente un fallimento. Inoltre, il fallimento si rivelò sistematico: dove l'influenza statunitense fu minore, in Sud America, si realizzarono concreti passi verso la democrazia, che l'amministrazione Reagan generalmente oppose, e di cui si attribuì il merito quando risultò chiaro che il processo era irreversibile. Dove l'influenza di Washington fu massima, i passi avanti furono minimi, e dove questi comunque si realizzarono, il contributo statunitense fu marginale se non negativo. La sua conclusione generale è che gli Stati Uniti cercarono di mantenere "l'ordine essenziale di ... società fondamentalmente antidemocratiche" e di evitare "cambiamenti di natura populista," perseguendo quindi "inevitabilmente riforme democratiche limitate e top-down (gerarchiche, dall'alto al basso, ndt), che non rischiassero di sconvolgere le tradizionali strutture di potere di cui gli Stati Uniti erano stati da sempre alleati." L'ultima frase richiede alcune parole di commento. Il termine "Stati Uniti" viene convenzionalmente usato per riferirsi ai gruppi di potere all'interno degli Stati Uniti; gli "interessi nazionali" sono gli interessi di questi gruppi, ed hanno correlazione minima con gli interessi generali della popolazione. La conclusione è quindi che Washington perseguì forme di democrazia limitata e top-down, che non sconvolgessero le tradizionali strutture di potere con cui le strutture di potere negli Stati Uniti erano da sempre alleate. Un fatto per nulla sorprendente, e tantomeno una novità storica. Per meglio apprezzare la rilevanza di questo fatto, è necessario esaminare più da vicino la natura delle democrazie parlamentari. Gli Stati Uniti ne sono il caso più importante, dato non solo il loro enorme potere, ma soprattutto le loro stabili e durature istituzioni democratiche. Inoltre, gli Stati Uniti sono la cosa più vicina ad un modello teorico che si possa trovare. L'America può essere "tanto felice quanto le pare," dichiarava Thomas Paine nel 1776: "ha una pagina bianca su cui scrivere." Le società indigene erano state essenzialmente eliminate. Rimanevano pochi residui delle strutture europee, una delle ragioni che spiegano la relativa debolezza del contratto sociale e di sistemi assistenziali, che affondano le loro radici in istituzioni pre-capitaliste. E l'ordine sociopolitico era in misura inusualmente ampia frutto di un disegno consapevole. Nello studio della storia non è possibile condurre esperimenti, ma gli Stati Uniti sono la cosa più vicina che uno possa trovare al "caso ideale" di democrazia capitalistica. Inoltre, il principale artefice del sistema costituzionale americano era un astuto e lucido pensatore politico, James Madison, e furono le sue opinioni a incidere maggiormente sull'impianto costituzionale. Nelle discussioni sulla costituzione, Madison osservò che se in Inghilterra le elezioni "fossero aperte a tutte le classi sociali, la proprietà delle classi possidenti sarebbe in pericolo. Ben presto, una riforma agraria verrebbe attuata," per distribuire la terra ai contadini. Il sistema che Madison e i suoi associati stavano progettando doveva impedire una simile ingiustizia, ed "assicurare gli interessi durevoli del paese," che sono poi i diritti di proprietà. È responsabilità del governo, Madison dichiarò, "proteggere la minoranza degli opulenti dalla maggioranza." Per ottenere questo obiettivo, il potere politico deve rimanere nelle mani de "la ricchezza della nazione", uomini che "apprezzino sufficientemente" i diritti di proprietà e che "possano essere sicuri depositari del controllo di tali diritti," mentre il resto della popolazione viene marginalizzata e divisa, con solo una partecipazione limitata nell'arena politica. Tra gli studiosi di Madison, c'è un generale consenso sul fatto che "la costituzione era intrinsecamente un documento aristocratico con la funzione di porre un freno alle tendenze democratiche del periodo," dando il potere ad una "classe migliore" di persone ed escludendo "quelli che non erano ricchi, di buona famiglia, o prominenti, dall'esercizio del potere politico." Queste conclusioni vengono spesso qualificate con l'osservazione che Madison, e il sistema costituzionale in generale, cercò un equilibrio tra i diritti della persona e i diritti della proprietà. Ma tale formulazione è fuorviante. La proprietà non ha diritti. Sia in principio che in pratica, la frase "diritto di proprietà" significa diritto alla proprietà, tipicamente proprietà materiale, un diritto della persona che deve essere privilegiato rispetto a tutti gli altri diritti, e che è crucialmente diverso da altri diritti perché il suo possesso da parte di una persona ne priva le altre. Quando i fatti vengono esposti in modo chiaro, possiamo meglio apprezzare la forza nella dottrina "i proprietari della nazione hanno il dovere di governarla," "una delle massime favorite" dell'influente collega di Madison, John Jay, come osservato dal suo biografo. Si potrebbe obiettare, come alcuni storici fanno, che tali principi persero la loro forza una volta che il territorio fu conquistato e popolato, con le popolazioni indigeni cacciate o sterminate. Qualsiasi sia la valutazione di quegli anni, alla fine del XIX secolo le dottrine fondanti avevano preso una forma ancor più oppressiva. Quando Madison parlò di "diritti della persona" si riferiva alla persona fisica. Ma la crescita dell'economia industriale, e l'assurgere di *corporate forms* di imprese economiche, portò ad una ridefinizione del termine. In un documento ufficiale corrente, "'Persona' è definita in senso lato come qualsiasi individuo, filiale, gruppo associato, associazione, patrimonio, trust, corporation, o altra organizzazione (organizzata o meno in accordo con le leggi di un qualsiasi stato), o qualsiasi entità di governo," una concezione che avrebbe senza dubbio scioccato Madison ed altri con radici intellettuali nell'Illuminismo e nel liberismo classico (pre-capitalisti e anticapitalisti nello spirito.) Questi radicali cambiamenti nella concezione dei diritti umani e della democrazia non furono introdotti per via legislativa, ma principalmente attraverso decisioni giuridiche (verdetti, ndt) ed il commentario di intellettuali. Le corporations, fino ad allora considerate entità prive di diritti, si videro accordare i diritti di una persona, e ben di più, visto che sono "persone immortali" e "persone" straordinariamente ricche e potenti. Inoltre, non erano più limitate agli specifici scopi determinati dallo State charter, e rimanevano pochi vincoli al loro agire. Tali innovazioni furono aspramente osteggiate dagli studiosi di diritto conservatori, consapevoli del fatto che minavano profondamente il principio per cui i diritti sono propri degli individui, nonché i principi di mercato. Ma le nuove forme di regola autoritaria vennero istituzionalizzate, ed assieme ad esse venne la legittimazione del lavoro salariato, considerato alla stregua della schiavitù nel pensiero corrente per la maggior parte del XIX secolo, e non solo dal movimento operaio allora in crescita, ma anche da figure quali Abraham Lincoln, il partito repubblicano, e i media dell'establishment. Questi sono temi con enormi implicazioni per chi voglia comprendere la natura della democrazia di mercato. Ed aiutano a capire perché la "democrazia" all'estero deve riflettere il modello perseguito in patria: forme di controllo top-down, con il pubblico relegato ad un ruolo di "spettatore", e prevenuto dal partecipare al processo decisionale, da cui vanno esclusi questi "outsider ignoranti e intriganti," secondo la moderna teoria democratica. Sto citando dai saggi sulla democrazia di Walter Lippmann, uno degli intellettuali e giornalisti americani del secolo più stimati. Per ritornare alla "vittoria della democrazia" sotto gli auspici statunitensi, né Lakoff né Carothers si chiedono come Washington abbia mantenuto le tradizionali strutture di potere di società altamente antidemocratiche. Soggetto dei loro scritti non sono le guerre terroristiche che lasciarono decine di migliaia di corpi torturati e mutilati, milioni di rifugiati, e devastazioni probabilmente irreversibili (in larga misura guerre contro la chiesa, che divenne un pericoloso nemico dal momento che decise di adottare "l'opzione preferenziale per i poveri," (la nota teologia della liberazione che dà tanti grattacapi a Giovanni Paolo II, ndt), nel tentativo di aiutare popolazioni sofferenti ad ottenere un minimo di giustizia e di diritti democratici. È più che emblematico che la terribile decade degli anni ottanta si sia aperta con l'assassinio di un arcivescovo che era diventato una "voce per i senza voce," e si sia chiusa con l'assassinio di sei prominenti intellettuali Gesuiti che avevano perseguito un simile percorso, in entrambi i casi per mano di forze terroristiche armate ed addestrate dai vincitori della "crociata per la democrazia." È importante qui sottolineare che i principali dissidenti latinoamericani vennero doppiamente assassinati: sia uccisi che ridotti al silenzio. Le loro parole, la loro stessa esistenza, sono a mala pena conosciute negli Stati Uniti, a differenza dei dissidenti di stati nemici, sommamente onorati ed ammirati; un altro principio culturale universale immagino. Tali temi non entrano a far parte della storia raccontata dai vincitori. Nello studio di Lakoff per esempio, per nulla atipico sotto questo aspetto, quello che resta sono riferimenti a "interventi militari" e "guerre civili," senza alcun agente esterno preso in considerazione. Questi temi tuttavia, non devono venire ignorati da coloro che cerchino di meglio comprendere i principi invocati a modello per il futuro. Particolarmente istruttiva è la descrizione del Nicaragua fatta da Lakoff: "una guerra civile si concluse a seguito di elezioni democratiche, ed è in corso un difficile tentativo di creare una società più prospera ed autonoma." Quello che effettivamente successe nel mondo reale è che la superpotenza responsabile dell'aggressione al Nicaragua aumentò i suoi atti di aggressione all'indomani delle prime elezioni democratiche del paese: le elezioni del 1984, attentamente monitorate e giudicate legittime in molteplici rapporti di commissioni internazionali, tra cui quelli dell'associazione professionale di studiosi Latino-americani (LASA), di delegazioni dei parlamenti Irlandese e Britannico, di un'ostile delegazione del governo Danese piuttosto vicino all'amministrazione Reagan, nonché della principale figura della democrazia centro-americana, Jos Figueres, presidente della Costa Rica e osservatore molto critico, che ciononostante riconobbe la legittimità delle elezioni, che si tenevano in un "paese occupato," e incoraggiò gli Stati Uniti a permettere ai Sandinisti di "portare a termine quello che hanno cominciato; se lo meritano." Gli Stati Uniti erano fortemente opposti a tali elezioni, e cercarono in tutti i modi di sabotarle, preoccupati che elezioni democratiche potessero interferire con la loro guerra terroristica. Ma tali preoccupazioni si rivelarono infondate, grazie all'egregia condotta in patria del sistema dottrinale che impedì efficacemente la divulgazione di tali rapporti, e adottò riflessivamente la versione dei fatti presentata dalla propaganda di stato, che giudicava le elezioni una frode, e prive di alcun significato. Altrettanto trascurato è il fatto che all'avvicinarsi della successiva scadenza elettorale (1990, ndt), gli USA non lasciarono dubbi su quali sarebbero state le conseguenze della vittoria del candidato sbagliato: i Nicaraguensi avrebbero sofferto il persistere dell'illegale guerra economica, e de "l'illecito uso della forza" (per mano degli USA, ndt) che la World Court aveva più volte condannato e ordinato di terminare, naturalmente in vano. Questa volta tuttavia le elezioni si conclusero con un risultato accettabile, risultato accolto negli Stati Uniti con smisurato entusiasmo, altamente informativo della cultura dominante. Il giornalista Anthony Lewis del New York Times, considerato vicino all'estremo liberal dei confini del legittimo dibattere, esprimeva la sua ammirazione per Washington e per il suo "esperimento di pace e democrazia," che dimostrava che "viviamo in un'età romantica." I metodi sperimentali adottati non erano un segreto, e la rivista Time, che si unì al coro degli entusiasti per "l'esplosione di democrazia", li sintetizzò con disarmante franchezza: "ridurre l'economia in rovina, e condurre una lunga ed implacabile guerra mercenaria (*proxy*) finché l'esausta popolazione nativa non si convincerà essa stessa a rovesciare l'indesiderato governo" con un costo "per noi" minimo, e lasciando le vittime con "ponti distrutti, centrali elettriche sabotate, e coltivazioni in rovina," fornendo così al candidato sostenuto da Washington una "carta vincente", ovvero la fine della "persecuzione del popolo Nicaraguense," per non parlare del continuo terrore. È bene sottolineare che il costo fu tutt'altro che "minimo" per i Nicaraguensi: Carothers nota che il numero di vittime "fu considerevolmente più alto del numero di statunitensi uccisi durante la guerra di secessione statunitense, e più del totale di tutte le guerre del XX secolo." Il risultato finale era "una vittoria per il fair play statunitense" titolava il NYT esultante, che descriveva gli americani "uniti nella gioia", nello stile dell'Albania o della Corea del Nord. I metodi di questa "età romantica," e la reazione a tali metodi di circoli illuminati, ci aiutano a capire quali sono i principi democratici che hanno prevalso. Ci aiutano anche a capire il perché sia una così "difficile impresa" riuscire a "creare una società più prospera ed autonoma" in Nicaragua. È comunque vero che la difficile impresa viene ora portata avanti con un certo successo per una minoranza privilegiata, mentre la maggioranza della popolazione deve fare i conti con un disastro sociale ed economico che ricalca un modello molto familiare nelle colonie occidentali. Ed è particolarmente interessante notare che il Nicaragua viene portato dagli editori del NYT come un esempio che dimostra il loro ruolo di "ispirazione per il trionfo della democrazia." Per meglio comprendere quali sono i principi dominanti è bene ricordare che questi rappresentati del pensiero intellettuale liberal sono gli stessi che appoggiarono le spietate guerre di Washington in America Latina, e approvarono il supporto militare a "regimi fascisti, ... non importa quanti saranno assassinati," perché "gli Stati Uniti hanno priorità più alte dei diritti umani dei Salvadoregni." Elaborando ulteriormente sul tema, Michael Kinsley, che rappresenta "la sinistra" nei dibattiti politici televisivi, mise in guardia dal criticare con leggerezza le politiche di Washington di attaccare obiettivi civili indifesi. Tali operazioni di terrorismo internazionale causano "vaste sofferenze tra i civili," riconobbe Kinsley, ma possono essere "perfettamente legittime" se "un'analisi dei costi-benefici" dimostra che "la quantità di sangue e miseria versati" porterà la "democrazia", democrazia definita nei termini più consoni agli USA. Opinioni illuminate negano quindi al terrore un proprio valore, e sostengono che questo va giudicato su basi pragmatiche. E gli stati clienti godono di simili privilegi. Per esempio, H. Greenway, redattore esteri del Boston Globe, scrivendo dell'ennesimo attacco Israeliano ai danni del Libano, commentò "Se bombardare villaggi Libanesi, anche a costo di vite umane e di profughi, rendesse sicuri i confini Israeliani e promuovesse la pace, allora direi di bombardare, e con me concorderebbero molti Arabi e Israeliani. Ma la storia ci insegna che le avventure Israeliane in Libano hanno quasi sempre causato più problemi di quelli che hanno risolto." Quindi, è solo in base ad un criterio pragmatico che l'uccisione di civili, l'espulsione di centinaia di migliaia di profughi, e la devastazione del Libano del Sud, vengono messi in discussione. Tenete a mente che mi sto limitando a riportare le posizioni di rappresentanti al limite del legittimo dissenso, rappresentanti di quella che viene chiamata "sinistra", e questo la dice lunga sui principi dominanti e sulla cultura intellettuale entro cui tali principi si collocano. Altrettanto rivelatrice fu la reazione dei media alle periodiche denunce mosse dall'amministrazione Reagan di presunti piani Nicaraguensi per l'acquisto di intercettatori jet dall'Unione Sovietica (conseguenza del fatto che gli USA avevano convinto i propri alleati a non fornire tali jets). I falchi in congresso chiesero che il Nicaragua venisse immediatamente bombardato. Le colombe da parte loro sostenerono la necessità di verificare prima le accuse mosse, e se confermate, di bombardare il Nicaragua. Un osservatore sensato non avrebbe trovato difficile capire il perché il Nicaragua intendesse dotarsi di intercettatori jet: per proteggere il proprio territorio dalle incursioni aeree della CIA che fornivano gli approvvigionamenti alle forze mercenarie (i contras, ndt), nonché informazioni aggiornate al minuto sui bersagli indifesi da colpire. L'assunzione tacita è che una nazione non ha il diritto di difendere la propria popolazione dagli attacchi statunitensi. Il pretesto per la guerra terroristica di Washington era come al solito la legittima difesa, la giustificazione ufficiale per qualsiasi atto di guerra, compreso l'olocausto nazista. Infatti Ronald Reagan, giudicando che "le politiche e le azioni del governo del Nicaragua costituiscono una straordinaria ed inusuale minaccia alla sicurezza nazionale e alla politica estera degli Stati Uniti," dichiarò "un'emergenza nazionale," senza venire minimamente ridicolizzato. Altrove, reagiscono diversamente. Quando Kennedy cercò di organizzare un'azione collettiva contro Cuba nel 1961, un diplomatico messicano spiegò che il Messico non poteva dare il suo sostegno perché "se dichiariamo pubblicamente che Cuba è una minaccia alla nostra sicurezza, quaranta milioni di messicani moriranno dalle risate." Qui abbiamo una reazione più sobria alle minacce alla sicurezza nazionale. E usando la stessa logica, potremmo concludere che l'USSR aveva tutto il diritto di attaccare la Danimarca, una ben maggiore minaccia alla sua sicurezza, e certamente la Polonia e l'Ungheria quando queste si mossero verso una maggiore indipendenza. Ribadisco che il fatto che tali patenti assurdità possano essere abitualmente avanzate è un eloquente commento sulla cultura intellettuale dominante ed un ulteriore indicazione di quello che ci aspetta. La scarsa sostanza dei pretesti della Guerra Fredda è bene illustrata dal caso di Cuba, come lo sono i reali principi operativi. Questi sono emersi con notevole chiarezza nelle passate settimane, in occasione del rifiuto di Washington di accettare il verdetto della World Trade Organization (W.T.O.) in favore dell'Unione Europea per una disputa sulla legittimità dell'embargo statunitense contro Cuba, un embargo unico nella sua severità, e già condannato dall'Organization of American States (OAS: Organizzazione degli Stati Americani) come una violazione del diritto internazionale, nonché dalle Nazioni Unite in virtuale unanimità. L'embargo è stato recentemente esteso a parti terze, e prevede severe sanzioni per coloro i quali disobbediscono gli editti di Washington, un ulteriore violazione del diritto internazionale e di accordi commerciali. La giustificazione ufficiale dell'amministrazione Clinton, come riportata dal New York Times, è che "l'Europa mette in discussione tre decadi di politiche americano-cubane, introdotte dall'amministrazione Kennedy ed interamente mirate a forzare un cambio di governo all'Avana". L'amministrazione dichiarava inoltre che il W.T.O. "non ha competenza a procedere" in una materia concernente la sicurezza nazionale degli USA, e non può "costringere gli USA a cambiare le proprie leggi." Proprio nello stesso periodo, Washington e i media tessevano le lodi del nuovo accordo del W.T.O. sulle telecomunicazioni, presentandolo come un "nuovo strumento di politica estera" che avrebbe spinto le altre nazioni a cambiare le proprie leggi e pratiche in accordo con le esigenze di Washington, trasferendo il controllo dei sistemi di comunicazione nazionali a multinazionali estere, principalmente americane, in un ulteriore colpo inferto alla democrazia. E tuttavia, il W.T.O. non ha l'autorità per costringere gli USA a cessare il loro terrorismo internazionale e le loro illegali guerre commerciali. Libero commercio e diritto internazionale sono come la democrazia: idee ammirevoli, ma da giudicare in base ai risultati, non al merito. Il giudizio sul ruolo e le prerogative del W.T.O. ricorda da vicino le motivazioni ufficiali degli Stati Uniti per la loro non accettazione del verdetto della World Court (Corte Mondiale) in favore del Nicaragua, per accuse da questi portate contro Washington. In entrambi i casi gli USA non riconobbero la giurisdizione esterna sulla base della plausibile assunzione che il verdetto sarebbe stato loro contrario; semplice logica porta quindi a concludere che né la World Court né il W.T.O. sono forum appropriati. L'allora consulente legale del Dipartimento di Stato Abraham Sofaer spiegò che quando gli USA riconobbero la giurisdizione della World Court negli anni 40, la maggior parte dei paesi membri delle Nazioni Unite "era allineata agli USA, e ne condivideva le opinioni sull'ordine mondiale." Tuttavia oggi "molti di questi paesi non si possono più contare tra le fila di coloro i quali condividono la nostra visione dello statuto costitutivo dell'ONU." E "questa stessa maggioranza spesso si oppone agli Stati Uniti su importanti questioni internazionali." Non avendo quindi la garanzia di averla sempre vinta, gli Stati Uniti devono ora "riservarsi il diritto di riconoscere o meno giurisdizione alla Corte caso per caso," sulla base del principio che "gli Stati Uniti non accettano giurisdizione obbligatoria su alcuna disputa che riguardi materie" che gli USA stabiliscono essere "sotto la [propria] giurisdizione interna". Le "materie interne" nel caso in questione erano l'attacco statunitense del Nicaragua. I mass media, e più in generale l'opinione intellettuale, convenirono che la Corte si era discreditata nell'emettere un verdetto contro gli USA. Parti cruciali del verdetto della corte non vennero riportate, incluso il giudizio che gli aiuti americani ai contras qualificavano com militari e non umanitari; i media americani continuarono a parlare di "aiuti umanitari" fino alla fine, quando il terrore e la guerra commerciale e diplomatica statunitensi portarono alla "vittoria del fair play USA." Per ritornare alla disputa in discussione al W.T.O., non vale neanche la pena di giudicare dell' affermazione che nello strangolamento economico di Cuba è in ballo l'esistenza stessa degli Stati Uniti. Più interessante è la tesi che gli Stati Uniti hanno tutti i diritti di rovesciare un governo straniero, in questo caso per mezzo di aggressione, terrorismo su larga scala per molti anni, e strangolamento economico. Di conseguenza, diritto internazionale e accordi commerciali sono irrilevanti. I principi fondamentali dell'ordine mondiale che sono emersi vittoriosi risuonano ancora una volta forti e chiari. Le dichiarazioni dell'amministrazione Clinton sono state accettate nella più totale mancanza di critiche, sebbene siano state criticate su basi molto circoscritte dallo storico Arthur Schlesinger. Scrivendo dalla posizione di "qualcuno coinvolto nella politica cubana dell'amministrazione Kennedy," Schlesinger osservò che l'amministrazione Clinton aveva male interpretato le politiche dell'amministrazione Kennedy. L'amministrazione era preoccupata dall' "agitazione nell'emisfero", e dalla "soviet connection" di Cuba. Queste sono ora parte del passato, quindi le politiche di Clinton sono un anacronismo, sebbene perfettamente legittime altrimenti. Schlesinger non spiega il significato delle frasi "agitazione nell'emisfero" e "soviet connection," ma lo aveva fatto in altra occasione, in segreto. Illustrando le conclusioni della Latin American Mission (Missione Latino Americana) al presidente entrante nel 1961, Schlesinger spiegò chiaramente cosa si intendeva per "agitazione [castrista] nell'emisfero": è il "diffondersi dell'idea castrista di prendere controllo della propria situazione," un problema serio, aggiungeva poco dopo, visto che "la distribuzione della terra e di altre forme di ricchezza nazionale avvantaggia enormemente le classi possidenti ... [e] i poveri e i bisognosi, incoraggiati dall'esempio della rivoluzione cubana, chiedono ora opportunità per condizioni di vita decenti." Schlesinger spiegò anche la minaccia della "soviet connection": "nel frattempo, l'Unione Sovietica osserva defilata, offrendo sostanziosi prestiti per lo sviluppo e offrendosi come modello per ottenere la modernizzazione in una singola generazione." La "soviet connection" veniva percepita in una simile luce su più larga scala a Washington e Londra, dalle origini della guerra fredda nel 1917 agli anni 60, che sono gli anni più recenti a cui i documenti interni declassificati arrivano. Grazie a queste (segrete) spiegazioni del significato dell' "agitazione [castrista] nell'emisfero" e della "Soviet connection," facciamo un ulteriore passo avanti nella comprensione della realtà della guerra fredda, un altro tema importante che dovrò qui accantonare. Non dovrebbe quindi sorprendere che le politiche di fondo continuino a persistere nonostante la guerra fredda sia ormai relegata a memoria del passato, le stesse politiche regolarmente portate avanti anche prima della rivoluzione Bolscevica: come per esempio la brutale e distruttiva invasione di Haiti e della Repubblica Dominicana, giusto per citare una tipica illustrazione del "migliorismo globale" condotto sotto l'egida de "l'idealismo Wilsoniano." Andrebbe aggiunto che la politica tesa a rovesciare il governo di Cuba precede l'amministrazione Kennedy. Castro prese il potere nel 1959. Nel giugno di quello stesso anno, l'amministrazione Eisenhower aveva già deciso che il governo castrista andava rovesciato. Attacchi terroristici da basi statunitensi cominciarono poco dopo. La decisione formale di rovesciare il governo di Castro in favore di un regime "maggiormente devoto ai reali interessi del popolo cubano e più accettabile agli USA" fu presa in segreto nel marzo del 1960, con l'aggiunta che l'operazione doveva essere condotta "in modo tale da evitare qualsiasi evidenza di un intervento americano," per via delle prevedibili reazioni in America Latina, nonché per facilitare il compito ai manager dell'indottrinamento negli Stati Uniti. A quel tempo, la "Soviet connection" e l' "agitazione nell'emisfero" erano inesistenti se non nella versione Schlesingeriana. Documenti declassificati rivelano che la CIA stimò che il governo castrista godeva di ampio supporto popolare (l'amministrazione Clinton è in possesso di simili informazioni oggi). L'amministrazione Kennedy riconobbe inoltre che i suoi tentativi violavano il diritto internazionale, ed il Charter dell'ONU e dell'OAS, ma non ritenne necessario discutere il problema. Parliamo ora dell'accordo NAFTA, lo "storico" accordo che avrebbe dovuto promuovere la democrazia stile USA in Messico, come suggerito da Lakoff. Un'analisi più accurata risulta ancora una volta molto istruttiva. L'accordo NAFTA venne sbrigativamente approvato dal congresso a fronte della strenua opposizione popolare, e del supporto incondizionato del mondo del business e dei media, pieni di promesse per gli ipotetici benefici per tutti gli interessati derivanti dall'accordo, benefici confermati dalle fiduciose previsioni della U.S. International Trade Commission (Commisione internazionale per il commercio, ndt) e dei più noti economisti, dotati di sofisticati modelli economici (modelli che avevano miseramente fallito nel prevedere le conseguenze deleterie dell'accordo commerciale USA-Canada, ma che per qualche misteriosa ragione avrebbero funzionato in questo caso). Completamente accantonata nel dibattito pubblico fu l'accurata analisi condotta dall'Office of Technology Assessment (OTA: Ufficio per l'Impatto Tecnologico), la quale concludeva che la versione prevista del trattato NAFTA avrebbe danneggiato la maggioranza della popolazione del Nord America, e proponeva modifiche che avrebbero esteso i benefici dell'accordo oltre il ristretto circolo di potenti interessi finanziari. Ancor più istruttivo è notare come la posizione ufficiale dei sindacati statunitensi, descritta in una simile analisi, venne totalmente ignorata e soppressa. Allo stesso tempo, i sindacati venivano aspramente condannati per la loro posizione "arretrata e oscurantista", e per le loro "tattiche di pura intimidazione," motivate dalla "paura del cambiamento e paura degli stranieri"; sto nuovamente citando da una fonte considerata all'estrema sinistra dello spettro delle legittime opinioni, in questo caso Anthony Lewis (del NYT, ndt). Le accuse mosse ai sindacati erano chiaramente false, ma furono le sole parole che raggiunsero il pubblico in un ammirevole esercizio di democrazia. I dettagli della vicenda sono ancor più illuminanti, e venivano riportati, e continuano a venire riportati, dalla stampa dissidente, sebbene continuino ad essere ignorati dai mass media, e siano improbabili candidati per entrare a far parte della storia ufficiale. Oggi le favole sulle meraviglie del trattato NAFTA sono state con discrezione accantonate via via che i dati, non propriamente favorevoli, si rendevano disponibili. Non si sente più parlare delle centinaia di migliaia di posti di lavoro e degli altri benefici che aspettavano gli abitanti dei tre paesi interessati (USA, Messico, e Canada, ndt.). E "benevoli punti di vista economici" le "opinioni degli esperti" (che il NAFTA non ha avuto alcun effetto significativo, hanno preso il posto delle promesse altisonanti. Il Wall Street Journal riporta che "rappresentanti dell'amministrazione [Clinton] sono frustrati dall'incapacità di convincere gli elettori che la minaccia (rappresentata dal NAFTA) non li danneggia" e che la perdita di posti di lavoro "è molto minore di quanto previsto da Ross Perot," a cui era stato permesso di prendere parte al dibattito pubblico (al contrario dell'OTA, il movimento sindacale, gli economisti che non appoggiavano la linea ufficiale, e naturalmente gli analisti dissidenti) perché le sue posizioni erano spesso estreme e facilmente ridicolizzabili. "È difficile contrastare le critiche dicendo la verità e cioè che il trattato commerciale non ha avuto essenzialmente alcun effetto," osserva contrariato un rappresentante dell'amministrazione. Quello che è stato dimenticato è che cosa "la verita" si sosteneva fosse quando l'impressionante esercizio di democrazia procedeva con il vento in poppa. Mentre gli esperti hanno declassato le conseguenze del trattato NAFTA a "nessun effetto significativo," relegando le passate "opinioni degli esperti" al buco nero della memoria, un meno "benevolo punto di vista economico" viene alla luce se gli "interessi nazionali" sono sufficientemente ampliati così da includere in essi la popolazione generale. Testimoniando di fronte al Comitato Bancario Senatoriale (Senate Banking Committee), il segretario della Federal Reserve, Alan Greenspan, esprimeva il suo ottimismo per la "sostenibile espansione economica" ottenuta grazie a "l'atipico contenimento nell'aumento delle retribuzioni [che] sembra essere conseguenza di un'accresciuta insicurezza (per il posto di lavoro, ndt) tra i lavoratori" (un ovvio desideratum di una giusta società. Il Rapporto Economico del Presidente del febbraio '97, fa più obliquamente riferimento a "cambiamenti nelle istituzioni e pratiche del mercato del lavoro" come fattori rilevanti nel "significativo contenimento dei salari" che alimenta la salute economica del paese. Una ragione di questi benvenuti cambiamenti è svelata da uno studio commissionato dal Segretariato del Lavoro del NAFTA su "gli effetti della chiusura di impianti sul principio della libertà di associazione e sul diritto dei lavoratori ad organizzarsi in sindacato." Lo studio è stato condotto sotto il trattato NAFTA a seguito della denuncia da parte di lavoratori della Sprint per presunte pratiche antisindacali attuate dalla compagnia (la Sprint è una delle maggiori compagnie statunitensi di telecomunicazioni, assieme alla AT&T e alla MCI, ndt). La denuncia veniva esaminata dal U.S. National Labor Relations Board, il quale ordinava penalità simboliche e con anni di ritardo, una procedura ricorrente. La distribuzione dello studio, condotto dall'economista del lavoro Kate Bronfenbrenner, della Cornell University, è stata autorizzata in Canada e in Messico, ma non negli USA dall'amministrazione Clinton. Tale studio rivela il significativo impatto del trattato NAFTA sulle pratiche anti-sciopero. Circa la metà dei tentativi di organizzazione sindacale fallisce, conseguenza delle minacce del datore di lavoro di trasferire l'attività all'estero. Le minacce non sono a vuoto. Quando tali iniziative organizzative hanno comunque successo, i datori di lavoro chiudono gli impianti in tutto o in parte ad un ritmo tre volte superiore a quello pre-NAFTA (circa il 15% delle volte). La minaccia della chiusura degli impianti è due volte più frequente nei settori più mobili (per esempio, industrie manifatturiere se paragonate con imprese di costruzione). Tali pratiche anti-sciopero, assieme ad altre riportate nello studio, sono illegali, ma questo è un semplice tecnicismo, allo stesso livello di violazioni del diritto internazionale e dei trattati commerciali quando i risultati della loro applicazione risultano inaccettabili. L'amministrazione Reagan fece chiaramente capire al mondo del business che le loro illegali attività anti-sindacali non sarebbero state ostacolate dallo stato, e le amministrazioni che le hanno succeduto hanno continuato sullo stesso percorso. Tali politiche hanno avuto un sostanziale effetto sulla distruzione dei sindacati o, con parole più sofisticate, su "cambiamenti nelle pratiche ed istituzioni del mercato del lavoro" che contribuiscono al "significativo contenimento dei salari," nel contesto di un modello economico offerto con grande orgoglio ad un mondo arretrato che non ha ancora compreso i principi vittoriosi che apriranno la strada a giustizia e libertà. Quello che fin dall'inizio veniva riportato dalla stampa alternativa sugli obiettivi del NAFTA viene ora tranquillamente ammesso: il reale obiettivo era di "costringere il Messico" alle "riforme" che ne hanno fatto un "miracolo economico," nel senso tecnico del termine: un "miracolo" per gli investitori statunitensi ed i ricchi messicani, mentre la popolazione sprofonda nella miseria. L'amministrazione Clinton "ha dimenticato che il fondamentale scopo del NAFTA non era la promozione del commercio, ma il consolidamento delle riforme economiche in Messico," riportava solennemente il corrispondente Mark Levinson, nella rivista Newsweek, dimenticando solamente di aggiungere che esattamente il contrario era stato solennemente proclamato per assicurare l'approvazione del NAFTA, mentre critici che segnalavano questo "fondamentale scopo" erano stati efficacemente esclusi dal libero mercato delle idee dai suoi stessi proprietari. E forse un bel giorno le ragioni verranno anch'esse svelate. "Costringere il Messico" alle riforme, si sperava, avrebbe sventato il pericolo individuato in occasione del Latin America Strategy Development Workshop tenutosi a Washington nel settembre del 1990. Tale workshop concludeva che le relazioni con la brutale dittatura messicana erano ottime, sebbene si scorgesse un problema potenziale: "una 'apertura democratica in Messico potrebbe mettere alla prova lo speciale rapporto che ci lega, eleggendo un governo nazionalista più interessato a mettere in discussione gli Stati Uniti e le sue direttive economiche" oggi non più un problema, visto che il Messico è stato "costretto alle riforme" per mezzo del trattato (NAFTA). Gli Stati Uniti hanno il potere di ignorare a piacere gli impegni previsti dai trattati. Non così il Messico. In breve, il pericolo è la democrazia, in patria come all'estero, come l'esempio scelto ancora una volta illustra. La democrazia è permessa, pure benvenuta, ma va giudicata in base ai risultati, non al metodo. Il trattato NAFTA era considerato un efficace strumento per controllare il pericolo della democrazia. Veniva implementato in casa grazie alla sovversione di fatto del processo democratico, ed in Messico con la forza, nonostante la vana protesta popolare. I risultati vengono ora presentati come un promettente strumento per portare la democrazia di stile americano ai Messicani ancora annaspanti nel buio. Un osservatore cinico a conoscenza dei fatti si troverebbe a dover convenire. I mercati sono sempre un costrutto (*construct*) sociale, e nella forma specifica in cui sono strutturati dalle correnti politiche sociali, il loro scopo è di limitare la democrazia, come nel caso del trattato NAFTA, degli accordi del W.T.O., e di altri strumenti che ci si prospettano per il futuro. Un caso che merita particolare attenzione è quello del Multilateral Agreement on Investment (MAI: Accordo Multilaterale sugli Investimenti), correntemente in discussione all'OECD (Organization for the Economic Cooperation and Development, ndt), il club dei ricchi, ed al W.T.O. (dove viene chiamato MIA). L'apparente speranza è che l'accordo venga adottato più o meno all'insaputa del pubblico, come era poi quanto si sperava di riuscire a fare con il NAFTA, speranza parzialmente vanificata, sebbene il "sistema d'informazione" riuscì a mantenere le parti salienti sotto silenzio. Se dovessero venire implementati i piani così come sono descritti nell'attuale versione, il mondo intero potrebbe venire "ingabbiato" in accordi commerciali che forniscono alle corporations trasnazionali nuovi strumenti per ridurre ulteriormente l'arena di applicazione di politiche democratiche, consegnando in larga parte le decisioni politiche nelle mani di enormi dittature private che hanno oltretutto molteplici strumenti di interferenza di mercato. Il tentativo di adottare tali accordi potrebbe venire bloccato al W.T.O., a causa delle decise proteste dei "paesi in via di sviluppo," nella fattispecie India e Malesia, per nulla ansiosi di diventare totali accessori di potenti imprese straniere. Ma la versione dell'accordo in discussione all'OECD potrebbe avere migliore fortuna, e una volta approvata, presentata al mondo come fatto compiuto, con le ovvie conseguenze. E tutto ciò sta procedendo con impressionante segretezza, fino ad oggi. L'annuncio della dottrina Clinton veniva accompagnato dall'esempio favorito di illustrazione dei principi usciti vittoriosi: I risultati ottenuti dall'amministrazione Clinton in Haiti. Dato che questo viene offerto come "esempio a favore", mi sembra appropriato analizzarlo nei dettagli. È vero che al presidente eletto (padre Bertrand Aristide, ndt) era stato permesso di tornare ad Haiti, ma solo dopo che le organizzazioni popolari che avevano reso possibile la sua elezione erano state soggette a tre anni di terrore da forze militari che avevano mantenuto stretti rapporti con Washington per l'intero periodo; l'organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani Human Right Watch sostiene che l'amministrazione Clinton ad oggi ancora rifiuta di restituire 160 mila pagine di documenti sul terrore di stato che erano stati confiscati dall'esercito statunitense ("per evitare imbarazzanti rivelazioni" sul coinvolgimento degli USA con il regime responsabile del colpo di stato (che aveva portato alla deposizione di Aristide, ndt). Prima di permetterne il ritorno in patria, era anche stato necessario sottoporre il presidente Aristide ad "un corso intensivo di democrazia e capitalismo," come veniva descritto dai suoi sostenitori statunitensi il processo di civilizzazione del prete scomodo. L'espediente non è nuovo, ed è stato usato in altre occasioni in cui una male accolta transizione alla democrazia è stata contemplata. Come condizione per il suo ritorno, Aristide è stato costretto ad accettare un programma economico che indirizza le politiche del governo Haitiano alle esigenze della "Società civile, in particolare il settore privato, sia nazionale che estero": gli investitori statunitensi sono quindi promossi allo stato di nucleo principale della Società civile haitiana, assieme ai ricchi haitiani che erano stati tra i principali sostenitori del colpo di stato militare; non fanno invece parte della società civile i contadini haitiani e i *slum-dwellers* che, contro tutte le previsioni ed ogni sorta di ostacoli, erano stati capaci di eleggere un proprio presidente, suscitando immediatamente l'ostilità statunitense e il tentativo di sovvertire il suo governo, il primo regime democratico in Haiti. Il risultato delle inaccettabili azioni degli "outsiders ignoranti e impiccioni" veniva quindi annullato con la forza, con la diretta complicità degli Stati Uniti, complicità che si esprimeva non solamente attraverso i contatti con il regime golpista. Infatti, l'Organizzazione degli Stati Americani aveva dichiarato un embargo. Sia l'amministrazione Bush che l'amministrazione Clinton fin dall'inizio non rispettarono l'embargo, esentandone le compagnie statunitensi, ed anche segretamente autorizzando la Texaco Oil Company a continuare le forniture al regime golpista ed ai suoi ricchi sostenitori in violazione delle sanzioni ufficiali, un fatto cruciale che venne rivelato (dalla Associated Press, ndt) il giorno prima dello sbarco statunitense per "ristabilire la democrazia", ma che non ha ancora raggiunto il pubblico, ed è improbabile che entri a far parte della storia ufficiale. Oggi la democrazia è stata ristabilita. Il nuovo governo è stato costretto ad abbandonare il programma democratico e riformista che scandalizzò Washington, ed a seguire i programmi del candidato sostenuto da Washington alle elezioni del 1990, elezioni in cui ricevette il 14% dei voti. L'esempio "a favore" la dice lunga sul significato e le implicazioni della vittoria de "la democrazia e i mercati aperti." Gli haitiani sembrano avere imparato la lezione, sebbene i manager dell'indottrinamento in occidente preferiscano un immagine differente. Le elezioni parlamentari dell'aprile '97 hanno visto un'affluenza alle urne di "un triste 5%" degli elettori potenziali, come riportato dalla stampa, che si chiedeva quindi se "Haiti [avesse] tradito le speranze statunitensi" Abbiamo sacrificato così tanto per portare loro la democrazia, ma sono ingrati e indegni. Possiamo capire perché i "realisti" urgano a stare alla larga da crociate di "migliorismo globale." Un simile atteggiamento è comune in tutto l'emisfero. I sondaggi mostrano che in America Centrale la politica suscita "noia," "sfiducia" ed "indifferenza" in proporzioni di molto superiori ad "interesse" o "entusiasmo," ed evidenziano un "pubblico apatico ... che si sente spettatore del proprio sistema democratico" e manifesta "un generale pessimismo per il futuro." La prima indagine dell'America Latina, sponsorizzata dall'UE, riporta simili risultati: il coordinatore brasiliano commentava che "il messaggio più allarmante dell'indagine ... era la percezione popolare che solo l'elite ha beneficiato dalla transizione alla democrazia." Studiosi latino-americani osservano che la recente ondata di democratizzazione ha coinciso con le riforme economiche neoliberiste, che sono state molto dannose per la maggioranza della popolazione, e ciò ha portato alla cinica valutazione delle istituzioni di democrazia formale. L'introduzione di analoghi programmi economici nel paese più ricco del mondo ha avuto effetti simili. Nei primi anni '90, dopo 15 anni di una versione americana dei programmi neoliberisti di adattamento strutturale, più dell'80% della popolazione giudica il sistema democratico una farsa, con eccessivi poteri in mano al business, e l'economia "inerentemente ingiusta". Queste sono le naturali conseguenze dell'attuazione della "democrazia di mercato" sotto il controllo del business. Naturali e per nulla impreviste. Il neoliberismo è vecchio di secoli, ed i suoi effetti dovrebbero essere noti. Il noto storico Paul Bairoch sottolinea che "non c'è dubbio che il liberismo economico imposto al terzo mondo nel diciannovesimo secolo è una delle cause fondamentali del ritardo nella sua industrializzazione," o anche della sua "deindustrializzazione," mentre l'Europa e le regioni che sfuggirono al controllo del neoliberismo si svilupparono grazie a radicali violazioni dei suoi principi. Riferendosi al passato più recente, il rapporto segreto di Arthur Schlesinger sulla Latin American Mission di Kennedy, realisticamente critica la "malefica influenza del Fondo Monetario Internazionale," che stava allora perseguendo la versione anni '50 del "Washington Consensus" (neoliberismo, adattamento strutturale). Nonostante tutta la fiduciosa retorica, si sa ancora molto poco di ciò che determina lo sviluppo economico. Ma alcune lezioni della storia sembrano ragionevolmente chiare, e di non difficile comprensione. Torniamo alla dottrina prevalente secondo cui "la vittoria dell'America nella guerra fredda" è stata una vittoria per la democrazia ed il libero mercato. Per quanto riguarda la democrazia, questo è in parte vero, sebbene dobbiamo capire che cosa si intenda per democrazia: forme di controllo topdown "per proteggere la minoranza opulenta dalla maggioranza." E per quanto riguarda il libero mercato? Pure in questo caso troviamo che la dottrina è ben lontana dalla realtà`, come i precedenti esempi hanno illustrato. Consideriamo ancora l'accordo NAFTA, un accordo che mirava a costringere il Messico ad una disciplina economica che proteggesse gli investitori dai pericoli di "aperture democratiche." Le sue disposizioni la dicono lunga sui principi economici emersi vittoriosi. Non è "un accordo per il libero commercio." È anzi altamente protezionistico, e pensato così da escludere i competitori europei ed asiatici. Inoltre, condivide con altri accordi globali principi anti-mercato, come i "diritti di proprietà intellettuale" che costituiscono restrizioni estremamente severe che le società ricche mai accettarono durante il loro periodo di sviluppo, ma che ora intendono usare per proteggere l'industria domestica; per soppiantare l'industria farmaceutica nei paesi più poveri per esempio, e per ostacolare lo sviluppo tecnologico, come il perfezionamento dei processi produttivi di prodotti brevettati; il progresso non è più benvisto del mercato, a meno che produca benefici per quelli che contano. Andrebbe inoltre messo in discussione il concetto stesso di "commercio." Più della metà del commercio USA con il Messico consiste di transazioni intra-aziendali, una percentuale che è aumentata del 15% dal passaggio del NAFTA. Per esempio, già un decennio fa industrie locate nel Messico del nord e principalmente di proprietà statunitense producevano più di un terzo dei motori usati nelle automobili statunitensi e tre quarti di altra componentistica essenziale. Il collasso postNAFTA dell'economia messicana nel 1994, che risparmiò solo i super ricchi e gli investitori stranieri (protetti dal salvataggio governativo), portò ad un aumento del commercio USA-Messico, mentre la nuova crisi, che stava riducendo la popolazione ad una sempre maggior miseria, "trasformò il Messico in una conveniente fonte di prodotti a basso costo [o meglio, ancor più basso costo], con salari industriali un decimo dei corrispettivi statunitensi", come riportato dalla stampa economica. Secondo alcuni esperti, più di metà del commercio statunitense consiste di simili transazioni a gestione centralizzata, e lo stesso vale per altre potenze industriali. Alcuni economisti hanno plausibilmente caratterizzato l'attuale sistema mondiale come un sistema di "mercantilismo corporativo" ben lontano dall'ideale del libero commercio. L'OECD, adottando un simile punto di vista, sostiene che "sono la competizione oligopolistica e l'interazione strategica tra imprese e governi, piuttosto che la mano invisibile delle forze di mercato, a determinare il vantaggio competitivo e la divisione internazionale del lavoro nell'industria ad alta tecnologia." Lo stesso si può dire dell'economia domestica statunitense, la cui struttura viola i principi neoliberisti proclamati a gran voce. Il tema dominante dello studio della storia economica statunitense è che "la moderna azienda prese il posto dei meccanismi di mercato nel coordinamento delle attività economiche e nell'allocazione delle risorse," gestendo internamente molte delle transazioni in un'altra significativa deviazione dai principi di mercato. E le deviazioni sono molte. Si consideri per esempio la sorte del principio sostenuto da Adam Smith che il libero movimento delle persone, attraverso le frontiere per esempio, è una componente essenziale del libero commercio. Quando guardiamo al mondo reale delle corporations trasnazionali, ed alle loro alleanze strategiche con stati potenti, la distanza tra dottrina e realtà si fa considerevole. La teoria del libero mercato è disponibile in due versioni: la dottrina ufficiale; e quella che potremmo chiamare "dottrina di mercato realmente esistente" che si può riassumere nel seguente modo: la disciplina di mercato va bene per te, ma non per me, che ho bisogno dell'assistenza dello stato. La dottrina ufficiale è imposta a quelli che non vi si possono opporre, ma è la "dottrina realmente esistente" che è stata adottata dai potenti sin dai giorni in cui la Gran Bretagna emerse come il più avanzato stato fiscale-militare, grazie ad aumenti sostanziali della pressione fiscale ed un efficiente amministrazione pubblica, mentre lo stato diventava "il principale singolo attore economico," responsabile della sua espansione globale, consolidando un modello che è stato seguito fino ai giorni nostri nel mondo industriale, e certamente negli Stati Uniti. La Gran Bretagna si convertì infine all'internazionalismo liberista (nel 1846, dopo che 150 anni di protezionismo, violenza e potere di stato la posero in largo vantaggio su tutti i competitori. Ma la conversione al mercato non avvenì senza riserve. Il 40% dei prodotti tessili britannici continuò a fornire l'India colonizzata, e lo stesso si può dire dell'export britannico più in generale. Allo stesso modo, all'acciaio britannico venne precluso il mercato statunitense per mezzo di alte tariffe che permisero agli Stati Uniti di sviluppare la propria industria dell'acciaio. Ma l'India ed altre colonie rimasero disponibili per l'export britannico, e continuarono ad esserlo anche quando l'ormai troppo elevato prezzo dell'acciaio britannico lo escluse dal mercato internazionale. Il caso dell'India è istruttivo; nel tardo diciottesimo secolo produceva tanto ferro quanto l'intera Europa, e gli ingegneri britannici ancora nel 1820 studiavano le più avanzate tecniche manifatturiere dell'acciaio indiane per cercare di ridurre il "gap tecnologico." Bombay era una competitiva produttrice di locomotive quando il boom della ferrovia ebbe inizio. Ma le "dottrine di mercato realmente esistenti" distrussero questi settori dell'industria indiana, così come avevano distrutto l'industria tessile, la cantieristica navale, ed altre industrie all'avanguardia per gli standard dell'epoca. Gli Stati Uniti e il Giappone riuscirono invece a sfuggire al controllo europeo, e poterono adottare il modello britannico di interferenze al mercato. Quando anche la competizione giapponese si dimostrò al di sopra delle aspettative, l'Inghilterra pose fine al gioco, e l'impero venne di fatto precluso all'export giapponese, fatti questi che fanno parte del background della seconda guerra mondiale. Nello stesso periodo, anche l'industria indiana premette per misure protezionistiche (ma contro la Gran Bretagna, non il Giappone. E chiaramente con minor successo, date le dottrine di mercato realmente esistenti. Dopo l'abbandono del seppur limitato laissez-faire negli anni 30, il governo britannico introdusse politiche più direttamente interventiste anche nell'economia domestica. Nel giro di pochi anni, la produzione di macchine utensili venne quintuplicata, accompagnata dal boom nell'industria chimica, l'industria dell'acciaio, l'industria aerospaziale, e tutta una serie di settori emergenti, in "una nuova ondata di rivoluzione industriale," come scriveva Will Hutton. L'industria britannica a controllo statale permise alla Gran Bretagna di superare la Germania nella produzione industriale durante la guerra, ed anche di ridurre il gap con quella degli Stati Uniti, che stavano allora vivendo una drammatica espansione industriale sotto la direzione dei magnati industriali che avevano preso il controllo dell'economia di guerra coordinata dallo stato. Gli Stati Uniti seguirono un percorso analogo a quello seguito dalla Gran Bretagna un secolo prima. Dopo 150 di protezionismo e violenza, gli USA erano diventati la più ricca e potente nazione del mondo e, come la Gran Bretagna un secolo prima, arrivarono ad apprezzare i vantaggi di una "competizione imparziale" in cui avevano la certezza di poter annientare qualsiasi competitore. Ma, come con la Gran Bretagna, la libera competizione venne introdotta con eccezioni non trascurabili. Una di tale eccezioni è che Washington usò il suo potere per prevenire all'estero forme di sviluppo economico indipendente, come aveva fatto l'Inghilterra un secolo prima. In America Latina, in Egitto e in Asia del sud, come pure altrove, venivano imposte forme di sviluppo "complementari," e non "competitive," e con ampie interferenze al commercio da parte statunitense. Per esempio, gli aiuti del Piano Marshall vennero condizionati all'acquisto di prodotti agricoli statunitensi, che è parte della ragione del perché gli Stati Uniti incrementarono la loro proporzione di produzione mondiale di grano dal 10% di prima della guerra a più del 50% degli anni 50, mentre l'export argentino si vide ridotto di circa due terzi nello stesso periodo. Anche gli aiuti del programma U.S. Food for Peace vennero usati sia per sussidiare (sovvenzionare) l'agribusiness statunitense sia per ostacolare i produttori stranieri, uno dei tanti stratagemmi per ostacolare lo sviluppo indipendente. La quasi totale distruzione della produzione colombiana di frumento per mezzo di tali pratiche è uno dei fattori che hanno determinato il boom del narcotraffico, boom che ha ricevuto ulteriore impulso in tutta l'area andina dalle politiche neo-liberiste degli ultimi anni. L'industria tessile del Kenya crollò nel 1994 quando l'amministrazione Clinton impose una quota, impedendogli il percorso di sviluppo che era stato seguito senza eccezioni da tutti i paesi industrializzati, mentre i "riformisti africani" venivano ammoniti a "procedere più speditamente" nel miglioramento delle condizioni per il business, e a "consolidare le riforme di libero mercato" con "politiche commerciali e di investimento" che soddisfassero le esigenze degli investitori occidentali. Nel dicembre del 1996, Washington bloccò l'import di pomodori dal Messico in violazione delle regole del NAFTA e del W.T.O. (sebbene non tecnicamente, dato che si trattò di una semplice dimostrazione di forza, senza bisogno dell'imposizione di alcuna tariffa ufficiale), ad un costo per i produttori messicani di circa un miliardo di dollari all'anno. La ragione ufficiale per questo regalo ai produttori della Florida è che i prezzi erano "artificialmente abbassati dalla competizione messicana" e che i consumatori statunitensi preferivano i pomodori messicani. In altre parole, i principi di libero mercato stavano funzionando, ma con il risultato sbagliato. Queste sono solo sparse illustrazioni. Un altro esempio piuttosto rivelatore è quello di Haiti, assieme al Bengali il premio coloniale più ambito al mondo e fonte di buona parte della ricchezza della Francia, passato sotto il controllo statunitense sin da quando i marines di Woodrow Wilson invasero l'isola ottant'anni fa, e ad oggi una tale catastrofe che potrebbe diventare virtualmente inabitabile in un futuro non troppo remoto. Nel 1981 venne avviato un piano di sviluppo sponsorizzato dalla Banca mondiale e dallo USAID, basato su impianti di assemblaggio ed agroexport, trasferendo a tale scopo la terra fino ad allora utilizzata per il consumo locale. L'USAID prevedeva "una storica svolta verso una progressiva interdipendenza con gli Stati Uniti" che avrebbe visto Haiti diventare la "Taiwan dei Caraibi." Un giudizio condiviso dalla Banca Mondiale, che raccomandava l'usuale ricetta basata sull' "espansione dell'impresa privata" e la minimizzazione degli "obiettivi sociali," con il conseguente incremento di disuguaglianza e povertà e la riduzione dei livelli di salute pubblica ed educazione; va notato, per quello che vale, che queste ricette vengono sempre accompagnate da sterili sermoni sul bisogno di ridurre disuguaglianza e povertà e di migliorare salute ed educazione, e che gli stessi studi tecnici della Banca Mondiale riconoscono che una relativa uguaglianza economica ed alti standard di salute ed educazione sono fattori cruciali nel determinare la crescita economica. Nel caso di Haiti le ben collaudate ricette produssero altrettanto prevedibili risultati: alti profitti per l'industria manifatturiera statunitense e gli Haitiani ultra-ricchi, ed una riduzione del 56% dei salari Haitiani negli anni 80 in poche parole un "miracolo economico." Haiti rimane Haiti, e non Taiwan, la quale ha seguito un corso radicalmente diverso, come devono senz'altro sapere gli esperti della Banca Mondiale. E furono proprio i conseguenti sforzi del governo democratico haitiano, tesi a rimediare al crescente disastro, che provocarono l'ostilità di Washington, nonché il colpo di stato militare ed il terrore che ad esso seguì. Una volta "ristabilita la democrazia," l'USAID sospendeva gli aiuti, condizionandoli alla privatizzazione dei cementifici e di altre industrie per il beneficio dei ricchi haitiani e degli investitori esteri (identificati come la "società civile" haitiana nel piano imposto per ristabilire la democrazia), ed alla riduzione delle spese per salute ed educazione. L'agribusiness continuava a ricevere ingenti finanziamenti, mentre nessuna risorsa veniva indirizzata all'agricoltura locale ed all'artigianato, primarie fonti di reddito per la stragrande maggioranza della popolazione. Gli impianti di proprietà straniera, che impiegavano i locali (principalmente donne) per salari al di sotto del livello di sussistenza ed in condizioni di lavoro orrende, beneficiavano egregiamente dell'elettricità a basso costo sussidiata dal generoso supervisore. Ma agli haitiani in condizioni di povertà (la maggioranza della popolazione non é permesso fornire sussidi per elettricità, carburante, acqua o alimenti); questi sono proibiti dalle regole imposte dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), sulla base del principio che costituirebbero un "controllo dei prezzi." Prima dell'attuazione delle "riforme" la produzione locale di riso era capace di coprire la quasi totalità del bisogno domestico, con importanti (benefiche) conseguenze per l'economia. Grazie alla "liberalizzazione," la produzione locale è scesa ora al di sotto del 50%, con prevedibili conseguenze sull'economia domestica. Va sottolineato che la liberalizzazione è attuata solo da una parte: Haiti si deve "riformare," eliminando le tariffe come dettato dai principi della scienza economica (scienza che, per qualche miracolo della logica) esenta l'agribusiness statunitense, il quale continua a ricevere ingenti sussidi, aumentati durante l'amministrazione Reagan al punto da fornire nel 1987 il 40% del reddito lordo degli agricoltori. Le naturali conseguenze di tali politiche sono ben note, e calcolate: un rapporto dell'USAID del 1995 osserva che "le politiche mirate all'export" imposte da Washington provocheranno "un'inesorabile stretta per il coltivatore locale di riso," il quale sarà quindi costretto a perseguire il più razionale obiettivo dell'agroexport per il beneficio degli investitori statunitensi, in accordo con i principi della teoria delle aspettative razionali. Per mezzo di tali metodi, il paese più povero dell'emisfero è stato trasformato in importante acquirente di riso statunitense, così arricchendo le imprese americane sussidiate. Quelli abbastanza fortunati da aver ricevuto una buona istruzione occidentale saranno senz'altro in grado di spiegare che i benefici si faranno alla fine sentire anche per i contadini e *slam-dwellers* haitiani. Gli africani potrebbero ritrovarsi a seguire un simile percorso, come attualmente raccomandatogli dai leaders del "migliorismo globale" e dall'elite locale, e forse non vedono altra soluzione viste le circostanze attuali un giudizio a parer mio alquanto discutibile. Ma se comunque decidessero di intraprendere tale strada, dovrebbero almeno essere consapevoli delle conseguenze. L'esempio di Haiti illustra una delle più rimarchevoli violazioni della dottrina ufficiale del libero commercio, ben più importante del protezionismo, che anche in periodi passati fu ben lungi dall'essere la più significativa delle interferenze di mercato, sebbene sia la più studiata, conseguenza dell'artificiale suddivisione imposta dalle discipline accademiche, che aiuta a mascherare importanti realtà sociali e politiche. Per citare un esempio ovvio, la prima rivoluzione industriale dipese dal cotone a basso costo, così come l'attuale "età dell'oro" del capitalismo contemporaneo dipende dalla disponibilità di energia a basso costo, ma i metodi per mantenere bassi i prezzi di tali merci essenziali, metodi che difficilmente si possono giudicare conformi ai principi del libero commercio, non entrano a far parte della disciplina economica. Una delle componenti essenziali della teoria del libero commercio è il principio che sussidi statali non sono permessi. Ma dopo la seconda guerra mondiale, i leader economici statunitensi concordarono nel giudizio che l'economia sarebbe crollata se non fosse stato per il massiccio intervento statale che durante la guerra aveva finalmente permesso di superare la depressione. Insistettero inoltre che l'industria avanzata "non può sopravvivere in una pura, competitiva, e nonsussidiata economia della 'libera impresa'" che "il governo è l'unico in grado di salvarla (come riportato in Fortune e Business Week, esprimendo il generale consenso del tempo). E riconobbero che il sistema basato sul Pentagono (industria militare, ndt) sarebbe stato il modo migliore di trasferire i costi alla popolazione. La spesa sociale avrebbe potuto giocare un simile ruolo, ma ha difetti non da poco: non è un diretto sussidio all'industria privata, ha effetti "democratizzanti", nonché effetti redistributivi. La spesa militare non ha alcuna di queste indesiderabili caratteristiche. Ed è anche facile da vendere: con l'inganno. Il segretario dell'Air Force nell'amministrazione Truman lo spiegò con disarmante semplicità: dobbiamo evitare di usare la parola "sussidi", disse; la parola da usare è "sicurezza." E si industriò affinché il bilancio militare "[soddisfacesse] i bisogni dell'industria areonautica," come egli stesso spiegò. Una delle conseguenze è che l'industria areonautica civile è oggi l'industria nazionale leader nelle esportazioni, e l'enorme industria di viaggi e turismo, che si basa sul trasporto aereo, è fonte di notevoli profitti. È quindi assai appropriato che Clinton, nell'esporre la sua "nuova visione" del futuro del libero mercato, abbia scelto la Boeing come "un modello per tutte le aziende d'America." Un esempio perfetto della dottrina di mercato realmente esistente, l'industria areonautica civile è ad oggi quasi interamente nelle mani di due compagnie, la Boeing-McDonald, e la Airbus (un consorzio europeo, ndt), entrambe le quali devono la loro esistenza ed il loro successo a sussidi statali su larga scala. Lo stesso si può dire dell'industria elettronica e dei computer, dell'industria dell'automazione, della biotecnologia, delle comunicazioni, e più o meno di ogni dinamico settore economico. Non c'era bisogno di spiegare questa caratteristica fondamentale del "capitalismo del libero mercato realmente esistente" all'amministrazione Reagan, che era maestra in quest'arte, esaltando le glorie del mercato ai poveri, e vantandosi contemporaneamente di fronte al mondo del business del fatto che Reagan avesse "garantito all'industria americana maggiori protezioni dall'import di qualsiasi suo predecessore in più di mezzo secolo"; in realtà maggiori protezioni dell'insieme dei suoi predecessori, nella "più pronunciata svolta protezionistica dagli anni trenta," trasformando gli Stati Uniti da "campioni del libero commercio multilaterale a principali oppositori," come riportato nella rivista del Council for Foreign Relations (Consiglio per i rapporti con l'estero) nell'ambito di una analisi della decade. I Reaganites "condussero un sostenuto assalto ai principi [del libero commercio]" che ebbe inizio negli anni 70, come viene deplorato in uno studio di Patrick Low, economista del segretariato del GATT (Global Agreement on Tariffs and Trade, ndt), il quale stima che gli effetti delle politiche protezionistiche Reaganiane siano stati tre volte più restrittivi di quelli delle politiche di altri paesi industrializzati. La grande "svolta protezionistica" rappresenta solo uno degli aspetti del "sostenuto assalto" ai principi del libero commercio, assalto accelerato durante il periodo del "ruvido individualismo Reaganiano." Un altro capitolo della storia include l'enorme trasferimento di fondi pubblici al potere privato, spesso giustificati ricorrendo al pretesto della "sicurezza nazionale," trasferimenti che "portarono la spesa militare e per R&S (Ricerca e Sviluppo) al di sopra dei livelli record degli anni sessanta." La popolazione veniva terrorizzata ricorrendo a diversi nemici pubblici (l'Unione Sovietica, la Libia, e così via), ma il messaggio dei Reaganites al mondo del business si rivelava come sempre assai più onesto. Se fossero mancate queste misure estreme di interferenze al mercato, è assai dubbio che le industrie americane di autovetture, acciaio, macchine utensili, semiconduttori ed altre, avrebbero sopravvissuto alla competizione Giapponese, o che sarebbero state capaci di dominare il mercato delle nuove tecnologie, con profonde conseguenze per l'economia. Non c'è neppure bisogno di spiegare le dottrine operative all'attuale leader della "rivoluzione conservatrice," Newt Gingrich, sempre pronto ad impartire severe lezioni a bambini di sette anni sui mali della dipendenza dal welfare, mentre allo stesso tempo detiene il primato nazionale nel trasferimento di fondi pubblici al suo affluente collegio elettorale. Come non c'è bisogno di spiegare tali dottrine alla Heritage Foundation, fondazione responsabile della proposta di manovra finanziaria fatta propria dai "conservatori" del congresso. Tale proposta chiedeva (e otteneva) un aumento della spesa per il Pentagono che addirittura sorpassava l'aumento già previsto da Clinton, al fine di assicurare che "la base industriale della difesa" rimanesse solida sotto la protezione del potere di stato, fornendo tecnologia a doppio-uso ai suoi beneficiari, e così facendo garantendo loro il dominio dei mercati commerciali ed il loro arricchimento a spese della collettività. È comunemente accettato che "libera impresa" significa che la collettività si fa carico dei costi come pure dei rischi se le cose dovessero andare male; ne sono un esempio gli interventi pubblici in soccorso di banche e corporations che in anni recenti sono costati al pubblico centinaia di milioni di dollari. Quindi, nei sistemi di mercato realmente esistenti, i profitti vanno privatizzati, ma i costi e i rischi vanno socializzati. La storia, ormai vecchia di secoli, continua a ripetersi senza grandi cambiamenti, e non solo negli Stati Uniti ovviamente. Le dichiarazioni ufficiali vanno quindi interpretate alla luce di queste realtà, come ad esempio l'attuale piano di Clinton per l'Africa che fa appello a "commercio anziché aiuti", piano che contiene una serie di disposizioni che guarda caso beneficiano gli investitori statunitensi. La *uplifting* retorica dell'appello ignora la realtà di quanto poco simili approcci abbiano funzionato in passato, come pure il fatto che gli Stati Uniti già prima di questa ammirevole innovazione avessero il programma di aiuti più miserevole tra tutti i paesi industrializzati. Per prendere un altro ovvio esempio, considerate l'interpretazione di Chester Crocker dei piani per l'Africa dell'amministrazione Reagan del 1981. "Siamo in favore di mercati aperti, del libero accesso a risorse primarie, e dell'espansione delle economie statunitense ed africana," e vogliamo portare i paesi africani "nel circolo delle economie di libero mercato." La dichiarazione potrebbe sembrare piuttosto cinica, provenendo dai leader del "sostenuto assalto" a "l'economia del libero mercato." Ma l'interpretazione data da Crocker non è poi così lontana dal segno, una volta filtrata attraverso il prisma delle reali dottrine economiche. I mercati aperti e l'accesso alle risorse primarie sono riservati agli investitori statunitensi ed ai loro associati locali, e le economie vanno sviluppate in un modo ben specifico, così da proteggere "la minoranza degli opulenti dalla maggioranza." Gli opulenti meritano la protezione dello stato e i sussidi pubblici. Come altro potrebbero prosperare, per il beneficio di tutti? Per illustrare la "teoria del libero mercato realmente esistente" per mezzo di un diverso criterio di misura, si pensi che il più estensivo studio sulle multinazionali trovò che "la virtuale totalità delle più grandi aziende multinazionali ha beneficiato in maniera decisiva dell'influenza di politiche governative e/o barriere protezionistiche," e "almeno 20 delle aziende che fanno parte delle Fortune 100 del 1993 non avrebbero sopravvissuto se non fossero state soccorse dai rispettivi governi," socializzando le perdite, o semplicemente passando sotto il controllo governativo. Una di tali aziende è il maggiore datore di lavoro nel conservatore distretto elettorale di Gingrich, la Lockeed, salvata dal crollo da un prestito garantito dal governo di 2 miliardi di dollari. Lo stesso studio rimarca che l'intervento statale, "che è stato la regola più che l'eccezione negli ultimi due secoli, ... ha giocato un ruolo decisivo nello sviluppo e la diffusione di numerosi prodotti e tecnologie (in special modo il settore aerospaziale, l'elettronica, le moderne tecnologie agricole, il trasporto e l'energia," come pure le telecomunicazioni e l'informatica in generale (la rete Internet e la World Wide Web sono due esempi recenti) e, in periodi passati, le industrie tessile e metallurgica, e naturalmente l'energia. Altri studi tecnici confermano tali conclusioni. Come illustrato negli esempi precedenti, gli Stati Uniti non sono soli nella loro concezione di "libero commercio," sebbene i loro ideologhi spesso guidino il cinico coro. Il divario tra paesi ricchi e paesi poveri dagli anni 60 è da attribuire a misure protezionistiche dei ricchi, come concludeva il rapporto per lo sviluppo dell'ONU (UN Development Report) del 1992. Il rapporto del 1994 concludeva che "i paesi industrializzati, violando i principi del libero mercato, stanno costando ai paesi in via di sviluppo approssimativamente 50 miliardi di dollari all'anno quasi quanto il flusso totale di aiuti stranieri" aiuti che altro non sono se non promozioni all'export sovvenzionate dallo stato. Il Rapporto Globale dell'Organizzazione per lo Sviluppo Industriale dell'ONU del 1996 stima che il divario tra il 20% più povero ed il 20% più ricco della popolazione mondiale è aumentato del 50% tra il 1960 ed il 1989, e prevede "una crescente disuguaglianza a livello mondiale come conseguenza della globalizzazione." Tale crescente disparità si sta manifestando anche all'interno dei paesi industrializzati, con gli Stati Uniti in testa, e la Gran Bretagna non lontana. La stampa economica specializzata esulta di fronte ad una crescita dei profitti "spettacolare" e "sbalorditiva", applaudendo la straordinaria concentrazione di ricchezza in mano ad una ristretta percentuale della popolazione, mentre per la maggioranza le condizioni economiche continuano a stagnare se non a peggiorare. I *corporate media*, l'amministrazione Clinton, e in generale i sostenitori della American Way, si offrono orgogliosi come esempio al resto del mondo; sepolti nel coro di auto adulazione sono i risultati consci di politiche sociali deliberate durante il periodo che ha visto il "chiaro soggiogamento dei lavoratori da parte del capitale." Tali risultati includono ad esempio la lista di "indicatori sociali" appena pubblicata dall'UNICEF, che rivela come gli USA abbiano il peggior record tra i paesi industrializzati, trovandosi a fianco di Cuba (un misero paese del Terzo Mondo, sotto l'incessante attacco della superpotenza dell'emisfero per gli ultimi quarant'anni) rispetto ad indicatori sociali quali mortalità tra bambini sotto i cinque anni, fame, povertà infantile, e numerosi altri. E tutto questo sta accadendo nel paese più ricco del mondo, con vantaggi incommensurabili e stabili istituzioni democratiche, ma anche, e in misura inusuale, sotto il controllo del business. Queste sono le premesse per il futuro, se la "drammatica svolta da un ideale politico pluralista e partecipativo ad un ideale autoritario e tecnocratico" procede nel giusto corso, nel mondo intero. È bene osservare che in segreto le reali intenzioni sono spesso ammesse onestamente. Come ad esempio quando, nel primo periodo seguito alla seconda guerra mondiale, George Kennan, uno dei più influenti pianificatori e considerato un grande umanitario, assegnò ad ogni settore del mondo la sua "funzione": la funzione dell'Africa sarebbe stata di venire "sfruttata", nelle parole di Kennan, dall'Europa per la ricostruzione di quest'ultima, dato che gli Stati Uniti non avevano alcun interesse in essa. L'anno prima, un documento di pianificazione d'alto livello sottolineava come "lo sviluppo cooperativo degli alimenti a basso costo e delle materie prime del Nord Africa avrebbe potuto aiutare nel forgiare l'unità europea e nel creare la base economica per la ripresa del continente," un concetto di "cooperazione" assai peculiare. Non si ha conoscenza di documenti in cui si suggerisce lo "sfruttamento" dell'occidente da parte dell'Africa per la sua ripresa dal "migliorismo globale" dei secoli passati. Se facciamo lo sforzo di distinguere dottrine e realtà, troviamo che i principi politici ed economici che hanno prevalso sono assai remoti dai principi proclamati. Vanno tuttavia prese con scetticismo anche le previsioni che tali principi siano "l'ondata del futuro," che porteranno la storia ad un lieto fine. La stessa "fine della storia" è stata proclamata molte volte in passato, e sempre erroneamente. E nonostante tutte le sordide continuità, un'anima ottimista penso possa realisticamente discernere un lento progresso. Nei paesi industrializzati, come pure altrove, lotte popolari possono partire da una posizione più avanzata, e con maggiori speranze di successo che in passato. E manifestazioni di solidarietà internazionale possono assumere forme nuove e più costruttive, conseguenza del fatto che la maggioranza delle popolazioni del mondo stanno capendo che i loro interessi sono molto simili e possono essere fatti progredire insieme. Non ci sono più ragioni oggi che in alcun altro periodo storico per credere che siamo vincolati da misteriose ed immutabili regole sociali anziché dalle decisioni prese nel contesto di istituzioni sotto il controllo del volere umano istituzioni umane che devono soddisfare un criterio di legittimità, e se non lo soddisfano, possono venire rimpiazzate da altre istituzioni più libere e più giuste, come è avvenuto innumerevoli volte in passato. Gli scettici che scontano tali pensieri come utopici e naive non devono fare altro che guardare a quello che è avvenuto proprio qui (in Sud Africa, ndt) negli ultimi anni, un tributo a ciò che la forza dello spirito umano può ottenere, e alle sue illimitate potenzialità lezioni queste che il mondo ha un bisogno disperato di imparare, e che dovrebbero guidare nella continua lotta per la giustizia e la libertà anche qui, ora che il popolo del Sud Africa, dopo la grande vittoria, si trova a fronteggiare nuovi e difficili compiti. 2 giugno 2003 ZNet L'America vuole dominare il mondo con la forza? Chomsky intervistato all'Amsterdam Forum Noam Chomsky Buonasera e benvenuti all'Amsterdam Forum, il programma di discussione interattiva di Radio Netherlands. Quella di oggi è un'edizione speciale che ha come ospite Noam Chomsky, scrittore e attivista politico famoso in tutto il mondo. Il Professor Chomsky, descritto dal New York Times come sicuramente il più importante intellettuale vivente, critica apertamente la politica estera americana. Dopo la guerra in Iraq, Chomsky afferma che gli USA stanno cercando di dominare il mondo con la forza, la dimensione nella quale sono superiori. Il monito di Chomsky è che questa politica porterà alla proliferazione delle armi di distruzione di massa e degli attacchi terroristici determinati dall'odio verso l'amministrazione americana. Secondo lo scrittore la sopravvivenza della specie potrebbe essere addirittura a rischio. Ebbene il Professor Chomsky è qui e risponderà alle domande dei nostri ascoltatori da tutto il mondo. Diamo il benvenuto al professor Chomsky. La prima e-mail è di Norberto Silva dall'isole di Capo Verde e chiede: "Gli USA e il presidente Bush con la loro politica di attacco preventivo possono portare il mondo ad una guerra nucleare? CHOMSKY: Certo che possono. Prima di tutto bisogna chiarire che non si tratta di una politica di attacchi preventivi. Secondo il diritto internazionale gli attacchi preventivi sono quelli da sferrare in caso di minacce reali ed incombenti. Ad esempio se degli aerei attraversassero l'Atlantico per bombardare New York, sarebbe legittimo per le forze aeree americane abbatterli. Questo è un attacco preventivo. E viene chiamato a volte guerra preventiva. Noi invece stiamo parlando di una nuova dottrina annunciata lo scorso settembre dalla Strategia di Sicurezza Nazionale che sancisce il diritto di attaccare qualsiasi ostacolo potenziale alla supremazia globale degli Stati Uniti. La potenzialità è negli occhi dell'osservatore, per cui, a tutti gli effetti questo autorizza ad attaccare praticamente chiunque. Può questo portare ad una guerra nucleare? Certo che può. Nel passato ci siamo andati vicini. Proprio lo scorso ottobre, ad esempio, si è scoperto, per l'orrore e lo shock di coloro che ci hanno fatto caso, che durante la crisi dei missili cubani nel 1962, il mondo era ad un passo da una guerra nucleare terminale. I sottomarini russi con le armi nucleari furono attaccati dagli americani. Parecchi comandanti pensarono che fosse iniziata una guerra nucleare e ordinarono di lanciare dei missili nucleari. Un ufficiale diede un contrordine. Ecco perché siamo qui a parlarne. E ci sono stati molti altri casi come questo da allora. Siamo in una situazione più dottrina preventiva in atto? pericoloso con questa La dottrina della guerra preventiva è praticamente un invito per i potenziali bersagli a sviluppare un qualche tipo di deterrente e ci sono solo due tipi di deterrente. Il primo sono le armi di distruzione di massa e l'altro è il terrore su vasta scala. Questo viene fatto notare di continuo da analisti strategici, dai servizi segreti e così via, quindi sì, sicuramente aumenta il pericolo che qualcosa sfugga di mano. Questa e-mail è di Don Rhodes, da Melbourne in Australia e dice: "non credo che gli USA vogliano dominare il mondo. Gli Americani sono stati attacati su più fronti, come l'11/9 per esempio. Qualcuno deve rimettere in riga gli stati ribelli e solo gli USA hanno la capacità di farlo. Senza una tale "polizia del mondo" il mondo semplicemente si disintegrerebbe in una serie di fazioni belligeranti. Basta guardare alla storia per trovare degli esempio". Come commenta questo tipo di affermazione? La prima frase semplicemente non è corretta da un punto di vista fattuale. La strategia di Sicurezza Nazionale afferma piuttosto esplicitamente che gli USA intendono dominare il mondo con la forza che è la dimensione nella quale sono superiori, e intendono assicurarsi che non ci sia mai un potenziale ostacolo alla loro supremazia. Questa non è solo un affermazione, ma è stata anche commentata proprio dal cuore del sistema - Il giornale degli Affari Esteri-che nel suo prossimo numero sottolinea che gli USA sta affermando il diritto di essere quello che chiamano "uno stato controllore" che userà la forza per controllare il mondo nel proprio interesse. La persona che ha mandato l'e-mail crede che gli USA abbiano un qualche diritto unico di dominare il mondo con la forza. Non lo credo, e contrariamente a quanto egli afferma, non credo affatto che la storia porti degli esempi a proposito. Per la verità quello che è documentato sugli USA, che tra parentesi sono stati aiutati dall'Australia, dal 1940 periodo del suo inizio di dominazione sul mondo, è istigazione alla guerra alla violenza e al terrore su vastissima scala. La guerra di Indocina, giusto per fare un esempio che riguarda l'Australia che vi ha partecipato, è stata praticamente una guerra di aggressione. Gli USA hanno attaccato il Vietnam del sud nel 1962. La guerra si è stesa poi all'Indocina. Il risultato finale è stato l'uccisione di parecchie migliaia di uomini e la devastazione di paesi, e questo è solo un esempio. Quindi la storia non fornisce elementi per concludere che uno stato debba avere il diritto sovrano di dominare il mondo con la forza. Questo è un principio estremamente rischioso, non importa di quale nazione si tratti. Questa invece è di Noel Collamer da Bellingham a Washington Stati Uniti e dice: "Noam dice che l'amministrazione Bush vuole dominare il mondo con la forza, la dimensione nella quale sono superiori e vogliono farlo permanentemente, per cui mi chiedo: Se noi che possiamo non usiamo la forza con i tiranni, cosa dovremmo fare secondo lui? La popolazione brutalizzata dovrebbe usare una resistenza non violenta contro i suoi tiranni anche se questo risulterebbe nel loro genocidio? per prima cosa non sono io che lo dico ma è l'amministrazione Bush. Io sto semplicemente ripetendo quello che viene dichiarato abbastanza esplicitamente e che non è particolarmente controverso. Come ho detto prima è stato commentato essenzialmente con queste parole nel primo numero della rivista degli Affari Esteri subito dopo. per quanto riguarda le popolazioni che soffrono i regimi di tirannia , sì sarebbe bello che qualcuno li aiutasse. prendete ad esempio l'attuale amministrazione a Washington. Proprio loro, ricordate che costoro sono per o più dei seguaci di Reagan reciclati, hanno appoggiato una serie di dittatori mostruosi che hanno inflitto alle loro popolazioni una tremenda tirannia, Saddam Hussein. Ceausescu, Suharto, Marcos, Duvalier. E' una lista piuttosto lunga. Il modo migliore di risolvere la questione sarebbe stato di smettere di appoggiarli. Tra l'altro, l'appoggio del terrore e della violenza continua. Il modo migliore di fermarli è smettere di appoggiarli. Spesso, infatti, in ognuno di questi casi, i tiranni sono stati rovesciati dal loro popolo, nonostante gli USA li appoggiassero. Ceausescu, per esempio era un tiranno perfettamente paragonabile a Saddam Hussein. E'stato rovesciato dal suo popolo mentre veniva ancora appoggiato da Washington, e questo continua. Se c'è gente che resiste all'oppressione e alla violenza, dobbiamo trovare il modo di aiutarli e il modo più facile è smettere di appoggiare i tiranni. Dopo sorgono problemi complicati. Non ci sono documenti, che io sappia, di USA o nessun altro stato, (gli esempi che i sono sono rari) che intervengono per prevenenire l'oppressione e la violenza. Questo è molto raro. Bene, un'altra e-mail. Questa è da H.P. Velten dal New Jersey negli USA e chiede:"perchè non c'è più controversia sugli interessi di Bush nei media americani? Beh veramente c'è molta controversia. Una cosa davvero sorprendente a proposito della guerra in Iraq e della strategia di sicurezza militare nella quale si è svolta, è che è stata criticata davvero duramente proprio dal cuore della elite della politica estera- è stata criticata nei due principali giornali di politica estera, Foreign affairs e Foreign Policy. L' Accademia Americana delle Arti e delle Scienze, che raramente prende posizione sui problemi attuali controversi, ha fatto uscire una monografia che la condanna. C'è un'intera serie di altri articoli. Tutto ciò è stato parzialmente riportato dai media, ma non completamente, perché ricordate che i media tendono ad appoggiare il potere per varie ragioni. Ok, un'altra e-mail. Questa è da RijswiJk in Olanda ed è di M.J. "Bob" Groothland. Il messaggio dice: "nel corso della storia, alcune nazioni hanno sempre cercato di dominare il mondo. quelle più recenti che mi vengono in mente sono la Germania, la Russia e il Giappone. Se gli USA sono gli ultimi aspiranti conquistatori possiamo ritenerci fortunati. La conquista si farebbe con dignità e onore per tutta l'umanità. Il fatto è che niente di tutto ciò viene fatto da Bush o dall'amministrazione americana. Dimentica che gli USA hanno una costituzione e, al contrario di Stalin, Hitler, Hussein ed altri despoti, Bush dovrà essere rieletto tra due anni e gli elettori americani non sono stupidi né oppressi né intimiditi. Il voto è segreto." Gli elettori metteranno le redini al governo degli USA come suggerisce questo ascoltatore? Per prima cosa il resoconto storico è perlopiù immaginario, ma lasciamo questo da parte. Il fatto che una nazione abbia una costituzione non significa che non possa portare avanti una politica di violenza e distruzione. Abbiamo una lunga a storia alle spalle che lo dimostra. L'Inghilterra ad esempio era forse il paese più libero del mondo nel diciannovesimo secolo ma portava avanti atrocità in tutto il mondo e il caso degli USA è simile. Le testimonianze vanno indietro nel tempo. Gli USA erano una nazione democratica quando hanno invaso le Filippine un secolo fa uccidendo parecchie migliaia di persone e lasciando il paese devastato.. era un paese democratico quando negli anni 80 le stesse persone che sono a Washington hanno condotto una guerra di terrore devastante in Nicaragua, facendo decine di migliaia di morti e lasciando il paese praticamente in rovina. Per questo attacco gli USA sono stati condannati dal Tribunale Mondiale e dal Consiglio di Sicurezza in una risoluzione a cui fu posto il veto, ma invece l'attacco si è intensificato e continua. Per quanto riguarda le elezioni democratiche, sì, è vero c'è un'elezione, e i Repubblicani hanno spiegato molto chiaramente come intendono superare il fatto che la maggior parte della popolazione si oppone alla loro politica. Intendono superarlo portando la nazione al panico e alla paura cosicché essa possa ripararsi sotto l'ombrello di una figura di riferimento che li protegga. Infatti l'abbiamo appena visto lo scorso settembre, quando la strategia di sicurezza è stata annunciata e il rullo di tamburi della propaganda è cominciato. C'è stata una campagna governativa di propaganda dei media che è stata davvero spettacolare. Ha avuto successo nel convincere la maggior parte della gente che Saddam Hussein era una minaccia imminente alla sicurezza degli Stati Uniti. Nessun altro lo credeva. neanche il Kuwait o l'Iran, che lo disprezzano, lo considerano una minaccia. Sapevano che era il paese più debole di quella zona. Sono riusciti anche a convincere la maggior parte della popolazione che Saddam Hussein era dietro l'undici settembre, che era l'istigatore e colui che ha portato avanti l'attacco e che ne stava pianificando altri. Di nuovo, non abbiamo uno straccio di prova a riguardo, e non ci sono analisti della sicurezza o servizi segreti che lo credano. Ma allora dov'è l'opposizione politica negli USA? I Democratici? Perché non cercano di farsi strada nell'impalcatura Repubblicana? Sì c'è stato un grande movimento pacifista, abbiamo visto centinaia di migliaia di persone sulle strade in America, che si opponevano all'azione militare. Dov'è l'opposizione politica negli USA? L'opposizione politica dei Democratici è molto tiepida. C'è stato troppo poco dibattito, da sempre, sugli Affari esteri. Questo è risaputo. Le figure politiche sono riluttanti a mettersi in una posizione nella quale possono essere accusati di volere la distruzione dell'America, di appoggiarne i nemici ed essere i protagonisti di fantasie del tipo di quelle che erano presenti nell'e-mail. I politici non vogliono essere soggetti a questo e il risultato è che la voce di una grande porzione della popolazione è scarsamente rappresentata e i Repubblicani lo ammettono. Karl Rove, il manager della campagna repubblicana ha detto chiaramente che i Repubblicani avrebbero dovuto basare la campagna elettorale su istanze di sicurezza, perché se fossero stati affrontati temi riguardanti la politica interna avrebbero perso. Così hanno impaurito la popolazione e l'hanno costretta all'obbedienza, e lui ha già annunciato che bisognerà fare lo stesso prima delle lezioni del 2004. Dovranno di nuovo presentare le cose come se si dovesse votare per un presidente guerriero che difenderà la nazione dalla distuzione. Tra l'altro stanno semplicemente recitando di nuovo una parte che hanno cominciato a recitare negli anni 80 la prima volta che sono stati in carica (più o meno erano le stesse persone). Se ci fate caso le politiche che proponevano non erano popolari. La popolazione era contraria ma loro hanno continuato a spingerli al panico e ha funzionato. Nel 1981 la Libia stava per attaccarci. Nel 1983 Grenada stava per costruire una base aerea dalla quale i Russi ci avrebbero bombardato. Nel 1985 Reagan ha dichiarato uno stato di emergenza nazionale perché la sicurezza degli USA era minacciata dal governo del Nicaragua. Se da Marte qualcuno avesse visto la scena sarebbe morto dalle risate. Ed è continuata così per tutti gli anni 80. Sono riusciti a mantenere la popolazione così intimidita e spaventata da poter mantenere un flebile aggancio al potere politico, e questo è il tipo di sforzo che si fa da allora. Questa tattica non l'hanno inventata loro ma sfortunatamente ha dato i suoi frutti e le figure politiche ed altre figure riluttanti a farsi avanti e affrontare il torrente di abusi e di isteria che scaturirebbe da un tentativo di riportare le cose ad un livello di realtà. Ok, un'altra e-mail, di Boris Kazaman, dal Wyoming negli USA e dice: "La pace può solo scaturire dall'uso della forza e spesso viene dopo una guerra giusta. La Pax Romana è scaturita dalla forza dell'Impero Romano, non da qualche ideologia pacifista. Gli Usa sono da criticare solo quando non hanno agito subito. Ad esempio Hitler, Stalin e Pol Pot sono saliti al potere perché non si è fatta loro opposizione. La sua critica ad un approccio alla politica estera basato sul potere sono ingenui o falsamente ingenui. Quelli che agiscono contro le minacce rendono possibile un mondo dove gli arroganti appartenenti alla sinistra hanno la libertà di parola che concede loro di mostrare i loro errori di ragionamento. Che possa essere sempre così. Pace a voi, ma pace attraverso la forza." Come commenta questa e-mail? Beh, possiamo cominciare col guardare alla realtà. Prendiamo ad esempio Hitler. Hitler è salito al potere con l'appoggio dell'America e dell'Inghilterra. Ancora nel 1937 il Dipartimento di Stato descriveva Hitler come un moderato che stava tra gli estremi della destra e della sinistra. Uno che bisognava appoggiare altrimenti le masse potevano impadronirsi del potere e orientarsi verso sinistra. Infatti gli USA non entrarono in guerra fin quando vennero attaccati dal Giappone e la Germania dichiarò guerra agli USA. Nel caso di Stalin, non sono stati gli USA a portarlo al potere ma non lo hanno neanche osteggiato più di tanto. Ancora nel 1948 H.Truman, il presidente, affermava che Stalin era un brav'uomo, onesto, traviato da coloro che lo consigliavano e così via. Nel caso di Pol Pot, i Khmer Rouge si svilupparono nei primi anni '70- erano pressoché sconosciuti nel 1970- e si svilupparono nel contesto di una massiccia campagna di bombardamenti in Cambogia. Secondo la CIA morirono circa 600000 persone e si alimentò una resistenza crudele e feroce che prese il sopravvento nel 1975. Dopo che ebbe preso il potere, gli USA non hanno fatto niente per fermarlo ma quando il Vietnam lo elimina nel 78-79 invadendolo e cacciandolo, gli USA attaccarono ferocemente il Vietnam per il crimine di essersi sbarazzati di Pol Pot. Gli USA hanno appoggiato un'invasione cinese per punire il Vietnam, gli hanno imposto pesanti sanzioni e inoltre hanno appoggiato quel che restava dell'esercito di Pol Pot in Thailandia. Quindi se vogliamo parlare della storia, bisogna dire le cose come stanno. Poi possiamo cominciare con le diatribe. Pensa che ci sia una situazione nella quale la forza sia giustificata? Abbiamo sentito parecchie posizioni sulla guerra in Iraq secondo le quali era il minore dei due mali. La storia recente dell'Iraq la sappiamo bene, ma era arrivato il momento di fare qualcosa per liberarsi di Saddam Hussein. In Iraq molti degli stessi iracheni sembravano pensarlo. Per prima cosa non ci risulta che gli iracheni ci stessero chiedendo di invaderli, ma ammesso che questo fosse stato il fine, perché tutte le bugie allora? Quello che lei sta dicendo è che Tony Blair, George Bush, Colin Powell e il resto di quei fanatici bugiardi stavano fingendo fino all'ultimo che il fine era di liberarsi dalle armi di distruzione di massa. Se il fine era liberare gli Iracheni perché non l'hanno detto prima? Il presidente Bush lo ha detto nelle ultime settimane prima della guerra, ha cominciato a parlare di guerra di liberazione. Negli ultimi minuti, al summit delle Azzorre ha detto che anche se Saddam Hussein e la sua gente avessero lasciato il paese, gli USA avrebbero invaso lo stesso, il che significa che gli USA volevano controllare il paese. Ora c'è un problema serio dietro questa dichiarazione. Non ha niente a che fare con la liberazione degli Iracheni. Vi poteste chiedere come mai gli Iracheni non hanno rovesciato Saddam come hanno fatto i Rumeni con Ceausescu e com'è stato per altri dittatori. beh si fa presto a saperlo. Gli occidentali che conoscono meglio l'Iraq- Dennis Halliday e Hans von Sponek, i capi del programma dell'Onu "oil for food"-, avevano centinaia di investigatori all'interno del paese ed hanno osservato, come molti altri, che quello che ha fatto in modo che in Iraq non ci fosse nessuna ribellione sono le terribili sanzioni che hanno ucciso migliaia di persone (facendo una stima ottimistica), hanno rafforzato Saddam e hanno reso la popolazione completamente dipendente da lui per sopravvivere. Quindi il primo passo per aiutare gli iracheni sarebbe stato smettere di impedire la loro liberazione, permettendo alla società di ricostruirsi in modo da poter badare ai propri affari, Se questo sistema fosse fallito, se gli iracheni fossero stati incapaci di fare quello che altri popoli hanno fatto quando erano governati da tali tiranni , a quel punto si sarebbe potuto contemplare l'uso della forza, ma prima che che sia stata data loro un'opportunità, e fin quando l'azione dell'Inghilterra e degli USA gliel'ha impedito non possiamo porci questa domanda. E infatti gli USA e l'Inghilterra non se la sono posta durante la preparazione alla guerra. Date solo un'occhiata ai documenti. Questa e-mail è di Bob Kirk da Israele e dice: " Perché il Professor Chomsky si oppone così tanto all'espansione della democrazia e alla liberazione di molti popoli del mondo (da parte degli USA se necessario visto che l'UE ha smesso di sfidare i dittatori) e quale mezzo oltre che la persuasione e la forza, che a volte è giustificabile, proporrebbe lui per liberare le società del mondo che libere non sono? Io sarei fortemente a favore dell'estensione della democrazia al mondo e mi oppongo a che questa sia impedita. Una delle ragioni, è sconvolgente se si guardano gli ultimi mesi, è che non ho mai visto, per quel che mi ricordo, un disprezzo così chiaro e spudorato della democrazia come quello delle elite americane. Basta guardare l'Europa che, ad esempio, era divisa tra vecchia e nuova Europa. secondo questo criterio, la vecchia Europa era formata dai paesi i cui governi, quali che siano le ragioni, hanno preso la stessa posizione della maggioranza del loro popolo. Poi c'era la nuova Europa, Italia, Spagna e Ungheria, in cui i governi hanno prevaricato una percentuale addirittura maggiore del loro popolo. La gente che si opponeva infatti, era maggiore in questi paesi che nella vecchia Europa, ma i governi non hanno considerato il loro popolo-forse l'80 o 90% di loro- e hanno seguito gli ordini di Washington, e questa dovrebbe essere una buona cosa. La Turchia è l'esempio pi lampante. La Turchia è stata attaccata aspramente dai commentatori US e dalle elite perché il governo ha preso una posizione in accordo con circa il 95% della loro popolazione. Paul Wolfowitz, che viene descritto come un grande esponente della democratizzazione, qualche settimana fa ha condannato i militari turchi per non essere intervenuti ad obbligare il governo a, come dice lui, aiutare gli americani, invece di seguire il 95% del loro popolo. Questo mostra davvero un disprezzo spudorato per la democrazia e i fatti lo dimostrano. Non sono solo gli USA a comportarsi male, è tipico di qualsiasi altro stato moto potente, ma guardate cosa succede negli stati che sono sotto il controllo americano da molto tempo come l'America centrale e i caraibi, che lo sono da circa 100 anni. Gli USA hanno accettato di tollerare la democrazia ma dev'essere come dicono loro. Per riportare le parole di un fautore della democrazia sotto l'amministrazione Reagan "democrazia dall'alto verso il basso", democrazia nella quale le elite tradizionali rimangono al potere , quelle elite che sono state legate agli Stati Uniti e mandano avanti le loro società nel modo in cui vogliono gli USA. In quel caso gli USA tollerano la democrazia. Sono molto simili ad altri stati potenti, ma non ci facciamo illusioni. L'ascoltatore scrive dal medio oriente se non sbaglio da Israele e gli USA hanno appoggiato una dittatura brutale e oppressiva per molto tempo e sanno da sempre che questo è il motivo principale per cui il popolo gli è ostile. Negli anni 50, lo sappiamo da documenti interni, il presidente Eisenhower ha discusso con il suo staff quella che chiamava " la campagna di odio contro di noi" tra gli abitanti del medio oriente e la ragione era che gli USA stavano appoggiando regimi non democratici e stava bloccando la democrazia e lo sviluppo a causa degli interessi americani nel controllo del petrolio nel vicino oriente. Bene, questo va avanti. Lo dicono anche ricchi musulmani occidentalizzati intervistati dal Wall Street Journal proprio in questi giorni. C'è una lunga storia documentata di opposizione alla democrazia, a meno che sia controllata, e per ragioni che sono ancorate a politiche di potere che conosciamo. Leggiamo un'altra e-mail. Questa è da Vera Gottlieb, dalla British Columbia, in Canada e dice: camuffata da lotta al terrorismo, si sta driducendo il Bill of rights, per non dire che lo si sta decimando. L'Americano medio lo sa e se ne interessa? Davvero pochi lo sanno. Il Patriot Act e il nuovo, il secondo Patriot Act che stanno progettando, mina, almeno teoricamente ed in parte praticamente, delle libertà civili fondamentali in maniera piuttosto estensiva. L'attuale dipartimento di giustizia si è arrogato il diritto di arrestare gente, compresi cittadini americani, confinarla a tempo indeterminato, senza possibilità di consultare un avvocato. Hanno fatto anche di peggio. Tra i nuovi piani ce ne sono alcuni secondo i quali si permetterà di imprigionare cittadini se il procuratore generale lo vuole. Civilisti, professori di diritto ed altri hanno fermamente condannato tutto ciò ma quasi niente è trapelato dai media. Queste cose davvero non si sanno. Questi movimenti sono davvero radicali. Il presidente Bush dovrebbe avere un busto di Winston Churchill sulla scrivania, regalatogli dal suo amico Tony Blair, e infatti Churchill ha avuto qualcosa da dire a questo proposito. Disse, e lo sto quasi citando, che per un governo, imprigionare qualcuno che non sia stato processato dai suoi simili è qualcosa di abominevole, ed è il fondamento di tutti i regimi totalitari, che siano nazisti o comunisti. Lo ha detto nel 1943, mentre stava condannando delle proposte di natura simile, che non vennero attuate, in Inghilterra. Ricordate che nel 1943 l'Inghilterra era in una posizione davvero critica, era stata attaccata e si preparava ad essere annientata dalla forza militare più feroce della storia e ciononostante Churchill ha giustamente descritto misure come queste "abominevoli" e "il fondamento dei governi totalitari". Sì, la gente dovrebbe esserne sconvolta. Perché questo non è un problema dibattuto e perché non c'è una opposizione radicale al secondo Patriot Act e a queste cose che lei ha descritto? Per prima cosa per sapere queste cose bisogna fare un'attenta ricerca. Non dico che sono nascoste, se li si cerca i documenti si trovano , ma non sono certamante di pubblico dominio. Quando si sanno, c'è opposizione, ma ricordatevi il grande successo della campagna di propaganda tramite i media che ha fatto il governo, dallo scorso settembre, per convincere la popolazione degli USA che c'era una minaccia imminente di distruzione da parte del mostro Saddam Hussein, e la prossima settimana sarà qualcun altro quello da cui ci dovremo proteggere. E proprio quelli che hanno creduto a queste menzogne, che sono la maggior parte, hanno un'attitudine favorevole alla guerra, e si può capire perché, se proprio credi a quelle cose puoi anche accettare di vedere ridurre le libertà civili. Certo, è stata una montatura, l'esempio più spettacolare di propaganda di una montatura mai visto, hanno fatto notare in molti, ma ha funzionato. Quando la gente ha paura, a volte può non voler difendere i diritti che ha conquistato. D'accordo, leggiamo un'altra e-mail. Questa è dal Venezuela ed è di Alberto Villasmil Raven che dice: vorrei sapere se il Professor Chomsky pensa che sia possibile che gli USA invadano il Venezuela. beh, non penso che lo invaderà direttamente ma tra le regioni che sono il bersaglio della cosiddetta guerra preventiva, sicuramente c'è la regione andina. E' una regione di sostanziali risorse. E' per un certo verso, fuori controllo. Gli Usa hanno già delle consistenti risorse militari- un sistema di basi militari in Ecuador, *****le Isole Olandesi****, El Salvador, che circondano la regione, e un po' di basi sul posto. Il mio sospetto e che gli USA in Venezuela, probabilmente appoggeranno un colpo di stato come l'anno scorso. Ma se questo non funziona, un intervento diretto non è impossibile. Ricordate, si sta pianificando da molto. L'unica cosa veramente buona degli USA è una società davvero libera, unicamente libera. Abbiamo documentate tutte le pianificazioni interne. Proprio sul periodo della crisi dei missili cubani, abbiamo dei documenti dai quali risulta che il presidente Kennedy e suo fratello stavano discutendo la minaccia dei missili cubani e dissero che uno dei maggiori problemi che ponevano era "che possono essere un deterrente all'invasione del Venezuela se decidessimo di invaderla. Questo succedeva nel 1962. Queste sono vecchie politiche, saldamente radicate. Bene, questa è di Berrada M. Ali, da Rabat, in Marocco, e la sua domanda è la seguente: "pensa che dopo l'ingiustificata e ingiustificabile guerra contro l'Iraq il mondo perderà il significato della sua esistenza, come nella lingua quando si perdono le regole grammaticali? Perderemo il riferimento del significato delle frasi e di conseguenza il significato del mondo intorno a noi? secondo me, il commento più onesto a questo riguardo è stato fatto dai sostenitori della guerra in Iraq. Ad esempio se guarda l'ultimo numero di Affari Stranieri, il principale giornale del sistema, c'è un importante articolo di un conosciutissimo specialista di diritto internazionale, Michael Glennon, che sostiene che noi dobbiamo riconoscere che il diritto internazionale e le istituzioni internazionali sono quello che lui chiama "aria calda". La loro inapplicabilità è stata provata dal fatto che gli USA non le rispettano, e lui dice che fanno bene a non rispettarle, e che gli USA devono mantenere il diritto di usare la forza come vogliono, indipendentemente da queste istituzioni, che dobbiamo solo calpestare e non rispettare. bene almeno questa è una dichiarazione onesta. penso che sia una minaccia terribile per il mondo, ed è parte del motivo per cui il governo USA è diventato oggetto di grande paura nel mondo. I sondaggi internazionali a questo riguardo sono chiari, ed è comprensibile. Quando una nazione prende queste posizioni, è ovvio che la gente comincia ad aver paura, e quindi, come è stato sottolineato sempre di più dai servizi segreti, analisti etc., la gente prenderà le contromisure. cercheranno di trovare dei deterrenti. Gli USA stanno imponendo al mondo la proliferazione dellearmi di distruzione di massa, anche se come deterrenti. Abbiamo un'ultima e-mail da John Blessen da Beverly Hills negli Stati Uniti e il suo messaggio è il seguente: "Come possono gli USA proteggersi al meglio da stati criminali come la Corea del Nord? E dalle minacce chimiche, nucleari e biologiche di stati fuorilegge? Delle minacce sconvolgenti agli USA sono reali ed alcuni dicono imminenti, per cui come organizzerebbe lei, Professor Chomsky, una politica di difesa per gli USA? Bene, prendiamo l'esempio che lei ha citato, la Corea del Nord. Non si possono fare delle generalizzazioni, dipende dai casi. Prendiamo il caso della Corea del Nord. Lì gli stati della zona, Russia, Corea del Sud, Cina e Giappone sono d'accordo nel seguire la via diplomatica, la via delle negoziazioni per ridurre la minaccia, che è reale, e per integrare in qualche modo di nuovo la Corea del Nord tra queste regioni, e questa è una mossa saggia. Anche Clinton si è mosso in questa diezione. Non le ha sviluppate ma le ha fatte. Hanno avuto un certo successo, e penso che il consens era giusto. Il modo di difendersi da tali minacce è prevenire la loro insorgenza. E ci sono molti modi di farlo, anche negli altri casi di cui abbiamo parlato. Nel caso dell'Iraq si trattava di un regime orribile. Ecco perché sono sempre stato contrario al fatto che gli Stati Uniti appoggiavano Saddam Hussein, ed ero anche contrario all'embargo che ha prevenuto una rivolta contro di lui, ma anche se era orribile, non costituiva una minaccia. Il Kuwait e l'Iran, che disprezzano Saddam Hussein che li ha invasi- non lo ritengono un pericolo, e a buon diritto. L'Iraq era lo stato più debole di quella zona. Le sue spese militari erano un terzo di quelle del Kuwait, che ha una popolazione inferiore del 10%. Era stato decimato dalle sanzioni, quasi disarmatoun posto orribile, ma non pericoloso. E' stata propaganda- una grottesca e orribile propaganda. Se vogliamo esaminare altri casi che possono costituire una reale fonte di preoccupazione, allora sì, però pianifichiamo qualcosa di appropriato. prendiamo ad esempio la minaccia del terrorismo. Questa è una minaccia reale e pericolosissima. La minaccia del terrorismo è stata resa maggiore dal comportamento dell'amministrazione Bush. Infatti organizzazioni terroristiche come AlQaeda sono diventate più temibili da quando si è cominciato a minacciare di invadere l'Iraq e poi si è invaso e questo si poteva immaginare, Si capisce perché. Lei è uno di quelli che cercano di sgonfiare questa propaganda con la quale lei sostiene che il governo USA stia influenzando la popolazione. Come reagisce la gente a qualcuno che parla male dell'attuale politica estera degli USA? Io spendo circa un'ora ogni notte scrivendo molto riluttantemente delle lettere in cui devo declinare inviti a tenere conferenze in tutto il paese, con un vasto pubblico, cose di tremendo interesse. Gli USA non sono diversi da altri paesi del mondo in questo campo. C'è grande paura e grande preoccupazione a proposito della politica che l'amministrazione Bush sta seguendo. Se si elimina l'elemento panico, che è stato indotto dalla propaganda, che è unica degli USA, allora l'opposizione alla guerra e alla strategia di sicurezza sono più o meno le stesse che altrove. Io ed altre persone che vogliono parlare pubblicamente siamo riempiti di inviti e richieste di discutere di questi problemi. Professor Noam Chomsky, scrittore, attivista politico e profesore di linguistica al Massachussets Institute of Technology, la ringrazio tantissimo di essere stato qui con noi. Grazie a voi e grazie ai nostri ascolatori Chomsky sull’anarchismo ... Archivio Web Noam Chomsky Chomsky su anarchismo, democrazia, marxismo e leninismo, capitalismo e il futuro Anarchismo ● ● ● Fui attratto dall’anarchismo da giovane teenager e da allora non ho avuto molte ragioni per rivedere quelle prime attitudini. Trovo sensato scoprire e identificare le strutture di autorità, gerarchia e dominazione in ogni aspetto della vita, e sfidarle; a meno che non possa essere data una giustificazione, esse sono strutture illegittime, e dovrebbero essere demolite, per incrementare la libertà umana. Queste strutture includono il potere politico, la proprietà, l’amministrazione, le relazioni tra uomini e donne, tra genitori e figli, il nostro controllo sul destino delle generazioni future e molto altro ancora. Naturalmente queste rimandano alle enormi istituzioni di coercizione e controllo: lo stato, le irresponsabili tirannie private che controllano la maggior parte dell’economia domestica e internazionale, e così via. Ma non solo questo. Ciò che io ho sempre compreso come l’essenza dell’anarchismo è la convinzione che l’onere della prova deve essere a carico dell’autorità, e che essa dovrebbe essere demolita se quell’onere non può essere affrontato. La cultura intellettuale generale associa anarchismo con caos, violenza, bombe, disgregazione, e così via. Così la gente è spesso sorpresa quando io parlo positivamente dell’anarchismo e identifico me stesso nelle sue tradizioni portanti. Ma la mia impressione è che anche fra il pubblico generale le idee base diventino ragionevoli, quando le nuvole si allontanano. Naturalmente, quando poi parliamo di materie specifiche (tipo la natura delle famiglie, o nel modo in cui un’economia funzionerebbe in una società più libera e giusta) sorgono le domande e le controversie. Ma è così che deve essere. La fisica non può realmente spiegare come l’acqua scorra dal rubinetto al lavandino. Quando noi ci giriamo verso più complesse e vaste questioni che riguardano il significato dell’umano, la comprensione è molto fievole, e c’è sempre abbondanza di spazio sia per il disaccordo e la sperimentazione, sia per l’esplorazione reale e intellettuale di possibilità che ci aiutino a capire di più. Un elemento importante è ciò che viene tradizionalmente chiamato “socialismo libertario”. Ho provato a definire ciò che io intendo con questo termine, sottolineando che esso è molto originale. Io ho preso le idee dagli individui trascinanti del movimento anarchico, che si definiscono socialisti, e che condannano duramente la “nuova classe” di intellettuali radicali che cercano di raggiungere il potere dello stato nel corso della lotta popolare, e diventare così la viziosa “burocrazia rossa” della quale Bakunin ci avvertì. Anche questo è spesso chiamato socialismo, ma io concordo piuttosto con le percezioni di Rudolf Rucker che le tendenze (centrali) nell’anarchismo si ricavano dal meglio dell’Illuminismo e dal pensiero liberale classico. Infatti, ho provato a dimostrare che le dottrine libertarie, che sono particolarmente file:///C|/Documents%20and%20Settings/Ragno/Document...0e%20leninismo,%20capitalismo%20e%20il%20futuro.html (1 di 4)01/12/2006 10.27.09 Chomsky sull’anarchismo ... alla moda negli Stati Uniti e in UK, contrastano distintamente con la dottrina e la pratica marxista-leninista e altre ideologie contemporanee, che mi sembra si riducano tutte ad una difesa dell’una o dell’altra forma di autorità illegittima, abbastanza spesso la reale tirannia. ● Se l’anarchismo potrebbe portare alla dittatura? Prima di tutto distinguiamo anarchismo da anarchia; io non sono a favore di quelli che vogliono fare tutto quello che sentono di fare. L’anarchismo, come io lo concepisco, è un sistema altamente democratico, è un sistema ed è organizzato e strutturato dal basso verso l’alto. Esso è organizzato attraverso l’associazione volontaria, l’accordo, la federazione – dovrebbe essere un sistema altamente strutturato. Ma deve sorgere dal coinvolgimento popolare. Dovrebbe essere un sistema in cui la gente è veramente responsabile. Democrazia ● La critica della democrazia fra gli anarchici è stata spesso una critica della democrazia parlamentare, come essa è sorta all’interno di società con caratteristiche profondamente repressive. Prendi gli Stati Uniti: la democrazia americana fu fondata sul principio, sottolineato da James Madison nella Constitutional Convention nel 1787, che la prima funzione del governo è difendere la minoranza degli opulenti dalla maggioranza. Egli avvertì che in Inghilterra, in cui c’era l’unico modello quasi democratico di governo a quei tempi, se alla popolazione veniva permessa una opinione negli affari pubblici, il governo avrebbe dovuto implementare la riforma agraria o altre atrocità; e che il sistema americano doveva essere attentamente astuto ad evitare tali crimini contro il diritto di proprietà, che deve essere difeso (infatti deve prevalere). La democrazia parlamentare all’interno di questa infrastruttura merita una chiara critica da parte dei genuini libertari, tralasciando molte altre ingegnose caratteristiche di questo tipo di democrazia– la schiavitù, per menzionarne una, o la schiavitù del lavoro salariato, che fu amaramente condannata dai lavoratori che nemmeno sentirono parlare di anarchismo o comunismo fino al 19° secolo, ed anche più in là. Marxismo e Leninismo ● ● Se si intende la sinistra come includente il bolscevismo, allora io vorrei nettamente dissociarmi dalla sinistra. Secondo la mia opinione, Lenin è stato uno dei più grandi nemici del socialismo, per le ragioni che ho discusso. Gli avvertimenti di Bakunin riguardo la rossa democrazia che avrebbe istituto il peggiore di tutti i governi dispotici furono detti molto prima di Lenin e furono diretti contro i seguaci di Mr. Marx. C’erano, tuttavia, seguaci di molti differenti tipi; Pannekoek, Luxembourg, Mattick e altri erano davvero lontani da Lenin, e le loro vedute convergevano spesso con elementi di anarco-sindacalismo. Infatti Korsch ed altri scrissero con simpatia della rivoluzione anarchica in Spagna. Ci sono continuità da Marx a Lenin, ma ci sono anche continuità con i marxisti che file:///C|/Documents%20and%20Settings/Ragno/Document...0e%20leninismo,%20capitalismo%20e%20il%20futuro.html (2 di 4)01/12/2006 10.27.09 Chomsky sull’anarchismo ... criticarono aspramente Lenin e il bolscevismo. Il lavoro di Teodor Shanin, negli anni passati, sulle ultime attitudini di Marx riguardo la rivoluzione dei contadini, è molto rilevante. Sono lontano dall’essere uno scolaro di Marx, e preferirei non avventurarmi su nessun giudizio serio sulle continuità che riflettono il “Marx reale”. La mia impressione, per ciò che conta, è che il primo Marx era davvero una figura del tardo Illuminismo, e che l’ultimo Marx era davvero un attivista altamente autoritario, ed un analista critico del capitalismo, che aveva poco da dire sulle alternative socialiste. Ma queste sono solo mie impressioni. Il futuro ● La mia risposta alla fine della tirannia sovietica fu simile alla mia reazione alla disfatta di Hitler e Mussolini. In tutti i casi è una vittoria per lo spirito umano. Dovrebbe essere particolarmente benvenuta ai socialisti, visto che un grande nemico del socialismo è finalmente collassato. Anch’io sono rimasto incuriosito nel vedere come la gente – compresa gente che si considerava anti-stalinista e anti-leninista – rimase demoralizzata per il collasso della tirannia. Ciò rivela che essi erano profondamente legati al leninismo più di quanto credevano. Capitalismo ● ● Ciò che è chiamato capitalismo è basilarmente un sistema di mercantilismo corporativo, con grandi e incalcolabili tirannie private che esercitano un vasto controllo sull’economia, il sistema politico, la vita sociale e culturale, e che operano in cooperazione con potenti stati che intervengono massivamente nell’economia domestica e nella società internazionale. Questo è drammaticamente vero per gli Stati Uniti, contrariamente alle illusioni. I ricchi ed i privilegiati non hanno più la volontà per fronteggiare la disciplina del mercato come hanno fatto in passato, sebbene essi la considerino giusta per la popolazione generale. Meramente per citare poche illustrazioni, l’amministrazione Reagan, la quale si dilettò nella retorica del libero mercato, si vantò anche con la comunità affaristica di essere l’amministrazione più protezionistica del dopoguerra negli Stati uniti– attualmente più di tutte le altre messe insieme. Newt Gingrich, che porta avanti la corrente crociata, rappresenta un distretto super ricco che riceve più sussidi federali di ogni altre regione suburbana nel paese, fuori delle stesso sistema federale. I conservatori che stanno chiedendo la sospensione dei pasti nelle scuole per gli studenti, stanno anche domandando un incremento del budget per il Pentagono, che fu stabilito nella sua forma corrente alla fine degli anni ’40, perché l’industria dell’alta tecnologia non può sopravvivere in una economia della libera impresa pura, competitiva e non sovvenzionata, e il governo deve essere il suo salvatore. Senza il salvatore, i costituenti di Gingrich sarebbero povera gente lavoratrice (se fossero fortunati). Non ci sarebbero computer, elettronica generale, industria dell’aviazione, metallurgia, automazione, eccetera. Ora più che mai le idee socialiste libertarie sono rilevanti, e la popolazione è molto aperta file:///C|/Documents%20and%20Settings/Ragno/Document...0e%20leninismo,%20capitalismo%20e%20il%20futuro.html (3 di 4)01/12/2006 10.27.09 Chomsky sull’anarchismo ... verso di esse. A dispetto della enorme massa di propaganda, al di fuori dei circoli colti, la gente mantiene abbastanza la propria tradizionale attitudine. Negli Stati Uniti, ad esempio, l’80% della gente vede il sistema economico come innatamente ingiusto e il sistema politico come una frode, che favorisce gli interessi speciali, non la gente. La maggioranza schiacciante della popolazione pensa che i lavoratori hanno troppa poca voce negli affari pubblici (la stessa cosa è vera anche per l’Inghilterra), che il governo ha la responsabilità di assistere la gente nei loro bisogni, che spendere per l’educazione e la salute ha la precedenza sui tagli al budget e alle tasse, che gli attuali propositi repubblicani che stanno navigando attraverso il congresso beneficiano il ricco e danneggiano la popolazione generale, e così via. Gli intellettuali possono raccontare una storia differente, ma non è molto difficile scoprire i fatti. ● questo brano è stato tratto dal sito (molto interessante) del Circolo Libertario E. Zapata di Pordenone - http://www.zapata.3000.it Archivio Noam Chomsky -- file:///C|/Documents%20and%20Settings/Ragno/Document...0e%20leninismo,%20capitalismo%20e%20il%20futuro.html (4 di 4)01/12/2006 10.27.09 rivista anarchica anno 30 n.268 dicembre 2000 - gennaio 2001 potere Come ti omologo i media di Noam Chomsky Ruolo, meccanismi e trabocchetti del sistema dei mass-media nell'analisi di Noam Chomsky, uno dei più acuti intellettuali "contro" negli Stati Uniti. Parte della ragione che mi porta a scrivere di mezzi di comunicazione è l'interesse che nutro per l'insieme della cultura intellettuale. Di questa, la parte più facile da studiare sono proprio i media. Escono tutti i giorni. Rendono possibile un'investigazione sistematica. Si possono confrontare le versioni di oggi con quelle di ieri. Si trovano le prove di come l'insieme è strutturato, e dei fattori in gioco. Studio i media come qualsiasi istituzione che voglio capire. Faccio domande sulla struttura interna. Cerco di sapere qualcosa sul loro posizionamento rispetto alla società: come si relazionano ad altri sistemi di potere e di autorità? Quando sono fortunato, trovo materiale interno al sistema dell'informazione che spiega come il tutto funziona (è una specie di sistema dottrinale). Non parlo dei resoconti forniti dalle pubbliche relazioni, ma di ciò che i direttori di quel sistema si dicono tra loro: c'è molta documentazione interessante al riguardo. Raccolta l'informazione sulla natura dei media, li si studia come uno scienziato studierebbe una molecola complessa. Si guarda la struttura, e si fanno ipotesi circa il prodotto di tale struttura. Poi si investiga il prodotto effettivo, e si osserva se e quanto sia conforme alle ipotesi. Il lavoro di analisi dei media si accontenta in genere di quest'ultima parte: cerca di studiare attentamente il prodotto per quello che è, verificandone la conformità a idee preconfezionate circa la struttura e la natura dei media. Bèh, che trovi? Primo, che ci sono media diversi, con ruoli diversi. Hollywood è intrattenimento, le soap operas, etc., nonché la maggioranza dei giornali e delle riviste negli Stati Uniti (la stragrande maggioranza), dirigono la massa del pubblico. Poi ci sono i mezzi d'informazione d'élite, quelli con le risorse maggiori, che disegnano lo schema entro il quale si muovono tutti gli altri. Il New York Times e la CBS, quel livello lì. Il loro bacino d'utenza è tra i privilegiati. Chi legge il New York Times è benestante, fa parte di quella che viene chiamata la classe politica, ed è attivamente coinvolto nel sistema politico. Sono generalmente dirigenti di qualcosa. Possono essere dirigenti politici, dirigenti economici, dirigenti accademici (come i professori universitari), o altri giornalisti, impegnati nell'organizzare il pensiero della gente e il loro modo di vedere le cose. I media d'élite disegnano lo schema entro cui operano gli altri. Seguendo l'Associated Press, che macina un flusso continuo di notizie, si legge ogni giorno, a metà pomeriggio, una "Nota agli Editori" che comincia così: "Il New York Times di domani avrà le seguenti storie in prima pagina." Lo scopo è questo: se l'editore di un giornale locale non ha le risorse per capire quali siano le notizie rilevanti, o non vuole pensarci, quella "Nota" gli dice quali notizie stampare, nei pochi spazi che il giornale non dedica alla cronaca locale o a divertire i lettori. Sono le storie che trovano spazio perché il New York Times dice che è di queste che dovremo interessarci domani. Il nostro editore di provincia dovrà più o meno adeguarsi, perché non ha molto altro in termini di risorse. Se esce da questa linea, se dà spazio a storie non gradite alla stampa nazionale, verranno presto a farglielo notare. Ci sono molti modi in cui i giochi di potere possono spingerti a tornare in linea. Se cerchi di spezzare lo stampo, non durerai a lungo. È uno schema che funziona abbastanza bene, ed è comprensibile in quanto riflesso dalle strutture del potere. I mezzi di comunicazione veramente di massa cercano sostanzialmente di divertire la gente (to divert: sviare). Che facciano altro! Non diano noie a noi (che organizziamo). Che si interessino di sport. Che tutti si strappino i capelli per le partite, per gli scandali sessuali, per le personalità e i loro problemi, cose così. Qualsiasi cosa, purché non seria. La roba seria è per i grandi. Ci pensiamo "Noi". I rapporti con il potere Come funzionano i media d'élite, quelli che decidono l'Ordine del Giorno? Il New York Times e la CBS, per esempio. Beh, prima di tutto, sono grosse imprese, con alti margini di profitto. La maggior parte di loro è collegata ad altre imprese, molto più grandi, come General Electric, Westinghouse, e simili, che a volte sono direttamente proprietarie di mezzi d'informazione. Qui siamo in cima alla struttura di potere dell'economia privata, che è una struttura tirannica. Le Corporations funzionano come tirannie gerarchiche controllate dall'alto. Se non ti piace quello che fanno, ti allontanano. I media maggiori sono una parte di quel sistema. Qual è la situazione istituzionale? Più o meno la stessa. I media interagiscono e si relazionano con gli altri centri di potere: il governo, le altre Corporations, le università. Se sei un reporter con una storia da scrivere sul sud-est asiatico o sull'Africa, o qualcosa del genere, ti manderanno alla grande università, dove un esperto ti dirà cosa scrivere. Oppure dovrai andare presso una fondazione, come la Brookings Institute o l'American Enterprise Institute, e là ti diranno quali parole scegliere. Queste istituzioni funzionano in modo simile ai media. Anche le università, negli Stati Uniti, non sono istituzioni indipendenti. Possono esserci individui indipendenti sparsi al loro interno, ma questo è vero anche per i media. Ed è generalmente vero per le imprese. È vero anche per le dittature, se è per questo. Ma l'istituzione in sé è parassita. Dipende da fonti di supporto esterne e quelle fonti, cioè il capitale privato, i fondi delle grandi imprese, e il governo (tanto intrinsecamente connesso con il potere delle Corporations da non poterlo quasi distinguere), delimitano il campo entro cui può operare l'università. Chi ci lavora e non si adatta alla struttura, e non l'accetta e non l'interiorizza (non puoi funzionare davvero se non la interiorizzi e non "credi"); chi non fa questo viene generalmente tolto di mezzo, a partire dall'asilo nido. C'è una varietà di sistemi di filtri per liberarsi di gente che rompe le scatole e pensa in modo non-dipendente. Chi è stato in un'università americana sa che il sistema educativo è molto impegnato nel promuovere la conformità e l'obbedienza, al di fuori delle quali lo studente viene trattato come un disturbo. Sono filtri che lasciano passare individui che onestamente (non mentono) interiorizzano il punto di vista del sistema di potere in cui vengono formati. Le università d'élite, come Harvard o Princeton, per esempio, lavorano molto sulla socializzazione. Buona parte di ciò che avviene là dentro insegna le buone maniere: come comportarsi come un membro delle classi agiate, come pensare i pensieri giusti, e così via. George Orwell scrisse La fattoria degli animali a metà degli anni '40. Era una satira sull'Unione Sovietica, uno stato totalitario. Un successone. Piacque a tutti. Poi si scopre che Orwell scrisse un'introduzione a La fattoria degli animali, soppressa a suo tempo, e pubblicata solo trent'anni dopo. Qualcuno l'aveva ritrovata tra i suoi manoscritti. L'introduzione trattava la questione de "La Censura Letteraria in Inghilterra" e diceva che ovviamente il racconto ridicolizzava l'Unione Sovietica e la sua struttura totalitaria. Ma spiegava che in Inghilterra le cose non andavano molto diversamente. Non abbiamo addosso il KGB, ma il risultato è simile. Individui con idee indipendenti, o che pensano i pensieri sbagliati, vengono tagliati fuori. Dice poco, due frasi appena, sulla struttura istituzionale. Chiede: perché succede questo? Ebbene: primo, perché la stampa è proprietà di persone facoltose che vogliono che solo certe notizie arrivino al pubblico. L'altra cosa che dice è che, attraversando il sistema educativo dell'élite, frequentando le giuste scuole a Oxford, si impara che ci sono cose delle quali non sta bene parlare, e pensieri che non è appropriato avere in testa. È il ruolo socializzante degli istituti d'élite e se non ti ci adatti, in genere, sei fuori. Quelle due frasi di Orwell spiegano bene la situazione. Quando critichi i media e dici, guardate, Anthony Lewis (editorialista del New York Times) ha detto questo e quest'altro, si arrabbiano molto. Dicono, e sono sinceri, frasi come "nessuno viene a dirmi come scrivere. Scrivo quello che mi pare. Tutto quest'affare di presunte pressioni e costrizioni è ridicolo perché nessuno esercita pressioni su di me." Il che è perfettamente vero, ma il punto è che questi editorialisti non sarebbero al loro posto, se non avessero dimostrato in passato di non aver bisogno di suggeritori: scrivono già da soli le cose "giuste". Lo stesso è vero dei cattedratici universitari per le facoltà più ideologiche. Hanno attraversato il sistema di socializzazione. Bene, abbiamo un'idea della struttura di quel sistema. A cosa somiglieranno le notizie? È quasi ovvio. Prendiamo il New York Times. È un'impresa che vende un prodotto. Il prodotto è l'audience. Non guadagnano vendendo giornali. Sono felici di metterli in rete sul world wide web, gratuitamente. In realtà ci perdono dalla vendita diretta. È il pubblico il loro prodotto. Il prodotto d'élite è il pubblico dei privilegiati, come gli editori stessi, coloro che nella società prendono le decisioni ad alti livelli. Il prodotto va venduto al mercato e il mercato, beninteso, è la pubblicità (ovvero, le altre imprese). Che si tratti di televisioni o giornali, o altro, è il pubblico che viene messo in vendita. Società private vendono pubblico ad altre società private. Nel caso dei media d'élite, si tratta di grossi affari. Cosa possiamo aspettarci? Cosa possiamo dedurre, dato l'insieme dei fattori in gioco? Quale potrebbe essere l'ipotesi zero, la congettura plausibile senza ulteriori speculazioni? L'ipotesi ovvia è che il prodotto dei mezzi di comunicazione, ciò che vi appare e ciò che ne scompare, e il modo in cui vengono presentati i fatti, rifletteranno gli interessi dei venditori e dei compratori, delle istituzioni, e dei sistemi di potere che li contornano. Se non fosse così, sarebbe una specie di miracolo. Qui viene il lavoro difficile. Ti chiedi se funziona davvero come previsto. E potrai giudicare da solo. Ci sono studi su questa ipotesi che hanno superato le verifiche più rigorose che si possano immaginare, e tuttora rimangono un punto di riferimento. Non si trovano quasi, nel campo delle scienze sociali , studi che supportino con altrettanta forza conclusioni diverse, e ciò non può sorprendere: sarebbe inspiegabile se l'ipotesi non reggesse, date le forze in gioco. A che servono le relazioni pubbliche Il passo successivo porta a scoprire che l'intero argomento è tabù. Presso le grandi scuole di giornalismo, e nelle più quotate facoltà di scienze della comunicazione, questi argomenti non fanno nemmeno parte del programma di studi. Anche questo rientra nelle previsioni. Tenendo a mente la struttura istituzionale è facile capire che quei signori non desiderino esporsi. Di nuovo, non si tratta di una censura consapevole. Semplicemente non si raggiungono certe posizioni, se non ci si lascia "socializzare", se non ci si addestra a rimuovere alcuni pensieri. Perché se ti vengono certi pensieri, non puoi stare lì. Possiamo quindi stabilire un secondo ordine di previsioni, che dice che il primo ordine di previsioni non è ammesso nelle discussioni. L'ultima cosa da analizzare è la cornice dottrinale in cui si muove il tutto. Ci si chiede se i dirigenti di alto livello nell'informazione, nella pubblicità, nelle facoltà di scienze politiche, etc., abbiano o meno un'idea di come dovrebbero andare le cose. Quando parlano in pubblico, sono parole e fuffa. Ma quando si scrivono tra loro, cosa dicono? Abbiamo tre correnti, alla base, da studiare. La prima è l'industria delle pubbliche relazioni, l'industria di propaganda del grande business. Cosa dicono i dirigenti delle PR? In secondo luogo si investigano gli "intellettuali pubblici", i grandi pensatori, quelli che scrivono gli editoriali d'opinione, o grossi libri sulla natura della democrazia, e simili. Cosa dicono? La terza corrente da osservare è il filone accademico, con speciale attenzione a quella parte delle scienze politiche che si occupa di informazione e comunicazione. Seguiamo queste tre correnti, vediamo cosa dicono, leggiamo ciò che i personaggi più rappresentativi del sistema dottrinale scrivono a questo proposito. Dicono tutti (cito, in parte) che la gente comune è "ignorante, estranea e impicciona." Dobbiamo lasciarli fuori dall'arena pubblica perché sono troppo stupidi, e se s'immischiano creano guai. La loro deve rimanere una posizione di "spettatori", mai di "partecipanti". Permettiamo loro di andare a votare ogni tanto, di scegliere uno di noi intelligentoni. Ma poi che se ne tornino a casa a guardare la partita, o quello che sia. Gli "ignoranti estranei e impiccioni" devono stare a guardare, non partecipare. A partecipare penseranno gli "uomini responsabili". Non ti chiedi mai che cosa fa di te un "uomo responsabile" e di un altro un carcerato. Eppure la risposta è semplice. È perché sei stato obbediente e subordinato al potere, e l'altro forse è stato indipendente. Naturalmente, non te la poni neanche, la domanda. Così abbiamo gli intelligentoni, cui spetta di condurre il gioco, e gli altri, cui spetta starne fuori, e non dovremmo soccombere (cito un articolo accademico) ai "dogmatismi democratici che dipingono l'uomo come il miglior giudice del proprio interesse". Non lo è. È un pessimo giudice del proprio interesse, ed è per questo che ci penseremo noi. Per il suo bene. Come si è evoluto tutto questo? La storia è interessante. Determinante fu la prima guerra mondiale, un vero punto di svolta. Cambiò la posizione degli Stati Uniti nel mondo. Nel 18esimo secolo gli USA erano già la nazione più ricca al mondo. La qualità della vita, la salute e la longevità furono raggiunte dalle classi agiate in Inghilterra solo agli inizi del 20simo secolo, per non parlare del resto del mondo. Gli USA erano straordinariamente ricchi, con vantaggi enormi, e, alla fine del 19esimo secolo, avevano di gran lunga l'economia più potente al mondo. Il loro ruolo sulla scena internazionale, al contrario, rimaneva marginale. Il potere statunitense si estendeva ai Caraibi e ad una parte del Pacifico, ma non molto di più. Durante la prima guerra mondiale, i rapporti di forza cambiarono. Dopo la seconda, gli Stati Uniti cominciarono più o meno a governare il mondo. Ma già dopo la prima vi fu un cambiamento significativo, e gli USA divennero creditori di quelle nazioni delle quali erano stati, prima, debitori. Non era ancora enorme, come la Gran Bretagna, ma cominciava ad assumere un ruolo primario tra i grandi protagonisti della scena mondiale. Fu un grosso cambiamento, e non fu l'unico. Durante la prima guerra mondiale, per la prima volta, vi fu una propaganda di stato organizzata. Gli inglesi avevano un Ministero dell'Informazione, e ne avevano un gran bisogno perché dovevano ad ogni costo trascinare gli USA in guerra, pena una probabile sconfitta. Il Ministero dell'Informazione era attivo soprattutto nel diffondere propaganda, incluse grossolane falsificazioni su presunte atrocità degli "Unni", e così via. Miravano agli intellettuali d'oltreoceano, presumendo (a ragione) che fossero i più suggestionabili e i più inclini a credere alla propaganda. Sono anche coloro che l'avrebbero poi disseminata nell'informazione. I documenti del Ministero Britannico dell'Informazione (molti dei quali sono oggi accessibili) spiegano che l'obbiettivo era il controllo del pensiero del pianeta, un obbiettivo minore, ma soprattutto degli Stati Uniti. Non si curavano molto di ciò che la gente potesse pensare in India. Negli USA, del resto, trovarono una controparte. Woodrow Wilson fu eletto nel 1916 con una piattaforma anti-interventista. Gli USA erano una nazione pacifista. Lo era sempre stata. La gente non vuole andare a combattere guerre all'estero. Il paese era contro la guerra e Wilson fu eletto proprio per la sua posizione contro l'intervento. "Pace senza vittoria" era il suo slogan. Ma aveva intenzione di andare in guerra. Si poneva quindi la questione: come trasformare un popolo pacifista in un branco di fanatici anti-tedeschi che bramino poi di andare a uccidere i tedeschi? Ci vuole propaganda. Venne così istituita la prima e in fondo l'unica grande agenzia per la propaganda di stato nella storia degli USA: La Commissione per l'Informazione Pubblica (bel nome orwelliano…), detta anche Commissione Creel, dal nome di chi la guidava. Il compito di questa commissione era quello di gettare la popolazione in un'isteria nazionalistica e belligerante. I risultati superarono le aspettative. Nel giro di pochi mesi ci fu una crescente isteria bellica e gli Stati Uniti poterono entrare in guerra. Molti osservatori rimasero impressionati dal successo dell'operazione. Un osservatore impressionato, e questo ha qualche rilevanza per ciò che accadde poi, fu Hitler. Nel Mein Kampf conclude, non a torto, che la Germania perse la prima guerra perché perse la battaglia della propaganda. Non era stata in grado nemmeno di cominciare a competere con la schiacciante propaganda britannica e americana. In futuro, scrisse Hitler, anche la Germania avrebbe istituito un sistema di propaganda, e così avvenne durante la seconda guerra mondiale. Sul fronte americano, a rimanere fortemente impressionata dai risultati della propaganda fu la classe imprenditoriale. Avevano un problema serio in quei tempi. La nazione diventava formalmente più democratica. C'era molta più gente che poteva votare, per esempio. Il paese si arricchiva, un numero crescente di soggetti partecipava alla vita economica, aumentava il flusso dell'immigrazione, e così via. La fabbrica del consenso Che fare? Diventa difficile gestire il paese come un circolo privato. Quindi, ovviamente, bisogna controllare il pensiero della gente. C'erano specialisti di pubbliche relazioni, a quel tempo, ma nessuna vera e propria industria di pubbliche relazioni. Si poteva trovare qualcuno per abbellire l'immagine pubblica di un Rockefeller, o cose del genere, ma questa gigantesca industria delle pubbliche relazioni, che è un'invenzione americana e un'industria mostruosa, nacque solo dopo la prima guerra. Ai livelli più alti di questa industria nascente troviamo i membri della Commissione Creel. Il più influente tra loro fu Edward Bernays, anche lui membro della Commissione. Bernays scrisse un libro, in quegli anni, intitolato Propaganda. Il termine "propaganda", sia detto per inciso, non aveva in quegli anni un'accezione negativa. Fu durante la seconda guerra mondiale che la parola divenne tabù, perché associata alla Germania e a tutte quelle cose brutte. Prima di allora significava solo informazione, o qualcosa del genere. Propaganda, il libro di Bernays, esce nel 1925, e comincia spiegando la lezione della Grande Guerra. Il sistema istituito durante la guerra, e il lavoro della Commissione Creel, dimostrano, scrive, che è possibile "irreggimentare la mente del pubblico così come l'esercito irreggimenta il corpo." Queste nuove tecniche d'"irreggimentazione" delle menti, prosegue, sono a disposizione della minoranza intelligente per assicurarsi che i bifolchi restino al loro posto. Ora possiamo farlo perché abbiamo messo a punto la tecnica. Questo è il manuale fondamentale dell'industria delle Relazioni Pubbliche. Un altro membro della Commissione Creel fu Walter Lippmann, la figura più autorevole del giornalismo americano per oltre mezzo secolo (e intendo il giornalismo serio, le teste pensanti). Scrisse, fra l'altro, dei Saggi Progressisti sulla Democrazia , "progressisti" perché considerati tali negli anni '20. Di nuovo, vediamo applicata molto esplicitamente la lezione del lavoro di propaganda. Dice che c'è un'arte nuova in democrazia, chiamata la fabbricazione del consenso. È una sua frase. Edward Herman e io l'abbiamo usata come titolo di un nostro libro (La Fabbrica del Consenso), ma viene da Lippmann. Che spiega questa nuova arte: fabbricando il consenso, è possibile aggirare il fatto che, formalmente, il diritto di voto venga esteso a molti. Possiamo rendere questo fattore irrilevante, perché ora siamo in grado di fabbricare il consenso. Siamo in grado di strutturare le loro scelte e i loro atteggiamenti, in modo che facciano sempre ciò che noi diciamo loro di fare, anche se formalmente potrebbero partecipare. Così avremo una reale democrazia. Funzionerà a dovere. È questa la lezione dell'agenzia per la propaganda. Le facoltà accademiche di scienze sociali e di scienze politiche nascono allo stesso modo. Il fondatore di quella che viene chiamata scienza delle comunicazioni è Harold Glasswell. La sua opera più importante fu la pubblicazione di uno saggio sulla propaganda. È lui che ha scritto, molto apertamente, le frasi che citavo prima, tra cui l'esortazione a non soccombere ai dogmatismi democratici. È tutta scienza politica accademica ufficiale. Anche i partiti politici impararono dall'esperienza di guerra, e in special modo i partiti conservatori britannici. I loro primi documenti interni, resi pubblici solo negli ultimi anni, dimostrano che anch'essi riconobbero i successi del Ministero Britannico dell'Informazione. Si rendevano conto che il sistema andava democratizzandosi e che non sarebbe stato più un club privato per soli uomini. Giunsero quindi alla conclusione che la politica doveva diventare guerra politica, applicando i meccanismi della propaganda, che era riuscita così bene, in guerra, a manipolare i pensieri della gente. Questo è l'aspetto dottrinale, che coincide con la struttura istituzionale. Rafforza l'ipotesi su come funzionerebbe il sistema. E le conferme abbondano. Ma queste conclusioni, poi, non trovano accesso al dibattimento pubblico. Il materiale che ho citato appartiene alla letteratura ufficiale, ormai, ma è accessibile solo a chi è all'interno del sistema. Nessuno, all'università, ti fa leggere i classici su come si controlla l'opinione pubblica. Così come nessuno ti farà leggere le parole che James Madison pronunciò davanti l'assemblea costituente, spiegando che il sistema nascente doveva avere come obbiettivo principale "proteggere la minoranza opulenta dalla maggioranza," e andava progettato per quella funzione. È il fondamento dell'assetto costitutivo della maggiore forza planetaria, per questo non lo studia nessuno. Anche un ricercatore universitario americano faticherebbe a rintracciarlo. Questo è il disegno, a grandi linee, di quello che vedo del sistema: le sue strutture istituzionali, le dottrine che lo sostengono, e i risultati che ne conseguono. C'è un'altra parte, diretta agli "ignoranti impiccioni." Consiste nell'utilizzare la diversione, il divertimento (to divert: sviare), in un modo o nell'altro. Da questo, penso, è facile prevedere quello che ci si può attendere. Noam Chomsky (traduzione di Stefano Guizzi; titolo originale "What Makes Mainstream Media Mainstream" da un colloquio allo Z. Media Institute, giugno 1997) "Si fa quello che diciamo noi" DOWNLOAD PDF La colonizzazione del Medio Oriente: le sue origini e il suo profilo di Noam Chomsky Ben più di un anno è trascorso dall'accordo tra Israele e Arafat del settembre del 1993, suggellato dalla Dichiarazione dei principi (Ddp). I firmatari hanno ricevuto i loro premi Nobel per la pace. Il significato sostanziale di ciò che hanno firmato si è fatto più chiaro nel tempo, man mano che le ambiguità si andavano diradando. E un buon momento per riflettere sull'accaduto e sul perché, e per chiederci quale sarà il probabile esito del "processo di pace". Presi alla lettera, i termini della Ddp aderiscono strettamente alle posizioni che Stati Uniti e Israele hanno sostenuto costantemente e, per oltre vent'anni, in isolamento praticamente totale. Gli Stati Uniti e i loro protetti-alleati che dominano la regione, interpretano i termini rigorosamente alla lettera, come mostrano successivi sviluppi - e la cosa non sorprende più di tanto se si considera che sono stati loro a fabbricare ad arte e imporre questi termini. Questa posizione si colloca all'interno di una più ampia concezione statunitense riguardo al modo in cui la regione andrebbe organizzata, concezione che risale alla seconda guerra mondiale. Pur avendo mantenuti fermi a lungo i propri principi, è stato solo in anni recenti che Washington ha potuto metterli effettivamente in pratica. Mi sembra questa la sostanza dell'attuale "processo di pace". La stessa espressione "processo di pace" è un orwellismo standard, impiegato acriticamente negli Stati Uniti e adottato in buona parte del mondo, data l'enorme influenza e potenza degli Usa. In pratica, il termine si riferisce a qualunque cosa la leadership degli Stati Uniti è impegnata a fare sul momento - che, spesso, consiste proprio nel minare il processo di pace nel senso letterale dell'espressione, come un analisi dei fatti rende piuttosto chiaro. La guerra del Golfo ha stabilito il dominio degli Stati Uniti nel Medio Oriente a un livello mai raggiunto prima, dando la possibilità a Washington di organizzare il "processo di pace" in accordo con le proprie linee guida, a partire dagli incontri di Madrid nell ottobre del 1991. E proprio da qui che bisognerebbe iniziare una seria analisi della recente attività diplomatica. Mentre bombe e missili piovevano su Baghdad e i soldati di leva iracheni si nascondevano nel deserto, George Bush annunciò orgogliosamente lo slogan del Nuovo Ordine Mondiale, in quattro semplici parole: "What We Say Goes", ossia "si fa quello che diciamo noi". "Quello che diciamo noi" venne presto esplicitato con non minore chiarezza quando le armi tacquero, e Bush torno alla vecchia prassi di prestare aiuto e sostegno a Saddam Hussein mentre quest'ultimo impietosamente soffocava le rivolte sciite e crude sotto gli occhi delle vittoriose forze alleate, che non si degnarono di alzare anche un solo dito. Il sostegno a Saddam era così estremo che il comando degli Stati Uniti non fu disposto nemmeno a concedere ai generali iracheni ribelli di impiegare gli armamenti sequestrati per difendere la popolazione dalla carneficina del dittatore. Un piano saudita per sostenere la rivolta degli indigeni sciiti venne rapidamente soffocato dall'amministrazione Bush. Il significato del Nuovo Ordine Mondiale non avrebbe potuto essere espresso in modo più chiaro. La reazione che gli è stata tributata getta anche luce sull'attuale stato della cultura occidentale: per lo più applausi per la politica dei nostri leader. Le ragioni della tollerante posizione di Washington nei confronti della carneficina vennero spiegate per grandi linee, all'epoca, da eminenti analisti: le atrocità di Saddam ci addoloravano, certamente, ma erano necessarie al fine della "stabilità" - altro utile termine del discorso politico, che va letto come "qualunque cosa sia nell'interesse del potere". La posizione ufficiale venne delineata da Thomas Friedman, allora capo corrispondente diplomatico del New York Times. Washington aveva sperato nel "migliore dei mondi possibili", spiego Friedman: "una giunta irachena dal pugno di ferro senza Saddam Hussein". Tale giunta avrebbe restaurato il precedente status quo, in cui il "pugno di ferro [di Saddam] [...] teneva unito l'Iraq, con grande soddisfazione degli alleati americani, Turchia e Arabia Saudita" - e, ovviamente, del boss a Washington. Ma questo auspicabile esito si era rivelato impraticabile, cosicché i padroni della regione avevano dovuto accontentarsi della seconda migliore alternativa a disposizione: lo stesso "pugno di ferro" al quale avevano dato forza mentre torturava i dissidenti e uccideva col gas i curdi, tutte cose perfettamente accettabili finché il criminale al potere si era attenuto agli ordini sulle questioni fondamentali. Solo pochi mesi prima che Saddam conquistasse il Kuwait, George Bush colse l'occasione della sua invasione di Panama per annunciare l'intenzione di sollevare il divieto sui prestiti all'Iraq, intenzione messa in pratica poco tempo dopo, per raggiungere l'"obiettivo di accrescere le esportazioni statunitensi e metterci in una migliore posizione per trattare con l'Iraq riguardo ai suoi precedenti in fatto di diritti umani [ ]" come spiego il Dipartimento di Stato imperturbabile alle ai suoi precedenti in fatto di diritti umani [...]", come spiego il Dipartimento di Stato imperturbabile alle poche interrogazioni provenienti dal Congresso. I principali media e i giornali di maggior diffusione trovarono l'intera faccenda indegna di essere commentata o perfino riportata. E' sicuro che non tutti considerarono la restaurazione della "Bestia di Baghdad" o di qualche suo accettabile clone come il "migliore dei mondi possibili": i dissidenti iracheni, per esempio. Ahmed Chalabi, banchiere residente a Londra, condanno aspramente la posizione di Washington: "gli Stati Uniti, coprendosi dietro alla foglia di fico della non interferenza negli affari iracheni, aspettano che Saddam massacri i rivoltosi nella speranza che egli possa in seguito venire rovesciato da un funzionario accettabile" - egli disse - un atteggiamento radicato nella prassi statunitense di "sostenere la dittatura per conservare la stabilità". Il popolo degli Stati Uniti venne tenuto all'oscuro di queste note discordanti, come era avvenuto durante la crisi. Le voci dei dissidenti iracheni potevano essere ascoltate solo dai lettori della poco diffusa stampa dissidente, che pubblicò ciò che si poteva apprendere dalle fonti estere, e da quanti parteciparono a convegni pubblici organizzati da gruppi di pace e giustizia, che offrirono ai leader dell'opposizione irachena in visita dall'Europa un foro ben disposto. Anche questi sono fatti sgraditi, e perciò riposti come al solito nel dimenticatoio in favore di una versione alquanto audace che capovolge completamente fatti facili da stabilire, una storia interessante sulla quale non starò qui a dilungarmi. I portavoce ufficiali degli Stati Uniti confermarono che l'amministrazione Bush non era intenzionata a parlare con i leader dell'opposizione: "Abbiamo reputato che un incontro politico con loro [...] non sarebbe al momento appropriato per la nostra linea", affermò il 14 marzo Richard Boucher, portavoce del Dipartimento di Stato. Il sistema dell'informazione ne convenne e continuò a bandire gli autentici dissidenti iracheni dai principali mezzi di informazione. Fu solo in aprile, ben dopo la fine delle ostilità, che il Wall Street Journal, - di questo gli va dato atto - ruppe i ranghi e offrì spazio a un portavoce dell'opposizione democratica irachena - sempre Chalabi - il quale descrisse la situazione che si era venuta a creare come "il peggiore dei mondi possibili" per il popolo iracheno, la cui tragedia è "spaventosa". Secondo la versione standard, tracciata per grandi linee, alcuni giorni dopo, da Alan Cowell, corrispondente dal Medio Oriente del New York Times, i ribelli avevano fallito perché "pochissime persone fuori dell'Iraq volevano che vincessero". Gli Stati Uniti e i "loro partner della coalizione araba" erano giunti a "una visione eccezionalmente unanime", spiegò: "qualsiasi siano le colpe del leader iracheno, egli offriva all'Occidente e alla regione una più consistente garanzia di stabilità per il suo paese di coloro che avevano subito la sua repressione". La conclusione è sostenibile se intendiamo escludere dal novero delle "persone" di cui parlava Cowell i dissidenti iracheni e la popolazione dei "partner della coalizione araba", almeno quella dell'Egitto, il solo paese abbastanza libero da permettere ad alcune di tali persone di far udire la propria voce. E' vero, tuttavia, che la "visione unanime" e condivisa dalle persone che contano: Washington, le redazioni dei notiziari e delle rubriche, e le dittature della regione. E' condivisa anche da Turchia e Israele, la prima preoccupata dalla propria popolazione curda sottoposta a brutale repressione, la seconda timorosa che l'autonomia curda in Iraq avrebbe potuto "creare una contiguità territoriale e militare tra Teheran e Damasco", venendo a costituire un potenziale "pericolo per Israele" (Mose Zak, caporedattore dell'importante quotidiano Ma'ariv, mentre spiegava per quale motivo parte dei vertici del comando militare e un ampio settore dell'opinione politica, compresi leader delle colombe, avessero accordato il loro sostegno a Saddam). Le preoccupazioni della Turchia hanno ricevuto qualche menzione, ma non la reazione di Israele, che contrasta troppo nettamente con l'immagine che si è voluta dare. Ora si è ammesso, per inciso, che quando il suo amico disobbediente invase il Kuwait, l'amministrazione Bush prevedeva che si sarebbe ritirato, lasciando al potere un regime fantoccio - ossia, una replica di quello che gli Stati Uniti avevano appena fatto a Panama. Certo, nessun parallelo storico e mai del tutto esatto. In un incontro ad alto livello immediatamente dopo che Saddam aveva invaso il Kuwait, il capo di stato maggiore, Colin Powell, espresse parere sfavorevole a proposito dell'intervento militare sulla base del fatto che il popolo americano "non vuole che i suoi giovani muoiano per avere il petrolio a 1 dollaro e mezzo". "Nei prossimi giorni l'Iraq si ritirerà", disse, lasciando "il suo fantoccio al potere. Tutti nel mondo arabo saranno contenti". Al contrario, quando Washington si ritirò parzialmente da Panama dopo aver messo il suo fantoccio al potere, molti furono tutt'altro che felici (nel sud del mondo). L'impresa criminosa di Washington a Panama suscitò grande rabbia in tutto l'emisfero, a tal punto che il regime fantoccio venne espulso dal Gruppo delle otto democrazie latinoamericane in quanto paese sottoposto a occupazione militare. Come osserva il latino americanista Stephen Ropp, Washington era pienamente consapevole del fatto "che rimuovere il manto della protezione americana avrebbe presto condotto al rovesciamento civile o militare di Endara e dei suoi sostenitori" vale a dire, il regime fantoccio di banchieri, uomini di affari e narcotrafficanti instaurato dall'invasione di Bush. Perfino la Commissione per i diritti umani di quello stesso governo ha denunciato la protratta violazione del diritto all'autodeterminazione e alla sovranità del popolo panamense attraverso lo "stato di occupazione da parte di un esercito straniero", quattro anni dopo l'invasione. A parte simili fatti (non riportati), l'analogia può sussistere - o, almeno, potrebbe sussistere, se fosse possibile spiegarla o anche solo parlarne attraverso i principali mezzi di informazione. Gli interessi di Washington spiegano perché ha dovuto bloccare ogni iniziativa che avrebbe potuto condurre a un ritiro negoziato iracheno, come in effetti ha fatto; e perché i mezzi di comunicazione internazionali hanno dovuto nascondere i fatti concernenti le opportunità di soluzione diplomatica, come in effetti hanno fatto, e con notevole efficienza, nonostante talvolta si sia ammesso tacitamente che i fatti erano noti. Vi è un'ampia letteratura critica riguardo al comportamento dei mezzi di informazione durante la guerra, ma anch'essa evita questo argomento, che evidentemente è quello cruciale. Quanto fosse importante tenere segreti i fatti diviene particolarmente chiaro quando scopriamo che alla vigilia del bombardamento la segreti i fatti diviene particolarmente chiaro quando scopriamo che alla vigilia del bombardamento, la popolazione americana, in proporzione di circa 2 a 1, era favorevole a un accordo basato sul ritiro delle truppe irachene in considerazione dei problemi della regione, non sapendo di una proposta irachena orientata in tal senso di qualche settimana prima, o del sommario rifiuto che essa aveva ricevuto a Washington. Sugli stessi standard si mantengono gli attuali studi accademici sulla vicenda, altra storia interessante che qui metterò da parte. In modo simile, gli archivi dei documenti sollevati dal segreto di Stato, pieni di informazioni in abbondanza sull'accaduto, vengono ignorati dagli studi accademici più ammirati come sono stati completamente ignorati dai media. Solo ai margini si trovano eccezioni allo schema. Sulla scorta del ben assimilato principio di Tacito secondo cui "il crimine una volta scoperto non ha altro rifugio se non la sfrontatezza", questo misero comportamento viene ora generalmente considerato un esempio di come il sistema democratico promuova un'accurata, deliberata e sobria divulgazione di tutti gli aspetti delle questioni cruciali prima che vengano prese decisioni importanti. La concezione strategica La guerra del Golfo ha avuto luogo sullo sfondo di importanti mutamenti nell'economia internazionale e nelle vicende mondiali che hanno offerto agli Stati Uniti l'opportunità di riorganizzare la parte del mondo che non aveva incontrato il suo gradimento dalla fine della seconda guerra mondiale. Tra le ceneri della catastrofe, gli Stati Uniti sono riusciti a espellere dall'emisfero i loro principali rivali, la Francia e la Gran Bretagna, e a mettere in pratica la dottrina Monroe. Negli anni novanta, in effetti, gli Stati Uniti sono finalmente riusciti a estendere l'applicazione della dottrina Monroe al Medio Oriente. Per comprendere quali siano le implicazioni di ciò per la regione, bisogna dissipare la nebbia dell'ideologia e vedere in che modo la dottrina veniva concretamente intesa dai suoi ideatori. Prendiamo solo l'amministrazione Woodrow Wilson, al culmine del suo "idealismo" in politica estera. La dottrina Monroe si basa sul "semplice egoismo", spiegò in privato il segretario di Stato Robert Lansing, e nel sostenerla gli Stati Uniti "badano ai propri interessi. L'integrità di altre nazioni americane è un caso fortuito, non un fine". Il presidente ne convenne, aggiungendo che sarebbe stato "imprudente" mettere il pubblico a parte del segreto. Questa applicazione dell'"idealismo wilsoniano" è semplicemente ragionevole, aggiunse il segretario degli interni, perché i latinoamericani sono "bimbi indisciplinati che si avvalgono di tutti i privilegi e diritti degli adulti", e questo loro comportamento richiede "una mano ferma, una mano autorevole". Acquisire il controllo unilaterale delle regioni medio orientali produttrici di petrolio non è un obiettivo di poco conto. Quando gli Stati Uniti divennero una vera e propria superpotenza negli anni quaranta, la leadership politica vide la regione come l'"area strategicamente più importante del mondo" (Eisenhower), "una enorme fonte di potere strategico, e uno dei maggiori obiettivi materiali della storia del mondo" oltre che "probabilmente il più ricco obiettivo del mondo nel campo degli investimenti stranieri" (Dipartimento di Stato, anni quaranta) un obiettivo che gli Stati Uniti intendevano tenere per sé e per il loro alleato britannico, nel Nuovo Ordine Mondiale che si andava allora dispiegando. Da allora, gli Stati Uniti si sono attenuti a una concezione strategica per la regione che avevano ereditato dal loro predecessore britannico. Il grande "obiettivo materiale" deve essere gestito da amministratori locali, dittature familiari deboli e dipendenti, disposte a fare ciò che gli si dice di fare. Tali dittature costituiscono quello che i pianificatori imperialisti britannici avevano chiamato la "facciata araba", edificata per consentire alla Gran Bretagna di governare dietro a varie "finzioni costituzionali" dopo aver concesso una garanzia di indipendenza nominale. Gli amministratori possono essere brutali e corrotti finché vogliono, a patto di svolgere la propria funzione. Sotto questo aspetto essi rientrano in una impressionante collezione di tiranni e assassini: i vari dittatori militari latinoamericani, Suharto, Marcos, Mobutu, Ceaucescu, e molti altri criminali alla stessa stregua. E' difficile immaginare un crimine che potrebbe farli espellere da questo club. Perfino Stalin venne trovato con le carte in regola. Truman stimava e ammirava l'"onesto" leader russo. La sua morte sarebbe stata una "autentica catastrofe", secondo Truman, il quale aggiungeva che avrebbe potuto "trattare con" Stalin fintantoché gli Stati Uniti avessero condiviso la sua strada l'85 per cento delle volte. Quello che Stalin faceva a casa sua non lo riguardava. Altri rispettati personaggi condividevano questo giudizio, compreso Churchill, il cui smaccato apprezzamento per il tiranno sanguinario proseguì nel 1945: "il premier Stalin era uomo di grande forza, nel quale riponeva la massima fiducia", spiegò Churchill al suo gabinetto dopo Yalta, esprimendo l'auspicio che il leader russo rimanesse al comando. Non c'è nulla di nuovo nel sostegno offerto ai mostri del Medio Oriente e nell'indifferenza per i crimini piu spaventosi se ciò contribuisce a perseguire i più elevati fini della "stabilità". Se non si comprendono queste persistenti caratteristiche della "diplomazia reale", quello che accade nel mondo è destinato a rimanere un mistero. La "facciata" va protetta dagli abitanti locali, che sono arretrati e incivili, e non sembrano cogliere le ragioni per le quali del "più ricco obiettivo economico del mondo" debbano giovarsi non loro, ma gli investitori occidentali. Di conseguenza, è necessario affidarsi a gendarmi locali per mantenere l'ordine; in momenti diversi, all'Iran, alla Turchia, al Pakistan, e ad altri ancora. La forza statunitense e britannica rimane sullo sfondo, ove necessario. Israele ricade nel secondo di questi livelli di controllo. Nei corridoi del potere, le idee fondamentali vengono intese abbastanza bene, anche se viene considerato sconveniente parlare in modo troppo schietto; così non ci appropriamo di risorse per noi stessi, ma piuttosto le sottraiamo a potenziali nemici, per autodifesa; indipendentemente dai fatti, noi e i nostri alleati p p ,p ; p , siamo impegnati in "controterrorismo" o "rappresaglia", non in "terrorismo", ecc. Tuttavia, una certa chiarezza emerge dalle nebbie. Molto impressionato dal successo militare di Israele nella guerra del 1948, lo Stato Maggiore descrisse il nuovo Stato come la principale potenza militare della regione dopo la Turchia, che offriva agli Stati Uniti lo strumento per "acquisire un vantaggio strategico nel Medio Oriente, che avrebbe controbilanciato il declino della potenza britannica nell'area". Dieci anni dopo, il Consiglio di sicurezza nazionale giunse alla conclusione che un "corollario logico" dell'opposizione al crescente nazionalismo arabo "consisterebbe nel sostenere Israele come unica forte potenza filo-occidentale in Medio Oriente". Durante gli anni sessanta, gli analisti statunitensi videro la potenza israeliana come una barriera alle minacce nasseriane alla "facciata", impressione confermata dalla distruzione della forza militare dell'Egitto da parte di Israele nel 1967. La tesi secondo cui Israele poteva servire da "risorsa strategica" per difendere gli interessi e gli alleati degli Stati Uniti dalle forze nazionaliste venne ulteriormente corroborata nel 1970, quando Israele parò quella che si profilava come una minaccia siriana al Regno di Giordania e potenzialmente ai produttori di petrolio. E l'impressione ando crescendo negli anni seguenti. La tesi della risorsa strategica trovò la sua collocazione naturale all'interno della Dottrina di Nixon, secondo la quale gli Stati Uniti non potevano "più interpretare il ruolo di poliziotto mondiale" e quindi "si attendevano che altre nazioni fornissero più di un poliziotto per perlustrare i propri quartieri" (ministro della difesa Melvin Laird). Il quartier generale della polizia - era inteso - rimaneva a Washington; gli altri dovevano perseguire i propri "interessi regionali" all interno del "quadro globale di ordine" amministrato dagli Stati Uniti, per riprendere il modo in cui Henry Kissinger spiegò il concetto generale agli europei, ammonendoli a non infrangere le regole. I due principali poliziotti incaricati di perlustrare il distretto medio orientale erano Israele e l'Iran, segretamente alleati. Gli studiosi parlano, in genere, di una "strategia dei "due pilastri" per il controllo statunitense, pensando a Iran e Arabia Saudita; che, invece, si sia trattato di una "strategia dei tre pilastri" e apparso chiaro almeno fin dagli anni settanta. Nel maggio del 1973, il principale specialista del Senato su petrolio e Medio Oriente, il falco democratico Henry Jackson, osservò che il dominio statunitense sulla regione è salvaguardato dalla "forza e dall'orientamento occidentale di Israele sul Mediterraneo e dell'Iran sul Golfo Persico", due "amici affidabili degli Stati Uniti". Questi amici "sono serviti a inibire e contenere quegli elementi irresponsabili e radicali di certi stati arabi che, se gliene fosse stata data la possibilita, avrebbero rappresentato in effetti una grave minaccia alle nostre principali fonti di petrolio nel Golfo Persico". All'epoca, gli Stati Uniti si servivano appena di queste fonti. Il maggiore produttore di petrolio del mondo fino al 1970 fu il Venezuela, che l'amministrazione Wilson aveva preso a controllare come un feudo privato mezzo secolo prima, espellendo la Gran Bretagna, altro esempio dell'"idealismo wilsoniano": in questo caso, della sua dedizione al principio della "porta aperta" e al principio di "autodeterminazione". Anche altre riserve dell'emisfero occidentale erano sostanziose. Ma la sorgente più economica e abbondante di petrolio del mondo, che si trovava appunto nella regione del Golfo, era necessaria come riserva e come leva per dominare il mondo, oltre che per l'ingente ricchezza che ne scaturiva, principalmente per gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Se i materiali di archivio venissero resi disponibili, avrebbero sicuramente molto di interessante da dire riguardo alle tacite relazioni intrattenute nel corso degli anni tra la facciata araba e i due principali gendarmi, con i quali era ufficialmente in guerra. Questo è del tutto improbabile in Arabia Saudita e negli Emirati del Golfo, e purtroppo meno probabile di quanto lo fosse un tempo negli Stati Uniti, dopo il passaggio a una censura molto più aspra sotto Reagan, che, a quanto pare, ancora permane; recenti scoperte effettuate dallo storico israeliano Benny Morris destano dubbi anche sugli archivi israeliani. Le relazioni segrete tra Israele e lo Scià sono state ampiamente rivelate, soprattutto in Israele. Non deve affatto sorprendere che dopo la caduta dello Scià, Israele e Arabia Saudita cominciarono istantaneamente a cooperare nella vendita di armi statunitensi all'esercito iraniano. Lo si è sostanzialmente ammesso in pubblico sin dal 1982. Si era agli stadi iniziali di quello che in seguito sarebbe divenuto noto come lo scandalo delle "armi in cambio di ostaggi", scoppiato quando non fu più possibile nascondere alcuni aspetti della vicenda. Non vi era alcun ostaggio quando ebbe inizio l'operazione statunitenseisraeliana-saudita, e alti funzionari israeliani furono abbastanza franchi nello spiegare quello che stava accadendo fin dai primi giorni: un tentativo di ispirare un colpo militare per restaurare il vecchio ordine. Del resto, si trattava solo di una "procedura operativa standard". Il modo abituale di rovesciare un governo civile e di stabilire relazioni con elementi militari, le persone incaricate di sbrigare il lavoro. Il progetto è talvolta coronato da successo; l'Indonesia e il Cile ne sono due esempi recenti. L'Iran si e rivelato un osso più duro. Vari agenti acquisiscono diritti a seconda del loro ruolo all'interno della generale concezione strategica. Gli Stati Uniti hanno diritti per definizione. Anche i poliziotti di ronda hanno diritti, a meno che non siano negligenti, nel qual caso, se agiscono in modo troppo indipendente, diventano nemici. Gli amministratori locali hanno diritti fintantoché badano ai propri affari. Se ci vuole un "pugno di ferro" per preservare la "stabilità", così sia. Gli abitanti dei bassifondi del Cairo o dei villaggi libanesi, e altri come loro, non hanno né ricchezza né potere, e quindi nessun diritto, per semplice conseguenza logica. Anche i loro interessi sono "un incidente, non un fine". Nel caso dei palestinesi, essi non solo non hanno diritti ma, peggio ancora, sono un fastidio; la loro infelice sorte è stata un agente irritante con effetto dirompente sull'opinione pubblica araba. Pertanto essi hanno diritti negativi, fatto che spiega molte cose. E' stato necessario incidere quell'ascesso in qualche maniera, con la violenza o in altro modo. L'idea di fondo e che se si riuscisse a sgombrare il campo dalla questione palestinese, dovrebbe essere possibile portare alla superficie le tacite relazioni tra le p q p , p p p parti dotate di diritti, ed estenderle, incorporando anche altri paesi in un sistema regionale dominato dagli Stati Uniti nell "area strategicamente [più] importante del mondo". Questa è sempre stata la logica essenziale del "processo di pace". Il quadro, stabile e durevole, non ci permette di dedurre con assoluta esattezza ciò che accade e probabilmente continuerà ad accadere; le faccende umane sono troppo complesse perché ciò sia possibile. Ma ci consente di arrivarci sorprendentemente vicino. Fino a poco tempo fa, non è stato possibile imporre appieno la concezione strategica guida, in parte a causa dei limiti del potere degli Stati Uniti, in parte in seguito a problemi determinati dall'impegno a conservare il ruolo cruciale di Israele come "risorsa strategica". Tale ruolo ha assunto maggiori proporzioni tra gli anni settanta e gli anni ottanta, andando ben al di la del Medio Oriente. Questa è stata una delle conseguenze delle iniziative intraprese dal Congresso a partire dai primi anni settanta per imporre condizioni concernenti i diritti umani sulle azioni dell esecutivo; tali iniziative sono uno dei più importanti effetti dei movimenti popolari degli anni sessanta, che modificarono in modo considerevole gli atteggiamenti e la percezione del grande pubblico nei confronti di un ampia gamma di questioni, con considerevole rammarico per l'opinione dell'élite'. I pianificatori ebbero bisogno di ricorrere sempre più spesso a dei surrogati. Per citare un solo illuminante esempio, quando John F. Kennedy decise di spedire la forza aerea statunitense a bombardare il Vietnam del sud, non vi fu un sussurro di protesta; ma quando i reaganiani cercarono di condurre operazioni simili in America centrale, scatenarono una pubblica rivolta, e dovettero limitarsi a massicce operazioni terroristiche clandestine. In un simile contesto, Israele venne ad assumere nuove funzioni. Perciò, quando le condizioni riguardanti i diritti umani stabilite dal Congresso impedirono al presidente Carter di spedire jet in Indonesia nel 1978, mentre le atrocità a Timor est raggiungevano il culmine, egli poté fare in modo che Israele inviasse jet statunitensi, che sarebbero giunti attraverso un canale libero. I maggiori contributi tuttavia, si ebbero in Africa e Sudamerica, specie da quando l'amministrazione Reagan creò una rete di terrorismo internazionale di imponenti dimensioni, comprendente neonazisti argentini, Taiwan, Sudafrica, Inghilterra, Arabia Saudita, Marocco e altri. Va ricordato che gli operatori di poco conto come Gheddafi ingaggiano terroristi, mentre i pezzi grossi preferiscono ricorrere direttamente a Stati terroristi. Sulla questione del ruolo centrale di Israele nella politica medio orientale degli Stati Uniti, vi è stato qualche dibattito interno. Ma per varie ragioni, non prive di interesse, la tesi della risorsa strategica si è trovata raramente a fronteggiare gravi minacce. Gli sparuti tentativi di discostarsi da tale tesi sono stati rapidamente soffocati, in gran parte in riconoscimento delle dimostrazioni di valore militare di Israele, che produssero una grande impressione non solo nei leader statunitensi ma anche in un vasto spettro dell opinione intellettuale. Queste sono alcune delle ragioni per le quali gli Stati Uniti hanno costantemente svilito o piegato gli sforzi diplomatici per risolvere il conflitto nel corso di oltre 20 anni. La maggior parte di tali iniziative avrebbero imposto un qualche riconoscimento dei diritti palestinesi, laddove Washington è ferma nel sostenere che i palestinesi non hanno alcun diritto che possa interferire col potere israeliano. Inoltre, queste iniziative avrebbero portato a un qualche tipo di coinvolgimento internazionale in un accordo; Washington è sempre stata riluttante ad accettare anche questo, nonostante si sia dimostrata disposta a fare un'eccezione per il suo "luogotenente" britannico, per mutuare l'espressione con la quale un influente consigliere di Kennedy spiegò in che modo andava inteso il "rapporto speciale" con l'importante partner. E' stato necessario "assicurarsi che gli europei e i giapponesi non venissero coinvolti nell'azione diplomatica in Medio Oriente", come spiego in privato Henry Kissinger. Le premesse fondamentali sono cosi profondamente radicate che sono entrate a far parte della stessa terminologia impiegata per inquadrare i problemi. Prendiamo il termine "negazionismo [rejectionism]", che qualora venisse impiegato in senso neutrale dovrebbe riferirsi alla negazione del diritto dell'autodeterminazione nazionale per l'uno o l'altro dei due gruppi che reclamano appunto tale diritto nella ex Palestina: gli abitanti indigeni e i coloni ebrei che li hanno gradualmente sostituiti. Ma il termine non viene impiegato a questo modo. Piuttosto, "negazionisti" sono coloro i quali negano i diritti di uno solo dei contendenti, vale a dire del popolo ebreo: alcuni elementi dell'Olp, il governo dell'Iran e qualcun altro. D'altro canto, quanti negano i diritti dei palestinesi (compresi i due maggiori gruppi politici di Israele, i due partiti politici statunitensi, tutti i governi israeliani e statunitensi, praticamente tutta l'opinione statunitense rappresentata nei mezzi di informazione) sono "moderati" o "pragmatici", perfino "colombe". E ancor più degno di nota, tuttavia, il fatto che, senza alcuna vergogna, le persone e le organizzazioni che vengono considerate "civili e libertarie" possano denunciare come "offensivo" l'"accostamento tra quegli israeliani che si oppongono alla creazione di uno Stato potenzialmente ostile al confine di Israele e quei palestinesi che tuttora propugnano la distruzione di Israele [...]" ossia, il confronto tra coloro che negano il diritto all autodeterminazione ai palestinesi e coloro che negano tale diritto agli ebrei israeliani. La consuetudine razzista è così saldamente radicata da passare inosservata e risulta incomprensibile quando la si fa notare. Come Orwell osservò nella sua trattazione della "censura [...] deliberata in Inghilterra", lo strumento più efficace e il "generale tacito accordo che "non starebbe bene" menzionare quel particolare fatto"; è compito di una decente istruzione inculcare gli atteggiamenti opportuni. E uno dei fatti che "non starebbe bene" menzionare, o addirittura pensare, e che gli Stati Uniti sono stati a lungo il leader del fronte della negazione. Vale la pena osservare come la guerra fredda sia stata per lo più una considerazione secondaria, circostanza talvolta ammessa nel dibattito interno. Così nel marzo del 1958, il segretario di Stato John Foster Dulles informò il Consiglio di sicurezza nazionale che né il comunismo né l'Unione Sovietica erano g coinvolti nelle tre maggiori crisi mondiali dell'epoca, tutte riguardanti il mondo islamico: il Medio Oriente, il Nordafrica e l'Indonesia. E quando uno dei presenti suggerì che altri avrebbero potuto lavorare per conto dei russi, il presidente Eisenhower fece "vigorosa obiezio- ne", rivela il documento. Non credo che ci sia nulla da aggiungere su questo punto; lo si sta cominciando ad ammettere, anche ufficialmente, dato che il pretesto non serve più ad alcuno scopo utile. La transizione è stata rapida. A 1989 inoltrato, gli Stati Uniti si stavano difendendo dalla globale aggressione comunista. Alla fine dell'anno, non era più questo ciò che stavano facendo (o che avevano mai fatto). Nel marzo del 1990, la Casa Bianca presentò il suo regolare rapporto al Congresso per spiegare perché il budget del Pentagono doveva venire mantenuto al suo colossale livello, il primo rapporto dopo la caduta del muro di Berlino nel novembre del 1989. La conclusione fu la solita, ma le ragioni stavolta furono differenti: la minaccia non era il Cremlino, ma la "tecnologia sempre più sofisticata" del terzo mondo. In particolare, gli Stati Uniti dovevano mantenere le proprie forze di intervento puntate sul Medio Oriente dato "l'affidamento che il mondo libero fa sulle riserve di energia che si trovano in questa regione chiave", dove le "minacce ai nostri interessi potrebbero non risiedere alle porte del Cremlino". Fatto questo che talvolta è stato riconosciuto negli ultimi anni, o anche prima, se è per questo, come nel 1958. 0 nel 1980, quando l'architetto della forza di intervento rapido (il futuro comando centrale) del presidente Carter, puntata principalmente sul Medio Oriente, testimoniò davanti al Congresso che l'impiego più probabile del dispiegamento militare non era quello di resistere a un attacco sovietico (estremamente poco plausibile), ma di occuparsi delle tensioni indigene e regionali: il "nazionalismo radicale" che ha rappresentato sempre una preoccupazione di primo piano. Ovviamente, nel Medio Oriente come altrove, i bersagli dell'attacco statunitense si rivolsero ai russi per cercare appoggio, cosa che il Cremlino fu talvolta disposto a offrire per ragioni puramente ciniche e opportunistiche. E la potenza sovietica ebbe un effetto deterrente, come i documenti ripetutamente mostrano. Ma a parte queste precisazioni, rimane vero che "le minacce ai nostri interessi potrebbero non risiedere alle porte del Cremlino". Nel 1991, Washington era nella condizione di raggiungere i suoi obiettivi strategici con poco riguardo per l'opinione mondiale. Non era più necessario minare tutte le iniziative diplomatiche, come Washington aveva fatto per 20 anni. L'Unione Sovietica era scomparsa, e con essa, lo spazio per il non allineamento, un fatto di grande importanza per le vicende mondiali, che ha ricevuto scarsa attenzione a occidente ma è stato accolto con non lieve apprensione nel terzo mondo. In una rivista cilena, il noto autore Mario Benedetti scrisse che "la combinazione dell indebolimento dell'Urss e della vittoria [statunitense] nel Golfo potrebbe rivelarsi tragica [per il sud] a causa della rottura dell equilibrio militare internazionale che in qualche modo serviva a contenere le smanie di dominio statunitense" e perché la provocazione lanciata allo sciovinismo razzista occidentale "potrebbe stimolare imprese imperialiste ancor più selvagge". Lo stato d'animo generale del sud venne fotografato dal cardinale brasiliano Paulo Evaristo Arns, il quale osservò come nelle nazioni arabe "il ricco si è schierato con il governo statunitense mentre i milioni di poveri hanno condannato questa aggressione militare". In tutto il terzo mondo "vi è odio e paura: quando decideranno di invaderci" e con quale pretesto? Se non in modo marginale, nulla di tutto ciò giunge all'occidente, sprofondato nel trionfalismo e nell'autocongratulazione. La maggior parte del terzo mondo era ad ogni modo piombata nel completo disordine, devastata dalla catastrofe del capitalismo degli anni ottanta. L'Europa ha fondamentalmente abdicato a qualsiasi ruolo nelle faccende del Medio Oriente, garantendo agli Stati Uniti il controllo pressoché totale che avevano a lungo agognato. La guerra del Golfo ha suggellato il patto, stabilendo che "si fa quello che diciamo noi" e mettendo in moto un genuino "processo di pace" - vale a dire un processo saldamente sottoposto al controllo unilaterale degli Stati Uniti. Lo "stallo" Ricapitolerò rapidamente le premesse della situazione, a partire dalla guerra del giugno 1967. L'esito della guerra fu estremamente gradito agli Stati Uniti, visto che venne meno l'influenza nasseriana nella regione (con grande sollievo della "facciata") e Israele assunse il controllo della sponda occidentale, di Gaza, degli altopiani del Golan e del Sinai. Ma la guerra aveva portato il mondo pericolosamente vicino a uno scontro tra superpotenze. Si temevano minacciose comunicazioni sulla "linea calda" tra Washington e Mosca. Il premier sovietico Kosygin a un certo punto ammonì il presidente Johnson che "se volete la guerra, guerra avrete", come riportò anni dopo il ministro della difesa Robert McNamara, aggiungendo la sua opinione che "siamo andati maledettamente vicini alla guerra" quando la flotta degli Stati Uniti "circondò una portaerei [sovietica] nel Mediterraneo"; egli non spiegò i dettagli, ma l'episodio probabilmente risaliva al periodo in cui Israele si impossessò degli altipiani siriani del Golan dopo il cessate il fuoco. Chiaramente bisognava fare qualcosa. Seguì un processo diplomatico, che condusse alla risoluzione numero 242 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che da allora ha costituito il quadro di riferimento diplomatico. Nonostante fosse stata deliberatamente formulata in modo vago nella speranza di ottenere l'adesione generale, vi sono pochi dubbi sul modo in cui la risoluzione venne interpretata dal Consiglio di sicurezza, compresi gli Stati Uniti: richiedeva una pace completa in cambio del completo ritiro israeliano, forse con qualche reciproco e minore aggiustamento. Che gli Stati Uniti sostenessero questo consenso internazionale emerge chiaramente dai documenti che sono stati divulgati, e in alcuni casi t l ti i t t i t i d l Di ti t di St t Q t i t t i d ll trapelati, compresa un importante ricostruzione del Dipartimento di Stato. Questa interpretazione della risoluzione 242 venne confermata pubblicamente nel piano Rogers del 1969 presentato dal segretario di Stato William Rogers e approvato dal presidente Nixon, nel quale si era sostenuto che "qualsiasi mutamento dei confini preesistenti non avrebbe dovuto riflettere la portata della conquista e avrebbe dovuto limitarsi a variazioni di poco conto necessarie per la mutua sicurezza". La 242 non venne attuata. Nonostante tutti avessero firmato, gli stati arabi rifiutarono di accordare una pace completa e Israele rifiutò di ritirarsi completamente. Notate che la 242 e piattamente negazionista: non offre nulla ai palestinesi, che vengono contemplati solo in relazione al problema dei rifugiati. L'impasse venne rotta nel febbraio del 1971, quando il presidente egiziano Sadat si unì al consenso internazionale, accettando la proposta del mediatore dell'Onu Gunnar Jarring per la pace completa con Israele in cambio del completo ritiro israeliano dal territorio egiziano. Israele accolse di buon grado la dichiarazione dell'Egitto "di essere pronto a intavolare un accordo di pace con Israele", ma lo rifiutò, affermando che "Israele non si ritirerà entro i confini precedenti al 5 giugno del 1967". Questa posizione e stata da allora sostenuta senza deviazioni da entrambi i raggruppamenti politici, le coalizioni basate rispettivamente sul partito laburista e sul Likud. Sadat, facendo propria la posizione ufficiale degli Stati Uniti, pose Washington di fronte a un dilemma: Washington avrebbe dovuto accettarla, lasciando così Israele da sola tra i principali attori dell opposizione? 0 gli Stati Uniti avrebbero dovuto cambiare politica unendosi a Israele nel loro riiiuto a tutt'oggi unilaterale delle disposizioni della 242 concernenti il ritiro Henry Kissinger preferì quest ultima alternativa, perorando la situazione di "stallo", sulla base di motivazioni così bizzarre che è stato necessario ignorarle, probabilmente a causa dell'imbarazzo; non è il solo caso del genere. Può darsi che la sua principale motivazione fosse quella di soppiantare il suo rivale William Rogers e assumere cosi la direzione del Dipartimento di Stato come stava per fare. La linea di Kissinger prevalse. Da allora gli Stati Uniti hanno negato non solo i diritti dei palestinesi (all'epoca, forti del consenso interno), ma anche le disposizioni di ritiro della risoluzione 242 così come erano intese dai suoi autori - compresi gli Stati Uniti, contrariamente alle invenzioni successive. Anche queste sono cose che "non starebbe bene" dire. Pertanto, l'intera vicenda è vietata: espulsa dalla storia. Nelle sue memorie, il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, allora ambasciatore di Israele a Washington, descrive l'accettazione della "famosa" proposta Jarring da parte di Sadat un "fulmine a ciel sereno", una "pietra miliare" sulla via della pace, per quanto inaccettabile perché rimaneva l'"impronta elusiva di Sadat", implicando un "nesso pregiudiziale" tra l'accordo di pace e il ritiro di Israele entro i confini precedenti al giugno del 1967 (in accordo con la 242, così come veniva intesa all'epoca al di fuori di Israele). Negli Stati Uniti, d altro canto, i fatti sono scomparsi. Vengono regolarmente ignorati dai giornalisti e dai commentatori dei principali mezzi di informazione, e abbastanza spesso anche nei lavori accademici. L'esempio più recente è la storia di Mark Tessler, che è più equilibrata della maggior parte delle altre. Nella sua estesa analisi dell'attività diplomatica, non si trova alcun cenno all'ufficiale offerta di pace da parte di Sadat e al rifiuto di Israele, ma una nota a pie' di pagina fa riferimento a un'intervista del 1971 nella quale Sadat informava il redattore di Neurstoeek Arnaud de Borchgrave "che l'Egitto era pronto a riconoscere Israele e a trattare la pace". De Borchgrave informò il primo ministro israeliano Golda Meir "che Sadat avrebbe presto ripetuto la sua offerta di pace all'inviato delle Nazioni Unite Gunnar Jarring", prosegue Tessler, ma la Meir "respinse l'apertura di Sadat". Questo è tutto per la "famosa pietra miliare". Pochi altri si sono anche solo avvicinati cosi tanto alla realtà. Il rifiuto della 242 da parte degli Stati Uniti su iniziativa di Kissinger cancellò la questione del ritiro dal "processo di pace". Il problema del negazionismo sorse alcuni anni dopo, quando il consenso internazionale si spostò verso una posizione non negazionista, condivisa anche dai maggiori stati arabi e dall'Olp. Il problema giunse all'apice quando il Consiglio di sicurezza discusse una risoluzione che incorporava il testo della risoluzione 242, ma aggiungeva una disposizione concernente uno Stato palestinese da fondare nella sponda occidentale e nella striscia di Gaza. La risoluzione venne sostenuta dagli "stati del conflitto" arabi (Egitto, Giordania, Siria) e dall'Olp, dall'Unione Sovietica, dall'Europa e dalla maggior parte del resto del mondo. Ad essa posero il veto gli Stati Uniti, che si erano ormai saldamente attestati a capo della frangia più estrema del Fronte della Negazione. Washington pose il suo veto a una risoluzione simile nel 1980. La questione passò allora all'Assemblea generale, che tenne votazioni annuali nelle quali gli Stati Uniti e Israele rimasero isolati all'opposizione (una volta sola in compagnia della Repubblica dominicana); un voto negativo degli Stati Uniti nell'Assemblea equivale a un veto, anche se gli Stati Uniti sono completamente soli, o quasi, come comunemente accade. L'ultima delle regolari votazioni annuali si tenne nel dicembre del 1990, 144-2. Un'altra risoluzione che appoggiava "Il diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione" venne presa in esame nel novembre del 1994 (124-2). Tutto questo è bandito dalla storia, di rado persino riportato, espulso dai documenti in favore di edificanti storie sugli sforzi americani tesi al raggiungimento della pace, contrastati da negazionisti arabi e altri cattivi personaggi, nel quadro, probabilmente, di un cosmico "scontro di civiltà". La votazione alle Nazioni Unite del 1990 avvenne poco prima della guerra del Golfo che pose gli Stati Uniti nella posizione di imporre, alla fine, la loro forma estrema di negazionismo. L'amministrazione Bush aveva riaffermato quei principi ben prima, nel piano Baker del dicembre del 1989, il quale non faceva altro che appoggiare il piano Shamir-Peres proposto dalla coalizione di governo israeliana nel maggio del 1989. Secondo il piano Shamir-Peres-Baker, gli Stati Uniti e Israele avrebbero selezionato certi palestinesi che avrebbero ricevuto il permesso di discutere l'"iniziativa di Israele", ma nient'altro. Il piano teoricamente era pubblico ma trovò un'eco immediata solo nella stampa dissidente oltre a essere trascurato o mal pubblico ma trovò un'eco immediata solo nella stampa dissidente, oltre a essere trascurato o mal rappresentato anche in buona parte dei migliori studi accademici. Si è parlato di una sola delle sue disposizioni, quella relativa alle elezioni, per illustrare ciò che la stampa talvolta definisce la "brama di democrazia" dei leader americani: una democrazia che dovrebbe essere realizzata tramite elezioni da tenersi sotto il controllo militare di Israele mentre buona parte del settore istruito della popolazione giace in prigione senza capi di imputazione. I termini cruciali del piano Shamir-Peres-Baker erano: 1) che non vi puo essere nessun "altro Stato palestinese nel distretto di Gaza e nell'area tra Israele e la Giordania" (es- sendo gia la Giordania uno "Stato palestinese"); e 2) che "Non vi può essere alcuna variazione nello status di Giudea, Samaria e Gaza [la sponda occidentale e la striscia di Gaza] se non in accordo con le linee guida essenziali del governo [israeliano]", le quali escludono l'autodeterminazione palestinese. E' importante tenere a mente che questa era la posizione ufficiale dell'amministrazione Bush, che viene regolarmente condannata per la sua aspra posizione anti-Israele. E' coerente con l'estremo negazionismo statunitense degli anni precedenti, ed è il contesto in cui si inquadra il "processo di pace" che l'amministrazione alla fine è riuscita a imporre dopo la guerra del Golfo. Tutto ciò è inaccettabile dal punto di vista dottrinale, e quindi inesprimibile se non addirittura inconcepibile nella cultura intellettuale estremamente disciplinata. I fatti non sono in discussione, ma sono sovversivi per il potere e così è necessario "uccidere la storia", per mutuare l'appropriato termine che viene usato per descrivere la regolare prassi dei commissari. Dai media, difficilmente provengono obiezioni - anche se alcuni degli eventi sono stati riportati fedelmente, compresi gli eventi del gennaio del 1976 che sono completamente spariti dalla storia ufficiale. Dal principio degli anni ottanta, la storia divenne semplicemente un'opera buffa, mentre i media dell'élite e la comunità intellettuale si battevano con crescente disperazione "per non vedere" i sempre più evidenti tentativi da parte dell'Olp di passare a un accordo negoziato - occultando anche il fatto, oggetto di ampio dibattito in Israele, che il principale proposito del devastante attacco israeliano in Libano nel 1982 era di minare la minaccia degli sforzi dell'Olp di negoziare un accordo politico. "La pace del vincitore": gli accordi di Oslo La Dichiarazione dei principi e i successivi accordi incorporano la versione estrema del negazionismo statunitense-israeliano. L'accordo finale si fonda unicamente sulla risoluzione 242, senza alcun riconoscimento dei diritti nazionali dei palestinesi. Fuori della porta rimane la posizione della maggior parte del resto del mondo: ossia, che accanto alla risoluzione 242, la quale riconosce solo i diritti degli Stati esistenti, andrebbero considerate anche le risoluzioni delle Nazioni Unite che si sono espresse a favore dei diritti palestinesi. Per quanto concerne la seconda questione principale, quella del ritiro, Stati Uniti e Israele sono stati chiari ed espliciti nell'affermare che il ritiro sarà parziale, nella misura che unilateralmente determineranno. L'esito è completamente in accordo con l'immutata posizione statunitense sul negazionismo e sul ritiro (su quest'ultimo salda sin dal 1971). Ricade anche all'interno della gamma delle varie proposte israeliane che si sono succedute negli anni, dal piano Allon del 1968 che rappresenta la proposta estrema delle colombe, al piano Shamir-Peres-Baker del 1989, e ai piani proposti dal rappresentante dell'estrema destra Ariel Sharon e dal partito laburista nel 1992, che a malapena differiscono. Anche tutto ciò e ben documentato e regolarmente riportato in modo corretto in Israele e in pubblicazioni alternative dissidenti negli Stati Uniti, ma pochi americani hanno potuto avere anche il minimo sentore dei fatti. Ormai, con l'Europa che ha sgombrato il campo, sembra di poter dire lo stesso dei cittadini europei, anche se, non avendo compiuto un'indagine accurata, lo dico con cautela. In questo contesto, non deve sorprendere granché che la Norvegia si sia prestata a fare da intermediario per l'accordo Israele-Arafat, che si è attenuto rigidamente al tradizionale negazionismo statunitense-israeliano. Per quanto concerne la ragione per la quale Israele ha deciso di rivolgersi al canale di negoziato di Oslo, escludendo gli Stati Uniti finché non è giunto il momento della fanfara (e dei soldi), può darsi che si temesse che un accordo con Clinton nei panni del mediatore non avrebbe avuto alcuna credibilità nel mondo arabo, alla luce dell'avvicinamento della sua amministrazione verso le posizioni dei falchi. Questo allontanamento da una lunga storia di sostegno alla meno estrema forma di negazionismo dei laburisti ha stupito i commentatori israeliani. Sembra che tale condotta sia da attribuire al falco australiano del Medio Oriente Martin Indyk e al Washington Institute for Near East Policy che egli ha fondato dopo aver lasciato l'Aipac, la lobby di Israele a Washington; l'istituto ha avuto un ruolo interessante nella stampa statunitense consentendo ai giornalisti di presentare la propaganda israeliana come un "mero resoconto dei fatti" formulato con le parole di "esperti" forniti dall'istituto. Un accordo, ovviamente, avviene tra due parti e, perciò, ci si deve anche chiedere perché Arafat ha accettato ciò che rappresentava una completa capitolazione di fronte alle richieste di Stati Uniti e Israele. La risposta più verosimile è che egli deve avervi intravisto l'ultima chance di mantenere la sua posizione di potere all'interno del movimento palestinese. L'Olp si è attirata il disprezzo di buona parte della popolazione dei territori per la sua corruzione e il suo assurdo atteggiamento, e dal 1993, l'opposizione ad Arafat e le istanze di democratizzazione dell'organizzazione avevano raggiunto livelli drammatici, riportati nella stampa israeliana e sicuramente noti alle autorità israeliane, che hanno intravisto la possibilità di siglare un tipo di accordo che avevano sempre desiderato. Come virtuale agente di Israele, Arafat ha potuto conservare il suo feudo, ottenendo anche in tal modo accesso a sostanziosi fondi. Da quanto è dato potuto conservare il suo feudo, ottenendo anche in tal modo accesso a sostanziosi fondi. Da quanto è dato sapere, sembra che sia stato questo a condurlo a Oslo. I piani di Sharon e dei laburisti del 1992, ora effettivamente fissati nella Dichiarazione dei principi, si basano sul principio al quale Israele ha aderito fermamente sin dal suo piano Allon del 1968: Israele deve essere in grado di controllare i territori nella misura che reputa utile, comprese le terre e le risorse utilizzabili (in particolare le riserve d'acqua della sponda occidentale, alle quali Israele attinge abbondantemente). I modi il cui il controllo andrebbe esercitato sono stati oggetto di un dibattito strategico che si e sviluppato nel corso degli anni, così come i confini che si desidera va dare alla "Grande Israele". Per quanto concerne la questione dei modi di controllo, la questione più dibattuta e stata quella di determinare se l'autorità vada divisa in termini territoriali o "funzionali", ove quest'ultimo aggettivo sta praticamente a prefigurare una situazione in cui Israele continuerebbe a controllare il territorio e l'autorità palestinese sarebbe responsabile dei palestinesi che si trovano all'interno di tale territorio. Dalla metà del 1995, Israele continua a rimanere attestata sulla posizione secondo cui può esservi tutt'al più una divisione "funzionale" dell'autorità almeno nel 1999: non vi sarà alcun fondamentale "trasferimento di sovranità" ai palestinesi, ha annunciato il ministro degli esteri Shimon Peres alla radio israeliana, e la maggior parte della terra della sponda occidentale rimarrà sotto il controllo dell'esercito israeliano durante tale periodo. Quanto ai confini, i programmi attuali indicano l'intenzione di includere all'interno della "Grande Israele" la Valle del Giordano, circa un terzo della striscia di Gaza, area circostante l'entità nebulosa e in rapida espansione della "Grande Gerusalemme", che si estende ormai a est fino a Gerico; e qualsiasi altra zona Israele scelga di annettersi con la benedizione (e il finanziamento) della superpotenza che la protegge. L'espansione della "Grande Gerusalemme" in effetti spacca la sponda occidentale in "cantoni" in accordo con il piano Sharon; un altro corridoio di accesso alla Giordania colonizzato da israeliani frammenta ulteriormente la regione. Quando la Dichiarazione dei principi venne annunciata, gli osservatori bene informati riconobbero che non offriva "nemmeno l'accenno di una soluzione al problema di fondo che esiste tra Israele e i palestinesi", né nel breve periodo né strada facendo (il giornalista israeliano Danny Rubinstein). Il suo significato operativo divenne ancora più chiaro dopo l'Accordo del Cairo del maggio 1994, col quale si assicurò che i territori amministrati da Arafat sarebbero rimasti "completamente nell'ovile economico di Israele", come osservò il Wall Street Journal, e che l'amministrazione militare sarebbe rimasta intatta in tutto fuorché nel nome. L'importanza dell'accordo venne immediatamente compresa in Israele. Meron Benvenisti, ex vice sindaco di Gerusalemme e capo del Data Base Project per la sponda occidentale, oltre a essere da molti anni uno dei più scaltri osservatori dell'informazione ufficiale israeliana, commentò che l'Accordo del Cairo, "a tal punto che è difficile credere ai propri occhi nel leggerlo, [...] garantisce all'amministrazione militare l'autorità esclusiva nella "legislazione, aggiudicazione, esecuzione politica"" e "responsabilità per l'esercizio di questi poteri in conformità col diritto internazionale" che gli Stati Uniti e Israele interpretano a proprio piacimento. "L'intero intricato sistema di ordinanze militari [...] conserverà la sua forza, a parte la facoltà di regolamentazione legislativa e quanti altri poteri Israele potrà espressamente garantire" ai palestinesi. I giudici israeliani conservano "poteri di veto su qualsiasi legislazione palestinese "che potrebbe mettere a repentaglio i principali interessi israeliani"", che hanno "la precedenza", e vengono interpretati come Stati Uniti e Israele preferiscono. Pur essendo subordinate alle decisioni di Israele su tutte le questioni di una certa importanza, alle autorità palestinesi viene garantito un dominio di loro esclusiva competenza: esse hanno "responsabilità esecutiva per qualsiasi cosa venga fatta o non fatta", il che significa che acconsentono a caricarsi i gravosi costi dei 28 anni di occupazione, dalla quale Israele ha tratto enorme profitto, e ad assumere una perdurante responsabilità per la sicurezza di Israele. Questo "accordo di resa", osserva Benvenisti, pone in atto le estremistiche proposte di Sharon del 1981 che a suo tempo erano state respinte dall'Egitto. Dopo un altro accordo Israele-Arafat, un anno dopo, Benvenisti ha commentato che "Arafat ancora una volta ha chinato il capo di fronte all'avversario infinitamente più forte". Egli ha rivisto i termini dell'accordo, che ha lasciato oltre metà della sponda occidentale "all'assoluto controllo israeliano" e ha rimandato la discussione dello status di un altro 40 per cento per diversi anni, durante i quali Israele potrà continuare a servirsi dell'aiuto statunitense per "fabbricare fatti" come di consueto. L'accordo, nota Benvenisti, rescinde la disposizione della Dichiarazione dei principi "secondo cui la sponda occidentale verrà considerata "un'unità territoriale, la cui integrità verrà preservata durante il periodo di interim"". Egli predice che poco cambierà rispetto al periodo dell'occupazione, se non che "il controllo israeliano diverrà meno diretto: invece di gestire gli affari in prima persona, gli "ufficiali di collegamento" israeliani li seguiranno tramite gli impiegati dell'Autorità palestinese". Come la Gran Bretagna durante il suo periodo d'oro, Israele continuerà a governare al riparo di "finzioni costituzionali". Di certo non c'è nessuna innovazione; si tratta dello schema tradizionale di conquista attuato dagli europei nella maggior parte del mondo. La situazione è ancora peggiore a Gaza, dove i servizi di sicurezza israeliani (Shabak) rimangono "una forza invisibile ma violenta, la cui oscura presenza si avverte costantemente, ed esercita un potere letale sulle vite degli abitanti di Gaza", riporta il corrispondente di Ha'aretz Amira Hass, aggiungendo che le autorità israeliane continuano a controllare anche l'economia. Dal 1991, osserva Graham Usher, Israele ha riconvertito la tradizionale produzione di frutta e verdura di Gaza alla produzione di piante ornamentali e fiori tramite varie misure coercitive, tra le quali le confische che hanno ridotto di quasi un terzo la terra da agrumi coltivabile. Lo scopo è solo in parte quello di sottrarre territorio di un certo valore al controllo arabo. Israele intende anche "assorbire l'urto del commercio di Gaza con altre economie, o meglio, custodirlo all'interno del commercio israeliano". L'esportazione di questi settori a monocoltura è nelle mani di imprenditori israeliani, e il bassissimo costo del lavoro nella demoralizzata striscia di Gaza permette agli d p d o a a , ba o o od a o o ad o a aa a d Ga a p ag imprenditori israeliani di mantenere i propri mercati europei in sostanziale attivo. Nell'estate del 1995, il 95 per cento della popolazione di Gaza era "imprigionata nella regione" dalla forza israeliana, riporta il gruppo israeliano per i diritti umani Tsevet'aza, con l'"economia strangolata" e le forze di sicurezza preposte a controllare il commercio, l'esportazione e le comunicazioni, spesso impegnate a "peggiorare le condizioni di vita dei palestinesi". In condizioni simili, pochi sono disposti a fronteggiare i rischi dell'investimento, almeno al di fuori dei parchi industriali messi su dai produttori israeliani per "sfruttare la poco costosa manodopera palestinese". Tsevet'aza riporta inoltre che Israele continua a negare agli investitori palestinesi la licenza di aprire piccoli impianti produttivi, e che i pescatori vengono tenuti a sei chilometri dalla costa, dove non vi è affatto pesce durante i mesi estivi. Le limitate risorse d acqua in questa regione molto arida vengono impiegate per l'intensiva agricoltura israeliana, persino i laghi artificiali di eleganti luoghi di villeggiatura, stando a quanto riportano i visitatori. Nel frattempo, le risorse di acqua erogate ai palestinesi di Gaza sono state ridotte della metà dopo gli accordi di Oslo, come ha scritto l'ispettore delle Nazioni Unite per i diritti umani Rene Felber in un rapporto aspramente critico sulle condizioni carcerarie e sulla politica idrica. Egli ha rassegnato le dimissioni poco tempo dopo, commentando che non ha senso redigere rapporti che vanno a finire in un cestino. Un anno dopo la Dichiarazione dei principi, il controllo di Israele sulla terra della sponda occidentale ha raggiunto il 75 per cento, in aumento rispetto al 65 per cento del periodo in cui sono stati firmati gli accordi. Anche l'insediamento e il "consolidamento" di colonie è proceduto a passo spedito, accanto alla costruzione di "strade di circonvallazione" che collegano le colonie ebraiche con Israele vera e propria, tagliando fuori i villaggi arabi che sono rimasti isolati l'uno dagli altri e dai centri urbani che Israele preferisce cedere all'amministrazione palestinese. I progetti autostradali sono immensi, con costi stimati intorno ai 400 milioni di dollari, secondo il segretario generale del partito laburista attualmente al governo. Lo scopo è di fornire ai coloni quella che si potrebbe chiamare "una strada dove non si è obbligati a vedere gli arabi attorno". I dettagli sono segreti, ma "le linee generali emergono dalle mappe dei coloni", riporta il corrispondente Barton Gellman, compreso il solito metodo di mettere "la forza della legge israeliana" al servizio di progetti "iniziati illegalmente dai coloni". Benvenisti descrive le strade come "fatti politici dotati di conseguenze a lungo termine" che rientrano nel piano di "suddividere le aree arabe in settori, di tramutare la sponda occidentale in un lager", nel quadro di "una pace del vincitore, di un diktat". I fondi governativi per le colonie dei territori occupati sono aumentati del 70 per cento nell'anno successivo alla Dichiarazione dei principi (1994), nonostante si partisse da un livello che era già elevato rispetto agli standard precedenti. Il sostegno ai coloni e così generoso che i loro standard di vita sono tra i più alti del paese. Gli annunci pubblicitari sui giornali "invitano gli ebrei di Tel Aviv e delle sue vicinanze a stabilirsi a Ma'aleh Ephraim" con vista sulla valle del Giordano e collegata a Gerusalemme da strade di circonvallazione, nell'ambito dello sviluppo che taglia praticamente in due la sponda occidentale. Gli annunci promettono piscine, enormi prati, e una genuina atmosfera agreste che vi assicurerà un'alta qualità di vita", con concessioni governative di 20.000 dollari per famiglia oltre a bassi tassi di interesse, sgravi fiscali e altri incentivi. Nel giugno del 1995 il sindaco della vicina Ma'aleh Adumin ha annunciato la costruzione di 6.000 nuove unità residenziali destinate ad accrescere più del doppio la popolazione della città portandola a cinquantamila anime negli anni a venire, accanto alla costruzione di viali, di negozi, di un nuovo municipio e di altri edifici. La rivista del partito laburista Daoar riporta che il governo Rabin ha conservato le priorità del governo di estrema destra Shamir che ha rimpiazzato; mentre fingeva di congelare le colonie, il partito laburista "le ha aiutate finanziariamente ancor più di quanto il governo Shamir abbia mai fatto", estendendo le colonie "ovunque nella sponda Occidentale, anche nei punti più provocatori", compresi gli insediamenti dei sostenitori (spesso americani) del rabbino (americano) Kahane, che è stato bandito dal sistema politico israeliano per aver invocato le leggi di Norimberga di Hitler e per altre scimmiottature dei nazisti. In seguito a tali misure, nell'anno successivo alla Dichiarazione dei principi la popolazione ebraica della sponda occidentale è cresciuta del 10 per cento, a Gaza del 20 per cento, secondo quanto riporta la stampa israeliana, un processo che prosegue e potrebbe accelerare. Il generale (in pensione) Shlomo Gazit, ex capo dello spionaggio militare e Amministratore della sponda occidentale, osserva che i programmi annunciati dal partito laburista sono mirati a raddoppiare la popolazione ebraica della sponda occidentale entro il "periodo di interim" di cinque anni a decorrere dagli accordi di Oslo. La Foundation for Middle East Peace a Washington, che pubblica regolari aggiornamenti, giunge alla conclusione che "i piani di costruzione del governo Rabin per le colonie della sponda occidentale e di Gerusalemme rivaleggiano con, e sotto alcuni aspetti sorpassano gli sforzi di costruzione coloniale del governo Shamir durante il 1989-92", con "una decisa intensificazione" prevista per gli anni a venire; il governo Shamir era stato in precedenza il più estremista nell'opporsi ai diritti palestinesi e nell'incoraggiare la presa dei territori da parte di Israele. Un piano recentemente annunciato "polverizza qualsiasi residua [illusione] palestinese che l'Accordo di Oslo possa portare ad un ritiro israeliano da importanti territori della sponda occidentale o che Gerusalemme est possa mai divenire una capitale palestinese", ha commentato nel gennaio del 1995 Danny Rubinstein, il veterano dei corrispondenti della sponda occidentale. Gli eventi successivi non fanno che rafforzare tale conclusione. A giugno, è stata fondata Ma'ale Yisrael, la 145' colonia nella sponda occidentale, contro gli ordini del governo ma con la sua acquiescenza. I coloni usano mezzi pesanti e esplosivi per costruire strade di accesso nei pressi di settori della sponda occidentale densamente popolati e attentamente pattugliati, ma il governo non ne sa nulla, come dicono i suoi portavoce alla stampa. Gli arabi vengono trattati in maniera alquanto differente se commettono reati simili, come quello di cercare di g q , q espandere il centro abitato sulla terra di loro proprietà (i permessi vengono raramente accordati). Da tutto ciò è escluso quello che sta avvenendo a Gerusalemme est e nei suoi dintorni, conquistati durante la guerra del 1967. "Dall'annessione di Gerusalemme est nel 1967", riporta il gruppo israeliano per i diritti umani B'Tselem, "il governo israeliano ha adottato una politica di sistematica e deliberata discriminazione nei confronti della popolazione palestinese della città in tutte le questioni attinenti all'esproprio di terre, alla pianificazione e alla costruzione", e in questo quadro rientra "il deliberato insediamento di ebrei in Gerusalemme est [che] è illegale secondo il diritto internazionale", ma accettabile per gli Stati Uniti, autorità suprema in virtù del loro potere. "L'estesa edificazione e gli enormi investimenti" da parte del governo "incoraggiano gli ebrei a insediarsi" nella zona est di Gerusalemme in precedenza araba, mentre le autorità "soffocano lo sviluppo e l'edificazione per la popolazione palestinese", come altrove nei territori e in Israele stessa. La maggior parte delle terre espropriate era di proprietà privata di arabi, riporta B'Tselem: secondo il ministro dell'integrazione israeliano Yair Tzaban: "Circa 38500 unita residenziali sono state costruite su questa terra per la popolazione ebraica ma nessuna per i palestinesi". Inoltre, "l'edificazione è stata ostacolata sulla maggior parte dell'area che rimane nelle mani dei palestinesi". "Solo il 14 per cento di tutto il territorio di Gerusalemme est è destinato allo sviluppo di centri residenziali palestinesi". "Zone verdi" vengono fissate come "un cinico mezzo nel quadro del tentativo di privare i palestinesi del diritto di costruire sulla loro terra e di preservare tali zone come luoghi per la futura costruzione a beneficio della popolazione ebraica"; dell'attuazione di tali piani si ha regolarmente notizia. La linea di condotta è stata ideata dal sindaco Teddy Kollek, oggetto di grande ammirazione ad occidente come personaggio di spicco per le sue doti democratiche e umanitarie. Il loro proposito, commenta Amir Cheshin, consigliere di Kollek sulle questioni arabe, era di "porre ostacoli nel processo di pianificazione nel settore arabo". "Non voglio dare [agli arabi] un senso di uguaglianza" ha spiegato Kollek, anche se sarebbe utile farlo "qui e li, dove non ci costa molto"; altrimenti "soffriremo". La commissione pianificatrice di Kollek ha anche consigliato di favorire lo sviluppo per gli arabi laddove abbia "un "effetto vetrina"", che "verrà visto da un gran numero di persone (residenti, turisti, ecc.)". Kollek ha spiegato ai mezzi di informazione israeliani nel 1990 che per gli arabi egli "non aveva coltivato nulla né costruito nulla", se non un sistema fognario che - egli si affrettò a rassicurare i suoi ascoltatori - non era mirato "al loro benessere, al loro agio>>, dove per "loro" si intendevano gli arabi di Gerusalemme. Piuttosto, "si erano verificati alcuni casi di colera [nei settori arabi], e gli ebrei avevano il timore di venire contagiati, perciò installammo le fogne e un sistema idrico per prevenire il colera". Sotto il successore di Kollek, il sindaco del Likud Ehud Olmert, il trattamento riservato agli arabi si è fatto considerevolmente più duro, stando alla stampa locale. Oltre a Gerusalemme est, alle colonie ebraiche, agli impianti militari e alla rete autostradale di circonvallazione, Israele continuerà a controllare le risorse idriche della sponda occidentale e "le terre pubbliche disabitate della sponda occidentale che ammontano a circa la metà del territorio della sponda occidentale", riporta Aluf Ben; il totale dei terreni pubblici ammonta a circa il 70 per cento dell'intero territorio della sponda occidentale, secondo quanto riporta la stampa israeliana. I terreni pubblici sono riservati all'uso da parte di ebrei; gli arabi della sponda occidentale sono confinati nei cantoni separati che sono stati loro assegnati. Queste restrizioni valgono anche per il 92 per cento dei terreni all'interno di Israele, attuate in vari modi per precludere ai cittadini israeliani arabi non solo quasi tutta la terra della loro nazione, ma anche i fondi per lo sviluppo. I contributi da parte degli americani destinati a realizzare tali obiettivi sono deducibili dalle tasse come donazioni in beneficenza, e perciò i costi vengono divisi tra i contribuenti in generale; è facile prevedere che programmi del governo per precludere agli ebrei il 92 per cento di New York e i normali servizi cittadini potrebbero ricevere un'accoglienza un po' differente. Come al solito, i fatti sono nelle mani di chi paga i conti. Israele ha sempre preferito trattare con la Giordania - lo "Stato palestinese" del piano Shamir-Peres-Baker - piuttosto che con i palestinesi; i due Stati hanno sempre avuto un comune interesse nel sopprimere il nazionalismo palestinese, e hanno cooperato a questo fine durante la guerra del 1948. In particolare, i piani statunitensi e israeliani favoriscono accordi per Gerusalemme e la valle del Giordano con la Giordania piuttosto che con l'amministrazione palestinese. In vista di tali obiettivi, una piccola parte del territorio della valle del Giordano è stata restituita alla Giordania con grande fanfara. Dobbiamo consultare la stampa israeliana per scoprire che il Fondo nazionale ebraico (Fne) aveva impiegato mezzi pesanti e qualche settimana di lavoro per "radere" il fertile manto superficiale della terra e trasferirlo nelle colonie ebraiche. L'esproprio della proprietà araba per gli insediamenti ebraici "pone problemi in relazione al processo di pace", ha comunicato al Consiglio di sicurezza Madeleine Albright, ambasciatore di Clinton presso le Nazioni Unite; ma "non crediamo che il Consiglio di sicurezza sia la sede appropriata dove discutere di questa azione" - che è stata completamente finanziata dal contribuente americano (compresa la costituzione del Fne, ufficialmente a scopi benefici), e non è stata discussa in nessun'altra sede. "Nel linguaggio di Washington, questo vuol dire che gli Stati Uniti porranno il veto a qualsiasi risoluzione su Gerusalemme che sia "ostile" a Israele", osserva il corrispondente Graham Usher. Si tratta della prassi tradizionale; come la Corte mondiale e altre istituzioni internazionali, le Nazioni Unite fanno quello che vogliono gli Stati Uniti o vengono sciolte; e l'espansione israeliana a spese dei palestinesi è una tradizionale politica statunitense che sta raggiungendo nuovi apici sotto Clinton. Terrore e punizione La Dichiarazione dei principi inizialmente suscitò grandi speranze, perfino euforia, tra i palestinesi. Questo è ibil d i di ff di l tt l i ti ll'I tif d h è comprensibile dopo anni di sofferenza e di lotta culminati nell'Intifada, che venne repressa con straordinaria crudeltà. Ma non è mai una buona idea farsi sedurre dalla retorica dell'esaltazione e dalla speranza disperata invece di attenersi ai fatti concernenti il potere e, nel caso specifico, al testo letterale dei documenti formulato dai vincitori. Com'era inevitabile, la dura realtà ha progressivamente spazzato via gli entusiasmi iniziali. Una conseguenza è stata l'insorgere del terrorismo, che ha modificato il tradizionale schema nel quale le vittime erano in maggioranza arabe. I fatti sono difficili da stabilire, dal momento che l'uccisione dei palestinesi, o altre atrocità e violenze nei loro confronti, ricevono poca attenzione, e, di certo, non ricevono l'imponente copertura e l'appassionata denuncia della "folle strage" (New York Times) che si hanno quando le vittime sono ebrei israeliani. Scegliendo praticamente a caso, i redattori del Times e di altre riviste, non hanno espresso alcuna "ripugnanza e sdegno", né hanno visto alcun bisogno di riportare almeno i fatti, quando le squadre della morte fondate nel 1989 sono tornate a colpire, uccidendo solo nella prima settimana del 1995 sette persone, quattro nel villaggio di Beit Liqya; un'altra venne salvata dal coraggioso intervento dell'attivista per i diritti umani palestinese Hanan Ahrawi, ex membro del gruppo di negoziato dell'Olp. Una rara notizia nella stampa statunitense riporta che negli anni successivi alla firma degli accordi "sono morti 187 palestinesi principalmente per mano di una Forza di difesa israeliana (Fdi) sempre più tesa, gravata dal peso della responsabilità di proteggere i coloni ebrei", a fronte di 93 israeliani; a maggio del 1995 il numero era salito a 124 israeliani e 204 palestinesi, "un numero di vittime inferiore agli anni precedenti". Il gruppo fondamentalista islamico Hamas, considerato il principale agente del terrorismo antiebraico, ha proposto negoziati per allontanare i civili dal centro della guerra e delle violenza", riporta la stampa israeliana, ma il primo ministro Rabin ha respinto l'offerta sulla base del fatto che "Hamas è il nemico della pace e il solo modo di trattare con loro è una guerra di sterminio". Anche le atrocità israeliane in Libano passano regolarmente sotto silenzio negli Stati Uniti. Più di 100 libanesi sono stati uccisi dall'esercito israeliano o dai suoi mercenari dell'esercito del Libano del sud nella prima metà del 1995, riporta l'Economist di Londra, a fronte dei sei soldati israeliani caduti in Libano. Le forze israeliane usano armi terribili, compresi granate antipersona che si frantumano in schegge di metallo (talvolta granate a azione ritardata in modo da portare al massimo livello il terrore), che hanno ucciso due bambini nel luglio del 1995, altri quattro nella stessa città alcuni mesi prima e altri sette a Nabatiye, dove "nessun giornalista straniero si è casualmente trovato" a descrivere le atrocità, come ha riferito Robert Fisk. Di solito si hanno delle menzioni occasionali nel contesto di articoli che denunciano le azioni terroristiche di rappresaglia degli Hezbollah nei confronti degli israeliani. A prescindere dall'identità delle vittime, la reazione delle autorità militari è invariabilmente la stessa: punire i palestinesi. L'esempio più drammatico si è avuto a Hebron dopo il massacro di 29 palestinesi nella moschea di Ibrahim nel febbraio del 1994 da parte del colono di Hebron Baruch Goldstein, un immigrato americano, al pari della gran parte della frangia estrema, di temperamento neonazista, come i commentatori israeliani regolarmente osservano. Dopo il massacro, "l'occupazione israeliana raddoppiò l'oppressione" dei palestinesi, ha riportato un anno dopo Ori Nir. Nuove misure di sicurezza "per proteggere i coloni ebrei dalla vendetta" divennero permanenti, con le strade principali chiuse e il mercato, un tempo centro regionale e base dell'economia di Hebron, distrutto. Il mercato è stato chiuso perché si trova nei pressi dell'insediamento di 50 famiglie ebraiche in questa città di 120.000 palestinesi, e "i coloni erano soliti rovesciare i chioschi in scorribande, finché le autorità militari israeliane si stufarono di trovarsi in mezzo a tumulti e si limitarono a chiudere il mercato", riporta il corrispondente Gideon Levy: "Ora i negozi sono chiusi e l'ingresso nella strada è consentito solo agli ebrei", compresi quelli che "vanno al mercato con cani feroci per intimidire i palestinesi", scagliano pietre contro di loro mentre marciano attraverso le zone palestinesi "armati e pronti ad entrare in azione" durante le settimanali scorribande del sabato sera, o chiariscono chi è che comanda in altri modi, con l'acquiescenza delle forze di sicurezza. Gli autobus degli arabi sono banditi dalla città, continua Nit, mentre quelli usati dalla esigua minoranza dei coloni ebrei si muovono liberamente. Per gli arabi, la "folle realtà" posta dalla forza militare "subordina le loro vite agli interessi dei coloni". La vita per loro è divenuta "un incubo" con la distruzione dell'economia e la costante violenza da parte dei coloni che tengono incatenati dei cani per sbarrare loro il passaggio, dipingono sulle loro case stelle di David slogan come "Fuori gli arabi", "Morte agli arabi", "Lunga vita a Baruch Goldstein" e perpetrano umiliazioni arbitrarie o anche di peggio mentre le forze di sicurezza girano lo sguardo dall'altra parte. Si fanno vedere, aggiunge il corrispondente Ran Kislev, ma solo quando gli arabi "cercano di difendere la loro proprietà" a Hebron o nei villaggi circostanti. Con la normale conseguenza "che numerosi arabi vengono feriti e ancor di più imprigionati". La punizione forse più severa è il coprifuoco che segue regolarmente a ogni tumulto, a prescindere da chi ne sia responsabile. Dopo il massacro di Goldstein nella moschea (la Grotta dei patriarchi), il confino degli arabi per lunghi periodi tramite virtuali (spesso reali) arresti domiciliari divenne una routine, attuata talvolta in un modo che rivela la sgradevole realtà più efficacemente delle regolari atrocità. Durante le vacanze della Pasqua ebraica nel 1995, per esempio, un coprifuoco ininterrotto venne imposto ai 120.000 palestinesi di Hebron affinché i pochi coloni e i 35.000 visitatori ebrei giunti a Hebron con pullman noleggiati potessero fare picnic e spostarsi liberamente per la città, danzando per le strade, intonando pubbliche preghiere per abbattere "il governo della sinistra", ponendo la prima pietra di un nuovo edificio residenziale, e indulgendo in altri piacevoli occupazioni sotto lo sguardo attento di uno straordinario dispiegamento di forze militari. "La celebrazione è stata conclusa", riporta Yacov Ben Efrat, "da coloni che hanno imperversato per la città vecchia, distruggendo proprietà e infrangendo finestrini delle macchine [...] in una città magicamente ripulita [...] dai palestinesi", cogliendo l'occasione "per insultare i palestinesi imprigionati nelle loro case e per lanciare loro dei sassi se osavano sbirciare dalla finestra gli ebrei che f t i ll l ittà" (I l Sh h k) "B bi i it i i i di f tt i i i ti festeggiavano nella loro città" (Israel Shahak). "Bambini, genitori e anziani vengono di fatto imprigionati per giorni nelle loro case, che nella maggior parte dei casi sono gravemente sovraffollate", riporta Levy, e non possono far altro che accendere i propri apparecchi televisivi per "osservare una colona che annuncia gioiosamente, "c'è un coprifuoco, grazie a Dio "", e ascoltare le "allegre danze dei coloni", le "processioni festive", alcune alla "Grotta dei patriarchi aperta solo agli ebrei". Nel frattempo "il commercio, le professioni, gli studi, la famiglia, l'amore - tutto si interrompe bruscamente", e il "sistema medico è rimasto paralizzato" di modo che "molte persone malate a Hebron non hanno potuto raggiungere gli ospedali durante il coprifuoco e donne che stavano partorendo non sono riuscite a giungere in tempo alle cliniche". I coprifuoco protratti nel tempo impongono grandi sofferenze, talvolta letteralmente la fame, a una popolazione che per sopravvivere è stata costretta a dipendere da un lavoro servile in terra d Israele, svolto in condizioni terribili che sono state condannate per anni dalla stampa israeliana con pittoresche descrizioni. Il solo studio accademico comparativo giunge alla conclusione che "la situazione di arabi non cittadini in Israele è peggiore rispetto a quella di non lavoratori stranieri in altri paesi", dei lavoratori emigrati negli Stati Uniti, dei "lavoratori ospiti" in Europa, ecc. Ma questi erano i bei vecchi tempi. Ora i palestinesi sono progressivamente sostituiti da lavoratori provenienti da Thailandia, Filippine, Romania e altre nazioni dove le persone versano nella miseria. Il ministero del lavoro ha riportato oltre 70.000 lavoratori stranieri registrati dal marzo del 1995, mentre solo 18.000 permessi di ingresso sono stati garantiti a palestinesi dei territori, in confronto ai 70.000 di un anno prima. Alcuni giornalisti riferiscono che, accanto a decine di migliaia di emigranti illegali, essi subiscono "orari di lavoro inumani e detrazioni della paga con vari pretesti", con "uomini venduti come schiavi da un padrone all'altro" e "donne che subiscono gravi molestie sessuali e hanno paura di fiatare", sapendo che la minima protesta può condurre all'espulsione. Queste "persone silenziose e lavoratrici in molti casi vivono in condizioni subumane", scrive il redattore di Ha aretz, "e sono spesso soggette all'oppressione da parte dei loro datori di lavoro". Vengono tenuti isolati e senza diritti, vita familiare o sicurezza. La loro condizione "sarebbe la più stretta approssimazione alla schiavitù" se alla base non vi fosse un "contratto consensuale" reso possibile dalle condizioni create dal "capitalismo reale" in buona parte del mondo. La soluzione "Thai" preannunzia ulteriori disastri per i palestinesi, egli ammonisce, con pericolose conseguenze anche per Israele. I coprifuoco e le chiusure "hanno devastato l'economia palestinese distruggendo 100.000 famiglie nella sola Gaza", riporta Nadav Ha'etzni. Il "trauma" può essere accostato solo all'espropriazione e espulsione in massa dei palestinesi nel 1948. Dato che la manodopera importata in stato di semi schiavitù preclude alla forza lavoro palestinese l'unico impiego che le era stato concesso, "gli accordi di Oslo hanno creato un Medio Oriente veramente nuovo", egli scrive. Programmi e piani di sviluppo Sotto l'occupazione israeliana, lo sviluppo sensato nei territori è stato bandito. Un'ordinanza ufficiale del ministero della difesa di Israele ha dichiarato che "non verrà concesso alcun permesso per espandere l'agricoltura e l'industria che possa generare competizione con lo Stato di Israele". Lo strumento è familiare alla prassi americana e dell'imperialismo occidentale in genere, che comunemente contemplava regioni di servizio "complementari" ma non lo "sviluppo competitivo" - ragion per cui l'America latina è un'area così disastrata al pari dell'India, dell'Egitto e di altre regioni sotto il controllo occidentale. Nonostante la barriera posta da Israele allo sviluppo nei territori fosse nota, la sua entità apparve sorprendente persino agli occhi del più informato degli osservatori quando fu possibile visitare la Giordania dopo gli accordi di pace. Il confronto è particolarmente opportuno, osserva Danny Rubinstein, dal momento che la popolazione palestinese è più o meno numericamente equivalente sui due lati del Giordano, e la sponda occidentale era in una certa misura più sviluppata prima della conquista israeliana nel 1967. Dopo essersi occupato con bravura per anni dei territori occupati, Rubinstein era ben consapevole che l'amministrazione israeliana "aveva deliberatamente peggiorato 1e condizioni in cui i palestinesi dei territori dovevano vivere". Nondimeno egli rimase scioccato e rattristato nello scoprire la sbalorditiva verità. "Nonostante la Giordania abbia un economia instabile e appartenga al terzo mondo", egli trovò che "il suo tasso di sviluppo è molto superiore a quello della sponda occidentale per non parlare di Gaza", amministrate da una società ricchissima che si avvale di aiuti stranieri senza pari. Mentre Israele ha costruito strade solo per i coloni ebrei, "in Giordania la gente guida su nuove autostrade a multiple corsie, ben attrezzate con ponti e intersezioni". L'elettricità e disponibile ovunque, a differenza della sponda occidentale, dove la grande maggioranza dei villaggi arabi dispone solo di generatori locali che funzionano irregolarmente. "Lo stesso vale per il sistema idrico. Nell'arida Giordania, vari grandi progetti idrici [...] hanno mutato la sponda orientale della valle del Giordano in una densa e florida area agricola", mentre sulla sponda occidentale le risorse idriche sono state destinate all'uso dei coloni e di Israele stessa - circa i 5/6 dell'acqua della sponda occidentale, secondo gli specialisti israeliani. Molti villaggi non hanno affatto acqua corrente e anche città come Hebron e Ramallah mancano di acqua corrente per molte ore al giorno d'estate. Le fabbriche, il commercio, gli alberghi e le università si sono sviluppate nell'impoverita Giordania, fino a raggiungere livelli discreti. Praticamente nulla di simile è stato permesso sulla sponda occidentale, a parte la costruzione di "due piccoli alberghi a Betlemme". "Tutte le università nei territori sono state costruite la costruzione di due piccoli alberghi a Betlemme . Tutte le università nei territori sono state costruite solamente grazie a fondi privati e donazioni da parte di Stati stranieri senza ricevere un centesimo da Israele", a parte l'Universita islamica di Hebron, originariamente finanziata da Israele nell'ambito del piano volto a incoraggiare il fondamentalismo islamico affinché minasse alle fondamenta l'Olp, e che ora è un centro di Hamas. I servizi nella sponda occidentale sono "estremamente arretrati" in confronto alla Giordania. "Due grandi edifici a Gerusalemme est che i giordani stavano costruendo nel 1967 e che erano destinati a divenire ospedali e cliniche per i residenti della sponda occidentale sono stati mutati in edifici di polizia dal governo israeliano", che ha rifiutato anche permessi per costruire fabbriche a Nablus e Hebron sotto la pressione dell'industria manifatturiera israeliana che voleva un mercato controllato, privo di competizione. "Il risultato è che l'arretrato e povero regno di Giordania ha fatto molto più per i palestinesi che vivono nel suo territorio di Israele", mostrando "in modo ancora più lampante quanto male siano stati trattati dall'occupazione israeliana". Così nella striscia di Gaza, "nulla simboleggia meglio l'ineguaglianza nel consumo di acqua, degli umidi prati verdi, delle aiuole irrigate, dei giardini fiorenti e delle piscine delle colonie ebraiche nella sponda occidentale", osservano due corrispondenti del Financial Times, mentre i vicini villaggi palestinesi si vedono negare il diritto di scavare pozzi e hanno acqua corrente - solo un giorno per diverse settimane - inquinata dagli scarichi fognari, cosicché gli uomini devono salire in macchina per recarsi in città a riempire taniche d'acqua o appaltare a privati il servizio a un costo quindici volte maggiore. Israele reclama il diritto all'acqua della sponda occidentale - che fornisce qualcosa come il 30 per cento de11e risorse idriche israeliane e metà dell'acqua impiegata per l'agricoltura - per "consuetudine storica" a partire dall'occupazione del 1967. E' difficile immaginare che ceda questa preziosa risorsa a qualsiasi autorità palestinese, un fatto che da solo rende i discorsi sull'autonomia praticamente insensati. L'imponente letteratura apologetica racconta una storia differente, lodando la "benigna" occupazione che ha portato simili benefici agli ingrati palestinesi "facendo fiorire il deserto". Pone anche molta enfasi sul grande aumento delle opportunità di istruzione offerte alla popolazioni palestinese sotto il governo israeliano - trascurando, tuttavia, ciò che diceva Rubinstein, e anche qualche altra cosa. In discussioni interne, i funzionari del governo hanno raccomandato di concedere tali opportunità scolastiche nel contesto del piano globale volto a "trasferire" i palestinesi altrove, nella misura del possibile. La speranza e che "molti laureati possano emigrare dalla regione" dal momento che non vi sarà alcuna opportunità per loro sotto il governo israeliano (Michael Shashar, portavoce del governo militare nei primi anni dell'occupazione). Per i palestinesi che rimangono, non deve esservi altra scelta se non quella di una esistenza marginale in villaggi isolati o di un lavoro servile in atroci condizioni in Israele. I lineamenti di fondo del "processo di pace" sono stati descritti in modo realistico dalla professoressa dell'università di Tel Aviv Tanya Reinhardt, la quale ha fatto rilevare come sia un errore accostare gli accordi che vengono attualmente imposti alla fine dell'apartheid in Sudafrica; piuttosto, dovrebbero venire comparati con l'istituzione di quel mostruoso sistema, con le sue misure di "autonomia" per "nuovi stati indipendenti", così come venivano viste dai razzisti sudafricani e dai loro leali amici. Gli Stati Uniti versano denaro a palate che in effetti viene destinato alla confisca di terre, all'edificazione e allo sviluppo nei territori occupati, a finanziare forze di sicurezza, e così via. Il risultato di tutto ciò sarà che i palestinesi finiranno per essere un popolo sottomesso, privo di diritti, o giungeranno ad un punto tale di disperazione da cercare di andarsene. La Giordania può essere vista come un potenziale terreno di dumping, che resisterà, ma forse in modo inefficace dato che viene assorbita sempre più completamente come una regione dipendente all'interno dell'economia israeliana di gran lunga più ricca e potente. E' prevedibile che Israele e la corrente dell'Olp che fa a capo ad Arafat saranno uniti nella ferma opposizione alla democrazia nelle aree ad amministrazione palestinese. Si possono solo ammirare Rabin e Peres per la franchezza con la quale annunciano che "se Hamas vince le elezioni per il parlamento dell'Autonomia - l'accordo decade". Arafat naturalmente plaudirà, nello stesso modo in cui ha invalidato le elezioni del novembre del 1994 al Consiglio di Fatah nella regione di Ramallah, e ha fatto in modo che non venissero più indette, dopo la sconfitta dei suoi sostenitori. E anche difficile immaginare che Israele ponga fine la sua occupazione illegale del Libano meridionale (nonostante l'invito del Consiglio di sicurezza del marzo 1978 al ritiro immediato e incondizionato) o alle operazioni terroristiche che conduce a volontà in quella e altre regioni del Libano; tra queste si intendono non solo le atrocità delle quali viene occasionalmente data notizia, ma anche i casi minori non riportati negli Stati Uniti: per esempio, il divieto che Israele ha imposto sulla pesca a sud di Tyre per quasi 20 anni; o il rapimento di un libanese del sud annunciato dall'esercito nel luglio del 1994, portato in Israele col sospetto di aver partecipato ad operazioni contro gli occupatori israeliani e il loro esercito assassino - operazioni che sono di legittima difesa, non di terrorisrno, in accordo con la principale risoluzione delle Nazioni Unite sul terrorismo, che nel dicembre 1986 ottenne 153 voti a favore e 2 contrari con Honduras unico astenuto; ma in effetti venne respinta, poiché gli Stati Uniti votarono contro (assieme ad Israele); e perciò non è stata riportata ed è bandita dalla storia. "Rifiuti umani e scarto della società" La Dichiarazione dei principi e le sue conseguenze hano rappresentato un significativo passo avanti in direzione degli obiettivi degli espansionisti e dei negazionisti di Stati Uniti e Israele. Se fosse realmente possibile spazzare la questione palestinese sotto il tappeto, forse le relazioni tra le piincipali nazioni potrebbero divenire pubbliche e rafforzarsi, con Israele che diverrebbe un centro tecnologico, industriale e finanziario mantenendo il suo predominio militare con l'appoggio della potenza statunitense, e continuerebbe a sopravvivere su un sussidio degli Stati Uniti senza pari negli affari mondiali. Ufficialmente l'attuale appannaggio di 3 miliardi di dollari all'anno ammonta al 25 per cento del totale degli aiuti elargiti all'estero dagli Stati Uniti. L'analista del Medio Oriente Donald Neff stima che la somma reale ammonti a più del doppio, qualora si prendano in considerazione vari altri strumenti finanziari (garanzie di prestito, concessioni, pagamenti dilazionati, ecc.; i contributi deducibili dalle tasse, anch'essi unici, sono un'altra forma di sussidio pubblico). Gli aiuti a Israele non sono inoltre soggetti a condizioni o supervisione, a differenza di altri programmi, come gli oltre 2 miliardi di dollari versati regolarmente all'Egitto per mantenersi in linea con gli interessi statunitensi e israeliani. D'altro canto, ai palestinesi vanno 100 milioni di dollari statunitensi, tutti attraverso il canale dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) di Arafat, per lo più per finanziare le forze di sicurezza. L'amministrazione Clinton ha tagliato di 17 milioni di dollari il contributo statunitense all Unrwa, il più grande singolo datore di lavoro nella striscia di Gaza e responsabile del 40 per cento dei servizi sanitari e scolastici della regione. Può darsi che Washington abbia in programma di cancellare l'Unrwa, che "Israele ha storicamente combattuto", osserva il corrispondente Graham Usher, lasciando i palestinesi come un "problema" da affidare ad Israele e all'Anp, considerata un virtuale agente del governo israeliano. Rompendo con la precedente tradizione politica, l'amministrazione Clinton ha votato contro tutte le risoluzioni dell'Assemblea generale concernenti rifugiati palestinesi nel 1993 e nel 1994, sulla base del fatto che tali questioni "pregiudicano l'esito del processo di pace in corso e andrebbero risolte tramite negoziati diretti", ora saldamente nelle mani degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Un passo verso lo smantellamento dell'Unrwa, e il programmato spostamento del suo quartier generale a Gaza. Questo do vrebbe porre veramente termine al sostegno internazionale per il milione e ottocentomila rifugiati palestinesi in Giordania, Libano e Siria. Il passo successivo consisterà nel togliere i fondi all'Unrwa per metterli nelle mani dell'Anp, riportano fonti delle Nazioni Unite. I fondi che vanno a Israele e all'Egitto, e i pochi spiccioli destinati ai palestinesi, sono la componente degli aiuti statunitensi maggiormente avversata dall'opinione pubblica. Ma la politica diverge nettamente dall'opinione su un'ampia gamma di questioni, non solo questa. Si potrebbe osservare che le elargizioni statunitensi a Israele non sono solo straordinari nelle proporzioni, ma anche illeciti. Lo Human Rights Watch (Hrw) ha recentemente affrontato la questione, mettendo in rilievo ancora una Volta che la legge statunitense espressamente proibisce aiuti militari o economici a qualsiasi governo che pratichi la tortura sistematica. E come si evince nuovamente dal suo ampio rapporto, Israele "pratica un sistematico schema di maltrattamento e tortura", secondo standard internazionalmente accettati, e in proporzioni alquanto notevoli. Lo Hrw stima che "il numero di palestinesi torturati o gravemente maltrattati durante gli interrogatori al tempo dell'Intifada [dal dicembre del 1987] ammonta a decine di migliaia", su una popolazione maschile di adulti e adolescenti di meno di 3/4 di un milione, di cui solo una parte alla fine e stata posta in stato di accusa (e giudicata colpevole, di solito su "confessione"). Israele è evidentemente la sola democrazia industriale in cui la tortura e legalmente autorizzata, su raccomandazione dell'ufficiale Commissione Landau, la quale è giunta alla conclusione che i servizi di sicurezza hanno impiegato la tortura per sedici anni ma che solo certe misure di coercizione dovrebbero d'ora in poi venire consentite (indicate esplicitamente in una sezione segreta); le pratiche che sono state osservate e sono autorizzate vengono considerate torture dagli osservatori dei diritti umani. Lo Human Rights Watch fornisce dettagli, come l'organizzazione israeliana per i diritti umani B'Tselem, e altre indagini compiute negli ultimi 20 anni. E', comunque, ingiusto prendersela solo con Israele, dal momento che la maggior parte degli aiuti statunitensi sono -illeciti per lo stesso motivo; per esempio, la metà degli aiuti militari statunitensi al Sudamerica sono destinati alla Colombia, che non solo pratica la tortura ma compie anche massacri su scala imponente, ponendosi al comando dell'emisfero negli abusi dei diritti umani. Gli estremi presupposti negazionisti dei governanti si rivelano ad ogni momento. Ne è esempio la reazione all'iniziativa di Arafat di invocare una "Jihad" per Gerusalemme; la quale suscitò una sorta di isteria negli Stati Uniti, poiché provava che non ci si poteva fidare dell'ambiguo terrorista. Nel frattempo Israele annunciò che la sua Jihad era compiuta: Gerusalemme sarebbe rimasta l'eterna e indivisa capitale di Israele, priva di qualunque istituzione palestinese (per tacere dei diritti). Questa dichiarazione è passata sotto silenzio negli Stati Uniti. La reazione (inesistente) alla decisione di Israele di affidare l'amministrazione dei luoghi santi al suo alleato giordano riflette la stessa posizione negazionista, così come la mancanza di preoccupazione riguardo all'espansione dei confini delle aree ambigue di Gerusalemme, ed il passo spedito al quale lì procedono edificazione e colonizzazione direttamente finanziate dall'ignaro contribuente statunitense. Un ennesimo passo verso la realizzazione del negazionismo israeliano-statunitense è la cessazione del teorico diritto di ritorno e compensazione per i rifugiati palestinesi. Tale diritto era un elemento cruciale della Dichiarazione universale dei diritti umani: il suo articolo 13 afferma che "Tutti hanno il diritto di lasciare qualsiasi nazione, compresa la propria e di far ritorno alla propria nazione" (mio il corsivo). Il giorno dopo che la Dichiarazione venne approvata dal'Assemblea generale, si adottò all'unanimità anche la risoluzione 194 che applicava l'articolo 13 al caso dei palestinesi. La Dichiarazione è riconosciuta nei tribunali degli Stati Uniti e altrove in quanto "diritto internazionale consuetudinario e come "autorevole definizione" degli standard in fatto di diritti umani. L'articolo 13 è sicuramente la disposizione più famosa, invocata ogni anno per molti anni in occasione del giorno dei diritti umani, il 10 dicembre, con dimostrazioni e furiosi appelli all'Unione Sovietica per consentire agli ebrei russi di partire, loro sacrosanto d b ll' l ll h è h l l l diritto in base all'articolo 13. Quello che si è sempre nascosto e che coloro i quali lo invocavano con maggior passione erano i suoi più appassionati oppositori. Il trucco venne realizzato con semplicità: fu solo necessario sopprimere la frase in corsivo, col suo significato esplicitato dalla risoluzione 194. Questa ipocrisia, perlomeno, è un ricordo del passato. La prima parte dell'articolo 13 ha perso la sua importanza, e l'amministrazione Clinton ha tolto sostegno alla seconda parte nel dicembre del 1993 nella sua prima celebrazione del giorno dei diritti umani, votando, in contraddizione con la linea politica seguita ufficialmente per 45 anni, a sfavore della risoluzione 194, come seampre in solitudine (accanto ad Israele). La vittoria dell'estremismo negazionista israeliano-statunitense è una conquista straordinaria. Costituisce un altro significativo passo verso la realizzazione delle aspirazioni della leadership sionista dei vecchi tempi, quando il padre fondatore del moderno sionismo, Chaim Weizmann, informò Lord Balfour che "il problema noto come la questione araba in Palestina sarà di carattere meramente locale e, in effetti chiunque sia al corrente della situazione non la considera un fattore estremamente significativo". La situazione attuale non si scosta dalle linee guida di fondo tracciate dall'ex presidente Haim Herzog nel 1972, quando dichiarò che non nega ai palestinesi alcun luogo o posizione o opinione su ogni questione" anche se "certamente non sono preparato a considerarli come partner in alcun modo in una terra che è stata consacrata nelle mani della nostra nazione per migliaia di anni. Per gli ebrei di questa terra non possono esservi partner". Come ho detto, ricade ben all'interno della gamma delle varie proposte israeliane avanzate dalla sinistra all'estrema destra, a partire dal 1968. E' vero, i risultati sono ancora inferiori all'atteggiamento espresso da Weizmann quando rilevò, 70 anni fa, che i britannici lo avevano informato del fatto che in Palestina "ci sono alcune centinaia di negri, ma si tratta di una questione senza importanza". La situazione attuale, tuttavia, dimostra che gli specialisti del governo israeliano nel 1948, ebbero vista lunga nel prevedere che i rifugiati palestinesi si sarebbero assimilati altrove o "si sarebbero dispersi": "alcuni di loro moriranno e per lo più si tramuteranno in rifiuti umani e scarto della società, entrando nei ranghi delle classi più povere delle nazioni arabe". E vista lunga ebbe anche Moshe Dayan - forse il leader che si mostro più comprensivo nei confronti dei palestinesi quando, prima della guerra del 1973, dichiarò che il controllo israeliano sui territori era "permanente" e consigliò che Israele dicesse ai palestinesi "che non abbiamo alcuna soluzione, continuerete a vivere come cani e chi vuole può partire - e vedremo a cosa porta questo processo [...]". Ovviamente, Israele non avrebbe mai potuto raggiungere tali scopi con i suoi soli mezzi, e probabilmente non avrebbe rnai osato perseguirli. Lo poteva fare solo alleandosi col dominatore del mondo. La convinzione che la potenza statunitense sia guidata da una qualche sorta di "obbligo morale" nei confronti di Israele è troppo ridicola per meritare commento, cosa di cui Israele si accorgerebbe immediatamente se facesse l'errore di scavalcare il padrone. Fintantoché si mantiene il rapporto strategico e la dominazione statunitense permane senza grave rischio interno per gli Stati Uniti stessi, le questioni concernenti la giustizia e i diritti umani possono essere tranquillamente archiviate. Ri cordate come fonti ufficiali abbiano riconosciuto che il budget del Pentagono deve rimanere alto, con forze di intervento puntate principalmente contro il Medio Oriente, dove "minacce ai nostri interessi potrebbero non risiedere alle porte del Cremlino". Con questa visione del mondo reale, vi sono buone ragioni di accettare il giudizio di Shlomo Gazit secondo cui dopo la guerra fredda, il principale compito di Israele non è cambiato affatto, e rimane di cru- ciale importanza. La sua ubicazione al centro del Medio Oriente arabo musulmano predestina Israele ad essere un devoto guardiano della stabilità di tutte le nazioni che la circondano. Il suo [ruolo] è di proteggere i regimi esistenti: prevenire o arrestare i processi di radicalizzazione e bloccare l'espansione del fanatismo religioso fondamentalista. Per comprendere le sue parole si deve solo operare la consueta traduzione dal gergo odierno al linguaggio comune. Il termine "stabilità" significa controllo statunitense, "radicalizzazione" significa inaccettabili forme di indipendenza e "fanatismo religioso fondamentalista" è un caso particolare del crimine di indipendenza. Non ha importanza che i criminali preferiscano il nazionalismo laico, il socialismo democratico, il fascismo, la teologia della liberazione o il "fanatismo religioso fondamentalista". Sicuramente il compito di Israele non è di minare il regime più estremista del fondamentalismo islamico, quello dell'Arabia Saudita - almeno non per ora - così come Israele non venne chiamata a "bloccare" le forze estremiste fondamentaliste islamiche di Gulbuddin Hekmatyar, il prediletto degli Stati Uniti ne- gli anni ottanta, che fece a pezzi i resti dell Afghanistan dopo il ritiro sovietico mentre espandeva il suo narcotraffico; o i gruppi fondamentalisti islamici che Israele finanziava nei territori occupati alcuni anni fa, per controbattere l'Olp. Né, se è per questo, ci si aspetta che Israele "controlli" gli Stati Uniti, una delle più estremiste culture religiose fondamentaliste del mondo. Se Israele reagisce in modo intelligente di fronte a quella che Thomas Friedman, specialista del Medio Oriente del New York Times, ha chiamato la "bandiera bianca" di Arafat, farà cadere le restrizioni imposte per impedire qualsiasi sviluppo nei territori, La posizione razionale sarebbe di incoraggiare un flusso di fondi stranieri che possono essere usati per fondare un settore di servizio per l'industria israeliana e produrre benefici per gli investitori israeliani e i loro partner palestinesi e stranieri. Sarebbe sensato per Israele spostare impianti di assemblaggio di alcune miglia in una zona dove non ci si deve affatto preoccupare di questioni come i diritti dei lavoratori, l'inquinamento e la presenza di indesiderati arabi (o anche dei lavoratori thailandesi e romeni) all'interno delle aree coloniche ebraiche. Impianti a Gaza e dintorni, oltre che nei cantoni della sponda occidentale, possono fornire manodopera a basso costo e facilmente sfruttabile, generando profitti per gli investitori e aiutando a controllare la popolazione. Settori ricchi di Israele dovrebbero ottenere considerevoli profitti se i territori venissero sfruttati in modo i lli l d ll h W hi d i i di i intelligente sul modello che Washington adotta nei propri dintorni. Quanto alla forza di sicurezza, sarebbe sensato affidarla principalmente a forze locali asservite - il modello seguito dai britannici in India, dagli Stati Uniti nella regione dei Caraibi dell'America centrale, e in genere dalle potenze razionali. I vantaggi sarebbero molteplici, e uno di questi venne evidenziato dall'ultimo vincitore del premio Nobel per la pace poco dopo l'annuncio della Dichiarazione dei principi. Parlando al consiglio politico del partito laburista, il primo ministro Rabin spiegò che le forze palestinesi sarebbero state in grado di "occuparsi di Gaza senza i problemi provocati dagli appelli all'Alta corte di giustizia, da B'Tselem, e da tutti i teneri di cuore, dalle madri e dai padri". Questo è più o meno vero, sebbene a volte possa tornare utile anche l'ostentazione della forza come nel tradizionale schema imperiale. Con una buona pianificazione, le cose dovrebbero svilupparsi secondo le linee tracciate da Asher Davidi sulla stampa del partito laburista nel febbraio del 1993, pochi mesi prima dell'accordo Israele-Arafat a Oslo. Egli descrisse l'"accordo completo tra rappresentanti dei vari settori (delle banche, dell'industria e del commercio su larga scala) e il governo sul fatto che la dipendenza economica dell'en- tità palestinese deve essere preservata" ma con "una transizione dal colonialismo al neocolonialismo", intrapresa congiuntamente con una ricca frangia di investitori e subappaltatori palestinesi, come nel modello comunemente applicato nel terzo mondo. Non è chiaro quali implicazioni potrebbe avere questa situazione per la società israeliana al suo interno. Uno specialista israeliano di spicco, Sami Smooha, predice che un accordo di pace "accrescerebbe in modo significativo l'ineguaglianza", danneggiando i cittadini ebrei di seconda classe di origini orientali e migliorando lo status dei cittadini palestinesi di terza classe. Può darsi, anche se l'ineguaglianza può crescere per altre ragioni. Israele rimane estremamente dipendente dalle elargizioni e dagli aiuti americani, ed è percio più predisposta di altri a seguire il modello statunitense, abbandonando il suo tradizionale contratto sociale. Dal momento che l'economia e "liberalizzata", si può prevedere che l'ineguaglianza insolitamente elevata all'interno di Israele sia destinata a crescere, rispecchiando l'ordinarnento interno del padrone che continua a foraggiarla in cambio dei servizi resi. Dopo la guerra del 1967, mi sembrava che il corso più saggio e umano per i vincitori sarebbe stato di far rivivere le tradizionali idee sioniste sulla federazione di aree amministrate da ebrei e da arabi, che avrebbe forse condotto a una conclusiva integrazione binazionalista man mano che si intrecciavano scambi tra le comunità a cavallo dei confini nazionali. Questa opzione si fece particolarmente appropriata, secondo me, dopo il rifiuto da parte di Kissinger delle disposizioni di ritiro della risoluzione 242, lo divenne ancora di più dopo che gli Stati Uniti dovettero frettolosamente schierarsi accanto ad Israele nel respingere la nozione dei due Stati quando quest'ultima entrò nell'agenda internazionale intorno alla metà degli anni settanta, e lo divenne più che mai negli anni che seguirono. Con l'avvento della Dichiarazione dei principi, dovrebbe ormai essere ovvio che l'opzione dei due Stati ha perduto qualsiasi (dal mio punto di vista limitata) possibilità di realizzazione, e da allora la cosa si è fatta ancora più chiara. Agli israeliani, ai palestinesi e agli esterni simpatizzanti che hanno a cuore i temi della pace e della giustizia, il momento appare più che maturo per cominciare a preoccuparsi di questioni concernenti i diritti umani e la democrazia invece di sempre più irrealistiche illusioni politiche, e per tornare, parallelamente, a considerare alternative che sono state a lungo disponibili e lo sono tuttora. Tali alternative avrebbero potuto prevenire la guerra del 1973, che si presentò come una necessita ineluttabile per Israele, la terribile invasione del Libano con le sue conseguenze, e molte altre distruzioni e sofferenze, che non sono in alcun modo terminate. In tutta la faccenda, osserviamo chiaramente in azione i principi guida dell'ordine mondiale: gli affari mondiali sono gestiti dalla Regola della Forza, mentre si fa affidamento sugli intellettuali affinché dissimulino la realta per assecondare le esigenze del potere. Ci vuole una certa disciplina per non rendersene conto. Gli accordi che vengono attualmente messi in pratica sono degradanti e vergognosi, ma non più del simile modello che viene adottato in buona parte del mondo dal momento che gli ideali operativi - non quelli delle favole - hanno superato molti ostacoli popolari alla loro realizzazione. Alcuni si sono spinti più in là degli altri nel "tramutarsi in rifiuti umani e scarto della società" ma questa è la direzione nella quale sta andando, e andrà, buona parte del mondo, se ai padroni viene permesso di progettare un ordine mondiale in cui "si fa quello che diciamo noi". « back Noam Chomsky: La linguistica contemporanea 1 di 4 http://www.emsf.rai.it/articoli/articoli.asp?d=37 www.filosofia.rai.it La Città del Pensiero Le puntate de Il Grillo Tommaso: il piacere di ragionare Il Cammino della Filosofia Aforismi Tv tematica Articoli Noam Chomsky La linguistica contemporanea Trasmissioni radiofoniche Articoli a stampa Lo Stato di Salute della Ragione nel Mondo Le interviste dell'EMSF I percorsi tematici Le biografie I brani antologici EMSF scuola Mappa Documenti correlati intervista rilasciata a Cambridge - U.S.A. il 28-5-92 A chi dobbiamo, Professor Chomsky, i contributi più significativi nello studio del linguaggio in epoca moderna? All'inizio dell'Ottocento un grande linguista, Karl Wilhelm von Humboldt, osservò che il linguaggio in qualche modo ci fornisce dei mezzi finiti per usi infiniti. I mezzi che abbiamo per esprimerci sono collocati nel cervello, il che significa che sono finiti, mentre l'uso per il quale possiamo impiegarli è illimitato, sconfinato e infinito. Già Cartesio però sosteneva che per capire se un'altra creatura avesse una mente come la nostra, la migliore indicazione stesse proprio nel suo poter usare il linguaggio in quel modo creativo così caratteristico degli esseri umani. Egli intendeva un'uso del linguaggio prima di tutto infinito e, in secondo luogo, evidentemente non causato da situazioni esterne né da una disposizione interna. Ci può dire invece quando ci si è posti la domanda di come si sia formata questa attitudine? La questione di come possa essersi sviluppata questa capacità creativa riguarda un altro aspetto dello stesso problema, che può essere fatto risalire, ancora più in là di Cartesio, ai dialoghi Platonici. In questo senso l'interrogativo si estende anche alla spiegazione di come sia possibile agli uomini comprendere la grande quantità di cose che di fatto comprendono, dato il carattere limitato dell'esperienza disponibile. Se si considera più da vicino il linguaggio, infatti, è possibile dimostrare facilmente che qualsiasi bambino piccolo usa quei mezzi finiti per esprimere alcuni pensieri limitati senza avere quasi nessuna esperienza pertinente. Quello che si potrebbe definire "il problema di Platone", e cioè la domanda, "Come è possibile sapere tante cose avendo esperienze così minime?" può essere trasferita nel linguaggio traducendola nella formula seguente: "Come si possono sviluppare i mezzi finiti che ci mettono in grado di esprimere pensieri illimitati in maniera creativa, non causata, ma appropriata?". Fino a circa cinquanta 10/11/2006 12.29 Noam Chomsky: La linguistica contemporanea 2 di 4 © Copyright Rai Educational http://www.emsf.rai.it/articoli/articoli.asp?d=37 anni fa non è stato mai possibile affrontare in modo molto preciso tali questioni fondamentali, che pure sono state sollevate più volte nel corso del tempo. L'idea, infatti, di un uso infinito di mezzi finiti rimase una metafora fino al ventesimo secolo. Da allora questo concetto è stato chiarificato anche in altri campi quali la matematica, lo studio dei sistemi logici e la computazione. Quali effetti ha prodotto in linguistica questa impostazione del problema? Il concetto di un uso infinito di mezzi finiti divenne molto chiaro e comprensibile. Esso fornì gli strumenti intellettuali per affrontare quei problemi che Humboldt, per esempio, riuscì a discutere solo in modo metaforico e creò così le condizioni per convertire quelle domande in un programma di ricerca veramente vivo. Solo allora, infatti, fu possibile formulare un progetto di ricerca specifico, il programma di grammatica generativa, con il quale si è cercato di definire l'esatto sistema di principi e di modi di computazione usati dal cervello nell'esprimere pensieri in quel modo illimitato. Non appena si giunse a questo risultato, ci si accorse presto del fatto che il materiale disponibile nelle grammatiche tradizionali o anche, in maggior copia, nelle grammatiche strutturalistiche moderne, non si avvicinava nemmeno lontanamente alla quantità di conoscenze di cui dispone ogni persona normale o, di fatto, ogni bambino piccolo. Dalla formulazione precisa di questi principi, che collocavano il problema su una scala diversa da quella che si poteva immaginare, si arrivò ad approfondire il "problema di Platone", il render conto di come questa capacità umana si fosse sviluppata. Le conclusioni a cui si giunse riguardo tale questione non furono poi diverse da quelle a cui giunse lo stesso Platone e cioè che questa capacità ha potuto svilupparsi sulla base dell'esperienza solo perché era già presente come parte di ciò che oggi chiameremmo la dotazione biologica o genetica. Questi concetti furono sviluppati in quella che fu definita la "rivoluzione cognitivista" degli anni '50 e che rappresentò un cambiamento di prospettiva alquanto significativo in relazione allo studio del comportamento, del pensiero e dell'intelligenza umana. Si spostò l'attenzione dai comportamenti ai meccanismi interni che rendono possibile quei comportamenti, e lo sviluppo della grammatica generativa interna rientrò in questo programma rappresentando, di fatto, un grande stimolo allo sviluppo delle moderne scienze cognitive. Da quel periodo in poi abbiamo assistito a molti sviluppi importanti nel tentativo di formulare i principi che realmente rendono conto della nostra conoscenza delle frasi espressive e di ciò che esse significano. Ci si rese conto di come la complessità di questi meccanismi andasse molto aldilà di quanto potessimo mai immaginare. Professor Chomsky, secondo quali principi funziona il linguaggio nell'ottica della grammatica generativa? Qualsiasi sia l'aspetto del linguaggio che noi consideriamo, si tratti del significato delle parole o del modo in cui le parole si combinano in frasi, del modo in cui si possano formare certe costruzioni, come 10/11/2006 12.29 Noam Chomsky: La linguistica contemporanea 3 di 4 http://www.emsf.rai.it/articoli/articoli.asp?d=37 nel caso delle domande o anche delle relazioni semantiche tra parole, oppure si tratti delle relazioni tra un pronome e un antecedente o un nome, ci si affaccia subito su un vasto orizzonte di complessità. Alle questioni tradizionali - come quelle citate sono connessi, inoltre, una serie di paradossi. Uno è quello per cui sembra di essere costretti a creare sistemi di regole estremamente intricati e complessi, in parte condivisi dalle varie lingue, e in parte differenti da lingua a lingua. I tentativi comunque di affrontare gli interrogativi connessi al "problema di Platone", di come si faccia ad acquisire il sapere, solo nel corso degli ultimi quarant'anni sono andati avanti seguendo un percorso naturale e abbastanza proficuo, cioè secondo un'idea di base che era quella di cercare di dimostrare che le regole semplici erano quelle veramente giuste. Lo sforzo è consistito nel mostrare l'esistenza di una regola elementare e di una semplice relazione strutturale tra i vari fattori, che sono universali e fissati in modo semplice nella natura del linguaggio, per cui questi interagiscono in svariate maniere in modo da rendere il ventaglio delle complessità fenomeniche. Questo, si dimostrò un programma di ricerca molto proficuo, col quale si proseguì per circa venticinque anni in modo attivo, su una varietà crescente di lingue, a partire dagli anni '50. Attorno al 1980, questo indirizzo giunse a una sorta di punto di svolta evidenziando un nuovo quadro che indicava una rottura davvero radicale rispetto alla tradizione dei duemila e cinquecento anni precedenti. Secondo questi nuovi orientamenti quali erano gli elementi innati e quali quelli da acquisire nell'apprendimento del linguaggio? I bambini possiedono già disponibili i concetti, come parte della loro natura interna e, pur con una quantità limitata di esperienza, sono in grado di legare questi concetti con suoni particolari. Essi, nei periodi di più intenso apprendimento acquisiscono circa dieci nuove parole al giorno nel loro ambiente; il che significa che stanno acquisendo parole sulla base di una singola esposizione e che perciò alla base devono già avere fissi il concetto e la struttura sonora. Ciò che invece imparano è il legare le due cose tra loro, acquisiscono cioè il legame tra concetto e struttura sonora. C'è un aspetto per il quale le lingue variano ma, al di fuori di questo aspetto, sembra che le loro variazioni esistano soltanto nei tratti periferici delle parti non sostantive del lessico. Quali sono propriamente gli aspetti del significato per cui le lingue differiscono e quelli per i quali invece si assomigliano? Come per i sistemi computazionali, le diverse lingue non differiscono affatto, se non per alcune variazioni marginali, come per esempio il caso delle parole "house" e "home" in inglese. Per spostare una "house" da New York a Boston è necessario spostare un oggetto fisico, mentre per spostare una "home" non c'è affatto bisogno di spostare alcun oggetto fisico, pur essendo anche "home", in inglese, un oggetto fisico. La differenza tra "house" e 10/11/2006 12.29 Noam Chomsky: La linguistica contemporanea 4 di 4 http://www.emsf.rai.it/articoli/articoli.asp?d=37 "home" è una differenza che il bambino deve acquisire. In altre lingue l'equivalente della parola "home" è di fatto un avverbio, come nel caso del francese "chez moi" o come nel caso dell'italiano, "vado a casa" dove, in quest'espressione, all'oggetto concreto viene data un'interpretazione astratta. Nella lingua, secondo il concetto saussuriano di arbitrarietà, Z3:0 "house" può avere un certo suono in inglese e un diverso suono nella lingua vicina e le strutture sonore possono variare in un certo margine. Le parole possono essere imparate molto rapidamente, perché essenzialmente esse sono già note mentre la sola cosa che va conosciuta è come i concetti si legano ai suoni e il modo di sistemare il ventaglio di variazioni esistenti, per quanto ridotto. Posto dunque che il sistema computazionale è fissato e la variazione pare essere così come essa si manifesta nella sua articolazione in suoni e posto che anche nella mente le cose paiono procedere nello stesso modo è possibile, partendo da queste premesse, affrontare quello che è stato definito "il problema di Platone" che è lo stesso problema sollevato da Humboldt. A questa domanda si risponde essenzialmente con la natura del sistema computazionale che ha precisamente la proprietà di generare una serie illimitata di pensieri che possono essere espressi con un meccanismo finito. Al problema posto da Cartesio circa la creatività dell'uso linguistico è più difficile rispondere. E' possibile, infatti, parlare del tempo, di ciò che si mangia a cena e di qualsiasi cosa senza che ci sia nulla nello stato interno di chi parla che possa determinare ciò che si sta per dire. Da ciò deriva un comportamento fondamentalmente libero e non casuale appropriato però alle situazioni. Un comportamento tale da evocare nelle menti di chi ascolta pensieri che egli, prima di allora, non avrebbe mai avuto ma che può adesso pensare e che avrebbe potuto esprimere nello stesso modo. Per Cartesio questa collezione di proprietà diventò l'indicazione dell'esistenza di una mente distinta da un meccanismo. La domanda su come ciò sia possibile resta oggi misteriosa quanto allora e si può semplicemente osservare che queste sono le proprietà di cui evidentemente gode il linguaggio. Per il momento, rimane ancora un mistero il modo in cui un meccanismo biologico possa avere simili proprietà. Biografia di Noam Chomsky Partecipa al forum "I contemporanei" Tutti i diritti riservati 10/11/2006 12.29