TESI DI DOTTORATO DALLA DECOSTRUZIONE ALLA CYBER
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TESI DI DOTTORATO DALLA DECOSTRUZIONE ALLA CYBER
DOTTORATO DI RICERCA IN TECNOLOGIA DELL’ARCHITETTURA E DELL’AMBIENTE , XIV C ICLO TESI DI DOTTORATO DALLA DECOSTRUZIONE ALLA CYBER-A RCHITETTURA E OLTRE L’USO DEL COMPUTER NELLA PROGETTAZIONE DEGLI SPAZI NONEUCLIDEI Tutor Prof.ssa Maria BOTTERO Co-tutor Prof.ssa Rossana RAITERI Dottorando Paolo Vincenzo GENOVESE SEDI: FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DEL POLITECNICO DI MILANO FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DEL POLITECNICO DI TORINO FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DELLA II U NIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI A mia Madre, della quale mai ho dubitato La condizione interiore del senza-forma: imperscrutabile, quella che ha assunto una forma precisa: ovvia. L’imperscrutabile vince, l’ovvio perde. Sun Tzu DALLA DECOSTRUZIONE ALLA CYBER-A RCHITETTURA E OLTRE L’USO DEL COMPUTER NELLA PROGETTAZIONE DEGLI SPAZI NON-EUCLIDEI Indice delle illustrazioni PREFAZIONE 0. La ricerca geometrico-spaziale decostruzione Tavole del Cap. 0. dal costruttivismo alla p. I » III PARTE PRIMA 1. Il decostruttivismo come precursore della Cyber-architettura » 1.1. Temi fondativi della decostruzione » 1 1.2. Figure di passaggio dalla decostruzione verso la Cyberarchitettura » 9 Tavole del Cap. 1. » 15 2. La Cyber-architettura » 31 2.1. Natura ed origini della cultura Cyber » 31 2.2. Lo spazio nella Cyber-architettura » 41 2.3. Spazi virtuali e spazi costruiti. Due nature della Cyber-architettura Tavole del Cap. 2. » 87 PARTE SECONDA 3. Studi di architetti contemporanei. Un matrimonio tra arte, scienza, filosofia e tecnologia » 157 3.1. Introduzione e caratteri generali del problema » 157 3.2. La progettazione come scultura. Frank O. Gehry » 158 3.3. L’architettura nata dalla virtualità. Greg Lynn » 167 3.4. La generazione automatica degli spazi non-euclidei. Peter Eisenman » 176 Tavole del Cap. 3. » 187 1 » 75 CONCLUSIONI GENERALI 4. Il rinnovamento della pratica operativa nella progettazione degli spazi non-euclidei con il computer » 213 Bibliografia generale » 225 » 229 » 289 APPENDICE I Schede di studio Frank O. Gehry Coop Himmelb(l)au Günther Domenig Greg Lynn Asymptote Reiser + Umemoto Neil Denari Marcos Novak Dagmar Richter Kunst und Technik André Poitiers Anton Markus Pasing Peter Eisenman APPENDICE II Interviste Kunst und Technik André Poitiers Anton Markus Pasing Indice delle illustrazioni Fig. 1: Alfred Neumann e Zvi Hecker, Natania City Hall and Civic Center Fig. 2: Alfred Neumann e Zvi Hecker, Facoltà di Ingegneria Meccanica, Haifa Fig. 3: Moshe Safdie, Habitat, Schema I, New York Fig. 4: Moshe Safdie, Habitat ’67, Montreal, 1967 Fig. 5: Annie Griswold Tyng, Farm House, 1953 Fig. 6: Annie Griswold Tyng, Dormitorio per collegio, 1963 Fig. 7: Bernard Tshumi, Parc de la Villette, Parigi 1985 Fig. 8: Frank O. Gehry, Gehry House, Santa Monica, 1979 Fig. 9: Frank O. Gehry, Casa Wagner, 1978 Fig. 10: Frank O. Gehry, Casa Familian, 1978 Fig. 11: Frank O. Gehry, Wilton House, 1983-’87 Fig. 12: Zaha Hadid, Landesgartenschau, Weil am Rhein, 1997-’99 Fig. 13: Zaha Hadid, Museo d’arte contemporanea, Roma, 1998-2005 Fig. 14: Zaha Hadid, Grande Biblioteque du Quebecl, Montreal, 2000 Fig. 15: Toyo Ito, Vision of Japan, Londra, 1991 Fig. 16: Toyo Ito, Uovo dei Venti, Tokyo, 1990-’91 Fig. 17: Peter Eisenman, IBA, Berlino, 1981-’85 Fig. 18: Greg Lynn/Form, H2 House (Hydrogen House), Vienna, Austria, 1996. Fig. 19: Reiser+Umemoto, Yokoama Port Terminal, Tokio, Giappone, 1994, progetto Fig. 20: Neil M. Denari, Massey Residence, Los Angeles, California, 1995 Fig. 21: Makoto Sei Watanabe, The Induction Cities, 1991-’96, progetto Fig. 22: Anton Markus Pasing, Genesis 9 - super tool, 1995-’96, progetto Fig. 23: Anton Markus Pasing, Elektrochanger - Haus an der B 54, 1991, progetto Fig. 24: Anton Markus Pasing, Das letzte Haus, 1995, progetto Fig. 25: Peter Eisenmann, Aronoff Center, University of Cincinnati, Cincinnati, Ohio, 1988’96 Fig. 26: Marcos Novak, Paracube, 1997-’98, progetto Fig. 27: Karl S. Chu, Phylux, 1999, progetto Fig. 28: Asymptote, Virtual Guggenheim Museum, 1999-2002 Fig. 29: Kolatan/Mac Donald Studio, Resi-Rise (vertical mode), New York, 1999, progetto Fig. 30: Kolatan/Mac Donald Studio, Housing, 1999 Fig. 31: Nastro di Möbius nell’interpretazione di Maurits Cornelius Escher, Striscia di Möbius II Fig. 32: Ben Van Berkel & Caroline Bos, Möbius House, Het Gooi, Olanda, 1993-’98 Fig. 33: Foreign Office Architects, Virtual House, 1997, progetto Fig. 34: Foreign Office Architects, Azadi Cinepleh, Teheran, Iran, 1997, progetto Fig. 35: Foreign Office Architects, Yokohama Port Terminal, Yokohama, Giappone, 1995 Fig. 36: Oosterhuis Associates, Trans_Ports 2001, Rotterdam, Olanda, 1999-2001, progetto Fig. 37: Oosterhuis Associates, Saltwaterpavilion, Neeltje Jans, Olanda, 1997, progetto Fig. 38: NOX, V2 Lab, Rotterdam, Olanda, 1998, progetto parzialmente realizzato Fig. 39: Herzog & De Meuron, Library of the Eberswalde Technical School, Eberswalde, Germania, 1994-’99 Fig. 40: Massimiliano Fuksas, Europark, Salisburgo, Austria, 1994-’97 Fig. 41: Helmut Jahn, KU 70, Berlino, Germania Fig. 42: dECOI, Boutique Missoni, Parigi, Francia, 1996, progetto Fig. 43: NOX, Beachness, Noordwijk, Olanda, 1997, progetto Fig. 44: Naga Studio Architecture, ESK House, Cairo, Egitto, 2000 Fig. 45: Naga Studio Architecture, Marina International Hotel Sharm Safari Gate, Los Angeles, California, 1998 Fig. 46: Naga Studio Architecture, Sharm Safari Gate , Sharm El Sheikh, Sinai, 1997 Fig. 47: Naga Studio Architecture, Tetraedro Fig. 48: Gregg Lynn/Form: Embriological Housing, 1998, progetto Fig. 49: Gregg Lynn/Form: Embryologic Space, 1998, progetto Fig. 50: René Thom, caduta di gravi nel liquido Fig. 51: Gregg Lynn/Form: Cardiff Bay Opera House, Wales, 1994, progetto di concorso Fig. 52: Frank O. Gehry, Casa Lewis, Lyndhurst, Ohio, 1989-’95 Fig. 53: Gregg Lynn/Form: Animated Form, progetto Fig. 54: Gregg Lynn/Form: Port Authority Gateway, New York, USA, 1995, progetto Fig. 55: Peter Eisenman, Staten Island Institute of Arts and Sciences,New York, 1997, progetto Fig. 56: Peter Eisenman, Biblioteca per la Piazza delle Nazioni,Ginevra, Svizzera, 1996’97 Fig. 57: Peter Eisenman, Una chiesa per l’anno 2000, Roma, 1996 Fig. 58: Peter Eisenman, Virtual House, Berlino, 1997, progetto Fig. 59: NOX, Fresch H 2O eXPO, Neeltje Jans, Olanda, 1997 Fig. 60: Oosterhuis Associates, Garbage Transfer Station, Elhorst/Vloedbelt Zenderen, Olanda, 1995 Fig. 61: Greg Lynn, Korean Presbyterian Church, Long Island, 1999 Fig. 62: Neil M. Denari, Massey Residence, Los Angeles, 1995 Fig. 63: Marco Galofaro, Progetto per il Teatro La Fenice di Venezia, Venezia, 1996 Fig. 64: Frank O. Gehry, Guggenheim Museum, Bilbao, Spagna, 1991-’97 Fig. 65: Frank O. Gehry, Uffici Chiat-Day-Mojo, Venice, California, 1986-’91 Fig. 66: Modelli di studio per il Guggenheim Museum di Bilbao di Frank O. Gehry Fig. 67: Modelli tridimensionali del Guggenheim Museum di Bilbao Fig. 68: Frank O. Gehry, Vila Olimpica, Barcellona, Spagna, 1989 Fig. 69: Frank O. Gehry, Childrens’s Museum, Boston, 1992-’96 Fig. 70: Greg Lynn, Port Authority Gateway, 1995 Fig. 71: Greg Lynn, Embriological House Fig. 72: Greg Lynn, New York Presbyterian Church, 1999-2002 Fig. 73: Peter Eisenman, Laboratori Biologici dell’Università Goethe,i Francoforte sul Meno, 1987 Fig. 74: Peter Eisenman, Klingelhofer Triangle, Berlino, 1995 Fig. 75: Peter Eisenman, Carnegie Mellon Research Center, Pittsburgh, 1987-’88 Fig. 76: Peter Eisenman, Chiesa a Roma per l’Anno 2000 Prefazione Capitolo 0 La ricerca geometrico-spaziale dal costruttivismo alla decostruzione Oggi, in epoca post-moderna, ci interroghiamo sullo stato dell’arte in architettura e, in particolare, sul progetto dello spazio in rapporto alla sempre più perfezionata tecnica del computer. Il pensiero moderno in architettura ha trovato il suo punto di crisi verso la metà del XX secolo quando lo stile internazionale si è diffuso ovunque, generalizzando schemi costruttivi, spaziali e urbanistici, senza alcun rispetto o concessione per le culture locali. L’evidente matrice di questo modello era una forma di resistenza e di critica. Da un lato, artisti isolati - come l’architetto americano Louis Kahn o l’architetto di origine austriaca Frederick Kiesler - progettano edifici iconoclasti rispetto alla cultura dell’epoca, dall’altro ingegneri strutturisti sperimentali - come il francese Robert Le Ricolais, l’americano Richard Buckminster Fuller, o il tedesco Frei Otto -, studiano strutture leggere basate su geometrie inedite, tali da mettere in crisi il sistema statico trave-pilastro dell’architettura corrente. In particolare Fuller, grazie alle sue capacità mediatiche, riesce a sviluppare una teoria “onnicomprensiva” che si coniuga con il nascente pensiero ecologico e che influenza una cerchia molto vasta di persone, dal gruppo di artisti dell’avanguardia newyorkese, al popolo hippy della controcultura o cultura alternativa (soprattutto americana), al composito quadro architettonico inglese che si riconosce nella rivista «Architectural Design», a una serie di architetti di diversi paesi (fra cui molti israeliani) interessati soprattutto all’aspetto della rifondazione geometrico-statico-spaziale della geometria sinergetica di Fuller. Questa geometria (chiamata anche tensegrale in quanto le forze di compressione sono isolate all’interno di un sistema che lavora in tensione) parte dalla rilettura critica della geometria euclidea e dei solidi platonici per introdurre la triangolazione geodetica delle famose cupole di Fuller. Vogliamo a questo punto sottolineare che la ricerca morfologico-spaziale che avviene oggi tramite l’uso del computer in un architetto come l’americano Greg Lynn (che fra l’altro non è immemore dalla lezione di Kiesler), trova un precedente non peregrino nelle ricerche spaziali degli anni ’60-’70 di cui quelle geometriche rappresentano un aspetto notevole. Le ricerche geometriche degli anni ’60 e ’70 si sono svolte in più direzioni che non è ora il caso di indagare, se non per indicare i due filoni principali. Il primo è legato alla statica strutturale - dove un chiaro esempio sono le cupole geodetiche di Fuller, i tubi automorfici di Le Ricolais e le tensostrutture di Frei Otto; il secondo è legato al problema della partizione omogenea dello spazio, con i lavori dell’inglese Keith Critchlow, gli israeliani Alfred Neumann, Zvi Hecker (Figg. 1 e 2) e Moshe Safdie (Figg. 3 e 4). Comune a questi due filoni di ricerca era l’obiettivo di trovare alternative valide al modello spaziale basato sull’angolo retto e sulla struttura trilitica trave-pilastro. Nel primo caso la struttura portante è generatrice spaziale; nel secondo, è la singola unità spaziale o mattone cavo poliedrico che in assemblaggio close packing a generare lo spazio complessivo dell’edificio. In entrambi i casi si prospettano architetture che sono profondamente e sostanzialmente diverse dal modello tradizionale basato sull’angolo retto. Accanto a questi due principali filoni vale la pena di citare anche il caso isolato dell’americana Annie Griswold Tyng, allieva di Fuller e collaboratrice di Kahn, che si è soprattutto dedicata a speculazioni teoriche sul ruolo della geometria nella crescita biologica e nell’evoluzione storica della società (Figg. 5 e 6). La ricerca geometrica degli anni ’60 e ’70, largamente sperimentale, contesta l’architettura corrente dello stile internazionale attraverso specifiche teorie geometriche e spaziali. Il pensiero soggiacente cui è plausibile riferirle è quello dello strutturalismo, una filosofia trasversale che attraversa molti campi disciplinari ma che è utilmente riassumibile in alcuni postulati dell’antropologia strutturale di Claude Lévy-Strauss, apertamente polemica con la tradizione umanistica (primato del pensiero occidentale coltivato nei confronti del pensiero non educato o “selvaggio” dei popoli cosiddetti primitivi; primato del soggetto che parla nei confronti della struttura collettiva del linguaggio e quindi dell’inconscio collettivo). Lo strutturalismo propone un rinnovamento culturale a partire dalla rivalutazione delle strutture dell’inconscio collettivo, degli archetipi mentali che sottendono il linguaggio, sia esso parlato che figurativo o geometrico. Contro l’esercizio progettuale soggettivo, la ricerca geometrica propone la reinterpretazione di un sistema di pensiero che ha antiche radici archetipiche di matrice collettiva-sociale. Se il bisogno di rinnovamento dei modelli architettonici correnti ha prodotto negli anni ’60 e ’70 un certo tipo di ricerca spaziale, legata alla rilettura e/o revisione della geometria euclidea e platonica, oggi questo stesso bisogno di rinnovamento produce una ricerca geometrico-spaziale avventurosa, che, avvalendosi delle prestazioni tecniche del computer, si allontana definitivamente dalla geometria euclidea per approdare ad una morfologia spaziale complessa e difficilmente descrivibile se non attraverso l’elaboratore Se la legittimazione della ricerca geometrica degli anni ’60 e ’70 poteva essere trovata nel pensiero strutturalista, che privilegiava il sistema collettivo del linguaggio alla libera espressione soggettiva e individuale, la ricerca spaziale e geometrica attuale trova una legittimazione nella teoria derridiana della decostruzione e della rimessa in discussione del linguaggio assunto come prodotto collettivo vincolante e fondante. Fig. 5: Annie Griswold Tyng, Farm House, 1953 Fig. 6: Annie Griswold Tyng, Dormitorio per collegio, 1963 Fig. 3: Moshe Safdie, Habitat, Schema I, New York Fig. 4: Moshe Safdie, Habitat ’67, Montreal, 1967 Fig. 1: Alfred Neumann e Zvi Hecker, Natania City Hall and Civic Center Fig. 2: Alfred Neumann e Zvi Hecker, Facoltà di Ingegneria Meccanica, Haifa PARTE PRIMA Capitolo 1 Il decostruttivismo come precursore della Cyber-architettura 1.1. Temi fondativi della decostruzione La parola «decostruzione» viene usata per la prima volta nello scritto Della grammatologia del 1967 del filosofo francese Jacques Derrida. Il decostruttivismo nasce, inizialmente, come teoria letteraria. Ma grazie alla sua particolare concezione si diffonde in ogni aspetto dell’interpretazione dei fatti culturali. Essenzialmente Derrida parla di decostruzione del “logocentrismo” o della metafisica, del bisogno di decostruire certe opposizioni concettuali 1, di stabilire antinomie e cortocircuiti nella lettura e nell’interpretazione dell’opera. Alcuni aspetti appaiono assai oscuri nell’analisi del processo decostruttivista. Derrida stesso parla della necessità di «scomporre il costrutto di una frase» o, prendendo definizioni da vocabolario, «smontare le parti di un tutto», o ancora «perdere la propria costruzione» 2. La pratica decostruttivista si è rivolta da subito verso un «pensare il proprio pensiero», verso un’autoriflessione che sanciva una sorta di metacomunicazione 3. Tale atteggiamento - che peraltro è una costante in tutta la storia della civiltà 4 - è stato interpretato come la fine di un’epoca. Si sanciva la perdita di senso del pensiero Modernista verso qualcosa di assai diverso. La pratica che Derrida proponeva superava la rigida griglia di strutture e sotto-strutture, poneva un limite alla scomposizione dei problemi in infinite categorie. La nuova ipotesi di lavoro era basata sulla trasversalità disciplinare e la disseminazione dei contesti. Lo strutturalismo, in qualche modo, possedeva una miopia derivata da un’eccessiva attenzione alla forma, ai codici e alle convenzioni letterarie, tralasciando il contenuto di ordine tematico e le vere ragioni della creazione di un’opera. La decostruzione opera per una distruzione delle griglie logiche, per un sovvertimento delle gerarchie, mettendo in pratica un rovesciamento dell’opposizione classica e uno spiazzamento generale del costrutto. Chi pratica la decostruzione lavora all’intero dei termini del sistema ma al fine di lacerarlo 5. Qui nascono le prime ambiguità di questa posizione così contorta. Decostruire significa lavorare all’interno di un sistema 1 Jonathan Culler, Sulla decostruzione, Bompiani, Milano, 1988, p. 1. Jacques Derrida, Lettera a un amico giapponese, in «Rivista di estetica», n. 17, anno XXV, Torino 1984. Cit anche in Bianca BOTTERO (a cura di), Decostruzione in architettura e in filosofia, Città Studi, Milano, 1991. 3 Jonathan Culler, op. cit., p. 11. 4 Maria Bottero, Decostruzione versus Postmoderno, in Bianca BOTTERO (a cura di), op. cit., p. 36. 5 Jonathan Culler, op. cit., p. 77. 2 riconoscendone l’intrinseca esattezza; ma a partire da questa coerenza intrinseca trovare delle logiche che, verificando il sistema, lo invalidano. Jacques Derrida stesso, parlando della decostruzione, dice che “Decostruire” la filosofia diventa un pensare la genealogia strutturata dei suoi concetti nella maniera più fedele e interna possibile, ma anche da un certo al di fuori che essa non può qualificare e 6 nominare [...]. In sostanza, lo scardinamento di una struttura avviene per una rinnovata posizione interpretativa che tende a riconoscere le contraddizioni nascoste in ogni sistema perfetto e a collocarle come germe di distruzione dell’insieme. La decostruzione non fa appello a un principio logico o a una ragione superiore ma fa uso dello 7 stesso principio che decostruisce. E altrove: La decostruzione non consiste nello spostarsi da un concetto all’altro ma nel rovesciamento e nello 8 spiazzamento di un ordine concettuale, così come dell’ordine nonconcettuale a cui si articola. Derrida, in qualche modo, sancisce una fusione che abolisce i contrari e le loro differenze. Queste antinomie o opposizioni sulle quali si esercita l’operazione di decostruzione ha come risultato finale non la decostruzione assoluta delle contraddizioni, bensì la loro accettazione come parte integrante del sistema dialettico. Il risultato di questo terremoto è certamente nuovo. Invece di rivendicare la proposizione di un terreno solido per la costruzione di un nuovo ordine o di una nuova sintesi, la decostruzione rimane implicata o attaccata al sistema che critica e si sforza di 9 spiazzare. La decostruzione comporta, sempre, una mossa decisamente anticonvenzionale: «[...] la logica dell’argomento usato per difendere una posizione contraddice la posizione che è stata affermata» 10. [...] il rapporto che la decostruzione svela non è la trasparenza del testo a se stesso in un atto di riflessione, di descrizione di sé, o di autopossesso; è piuttosto l’inquietante simmetria che genera il paradosso, un autoriferimento che alla fine mette in luce l’incapacità del discorso a dar conto di sé e il 11 fallimento a far coincidere [...] fare ed essere. Come sottolinea anche Paul de Man, una decostruzione ha sempre come obiettivo lo svelamento dell’esistenza di articolazioni e 12 frammentazioni nascoste all’interno di presunte totalità monadiche. Un aspetto importante e centrale nella riflessione decostruttivista riguarda il sovvertimento del logocentrismo. Derrida afferma la distruzione dell’orientamento filosofico che, da sempre, era rivolto verso un ordine del significato. Si tratta, qui, dell’incanto della rappresentazione di un’idea attraverso il Logos, cioè la realizzazione di funzioni secondarie e subordinate come veicoli del discorso, ove il significato precede sempre ciò 6 Jacques Derrida, Posizioni , Bertani Editore, Verona, 1975, p. 46. Jonathan Culler, op. cit., p. 79. 8 Jacques Derrida, cit. in, ivi, p. 128 9 Jonathan Culler, op. cit., p. 137. 10 Ivi, p. 141. 11 Ivi. p. 183. 12 Paul de Man, Allegories of Reading: Figural Language in Rousseau, Nietzsche, Rilke, and Proust, Yale University Press, New Haven, 1979, p. 249. Tr. it., J. Culler, P. de Man, N. Rand, Allegorie della critica, Liguori Editore, Napoli, 1987. 7 che è significato. Nella disputa poetica, letteraria, artistica ed architettonica, nessun elemento può funzionare come segno senza riferirsi ad un altro che non sia presente. Il risultato di questa combinazione è che ogni elemento si muta in un segno che cambia altri elementi del sistema. Ogni intreccio è un testo prodotto trasformando un altro testo. Niente, né fra gli elementi, né all’interno del sistema, si rivela allora essere presente o assente. Sempre, l’unica cosa di cui sia lecito parlare sono le Differenze. La natura eterogenea di questa differenza non dovrebbe essere né universale né regolare. Ogni elemento di lettura o di interpretazione di un testo (sia esso letterario, figurativo, architettonico) necessita di una seconda lettura e, contemporaneamente, questa azione produce ulteriore testo, dando vita ad un processo infinito di interpretazione. Come sottolineato in precedenza, un’importante aspetto della decostruzione è la trasversalità disciplinare. Non esistono confini tra saperi e ogni operazione di rile ttura e di destrutturazione del testo può avvalersi di innumerevoli tecniche. Credo sia importante questa apertura dei confini e soprattutto dei confini accademici fra testi e discipline; e quando dico confini accademici non penso soltanto alle discipline umanistiche e alla filosofia, ma anche all’architettura. Questo incrociarsi, questo andare attraverso i confini disciplinari è una delle principali non solo strategie, ma necessità della decostruzione. L’aggancio di un’arte all’altra, la contaminazione dei codici, la disseminazione dei contesti sono qualche volta metodi o strategie di 13 decostruzione. Questa premessa è stata necessaria per via dello stretto rapporto che è sempre esistito tra filosofia decostruttivista e architettura. Due sono le tappe essenziali di questo curioso matrimonio. Il primo è l’invito da parte di Bernard Tschumi rivolto a Jacques Derrida a lavorare al progetto del Parc de la Villette a Parigi. Tramite Tschumi, Derrida incontra Peter Eisenman che rivedrà più volte a New York e con il quale inizia una collaborazione teorica che ha il punto di partenza nella lettura del Timeo di Platone. Ciò che interessa Derrida è l’ipotesi di un’architettura decostruita nel senso di non essere subordinata al vincolo delle funzioni. Quando scoprii quella che ore si chiama architettura decostruttivista mi interessava il fatto che questi architetti decostruivano gli aspetti essenziali della tradizione e criticavano tutto ciò che subordinava l’architettura a qualcos’altro - per esempio al valore dell’utile, del bello e dell’abitabile non per costruire qualcos’altro che fosse inutile, brutto o inabitabile, ma per liberare l’architettura da tutti questi obiettivi esterni [...] e non per ricostruire un’architettura pura e originale, ma, al contrario, proprio per mettere l’architettura in rapporto con gli altri media e le arti, per contaminare l’architettura 14 [...]. In realtà l’architettura è sempre stata concepita come abitazione. Secondo Derrida, una simile interpretazione sottomette l’arte del costruire ad un valore che può essere opinabile. Per questo il filosofo tenta di contestare questi assunti, domandandosi dove potrebbe portare un’architettura che non fosse semplicemente subordinata a questi valori di abitare e alloggiare. Architetti decostruttivisti, come Eisenman e Tshumi, hanno mostrato che ciò è possibile; possibile non come fatto, come semplice dimostrazione, poiché è ovvio che la loro architettura è ancora fatta per alloggiare dare riparo. Da questo punto di vista, secondo Derrida, ciò che offre l’esperienza architettonica è precisamente l’occasione di sperimentare la possibilità di queste invenzioni di una diversa architettura. Gli assunti appena espressi sono fondamentali per capire alcune posizioni estreme della Cyber-architettura. Non a caso, Eisenman - a cui Derrida pensa nei passi appena citati - è stato uno degli ispiratori di alcuni progettisti che verranno analizzati nel capitolo secondo. In questi casi, l’aspetto funzionale diviene secondario e, talvolta, tende 13 14 C. Norris, Intervista con Jacques Derrida, in «Architecture Design», n. 1/2, 1989, p. 9. Ivi, p. 8. addirittura a scomparire. La corrente più astratta della Cyber-architettura - quella rivolta alla creazione di spazi della percezione destinati a vivere esclusivamente nella memoria virtuale di un computer - traggono la loro ispirazione da questa provocazione derridiana della perdita di funzionalità. Se Derrida dimostra la necessità di uno svincolamento tra architettura e funzione di abitare, diviene lecito pensare all’architettura come puro spazio di percezione, operazione che molti architetti Cyber affrontano. Personalmente riteniamo che le due cose debbano essere ben distinte. L’architettura è - come sottolinea Aldo Loris Rossi - esclusivamente spazio del vissuto. Il resto appartiene ad altro tipo di esperienza, altrettanto importante ma distinto. È, però, importantissimo ai fini teorici stabilire una comunanza tra le tendenze della pura virtualità e quelle dell’architettura costruita. Entrambe le tendenze sono figlie di una stessa madre, presentano caratteri comuni e le modalità di progettazione presentano numerosi punti di contatto. Differenti, semmai, sono gli obiettivi e le risposte che intendono dare. È fondamentale l’aver trovato nella decostruzione un momento di ispirazione dal punto di vista della perdita della funzione dell’abitare. Così, le eredità che la Cyber-architettura ha derivato da questo movimento sono di una duplice natura. Da una parte troviamo l’uso di geometrie non convenzionali, la rottura dei sistemi figurativi precedenti, la necessità di ampliare il concetto di forma - tutti aspetti potenziati dalle esperienze sulle geometrie cristallografiche, analizzate nell’introduzione di questo scritto -, dall’altra parte esiste lo scollamento del binomio architettura/funzione abitativa che da sempre ha caratterizzato la progettazione. Una domanda importante riguarda il fatto se possa esistere un architetto decostruttivista. Si può dire che esistono disegni, dipinti e sculture basate sulla decostruzione? Lo stesso Derrida sostiene che il pensiero architettonico Decostruttivista è irrazionale. Riferendosi ai progetti di Bernard Tshumi per il Parc de la Villette di Parigi del 1985 (Fig. 7), Derrida si è staccato dalle basi della decostruzione mettendo in risalto il fatto che, nonostante l’apparenza, la decostruzione non è una metafora architettonica, come non è semplicemente un problema di demolizione, ma un atteggiamento affermativo, positivo. Secondo Derrida, nella tradizione, il modo in cui l’architettura, l’habitat, lo spazio visibile, viene compreso dal pensiero filosofico e architettonico è l’evidenza del pensiero logocentrico. Tuttavia, il Logocentrismo, che può condurre alla decostruzione attraverso la riarticolazione Metafisica, si incentra sull’architettura, seppur trascendendone le etichette. Il pensiero architettonico [...] può essere considerato decostruzionista solo nel seguente significato: come tentativo di 15 visualizzazione di ciò che stabilisce l’autorità che unisce architettura e filosofia. L’idea che può essere sviluppata da questa partenza la si potrebbe definire come transarchitettura, un termine di origine derridiana che tuttavia vedremo usato anche in alcune sperimentazioni legate alla cultura Cyber 16. L’idea di un’architettura avulsa dalla funzione la si può osservare nelle “folies” che coprono il Parc de la Villette. Derrida ritiene che sia necessario abbandonare le nozioni architettoniche post-moderniste a favore di un’idea “Post-Umanista”, caratterizzata dalla dispersione del soggetto dal decentramento. Nell’estate del 1988 Philip Johnson e Mark Wigley allestiscono una mostra al Museum of Modern Art di New York intitolata Deconstructivism. Viene messo a confronto il lavoro di sette architetti: Frank O. Gehry, Daniel Libeskind, Rem Koolhaas, Peter Eisenman, Zaha Hadid, Coop Himmelb(l)au e Bernard Tshumi. Si tratta in realtà di una curiosa intersezione di esperienze diverse. Ma tutti i lavori sono legati da alcune costanti che sono da 15 16 G. Broadbend, Deconstruction a Student Guide, Editor J. Glusberg Publisherl, Andrea Papadakis, New York, 1991, p. 8. Cfr. con l’opera di Karl Chu, Cap. 2. individuarsi nelle idee di dislocazione, deviazione, distorsione, dalla tensione verso l’inesplorato potenziale della modernità. La critica ha sempre riconosciuto una grande eredità di questo movimento tratta dal Costruttivismo russo degli anni venti. I punti di riferimento sono personalità fondamentali quali Iran Leonidov, Iakov Chernikov, Alexander Radichenco e altri ancora. Alcuni studiosi tracciano questi paralleli citando l’interesse dei decostruttivisti per gli aspetti “macchinistici” e sculturali dei precedenti sovietici. Persona lmente non abbiamo mai condiviso questa visione, proprio perché l’aspetto più interessante della vicenda decostruttivista è legata non tanto alle visioni scultoree degli oggetti macchina (certo presenti, ma di minor impatto innovativo), bensì alla rivoluzione di carattere spaziale. Il legame che ritroviamo più aderente ad una verità storica riguarda lo spazio Suprematista. Il campo Suprematista è uno spazio di collisione e di eventi, piuttosto che di oggetti. Qualunque opera Suprematista è senza scala e senza misura. La sua diversità, in relazione alla solidarietà tattile e agli oggetti meccanicamente interconnessi dal Modernismo, offre un paradigma di un universo spazio/tempo che si può definire, col senno di poi, Decostruttivista. Una delle figure centrali della decostruzione è certamente Peter Eisenman, la cui posizione è assolutamente anomala rispetto agli altri autori selezionati nella mostra. Il suo apporto è contemporaneamente progettuale e metodologico, capace di creare dei veri e propri rinnovamenti di metodo. La decostruzione, dice Eisenman, è ingannevole, speculativa, cerca l’insieme, il brutto nel bello, l’irrazionale nel razionale per svelare il represso, il reale nascosto, intaccare la testualità e rimuovere il sistema. Proprio per questa sua filosofia, Eisenman vede i suoi progetti decostruttivisti emergere in progetti che contrastano con l’insieme creando un’architettura per un uomo alienato, proprio come Edward Munch aveva fatto in pittura. Eisenman afferma che gli architetti che frantumano, come Gehry e SITE, non stanno realmente decostruendo. Essi sono semplicemente illustrativi e non attaccano il sistema dell’architettura nel complesso. Il passo è fondamentale. Ritornerà spesso in questo scritto l’idea del rinnovamento del metodo, aspetto che vede Eisenman come figura di primissimo piano, anche se, sempre, ambigua. Sulla stessa linea è anche Tshumi il quale affronta il problema della creazione in architettura come problema di destabilizzazione dei processi creativi. Per lui l’architettura è sempre transitoria. I nuovi concetti di spazio e di tempo hanno trasformato le nozioni della stabilità edilizia. Il suo scopo è disfare le icone e le idee di città, da tempo radicate, per mostrare il disfacimento della metropoli, non più basata su uno sviluppo organico o quantomeno prevedibile, ma cresciuta per frammenti e crisi. La mostra dell’88 è certamente un punto fondamentale per la promozione della decostruzione, ma essa sancisce, più che altro, uno spirito che era iniziato almeno da un decennio. Il caso certamente più emblematico è Gehry House a Santa Monica del 1979 (Fig. 8). Qui, la poetica cambia radicalmente in funzione di una logica più vicina al Dadaismo che agli assunti del Movimento Moderno. È condivisibile l’opinione di numerosi critici che leggono in quest’opera un vero atto di rivoluzione del discorso compositivo. Non siamo ancora di fronte ad un ragionamento di carattere spaziale, bensì ad una riflessione sui principi compositivi dell’architettura basati, da allora in poi, sulla poetica del frammento e sulla perdita di unitarietà. Il precedente più diretto è, sempre in Gehry, il progetto non realizzato di Casa Wagner e Casa Familian entrambe del ’78 (Figg. 9 e 10). L’idea di frantumazione, nel primo Gehry17, è plurima. Ovvero, non si esaurisce in queste componenti. Come dimostra la Wilton House (Fig. 11) del 1983-’87, il metodo 17 Questa dicitura è di fatto impropria. Frank O. Gehry, prima di questi eventi, aveva un nutrito curriculum professionale nel quale nulla emergeva della futura sperimentazione sulla forma. Parliamo pertanto di “prima stagione creativa” in rif erimento a quel periodo nel quale egli iniziò a divenire un innovatore della forma e della metodologia di progetto i architettura, approssimativamente tra gli anni 1978 e il 1989, data quest’ultima di completamento del Vitra Museum a Weil am Rhein. decostruttivista di Gehry consiste nel ridurre in frantumi un edificio esistente e lasciare gli elementi del suo lavoro incompiuti. La dialettica di Gehry, come quella di Eisenman, è una forma di anticlassicismo. Questo ci porta a un punto cruciale e cioè ad una probabile ipocrisia nascosta nella decostruzione: essa dipende sempre, per il suo significato, da ciò che è costruito precedentemente. Pone sempre un’ortodossia che sovverte , un passato da infrangere. Questa ipotesi è certamente vera, ma in un aspetto fondamentale i decostruttivisti hanno portato un’innovazione centrale: nell’idea di spazio. Esso è innovativo, offre l’immagine del caos e della frantumazione della percezione. I luoghi dell’abitare sono disseminati, privi di un centro, esplosi in modo da creare un’idea di geometria non riconducibile ad alcun elemento precostituito. Se analizziamo le diverse poetiche degli autori citati in precedenza nell’ambito della decostruzione notiamo come esista una sostanziale differenza di concezioni, poetiche e metodologie di generazione dell’organismo architettonico. Al contrario di Gehry, Zaha Hadid sembra concepire un’operazione basata essenzialmente sul dinamismo. Fin dal Peak di Hong Kong, l’idea è espressa in una serie di dipinti dinamici che sembrano esplosi in livelli frantumati. Il progetto è basato su differenti strati che interpretano in modo molto corretto la complessità di una città come Hong Kong. Il Peak Club è un “grattacielo orizzontale” la cui struttura consiste in una sovrapposizione di tre travi lineari collocate ad estremità differenti in modo da creare vuoti e spazi nel mezzo. Ad ognuna di esse è affidata una funzione. La prima consiste in una serie di dodici studi a doppia altezza ricavati dal pendio. La seconda trave appoggia sulla prima ed è composta da venti appartamenti adibiti ad albergo. Il club stesso è collocato nel vuoto tra il tetto dell’hotel. La terza trave sospesa ad angolo sopra di esso è infine concepita come appartamenti di lusso. Il sistema di spazio si libra come un’astronave. Qui, la stratificazione comune a tutte le anime della decostruzione viene usata come congegno antigravitazionale. La dinamica, che è stata una costante di tutta la storia dell’architettura del Novecento, diviene qui più radicale. In effetti, se in passato il movimento veniva alluso con elementi linguistici che tendevano a sottolineare l’idea di linearità e di movimento, nella Hadid il discorso si sposta a livello spaziale. È come se l’intera architettura venisse deformata per soddisfare un’idea di spazio rivolto al movimento. Lo spazio accompagna il fruitore nel movimento interno e tutta l’organismo edilizio sottolinea e guida una direzionalità. L’opera di Zaha Hadid, in più, esprime la continuazione del Modernismo come estrazione distorta. Il suo progetto per Kurfustendamm 70 (poi vinto da Helmuth Jahn), riguardante un edificio per uffici a Berlino, è una lastra piegata, distorta, che si deforma sull’angolo che deve completare imponendo dinamiche violente. Il progetto è composto da mura boomerang e da pilastri inclinati, gli usuali cocktail sticks, il muro trasparente non portante offre un rivestimento sottilmente incurvato che si inclina mentre sale. E la sequenza dello spazio è contrassegnata da cunei stratificati e da travi a mensola. Qui, la ricchezza di espressione dinamica è ottenuta distorcendo un blocco tipicamente Moderno. Hadid propone, quindi, rotture epistemologiche che vanno ben al di là di un semplice riferimento a movimenti d’avanguardia del passato. Ella [...] preleva dai contesti linguistici originari parti, brani, frammenti, spogliandoli del significato che gli stessi detenevano. Attraverso un’azione dirompente, li manipola con forza, li riplasma, trasformandoli in altro. Dopo tale lavoro di smontaggio, si dedica a un assemblaggio, dove ogni «pezzo», recuperando un’indiscutibile intensità espressiva, torna a caricarsi di una significatività forte e 18 inedita. 18 Cesare De Sessa, Zaha Hadid. Eleganze dissonanti , Testo & Immagine, Torino, 1996, p. 11. Hadid, in sostanza, opera essenzialmente sulla différence, sulla distanza che esiste tra norma e realtà, sulla capacità innovativa di ogni singolo elemento di un sistema complesso che si inserisce in altri sistemi complessi. A partire dal bar Moonsoon a Sapporo in Giappone del 1990, Hadid vara una metodologia che rimarrà inalterata per tutta la sua produzione, fino alle opere contemporanee. Il metodo di progettazione tende a esaltare e drammatizzare la fluidificazione spaziale dell’invaso 19. Gli impianti planimetrici e gli alzati sono [...] come confusi, amalgamati l’uno con gli altri, innestati reciprocamente per dare vita a uno 20 spazio molteplice, «non rappresentabile», ma da fruire. Gli aspetti legati all’opera della Hadid sono davvero molteplici, ma se volessimo schematizzare le caratteristiche principali del suo pensiero potremmo dire che l’idea centrale consiste in una sorta di conformazione spaziale sintetica. Con questa affermazione intendiamo dire che, sempre, il suo disegno tende a creare un’architettura dalla grande riconoscibilità, elementi fortemente identificabili e basati su una sintesi formale all’interno di una complessità spaziale di grande intensità. Naturalmente, nell’economia di questa tesi, interessano particolarmente le questioni legate allo spazio. Hadid, ha un procedimento del tutto personale che la rende molto diversa dalla maggior parte degli altri protagonisti. La forma generale dell’architettura è distorta a formare uno spazio fortemente caratterizzato e direttamente derivato da tale articolazione volumetrica. Se Gehry, ad esempio, tende ad un accartocciamento delle masse murarie che divengono fogli leggerissimi poi arricciati, e lo spazio è illeggibile in forma razionale e non collegabile a tale articolazione delle masse, la Hadid attua una sintesi molto forte tra tettonica e spazio (Figg. 12, 13 e 14). In altre parole, Hadid crea uno spazio a partire dalla massa dell’architettura. Poi tale spazio è prevalentemente rivolto alla fluidità, alla dinamica suggerita e allusa. Abbiamo deciso fin’ora di delineare i temi della decostruzione in architettura citando solamente due autori particolarmente emblematici: Gehry e Hadid. In realtà, questo movimento ha prodotto una numerosissima serie di contributi, alcuni particolarmente originali ed interessanti e fondamentali per la nostra riflessione sullo spazio. Tuttavia, l’approfondimento e la descrizione di altre opere nulla apporterebbe di nuovo al discorso di carattere generale sullo spazio. Come dimostrano i progetti sopra riportati, l’idea di spazio decostruttivista non rispecchia uno spazio euclideo. Non descrive, più in generale, uno stato di ordine. Esiste allora una duplice motivazione nella visione di uno spazio decostruito. Da una parte esso è espressione di uno stato di inquietudine rivolto alla rappresentazione irrazionale, mentre dall’altro esiste una volontà di delineare alcuni caratteri della contemporaneità. Il primo aspetto è legato ad un cambiamento culturale, già posto in atto dalle ricerche geometriche degli anni cinquanta e sessanta. La necessità era quella di indagare le nuove possibilità dell’abitare connesse con le problematiche spaziali. La decostruzione ha offerto un rinnovamento dei parametri spaziali partendo da una nuova cultura figurativa, non più basata su solidi platonici o cristallografici ma sull’informale e sul caos. Il senso derivava dalla consapevolezza della contaminazione, della perdita di senso di un pensiero forte e logocentrico. Gli effetti erano sostenuti non tanto dall’arbitrio, bensì dalla volontà di raggiungere una destabilizzazione assai poco rassicurante ma rispondente ad una nuova filosofia di interpretazione della contemporaneità. La città post-moderna è il risultato di una disintegrazione del concetto Moderno di pianificazione e l’effetto principale è una distruzione del vecchio ordine. 19 20 Ivi, p. 14. Ibid. Il secondo motivo, più sotterraneo e meno esplicito nel campo della critica architettonica è di carattere psicoanalitico. L’architettura decostruttivista è, altresì, uno specchio dell’attuale crisi di identità, venutasi a creare con i rinnovamenti in ambito sociale. In tal modo la creazione di uno spazio del vissuto manifesta alcune aberrazioni ed insicurezze del sentire sociale. Tale questione non deve apparire fuori luogo. Nella trattazione sulla cultura Cyber è evidente come vi sia una stretta interconnessione tra aspetti legati alla sociologia e alla progettazione degli spazi. Questo legame, già tradizionalmente stretto, è in questo caso particolarmente evidente. Nel capitolo 2.1. risulterà evidente come la caratteristica principale della Cyber-cultura sia la smaterializzazione. Questo effetto è presente nella generazione degli spazi della percezione perché fa parte del vissuto contemporaneo. La società attuale sposta progressivamente alcune modalità del vissuto dalla realtà fisica a quella immateriale della virtualità. È, per così dire, una sorta di degenerazione della presenza dei media nel vissuto quotidiano. Internet, la rete Web e l’uso del computer hanno progressivamente abituato le persone ad accettare una sorta di esistenza parallela, la prima fatta di materia, la seconda - davvero molto importante - fatta di virtualità. Ma per poter capire questo mondo, attualmente in essere, occorre comprendere come la decostruzione abbia sancito un rinnovamento sostanziale nei confronti del rapporto con il reale. La deformazione delle geometrie è lo specchio della perdita di identità e del desiderio di indagare forme del vissuto profondamente differenti alla tradizione. 1.2. Figure di passaggio dalla decostruzione verso la Cyber-architettura La Cyber-cultura ha dato corso esattamente a quelle prefigurazioni di rinnovamento che la decostruzione aveva delineato. La decostruzione è stata, altresì, un movimento apocalittico capace di evidenziare le contraddizioni interne del precedente sistema e, attraverso un procedimento interpretativo, di demolirlo. Quanto ne è uscito è una nuova idea di società, basata su nuovi paradigmi, profondamente differente da quella attaccata. Ogni momento di crisi pone in evidenza disparità esistenti tra reale e modalità interpretative di questo status. La Cyber-cultura (analizzata in dettaglio nel prossimo capitolo) non è stata la risposta alla crisi. Rappresenta, semmai, un nuovo assetto nato da due rivoluzioni contemporaneamente in atto. La prima è stata determinata dal cambiamento post-moderno, la seconda dalla rivoluzione informatica. In questo quadro generale, è possibile dire che esistono nel panorama architettonico internazionale alcuni autori che più di altri hanno intuito il cambiamento in atto. Non stiamo parlando di architetti facenti parte di una o di un’altra corrente. Sono, semmai, personalità che hanno capito le ragioni profonde di un nuovo assetto e in alcune opere hanno manifestato con chiarezza questa posizione. In particolare, abbiamo trovato che Peter Eisenman e Toyo Ito abbiano creato alcuni lavori particolarmente importanti per sottolineare il cambiamento dalla decostruzione alla Cyber-cultura. Anche se in tutto lo scritto abbiamo utilizzato l’escamotage di collocare i diversi autori in determinate correnti di architettura per una maggiore comodità critica, in questo caso non lo faremo poiché risulterebbe inesatto. In verità, il passaggio dalla decostruzione alla Cyber- cultura, non è particolarmente chiaro. Non esiste nessun atto d’intenti, né alcuna opera emblematica che costituisca una dichiarazione a tale riguardo. Tutt’al più, possiamo individuare alcuni lavori nei quali è possibile cogliere temi maturi della decostruzione ma che, in qualche modo, fanno uso di processi informatici. Un primo ed essenziale riferimento è Toyo Ito. La vasta opera del maestro giapponese non è da prendere in considerazione in questo caso. Né è possibile parlare di Ito come di un autore appartenente alla decostruzione. Esistono, tuttavia, tre la vori assai importanti nella sua produzione. Questi hanno la caratteristica di essere emblematici di un cambiamento di fase. Nella mostra Visions of Japan al Victoria and Albert Museum di Londra (Fig. 15), una ricchissima serie di immagini di Tokyo erano proiettate su pareti, pavimento e soffitto, creando un grande caos visivo. Diversi amplificatori diffondevano a gran volume i rumori della città. L’ambiente era confuso ed evanescente ma molto esplicito della visione di Ito sulla realtà contemporanea. Il risultato, oggi, ci appare forse scontato, ma nel 1991 (anno di realizzazione del progetto) certamente non lo era. La sovrapposizione delle immagini non consente la loro piena registrazione da parte del fruitore che, come consegue nza, non ha la facoltà di comprenderle. Questo fa sì che l’immagine venga svuotata di ogni significato, bloccata in uno stadio che ha raggiunto i sensi ma non si è focalizzata nell’intelletto. Le immagini sono flussi di informazioni che attraversano la realtà senza colpirla. Esse sono illusorie e prive di significato. Quello che sono in grado di comunicare è un senso generalizzato di caos e immaterialità. Anche l’Uovo dei venti è collocabile nella medesima direzione (Fig. 16). Si tratta di un’installazione costituita da una grande scultura-caleidoscopio rivestita di panne lli di alluminio traforato. Al di fuori, una serie di immagini erano proiettate sulla scocca, mentre dall’interno alcuni schermi mostravano immagini di varia natura. Il gioco di sovrapposizioni era metafora, di nuovo, della compresenza delle informazioni che il quotidiano impone. L’elettronica è, per Ito, come un mare, come le onde, come un soffio vitale. Lo spazio deve riflettere l’idea della vita, e oggi essa è dominata dai flussi di dati. Questa è l’idea fondamentale che ritroviamo anche in un’opera del 1986, la Torre dei venti. Questa costruzione ovoidale costruita per Yokohama assume una forma fluida. L’involucro è in grado di assumere aspetti differenti a seconda delle sollecitazioni sonore che registra al suo intorno. Non siamo più nelle condizioni nelle quali la forma di un oggetto era determinata dalla funzione o dal meccanismo interno. Ora l’involucro è indipendente e diventano irriconoscibili i processi di funzionamento. Questo determina una progressiva evanescenza della forma che, concettualmente, diviene indifferente. Ito interpreta queste qualità con la trasparenza. Sia l’Uovo dei venti che la Torre dei venti sono schermi che agiscono sulle sovrapposizioni di immagine, sulle alterazioni dei significati ultimi. Il valore della parte è ridotto a nulla e persino il senso collettivo non si manifesta dalla somma. L’uovo e la torre non sono più oggetti ma supporti, medium dai quali si diffondono le informazioni. Allora, l’immaterialità delle immagini, ipertroficamente ripetute sulle pareti della mostra Visions of Japan o l’Uovo dei venti, o, ancora, la Torre dei venti, rappresentano nel loro complesso, l’atto di nascita della cultura dell’immaterialità. Il messaggio chiarissimo che Ito aveva offerto era quella di una società basata sulla sovrapposizione e sul caos, sulla ripetizione incontrollata di messaggi che, in virtù della loro ridondanza, divenivano insignificanti. Il vero momento di grande novità riguarda il fatto che tale caos era espresso non tanto da una grammatica architettonica, da un edificio, bensì da una selva di immagini elettroniche. In questo notiamo il punto di contatto tra decostruzione e virtualità: l’espressione attraverso il caos di un mondo di pure immagini. Le immagini generavano un comportamento spaziale, con le medesime modalità che la cultura Cyber utilizza. Peter Eisenman è una figura che accompagnerà tutto questo lavoro. Egli cavalca i movimenti, talvolta li crea e ne diviene uno degli esponenti di punta. Ma sempre esiste il problema di una sorta di estrema astrattezza delle sue composizioni che rischiano di essere lavori programmatici e manifesti teorici di una posizione militante di una determinata corrente. Nessun architetto è più legato alla fede dello scetticismo dogmatico, all’importanza dei divari e delle contraddizioni come Peter Eisenman. Nel 1978 egli è diventato un decostruzionista, e nello stesso tempo si è sottoposto alla psicanalisi. I suoi scritti e i suoi edifici contengono un’energia frenetica e sono costruttivamente fusi come se ciò potesse produrre una breccia, una nuova non-architettura che è in parte costruzione, scrittura e modello. Paradossalmente la sua estetica è rimasta la stessa della sua prima casa, sebbene nuove tipologie siano state aggiunte al suo repertorio. Nella sua fase decostruttivista, dall’epoca dei Five Architects non molto è cambiato. È presente una pressoché totale assenza di decorazione, gli elementi linguistici sono basati su un razionalismo de-strutturato e riassemblato in modo assai diverso, esiste sempre un’immagine purista dell’architettura, negata esclusivamente dalla creazione di spazi compenetrati e da una perdita della costruzione illuminista dell’architettura in funzione di una negazione della razionalità compositiva. I suoi primi progetti, le House 1 e 2, continuano anche la sintesi Modernità di Le Corbusier e Terragni, autore quest’ultimo di grande importanza teorica per Eisenman. La House 3 e 6 erano un tardo esercizio, esempi semplificati di un “puro formalismo”, influenzate da quello strutturalismo che, nel capitolo precedente è stato accennato, e dal Minimalismo di Donald Judd. Il ciclo è concluso dalla House 10 del 1978, l’ultimo lavoro formalista e, contemporaneamente il primo esempio di decostruzione in Eisenman. Come sempre avviene, in Eisenman il processo di concezione dell’edificio è estremamente complesso (o meglio complicato). L’edificio è stato progettato sottraendo alcuni elementi con una serie di processi meccanici che hanno distrutto il centro della casa. Così, Eisenman attua il concetto di decentramento tipico della decostruzione. L’uso di una scala antropomorfica (scalatura dimensionale), i materiali usati in modo ribaltato (come il caso del vetro utilizzato come pavimento) sono tutti mezzi per attuare un processo anamorfico, un vero e proprio attacco alla rappresentazione motivato dalla necessità di distanziarsi dalle tendenze umanistiche e classiche. Desideriamo evitare una descrizione dei tortuosi processi mentali che portano Eisenman a comporre architettura, riservandoci un approfondimento nei capitoli successivi. È fondamentale, tuttavia, indagare almeno un progetto, particolarmente significativo per il processo compositivo di Eisenman: l’IBA di Berlino (Fig. 17). Questo edificio, collocato vicino al Checkpoint Charlie, è un emblema del trauma attraversato dalla città tedesca nei precedenti quarant’anni. Eisenman ha avuto l’opportunità di rappresentare catastrofi e discontinuità del passato e del presente. Il primo progetto (1982), postula il nuovo sviluppo con aggiunte ed eliminazioni, ma la versione realizzata è una soluzione ridotta rispetto alla prima ipotesi. Infatti, solo trentasette unità di appartamenti furono costruite dall’angolo nord occidentale. Con questo progetto egli aveva intenzione di fornire un’alternativa allo storicismo Post-moderno, basandosi su una composizione che sfruttasse in modo alternativo la stratificazione storica. Se in quest’ultimo movimento, l’idea storia era fornita come collage ironico di stilemi del passato, nell’operazione di Eisenman il trascorso diviene uno strumento per intessere maglie, griglie dimenticate e riarticolate in un sistema complesso e sovrapposto. Il Post-modern è respinto come tentativo di imbalsamare il tempo oppure di invertirlo con una forma di nostalgia. Eisenman propone un’antimemoria neutralizzante. Il problema, sia in questo progetto che in tutti i lavori di Eisenman, è che nessuno sarebbe in grado di comprendere tutti i significati che l’autore stratifica senza leggere le note accluse. Molte cose vengono intenzionalmente tenute all’oscuro, lasciate astratte senza spunti o convenzioni visive. Questa difficoltà a comprendere è una parte essenziale della sua teoria della totalità e non tiene conto che gli abitanti potrebbero fraintendere l’edificio se solo lo guardassero o lo vivessero. La forma ad “L” dell’edificio berlinese, ad esempio, si sovrappone e si deforma in funzione delle griglie scaturite dalle stratificazioni storiche dell’intera città attraverso un processo che, sebbene diverso, ha utilizzato anche Libeskind nella creazione della conformazione del Museo Ebraico per la stessa città. Le griglie si sommano, entrano in crisi per poi annullare ogni identità e riconoscibilità figurativa. L’edificio, inclinato, in grate frammentate verdi, griglie rosse e grigie, offre una sorta di identità singolare ad ogni appartamento. Essendovi una negazione totale di ogni forma di ritmo alterato da una specie di rumore di fondo che impedisce ogni affermazione di natura ordinatrice, Eisenman compone un’architettura fatta di volumi, linee e grate colorate che complessificano l’unitarietà di un blocco unitario. L’armonia che viene contestata è esattamente ciò che l’architetto tenta di decostruire nella sua ricerca di un anticlassicismo. In Eisenman il problema della creazione è determinante a tal punto da prevalere sull’opera realizzata. È possibile dire che il processo creativo di Eisenman si esaurisce con la generazione di un metodo convincente al raggiungimento di un fine. L’architettura è una conseguenza di quell’atto e come tale è un avvenimento occasionale che non ha, pertanto, grande importanza. In questo paragrafo la nostra attenzione si concentra su quegli autori che, più di altri, sono stati un tramite tra due momenti differenti nella cultura architettonica contemporanea. Abbiamo inteso sottolineare quali fossero i legami più profondi tra la decostruzione e la successiva Cyber-architettura. A partire dalle questioni legate alle metodologie, alle filosofie soggiacenti i diversi movimenti, alle tematiche sociali, al rinnovamento del concetto di geometria e, ancor di più, di spazio, esistono alcuni progettisti che sono stati un tramite molto forte tra decostruzione ed epoca Cyber. Ogni legame sottolineato nel Cap. 1.1. si ritrova in modo molto evidente in Peter Eisenman. In altre parole questo significa che Eisenman incarna tutti gli aspetti sia della decostruzione che della Cyber-architettura. Resta da vedere se questo avviene per una sua capacità camaleontica, oppure perché questi movimenti lo trovano come protagonista attivo capace di personalizzare le tendenze più in voga dell’architettura. Il primo progetto che Eisenman realizza con il computer è nel 1987: il Carnegie-Mellon Research Center di Pittsburgh21. Il progetto è largamente immaturo dal punto di vista dell’uso dell’elaboratore elettronico nel processo creativo. È interessante capire come qui si sia determinato un cambiamento. Eisenman non ha mai abbandonato i processi decostruttivi nella creazione di un metodo progettuale e nella conseguente realizzazione di un’opera. Con il Carnegie-Mellon Research Center questo viene ad essere affiancato ad una procedura di nuovo tipo. Indagando le diverse personalità dell’architettura decostruttivista, riteniamo che solamente due possano essere gli autori che possono costituire un tramite tra i due movimenti: Frank O. Gehry e Peter Eisenman. Come conclusione di questo paragrafo occorre dire che non è sufficiente utilizzare lo strumento informatico per essere propositivi nell’ambito della Cyber-architettura. I parametri di questo movimento hanno caratteristiche molto particolari che lo distinguono da tutto ciò che lo precede. Così, figure quali Zaha Hadid o Daniel Libeskind, pur avendo fornito contributi essenziali allo spirito della decostruzione internazionale, non hanno dato alcun contributo innovativo nella creazione di spazi attraverso l’uso del computer. Il problema sostanziale è esattamente questo. Non è tanto la creazione di spazi non-euclidei con il computer che determina l’appartenenza di un autore alla corrente Cyber. Il problema è più profondo. Il computer è e rimane, in ogni caso, uno strumento oggi indispensabile per realizzare un certo tipo di sperimentazioni sulla forma e sullo spazio. Ma è la modalità di approccio al problema che rende diversi gli autori. La logica Cyber, in sintesi, fa in modo di creare una certa confusione tra realtà ed virtualità. In questi casi (certo estremi) la cultura Cyber è chiara. Hadid o Libeskind, pur dovendo utilizzare il computer per il normale lavoro professionale non hanno dato alcun apporto innovativo nella creazione di spazio noneuclideo. Essi continuano a creare organismi con procedimenti assolutamente simili a quelli usati precedentemente. Per costoro, il computer non è uno strumento senza il quale l’architettura non potrebbe venir concepita. 21 Cfr. Cap. 3.4. di questo scritto. Il discorso è diverso per Gehry ed Eisenman. Rimandando gli approfondimenti ai successivi capitoli 22 relativamente alle procedure operative della fase creativa, occorre dire che per questi due maestri il problema della creazione di spazi con il computer ha una valenza sostanzialmente nuova. È il processo che risulta rinnovato e non solamente il lato rappresentativo. Il fare architettura è generato con l’elaboratore che lavora insieme all’architetto. Questo avviene, secondo le nostre ricerche, in tre modalità differenti. Un primo gruppo di architetti possono essere assimilati a degli scultori che, con l’uso dell’elaboratore, trasferiscono e completano la conformazione dell’edificio nell’ambiente virtuale. L’aspetto innovativo risulta dall’interazione tra la fase fisica e quella elettronica. In questo caso, però, occorre distinguere tra quegli autori che, come Gehry, hanno apportato un metodo di composizione che è esattamente a metà tra un processo fisico ed uno elettronico, e altri architetti che, al contrario, utilizzano lo strumento come semplice metodo di gestione degli aspetti realizzativi. Nei primi, la fase informatica è strettamente compenetrata con quella fisica, mentre per i secondi esiste una grande differenza e la digitalizzazione nulla aggiunge ad un processo che potrebbe tranquillamente avvenire senza l’ausilio di software. Il secondo gruppo di autori possiede una specificità molto maggiore. Essi creano spazi non-euclidei solamente con l’elaboratore. Il processo di formazione dell’idea non avviene senza di esso. Esistono, in più, alcuni caratteri che rendono questa progettazione decisamente particolare. Il secondo gruppo di autori si inserisce con maggior precisione nella Cyber-architettura. Qui, i progettisti tendono a confondere, volontariamente, la realtà e la virtualità. In questi casi, i progetti hanno sempre una valenza astratta che tende a dimenticare gli spetti fruitivi in funzione di quelli visivi. Non per questo tale progettazione deve essere considerata priva di contatti con il reale. L’ultimo esempio di progettazione con l’elaboratore ci riporta a Peter Eisenman. Egli instaura una sorta di progettazione automatica nella quale il ruolo dell’architetto è, se non secondario, subordinato ad alcune decisioni della macchina. Queste tre tendenze sono sempre rivolte verso la creazione di uno spazio non-euclideo, verso uno spazio che non è compiutamente comprensibile e, soprattutto, gestibile senza l’ausilio del computer. Tutto questo nasce dalla decostruzione come momento conclusivo di una lunga serie di sperimentazioni geometriche nate dal rifiuto delle configurazioni trilitiche tradizionali, ricercando una nuova modalità di rappresentazione dello spazio più rispondente ad alcune inquietudini della contemporaneità. 22 Cfr. Cap. 3 Fig. 7: Bernard Tshumi, Parc de la Villette, Parigi 1985 Fig. 8: Frank O. Gehry, Gehry House, Santa Monica, 1979 Fig. 9: Frank O. Gehry, Casa Wagner, 1978 Fig. 10: Frank O. Gehry, Casa Familian, 1978 Fig. 11: Frank O. Gehry, Wilton House, 1983-’87 Fig. 12: Zaha Hadid, Landesgartenschau, Weil am Rhein, 1997-’99 Fig. 13: Zaha Hadid, Museo d’arte contemporanea, Roma, 1998-2005 Fig. 14: Zaha Hadid, Grande Biblioteque du Quebecl, Montreal, 2000 - Fig. 15: Toyo Ito, Vision of Japan, Londra, 1991 Fig. 16: Toyo Ito, Uovo dei Venti, Tokyo, 1990-’91 Fig. 17: Peter Eisenman, IBA, Berlino, 1981-’85 Capitolo 2 La Cyber-architettura 2.1. Natura ed origini della cultura Cyber L’analisi dell’architettura virtuale deve essere condotta attraverso parametri interpretativi che si riallacciano alla Cyber-cultura. Senza questo strumento è impossibile capire alcuni caratteri che distinguono la radicale novità dell’architettura virtuale dalla tradizione del Movimento Moderno. Essa si pone come una frattura generata dalla tecnologia che ha determinanti ripercussioni a livello sociale. Il punto di svolta non è tanto l’invenzione o il perfezionamento delle tecnologie informatiche, quanto la loro diffusione a scala globale, situazione che ha reso l’elaboratore un nuovo sistema mass-mediologico. In una conferenza svoltasi presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano 23, Hani Rashid del gruppo Asymptote ha offerto una lettura estremamente feconda dell’attuale produzione architettonica realizzata con il computer. Egli ha ricordato come non sia stato ancora individuato con precisione un movimento che riunisca le attuali proposte realizzate con l’ausilio del computer. Questo significa che, per Rashid, è possibile individuare una serie di personalità dell’architettura contemporanea i cui tratti comuni possono essere ascritti all’uso del computer nella progettazione. Egli, insieme ad alcuni critici d’architettura della scuola americana, ha chiamato le sperimentazioni di Greg Lynn/Form (Fig. 18), Reiser+Umemoto (Fig. 19), Neil M. Denari (Fig. 20) e altri ancora, come Blob Architecture. Il termine, derivato da un cult-movie del 1958 dal titolo The Blob24, è stato associato a tutta quella produzione artistico/architettonica che prefigura forme avvolgenti e membranose. Questo riferimento è assai più importante di quanto non appaia a prima vista, poiché sancisce l’ingresso nella produzione architettonica dei mass-media e della cultura underground. È assai frequente trovare numerose contaminazioni nel campo di ricerca che andiamo ad affrontare, tali da rendere sfumati i confini dell’ambito architettonico. Sarebbe infatti assai riduttivo pensare alla Blob Architecture [...] o ai recenti progetti di Peter Eisenman e Frank Gehry come a un’espressione autonoma, prodotta unicamente da un rapporto ‘artistico’ e individuale con il progetto. Credo sia invece molto più importante mettere in luce la capacità che ha avuto parte della cultura architettonica americana di riflettere su se stessa e sulle ragioni del progetto contemporaneo generando alcune delle esperienze intellettuali e creative più 25 rilevanti di questa fine secolo. 23 Hani Rashid, Asymptote, conferenza presso la Sala Rogers, Facoltà di Architettura, Politecnico di Milano, 1 giugno 2001. La registrazione della conferenza è in possesso dell’autore di questo scritto. 24 The Blob , Usa, 1958. Regia di Irvin S. Yeaworth jr. Titolo italiano: Fluido mortale. 25 Luca Molinari, Tendenze dell’architettura nordamericana. Gli anni Novanta, Skira, Milano, 2001, p. 186. Riteniamo tuttavia imprecisa o quantomeno non completa la definizione di Blob Architecture proposta dalla scuola critica americana, poiché non tiene nel giusto conto alcune complessità ed eredità di questo genere di architettura. Dapprima un chiarimento dal punto di vista critico/metodologico. È scorretto pensare che la grande massa di produzione che abbiamo analizzato si possa racchiudere in un unico movimento d’architettura. È pertanto impreciso tentare di definire regole chiare per delineare caratteri universali dei diversi apporti. Anche dal punto di vista puramente formale le distanze sono notevoli: le esperienze di Asymptote, Toyo Ito, Frank O. Gehry, o dei minori come Marcos Novak, Leeser Architecture, Anton Markus Pasing ed altri, sono decisamente inconfrontabili. Esiste, però, un comune denominatore che è l’utilizzo del computer nella generazione dello spazio in architettura. Nelle pagine precedenti ho individuato alcune direzioni principali che determinarono lo sviluppo degli ambiti figurativi e delle tracce filosofiche delle attuali correnti che personalmente definiamo come Cyber-architettura. Ebbene, è indispensabile puntualizzare che l’unica, reale, forma di comunanza tra queste sperimentazioni è esclusivamente l’utilizzo del computer come strumento di concezione dello spazio in architettura. Ma perché abbiamo imposto il termine Cyber-architettura in virtù di quello più diffusamente accettato di Blob Architecture? Cyber è un termine di più ampio respiro che coinvolge maggiori tematiche e variabili legate ad alcuni aspetti della cultura contemporanea. La Cyber-architettura è esattamente questo, una frammentazione di esperienze differenti senza confini di carattere metodologico o disciplinare. Per comprendere meglio questo assunto occorre analizzare alcuni caratteri essenziali della cultura Cyber e tentare, parallelamente, di riconoscerli in opere di architettura particolarmente evocative. Una scelta che riteniamo opportuno svolgere, in questo paragrafo, è affrontare la lettura di esempi minori di progettazione di spazi virtuali noneuclidei, rimandando al successivo opere di respiro maggiore. Il motivo è duplice. Esempi di notevole spessore abbisognano di una lettura più dettagliata che appesantirebbero il delineare le linee principali della cultura Cyber. L’altro aspetto è l’adesione alla teoria critica di Heinrich Wölfflin il quale suggeriva il riconoscimento dei caratteri stilistici di un’opera d’arte nella lettura dei dettagli più che nei temi principali 26. Il termine Cyber deriva dal greco κυβερνητης che significa «pilota della nave». Dal punto di vista strettamente tecnico la cibernetica, da cui deriva il termine “cyber”, è la 27 scienza che studia comparativamente o sinteticamente enti complessi capaci di autogoverno . Interessante è l’estensione di questo termine, non esclusivamente riferito ad aspetti tecnici o relativi al mondo informatico, ma anche ai sistemi creati per governare in ambito sociale od economico. Pur partendo da discipline legate alle scienze umane, la cibernetica è per noi importante poiché correlata, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, alle sperimentazioni sui processi di autogoverno delle macchine belliche e, successivamente, ai sistemi meccanici complessi. L’evoluzione del problema teorico venne sancito dall’introduzione di sistemi di rilevamento capaci di fornire informazioni al sistema che, conseguentemente, era in grado di reagire. Per estensione, si può considerare la cibernetica come l’associazione di un sistema matematico ad un sistema meccanico e, questi due, ad un problema fisiologico. In qualche modo, fin dalle iniziali sperimentazioni sui cannoni di bombardamento (basati sui principi di 26 Heinrich Wölfflin, Kunstgeschichtliche Grundbegriffe, 1915, trad. it., Concetti fondamentali della storia dell’arte, TEA, 1994. A tale riguardo vedasi anche Edgar Wind, Arte e anarchia, Adelphi, Milano, 1986, pp. 41 e sgg. 27 Voce «Cibernètica», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, RCS Libri, Milano, 2000. estensione della percezione e di reazione delle macchine alla volontà dell’uomo), la cibernetica si pone il problema di come [...] organismi viventi o macchine trasmettono le informazioni necessarie al proprio funzionamento, e della loro quantità. Successivamente il campo d’indagine si estese dalle informazioni agli effetti che 28 esse potevano produrre sul comportamento della macchina . In queste ipotesi iniziali sono presenti una serie di implicazioni che non abbandoneranno più la cibernetica come scienza, divenendo tratti comuni a tutta la cultura Cyber contemporanea. L’autogoverno implica come corollario l’automatismo generativo di informazioni, insieme all’autoregolazione di sistemi, e, per estensione al campo dell’architettura, delle forme e, finalmente, dello spazio. Makoto Sei Watanabe29 ha sviluppato tra il 1991 e il ‘96 un progetto di autogenerazione di insediamento urbano a grande scala chiamato The Induction Cities (Fig. 21). Il senso di questo programma è il ribaltamento consueto dei processi di disegno di piano urbano. Egli disegna un “meccanismo” per generare i risultati. Il processo è, dunque, evolutivo, «design without design». In qualche modo Watanabe propone un sistema di progettazione che non ha come risultato un insediamento o un’architettura ma un sistema per il progetto. This might otherwise be described as a higher-level approach to design, designing the system of 30 the process of design [...]. Il risultato è un meta-design possibile esclusivamente attraverso l’uso del computer che travalica il significato di semplice strumento di progettazione. Esso diviene “attore” principale della progettazione capace di influire sulle scelte finali. Quando una parte di questa città virtuale è modificata, le relazioni tra tutti gli altri elementi sono alterati. Le interrelazioni sono complesse ed intrecciate, dinamiche dipanabili esclusivamente con l’utilizzo dell’elaboratore. Conclude Watanabe: questo progetto è un territorio quadridimensionale di città virtuale. Il riferimento alla quarta dimensione non è casuale poiché rispecchia un tipico approccio della produzione della cultura Cyber, ovvero la perdita di dimensionalità del fattore tempo e la contemporaneità dell’evento. In questo caso, quindi, il tentativo è quello di porre lo strumento informatico come autore della progettazione, evidenziando l’aspetto di reazione automatica ad una serie di informazioni in ingresso. Un tema determinante riguarda il fatto che in generale, e sia pure praticamente entro limiti determinati, la capacità di autogoverno può essere attribuita a una macchina tutte le volte in cui sia possibile dotarla di organi rivelatori, che raccolgono informazioni sullo stato del sistema e sulla sua evoluzione nel tempo, e di altri organi che siano capaci di comandare, in base alle informazioni ricevute, la variazione di elementi determinanti il suo funzionamento in modo da conseguire la prestabilita finalità. Essenziale a tal fine è dunque il concetto di feed back o retroazione che consiste essenzialmente nell’indagare le caratteristiche dell’effetto prodotto dalla macchina e, in base a esse, nell’inviare un messaggio “all’indietro”, correggendo i 31 singoli elementi o fattori, in modo che il risultato conseguito nel complesso rimanga quello voluto. Il brano qui riportato contiene un dato fondamentale per comprendere la poetica Cyber. I citati «organi rivelatori» hanno dato luogo ad una feconda serie di interpretazioni, sia a livello poetico che applicativo. È infatti possibile affermare come in questo mondo ci sia stata una progressiva perdita dei confini disciplinari. Se Norbert Wiener nel 1947 tentò di 28 Ibid. Makoto Sei Watanabe è nato in Giappone nel 1952. Si è laureato nel 1974 a Yokohama. Insegna in questa città e a Kyoto a partire dal 1997. 30 Frédéric Migayrou e Marie-Anne Brayer, ArchiLab , Thames & Hudson, London, 2001, p. 480. 31 Voce «Cibernètica», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit. 29 unificare concezioni diverse che aleggiavano intorno alla scienza cibernetica per farne una disciplina unitaria, occorre tuttavia dire che i risultati si dimostrarono così fecondi da influenzare retroattivamente tutte le diverse branche di partenza. Ciò si traduce nella consapevolezza che la complessità del tema necessita di apporti diversi ed eterogenei che, a prescindere dalla loro natura, possono coesistere in un senso ancorché inafferrabile, ma coerente e sistemico. Analizzando l’opera di un giovanissimo autore tedesco, Anton Markus Pasing 32, possiamo mettere a fuoco alcune osservazioni appena fatte. Egli è architetto di formazione, ma i suoi progetti sono crogiuoli di intuizioni sempre estremamente polemiche con la cultura architettonica e figurativa del suo paese. Citiamo, volontariamente, un progetto che, ben lungi dall’essere architettura, affonda pienamente nel vortice della Cyber-culture internazionale. Genesis 9 - super tool (Fig. 22) è un progetto di androide ideato nel 1995-’96 con evidenti intenti di sfida. Il discorso che Pasing sottolinea è come la progressiva spersonalizzazione causata dalla cultura dei media ha generato un’intima fusione tra uomini e tecnologie. Se la teoria cibernetica propone l’interazione e persino l’integrazione tra uomo e macchina attraverso sensori reattivi e retroattivi in grado di modificare i processi di azione delle macchine, la cultura ha reagito in modo estremo producendo una non chiara distinzione tra essere umano ed “essere tecnologico”. L’individuo non può più essere definito completamente umano; nello stesso momento la tecnologia raggiunge un grado di complessità talmente elevato da sconfinare nell’organico, accettandone l’infinita mutevolezza di forme, logiche e tipi. Il primo passo in questa direzione è, come sempre, di carattere poetico. Si sono avuti molti esempi letterari o cinematografici nei quali sono stati immaginati addizioni su corpi biologici di parti meccaniche capaci di “amplificare” funzioni umane. Il concetto è, ricordiamo, direttamente derivato dalla teoria della cibernetica attuata durante le sperimentazioni sugli armamenti nel periodo bellico. Il progetto di Anton Markus Pasing non è altro che l’ultimo episodio di una lunghissima serie di esempi futuribili. Ma questo caso e per noi particolarmente significativo. Esso è ideato da un architetto che ha condotto ulteriori ampliamenti della metafora del corpo cibernetico e della creazione di organismi architettonici di chiara ispirazione biologica facendo confluire in un unico mondo figurativo ambiti separati di architettura, design e mondo organico, attraverso la lente della cibernetica (Figg. 23 e 24). Il progetto Ektochanger - Haus an der B 54 del 1991 è un significativo caso di polemica condotta al limite dell’immaginifico. Si tratta di un edificio residenziale ai margini di una grande arteria urbana posizionata in un «continuum spazio/temporale» 33. Il progetto intende contenere il senso del movimento che si attua nelle grandi vie di comunicazione all’interno dell’edificio, strutturato, formalmente e spazialmente, come un grande organismo di ispirazione zoomorfa. Sono lontane da Pasing le ispirazioni bioniche. La sua formazione è diversa; egli arriva a questi risultati a partire da un’estetica tipicamente Cyber di fusione organico/inorganico. A tal riguardo, anche il secondo esempio di “pseudoarchitettura” che propongo risulta essere di interesse per chiarire il processo che la cultura Cyber ha apportato all’interno dell’architettura. Das letzte Haus (L’ultima casa) si pone al di là di un convenzionale progetto di architettura. Se Ektochanger, pur nell’anomalia formale, poteva essere ricondotto a matrici linguistiche e tettoniche tipiche dell’architettura, Das letzte Haus è assai più vicino ad un progetto elettronico con scarsi contatti con l’aspetto realizzativo. Il metodo che Pasing utilizza per la genesi della forma architettonica è il morphing, tecnica cinematografica capace di alterare una morfologia iniziale in una finale completamente diversa. È interessante notare come il medesimo processo venga utilizzato anche da Peter Eisenman, fatto che conferma una sorta di comunità di intenti derivati dall’utilizzo del computer come sistema globale di azione. Pasing trasforma un 32 Anton Markus Pasing è nato nel 1962 a Greven a.d. Ems in Germania. Si è formato alla Facoltà di Architettura di Münster (Germania) e si è perfezionato a Düsseldorf in Kunstwissenschaft, filosofia e sociologia. Ha iniziato la sua attività di progetto a partire dal 1990. 33 Anton Markus Pasing, Remote Controlled Architecture, Verlag H. M. Nelte, Wiesbaden, 1998, p. 18. teschio umano in architettura attraverso una serie di alterazioni formali dissonanti ma coerenti. L’effetto finale è di straneamento poiché il passaggio da un oggetto organico ad un organismo che vorrebbe essere architettonico offre un disorientamento anche di carattere metodologico. È chiaro come la tradizionale cultura del progetto qui è assente. L’unica forma di generazione dell’architettura è la reiterazione di cicli di modificazione esclusivamente formale effettuata dal computer; questi richiamano, a ben pensare, i processi di retroazione su cui la cibernetica è basata. È possibile affermare che i risultati intermedi di questa trasformazione sono elementi essenziali nel processo di sviluppo della forma e dello spazio verso il prodotto finale, determinanti a tal punto da creare una estetica della forma assolutamente particolare ma tipica della cultura Cyber. Abbiamo insistito su questo progetto poiché racchiude processi e metodologie tipiche della cultura Cyber. Se il punto di partenza era la fusione uomo/macchina verso una nuova forma di organismo interattivo, il risultato è quello della creazione di sistemi né organici né artificiali, incarnati in modo chiaro, a nostro parere, dai progetti di Anton Markus Pasing. Tale processo non deve sembrare arbitrario o concettuoso. In realtà ciò rispecchia una delle più rigorose ed innovative teorizzazioni della cibernetica. I sistemi complessi cibernetici possono essere catalogati come «sistemi a effetti determinati, incapaci di adattare il proprio funzionamento a circostanze impreviste» oppure «sistemi a effetti organizzati, che possono sempre agire in modo da perseguire una data finalità» 34. Questo comporta una sorta di indipendenza del sistema dai dati iniziali inseriti dal programmatore. Ma la conseguenza più importante è che si stabilisce «in modo concettualmente nuovo la classificazione dei sistemi viventi e delle macchine». La fusione che Pasing effettua tra sistemi organici e inorganici, tra mondo vivente e non vivente è derivata da una teoria molto difficile della cibernetica che, a partire dagli anni Settanta, ha introdotto nella scienza dell’informazione sistemi “pseudo-viventi” di natura algoritmica. È possibile affermare che la cultura cibernetica ha ampliato il concetto di “vivente” estendendolo anche a forme nonorganiche. La sociologa americana Sherry Turkle nel volume La vita sullo schermo parla di sperimentazioni su “sistemi viventi” matematici all’interno dei computer. Alcuni software evoluti sono basati su parametri decisionali, algoritmi di calcolo che sanciscono delle priorità. Verso la metà degli anni Ottanta, il biologo americano Richard Dawkins sviluppò un applicativo informatico per illustrare alcuni principi evolutivi naturali. Il programma, chiamato Blind Watchmaker crea dei disegni al tratto soggetti a variazioni governate da nove parametri random 35. Le combinazioni casuali di queste variabili possono essere considerate come geni soggetti a mutazione, trasmessi successivamente alla nuova “generazione” di disegni creati dal programma. 36 Dawkins considerava i disegni analoghi agli organismi e li ha per questo definiti biomorfi . Le mutazioni sono automatiche e l’intervento dell’operatore umano è limitato ad alcune decisioni collaterali. Tali variazioni avvengono all’interno del programma. Questo esempio andò ben al di là delle iniziali previsioni. Le evoluzioni previste da Dawkins sarebbero dovute consistere in strutture aventi forme diagrammatiche ad albero. Ben presto, inaspettatamente, il risultato di una di queste evoluzioni finì per assomigliare, formalmente, ad un insetto 37. Questi programmi vengono utilizzati per studiare le forme viventi reali, oppure certi comportamenti collettivi 38. La vita artificiale assume allora un’importanza che va ben al di là della semplice metafora. Alcuni ricercatori, infatti, 34 Voce «Cibernètica», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit. Ricordiamo che un parametro random è un algoritmo matematico basato sulla generazione casuale di numeri, utilizzati successivamente come variabili indipendenti all’interno di equazioni o di programmi informatici. 36 Sherry Turkle, La vita sullo schermo, Apogeo, Milano, 1997, p. 213. 37 Richard Dawkins, Accumulating Small Change, in The Blind Watchmaker, W. W. Norton and Co., New York, 1986, cit. in Sherry Turkle, op. cit., p. 214. 38 Sherry Turkle, op. cit., p. 216. 35 sostengono che, per gran parte della loro vita, gli uomini si comportano molto più come formiche 39 alla ricerca di cibo che come grandi giocatori di scacchi. Un secondo caso interessante che conferma quanto detto sono i cosiddetti uccelloidi di Reynolds. Craig Reynolds, esperto di animazione computerizzata, voleva verificare il fatto che gruppi di individui (pesci, uccelli o insetti che fossero) non richiedesse né un capobranco né l’intenzione di riunirsi. Reynolds scrisse un programma informatico che spingeva degli uccelli virtuali a formare stormi, 40 dove ogni “uccello” agiva “solamente sulla base della sua locale percezione del mondo” [...]. Seguendo semplici istruzioni, dopo qualche iniziale aggiustamento, Reynolds ottenne sullo schermo stormi virtuali di uccelloidi che mostravano comportamenti alquanto realistici. La conclusione che Sherry Turkle propone è che le strutture matematiche, come i programmi di Dawkins e Reynolds, sono in grado di descrivere i complicati fenomeni naturali e i comportamenti complessi degli animali 41. Quanto descritto serve a giustificare come il mondo dell’intelligenza artificiale, della cibernetica e, più in generale, della cultura Cyber crei un substrato culturale in cui informatica e forme organiche siano strettamente connessi. Anche le proprietà autoregolatrici degli uccelloidi di Reynolds richiamano molto da vicino il progetto, descritto più sopra, di Makoto Sei Watanabe The Induction Cities. Inoltre, è possibile riconoscere un contatto più diretto con il lavoro di Anton Markus Pasing nella perdita di confini netti tra vivo e non vivo. Reynolds e Dawkins hanno infatti individuato esempi estremamente concreti di sistemi artificiali (matematici) che offrono comportamenti ed evoluzioni tipici dei sistemi viventi. Proprio come la vivace interattività dei giocattoli computerizzati ha stimolato i bambini a rivedere il criterio che stabilisce che cosa vada considerato vivo o no, tali oggetti ci sfidano a rimettere in 42 discussione i limiti e le categorie tradizionali della vita stessa. In questa direzione le ipotesi di Pasing ci appaiono plausibili. Esse sono l’interpretazione in chiave architettonica della simbiosi uomo/macchina e della perdita di definizione tra naturale e artificiale. Abbiamo premesso come in questo capitolo sia utile inserire esempi di progettisti minori, il cui interesse è relegato nell’anomalia della ricerca o in alcuni aspetti paradossali della progettazione con il computer. Facciamo un’unica deroga citando Peter Eisenman riguardo ad un aspetto determinante sulle componenti che strutturano la cultura Cyber. Parlo del concetto di simulazione strettamente connesso, come vedremo fra breve, con l’operazione del bricolage. Eisenman è un progettista capace di reinventare le proprie metodologie di progettazione in funzione del tema. Il suo atteggiamento è, pertanto, antidogmatico e basato maggiormente sul lavoro di “aggiustamento” e di scoperta tipico del bricoleur. Bricolage deriva dal francese ed indica il «fare con le mani», il processo del dilettarsi teorico in cui gli individui e le culture usano gli oggetti sparsi intorno per lo sviluppo e l’assimilazione dei concetti 43. Gli individui, così, utilizzano materiali eterogenei che possono essere talvolta non-funzionali ed avere prettamente qualità estetiche 44. Eisenman, nella sua opera di progettazione con lo strumento informatico, opera in questa 39 Ivi, p. 219 Ivi, p. 233. 41 Ivi, p. 234. 42 Ivi, pp. 215-216. 43 Cfr. con Claude Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, 1996. 44 Peter Caws, Significant Structures , in AA. VV., Structures Implicit and Explicit, Graduate School of Fine Arts, University of Pennsylvania, 1973, p. 43. 40 direzione: verso una commistione di operazioni e di materiali che estraniano parzialmente le diverse componenti iniziali in funzione di un risultato finale inaspettato e sorprendente. Il discorso, pur avendo forti componenti astratte, è soprattutto operativo. Eisenman utilizza in modo realmente innovativo l’elaboratore; esso diviene strumento per controllare da una parte le sovrapposizioni e le reinterpretazioni delle memorie visuali espresse dalla frantumazione dei mezzi espressivi della modernità e, dall’altra, il continuo sommarsi di questi infiniti segmenti in movimento. L’operazione del bricoleur di utilizzare parti composite si traduce, in Eisenman, in frammenti della cultura elettronica con cui, come nel caso dell’Aronoff Center (Fig. 25), egli lavora per piani sovrapposti, e con spazi che solo successivamente sono razionalizzati. L’interesse è incentrato su una complessità molto profonda: il metodo di espressione. Il processo di lavoro dell’ultima produzione di Eisenman è, parimenti, tipica del bricoleur. Essa è basata su plastici, i modelli diagrammatici e i plastici informatici45, secondo dinamiche molto ricche che verranno riprese nel paragrafo dedicato al metodo di lavoro dello studio Eisenman. Ciò che importa ora è capire come il mondo della simulazione sia essenzialmente empirico. È innegabile che ci sia stato un passaggio sostanziale dalla «[...] cultura moderna del calcolo alla cultura postmoderna della simulazione» 46. Questo implica un atteggiamento di sperimentalità e di perdita di un metodo basato sulla cultura della previsione, esattamente come accade nel bricolage. La simulazione, un altro dei temi fondativi della contemporaneità, è uno strumento necessario quando un mondo [...] diventa troppo complesso per poter essere compreso in termini di principi originari, o meglio, quando il mondo è troppo complicato perché la mente umana sia in grado di 47 realizzarlo come costruzione mentale a partire dai principi originari[...]. La simulazione, in conclusione, è vista come possibilità di raggiungere una maggiore comprensione. L’operazione del bricolage e della simulazione sono quindi assai simili poiché espressione di un tentativo estremamente flessibile di prefigurazione. In entrambi i casi, parafrasando Lévi-Strauss, è possibile operare attraverso un pensiero «associativo»; si tende ad usare un elemento, fare un passo indietro, riconsiderare la situazione, e provarne un altro in un processo di azioni, retroazioni e correzioni continue e dinamiche 48. Analizzando l’opera di Marcos Novak 49 ritroviamo molti concetti appena espressi. Novak non può definirsi propriamente un architetto poiché il suo lavoro è, fino ad oggi, di carattere esclusivamente teorico. La sua produzione è limitata a sculture virtuali nelle quali è presente certamente una grande cultura estetica, ma un senso astratto che costringe le sue concezioni nel regno della pura fantasia. Il delirio formale è frutto di una ipertrofia formalista che sovente risulta vuota o priva di contatti con la possibile fruizione spaziale (Fig. 26). Egli propone, evidentemente, non-luoghi privi di qualità tettoniche e spaziali. Nonostante la critica che è possibile muovere a questo autore, egli è certamente interessante poiché incarna il lato estremo del processo di simulazione, un momento in cui questo atteggiamento nasce e muore senza possibilità di applicazioni concrete. È lecito catalogarlo come puro sperimentatore di forme in cui ritroviamo il tema della commistione e dell’aggiunta cieca di frammenti della contemporaneità. La complessità della morfologia è per Novak un cammino verso la pura ricerca senza ricadute sul piano fisico o materiale. Non a caso la sua architettura si chiama trans-architettura. Qui avviene quel processo, per molti versi perverso, di perdita di realtà. La simulazione è un mondo autoreferenziale privo 45 Luca Galofaro, Eisenman digitale, Testo & Immagine, Torino, 1999. Cfr. anche con Cap. 2.4. di questo scritto. Sherry Turkle, op. cit., p. XXIV. 47 Ivi, p. 26. 48 Cfr. con Claude Lévi-Strauss, op. cit., in particolare il Cap. I, La scienza del concreto. 49 Marcos Novak è un autore molto conosciuto nell’ambito della Cyber-architettura essenzialmente per il progetto Paracube del 1997-’98. Ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’University of California di Los Angeles, il certificato di specializzazione in CAAD, il Master of Architecture e il Bachelor of Science in Architecture nell’Ohio State University. 46 di contatti con la fisicità, ma nondimeno capace di assumere un ruolo fascinatore per il fruitore. Novak, tuttavia, non ha complessità spaziale, ma al massimo qualità scultoree. Questo caso estremo è indispensabile per comprendere come l’architettura possa essere intesa anche come virtualità. Questo sistema teorico/operativo crea degli imbarazzi di notevole entità sia nei fruitori che negli autori; [...] la cultura architettonica ufficiale, uno dei naturali referenti nel rapporto tra società e forma costruita, risponde con una difficoltà ormai evidente esibendo atteggiamenti che fluttuano tra la costruzione di figure inedite, spettacolari, e la presa di coscienza di un progressivo diradarsi della 50 forma costruita all’interno della città contemporanea. Pur non creando spazio del vissuto, Novak dà origine ad un mondo virtuale. Ed è nella contrapposizione tra reale/virtuale che si apre il problema fondamentale della cultura Cyber. Tutti i sociologi della realtà elettronica da me indagati sono concordi sul fatto che il mondo Web ha generato una sorta di realtà immateriale con la quale il mondo fisico deve confrontarsi. La Turkle parla di essi come «micromondi simulati»51, luoghi immateriali nei quali si opera con la convinzione della loro efficacia. Questi sono “spazi” e “oggetti” senza alcun referente fisico, senza origine ne fondamenta, la cui «[...] estetica ha a che fare con la manipolazione e la ricombinazione»52. Il problema del rapporto reale/virtuale va ben al di là della rappresentazione e della riconoscibilità di oggetti. Affrontato in questi termini esso è superficiale e inseribile, nella migliore delle ipotesi, nell’ambito gestaltico. Non tratterò pertanto i casi di evidenza formale e di rendering di un oggetto elettronico a partire dalla sua perfezione simulativa del reale. Ben più interessante sono quei casi in cui esiste una sorta di “confusione concettuale” tra verità e simulazione, fattore che si sprigiona indipendentemente dalla similarità percettiva di un oggetto o di un mondo elettronico. Giuseppe O. Longo parla delle trappole della simulazione capaci di generare confusione sia dal punto di vista temporale che spaziale. [...] Oggi la storia tende a svolgersi non nella e per la società bensì per una e in una virtualità 53 simulativa dilatabile o contraibile a piacimento nel suo parametro cronologico. La dimensione di spersonalizzazione e di progressiva perdita di oggettività del tempo e dello spazio è evidente e deve essere tenuta in primo piano in tutte le opere che abbiamo ed andremo in seguito ad analizzare. La conseguenza estrema è la perdita totale di rapporto con la realtà. Gli spazi virtuali sono oggi considerati nella Cyber-culture come appartenenti al dominio dell’esperienza, ma per quanto riguarda questo scritto essi hanno interesse limitatamente al problema delle sperimentazioni sulle geometrie non-euclidee. Il caso di H-Kavya, studio di architettura capeggiato da Karl S. Chu54, è emblematico nella sua anomalia. Il progetto Phylux (Fig. 27) è un sistema di grande complessità teorica e matematica che dev’essere citato per le potenzialità espressive e filosofiche delle sperimentazioni connesse all’uso del computer. Egli è interessato alla progettazione di sistemi architettonici come serie di insiemi adattabili. Il riferimento diretto sono le monadi di Leibniz, interpretate come centri di forza e di attività spirituali, fondamento della realtà corporea. La mescolanza delle unità monadiche attraverso il calcolo combinatorio genera la complessità dei disegni di Chu che, tuttavia, non riescono a scostarsi da semplici 50 Luca Molinari, Tendenze dell’architettura nordamericana. Gli anni Novanta, op. cit., p. 186. Sherry Turkle, op. cit., p. 40. Cfr. anche con Douglas R. Hofstadter, Concetti fluidi e analogie creative, Adelphi, Milano, 1996, p. 17 e sgg. per il concetto di micromondo della simulazione. Hofstadter usa questi elementi all’interno dell’intelligenza artificiale come particelle elementari per la soluzione automatica di problemi semplici. La sua teoria cibernetica si svolge all’interno di domini di limitate dimensioni e di elevata complessità strutturale, ma autenticamente dotata di autonomia solutiva di problemi reali in ambiti limitati. 52 Sherry Turkle, op. cit., p. 27. 53 Giuseppe O. Longo, Il nuovo Golem, Editori Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 7. 54 Karl S. Chu è nato nel 1950 conseguendo nel 1977 il Bachelor of Architecture all’University of Houston nel Texas, il Master of Architecture alla Cranbrook Academy of Art, Bloomfield Hills nel Michigan. Attualmente insegna al Southern Design Institute of Architecture di Los Angeles e alla Columbia University di New York. 51 diagrammi di forza, fallendo il compito di generare spazio architettonico, ancorché virtuale. Tutto, nell’opera di H-Kavya si traduce in termini di calcolo all’interno di mondi virtuali. Le monadi, che è possibile interpretare come punti pesanti dotati di autonomia concettuale, hanno capacità aggregative che si che si evolvono in forme autorganizzate. Questi sono sistemi evolutivi, da intendersi come organizzazioni dinamiche, in grado di automodificarsi con un’infinita potenzialità di differenziazione 55. Tale processo è ripreso in modo molto simile da Greg Lynn dello Studio Form nella morfogenesi di organismi cellulari, modificati attraverso attrattori situati lungo un percorso nel progetto Embryologic Space del 199856. La realtà virtuale teorizzata da Chu è, al contrario del lavoro di Lynn, poco convincente se non per la fascinazione formale e di procedimento concettuale. Gli obiettivi sono assolutamente al di fuori delle effettive potenzialità del processo di sviluppo di forma. Egli è convinto, infatti, di poter cambiare, attraverso Phylux, le attuali nozioni di costo o energia grazie alle capacità comunicative di questo sistema che, leggiamo tra le righe dei suoi scritti teorici, sono simili a opere d’arte capaci di suscitare emozioni 57. Douglas R. Hofstadter, una delle personalità di maggior spicco nella ricerca sull’intelligenza artificiale, suggerisce uno magnifico esempio di cosa significhi virtuale 58. Egli identifica la virtualità con la mobilità dei concetti della mente. Nell’analisi dei giochi di prestigio inconsci, dei motti verbali, degli anagrammi e della soluzione dei problemi matematici (in particolare le successioni numeriche 59), egli si interroga su come la soluzione ad un problema di questo genere venga a formarsi nella mente degli individui. Il nocciolo di tali “oggetti mentali provvisori”, costantemente mutevoli e dis-ordinati, sono sostanzialmente inspiegabili. Le illuminazioni istantanee e i repentini cambi di rotta verso la soluzione (bricoleur?) sono per Hofstadter assolutamente stupefacenti e non legati a memoria né ad intuizione; sono libere fantasie che richiamano alla mente il fluire della matita sul foglio di carta bianco che Alvar Aalto aveva canonizzato come personale antimetodo progettuale 60. In fin dei conti, non stiamo parlando della costruzione di strutture fisiche che si muovono - in senso letterale - dentro il cervello, [...]; parliamo di oggetti virtuali, che fluttuano sul substrato fisico neurale, ma non è facile descriverli in termini di neuroni o di reti di neuroni. Tali «oggetti» esistono in uno spazio virtuale - la memoria di lavoro - in cui sono liberi di vagare, mescolarsi, associarsi, formare 61 aggregati, separarsi, ecc. Hofstadter parla, in sostanza, di una sorta di «mescolanza inconscia»62 capace di creare quello che egli chiama concetti fluidi, tema dalle vaste implicazioni che verrà ripreso poiché centrale nella trattazione del concetto di forma e di fluenza spaziale nell’architettura Cyber. La virtualità, in sintesi, è qualcosa «che ha la possibilità di essere, che è potenzialmente ma non ancora in atto» (concetto derivato dalla filosofia scolastica)63. Virtuale è un termine antico che ha assunto significati coerenti rispetto al suo uso classico, ma anche radicalmente nuovi. In particolare, come sottolinea la Turkle, virtuale è visto essenzialmente come contrapposizione a reale, come un mondo che sfugge 55 Christian Pongratz e Maria Rita Perbellini, Nati con il computer, Testo & Immagine, Torino, 2000, pp. 32-35 e Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op.cit., pp. 490-498. 56 Cfr. con il successivo Cap. 2.2. 57 Christian Pongratz e Maria Rita Perbellini, Nati con il computer, op. cit., pp. 34-35. 58 Douglas R. Hofstadter, Concetti fluidi e analogie creative, op. cit.. In particolare vedasi il Cap. I, Prefazione II e Cap. II. 59 In matematica le successioni numeriche sono insiemi ordinati di numeri o di elementi di altra natura (per es. funzioni o punti) contrassegnati da un indice che assume soltanto valori interi, cioè a1, a2, a3, ... an (definizione tratta da Enciclopedia Multimediale Rizzoli Larousse 2001, op. cit.). Numerose possono essere i tipi di successioni (convergente, divergente, di Cauchy, indeterminate), ma carattere comune è l’individuazione di una legge più o meno complessa che regoli l’andamento dei fattori conseguenti ad una data sequenza, stabilita come generatrice dei fattori successivi. 60 Cfr. Alvar Aalto, Idee di architettura. Scritti scelti 1921-1968, Zanichelli Editore, Bologna, 1987. 61 Douglas R. Hofstadter, Concetti fluidi e analogie creative, op. cit, p. 104. 62 Ivi, p. 108. 63 Voce «Virtuale», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit. all’insicurezza del contingente. La virtualità, nell’immaginario collettivo, dà e offre di più poiché le possibilità (reali o, più spesso immaginarie, aggiungiamo noi) e le “flessibilità” sono maggiori 64. Ne consegue che anche tale apertura e indeterminatezza offre alla personalità una sorta di moltiplicazione del sé 65 che tuttavia non ha nulla di patologico. Così, l’analisi - comprendendo la dimensione psicoanalitica - si apre al grande problema di capire cosa è reale e cosa non lo è 66. Tutto diventa più sfumato e indeterminato esattamente come avviene nel capo dell’architettura. Ancora una volta l’indeterminatezza tra reale e virtuale in architettura non dev’essere banalizzato all’aspetto visivo o fruitivo. Desideriamo porre il problema dal punto di vista geometrico/spaziale. Le velleità modellatrici di Karl S. Chu e gli spazi virtuali di Greg Lynn sono reali o virtuali? Sono potenzialità derivate da un uso strumentale del computer e dei programmi di modellazione solida o sono in qualche modo legati ad una “realtà” difficile da percepire perché aderente alle matematiche superiori? Se i fisici suggeriscono l’ipotesi che l’universo che noi conosciamo è solamente il dieci percento di quello effettivamente esistente, e che ciò che possiamo vedere è solo una sorta di aggregazione di materia simile alla rugiada mattutina di fenomeni superiori, diventa difficile stabilire una definizione netta tra reale e virtuale. Il reale è il visibile, l’intellegibile o il dimostrabile 67. Chu, Lynn, Reiser+Umemoto e altri, sembrano dire che la virtualità rende possibile sperimentazioni geometriche in grado di descrivere luoghi che solo la matematica di Hilbert68 o gli spazi topologici complessi69 possono suggerire. Il discorso sulla geometria non-euclidea ha l’obbligo di interessarsi anche di queste forme estreme che, pur non essendo architettura, utilizzano i medesimi strumenti di altri autori maggiormente rivolti alla realizzazione. 2.2. Lo spazio nella Cyber-architettura Il problema principale di questo scritto riguarda il concetto di spazio non-euclideo nella progettazione architettonica attraverso il computer. Per poter affrontare l’argomento è stato necessario individuare alcune coordinate interpretative del mondo della cultura Cyber in grado di chiarire alcuni aspetti apparentemente paradossali di queste esperienze. Il compito da seguire, ora, è quello di illustrare con maggior dettaglio quelle esperienze progettuali che, basandosi sui presupposti sopra descritti, indagano in modo innovativo le idee di spazio riemanniano. Per giungere a ciò, tuttavia, è necessaria una piccola premessa su cosa si intenda per spazio e, più dettagliatamente, per spazio non-euclideo. Spazio deriva dal latino spatium ed indica un campo disponibile per gli oggetti della realtà individuati in una collocazione o posizione 70. Anche altre definizioni pongono l’accento sul problema del rapporto tra campo e oggetti. Così recita una seconda definizione: 64 Sherry Turkle, op. cit., p. 357, 364. Ivi, p. 392. 66 Ivi, p. 69. 67 Una delle implicazioni del teorema di Gödel sanciva il fatto che solo una limitata porzione di teoremi “veri” può essere dimostrata. Questa è una particolare versione del celebre Teorema di incompletezza di Gödel, alla quale aderiva poeticamente anche il matematico ungherese Paul Erdos. Cfr. anche con John L. Casti e Werner DePauli, Gödel, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001. 68 David Hilbert (1862-1943) è considerato uno dei più grandi matematici di tutti i tempi. I ventitré problemi che presentò al congresso di matematica di Parigi del 1900 sono uno dei fondamenti della riflessione matematica del XX secolo. La sua concezione delle dimensioni di ordine superiore in matematica è un problema strettamente connesso con le geometrie non-euclidee formulate da Bólyai, Lobacevskij e Riemann. Si avrà modo di parlare di questi autori nei paragrafi successivi nell’ambito delle geometrie noneuclidee. 69 La topologia è stata canonizzata come scienza autonoma da Henri Poincaré, in virtù del famoso problema dei ponti di Königsberg di Eulero. Una visione più dettagliata, insieme alle implicazioni in architettura, verrà data nelle prossime pagine. Cfr. Cap. 2.2. di questo scritto. 70 Voce «Spazio», in Giacomo Devoto, Gian Carlo Oli, Dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze, 1971. 65 estensione indefinita, luogo senza limiti che contiene tutte le estensioni finite e in cui appaiono 71 collocati i corpi Come espresso nel paragrafo precedente, i legami tra le sperimentazioni della Cyberarchitettura e la matematica sono estremamente stretti. Gioverà, allora, estendere lo sguardo a definizioni di «spazio matematico». Questo è un ente geometrico primitivo in cui si immaginano immersi determinati enti geometrici (per es. punti, 72 linee, superfici, ecc.) e le cui proprietà sono implicitamente definite da quelle degli enti che contiene. Tali generiche definizioni acquistano una particolare importanza se interpretate alla luce di determinanti sperimentazioni matematiche avvenute nella prima metà dell’ottocento. L’esperienza comune si basa su quelle che vengono chiamate «geometrie e spazi eucidei». In estrema sintesi lo spazio euclideo è quello spazio nel quale sono collocabili alcuni enti geometrici studiati dal più famoso matematico dell’antichità classica, il greco Euclide (III sec. a.C.)73. Geometria euclidea non riguarda, quindi, geometrie solide o platoniche, bensì spazi matematici algebrici e aritmetici, ovvero luoghi [...] in cui si immaginano immersi gli enti geometrici studiati dalla geometria euclidea e che traduce in termini geometrici precisi l’immagine intuitiva che noi abbiamo dell’ambiente in cui si svolge la 74 nostra esperienza sensibile e nulla di più. Nel campo che ci riguarda, la rivoluzione sostanziale è avvenuta con la messa in discussione del celeberrimo quinto postulato di Euclide, altresì conosciuto come il Teorema delle Parallele75. Porre un dubbio su un postulato di Euclide ha, per i matematici, un’importanza tutta speciale. Ciò significa la perdita delle certezze assolute che gli Elementi di Euclide hanno significato per tutta l’antichità classica e la modernità. Obiettare anche uno solo dei suoi principi significa aprire il varco all’arbitrio, sancire la perdita di corrispondenza tra mondo perfetto della matematica ed esperienza comune. Per questo l’introduzione delle geometrie non-euclidee ha così tanta importanza per la cultura moderna e per la fisica. La scoperta delle geometrie non euclidee mise chiaramente in luce la differenza tra spazio matematico e spazio fisico: i postulati che definiscono le proprietà dello spazio matematico e degli altri enti geometrici fondamentali sono di per sé arbitrari; l’unica cosa che la matematica richiede è che questi postulati non siano tra loro contraddittori; il fatto che i postulati di Euclide siano più intuitivi e quindi abbiano avuto un ruolo privilegiato dipende dalla constatazione che l’immagine mentale che l’esperienza comune ci suggerisce per gli enti geometrici fondamentali costituisce un modello in cui si verificano i postulati della geometria euclidea. In altre parole lo spazio fisico, o per lo meno la porzione di spazio fisico in cui si svolge la nostra esperienza, si può descrivere come uno spazio euclideo, ma è 71 Voce «Spazio», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit. Ibid. 73 Egli non era originale o, per lo meno, non lo fu nel suo libro più famoso: gli Elementi . Noto come il più importante testo di matematica per più di duemila anni, esso non brillò mai per genialità. L’importanza risiede nel fatto che Euclide espresse i principi ivi contenuti con grande chiarezza e metodo. Il fraintendimento che ancor oggi ci accompagna riguarda il fatto che questo fu essenzialmente un trattato di canonizzazione di matematica elementare nel quale venivano espressi concetti relativi all’algebra e all’aritmetica. Le matematiche superiori, già esistenti ed espresse da altri autori della scuola alessandrina contemporanei o precedenti a Euclide, erano raccolti in altri trattati, quali, ad esempio, i Fenomeni sulla geometria sferica e i Luoghi solidi sulle sezioni di coniche. Per offrire chiarezza di idee occorre dire che il trattato sui Luoghi superficiali dedicato, probabilmente, alle figure elementari note all’antichità (sfera, cono, cilindro, toro, ellissoide di rivoluzione, paraboloide di rivoluzione e l’iperbolide di rivoluzione a due falde) andò perduto. Cfr. con Carl B. Boyer, Storia della matematica, Mondadori, Milano, 1990, pp. 119-124. 74 Voce «Spazio», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit. 75 Il postulato delle parallele di Euclide stabilisce che data una retta R ed un punto P esterno ad R è possibile tracciare una sola retta R’ parallela alla prima retta. Per una bella spiegazione di questo postulato e delle conseguenze connesse, vedasi Douglas R. Hofstadter, Gödel, Eschen, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante, Adelphi, Milano, 1990, p. 101 e sg. 72 possibile pensare che per una più profonda comprensione dei fenomeni naturali sia più utile 76 descrivere lo spazio fisico con un modello matematico di spazio diverso da quello euclideo. Il punto di partenza di questa rivoluzione è l’opera giovanile del matematico russo Nicolaj Ivanovic Lobacevskij (1769-1836) che già dal 1823 minò la rigorosa dimostrabilità del quinto postulato delle parallele. Nel 1826 egli si convinse che questo teorema potesse essere dimostrato in base ai primi quattro (ed era pertanto inutile) e nel ’29 egli compì il passo rivoluzionario di pubblicare una nuova geometria (non-euclidea iperbolica) costruita specificamente su un’ipotesi in diretta contraddizione con il postulato delle parallele 77. Questa era una nuova geometria che non aveva alcuna contraddizione interna, era elegante, anche se contrastava con il senso comune negando Euclide. Egli chiamò questa scoperta «geometria immaginaria» e poi «pangeometria universale o completa». Alla stessa conclusione arrivò anche il matematico ungherese János Bólyai (1802-1860), pochi anni dopo ed in modo indipendente da Lobacevskij. Per concludere questa breve nota sulla natura della geometria non-euclidea occorre citare il più importante autore che vi si dedicò: Georg Friedrich Bernhard Riemann (1826-1866) 78. Lo spazio di Riemann non è basato sulle tradizionali coordinate cartesiane tridimensionali, ma si apre ad un cosiddetto «spazio sferico o curvo» 79, ovvero di un luogo geometrico nel quale le figure insistono non su superfici piane ma sferiche appunto. Dimenticando le altre questioni legate alle teorizzazioni sulle geometrie riemanniane 80 è possibile effettuare finalmente un parallelo con gli spazi non-euclidei utilizzati dall’architettura. Per estensione rispetto ai problemi matematici è possibile dire che ogni qualvolta ci troviamo di fronte ad uno spazio informale, ideato attraverso una non riconoscibilità delle geometrie elementari, è allora possibile parlare di spazio non-euclideo. Questo ha, però, recentemente assunto un significato confuso. Ogni qualvolta si debba descrivere un’architettura o uno spazio non direttamente ispirato alla geometria dei solidi platonici elementari, indipendentemente dalla sua natura, dalle fonti di ispirazione, dal processo generativo, dalla filosofia, e in barba alle varie correnti culturali, tutto viene messo nel gran calderone delle geometrie non-euclidee, dimenticando che la natura di questa branca della matematica superiore è essenzialmente riferita agli spazi curvi. Nella confutazione del postulato delle parallele si deve ammettere l’esistenza di un nuovo ordine di idee, di un nuovo “spazio” assolutamente diverso dal primo. Ciò viene chiamato geometria ellittica e geometria iperbolica81. A rigore sono noneuclidei gli spazi che non hanno matrici geometriche piane e, soprattutto - in osservanza alla vera natura delle geometrie riemanniane - quegli spazi architettonici “avvolti su se stessi”, che non possono essere rappresentati con la consueta terna di assi cartesiani, ma 76 Voce «Spazio», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit. «Per un punto C che giace al di fuori della retta AB si può tracciare nello stesso piano più di una retta che non incontri la AB», in Carl B. Boyer, op. cit., p. 622. 78 «Le geometrie di Riemann sono non-euclidee in un senso molto più generale di quella di Lobacevskij, dove si tratta semplicemente di stabilire quante rette parallele sono possibili per un punto. Secondo la concezione di Riemann la geometria non dovrebbe neppure necessariamente trattare di punti o di rette o di spazio nel senso ordinario, ma di insiemi di ennuple ordinate che vengono raggruppate secondo certe regole», ivi, p. 625. 79 «Un modello di questa geometria è dato dalla interpretazione di “piano” come superficie di una sfera e di “retta” come cerchio massimo della sfera stessa. In questo caso la somma degli angoli di un triangolo e maggiore di due angoli retti [...]», ivi, pp. 625-626. 80 Per completezza di trattazione occorre aggiungere che, dal punto di vista del calcolo, le geometrie non-euclidee sono quelle che soddisfano l’equazione: y = a + i x, dove il termine in “i” è un punto di coordinate immaginarie. 81 «[...] La ragione per cui tali variazioni vengono ancora chiamate “geometrie” è che vi si trova incorporato il nucleo centrale della geometria, cioè la geometria dei quattro postulati o assoluta. Proprio per la presenza di questo nucleo minimo è ragionevole pensare che queste strutture descrivano anch’esse le proprietà di un qualche tipo di spazio geometrico, sia pure non così intuitivo come lo spazio ordinario. «In realtà, la geometria ellittica può essere visualizzata facilmente: si devono semplicemente considerare i “punti”, le “rette”, e così via come parti della superficie di una comune sfera. Conveniamo di scrivere “PUNTO” quando vogliamo indicare il termine tecnico e “punto” quando si intende il significato quotidiano. Possiamo dire allora che il PUNTO consiste in una coppia di punti diametralmente opposti sulla superficie della sfera. Una RETTA è un cerchio massimo della sfera [...]. Con questa interpretazione, le proposizioni della geometria ellittica, sebbene contengano parole come “PUNTO” e “RETTA”, parlano di ciò che avviene su una sfera, non su un piano. Si noti che due RETTE si intersecano sempre esattamente in due punti antipodali della superficie sferica, cioè in uno e un solo PUNTO! E proprio come due RETTE determinano un PUNTO, così due PUNTI determinano una RETTA», cit. in Douglas R. Hofstadter, Gödel, Eschen, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante, op.cit., p. 101-102. 77 si riferiscono a spazi con dimensioni di ordine superiore. Un esempio chiarificherà il problema. Il gruppo di architettura Asymptote ha recentemente ideato due progetti centrali per la nostra discussione. Il primo è il Guggenheim Virtual Museum e il secondo il Virtual Trading Floor, di cui parleremo in seguito. Il primo progetto è destinato al mondo della rete Web e, quindi, non avrà alcuna realizzazione fisica, mentre il secondo ha una controparte fisica a quella virtuale. I progetti sono tuttavia importanti dal punto di vista architettonico poiché utilizzano il naturale senso spaziale dell’uomo per ideare luoghi destinati ad una funzione. Abbiamo già descritto mondi elettronici capaci di offrire il medesimo “coinvolgimento” di luoghi reali. La conclusione è che la partecipazione emotiva verso un luogo non deve essere necessariamente legata alla sua materialità. L’immaginazione umana sembra essere così “potente” da trascendere i limiti della fisicità. Queste osservazioni confermano la liceità dei due progetti di Asymptote. Esiste un’ulteriore conferma di natura economica. Se due tra le più grandi istituzioni finanziarie americane come la Guggenheim Foundation e la Borsa Valori di New York hanno investito svariati milioni di dollari per realizzare questi spazi virtuali, ciò significa che il progetto avrà un successo sicuro, forse addirittura un trionfo progettato. Il Guggenheim Virtual Museum (Fig. 28) non è altro che un luogo virtuale che accoglie alcune importanti opere d’arte di proprietà Guggenheim. La richiesta del Guggenheim Museum di New York era quella di creare «[...] the first important virtual building of the 21st Century» 82. Esso doveva essere negli intenti dei committenti «[...] a fusion of “information space, art, commerce and architecture”» 83. Nei voleri dei finanziatori questo progetto è ben più di un gioco virtuale, ma rappresenta una sorta di evoluzione del museo tradizionale. Questo funziona come luogo esperibile via Internet e aggiornabile in tempo reale dalle diverse sedi internazionali della Guggenheim Foundation. Il progetto è concepito come un oggetto virtuale interattivo capace di mostrare alcune opere d’arte della collezione Guggenheim. Il sistema è ideato come una successione di scatole cinesi, ognuna delle quali è un settore tematico contenente la riproduzione di alcune opere d’arte. Il tutto non è dissimile dal normale funzionamento di un sito Internet, aspetto che rende questo progetto non particolarmente innovativo. È, altresì, nuova l’idea della mutazione morfologica dell’oggetto virtuale. Il Guggenheim Virtual Museum non si struttura come una sequenza di finestre, ma come un oggetto topologicamente complesso la cui forma varia a seconda dei contenuti. Così, all’apertura di una certa sezione del museo, tutta la forma trasmuta dinamicamente in un’altra profondamente diversa secondo un processo che abbiamo più sopra definito morphing e da alcuni critici descritto come «liquidity, flux and mutability» 84. Due le brevi notazioni da fare. Dapprima occorre dire che le morfologie ideate da Asymptote denunciano un’eredità derivata dalla decostruzione ma alterata dalle forme organiche ed avvolgenti tipiche della Cyber-architettura. La seconda osservazione riguarda il concetto di topologia. Questa è una branca della matematica che studia insiemi «[...]invarianti per omeomorfismi, cioè per corrispondenze biunivoche e bicontinue» 85. Questo, detto in parole comuni, significa che la topologia studia funzioni matematiche e loro rappresentazioni dotate di una continuità di superficie costante. Per la topologia non è importante la forma, bensì il fatto che questa abbia o meno “interruzioni”, buchi o alterazioni. In questo senso, una sfera è esattamente identica ad un cubo poiché, idealmente, si può alterare la forma dell’una nell’altra senza effettuare perforazioni e senza modificarne la continuità. Analogamente un toro è topologicamente identico ad un dado poiché entrambi hanno un unico foro passante 86. 82 Cit. in Philip Jodidio, Architecture Now!, Taschen, Köln-London-Madrid-New York-Paris-Tokio, 2001, p. 94. Ibid. 84 Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 51. 85 Voce «Topologìa», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit. Cfr. anche con Carl B. Boyer, op. cit., pp. 691-693 e 709711. 86 Più rigorosamente occorre dire che «tra i concetti base della topologia porremo innanzitutto quello di spazio topologico, a cui è strettamente legata la nozione di omeomorfismo. In termini intuitivi diremo che sono omeomorfismi tutte quelle trasformazioni che 83 Le forme del Guggenheim Virtual Museum sono esattamente questo. Le mutazioni di una forma in un’altra permesse dal computer rispondono alle leggi topologiche di alterazione. La forma di partenza (sembrerebbe quasi un esterno scharouniano di edificio) si deforma in un’altra, completamente diversa ma esattamente coerente dal punto di vista topologico. Sono forme senza strappi o aventi discontinuità (singolarità) costanti. Sicuramente questo progetto convince per alcuni aspetti ma offre anche il fianco a leciti dubbi. Tra gli aspetti positivi giudichiamo esserci la maturità linguistica di Asymptote (mai venuta meno, del resto, nella loro produzione) e l’innovazione del concetto di museo virtuale. È fondamentale anche la coerenza con cui lavorano sull’idea di mutazione topologica del concetto di forma. Anche l’idea di voler innovare la tematica di spazio dell’arte risulta per alcuni versi di buon livello. Asymptote propongono un oggetto che ha forti connotazioni visive e capace di interagire in modo potente con le opere d’arte che espone. D’altro canto il risultato non va al di là di un ottimo sito Internet, anche se coinvolgente. Lo spazio è progettato in modo attento e maturo, ma non esiste quella partecipazione emotiva totale che solo gli spazi fisici riescono a dare. L’espressività dei luoghi elettronici risente di un problema abbastanza diffuso nei progetti studiati: esiste una sorta di distanza insita in ogni progetto nel momento del coinvolgimento sensoriale dell’individuo nei luoghi virtuali. Quanto detto non rende pienamente giustizia a questi progetti. In realtà, la partecipazione dei sensi è assai più forte rispetto a quello che bozzetti e progetti cartacei hanno sempre offerto. Pur non avendo la potenza evocativa dei luoghi reali, questi progetti elettronici si pongono ad un livello parallelo, “altro”, rispetto ai luoghi fisici. La partecipazione che offrono è molto simile a ciò che Sherry Turkle descriveva quando parlava della cultura del cyberspazio nell’ambito sociologico. Personalmente riteniamo di individuare in questi luoghi elettronici una sorta di coinvolgimento ipnotico offerto dalla potenza del medium informatico. Del resto anche la più semplice televisione è in grado di offrire sensazioni potenti ed estranianti. Non dissimile dalla natura del progetto appena presentato sono due elaborazioni fatte dallo studio americano Kolatan/Mac Donald Studio 87. Resi-Rise (vertical mode) e Housing, entrambi del 1999, sono da inserirsi nello stesso ambito di ricerca, ma con risultati decisamente meno interessanti anche se significativi. Il delirio formale del progetto ResiRise (Fig. 29) è sconcertante e, in genere, poco convincente anche se fascinoso dal punto di vista della pura ricerca formale. Riteniamo questi effetti importanti non tanto per la ricerca spaziale come nel caso di Asymptote, quanto per la generazione di forme organiche di stampo Cyber. È fondamentale la proliferazione di matrici elementari e l’ipertrofia a-modulare di questa struttura. Se Resi-Rise, nelle intenzioni, vorrebbe essere un esempio di «vertical urbanism», non riesce a staccarsi da un formalismo che, tuttavia, presenta caratteri di interesse. Il primo lo abbiamo già espresso: l’ipertrofia pseudoorganica degli elementi modulari. Ma esiste un altro aspetto. Le singole unità incorporano le restrizioni e i caratteri del luogo (viste, altezze degli edifici adiacenti e così via). Questo è fondamentale. In qualche modo, la visionarietà del risultato cerca di non esser arbitrio ma tenta di nascere dal luogo con un linguaggio anticonvenzionale. È una interessante interpretazione del concetto di spazio. Esso non è visto, come nel caso precedente, come luogo astratto anche se fortemente caratterizzato. Qui lo spazio è luogo. L’organismo si inserisce in un preciso sito e da esso si genera. Il luogo è, in altre parole, tradotto alla luce di una cultura visionaria che, per certi aspetti, ricorda i mostri di Anton Markus Pasing. Questo progetto, in teoria, nasce da una precisa collocazione, e l’idea di spazio dall’interpretazione di questi luoghi. I discorsi proposti crollano, tuttavia, a causa di una sorta di inguaribile indeterminatezza che molti progetti di questo genere hanno. possono operarsi su un oggetto geometrico mediante deformazioni graduali senza strappi. In questo senso la superficie di una sfera è omeomorfa a quella di un cubo o a quella di una piramide. Viceversa la superficie di un anello non può trasformarsi in quella di una sfera senza tagli e saldature», in ibid. 87 Questo studio è composto da Sulan Kolatan (1956) e William J. Mac Donald (1958). Entrambi operano a new York. The morphology, size, programme, functions, materials, servicing and furnishing of each pod are indeterminate and depend on the options of the users and on the programmatic scenarios and 88 parameters laid down the architects. Al contrario, Housing (Fig. 30) si presenta come una forma astratta più simile al progetto del museo virtuale di Asymptote, anche se di qualità decisamente minore. La forma è avvolta su se stessa e si pone a metà tra la ricerca di spazio e un progetto di scocca modulare. Non è tuttavia un semplice gioco formale. Housing è un progetto di abitazione basata su una precisa normativa per abitazioni unifamiliari a tre camere da letto. I progettisti hanno indagato in modo interessante il problema della serialità e delle variazioni della tipologia a partire da un modello base. L’ipotesi della variazione non è da leggersi come sperimentazione sulla forma, bensì come capacità adattativa dello spazio architettonico alle esigenze del fruitore, del contesto sociale, culturale, economico, ecologico, geologico e climatico89. L’indagine sulle superfici topologiche e sulla geometria non-euclidea crea, con il senso comune, apparenti contrasti derivati dalla complessità della materia e dalla forte astrazione che questa implica. In particolare occorre riferirsi a due campi della matematica che poi faremo convergere in due architetture di notevole livello spaziale e concettuale. Il primo, breve, discorso di carattere teorico riguarda il tema delle pseudosfere, corollario derivato dalle geometrie non-euclidee di Riemann e di Eugenio Beltrami. In sintesi, essi mostrarono che era possibile creare una particolare figura geometrica priva di contraddizioni avente curvatura costante negativa 90. Questo significava che le geometrie euclidee sono, di fatto, solo un caso estremamente limitato di geometria possibile. Il secondo aspetto che desideriamo sottolineare è il problema della continuità nelle superfici topologiche. La topologia (in particolare la topologia combinatoria) «[...] è lo studio degli aspetti qualitativi intrinseci delle configurazioni spaziali che rimangono invarianti rispetto alle trasformazioni biunivoche o continue». Pertanto la topologia viene spesso chiamata “geometria delle figure elastiche”: essa descrive in forma matematica le deformazioni di alcune figure in altre senza effettuare fori o alterazioni della superficie iniziale. Ogni forma di deformazione deve avvenire in modo invariante 91. Intuiamo che, oltre a quelle appena espresse, esiste un’ulteriore interpretazione di queste superfici a curvatura negativa: il paradosso contenuto nel celebre nastro di Möbius (Fig. 31). Non a caso August Ferdinand Möbius si occupò di problemi connessi alla topologia quando ancora questa non era stata individuata come disciplina a sé. Il nastro di Möbius ha subito due significative interpretazioni, la prima ad opera di UN Studio (Ben van Berkel e Caroline Bos) con la Möbius House a Het Gooi (Olanda) del 1993-’98, e la seconda, meno nota e più direttamente legata alla cultura Cyber, dello studio inglese Foreign Office Architects con il progetto Virtual House del 1997. Molti sono i progetti interessanti di Ben van Berkel e Caroline Bos, ma essi sono celebri per il progetto di villa unifamiliare denominata Möbius House (Fig. 32). Essa è ascrivibile al movimento decostruttivista per una serie di frammentazioni e scardinamenti tipici di questa corrente architettonica. Abbiamo tuttavia visto come la distinzione tra decostruzione e Cyber sia sfumata e le due correnti tendano a scorrere le une nelle altre. Certamente l’ambito figurativo e la ricerca spaziale estrema ne fa un progetto decostruito, ma il punto di ispirazione è certamente l’ambito matematico superiore. Come noto, il nastro di Möbius è ottenuto prendendo un anello di carta, tagliandolo e invertendo uno dei due lati dall’interno all’esterno. Ciò che si ottiene è una figura paradossale nella quale l’interno del 88 Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 212. Ivi, p. 214. 90 Carl B. Boyer, op. cit., p. 626. 91 Ivi, p. 692. 89 nastro scorre all’esterno e per poi ritornare all’interno. Van Berkel e Bos hanno interpretato questo difficile concetto spaziale all’interno dell’architettura creando un organismo avvolto su se stesso. Esso si basa su una forma ad “otto” che passa da interno ad esterno in una spirale continua e senza interruzioni, esattamente come il nastro di Möbius. Pur essendovi errori concettuali nell’interpretazione della figura matematica originale, l’abitazione è decisamente convincente per maturità formale e spaziale. Non desidero, tuttavia, soffermarmi troppo su questo progetto perché esso non è direttamente ispirato alla Cyberarchitettura. Il progetto Virtual House di Foreign Office Architects 92 (Fig. 33) è fondato sull’idea di una serie di nastri ripiegati che generano una continuità tra livelli differenti dell’edificio. Il principio è esattamente quello utilizzato da Möbius nella creazione del suo nastro. La nota interessante riguarda la fluidità dei luoghi che raggiunge livelli altissimi poiché il rapporto tra i diversi piani non è mediato da scale o partizioni di nessun genere. Lo spazio si avvolge su se stesso e ogni ambiente è fuso con gli altri. Nelle intenzioni degli autori, si è prodotta un’organizzazione alternativa dello spazio domestico attraverso l’orientazione delle superfici93. Le relazioni tra i diversi luoghi sono reversibili e non esistono né gerarchie tra gli spazi né discontinuità topologiche di sorta. La figura di partenza è un anello nel quale sono stati effettuati tagli. Piegature opportune hanno deformato le lingue di superficie creando continuità spaziale tra i diversi livelli generati dalle increspature. Riteniamo che questo progetto abbia alcuni sostanziali difetti, ma almeno un pregio eccezionale. L’errore maggiore è che non si riesce a creare architettura, relegando questa idea nel campo della pura sperimentazione di spazi alternativi di vita. Tuttavia, la qualità davvero notevole risiede nella capacità, con poche operazioni, di creare uno spazio di enorme complessità, coerentissimo con gli assunti derivati dalla topologia. Questo è un uso estremamente maturo dello strumento informatico. Certamente il progetto poteva essere realizzato attraverso nastri di carta fisici; tuttavia, il computer ha permesso una gestione della complessità generale del sistema. Infatti, Virtual House più che un progetto singolo può essere considerato un metodo progettuale applicabile a moltissimi casi. I risultati possono essere ritenuti buoni, anche se limitatamente alla questione dell’indagine sullo spazio del vissuto. Conferma di quanto detto è anche il progetto di concorso Azadi Cinepleh (Teheran, Iran) del 1997 (Fig. 34), nel quale l’idea di continuità tra i diversi livelli è applicata (in modo non del tutto convincente e con meno maturità spaziale) ad un progetto di edificio per esposizione ed affari. In questo esempio possiamo trovare un tema di riflessione che si ripresenta in tutti i casi che andremo a descrivere. L’ipotesi: è impossibile generare luoghi architettonici o di Cyber-architettura simili a quelli appena descritti senza un ambiente culturale matematico adeguato. Questo non significa che i progettisti indagati abbiano un diretto interesse verso le questioni tecniche o filosofiche delle matematiche superiori. Il problema è quello dell’esistenza di un humus culturale che, in qualche modo, influenza questi progetti. Nel caso che stiamo studiano il rapporto è ancor più diretto. I programmi di CAAD e i modellatori solidi utilizzati dai progettisti sono essenzialmente basati su operazioni matematiche di alto grado di complessità che utilizzano procedimenti basati sulla topologia o, almeno, su operazioni booleane di somma o sottrazione di figure geometriche primitive. Così, lo strumento è in grado di lavorare grazie a regole matematiche fondate sulla teoria delle forme non-euclidee e su operatori e funzioni coerenti con la continuità di superficie derivata dalla topologia. In verità, i processi di interazione tra software e progettista non sono mai stati indagati da nessun autore di nostra conoscenza. L’ipotesi appena formulata è, pertanto, assolutamente personale, 92 Lo studio è formato da Farshid Moussavi (1965) e Alejandro Zaera-Polo (1963) ed opera a Londra dal 1995. Il primo autore si è formato a Londra, mentre il secondo a Madrid. Entrambi hanno conseguito il Master di architettura ad Harvard. 93 Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 146. basata anche sulla nostra pratica operativa con tali software e su alcune interviste realizzate ad alcuni progettisti. Un fatto comune a tutti gli autori indagati e a tutte le interviste fatte è che la natura dello spazio generato con il computer è essenzialmente poetica. Non è spazio logico, né teso a dimostrare verità programmatiche. Anton Markus Pasing è, come nella sua natura, estremo. Egli parla addirittura di «brama» (Sehnsucht) nella generazione dell’architettura. Il discorso che egli compie all’interno della progettazione è di semplice realizzazione di un’idea e lo strumento informatico non è altro che un semplice mezzo. La sua visione è assai vicina a quella di Peter Eisenman. Dice Pasing: «[...] i difetti e le possibilità dei diversi programmi possono talvolta dare apparizioni inattese o notevoli nella nascita dell’architettura». Gli aspetti sorprendenti possono essere insiti nel progetto o derivare dallo strumento 94. Eisenman ha un atteggiamento pressoché identico. Il computer indaga le possibili forme e sovrapposizioni. La pratica della decostruzione è qui verificata ed ampliata. Le sue ideologie antigerarchiche rivolte alla rottura della continuità lineare sono potenziate attraverso un procedimento basato su diagrammi elettronici95. Il dialogo incessante tra modelli reali e virtuali è rivolto a favore di una «creazione-invenzione» di forme a partire da una configurazione dinamica di forze e finalità 96. In più. È famosa la polemica suscitata da Eisenman in una delle sue conferenze: egli espresse come personale metodo di progettazione attraverso il computer la prassi di elaborare la forma, sovrapporla, mutarla, girarla nello spazio virtuale e, alla fine, portare a termine quell’immagine bidimensionale che a lui sembrava meno chiara delle altre. Il processo di sorpresa e di invenzione totale è tipico della pratica decostruttivista e qui, nell’ambito dell’architettura virtuale è ben presente e addirittura potenziato. Questo sviluppo di idee «[...] alimenta il virtuale stesso»97. Altrove leggiamo: L’utilizzo degli strumenti informatici [nello studio Eisenman] non è importante quanto le modalità di questa cultura, nella quale la sovrapposizione, il collage e il montaggio sono prima di tutto strumenti 98 volti al raggiungimento del limite da oltrepassare. Il computer è esclusivamente il mezzo per potenziare intuizioni di carattere poetico o programmatico. Un simile atteggiamento è legato anche alla posizione del gruppo di architettura tedesco Kunst und Technik. In un intervista effettuata dall’autore di questo scritto, Jan e Tim Edler, i due fondatori dello studio, affermano che nello spazio elettronico si cerca di simulare, di sostituire il reale, di riprodurre i sentimenti (sic!). Essi, intelligentemente, sottolineano un aspetto che era rimasto assolutamente latente nelle indagini fin’ora condotte. Riguardo allo spazio virtuale [...] molta gente è affascinata dalla possibilità di riprodurre spazi, avvenimenti, situazioni del mondo reale. Ma se riflettiamo un po’ più approfonditamente questo alla fine può risultare la cosa meno interessante, poiché i limiti del mondo reale - come ad esempio la forza di gravità, la logica dello spazio, il fatto di dover entrare ed uscire dall’unica porta presente in una stanza - sono limitazioni che non dovrebbero essere assolutamente presenti nello spazio elettronico. Ed è quindi interessante utilizzare la libertà che ci offre lo spazio elettronico. Penso comunque che sotto questo punto di vista, ovvero il concetto del senso dello spazio e spazio elettronico, siamo ancora all’inizio. Il problema è come collegare i due spazi. I tentativi in questa direzione sono innumerevoli, ma la cosa più importante è il concetto della geometria nello spazio e nello spazio elettronico in modo che si vada al 94 Intervista effettuata da Paolo Vincenzo Genovese ad Anton Markus Pasing. Trad. dell’autore. Cfr. Appendice II. Luca Galofaro, op. cit., p. 39. 96 Ivi, p. 40. 97 Ibid. 98 Ivi, p. 41. 95 di là di quello che viene definito dai tecnici, i quali si limitano a rispecchiare nello spazio elettronico la 99 geometria dello spazio materiale. Tale discorso porta la nostra trattazione in una direzione centrale per la cultura Cyber. Per Kunst und Technik è insito nel mezzo elettronico una maggiore libertà formale. Lo spazio elettronico non dev’essere geometrico. Lo spazio geometrico può essere senza forma. E’ tuttavia importante capire dove si colloca il punto d’incontro dello spazio reale con lo spazio elettronico; in più deve esserci un contatto logico con lo spazio reale ed elettronico, in modo che il secondo offra un ampliamento della realtà. Non è infatti detto che lo spazio elettronico sia geometricamente strutturabile o configurabile. [...] Il fatto che lo spazio elettronico sia geometrico, non 100 è altro che un caso particolare, cioè uno modo speciale di completamento dello spazio reale. Ciò conferma l’ipotesi che avevo espresso. Grazie ai comandi, la libertà formale è contenuta nello strumento software. Ma Kunst und Technik dicono qualcosa di più. Anche se limitatamente alla problematica dello spazio elettronico, essi affermano che l’assenza di vincoli strutturali e di materiali permette (e quasi obbliga) una libertà formale/spaziale assoluta. Tale componente è da leggersi in parallelo con quelle sperimentazioni sulla forma destinate, al contrario, alla realizzazione. È nostra convinzione che le due strade dell’architettura Cyber e della progettazione di derivazione virtuale destinata alla realizzazione siano figlie di una stessa cultura, si influenzino reciprocamente e siano aspetti diversi di una medesima realtà. Sarebbe errato, infatti, immaginarle come due realtà contrapposte o impermeabili. A tale riguardo possiamo citare un secondo progetto di Foreign Office Architects. Accanto alla pura sperimentazione di organismi avvolti in superfici di Möbius, essi hanno vinto il primo premio per il concorso del Yokohama Port Terminal del 1995, progetto in corso di realizzazione (Fig. 35). L’idea generale non è lontana da quella per la Virtual House. Si tratta di una immensa copertura sovrastante gli spazi adibiti alle funzioni di interscambio e di smistamento passeggeri del porto di Yokohama in Giappone. Lo spazio a quota inferiore è continuamente variato e articola le diverse funzioni a seconda del programma di concorso. Ma quanto ci interessa è la gigantesca copertura, realizzata con un piano tagliato e dolcemente ondulato in modo che le fenditure fungano da raccordi tra la copertura ed il livello sottostante contenente le funzioni. La soluzione è perfetta per comprendere come funzionino le alterazioni dei piani topologici. In sintesi: la copertura piana, senza tagli è, in topologia, una superficie di grado 0. Ogni taglio o buco che si realizza fa aumentare di una unità la complessità topologica della forma. Il progetto ha 5 tagli di superficie e pertanto ha complessità topologica pari a 5. Secondo quanto illustrato prima è possibile alterare questa forma ripiegandola su se stessa, compenetrandola. Essa rimarrà di complessità 5 indipendentemente dalla forma finale. Queste operazioni, facilmente realizzabili con un modellatore solido (ad esempio Form-Z o 3D-Studio Max per citare solo i più famosi), sono insite nelle possibilità dello strumento software. Ma non siamo davanti ad un gioco reso possibile esclusivamente dalla potenza della macchina. In qualche modo questi comandi sono frutto delle scoperte della matematica. Sarebbe errato pensare alla sola potenzialità tecnica. L’elaborazione di geometrie non-euclidee e topologicamente complesse deriva anche da una cultura della forma che si è sviluppata a partire dalla decostruzione e dalla Cyber-cultura. La riflessione sulle superfici topologiche trova altri due notevoli esempi in autori che, pur lontani per formazione e risultati, hanno prodotto lavori basati sui concetti di superficie continua avvolta su se stessa. Un aspetto che desideriamo sottolineare è l’importanza della somiglianza formale di alcuni lavori. Ciò non è una banale adesione a modelli 99 Intervista effettuata da Paolo Vincenzo Genovese a Kunst und Technik. Trad. di Maria Antonietta Fidale. Cfr. Appendice II. Ibid. 100 estetici. La forma non è mai estetica, bensì riflessione sulla matrice matematica di questa. In altre parole, gli autori si riferiscono alla forma non dal punto di vista della bellezza o di soggezione ad un modello; l’attenzione è sempre concettuale e il riferimento alle matematiche superiori implica sempre forme complesse o di forte impatto visivo e concettuale. Il nostro sforzo è quello di sottolineare questo aspetto e di trovare temi comuni che siano estetico/concettuali. I due esempi che seguono sono la dimostrazione di come le idee topologiche siano diffuse e interpretate in un’architettura sì visionaria ma realizzabile. Pur ammettendo che molti esempi di cui trattiamo hanno una forte componente astratta, divenendo veri manifesti Cyber, esistono casi nei quali la coerenza con le idee più estreme trova sbocco in un progetto estremamente razionale. I casi di Oosterhuis Associates e di NOX sono culturalmente affini poiché lavorano ed operano in Olanda. Il progetto Trans_Ports 2001 per Rotterdam del 1998-2001 (Fig. 36) di Oosterhuis Associates101 è un padiglione di ridotte dimensioni che ricorda un “uovo” deformato. Il progetto è originale non tanto per la sua forma. La Cyber-architettura produce dozzine di questi oggetti in modo più o meno riuscito. Quello che desta il nostro interesse riguarda l’uso di superfici avvolte che vengono utilizzate, dagli stessi progettisti, come base per architetture reali. Le “strutture mutanti” dell’organismo - basate sulla deformazione di un oggetto primitivo -, le trasformazioni continue della percezione del visitatore all’interno del luogo e le divisioni dello spazio effettuate senza partizioni aggiuntive ma esclusivamente con l’alterazione della superficie della scocca esterna, abbia corrispondenza con altri progetti da loro costruiti. Nel caso di Trans_Ports 2001 troviamo in forma più estrema e programmatica le medesime idee del Saltwaterpavilion (Fig. 37) edificato a Neeltje Jans in Olanda nel ’97. Come altri critici ammettono, in quest’ultimo caso siamo di fronte ad una scultura o, nella migliore delle ipotesi, ad un luogo di esposizione che, pertanto, ha caratteristiche di spazio del vissuto assolutamente particolari. Esso implica sempre un attraversamento e, pertanto, una percezione dinamica. Tuttavia troviamo che questo esempio sia la significativa applicazione, anche se con minor intensità intellettuale rispetto ad altri lavori, degli spazi avvolti che abbiamo visto in precedenza. Il gruppo NOX 102 presenta un livello sostanzialmente differente. In questo caso stiamo parlando di uno dei gruppi di architettura più talentuosi del momento, capaci di rinnovare la progettazione architettonica in modo interessante. Questi autori torneranno più volte nel nostro scritto con esempi diversi poiché il loro lavoro tocca tutti i campi che ci riguardano. Ora ci soffermiamo solamente su un progetto direttamente connesso alle ricerche sugli spazi topologici. In modo non dissimile dal Saltwaterpavilion e dal Trans_Ports 2001 di Oosterhuis Associates, il progetto V2 Lab (1998) è anch’essa una superficie topologica avvolta su se stessa, deformata in modo organico ma aderente ad un’estetica Cyber (Fig. 38). In ogni “sogno” di NOX esiste sempre un’attenzione alla realizzabilità. Anche questo progetto, apparentemente simile a tanti altri della Cyber-cultura, presenta qualcosa di più. Pur essendo figurativamente aggressivo, esso contiene una maggiore razionalità d’approccio. Ora è importante sottolineare come V2 Lab sia parzialmente realizzato e solo in un secondo tempo esso verrà completato con la complessa geometria di facciata. Per ora, tutto è limitato ad uno spazio interno comprendente book-shop, caffetteria e sala di lettura di questo edificio espositivo a Rotterdam. Ancora una volta troviamo un’estetica basata sulle membrane deformate, a metà strada tra l’organicismo di Kiesler e l’estetica Web (sic!). Il progetto della facciata, non ancora realizzato, è basato su una membrana traslucida e serigrafata che dovrebbe sfondare l’edificio preesistente per dare nuova 101 Has Oosterhuis (1951) è il titolare di questo studio. La sua formazione è olandese, poiché si è laureato a Delft nel 1079. Un interessante legame lo troviamo anche con la Francia, avendo egli operato negli anni 1987-’88 in questo paese. La Francia, insieme all’Olanda, è uno dei paesi europei nel quale la riflessione sulle relazioni tra spazi complessi ed architettura è più forte. 102 NOX è diretto da Lars Spuybroek (1959), diplomatosi, come Has Oosterhuis, all’università di Delft. Dal 1998 al 2000 ha insegnato alla Columbia University di New York, alla Technical University di Delft e di Eindhoven e al Berlage Institute di Amsterdam. vitalità all’organismo. Due sono i punti di interesse in questo caso. Il primo è l’utilizzo della componente dello sfondamento del prospetto, la seconda deriva della tecnica della serigrafia su vetro. Entrambe queste operazioni non sono originali della cultura architettonica contemporanea se non limitatamente al concetto di “sovrapposizione di immagini”. Attraverso la fusione d’immagine ottenuta con il morphing (la stessa tecnica utilizzata da Eisenman per fondere una forma nell’altra), si opera una “confusione controllata” dei due o più soggetti con sovrapposizioni e confusioni. Il risultato è una accumulazione di significato basata non più sulla forma ma sulla complessità che scaturisce da significati involontari. Questo significa che l’accavallarsi di più soggetti dovrebbe esprimere significati che trascendono la somma degli originali in virtù di un nuovo senso. Questo procedimento è stato eccezionalmente utilizzato da Toyo Ito nel padiglione espositivo Visions of Japan, mostra al Victoria and Albert Museum di Londra (1991). Dal punto di vista più strettamente architettonico la mente corre a due casi interessanti. Il primo, poco conosciuto, è il progetto originale (realizzato poi in una versione più cauta) del negozio di abbigliamento Rikki Reiner a Klagenfurt in Austria del 1983-’84 di Günther Domenig. L’idea iniziale voleva che l’intero edificio storico che ospitava la boutique fosse aggredito. Dal suo ventre doveva erompere una forza distruttrice che avrebbe lacerato l’intero corpo architettonico preesistente. Il progetto venne bloccato poiché eccessivamente invasivo su uno dei più importanti palazzi storici della città 103. Il secondo riferimento riguarda un’opera basata sulla tecnica della serigrafia in facciata. Si tratta della Library of the Eberswalde Technical School a Eberswalde in Germania di Herzog & De Meuron (Fig. 39) nella quale gli autori hanno decorato i prospetti dell’edificio con fotografie del tedesco Thomas Ruff. Qui, la collezione di immagini di Ruff è un’insieme di immagini storiche che ha forte valenza comunicativa. La facciata diviene comunicazione utilizzando gli strumenti tipici dei mass-media. Ritroviamo un’idea centrale della cultura Cyber, ovvero la perdita di profondità della comunicazione. Tutto diviene un «mondo di superficie». Al di sotto di essa non esiste alcun significato, oppure esiste un senso che non saremo mai in grado di apprendere. I teorici postmoderni sostengono che il modo privilegiato di conoscere può avvenire solamente attraverso l’esplorazione delle bidimensionalità 104 che divengono reattive e autoreferenziali. Questo concetto è certo presente in opere come quella di Herzog & De Meuron o in altri lavori simili quali il complesso Europark che Massimiliano Fuksas ha edificato a Salisburgo nel 1994-’97 (Fig. 40) o, ancora, l’edificio KU 70 di Helmut Jahn in Kurfürstendamm a Berlino (Fig. 41). In tutti questi casi, troviamo elementi di facciata che tendono a sovrapporsi alla consistenza volumetrica e spaziale dell’architettura, includendo la comunicazione di superficie. Siano esse serigrafie di foto (Herzog & De Meuron), grandi scritte (Fuksas) o semplici decorazioni frangisole su vetro smerigliato (Jahn), il concetto non cambia: l’aspetto comunicativo bidimensionale rimane uno dei punti di interesse dell’architettura. Ritornando all’opera V2 Lab di NOX riconosciamo in modo più chiaro ed emblematico anche la tematica della comunicazione di superficie. Nello sfondamento di facciata (non ancora realizzato) troviamo, su una lastra topologica accartocciata, la trasparenza e le incisioni serigrafate con elementi grafico/comunicativi che rinnovano il messaggio attraverso la sovrapposizione e la trasparenza. L’edificio, così, diviene testo letterario. Un secondo edificio di NOX ci offre l’occasione per analizzare un’ulteriore filo conduttore nella generazione dello spazio attraverso il computer. Anche nell’ultimo progetto presentato era evidente come una superficie topologica potesse essere generata attraverso la deformazione «senza strappi» di una membrana elettronica. Tale essenza è una specie di fondamento nella progettazione con il computer. L’operazione è quella di 103 104 Cfr. con Paolo Vincenzo Genovese, Günther Domenig, Testo & Immagine, Torino, 1998. Sherry Turkle, op. cit., p. 28. prendere un elemento bidimensionale base, elaborarlo formalmente e poi estruderlo nella terza dimensione dandogli consistenza. A tale riguardo citiamo il progetto di dECOI105 (non si tratta di un errore di battitura; è il vero nome del gruppo) per una boutique Missoni a Parigi (Fig. 42). Lo sviluppo del progetto di fatto non va al di là di un arredo che, per quanto complesso, ha i limiti di un intervento di questo genere. Per la nostra trattazione è interessante l’uso che essi fanno di superfici accartocciate capaci di creare l’ambiente del vissuto. Questo, pur essendo in diretto collegamento con le precedenti sperimentazioni sulle superfici topologiche, ha una differente logica. La sostanza del progetto si articola su una serie di fogli (elettronici) avvolti su se stessi che involucrano lo spazio del vissuto. L’operazione non è molto dissimile da quella che Frank O. Gehry adotta quando progetta avvolgendo carta intorno alle funzioni. In questo caso le forme sono di matrice organica, fluida, ma riferita ad un mondo figurativo Cyber. Il legame con Gehry è strumentale per capire uno dei procedimenti per la realizzazione di queste opere elettroniche. Invece di modellare dei fogli di carta, dECOI e altri autori che più tardi leggeremo prendono “fogli” virtuali bidimensionali e li deformano con gli strumenti contenuti nei modellatori solidi fino ad ottenere la forma voluta. Simile il procedimento ma differenti i mezzi. Riteniamo che, nonostante i processi non siano molto dissimili, esista una notevolissima distanza tra i due approcci. Gehry è un epigono del Movimento Moderno che, in qualche modo, chiude sancendone la fine. dECOI, al contrario, appartengono ad un mondo molto diverso che, pur nutrendosi di un organicismo che ricorda Bruce Goff, Kendrick Bangs Kellogg 106, John Lautner e altri, si radica nell’estetica Cyber. In modo più maturo troviamo gli stessi contenuti nel progetto Beachness di NOX del 1997 (Fig. 43). Qui riconosciamo alcuni tratti tipici del caos formale di derivazione decostruttivista, ma interpretati in una nuova ottica. Qui compare assai poco l’immagine di forma organica. Ritengo, tuttavia, che l’adesione all’organicismo sia di natura più profonda e radicale. Se per esso intendiamo l’imitazione delle forme naturali, ne abbiamo dato una definizione del tutto parziale. L’organicismo è, essenzialmente, un’ottica che intende interpretare i sistemi di funzionamento della natura e adattarne i modi di comportamento all’architettura. Due sono i riferimenti utilizzabili a riguardo. Il primo è la scienza bionica che utilizza lo studio delle strutture animali e vegetali al fine di trasporre i principi formali e strutturali all’interno delle costruzioni dell’uomo. Il secondo ramo di studi, più recente, può essere fornito dalla matematica frattale. La bionica deriva dal greco βιος che significa «elemento vitale, vita di esseri ragionevoli». Questa disciplina tende a studiare i principi di funzionamento della natura, analizza i sistemi viventi per comprenderne l’uso. La bionica, al contrario della botanica o della zoologia, utilizza questi studi [...] al fine di usare le conoscenze che ne derivano nella progettazione di sistemi artificiali. Fare della bionica significa: studiare i sistemi viventi per imparare a conoscere come funzionano; imparare 107 ad applicare alla soluzione di problemi tecnici ciò che si è imparato a conoscere dei sistemi viventi. La bionica, in generale, ha l’obiettivo di capire la logica delle strutture naturali e viventi per applicare tali conoscenze a protesi artificiali per gli esseri umani, per l’ingegneria aerospaziale e persino per l’architettura. Così, lo studio della struttura alveolare delle ossa108, il volo radente degli insetti 109 e la distribuzione delle tensioni sulle bolle di 105 dECOI è un gruppo di architettura francese composto da Mark Goulthorpe (1963) diplomato a Liverpool, Inghilterra e Yee Pin Tan (1962). 106 Se l’opera di Bruce Goff è molto conosciuta e celebrata, è utile ricordare un breve riferimento all’opera di Kendrick Bangs Kellogg. Per leggere e consultare quattro notevoli opere di questo autore americano, vedasi «L’Architettura - Cronache e Storia», n. 376, febbraio 1987. Vedasi anche il sito Internet: http://www.sandiegoart.com/KKellogg/index.html. 107 Giorgio Scarpa (a cura di), Modelli di bionica, Zanichelli, Bologna, 1985, p. 6. 108 Cfr. con James E. Gordon, Strutture, ovvero perché le cose stanno in piedi , Mondadori, Milano, 1979. 109 Cfr con J. Gray, Come si muovono gli animali, Feltrinelli, Milano, 1959. sapone 110, sono tutti campi di ricerca rivolti allo studio di come i sistemi naturali organizzino la loro forma per una perfetta distribuzione di forze e tensioni e, più in generale, di come essi siano sistemi ideali di funzionamento 111. Il proverbio Moderno «la forma segue la funzione», lascia il posto ad una nuova sintesi: forma e funzione sono un unicum inscindibile. Per la bionica la forma è strettamente connessa alla funzione e, pertanto, non esiste un termine subordinato all’altro. La bionica è una fonte di ispirazione per almeno due motivi: il primo è di natura logico/formale, il secondo di natura statico/strutturale. Modelli per lo studio bionico sono le piante che devono resistere a sforzi meccanici di diversa natura, che crescono, consolidandosi dall’interno, nella direzione precisa delle forze che agiscono su 112 di esse. Molti sono i casi che possono essere citati, e forse il più aderente è quello del tedesco Frei Otto. Aldo Capasso fa osservare come [...] l’accostarsi alla natura non significa progettare edifici dall’aspetto di organi animali, che, quindi, 113 appaiono simili alla natura senza per nulla essere naturali. Nelle opere di Otto [...] prevalgono la leggerezza, la trasparenza, l’essenzialità, ed in particolare la tensione energetica propria delle strutture naturali, con le quali tali costruzioni sembrano armonizzarsi in maniera anche suggestiva. La suggestione e la qualità delle opere dell’architetto tedesco sta dunque proprio in 114 questa logica che governa le strutture e lo spazio che ne deriva. In quest’ultimo passo troviamo uno dei centri di interesse di questo scritto, ovvero la questione spaziale. L’armonizzarsi alle forme della natura non dev’essere imitativo, bensì derivare dalle logiche tensionali e d’uso. Così, il risultato sarà certamente, in quest’ottica, armonizzato alla natura perché derivato dalle stesse logiche. Un caso assolutamente affine è quello dell’italiano Sergio Musmeci115, i cui studi sulle membrane resistenti sono chiarissimi esempi di come lo studio dell’andamento delle tensioni sulle strutture naturali (bolle di sapone, membrane tese, etc.) abbia dato origine a forme di chiara derivazione naturale. La bionica è per noi anche utile poiché è stata utilizzata come materia per la creazione di protesi meccaniche per esseri umani, discorso che ci riconduce a quanto detto nel capitolo 2.1. La bionica è, accanto all’organicismo di stampo wrightiano (nelle interpretazioni di Goff, Kellogg e Lautner) uno spunto fondamentale per capire alcuni lavori dell’architettura Cyber. Le forme zoomorfe che spesso si incontrano in quest’ultimo ambito sono in parte di ispirazione poetica (o polemica come nel caso di Pasing), mentre dall’altro lato si nutrono dei contributi della cibernetica e della bionica. Questi hanno una storia di almeno quarant’anni. Quello che avviene attualmente è un rinnovamento dovuto anche ad alcune scoperte importanti nel campo della matematica. Tutto questo dev’essere letto oggi alla luce delle scoperte che Benoît B. Mandelbrot ha realizzato con la sua matematica frattale. L’assunto del ragionamento frattale è che le forme geometriche platoniche studiate da Euclide sono l’eccezione piuttosto che la regola nel mondo della nostra esperienza. Sassi, nuvole e montagne non sono riconducibili a nessuna geometria particolare 116. Ogni forma 110 Cfr. con Boys, Le bolle di sapone, Zanichelli, Bologna, 1963. Uno dei riferimenti fondamentali per le scienze bioniche è il saggio D’Arcy Wentworth Thompson, Crescita e forma, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, nel quale tutte le principali direzioni di questa disciplina sono tracciate con la chiarezza di un autentico pioniere. 112 Giorgio Scarpa (a cura di), op. cit., p. 7. 113 Aldo Capasso, Introduzione, in Aldo Capasso (a cura di), Architettura e leggerezza, Maggioli Editore, Milano, 1998, p. 15. 114 Ibid. 115 Manfredi Nicoletti, Sergio Musmeci, Testo & Immagine, Torino, 1999. 116 Luca Peliti e Angelo Vulpiani, Prefazione all’edizione italiana, in Benoît B. Mandelbrot, Gli oggetti frattali, Einaudi, Torino, 1987, p. IX. 111 di analisi del passato è volta alla ricerca di armonia che, suggeriamo, era una forzatura di carattere filosofico od etico. I fenomeni che non rientravano in questo ordine armonico non avevano diritto ad essere chiamati scientifici117. I frattali studiano gli oggetti naturali da un punto di vista matematico. Questi studi accolgono tutti quei fenomeni che hanno la caratteristica di essere irregolari. La terra, il cielo, la forma delle nuvole e delle turbolenze, sono caratterizzati da proprietà così complesse che solamente la matematica contemporanea ha avuto la forza di affrontare. Mandelbrot stesso parla di una rivoluzione che ha avuto come esito una «nuova geometria della natura». I risultati sono applicabili ad una enorme quantità di discipline diverse, quali la geomorfologia, l’astronomia, la teoria delle turbolenze, e altro ancora 118. Per far questo si è dovuto adottare un sistema geometrico descrittivo basato su dimensioni frazionarie. Ma i discorsi si fanno di natura tecnica e dobbiamo, per ora, rimandarne l’analisi al momento in cui parleremo delle geometrie di ordine superiore di Hilbert. Resta importante dire che la geometria frattale è caratterizzata da problemi scelti in seno al caos della natura 119, ricercando delle leggi ricorsive che ne spieghino la natura e proprietà geometriche arbitrarie solo in apparenza. Sintetizzando questa lunga digressione sul problema dell’organicismo interpretato dal punto di vista della bionica e della matematica frattale, troviamo alcuni punti interessanti che ci permettono di leggere meglio alcune opere di architettura. Organicismo, bionica e frattali, sono tre aspetti che si integrano per generare un’interpretazione dello spazio architettonico basato sulle forme irregolari, di ispirazione biomorfa o zoomorfa, la cui morfogenesi si fonda sulle logiche di accrescimento dei sistemi viventi o di organizzazione molecolare di rocce e cristalli. Riprendiamo il progetto Beachness di NOX (Fig. 43) che avevamo lasciato in sospeso. Possiamo finalmente riconoscere tutte le ispirazioni appena descritte. Esso si articola come una narrazione spaziale basata sulla geometria del caos. Ma ora abbiamo alcuni chiavi interpretative adatte per comprendere come tale progetto non sia frutto del capriccio, ma basi la sua forma su studi organici e matematici sempre riconducibili alla natura. Beachness è uno «stato di mobilità». Esso si ispira alla spiaggia; [...] the beach should be primarily conceived as a field in which everything is in a state of openness 120 and non-fixation. È un hotel-boulevard basato sulla compresenza di differenti tipi di movimento formalizzati in una somma che genera risultati descrivibili con le geometrie non-euclidee e con la matematica del caos di René Thom. Tra edifici preesistenti, NOX inseriscono una costruzione a-formale con sviluppo verticale. L’analisi della genesi di questo progetto denuncia come esso sia basato su flussi di percorrenza, idea che viene conservata anche nella soluzione finale. I rendering, infatti, offrono l’aspetto di percezione dinamica. Tutta l’opera è un percorso che si dipana a mo’ di narrazione. È, altresì, chiaro come questo progetto sia nato dall’inviluppo di percorsi, di fusioni spaziali; esso è una struttura che si compone di parti deformate ponendosi al di là della semplice potenzialità tecnica dello strumento. È l’idea di flusso che genera lo spazio, il tutto supportato da una teoria della forma organica. Scorgiamo ancora due punti di interesse. Ritroviamo anche in questo progetto l’idea della pelle dell’architettura utilizzata come supporto comunicativo. Come il precedente V2 Lab di NOX, anche questo modello ha un involucro nel quale sono impresse lettere, scritte o diagrammi. La pelle dell’architettura diventa supporto comunicativo, verificando la profezia di McLuhan «il medium è il messaggio»121. Esiste una corrispondenza tra mezzo e messaggio, tra strumento comunicativo e contenuto. 117 Ibid. Benoît B. Mandelbrot, op. cit., p. 7. 119 Ivi, p. 12. 120 Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 326. 121 Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1999. 118 Entrambe le categorie, tradizionalmente separate, tendono nella società contemporanea a coincidere. Il supporto dell’informazione tende a coincidere con il contenuto. L’edificio diviene testo comunicativo che però comunica gli aspetti estetici e superficiali del discorso narrativo. Ciò non è negativo poiché la teoria postmoderna della comunicazione afferma l’importanza della superficialità dell’informazione o, in altre parole, l’informazione senza messaggio. In tal modo le parole incise sulle superfici da NOX e da altri non sono importanti in quanto espressivi di contenuto, bensì divengono citazioni nelle quali non esiste significato ma solamente significante. La citazione nasce e finisce lì. L’operazione non è originale ma abbondantemente utilizzata da Daniel Libeskind in numerosi progetti degli anni Ottanta e Novanta 122. Il secondo aspetto di riflessione riguarda la complicatissima struttura portante di Beachness. Essa è generata dal caos e qualunque strutturista avrebbe seri problemi nel compito di calcolare la statica dell’organismo. In realtà questa difficoltà oggettiva nasconde una problematica più vasta. Strutture calcolabili stanno in piedi, ma riescono a resistere anche strutture non calcolabili. Anche sistemi strutturali dotati di altissima complessità sono in grado di resistere alle leggi della statica. Sono i consueti strumenti di analisi degli sforzi (software di ingegneria compresi) ad essere inadeguati. Nondimeno queste strutture resistono. Il problema è stato sollevato da Francesco Cocco 123 in una conversazione privata tra lui e l’ing. Giandomenico Cocco, strutturista di Afra e Tobia Scarpa124. Il problema è: esistono strutture non-razionali che nonostante la loro complicazione sono perfettamente in grado di resistere alle sollecitazioni dovute ad un normale utilizzo. Compito del progettista è quello di affinare strumenti di calcolo in grado di affrontare strutture “non discrete” dal punto di vista degli sforzi. Una possibile risposta può essere data da Frei Otto con il suo metodo del rilevamento delle deformazioni minimali su modelli. È importante citare un’interessante scritto di Mick Eekhoust sui sistemi di calcolo e verifica delle tensioni che Otto utilizzò nelle coperture dello Stadio Olimpico di Monaco di Baviera125. L’analisi sarebbe eccessivamente lunga e rimandiamo sicuramente allo scritto. Basti l’accenno che il principio si basa sulla consapevolezza che simili strutture sono impossibili da calcolare con i tradizionali strumenti della scienza delle costruzioni. Otto ha pertanto ideato un metodo basato sulla creazione di modelli in scala fotografati dapprima in stato di quiete e successivamente soggetti ai carichi. Fatto questo, le immagini sono sovrapposte e gli spostamenti dei diversi punti sono rilevati da un computer che ricostruisce gli stati tensionali interni derivati dagli spostamenti relativi dei diversi punti. Ci siamo soffermati su questi aspetti poiché una delle critiche classiche che vengono rivolte a un certo tipo di architettura riguarda la visionarietà contenuti nel rapporto tra lo spazio del vissuto e la pelle comunicativa, e, in seconda analisi, la questione strutturale. Le nostre enunciazioni non possono essere delle risposte definitive, bensì personali interpretazioni del problema. Questo impegno è stato reso necessario perché nell’architettura che abbiamo indagato compaiono spesso lavori che presentano un aspetto mass-mediologico e strutturistico estremo che tende a porsi in modo nuovo verso il fare architettura. Per chiarire è 122 Lo stesso progetto del Museo Ebraico di Berlino del 1989-’96 è stato strutturato nella sua linea zigzagante con un procedimento molto complesso. Libeskind ha preso il lungo elenco di ebrei berlinesi deportati nella seconda guerra mondiale e connettendo con delle linee immaginarie i diversi luoghi di residenza. Le fasi iniziali del progetto avevano conservato questo processo ed era possibile vedere nei primi plastici questi elenchi di nomi che ricoprivano il corpo dell’edificio. L’infinità dei nomi presenti in quell’elenco era una citazione assolutamente eloquente delle migliaia di vite troncate. Dietro quella lista non si celava alcuna storia, nulla era trascritto, ed esso era significativo come semplice elenco di nomi. È un caso in cui il significato sia contenuto nel significante o meglio in cui esista un’assenza di significato e l’elemento comunicativo sia dato esclusivamente dal significante. 123 Per la conoscenza dell’opera dell’architetto italiano Francesco Cocco vedasi Bruno Zevi, Storia e controstoria dell’architettura in Italia, Newton & Compton, Roma, 1997, pp. 602-607 e 728. In più: «L’Architettura - Cronache e storia» n. 439, pp. 326-337 e n. 446, p. 849; n. 471, pp. 6-15; ed infine «VilleGiardini», n. 337, pp. 13-21. 124 L’ing. Giandomenico Cocco ha progettato per Afra e Tobia Scarpa la Fabbrica Benetton a Castrette (TV) nel 1992. 125 Mick Eekhout, Frei Otto and the Munich Olympic Games (from the measuring experimental models to the computer determination of the pattern), in «Zodiac» n. 21, settembre 1972, pp. 12-73. opportuno citare un gruppo di architettura che personalmente riteniamo di grande valore spaziale e di forte maturità espressiva: Naga Studio Architecture 126. La motivazione è data dal fatto che, in questo caso, esiste una fortissima sintesi tra decostruzione, Cyberarchitettura e plastica scultorea, una sorta di compendio di questo scritto sulle questioni spaziali. È infatti nostro interesse indagare la genesi delle spazialità non-euclidee a partire dai diversi modi di creazione della forma. Naga Studio presenta una sintesi a mio parere molto interessante perché la forma nasce da modellini fisici che vengono successivamente elaborati con lo strumento informatico. Ma il processo non è unidirezionale, bensì oscilla tra un estremo e l’altro. Al contrario dei precedenti esempi nei quali l’elaboratore era strumento principe di azione, qui esiste una fusione di diversi modi, motivo che lega questi esperimenti più alla decostruzione di Asymptote che alla visionarietà folle di Novak e Chu. Tre sono i progetti di Naga Studio di cui desidero parlare. I primo è un semplice plastico di studio per un’abitazione privata, mentre gli altri due sono progetti completi di buon livello figurativo e spaziale. ESK House (progettata nel 2000) ha come principio poetico l’idea di sospensione, espressa dalla perdita di peso in assenza di gravità e dalla leggerezza del peso corporeo nell’acqua (Fig. 44). La perdita delle tradizionali limiti della tettonica dell’architettura è emblematico. Non è il primo caso di architettura Cyber che rifiuta di prendere in considerazione il problema del peso e della “massa” dell’edificio. Tutto sembra fluttuare nel nulla, rispettando la più diffusa idea di spazio virtuale. In questo caso, però, esiste una deroga dalla norma dei casi precedenti. La perdita di peso non è il rivolgersi ad architettura astratta, o non realizzabile, o ideazione di spazio Web. Siamo di fronte ad una scelta poetica volta a ideare un corpo architettonico che suggerisca l’idea di assenza di peso. Questo progetto, pur essendo fortemente improntato ad essere manifesto poetico dell’autore, ha sempre un pensiero rivolto all’architettura reale. Esso nasce come plastico architettonico e non come progetto che deve vivere esclusivamente nello spazio virtuale della memoria di un computer. ESK House si sviluppa a partire da assi cartesiani (interessante paradosso: la generazione di spazi non-euclidei avviene a partire da uno spazio ordinatore). La retta delle ordinate rappresenta una traiettoria, un’emergenza dall’acqua; un asse discendente genera lo spazio domestico. L’utilizzo di percorsi dinamici in cui la materia organica o spaziale si deforma secondo forze attrattive o pesi è comune anche ad un progetto che vedremo in seguito di Greg Lynn. Le elaborazioni elettroniche di ESK House hanno forti analogie con il metodo di dECOI utilizzato nella boutique Missoni: una serie di lastre deformate e accartocciate su se stesse secondo un disegno capace di creare uno spazio organico. La differenza tra i due esempi è sostanziale: Naga riesce a creare un involucro complesso rivolto alla fruizione fisica (anche se il progetto risulta essere ancora in fase preliminare) - fatto testimoniato anche dagli schizzi a matita che indagano i percorsi spaziali del fruitore -; dECOI immaginano qualcosa che non riesce a scostarsi da un elaborazione teorica incapace di generare vero spazio del vissuto. In qualche modo questi ultimi sono succubi dello strumento informatico. Nelle altre due opere di Naga (che presentiamo insieme poiché generate da uno stesso spirito compositivo) ritroviamo le medesime tematiche ma approfondite da un maggior sviluppo in termini di logica edilizia. In Marina International Hotel del 1998 (Fig. 45) e nello Sharm Safari Gate del 1997 (Fig. 46) l’idea di sviluppo topologico senza fratture è presente: le diverse membrane che fanno parte della struttura sono superfici senza strappi che, assommate, contorte ed intersecate, danno luogo all’architettura. 126 Lo studio è gestito da Tarek Naga, nato nel 1953. Si è laureato in Urban Planning (1977) e ha conseguito il Bachelor of Science of Architecture all’università Aim Shams al Cairo, nel 1982 ha conseguito il Master of Architecture all’Università del Minnesota a Minneapolis. Lo studio Naga a sede a Los Angeles in California. La sua data di nascita incuriosisce. I suoi risultati espressivi ci fanno capire come le elaborazioni elettroniche siano derivate da modelli “reali” realizzati come sculture in modo non dissimile da quello usato da Frank O. Gehry nelle sue opere. Fixity and stasis may occur only at a thresholding instance (a point of suspension) where flows are moving in opposing vectors: a subversive counter-state to the point of inflection in a topological continuum. [...] Architectonic volumes (imploding or exploding) that intersect with topological 127 conditions, effectively become turbulences in the flow of continuous surfaces. Ma, mentre in altri casi le elaborazioni informatiche lasciavano luogo ad interpretazioni, qui le idee architettoniche sono più esplicite. Ci troviamo di fronte non ad immagini virtuali ma ad un uso del CAAD rivolto alla prefigurazione di un progetto che sembra di per sé finito. Molto spesso abbiamo incontrato luoghi virtuali dotati di un alto livello di astrazione, spazimanifesto, elaborazioni programmatiche di un’idea filosofica intesa ad applicare una nuova visione della società o del modo di relazionarsi con lo spazio del vissuto. Chu, Novak o Kolatan/Mac Donald Studio, per citarne solo alcuni, danno l’impressione di utopie intellettuali, anche se di stampo ben diverso dal senso classico di questa parola 128. Pur avendo una forte componente spaziale, i risultati sono ancora al di là di una ideale linea di demarcazione che separa le astrazioni da luoghi effettivamente esperibili, anche se solo dal punto di vista virtuale. In sostanza, alcune opere sembrano più oggetti virtuali che “spazi del vissuto informatico”. In Naga Studio Architecture questo non accade poiché le opere citate sono anticipazioni di architetture realizzabili nelle quali anche l’aspetto statico e funzionale è stato considerato. Ma sarebbe semplicistico collocare questo autore nella direzione di un progettista di architettura. Egli è nutrito della cultura decostruttivista e Cyber, fatto dimostrato dai progetti di Marina International Hotel e Sharm Safari Gate. Il primo è un grande edificio a corte con una torre posta ad angolo. Questa presenta un andamento spiraliforme che si evolve e muta con l’altezza attraverso un moto acceleratore verticale 129 che dà luogo ad un vortice di setti deformati. Anche qui ritroviamo la poetica delle superfici topologiche avvolte su se stesse e dell’organicismo, non espresso da forme zoomorfe bensì dalla fluidità dei percorsi e degli spazi interni. Anche il Sharm Safari Gate presenta spunti poetici di grande forza evocativa derivati dal movimento. Il progetto è una metafora del nomadismo e del movimento, filtrati dalla grande ricchezza che il deserto del Sinai ha significato per la cultura egiziana. L’esplorazione ha una complessità simbolica profondissima sia dal punto di vista mentale che fisico. Il progetto, allora, è narrazione di un tempo biblico che testimonia un’evoluzione (ancora una spirale ascendente, stavolta di carattere mistico). Il senso di creazione e dissoluzione del gruppo nomade è evocato da membrane che avviluppano lo spazio, e dalla struttura portante che esplode nell’intorno suggerendo il percorso aperto delle carovane nel deserto. Ma, nonostante il forte senso poetico di queste due opere, rimane inequivocabile che entrambi i progetti hanno, pur nella visionarietà delle scelte stilistiche, una forte concretezza. Come conferma la descrizione del progetto tratta dalle parole di Tarek Naga, le elaborazioni si compongono essenzialmente di funzioni, divisioni di spazi principali e secondari, elementi funzionali, scale e corti, riflessioni tipologiche e quant’altro ancora fa parte della più tradizionale 127 Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 282. Le utopie sono, nelle parole di Bronislav Baczko, «[...] progetti e descrizioni dettagliate di società ideali che implicano un’intenzione provocatoria palese o dissimulata» (cfr. Bronislaw Baczko, L’utopia, Einaudi, Torino, 1979). Questa definizione si adatta al nostro caso. Tuttavia, la distanza tra le utopie classiche e moderne e il caso della Cyber-architettura è enorme. Tanto per cominciare le utopie sono essenzialmente scritti letterari, giochi intellettuali delle elite colte. Ogni qualvolta esse tendono ad essere realizzate nascono problematiche di ordine sociale e filosofico fondamentali che ne inquina l’idea iniziale. Nello scritto Paolo Vincenzo Genovese, I navigatori del sogno, Dispensa del corso di Progettazione Ambientale, 1999, si dimostra come le utopie realizzate abbiano attuato solo alcuni ideali estetici delle utopie letterarie, fallendo grossolanamente su altre importanti questioni. Occorre pertanto dire che le utopie urbane e sociali sono esclusivamente di natura teorico/filosofica. Ma un punto di contatto molto forte tra questo movimento e l’argomento che stiamo trattando in questo scritto riguarda il fatto che la Cyber-architettura propone progetti per una rinnovata società contemporanea. Esattamente come i filosofi illuministi del XVII secolo, gli autori Cyber attuano progetti di società e teorizzano luoghi ideali rinnovati in cui l’umanità rinnovata troverà un mondo migliore (!). Ritengo tuttavia che il concetto di utopia possa essere applicato a queste sperimentazioni solo in senso molto lato. Esse sono di fatto applicazioni spaziali di un’idea di forma o di architettura o di filosofia. Ma sempre la componente principale ed ineludibile è quella spaziale o quantomeno compositiva, fattori del tutto assenti nelle utopie intese in senso stretto. Lasceremo quindi l’idea di utopia poiché inapplicabile al nostro caso, e utilizzeremo questa parola solo nel significato di “sogno” o di “progetto astratto”. 129 Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 284. 128 pratica progettuale architettonica130. Riteniamo, però, che progetti di questo genere soffrano del medesimo difetto di molti progetti di Zaha Hadid. Le sue opere nascono come disegni artistici e talvolta falliscono sul piano realizzativo. Se la Hadid convince nel caso della Stazione dei pompieri al Campus Vitra del 1990-’93 o nel Landscape Formation One del 1996-’99 (entrambi a Weil am Rhein presso Basilea) nel senso che esiste una corrispondenza poetica tra disegno e realizzazione, tra idea progettuale e risultato finale, nel caso dell’edificio per appartamenti all’IBA di Berlino (1987-’93) la soluzione costruttiva è decisamente avvilita rispetto all’impeto iniziale. Anche per Naga occorrerebbe vedere una realizzazione pratica e dobbiamo aspettare che questi due ultimi progetti siano finiti e pubblicati, poiché i cantieri sono ancora aperti. Un ultimo punto di interesse verso Tarek Naga ci aiuterà ad introdurre un fondamentale problema nella nostra trattazione: gli spazi di ordine superiore in matematica e la loro applicazione nell’architettura contemporanea. Analizzando le procedure compositive di Naga scorgiamo una metodologia di generazione di forma e di spazio basata sul processo «Tetra-Vectors» 131. Questo è un sistema di coordinate che impiega quattro vettori spaziali derivati dalla figura del tetraedro. In luogo dei tre assi cartesiani, Naga ha ideato il sistema tetraedrico per comprendere le trasformazioni spazio-temporali della morfogenesi dello spazio. La quarta dimensione, in architettura, ha antecedenti molto forti; basti pensare all’importanza che la variabile tempo ha assunto nell’architettura di Frank Lloyd Wright e di Erich Mendelsohn. Naga ha concepito un sistema di rappresentazione che riesca ad includere in un’unica visione anche il fattore tempo. «Tetra-Vectors» (Fig. 47) impiega in uno spazio tetraedrico quattro vettori spaziali e quattro coordinate denominate Vt1, Vt2, Vt3 e Vtn. In this system, spatio-temporal Vt values are imputed to each of the four vectors. Thus each point in space falls within a particular tetra-quadrant. The fourth vector carries an intrinsic potential (t) value for that point to vibrate, to become activated into motion (i.e. Vt1, Vt2, Vt 3, Vt n and Vt1, Vt2, Vt3, Vtn+x). Within those Vt vectors, a planomenon of architectonic fragments or topological continuums is imbued whit a projective becoming. An inherent instability and fragile equilibrium permeates the behaviour space. This architecture aspires to creating space that is simultaneously emergent and convergent, imploding and exploding. Space that is physically and metaphysically charged with the desire to 132 transform, transmutate and transfold itself. Il metodo basato sul tetraedro di Naga ha l’ambizione di generare un sistema di rappresentazione e generazione di continuità spaziale, di movimento e di ogni aspetto connesso allo spazio-tempo di matrice einsteiniana in ambito architettonico. In qualche modo si cerca un metodo per raffigurare complessità concettuali impossibili da visualizzare con i metodi cartesiani, nati nel settecento quando la variabile tempo non era un elemento incluso nella realtà fisica. Il sistema «Tetra-Vectors» richiama alla mente due problematiche distinte che devono essere trattate separatamente. La prima riguarda i sistemi di rappresentazione basati sulle geometrie evolute che, negli anni Cinquanta del XX secolo, aveva elaborato Richard Buckminster Fuller133. Il secondo ambito di problemi tratta delle dimensioni di ordine superiore in matematica e l’influenza che queste hanno avuto nel campo dell’architettura. «Tetra-Vectors» racchiude una questione ben più vasta di quanto non appaia ad un primo sguardo. Esso non è un semplice procedimento progettuale o poetico utilizzato per generare spazi o per interpretare l’idea di movimento in architettura. Esso esprime una brillante soluzione ad un problema annoso: la rappresentazione di spazi matematici e fisici 130 Cfr. ibid. Questo metodo è talmente importante per il suo autore che è stato addirittura brevettato. 132 Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 282. 133 Cfr. Cap. 0, Studi sulla cristallografia. Un’introduzione alle geometrie non-euclidee in questo scritto. 131 di ordine superiore. Per descrivere questo è opportuno riferirci, ancora una volta, alla matematica ed in particolare agli spazi di Hilbert. Desidero impostare la discussione a partire dalle conquiste di Georg Ferdinand Ludwig Cantor sugli insiemi transfiniti. Egli dimostrò che l’infinito si presenta con diverse “quantità” o, in altre parole, che esistono infiniti di grado diverso 134. Gli «insiemi transfinti» sono ben più grandi degli infiniti normali, tema che aprì voragini assai drammatiche sia in seno alla matematica sia nello stesso equilibrio psichico di Cantor. Ma grazie a lui, possiamo trattare gli infiniti alla stessa stregua dei numeri ed utilizzarli come concetti nella realtà del calcolo 135. In verità la questione non è così banale come potrebbe apparire. Il dibattito sugli infiniti vede posizioni contrapposte 136. La maggior parte dei matematici, comunque, ammette l’esistenza del confronto tra insiemi qualsiasi e, pur tralasciando per motivi di scarso interesse il caos assoluto, essi si rivolgono, nell’ambito della teoria degli insiemi - la teoria più generale della matematica -, anche al confronto tra sistemi infiniti 137. Ora, l’ammissione di sistemi infiniti ha aperto il problema di esistenza di infinite dimensioni nell’ambito della geometria. Il problema può essere esposto in questo modo: noi siamo abituati a pensare il mondo fisico attraverso le tre dimensiono cartesiane. Tuttavia, seguendo certe ipotesi settecentesche, i fisici hanno sentito l’esigenza di introdurre il fattore tempo come quarta dimensione 138. Questa era una dimensione non visualizzabile che includeva la variazione di una realtà fisica tridimensionale nel tempo. La fisica di Einstein, Poincaré e Lorentz ha fatto dell’idea di Minkowski 139 - secondo cui il tempo deve considerarsi una quarta coordinata -140 una realtà dimostrata per la quale, oggi, è necessario pensare in termini di spazio/tempo141. Questo significa che tempo e spazio sono direttamente connessi e, pertanto, al variare di un fattore varia anche l’altro. Lo spazio viene curvato dal tempo e il tempo curvato dallo spazio142. Come lo spazio, anche il tempo viene ad essere contratto e quindi a non essere costante. Per noi il discorso deve essere deviato verso l’apertura alle dimensioni plurime. Se esiste una quarta dimensione, può esisterne una quinta od una sesta, e così via? La 134 Una divertente e chiarissima dimostrazione di questo fatto è contenuta in Paul Hoffman, L’uomo che amava solo i numeri, Mondadori, Milano, 1999, pp. 201-205. L’esposizione si basa su un metodo di diagonalizzazione di numeri frazionari interi posti in corrispondenza biunivoca. Il risultato è che si possono creare associazioni biunivoche di numeri in modo molto interessante. Ad esempio: Cantor dimostrò che esiste corrispondenza tra numeri quali 1? 1/1, 2? 2/1, 3? 1/2, 4? 1/3, 5? 3/1, 6? 4/1, 7? 3/2, 8? 2/3, 9? 1/4, ..., la cui formalizzazione in termini matematici è: ?0 + 1 = ?0 . Tale aspetto sembra paradossale ma è una delle più grandi conquiste della matematica poiché sancisce che se all’infinito aggiungiamo un numero intero positivo otteniamo sempre se stesso ovvero infinito. Inoltre (ed è la massima conquista di Cantor) egli dimostrò secondo un procedimento intuitivamente molto semplice ma assai complesso nei suoi termini formali che esiste un insieme infinito più grande dell’infinità dei numeri reali. Anche questa dimostrazione era basata sulla corrispondenza biunivoca tra numeri reali e numeri naturali. Egli scoprì che anche se esistono tanti numeri reali quanti sono i numeri naturali, sarà sempre possibile trovare un numero reale non compreso nell’elenco. Ci sono pertanto numeri reali che non sono messi in corrispondenza dei numeri reali. Questo insieme di infiniti numeri reali è allora più grande dell’insieme dei numeri naturali. Cantor chiamò questo infinito di ordine superiore ?1 o insiemi transfiniti. 135 A tal proposito è possibile dedurre alcune implicazioni molto interessanti ma di grande difficoltà nel caso degli assunti predicativi di von Neumann in Ettore Casari, Questioni di filosofia della matematica, Feltrinelli Editore, Milano, 1976, pp. 59-60. 136 Se alcuni, come Bertrand Russell, accettano l’esistenza esclusivamente di infiniti numerabili (gli infiniti dei numeri naturali, per intenderci) rifiutando l’esistenza dei transfiniti, altri autori rifiutano persino l’esistenza degli infiniti, almeno secondo una particolare angolatura Sulle questioni relative alla matematica Predicativa di Poincaré-Russell e le concezioni intuizioniste che negano gli infiniti di Cantor, vedasi anche Ettore Casari, op. cit., pp. 138-139. Una interessante confutazione dell’idea di infinito ci viene da Ernst Zermelo che così diceva: «[...] una molteplicità può essere fatta in modo che l’ipotesi di un “essere assieme” di tutti i suoi elementi porti ad una contraddizione, cosicché è impossibile concepire la molteplicità come una unità, come “una cosa compiuta”. Tali molteplicità le chiamo assolutamente infinite o inconsistenti» (cit. in Ettore Casari, op. cit., p. 57. 137 Giuliano Spirito, Matematica senza numeri, Newton & Compton, Roma, 1995, p. 9. 138 Su questo problema vedasi Rudy Rucker, La quarta dimensione, Adelphi, Milano, 1994. 139 I punti dello spazio-tempo di Minkowski sono “eventi”, cioè vanno caratterizzati non solo da una serie di coordinate spaziali, ma anche da una coordinata temporale che specifica l’attimo in cui si svolge l’evento. In questo senso un aeroplano in volo non è un evento, bensì una serie continua di eventi che si snoda nello spazio-tempo di Minkowski. Da Voce «Spazio», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit. 140 Ibid. 141 Albert Einstein, Relatività: esposizione divulgativa, Paolo Boringhieri, Torino, 1967. Su altre questioni di spazio/tempo cfr con il classico di divulgazione Stephen Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri, Rizzoli, Milano, 1988 e Paul Davies, Sull’orlo dell’infinito, Mondadori, Milano, 1985. Sul problema del tempo vedasi anche Paul Davies, I misteri del tempo, Mondadori, Milano, 1997 e Ilya Prigogine, Dall’essere al divenire, Einaudi, Torino, 1986 e dello stesso autore La nascita del tempo, Theoria, Roma-Napoli, 1988, ed infine Dall’essere al divenire: Tempo e complessità nelle scienze fisiche, Einaudi, Torino, 1986. 142 Solo un esempio: in presenza di masse di enorme rilievo (un pianeta, una stella) lo spazio subisce una contrazione facendo variare anche il tempo. domanda è fondamentale. Dovendo interpretare il concetto di spazio in architettura la domanda assume un significato centrale. La risposta al quesito è sconcertante: esistono un numero infinito di dimensioni. Personalmente ritengo che sia lecito poter parlare di un numero transfinito di dimensioni se prendiamo in considerazione ili problema matematico posto da Mandelbrot143. Il problema, per essere compreso adeguatamente, può essere delineato con il fatto che in matematica è possibile parlare di geometria astratta, ovvero una geometria nella quale non sono presenti operazioni su figure geometriche bizzarre o complesse, bensì azioni sulle proprietà di insiemi di punti 144. Questi possono essere trattati secondo una serie di operazioni invarianti valide per un numero qualsiasi di dimensioni. Se sono rispettate queste operazioni base il sistema è coerente e quindi valido 145. Il nodo dolente deriva dal fatto che ci si scollega dal problema della visualizzazione. Una delle remore maggiori per quanto riguarda i fatti di architettura è il rifiuto di concepire spazi che non possano essere visualizzati; trattare il problema della visualizzazione come aspetto secondario è determinate: gli spazi astratti sono reali, dimostrabili e coerenti, indipendentemente dal fatto che possano essere disegnati o meno. La questione è rilevata anche dal matematico cinese Hao Wang, il quale ammette che la scoperta delle geometrie non-euclidee ha fatto sorgere il desiderio di separare la matematica astratta dall’intuizione spaziale: poiché gli assiomi non sono più necessariamente veri nel mondo fisico, si mira a rendere le deduzioni indipendenti dall’intuizione spaziale evitando di fare affidamento sui diagrammi e sul 146 significato dei concetti geometrici . Ciò sancisce la separazione tra il mondo perfetto e vero della matematica e l’intuizione comune. Ma il vero collegamento che a noi interessa è sancito dal fatto che le geometrie astratte di Hilbert hanno rinnovato la geometria proiettiva rinascimentale, sopravvissuta fino all’ottocento. Il rinnovamento è accaduto grazie alla maturazione dell’idea di iperspazi a più di tre dimensioni e con l’ampliamento del concetto di omografia147. Prestare attenzione alle questioni matematiche ha, per noi, una ricaduta sulle problematiche relative allo spazio in architettura come verifica di concezioni astratte 148. Il rinnovamento di Hilbert era il momento conclusivo di un processo che durava da almeno cinquant’anni. La diffusione delle geometrie non-euclidee ha apportato in tutta la seconda metà dell’ottocento una revisione così sostanziale del concetto di spazio da poter affermare che le geometrie tradizionali non dettero più contributi di rilievo alla matematica149, mentre gli 143 Nella geometria frattale è stata dimostrata la possibilità di esistenza di dimensioni frazionarie, pari, ad esempio, a D = log3 4 (circa 1,26). Queste sono dimensioni reali (al pari di quelle cartesiane) che assumono valori frazionari. In sintesi, possiamo dire che sono dimensioni che pur non potendosi limitare alla dimensione 1, non sono in grado di esaurire la dimensione 2, ovvero non possono riempire tutto il piano che costituisce la seconda dimensione. Questo apre tra le dimensioni un baratro, poiché tra la dimensione 1 e la dimensione 2 possono esistere un numero infinito di dimensioni, e lo stesso dicasi per tutti gli intervalli tra tutte le infinite dimensioni. 144 Nel 1899 il matematico David Hilbert mise a punto in Grundlagen der Geometrie una serie di assiomatizzazioni fondamentali. Collegati alla teoria dei gruppi, tali principi sono validi sia per la «[...] geometria metrica che in geometria euclidea, in geometria affine e in geometria proiettiva e arriva, per generalizzare, al concetto di geometria astratta». Questo è un ambito assai generale che «[...] corrisponde a quello delle proprietà di una varietà qualunque di elementi (chiamati punti) a cui si applica un gruppo di operazioni, invarianti per le operazioni di gruppo» (Maurice Daumas, a cura di, Storia della scienza, Laterza, Bari, 1969, p. 530). Cfr. anche con Carl B. Boyle, op. cit., p. 699. 145 Tale apertura, ancorché di carattere astratto, ha conseguenze fondamentali poiché consente di immaginare dimensioni di natura intangibile, nelle quali sono possibili solo operazioni su insiemi di punti. 146 Hao Wang, Dalla matematica alla filosofia, Bollati Boringhieri, Torino, 1984, p. 47. 147 L’omografia è una «corrispondenza biunivoca tra due spazi proiettivi S e S’ n-dimensionali. [...] La più semplice omografia è una corrispondenza biunivoca tra due forme geometriche di seconda specie dello stesso tipo F e F’ (cioè tra due piani punteggiati, o due piani rigati, o due stelle di rette o di piani) che a ogni forma di prima specie appartenente a F associa una forma di prima specie appartenente a F’. [...] Hanno particolare interesse le omografie tra spazi sovrapposti: in questo caso esistono in generale n+1 elementi uniti, cioè elementi che coincidono con i propri corrispondenti». Voce «Omografia», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit. 148 Per rigore, occorre dire che la metodologia scelta presenta una pecca rilevata, in altri ambiti, da G. Kessler. Egli afferma che le aggregazioni astratte presentano una sostanziale differenza da quelle reali: le seconde hanno estensione spazio-temporale. La soluzione è però offerta dallo stesso Kessler che afferma che i paralleli tra i due ambiti sono ammessi per ragioni di carattere epistemologico (cit. in Pieranna Garavaso, op. cit., p. 124). 149 Maurice Daumas (a cura di), op. cit., p. 529. spazi di Hilbert dimostrarono concrete applicazioni in campo quantistico150. Ma è possibile andare ancora oltre. Maurice Fréchet portò all’estremo l’idea di Hilbert di spazi a più dimensioni. In effetti, Hilbert non fece mai espliciti riferimenti a spazi ad infinite dimensioni 151, ma i suoi ragionamenti implicavano quelle conclusioni e pertanto egli è noto come l’inventore degli spazi pluridimensionali. Fréchet ampliò ulteriormente l’astrazione di questi spazi e ideò dimostrazioni nel campo della «topologia degli insiemi di punti» 152. Ancora una volta ci troviamo dinnanzi alla topologia, branca implicita in tutte le righe precedenti, aspetto che ci riporta alle ricerche sulle ipersuperfici nella Cyberarchitettura 153. Tutto questo fa correre la mente e verifica un esempio che abbiamo incontrato all’inizio di questo paragrafo: il Guggenheim Virtual Museum di Asymptote. Se quelle elaborazioni ci apparivano come costruzioni basate sulla fantasia, ora, in base alle analisi fatte delle ipersuperfici di Möbius e degli iperspazi di Riemann, tali idee architettonico/spaziali si scoprono applicazioni di una vasta teoria nel campo della matematica. Né vale la critica che per operare in questi ambiti occorra padroneggiare tecnicamente gli strumenti matematici. Simili operatori matematici possono essere gestiti solo da specialisti versati in quel particolare ambito della matematica (diciamo cento persone al mondo). Noi, insieme agli architetti progettisti, siamo interessati all’aspetto più direttamente filosofico e alle potenzialità concettuali di queste scoperte. Abbiamo in precedenza visto come gli spazi organici di NOX, Oosterhuis e di Tarek Naga avessero delle componenti organiche molto forti. Ed anzi, abbiamo rivolto la chiave interpretativa verso questa direzione. In realtà quelle forme non sono pienamente comprensibili senza la discussione sugli spazi pluridimensionali di Hilbert-Riemann. Tali esempi di architettura, allora, non sono solamente forme ambigue avvolte su se stesse, deformate come stracci bagnati o ideate ad imitazione di organismi naturali. Esse assumono un’identità nuova grazie al rimando alle superfici non visibili o non pienamente visualizzabili. L’attenzione verso la forma non è fine a se stessa. Questa è sempre allusiva. Lo spazio non è mai pienamente comprensibile, razionale. Le acquisizioni della matematica, per questi autori, sono uno spunto per creare “luoghi” che offrono sempre rimandi all’invisibile; non un invisibile magico o di fantasia, bensì uno spazio di ordine superiore non visualizzabile poiché al di fuori dell’esperienza sensibile, egualmente reale come le tre dimensioni cartesiane. La figura di Greg Lynn/Form 154 ha uno spessore molto diverso rispetto agli altri gruppi presentati. Egli accoglie in sé molte delle esperienze che abbiamo in precedenza visto separate. Un collegamento diretto con quanto appena detto ci è offerto da una serie di progetti che Lynn ha elaborato partendo dall’idea di morfologia. Non a caso il suo studio si 150 Voce «Spazio», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit. Egli si limitò a sviluppare il concetto di continuità di una funzione di infinite variabili. Cfr. Carl B. Boyle, op. cit., p. 709. 152 Ibid. 153 Un punto di contatto molto forte tra queste applicazioni sono le concezioni di Möbius che interpreteremo alla luce degli spazi di Riemann. Questi ultimi studiano geometrie riguardanti «[...] le proprietà di spazi dove si conserva la nozione euclidea di distanza, mentre scompare il concetto di figure uguali». Ciò è possibile solo attraverso l’introduzione di uno spazio n-dimensionale (Maurice Daumas, a cura di, op. cit., p. 531.). Il legame diretto con le superfici studiate in architettura ci deriva da un applicazione in topologia delle geometrie riemanniane. Scompare l’idea di omeomorfismo (vedi nota 117 di questo capitolo) poiché non esiste corrispondenza tra due figure, fatto che si lega fortemente con le ipersuperfici quali il nastro di Möbius. Ma questo è un esempio facile. È possibile ottenere un’elaborazione simile al nastro di Möbius anche su superfici più complesse: «Sia S¹ × S¹ il toro da cui è stato ritagliato un quadrato aperto OPQR. Identifichiamo i lati opposti del buco quadrato. Con una certa dose di immaginazione ci possiamo rendere conto che tale operazione ha come risultato l’inserimento di un “manico” sul toro che è così diventato uno spazio più complesso. La stessa operazione eseguita sulla sfera S² ci ridarebbe il toro. Possiamo inoltre ripeterla più volte ottenendo una serie infinita di spazi sempre più complessi» (Voce «Spazio», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit.). 154 Greg Lynn (1964) nasce come filosofo. Egli si laurea in questa disciplina a Miami, prendendo solo successivamente il diploma in Design nella stessa università. Successivamente frequenta il Master of Architecture all’Università di Princeton a New York e fonda il suo studio nel 1994 a Los Angeles. Ha insegnato in numerose università americane ed europee, quali l’Università dell’Illinois a Chicago, l’Ohio State University, l’Architectural Association School of Architecture di Londra, il Berlage Institute di Amsterdam e la Columbia University sempre a New York. 151 chiama Form. Egli è interessato principalmente alla forma, ma ciò è da intendersi come indagine sulla forma e non come vuota estetica. Questo lo si comprende dalle complesse metodologie che egli utilizza per creare i suoi oggetti attraverso il computer. In osservanza alla teoria della Relatività einsteiniana, egli concepisce l’architettura come insieme di tensioni nate dal contesto. Così come masse di grandi dimensioni sono in grado di alterare lo spazio/tempo, i suoi oggetti si fanno carico «[...] dei condizionamenti e delle forze esterne fra loro dissimili, in un continuum fluttuante che incorpora dolcemente le differenze esterne» 155. Questa potrebbe essere una risposta a coloro che accusano questo tipo di architettura di essere decontestualizzata. In realtà, nelle intenzioni dei progettisti, le metodologie di adesione al contesto sono così forti e strutturate da rendere impossibile qualunque serialità della forma. In altre parole, il luogo genera la forma in modo inequivocabile attraverso operazioni certo molto complicate, ma che lasciano chi scrive decisamente convinto. Lynn utilizza metodi di morfogenesi della forma e dello spazio basati sul tempo e sul movimento, «[...] attraverso un processo animato di progettazione formale» 156. Gli strumenti sono software utilizzati nell’industria degli effetti speciali, gli unici in grado di offrire sia una forte flessibilità di forma che metodi di generazione e cristallizzazione del movimento. Le forme che egli crea nascono da un processo che può essere definito di indeterminatezza ordinata 157. Questo si basa, ancora una volta, su un problema matematico, fatto che ci conforta nel nostro interesse verso questa disciplina e la sua trasposizione in architettura. Una branca della matematica del caos è chiamata «stocastica». In parole povere, la matematica stocastica indaga i fenomeni casuali che avvengono all’interno di limitato ventaglio di possibilità. Se la matematica del caos si occupa dei fenomeni catastrofici in sistemi complessi formati da innumerevoli elementi variabili, le serie stocastiche si occupano di interazioni casuali con un numero limitato di oggetti. Nei sistemi stocastici non può accadere tutto, ma solo una piccola serie di combinazioni che però hanno un alto grado di indeterminatezza 158. Quindi, i processi di mutazione, trasformazione e crescita di Lynn si basano su queste serie che, pur prevedendo un’ampia casistica di invenzione di forma, non consentono la libertà assoluta. Un interessante esempio di applicazione è il progetto Embriological Housing (Fig. 48) a cui fa da contraltare Embryologic Space (Fig. 49). Embriological Housing è un progetto del 1998 e desidera studiare la possibilità d’apertura della superficie senza la perforazione o il taglio di porte e finestre159. È la forma che, attraverso la sua deformazione, comprende l’esterno nell’interno senza tagli. Abbiamo sufficientemente descritto i problemi topologici che sottendono questi ragionamenti. Le deformazioni di una forma sono anche qui senza “strappi” o tagli. La superficie è continua e lo spazio è generato solamente dalla deformazione e dall’arrotolamento dello spazio topologico. La differenza di deformazione delle superfici topologiche di Embriological Housing sono dovute alle differenti “sollecitazioni” che l’ambiente esterno ha imposto alla materia elettronica. Non dobbiamo dimenticare, infatti, 155 Christian Pongratz e Maria Rita Perbellini, op. cit., p. 39. Ibid. 157 Ivi, p. 46. 158 Più rigorosamente, « I processi stocastici sono modelli matematici che descrivono l’evoluzione di quei sistemi per i quali è impossibile individuare delle leggi deterministiche che consentano di prevedere con esattezza il comportamento futuro del sistema una volta noto il suo stato in un dato istante. Un semplice esempio di processo stocastico è quello che descrive il guadagno di un giocatore in una partita di testa o croce. [...] L’insieme di tutte le variabili aleatorie f t (t = 1, 2... n) che descrivono l’andamento o la “storia” di tutte 156 le partite di n giocate costituisce per definizione il processo stocastico. [...] Esistono altri tipi di processi stocastici [...]: tra questi si ricordano i processi markoviani che sono i processi stocastici più diffusi e più studiati. Nei processi markoviani discreti o catene di Markov, le variabili aleatorie possono assumere un insieme discreto di valori E1, E2,... E N, che conviene pensare come “stati” in cui il sistema può trovarsi nella sua evoluzione temporale. Una catena di Markov è completamente caratterizzata dalle probabilità iniziali a1, a2,... A N [...]» (Voce «Stocastica», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit ). Quest’ultimo passo ci indica come le probabilità che un certo evento si possa concretizzare non sono infinite o libere, ma sono vincolate. Ne consegue che la libertà dei fenomeni è limitata da una situazione iniziale e pertanto non può assumere qualunque valore. 159 Christian Pongratz e Maria Rita Perbellini, op. cit., p. 40. che Lynn ha esordito nello Star System dell’architettura proprio come creatore di oggetti virtuali. Questo progetto è il suo primo maturo risultato; risente però dell’entusiasmo verso lo strumento. Le forme, disposte in serie, le une accanto alle altre, offrono un’immagine non chiara, non completamente espressiva dell’interessante metodo che Lynn ha ideato. Esse appaiono più come sperimentazioni fini a se stesse della morfogenesi della forma. Molto più interessante è l’aver scoperto che tali deformazioni corrispondono alla natura del sito sul quale l’oggetto si inserisce: le vedute, la circolazione, la topografia del luogo, crea le aperture e deforma i volumi che vi si adattano nel modo più congeniale. Embryologic Space è un altro aspetto dello stesso progetto. È sostanzialmente uno studio del puro spazio interno. Non mi sembra che questi oggetti possano essere considerati come cellule abitative, attuale interpretazione delle sperimentazioni degli anni Settanta sulle macrostrutture. Sono, al contrario, modelli di interpretazione della forma generata dal contesto. Come Embriological Housing anche questo secondo caso è uno studio di una forma nata dal luogo di intervento. La forma muta a seconda delle sollecitazioni dell’esterno. This domestic interior is enclosed in a surface composed of over 2048 panels, all of which are unique in their shape and size. These individual panels are networked to one another so that a change in any individual panel is transmitted throughout every other panel in the set. The variations to this surface are virtually endless, yet in each variation there is always a constant number of panels with a consistent relationship to their neighbouring panels. The volume is defined as a soft flexible surface of 160 curves rather than as a fixed set of rigid points. In questo caso, dunque, il processo di generazione della forma è parzialmente indipendente dalla volontà del progettista. I pannelli reagiscono in funzione delle sollecitazioni esterne e, tra loro, attraverso una logica sistemica e sinergica. La generazione dello spazio avviene secondo le modalità delle serie stocastiche. Non tutto è permesso, ma esiste una regola generatrice data dall’esterno. Non è lecito concordare in toto con il passo appena citato. Quando si parla di «variations to this surface virtually endless» si commette un’improprietà. Sono variazioni certamente molto numerose ma sempre derivate da condizionamenti esterni ben precisi. Un’ulteriore conferma ci viene dal fatto che i modelli proposti da Lynn sembrano tutti “fratelli” di una medesima matrice. La forma, o per meglio dire lo spazio, non assume qualunque natura; essa è sempre riconducibile ad una stessa radice. Trovo questa limitazione non una debolezza, bensì una forza. Il caos assoluto è ingovernabile e, sostanzialmente, poco interessante. Le variazioni entro un ventaglio di soluzioni danno la possibilità di libere interpretazioni, ma con regole in grado di offrire una precisa determinazione di una filosofia, tracciando una linea di stile riconoscibile e matura. È interessante citare come Lynn agisce nel momento di realizzazione “fisica” di questi modelli. Egli utilizza macchine a controllo numerico comandate da un computer. Il progetto delle diverse “uova” è inserito in un programma che le gestisce come forme complesse. Il software invia i dati ad una fresa che scolpisce legno, polimeri o acciaio, generando il modellino del progetto con estrema precisione. È quello che Greg Lynn ha fatto nella 7a Mostra Internazionale di Architettura alla Biennale di Venezia nel 2000 161. I modelli di Embriological Housing sono stati riprodotti in materiali plastici. L’effetto che personalmente ricordiamo non era completamente positivo. Nonostante il personale interesse per il problema teorico che giudico maturo e molto avanzato dal punto di vista concettuale, denunciamo un sostanziale impoverimento di certe idee nel momento della realizzazione. Queste opere non riuscivano ad essere architettura, ma si limitavano ad avere la consistenza di grandi oggetti di design o, nella migliore delle ipotesi, di sculture zoomorfe. Il problema penso risieda nel fatto che lo 160 161 339. Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 262. Cfr. con AA. VV., 7. Mostra internazionale di architettura. Less Aesthetics More Ethics, Marsilio, Venezia, 2000, vol. I, pp. 336- strumento informatico suggerisce una perdita di materialità. Se il lavoro dell’architetto consiste anche nella sapienza dei materiali e nel saper prevedere i risultati che il tempo disegna sulle sue opere, nel caso della architettura figlia del computer questo non accade poiché la cultura visuale dei colori acidi prevale su tutto il resto. Con questo dico che l’estetica Cyber ha delle coordinate ben precise: forme organiche, senso di inquietudine, colori estremamente violenti, velocità di sequenze di immagini, e altro ancora. L’architettura Cyber risente fortemente di questo. Così, gli sforzi e l’attenzione, molto spesso, sono rivolti verso l’effetto video, senza considerare che nella realtà quelle idee risulteranno assai diverse o quantomeno non inserite nel fascinoso mondo Web. La maturità dei materiali non è ancora stata raggiunta dai giovani progettisti del computer. Per concludere la lettura di questo progetto occorre citare una ricerca molto interessante effettuata da René Thom. Nel fondamentale saggio Stabilità strutturale e morfogenesi162, tra i tanti argomenti importanti, egli affronta dal punto di vista matematico il tema delle increspature dei liquidi soggetti a caduta di gravi. Una conseguenza importante riguarda la forma. Analizzando una sequenza di immagini scattate ad alta velocità (Fig. 50), si può notare come un grave in caduta su un liquido increspi la forma creando un cratere. In istanti successivi, le pareti laterali della corona di liquido tendono a richiudersi su se stesse secondo un moto descrivibile come una spirale logaritmica. In questo caso è possibile notare come, nel momento in cui questo “guscio” tende a richiudersi, si crea l’interessante paradosso che una forma esterna divenga interna. Infatti, la pellicola che creava il filo superiore del liquido - il pelo dell’acqua - tende a rivolgersi verso l’interno e poi a divenire l’intradosso della caverna creata dal liquido che si chiude avvolge su di sé. Da estradosso essa diventa intradosso. Mi sembra di leggere nei progetti di Lynn appena esposti una somiglianza davvero formidabile tra questi studi di matematica e l’inclusione dello spazio nei modelli elettronici. Se il processo generativo è diverso questo non allontana i risultati finali. In entrambi i casi siamo di fronte allo studio di superfici topologiche di grado 0 che si arrotolano su se stesse senza strappi. Così, appare coerente lo sforzo di Lynn di crear forme che offrono spazio interno senza bisogno di inserire porte e finestre o, usando un linguaggio ora a noi familiare, senza generare strappi che alterino il grado della superficie topologica. Ma se i progetti gemelli di Embriological Housing e Embryologic Space possono dare adito alla critica di essere astrazioni pure, sperimentazioni formali fini a se stesse (idea che mi sento di contestare in virtù della stretta relazione esistente tra contesto e forma e tra queste e le sensazioni percettive del fruitore), assai più “architettonico” appare un altro progetto di Greg Lynn/Form: il Cardiff Bay Opera House (Fig. 51). Pur essendo un progetto del ’94 (e pertanto ideato quattro anni prima della compiuta definizione del programma Embryologic), si nota facilmente come esso contenga tutte le componenti della riflessione che Lynn compie sulla topologia dei gusci. Embryologic è semmai una definizione di metodo, partito certamente qualche anno prima in modo più intuitivo. Cardiff Bay Opera House si compone di alcuni padiglioni che coprono sale da concerto. Lo sviluppo altimetrico degli auditorium ha suscitato nel progettista il desiderio di differenziare in modo evidente le diverse quote. Memore della lezione di Scharoun alla Philharmonie di Berlino, egli ha concepito i padiglioni della musica come coperti da tende. Il riferimento è diretto. In Scharoun, l’idea di edificio collettivo è essenziale fin dai tempi degli schizzi della resistenza (1939-’45). Nel ciclo della Resistenza, gli spunti che poi saranno utilizzati nella Philharmonie sono molteplici: 163 c’è già l’idea della grande tenda che «copre» le attività dell’uomo [...]. 162 163 Cfr. René Thom, Stabilità strutturale e morfogenesi, Einaudi, Torino, 1980. Alessandro Sassu, La Philharmonie di Hans Scharoun, Dedalo libri, Bari, 1980, p. 6. Accettiamo tutta la distanza tra questi due progettisti. Le differenze sono sostanziali e assai più numerose rispetto ai punti di contatto. Un punto di riflessione è la diversità nel trattamento della copertura. Se l’architetto tedesco aveva l’idea di un grande spazio centrale coperto da un unico ambiente, Lynn sfrangia gli ambienti facendone un discorso narrativo, meno intenso spazialmente, ma disseminato planimetricamente su una più vasta superficie. L’elemento unificante è la copertura che assume la forma di un grande straccio bagnato che connette gli spazi sottostanti. Anche formalmente, l’idea non è per nulla originale poiché Frank O. Gehry nella terza versione della Casa Lewis (1989-’95) utilizza lo stesso procedimento (Fig. 52). Una serie di padiglioni separati, legati da una zona filtro molto complessa e coperta con lo stesso metodo: un morbido tessuto informe. Lynn non limita questo ai soli spazi connettivi, ma ne fa una matrice accorpante. Qui risiede l’interesse. La copertura è una sorta di variazione continua della topologia di una superficie. Gehry ragiona in termini scultorei mentre Lynn ne è lontanissimo. Anche se i risultati possono essere formalmente confrontati il processo di generazione dell’idea è diverso. Gehry utilizza fogli di carta che incolla creando modellini fisici, Lynn crea processi trasformativi di superfici topologiche che vengono alterate attraverso lo strumento informatico sia con operazioni manuali sia automatiche. Per concludere in questa sezione la descrizione dei lavori di Lynn, occorre parlare di due progetti che, pur molto distanti, hanno il comune denominatore di integrare il moto come struttura portante nella composizione della forma o dello spazio. Il primo è Animated Form164. Non è importante il risultato in questo caso. Ciò che appare sono semplicemente delle bolle (Fig. 53) che, come olio in un liquido poco denso, si aggregano in forme bizzarre. Greg Lynn ha individuato una metodologia di generazione della forma coerente con quanto visto prima, anche se basato su un altro genere di azione. Se in Embryologic Space la deformazione della superfici topologiche avviene attraverso i condizionamenti del luogo in cui l’oggetto si inserisce, in Animated Form il senso generale è dato dal movimento, dai punti pesanti e dalla disgregazione e riaggregazione di particelle di materia elettronica. Questo non è propriamente un progetto di spazio o di Cyber-architettura. Ci serve, tuttavia, per introdurre il progetto Port Authority Gateway del 1995 (Fig. 54), basato su architettura scaturita dalle traiettorie seguite da palline elastiche. Ammettiamo che il metodo utilizzato possa apparire arbitrario se confrontato con «il libero gioco dei volumi sotto la luce» di Le Corbusier, o il poetico motto di Frank Lloyd Wright il quale diceva che l’architettura deve avere la stessa bellezza di un cigno che si specchia nell’acqua. Ma i mondi culturali di questi amati maestri e degli autori che abbiamo preso come soggetti della nostra trattazione sono notevolmente diversi e il paragrafo dedicato alla Cybercultura ha tentato di dimostrarlo. Port Authority Gateway è un progetto di concorso per una pensilina con sistema di illuminazione per una stazione degli autobus a New York. Il progetto cristallizza diversi movimenti che accadono contemporaneamente: il cammino dei pedoni, il moto degli autobus che attraversano il luogo e quello veloce delle automobili. These various forces of movement established a gradient field of attraction across the site. To discover the shape of this invisible field of attraction, Lynn introduced geometric particles that change their position and shape according to the influence of the forces. [...] He captured a series of phase portraits of the cycles of movement over a period of time. These phase portraits are swept with a secondary structure of tubular frames linking the ramps, existing buildings and the Port Authority Bus Terminal. Eleven tensile surfaces are stretched across these tubes as an enclosure and projection 165 surface. 164 Il progetto è pubblicato senza data, ma è sicuramente anteriore al 2000 poiché presentato alla 7a Biennale di Architettura di Venezia che ha avuto luogo, appunto, in quell’anno. 165 Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 260. Non è tanto la forma a onda quella che deve essere notata, non tanto l’informalità o la perdita di parametri figurativi ciò che deve suscitare interesse. Tutto è generazione di una forma involucrando direttrici di moto generativo del progetto. In questo caso, le problematiche di natura teorica rimangono più in sottofondo, mentre emergono quelli di natura poetica e di gestione del progetto attraverso l’elaboratore. In effetti, risulta pressoché impossibile gestire una simile architettura senza di esso. Greg Lynn utilizza un software ideato per l’industria cinematografica delle animazioni. Risulta, dunque, connaturato alla tipo di programma l’aspetto del movimento. Simili strumenti permettono non solo di creare una forma libera, ma anche di applicarvi il movimento, con tutta una vasta gamma di opzioni molto interessanti. In ciò risiede la connessione tra architettura e movimento in Lynn. Egli utilizza strumenti informatici ad esso dedicati. Pertanto, l’esplosione delle sfere che incarnano il movimento nello spazio di persone, autobus e automobili, sono conseguenza diretta dello strumento. In altre parole, sarebbe impossibile senza lo strumento immaginare il tipo di elaborazione e, parallelamente, è lo stesso strumento che suggerisce le soluzioni. Le potenzialità degli elaboratori solidi che Lynn usa danno molte possibilità. Compito dell’architetto è quello di sfruttarli in modo coerente per la generazione di opere che diano risultati maturi. Abbiamo tentato di presentare l’opera di Lynn attraverso due chiavi di lettura. La prima riguarda la derivazione delle sue sperimentazioni dal terreno della topologia e della matematica del caos, la seconda da quella del movimento. Riteniamo essere la prima una sorta di substrato più o meno consapevole, la seconda una vera e propria dichiarazione di poetica che ritroviamo pressoché costante in ogni suo lavoro. Sia esso derivato dalle reazioni elastiche di una sfera elettronica, o il moto di una “ameba” elettronica soggetta a campi attrattivi lungo un percorso o, ancora, le deformazioni topologiche generate dal luogo su un oggetto iniziale, sempre compare un’azione deformatrice dinamica 166. Quello che, tuttavia, è importante sottolineare è che autori come Greg Lynn o Karl S. Chu o Kolatan/MacDonald Studio, fanno parte di una generazione di autori che sono espressione di un cambio generazionale avvenuto nella seconda metà degli anni Novanta. Essi esprimono un delicato rapporto tra architettura, comunicazione, virtualità e New Economy167. Non si tratta, come spesso si è ironizzato, di raffinati disegnatori di pagine web, ma dell’affacciarsi di una differente dimensione del fare architettura a fronte di una domanda sociale ed economica soggetta a una forte metamorfosi. Il progetto per il Virtual Guggenheim di Asymptote oppure gli organismi abitativi delle Embryologic Houses di Greg Lynn esprimono i primi incerti passi di una disciplina che guarda alla propria rifondazione attraverso la riforma degli strumenti di progetto e rappresentazione, e una riflessione sul rapporto tra uomo e virtualità. Il vero rischio di questa fase risiede piuttosto in una dimensione formale autoreferenziale che dimentica la città reale rifugiandosi in un Eden di forme perfette e irrealizzabili. Ci troviamo spesso di fronte a opere che guardano più all’effetto spettacolare e mediatico, coscienti di una inevitabile, rapida deperibilità e in cui il rapporto tra forma costruita e tecnologia costruttiva appare ancora molto debole, come se la separazione tra 168 guscio/pelle e struttura fosse una questione da non affrontare. Desideriamo concludere questo ampio paragrafo dedicato alla Cyber-architettura con un autore emblematico: Peter Eisenman. Egli è la più classica star nel panorama dell’architettura internazionale; la sua scaltrezza gli consente di cavalcare le diverse correnti di architettura con estrema disinvoltura. Ci chiediamo, addirittura, se sia lui stesso a creare le mode o se abbia un gran fiuto nell’individuare le correnti destinate alla maggior 166 Per approfondire la questione della generazione dinamica delle forme in Lynn rimandiamo alla lettura di Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 258. Tale argomento, pur interessante e fondamentale, non è strettamente connesso alla generazione degli spazi non-euclidei in architettura. 167 Luca Molinari, Tendenze dell’architettura nordamericana. Gli anni Novanta, op. cit., 187. 168 Ibid. diffusione. Dobbiamo tracciare alcune coordinate essenziali capaci di collocare questo autore nella Cyber-architettura. Il compito si presenta non troppo difficile per il fatto che Eisenman è una sorta di summa degli autori precedenti. Non neghiamo che sia un personaggio ambiguo, un geniale voltafaccia che ha la capacità di piegare i tempi alla propria autoaffermazione. Ma se questo, personalmente, ci irrita in figure come quella di Philip Johnson, la genialità e l’estremo coraggio di Eisenman fanno parzialmente scusare un imperdonabile difetto: l’assenza di sincerità. Con la sua consueta sperimentalità, tende ad abbandonare le idee sulla decostruzione dalla fine degli anni Ottanta per dedicarsi allo studio del caos. Il suo spostamento di rotta è emblematico e noi lo registriamo come cambiamento del gusto internazionale. A partire da questo periodo comincia ad esser attratto verso la geometria non-euclidea e la teoria del caos: studia i frattali, il Dna [...], gli atomi leibniziani [ricordo qui l’interesse di Karl Chu per le monadi di Leibniz, N.d.R.], la 169 geometria booleana. Occorre dire che le operazioni booleane sono un processo nel quale avvengono somma e sottrazione di figure della geometria elementare. Esse rappresentano un punto di inizio importante per le geometrie deformate contemporanee. È possibile dire che l’algebra di Boole è il vero punto di partenza per le conquiste illustrate nelle pagine precedenti. Dopo una serie di opere di “assestamento” nelle quali la ricerca sulle geometrie non-euclidee aveva iniziato ad esprimersi con difficoltà 170, Eisenman approda ad una metodologia del tutto personale che fa di un concetto assolutamente estraneo all’architettura il punto iniziale per generare spazi. Riteniamo che questo strumento sia, seppur ambiguo, di grande interesse poiché permette di rompere i confini disciplinari e ridefinire la materia architettonica. Come ci siamo sforzati di illustrare, uno dei motivi di maggior interesse della Cyber-architettura riguarda l’acquisizione di sollecitazioni dall’esterno della materia e dalla contaminazione di diverse aree della cultura, non necessariamente “nobili”. L’interesse di Eisenman verso il Dna o i frattali ha questo significato: dissolvere la materia architettonica per acquisire stimoli imprevisti rivolti al rinnovamento dell’ideare spazi. Eisenman soffre di un grande difetto: egli, anche nei progetti realizzati, dà sempre l’impressione di fare architettura programmatica con una forte componente teorica. Ciò possiede, però, un aspetto positivo. Nelle opere più recenti, Eisenman ídea il puro spazio del vissuto, situazione pericolosissima che lo fa sovente scivolare in un eccesso di ideologia, ma che ha l’innegabile vantaggio di spingere all’estremo l’idea di luogo. Dalle ricerche degli anni ottanta, facendo un salto di circa quindici anni, è opportuno citare il progetto per lo Staten Island Institute of Arts and Sciences a New York, progettato a partire dal 1997 (Fig. 55). Un’idea che ci siamo fatti è che questa non sia propriamente architettura: gli spazi del vissuto sono conseguenza di operazioni concettuali molto serrate. Siamo di fronte, innanzi tutto, ad una organizzazione spaziale nella quale l’interesse per la consistenza volumetrica dell’edificio e per qualunque risultato formale diventa ininfluente. L’esito, in altre parole, è teso esclusivamente alla ricerca di luoghi della percorrenza e della percezione; perde qualunque significato ragionare per fronti, masse, materiali, etc. Ogni sforzo è rivolto ad organizzare lo spazio; è quanto basta. Eisenman stesso parla di necessità di riconfigurare il sistema di visione contemporaneo. I media hanno apportato novità sostanziali di percezione ed il computer ha accentuato ancor più questo fenomeno. Nella maggior parte dei casi, dice Eisenman, l’architettura viene progettata secondo i criteri prospettici rinascimentali, fatto che ha come conseguenza l’organizzazione spaziale secondo assi, punti e simmetrie, capaci di orientare il corpo verso la centralità dell’osservatore 171. Grazie 169 170 171 Antonino Saggio, Peter Eisenman, Testo & Immagine, Torino, 1996, p. 46. Citiamo a tal riguardo il Carnegie Mellon Research Center a Pittsburgh del 1987-’88. Luca Galofaro, op. cit., p. 70. al computer, oggi è possibile visionare l’architettura secondo angolature assolutamente inedite. La verifica spaziale avviene in tempi ridottissimi e, in più, aprendo possibilità dapprima impensabili. Riteniamo che tale libertà di rappresentazione abbia deformato lo stesso modo di concepire lo spazio in architettura. Quegli autori che hanno come punto di partenza la generazione dello spazio non-euclideo in architettura hanno avuto una sorta di “malattia degenerativa” della visione che è, ora, incapace di concepire luoghi secondo i canoni tradizionali. La macchina ha reso possibile diverse metodologie compositive che gli architetti hanno assorbito in modo indelebile. Progettare nel vecchio modo sarebbe impossibile poiché diverso è il modo di vedere. Questo concetto è, a nostro parare, una delle chiavi di volta del problema. Si comprende come, oggi, non vi sia la volontà di forzare la forma o aderire ad un’avanguardia. Il problema è ben più sostanziale. Oggi si vede in modo diverso rispetto al passato. L’acquisizione della complessità del reale, l’apertura della scienza alle dinamiche del caos, ha fatto parzialmente perdere in certi autori la ricerca della razionalità del progetto, poiché la realtà è, di fatto, incontrollabile. Sintetizzando i due precedenti concetti necessità di una nuova visione e perdita di razionalità -, Eisenman propone di cercare uno spazio altro riuscendo a frapporre una distanza fra ciò che si vede rispetto a ciò che si conosce. [...] Ripensare l’iscrizione dello spazio significa riuscire a rovesciarlo non meccanicamente, ma concettualmente, usando strumenti nuovi [...]. Eisenman cerca uno strumento che gli consenta di rompere gli schemi, cerca una continuità ininterrotta fra esterno e interno, cerca cioè di superare il prestabilito sistema d’iscrizione, e lo trova nell’idea di ripiegatura di 172 Deleuze. La piegatura è un’idea importante poiché l’autentica generatrice di molti progetti di Eisenman (e di altri autori). Ha essenzialmente un’interpretazione filosofica che noi tralasceremo. Ci interessa maggiormente la conseguenza di carattere architettonico. Questa operazione (chiamata folding in inglese) si propone [...] come una operazione geometrica di configurazione dell’oggetto, che appare effettivamente come attraversato da scosse e piegature, e come chiave ideologico-cosmologica, segno della sua appartenenza a un mondo delle idee proprio delle ricerche sullo spazio anticartesiano di Deleuze 173 [...]. Nello Staten Island Institute si perde qualunque assialità in funzione di una «torsione di una massa addensata»174. Eisenman riesce a creare il movimento attraverso increspature del terreno e stratificazioni non connesse ad alcun asse continuo. In quale modo, le percorrenze e le stesse logiche distributive sono sempre spezzate in funzione di una fusione spaziale che nega qualunque continuità. Il computer, in questo caso, è utilizzato come sistema vettoriale che organizza i diversi stati, le diverse percorrenze funzionali, sovrapponendo le une alle altre. Quest’opera è uno degli ultimi progetti realizzati con l’ottica delle griglie sovrapposte e deformate. La deformazione delle griglie mette in relazione le dinamiche dei flussi, gestibili solo attraverso lo strumento informatico che diviene non solo un sistema indispensabile di prefigurazione e di gestione dell’estrema complicazione spaziale, ma anche generatore del caos. Staten Island Institute è, allora, un’architettura della pura forma, qualcosa che va al di là della sua rappresentazione per divenire nuova metodologia di progetto e di attuazione del reale. Se questo appare un intento gigantesco e persino sfacciato, occorre considerare che parte del successo di Eisenman deriva da questa volontà di eccedere e di riformare le discipline. E, talvolta, forse con capacità derivate più dal suo potere che dal suo talento, egli vi riesce. La 172 173 174 Ivi, p. 72. Pippo Ciorra, Peter Eisenman: opere e progetti, Electa, Milano, 2000, p. 22. Luca Galofaro, op. cit., p. 76. necessità di questo metodo deriva degli scopi del progetto che dev’essere contemporaneamente un ferry terminal, un museo, un nodo di scambio con bus, automobili, traghetti, attraversato da più di diciotto milioni di persone all’anno. Esso accoglie essenzialmente movimento. Ed è al flusso congelato di persone che Eisenman dà forma. La sala di attesa del terminal diventa un museo facendo in modo che i diversi flussi di persone si confondano e si attraversino 175. Se l’architettura sembra emergere dal suolo, essa diviene poi puro spazio attraverso un percorso che va dalla materialità alla sottigliezza dei rimandi non-visivi. Nessuna parte è connotata formalmente, per cui le gerarchie sono distrutte. Eisenman lavora, secondo Luca Galofaro, in una direzione basata su un «informale diagramma teorico arbitrario»176 per dar forma ad uno spazio che rompa i confini fra reale e virtuale. Secondo una bella intuizione dello stesso Luca Galofaro, Eisenman abbandona il disegno rivolgendosi alla modellazione 177, di cui la «piegatura» utilizzata nello Staten Island Institute è un esempio. In questo senso sono da interpretare le poetiche parole di Anton Markus Pasing quando dice, nell’intervista da noi condotta, che solo dentro ad un’idea di spazio aprioristico noi siamo nella condizione di intraprendere una divisione, sfumare e fare formulazioni. L’architettura, pertanto, è solo una possibile espressione all’interno dello spazio178. L’aspetto di sorpresa in Eisenman è fondamentale. Egli stesso parla di una indipendenza dei diagrammi dalla sua volontà creativa. Essi si trasformano autonomamente nella realtà fisica in modo non dissimile da quello utilizzato da Greg Lynn/Form. The external diagram provided a series of formal relationships and organizations that when given 179 form, structure, and function in an architectural context. Attraverso un procedimento molto complesso, i diagrammi sono generati come griglie di deformazione che alterano la consistenza dell’edificio. Tali deformazioni sono così radicali che l’architettura diviene puro spazio o espressione concettuale dell’idea sottesa al progetto. Il metodo di Eisenman parte sempre dalla teoria, passa successivamente all’analisi del contesto e della cultura nel quale l’edificio si deve inserire, applicando infine le deformazioni di griglia scaturite dal contesto. La fase finale è, pertanto, parzialmente indipendente dalla volontà del progettista poiché derivata dalle deformazioni che il luogo impone al nuovo intervento. Lo stesso accade in altri due lavori precedenti che intendiamo illustrare brevemente per completare questo discorso. Il primo è il progetto della Biblioteca per la Piazza delle Nazioni a Ginevra del 1996-’97 e il secondo e il concorso internazionale svoltosi a Roma per Una chiesa per l’anno 2000 del 1996 (Figg. 56 e 57). Entrambi i progetti utilizzano i diagrammi a maglia, deformati secondo diversi e (volontariamente) arbitrari concetti. La biblioteca di Ginevra si basa su una griglia deformata secondo le operazioni dell’attività neurologica umana per produrre condizioni architettoniche capaci di modellare lo spazio. I diagrammi delle funzioni celebrali si sovrappongono alla maglia del sito. Eisenman registra diversi elementi e li trasforma in vincoli progettuali, incorporandoli nel processo meccanico che genera l’oggetto direttamente dal sito. Il nuovo edificio si genera fra il paesaggio e gli oggetti, sfocando entrambe le condizioni in un unico spazio eterogeneo. [...] È un eterogeneo sistema 180 autorganizzato, dominato da combinazioni arbitrarie. 175 Marco Galofaro, Note su Staten Island, in Ivi, p. 78. Luca Galofaro, op. cit., p. 73. Ivi, p. 75. 178 Intervista effettuata da Paolo Vincenzo Genovese ad Anton Markus Pasing. Trad. dell’autore. Cfr. Appendice II 179 Peter Eisenman, Diagram Diaries , Universe, New York, 1999, p. 209. 180 Luca Galofaro, op. cit., pp. 32-33. 176 177 Successivamente, una volta che le frequenze sono stabilite, vengono messe in relazione con le griglie preesistenti e deformate per interferenza. La griglia si altera dando luogo all’architettura. In questa fase creativa Eisenman ragiona su un’architettura la cui consistenza deriva da ragioni di carattere teorico, quali le griglie e, soprattutto, gli spazi interstiziali (between) che nascono dalle deformazioni dei reticoli. È possibile dire che il punto di maggior interesse riguarda lo spazio di connessione che Eisenman chiama between. Il concetto è molto complesso, ma basti qui ricordare che esso non è altro che uno spazio di relazione tra gli elementi funzionali. Il fatto importante è che tale spazio di relazione è di grande complessità perché capace di imbastire relazioni. Esso è informale e come tale oggetto del nostro interesse. Lo spazio between collega ed è esso stesso tramite tra le funzioni; è elemento principale di relazione, importante a tal punto da divenire ben più essenziale degli elementi funzionali 181. La differenza tra Scharoun ed Eisenman, dal punto di vista dello space between, risiede nel fatto che il primo fa scaturire da esso la sua architettura, mentre Eisenman genera l’organismo e la consistenza spaziale da matrici esterne alla materia architettonica. Lo spazio di relazione in Eisenman appartiene a quel genere di complessità che noi stiamo ricercando. Essa si forma grazie al computer poiché le deformazioni di griglia si svolgono attraverso di esso. Egli, agendo sulle maglie, ottiene la deformazione dei corpi edilizi che, spaccandosi e richiudendosi su se stessi, generano quello spazio di relazione. Ancora una volta abbiamo uno spazio informale, non-euclideo, impossibile da ricondurre a matrici figurative note, perché ottenuto da un processo estraniante e perturbante 182. Questo è chiarissimo nella Chiesa per l’anno 2000 di Roma, progetto che parte dal semplice affiancamento di due barre parallele e dalla deformazione del vuoto al loro interno. A partire dal rapporto tra distanza e vicinanza (uomo/Dio, pellegrinaggio), Eisenman inserisce l’idea della trasformazione sospesa dei cristalli liquidi che, deformandosi, alterano gli spazi. Riteniamo che entrare nel processo di ideazione della forma non sia tra i compiti di questo capitolo che, al contrario, deve illustrare alcune ipotesi di pensiero di progettisti contemporanei nell’ambito degli spazi non-euclidei con il computer. Le immagini che illustrano il processo evolutivo della chiesa per Roma e della biblioteca ginevrina saranno, per ora, sufficienti per comprendere il senso generale del discorso Al contrario, è importante parlare di un altro progetto di Eisenman, ben più estremo ma, proprio per questo, determinante per comprendere sia il suo rapporto con la progettazione computerizzata, sia la sua riflessione sul problema reale/virtuale. Nel 1997 Eisenman iniziò la progettazione di uno dei più emblematici e programmatici progetti della sua recente produzione. Stiamo parlando di Virtual House “collocata” a Berlino (Fig. 58). Normalmente, il computer diviene per Eisenman la materializzazione del pensiero, la sua visualizzazione 183. Il progetto Virtual House è un caso del tutto particolare. Pur avendo spesso ragionato su architetture senza forma, qui l’architetto americano agisce in profondità sull’idea teorica di virtualità. La casa parte, come in tutte le opere recenti, da una griglia base, costituita in questo caso da nove cubi che si relazionano. Ogni collegamento tra loro è espresso da un vettore che ha un «campo di influenza». Questo sta a significare che il vettore è dotato delle proprietà tipiche dei vettori di forza (direzione, intensità e verso). Attraverso una variazione temporale, i vettori di forma agiscono sui cubi iniziali deformandoli. Si associano, così, proprietà dinamiche a proprietà geometriche. Ad un’intensità di forza corrisponde una variazione di forma. Questo sistema è, ovviamente, 181 Per un’analisi più dettagliata dello space between in Scharoun vedasi Michael Hellgardt, Dentro l’architettura di Scharoun, in «Housing 6», Etas Libri, Milano, 1994, p. 107 e sg. e anche Paolo Vincenzo Genovese, Hans Scharoun. Scuola a Lünen, Testo & Immagine, Torino, 2001. Anche il critico inglese Peter Blundell Jones ha dedicato molti scritti e studi su questo difficile argomento. Queste idee sono però sparse in molti volumi che è inutile citare qui. 182 Uso quest’accezione anche dal punto di vista psicoanalitico. Cfr. con Sigmund Freud, Il perturbante, in Psicoanalisi dell’arte e della letteratura, Newton & Compton, Roma, 1997. 183 Luca Galofaro, op. cit., p. 59. gestito dal computer ed i risultati finali sono largamente imprevedibili poiché troppo complessi per essere immaginati dalla mente umana. L’orientamento dei vettori dà luogo alla conformazione spaziale dell’edificio. Ciò che deve destare stupore è come il formare l’architettura è assolutamente indipendente dalla volontà dell’architetto che si limita ad impostare il metodo di evoluzione. La casa perde le coordinate volumetriche e di consistenza materica. Molti dei progetti di Eisenman possiedono un “difetto” molto interessante. Essi sono, nella maggior parte dei casi, dei manifesti teorici di una poetica filosofica. Ciò è particolarmente per la Virtual House. Se nei casi analizzati in precedenza esisteva una netta differenza tra progetti destinati alla realizzazione ed elaborazioni virtuali che indagavano la forma o destinati ad un uso sulla rete Web, in quest’ultimo caso le cose sono più sfumate. Egli, in altre parole, crea un progetto immateriale, con le stesse caratteristiche di un Web-project, che potrebbe tuttavia essere costruito. Per essere più precisi, il problema della realizzazione è ininfluente per Eisenman. Essenzialmente, le sue opere sono delle elucubrazioni filosofiche soggette, talvolta, ad essere edificate. Questa è una sua vecchia abitudine che ritroviamo inalterata fin dall’epoca dei Five Architects. L’architettura della Virtual House estremizza questa relazione tra reale/virtuale, dicotomia che si spinge ben oltre il contemporaneo problema del computer. Virtuale, in Eisenman, si spinge fino al punto di una completa smaterializzazione della tettonica, la luce penetra fin nel cuore dell’edificio, nella sua pelle 184 e nei punti in cui la forma tende ad essere ambigua. Chiariamo. Leggendo i disegni computerizzati di questo progetto si coglie una scarsa chiarezza della consistenza volumetrica, della forma della casa. Questo deriva dall’approccio di Eisenman verso il concetto di virtuale: esso assume sempre di più un significato di incompletezza o, meglio, di ipotesi di forma. L’architettura perde gravità perché generata dalle interferenze tra due piani paralleli, senza prendere in considerazione le condizioni di vivibilità. Egli sembra confermare la provocazione di Gilles Deleuze: «il virtuale possiede piena realtà in quanto virtuale». Per concludere facciamo una considerazione generale, partendo da questo caso. Notiamo che nella Virtual House esiste un aspetto programmatico che va al di là del progetto in sé. Questa è una vera e propria provocazione ben più violenta, a nostro parere, delle sperimentazioni degli anni settanta dello stesso Eisenman. Il graffio risiede nel negare all’architettura consistenza materica, abitabilità, principi direttori ed organizzatori, minarla fin nelle fondamenta. Pur avendo analizzato numerosi fenomeni di quella che abbiamo definito Cyber-architettura, abbiamo individuato diverse possibili linee di interpretazione di questo termine. Sicuri punti in comune sono l’adesione alla cultura Cyber e ai nuovi modelli (volontari od involontari) di socialità connesse, l’utilizzo del computer come strumento di progettazione, l’adesione ad una cultura dello spazio di alto valore di complessità geometrica generalmente derivato da parallele ricerche nel campo della matematica, l’uso di forme derivate dallo zoomorfismo e dall’antropomorfismo. Ma, tra tanti ed essenziali punti comuni, esistono differenze talvolta insanabili che, riteniamo, forniscano un quadro articolato del fenomeno. Una prima ed essenziale diversità riguarda il modo di intendere l’architettura. Per alcuni autori (Naga Studio Architecture, Ben Van Berkel & Caroline Bos, Neil M. Denari), il computer è uno strumento di prefigurazione dell’architettura, una sorta di strumento potente capace di visualizzare forme complesse di un’architettura altrimenti difficilmente immaginabile. Essi ídeano architettura tradizionale e l’unica novità riguarda la visualizzazione e, semmai, l’estremizzazione di forme di spazio già presenti nella decostruzione. Altrove (Kolatan/Mac Donald Studio, Oosterhuis Associates, Greg Lynn/Form), la ricerca è più spinta. In questi esempi, è la stessa natura dell’architettura ad essere 184 Ivi, p. 67. rivoluzionata. Spesso essa diventa pura forma, progettando esempi che sono da ascriversi più nel campo della scultura che nel baukunst. Essi mantengono, tuttavia, caratteri linguistici tipici dell’architettura. In questo caso, la ricerca risiede nel carattere di innovazione formale e spaziale e nella ridefinizione delle possibilità poetiche e tecniche dell’architettura; anche le questioni di carattere compositivo/linguistico divengono primarie nella caratterizzazione di spazi non-euclidei. Infine notiamo altri autori che sono persino indifferenti al problema di edificare uno spazio reale (Karl S. Chu, Asymptote). L’architettura può esaurirsi nel territorio della virtualità e questo nulla toglie alla sua liceità, al suo carattere di spazio del vissuto. In questo panorama, riteniamo Peter Eisenman una figura unificante poiché capace di toccare in modo del tutto personale ed originale tutti questi aspetti. Egli non è certamente un autore esente da critiche. La nostra adesione al suo lavoro presenta larghe falle, poiché la sua opera risulta essere eccessivamente affaticata da una teoria artificiosa e parzialmente inutile. L’opera creativa è sovente estemporanea e non razionale, priva di pesanti filosofie. 2.3. Spazi virtuali e spazi costruiti. Due nature della Cyber-architettura Fin’ora abbiamo concentrato l’attenzione sulla natura degli spazi virtuali, ovvero quei “luoghi” elettronici basati sulle elaborazioni nate sia dagli sviluppi della topologia in matematica, sia dalla potenza degli strumenti informatici. In altre parole, il desiderio è stato quello di mostrare alcune sperimentazioni - forse estreme - che avessero più diretto contatto con la natura dell’ipertrofia delle elaborazioni spaziali condotte con l’uso dell’elaboratore. Il compito più profondo, allora, è stato quello di individuare il perché di queste elaborazioni, apparentemente arbitrarie e frutto di una sorta di “neobarocco ipertecnologico”. Come si è tentato di far emergere, gli sforzi progettuali sono essenzialmente derivati da una sorta di libertà creativa derivata dalla rivoluzione in campo geometrico negli ambiti della matematica. Le scoperte fondamentali di Hilbert e Fréchet, le conquiste della topologia e altri simili ambiti, hanno apportato alla cultura geometrica una libertà interpretata come detto nel Cap. 2.2. A questo punto ci rimane un ultimo compito di grande delicatezza. Tentare, attraverso esempi, di dimostrare come questi casi estremi in ambito virtuale abbiano esercitato una sostanziale influenza anche sul costruito. In altre parole, la domanda che occorre farsi è se le ambiziose mete della progettazione virtuale degli spazi non-euclidei siano state in grado di realizzare architettura, opere fisiche con caratteristiche derivate dalle elaborazioni virtuali. Il compito, già parzialmente illustrato nel precedente paragrafo, racchiude in realtà un obiettivo ancora più difficile: verificare che lo spazio virtuale possa essere, almeno nel semplice ambito percettivo, avvicinato a quello costruito. Per fare questo occorre porre dei confini estremamente precisi. Non desideriamo affermare che spazi virtuali e spazi fisici siano la stessa cosa; e nemmeno che possa esistere una confusione tra i due. È chiaro il fatto che spazi virtuali e fisici abbiano una diversissima natura. L’obiettivo è, semmai, vedere quanto di comune esiste tra i due e tentare di ricostruire le radici di queste vie che intuiamo procedere per continue intersezioni e reciproche influenze. Un esempio davvero molto chiaro a tal riguardo è rappresentato dal gruppo NOX, già affrontato in precedenza. NOX approcciano la progettazione con la medesima libertà sia in casi virtuali che fisici. Abbiamo già precedentemente analizzato i casi di Beachness e di V2 Lab, come esempi di grande libertà sia concettuale che formale. Apparentemente questo poteva essere attribuito all’assenza di vincoli strutturali e d’uso che ha l’architettura virtuale. Questa ipotesi è tuttavia negata da un progetto del 1997 intitolato Fresch H2O eXPO a Neeltje Jans, Olanda (Fig. 59). Non troviamo sostanziali difformità di logica funzionale e di ispirazione formale. La conformazione è identica a quella già illustrata nei progetti non realizzati. Fresch H2O eXPO si presenta come un grande tubo deformato nel quale è presente un’installazione di luci e proiezioni. Uno degli aspetti di maggior interesse è la forma morbida con cui gli interni sono trattati. Nel complesso, il padiglione è un luogo ideato con una forte continuità spaziale tra i diversi momenti espositivi. Non esistono divisioni di sorta tra le varie parti poiché tutto il progetto è concepito nell’ottica di un continuum spazio/temporale derivato dagli spazi organico/espressionisti. Un carattere di forte interesse riguarda l’uso di superfici morbide anche nelle pavimentazioni. I percorsi si configurano, così, come una serie di “dune High-Tech” che presentano una totale continuità tra pareti e soffitto del padiglione. Il progetto è, per NOX, «a complete fusion of body, environment and technology» 185. L’influenza degli spazi complessi a più dimensioni è ben più di una supposizione. Se le forme ci fanno intuire una stretta derivazione dalle forme topologiche e dalle deformazioni degli spazi pluridimensionali di Hilbert/Fréchet, esiste una conferma derivata dai processi di generazione di questo spazio. La forma, infatti, è derivata da una deformazione fluida di quattordici ellissi sviluppati lungo un percorso di 65 metri 186. La deformazione continua dei pavimenti, delle pareti e dei soffitti attraverso una totale continuità formale è un’interpretazione del concetto di spazio fluido in continua metamorfosi ed espressione dello sviluppo dei processi naturali. L’adesione alla natura non è più solamente un’ispirazione poetica. La matematica frattale di Mandelbrot altro non è che il tentativo di interpretare secondo leggi algoritmiche i fatti della natura, comprendendo che la loro infinita mutevolezza presenta, al contrario, una regolarità profonda ancorché complicatissima. Come fa notare Cesare De Sessa in un fondamentale capitolo sull’analisi delle nuove concezioni spaziali a partire da discipline non architettoniche, il mondo dei frattali è connesso al problema dei sistemi dinamici aventi, per loro natura, enormi livelli di complessità. Lo studio dei frattali indaga altresì questo tipo di molteplicità, dei numerosi fattori ed elementi che si accavallano e incrociano, influenzandosi reciprocamente, e determinando, in questo inestricabile intreccio di azione e retroazione, l’accadere degli eventi che, un lessico ancora incapace di 187 comprendere e spiegare, attribuiva tout court al caso. Il caso dei frattali di Mandelbrot può essere sviluppato in senso spaziale in altre direzioni di fecondissima portata. In particolare mi riferisco a questo problema: i frattali sviluppano sistemi dimensionali frazionari, aspetto che tende a dimostrare la natura transfinita del problema delle dimensioni 188. Esiste anche un’implicazione più direttamente legata all’architettura che, tuttavia, accenneremo solamente poiché nessun architetto indagato ha effettuato sperimentazioni legate a questo aspetto. Il problema è contenuto nel fatto che la geometria frattale si sviluppa in modo assolutamente particolare. In altre parole essa non esaurisce lo spazio, ma definisce nelle prime battute un’area tridimensionale di massimo sviluppo per poi implodere ed arrivare a livelli infinitesimi al suo interno. Questo è dimostrato dall’attrattore strano di Edward Lorenz. Dopo una prima fase di assestamento che disegna i confini essenziali di questa figura che si svolge nello spazio, il processo di sviluppo dell’attrattore tende a percorrere strati sempre più piccoli di spazio all’interno dello spessore del grafico di sviluppo. In altre parole, lo sviluppo della curva si rivolge su se stesso. Esso si svolge entro uno spessore limitato ed ogni passaggio dello sviluppo della curva dimezza continuamente lo spessore della figura spaziale. Questo significa che inizia un processo infinito di dimezzazione dello spessore che ha come conseguenza un rivolgimento della curva matematica al suo interno più che al suo esterno. I frattali, allora, sono una vera e propria caduta nel baratro. Lo sviluppo dei diagrammi ha un volume 185 Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 324. Ibid. 187 Luciana Finelli e Cesare De Sessa, Conversazioni sul contemporaneo, Officina Edizioni, Roma, 2001, p. 154. 188 Cfr. con questo scritto, Cap. 2.2. 186 limitato all’esterno, ma provoca una caduta infinitesima verso l’interno, un avvolgimento verso strati infinitamente piccoli dello spazio. Ma, accanto al problema dell’autosomiglianza, questo è un tema dei frattali che occorre lasciar cadere. È stato fondamentale accennarne la natura perché esso ha fondamentali implicazioni spaziali nella nostra trattazione, tuttavia è superfluo approfondirlo ora poiché non esistono sperimentazioni architettoniche o di progettazione si spazi virtuali che hanno una coerente applicazione di questo tema. Al contrario, l’uso della matematica frattale per spiegare le forme della natura può essere un riferimento diretto al caso di NOX sopra studiato. Ritengo che Fresch H2O eXPO non sia da riferire tanto alla tradizione organico/espressionista, quanto ad una più recente adesione ad un’“estetica del computer”. Infatti l’organicismo che abbiamo più volte incontrato è una sorta di delirio formale che ritroviamo in molti aspetti dell’estetica Cyber. Fresch H2O eXPO è esattamente questo. La particolarità riguarda il fatto che esso è un edificio costruito e le atmosfere interne, la forma, l’idea di percorrenza fluida tra gli spazi appartiene allo stesso dominio formale, alla stessa capacità visionaria di uno spazio virtuale che vive nella memoria di un computer. Esiste, parallelamente, un curioso paradosso. È estremamente difficile, anche per un occhio allenato, distinguere con precisione la differenza tra un rendering ben fatto di un’elaborazione virtuale e uno spazio effettivamente costruito. Questo deriva solo in parte dalla perfezione dello strumento, dalla complessità delle rese fotorealistiche dei programmi. Queste sono le componenti più esteriori del tema che non costituiscono un problema culturale. Il punto di riflessione è contenuto nel fatto che alcuni progetti virtuali sono ben più che prefigurazioni di ciò che verrà costruito. La difficoltà di distinguere le due cose comporta la volontà dei progettisti di mantenere volutamente confuse e glissate le due realtà. Quanto emerge sembra negare una divisione tra le due sfere: spazi virtuali e spazi fisici sono la medesima cosa. Naturalmente questa è una visione programmatica da parte dei progettisti. È nostro compito definire limiti e proporre delle chiavi interpretative in grado di gettare una prospettiva su questi manifesti Cyber talvolta deliranti. Il problema è, come sempre, di natura percettiva. Se l’occhio può essere ingannato da una serie di quadri dai colori accesi, questo muta profondamente con la percezione fisica dei luoghi. Tale questione non è banale come può sembrare a prima vista proprio per la particolarissima natura della cultura Cyber. Essa, infatti, si nutre di una nuova qualità dello spazio che è appunto la simulazione. In questo mondo esiste una confusione volontaria tra virtualità e realtà, tema sottolineato da molta produzione contemporanea sia in ambito artistico che cinematografico o letterario. Per completare il discorso su NOX occorre notare come le elaborazioni tridimensionali preliminari che hanno portato alla realizzazione del progetto sono sostanzialmente identiche a quei lavori che, di partenza, sono stati ideati per essere esclusivamente luoghi virtuali. Questo significa che Fresch H2O eXPO ha avuto la stessa genesi di Beachness, avendo avuto, al contrario del secondo, un esito realizzativo. Le immagini preliminari del padiglione espositivo potrebbero essere prese, al pari di altre, come manifesti Cyber. Un caso direttamente analogo è quello di Oosterhuis Associates, anch’essi già trattati in precedenza. Nel Garbage Transfer Station (Fig. 60) costruito a Elhorst/Vloedbelt Zenderen in Olanda nel 1995 ritroviamo quanto appena detto. La forma generale di questo hangar che contiene diverse funzioni sembra nato involucrando una struttura base con diverse “pelli” metalliche che aprono grandi vetrate. La continuità di superfici non è dissimile da Saltwaterpavilion. Appare la stessa forma avulsa dal contesto e calata nel territorio in modo decontestualizzato. L’assonanza è evidente e medesime le influenze. Del resto anche nei progetti virtuali, la logica era identica: una struttura metallica reticolare portante ricoperta da un involucro metallico. Questo è certamente un caso minore poiché il ragionamento che viene fatto riguarda essenzialmente la forma dell’edificio e meno gli aspetti spaziali. Se in questo paragrafo l’attenzione deve essere maggiormente posta sulle comunanze tra spazio virtuale e spazio reale, nondimeno occorre riflettere anche sui semplici aspetti formali poiché essi fanno parte di quell’insieme di elementi su cui la progettazione Cyber indaga. L’oggetto, infatti, non è mai pura forma “di design”, bensì racchiude sempre, a nostro avviso, una riflessione sullo spazio non-euclideo. Forme complesse generano spazi complessi, se non altro poiché richiamano aspetti della geometria topologica. Gli strati del Garbage Transfer Station che costituiscono la pelle esterna possono essere assimilati a superfici topologiche che avvolgono una struttura portante razionalmente intesa. Ho già parlato con sufficiente ampiezza dell’opera di Greg Lynn nell’ambito della virtualità. I suoi lavori, in questo campo, sono per noi di grande interesse poiché egli arriva alla generazione della forma da speculazioni filosofiche di grande intensità. Al contrario di molti autori analizzati, egli propone per le sue creazioni un metodo. In molti casi analizzati non esistono motivi reali per la conformazione degli spazi; in altre parole la creazione è sovente dettata da un gusto estetico aderente all’estetica Cyber. Lynn, in ogni suo lavoro, si avvicina ai complicati processi di elaborazione del suo più diretto maestro: Peter Eisenman. Tuttavia, la grande libertà formale e di elaborazione delle opere già viste in precedenza non è riconoscibile nell’unica architettura da lui realizzata. Stiamo parlando della Korean Presbyterian Church costruita a Long Island nello stato di New York tra il 1995 e il 1999 (Fig. 61). Non crediamo si possa parlare di una caduta di qualità rispetto alla vivacità formale, spaziale ed intellettuale dei lavori virtuali. Analizzando le date dei diversi lavori scopriamo che tutti appartengono ad un’unica stagione creativa. Port Authority Gateway è del 1995, Embryologic Space del ’98 e la Cardiff Bay Opera House del ’94. Non è nemmeno possibile parlare di compromesso. In questo lavoro, Greg Lynn in collaborazione con altri due importanti architetti americani della nuova generazione, Garofalo Architects e Michael McInturf Architects - adotta una strategia differente di progettazione, solo apparentemente più cauta dal punto di vista formale e spaziale. La dimostrazione di questa ipotesi è duplice. Se Michael McInturf è un autore di minore rilievo architettonico, Garofalo Architects ha apportato alla progettazione architettonica un notevole vigore. Anch’esso è un autore che possiamo collocare nel medesimo ambito culturale di Lynn e questo fa di questo gruppo di progettazione un coerente team avente medesimi obiettivi e facente parte di un movimento culturale compatto. Occorre, tuttavia, trovare una giustificazione di carattere linguistico/spaziale all’ipotesi che essa non sia un’opera di compromesso. Troviamo, nella conformazione spaziale degli esterni, una sorta di alterazione della regolarissima sagoma del prospetto principale. Una serie di padiglioni sembrano aprirsi come petali su uno dei lati minori. Essi contengono la scalinata d’ingresso e un ballatoio di distribuzione. Quello che dev’essere notato è la continua mutevolezza di questi padiglioni. La forma è una sorta di “serie variata” di un elemento base, tronchi di piramide irregolare che si incastrano le une nelle altre. Il processo progettuale si basa sulla reiterazione automatica per serie varata di una forma base, processo tipico nella progettazione Cyber. Un parallelo potrebbe essere trovato in ResiRise di Kolatan/Mac Donald Studio189. In forma ipertrofica e visionaria, utopistica e delirante, siamo in presenza del medesimo processo: l’ideazione di un modulo base e la sua ripetizione in forma variata al fine di generare un sistema globale che assume una forma articolata. I paralleli, naturalmente, finiscono qui. Non siamo di fronte a due opere analoghe; ritroviamo semmai una matrice comune nella forma reiterata e variata, utilizzata da Lynn-Garofalo-McInturf in modo più cauto e aderente ai problemi di carattere statico e, naturalmente, economico. Esiste una conferma ancora più decisa dell’ipotesi che vede la Korean Presbyterian Church inserita nel medesimo filone Cyber delle altre opere virtuali. I 189 Cfr. Cap. 2.2. padiglioni appena descritti non sono elementi aggiunti a corredo, orpelli esterni privi di qualunque valore spaziale. Questi sono, al contrario, il vero centro del progetto. Gli spazi non-euclidei, apparentemente estranei ad un lavoro del genere, sono presenti in modo cauto ma assolutamente sostanziale. Se osserviamo la conformazione del soffitto della sala assembleare notiamo delle costolature, un increspamento della superficie piana che altera la regolarità delle pareti laterali. Il motivo è evidente. Queste alterazioni sono il frutto di una sorta di interferenza nella forma che, su scala più grande, viene manifestata all’esterno con i grandi padiglioni. Le grandi “orecchie” esterne sono in qualche modo una sorta di amplificazione delle interferenze interne della forma. Minime variazioni interne possono causare una grande distorsione verso l’esterno. Il concetto è stato prima espresso in riferimento all’attrattore strano di Lorenz: variazioni infinitesime di un sistema possono dare risultati imprevisti nel loro evolversi. Qui, in modo analogo, minimi arricciamenti non-geometrici della conformazione del soffitto generano all’esterno una deformazione sostanziale dell’unità della scatola edilizia. Il sistema architettonico, allora, muta la sua conformazione geometrica verso un qualcosa di sostanzialmente ageometrico. Se la forma generale può essere definita in modo abbastanza elementare, esiste al contrario un’anomalia molto profonda basata su deformazioni poco evidenti ma sostanziali. L’occhio è attratto da queste increspature che si amplificano dall’intero verso l’esterno distruggendone la regolarità. Sembra, allora, che questa deformazione, questa irregolarità di struttura, sia in grado di bucare la scatola, passando dall’interno verso l’esterno e creando, in tal modo, una dissoluzione molto profonda della scatola euclidea. Un aspetto importante dev’essere sottolineato. Pur non avendo la vivacità espressiva di altre opere ideate per lo spazio virtuale, la Korean Presbyterian Church è un ottimo esempio di come i principi della matematica e delle geometrie non-euclidee possano dar luogo ad un’architettura coerente con gli assunti teorici del movimento. In più, i mezzi tecnologici per realizzare queste idee non si basano su soluzioni complesse. Il sistema statico è elementare e i mezzi espressivi per realizzarli sono piuttosto ridotti. Questo significa che l’ipertrofia espressiva “dai colori acidi” della grafica computerizzata, può essere tradotta attraverso una limitata gamma di materiali e forme in un sistema certo meno esplosivo ma ugualmente coerente rispetto agli assunti delle geometrie noneuclidee. Una maggiore rispondenza tra progetto virtuale e architettura la ritroviamo, invece, nel progetto dei NOX. Trattandosi di un padiglione espositivo, la sua logica strutturale e il suo sviluppo spaziale sono tali da non destare eccessive difficoltà di articolazione. È probabilmente questa la ragione per la quale ritroviamo una minore distanza tra la fase progettuale e quella realizzativa. I materiali devono rispondere ad una limitata gamma di prestazioni statiche e di durata. Pensiamo sia inutile inserire ulteriori esempi che tendano a confermare l’idea appena espressa di un diretto legame tra spazio virtuale e architettura nell’ambito delle geometrie non-euclidee. Le linee essenziali del discorso sono state espresse in modo sufficiente. È tuttavia importante inserire a corredo di questo paragrafo due ultimi esempi che, sebbene anomali rispetto ai casi già presentati, presentano alcune caratteristiche originali che possono ulteriormente chiarificare il complesso rapporto tra spazio virtuale e sue applicazioni all’interno dell’architettura. Entrambi sono progetti non realizzati. Ma per la loro particolare natura essi sono un caso a parte rispetto a quelli descritti nel capitolo dedicato agli spazi virtuali, poiché il loro grado di realismo li colloca in un territorio a metà tra il Web e il costruito. Il primo progetto è stato realizzato nel 1995 da Neil M. Denari 190. Si tratta di un’opera molto nota: il Massey Residence a Los Angeles (Fig. 62). Si tratta di un progetto molto significativo per numerose ragioni. Innanzi tutto esso rinnova in modo sostanziale le modalità di rappresentazione del progetto di architettura. Questo non è un problema secondario, specialmente in casi nei quali la complessità dell’organismo edilizio è così alta. Uno dei problemi che abbiamo sovente rilevato in questa trattazione riguarda la difficoltà di comprendere compiutamente la natura dello spazio progettato. Il problema nasce dalla sua complessità. Spazi topologici, non-euclidei, curve matematiche avvolte su se stesse, spazi di Hilbert e di Möbius, sono di fatto impossibili da restituire in forma grafica. Solamente l’aspetto dinamico ed evolutivo nello sviluppo della forma può dare un contributo (sebbene talvolta modesto) nella comprensione della natura di questi luoghi. Denari, con questo progetto, riesce a sviluppare un sistema di rappresentazione e di quotatura tridimensionale di ottimo livello per uno spazio complesso. Sebbene il grado di astrazione di questo spazio sia abbastanza contenuto, sarebbe necessaria una grande elaborazione grafica per restituire con sufficiente chiarezza la conformazione delle superfici continue e il raumplan dell’opera. Il progetto è una elaborazione della tipologia classica dell’abitazione unifamiliare losangelena. La dimensione del lotto, il programma degli spazi funzionali interni è assolutamente all’intero della tradizione. Denari ha ribaltato le strategie di progettazione ideando un edificio costituito da «multi-unità» i cui spazi slittano gli uni negli altri. Gli spazi interni, pur assumendo una complessità controllata, si sviluppano tutti intorno alle scale che diventano elementi generatori di tutta la distribuzione della villa. La casa è infatti articolata su sette livelli, aspetto determinante per il rinnovamento della tipologia classica della villa suburbana del nord america. La critica feroce è supportata da un’innovazione che non desidera porsi come manifesto dell’architettura, come nei casi precedenti. L’autentica anomalia si sviluppa nello spazio interno che appare unico ma perfettamente distinto nei diversi aspetti funzionali. Per la prima volta ci troviamo a parlare, in questo scritto, di funzioni connesse allo spazio architettonico. Il motivo di questo deriva dall’alto grado di astrazione dei primi esempi illustrati derivato dalla loro natura programmatica. Questo caso risulta allora significativo poiché si pone a metà strada tra i due estremi: gli spazi virtuali e l’architettura costruita. È possibile, allora, individuare tutta quella gamma di sfumature che connettono questi due poli. Qui, allora, ritroviamo problematiche legate agli aspetti distributivi, funzionali, dimensionali e statici. L’attenzione per i materiali diviene un elemento strutturante l’architettura. Tuttavia la sua natura di luogo complesso rende necessaria una meditazione sullo spazio. Notiamo come la scala non sia l’unico elemento generatore di spazio. Certamente essa è essenziale per la conformazione della disposizione dei sette livelli all’interno del lotto e dell’organizzazione planimetrica. È possibile quindi dire che la struttura dell’abitazione è una sorta di spazio unico a multipla altezza nel quale la divisione dei livelli organizzano funzionalmente i diversi ambienti. La scala, come elemento distributore, è il momento nel quale tutto diviene razionalmente funzionante. In effetti non esiste un luogo dedicato alla scala, ma è come se tutto lo spazio venisse costruito attorno ad essa. I diversi ambienti sembrano essere ritagliati all’interno dell’involucro edilizio che assume sempre la conformazione di una scatola tecnologica prefabbricata. Un elemento determinante per la comprensione dell’intero edificio è la copertura. Essa è coerentemente collegabile con i discorsi fatti sulle superfici topologiche. Si può leggere chiaramente dai disegni tridimensionali che copertura e pareti laterali formano un tutto continuo. La soluzione non è collegabile direttamente alla Endless House di Kiesler191 o alle strutture a guscio di John Johansen192. In questi casi, entrambi 190 Neil M. Denari è un architetto americano nato nel 1957. Ha conseguito nel 1980 la laurea in architettura all’università di Houston e il Master nell’82. Ha insegnato a Tokyo dal 1990 al ’92, a Londra nel 1994, nell’università del Texas dal 1993 al ’95, alla Columbia sempre nel 1995 e anche in due università di Los Angeles. Dal 1988 ha uno studio di progettazione a Los Angeles. 191 Cfr. con Maria Bottero, Frederick Kiesler. Arte Architettura Ambiente, Electa, Milano, 1995. storicamente definiti in ambiti temporali ben precisi, l’utilizzo della forma a guscio ha matrici di carattere zoomorfo. In Denari la componente di continuità tra soffitto e pareti è espressione di un continuum spazio/temporale legato alle superfici topologiche che avvolgono lo spazio unico dell’abitazione, successivamente ritagliato da elementi unitari ivi disseminati. Si può infatti notare da un esploso prospettico che i diversi livelli sono separati visivamente da corpi in aggetto nel vuoto complessivo dell’interno. Allora, lo spazio è racchiuso da una pellicola che definisce i confini volumetrici del complesso, successivamente strutturato nell’interno grazie allo sviluppo delle scale e all’inserimento di corpi fluttuanti. Resta essenziale, in tutto questo ragionamento, le modalità di rappresentazione, strutturata in modo tale da rendere possibile la comprensione di tale complessità. Questo non è un discorso secondario. In realtà il modo di strutturare il processo logico di comprensione dell’architettura è strettamente connesso alla sua natura. Più volte abbiamo suggerito come il sistema di progettazione legato allo strumento informatico renda possibile una serie di operazioni inedite. In qualche modo, in questo ambito è connesso il tema della rappresentazione. Denari è stato in grado di elaborare un sistema di rappresentazione tecnico capace di essere sia strumento di restituzione dimensionale dell’architettura, sia sistema in grado di comunicare la conformazione dello spazio. Quello che appare, allora, è qualcosa che si pone al di là del suo essere progetto per divenire sistema globale di comprensione del sistema architettonico, spaziale ed esecutivo. Il secondo caso di cui vogliamo parlare conclude lo studio di quei casi che si pongono a metà strada tra il progetto virtuale di spazi non-euclidei e architettura costruita. Insieme al Massey Residence di Denari, è opportuno parlare di un curioso esperimento effettuato in Italia per la ricostruzione del teatro La Fenice di Venezia (Fig. 63). Insistiamo sul fatto che questo progetto, insieme al precedente, abbia un grado di realismo assolutamente maggiore rispetto a quelli descritti nel precedente paragrafo. Pur essendo progetti virtuali, essi possiedono un grado di realtà assolutamente elevato. Il caso di Venezia è emblematico. La distruzione del teatro veneziano avvenuta nel 1996 a causa di un incendio è stata l’occasione per l’architetto italiano Marco Galofaro di suggerire un’ipotesi basata sul restauro, consolidamento e conservazione delle rovine e progettazione dei nuovi corpi all’interno del grande vano oramai vuoto 193. È evidente che il progetto assume i connotati di un manifesto programmatico di una ben precisa corrente architettonica. Non a caso Galofaro ha lavorato presso lo studio di Peter Eisenman e la medesima elaborazione intellettuale è presente in questo progetto. Ritengo il problema interessante. Il progetto può essere suddiviso in due grandi ambiti: il ripristino delle parti sopravvissute - con un forte accento filologico - e il nuovo cuore del teatro direttamente ispirato ad una corrente architettonica da situarsi all’intero di un’avanguardia di ispirazione americana. Poniamo la nostra attenzione sulla nuova sala teatrale. Questa viene completamente riprogettata. La geometria dell’intervento su presenta come un nastro che invade i corpi principali del teatro (Sale Apollinee e palco) attraverso un andamento continuo e avvolgente, eliminando la distinzione fra pareti e pavimento in una soluzione di continuità fra interno ed esterno, divenendo infine copertura 194. Tutto il nuovo intervento non si appoggia mai alle murature perimetrali divenendo un corpo a se stante che conquista lo spazio vuoto esclusivamente grazie alla sua forma. L’esplosione dei corpi che culmina nella copertura, capace di includere lo spazio esterno all’intero del teatro, è supportato da una grande attenzione per le funzioni del teatro, tutte accuratamente rispettate. Il progetto 192 193 194 In particolare si veda la Spray House a Weston, Conn del 1956. Cfr. con Marco Galofaro, Riscatto virtuale. Una nuova Fenice a Venezia, Testo & Immagine, Torino, 2000. Ivi, pp. 60-61. prende spunto dalle tradizionali forme e funzioni dell’impianto del teatro italiano del settecento per ritrasformarne la forma, rispettandone però le funzioni. La struttura statica dell’impianto all’italiana si deforma, si incurva divenendo una struttura complessa e articolata, in un continuo gioco di visione e movimento. Le pareti, che contengono i palchetti e le rampe di accesso a essi, si separano e, torcendosi l’una nell’altra, invadono lo spazio residuale, sono collegate al ridere soltanto attraverso passerelle che mettono in comunicazione le scale delle ali laterali con l’impianto della sala. Il continuo movimento della struttura della sala vuole abolire le pareti di chiusura, negando così la corporeità dell’involucro edilizio. Le superfici che prima componevano la sala all’italiana sono ora leggibili soltanto nel frammento. La scatola teatrale entra in relazione diretta con l’involucro esistente 195 attraverso la negazione della sua unità [...]. L’interesse fondamentale è, anche in questo caso, per la rappresentazione del caos in forma architettonica. Lo spazio degli spettatori perde il senso di unitarietà per divenire un luogo il cui senso più stretto è dato dalla natura fluida del continuum spazio/temporale. L’azione teatrale è narrativa; la medesima ispirazione è suggerita dall’intervento. L’aver insistito sulla descrizione del funzionamento di questo progetto è assai importante per comprenderne la natura. La sua ispirazione è dichiaratamente riferibile a quanto detto in passato. In estrema sintesi, esiste il riferimento alle superfici topologiche avvolte, alla scomposizione puridimensionale dei piani di visione, alla rappresentazione del caos in forma spaziale, l’utilizzo di geometrie non-euclidee per la creazione dello spazio del vissuto. Questo lo rende un progetto collocabile nell’ambito della progettazione Cyber. Le componenti linguistiche e teoriche dello spazio teatrale della nuova Fenice sono perfettamente assimilabili ai casi nei quali le componenti di deformazione spaziale non sono direttamente riferibili alla deformazione scultorea delle componenti architettoniche, bensì alla progettazione di queste attraverso l’uso del computer. Questo sta a significare che la progettazione della nuova Fenice di Galofaro è il frutto di una cultura che si basa sull’uso del computer come elemento di generazione di spazi non-euclidei altrimenti non prefigurabili e non immaginabili. Il computer diviene lo strumento essenziale per la concezione di questi luoghi, fatto che ne determina in modo deciso le caratteristiche e la natura. Esiste, tuttavia una qualità che distingue questo progetto dagli altri: la sua perfetta aderenza ad un caso reale di intervento. Pasing, Kolatan/Mc Donald Studio, Foregin Office Architects, hanno una componente di maggiore astrazione che rende i loro progetti come frutto di una cultura Web dai scarsi connotati materiali. Le loro sperimentazioni sono a pieno titolo ideazioni di spazi non-euclidei, ma rimangono comunque legati ad un mondo virtuale. Nel caso di Denari e, ancor più, di Galofaro, la cultura Cyber e della virtualità, con la sua grande espressività ed anomalia nella conformazione di spazi non-euclidei, trova un aspetto di grande realismo e verosimiglianza. La libertà dello spazio non è sospesa in un luogo virtuale indifferente alle leggi della statica o ai vincoli della contestualizzazione. Il progetto è, al contrario, studiato per una precisa collocazione in quel determinato luogo attraverso un linguaggio ed una concezione spaziale assai distante con la tradizione veneziana ma, nondimeno, inserita in una corrente di rinnovamento architettonico molto precisa. Non giudichiamo, pertanto, il progetto di Galofaro come concettuoso o inopportuno. Se consideriamo i più recenti concorsi banditi dall’amministrazione Cacciari per Venezia, vediamo una decisa tendenza verso un’architettura di stampo decostruttivista o, almeno, un interesse verso una progettazione che sia maggiormente specchio di una cultura progettuale internazionale 196. Il progetto di Galofaro racchiude una grande complessità di eventi. L’aspetto riguardante le geometrie non-euclidee è solamente l’ultimo di una lunga serie di considerazioni che nascono da una volontà di realizzare un progetto 195 196 Ivi, pp. 62-63. A tal riguardo vedasi Marco De Michelis (a cura di), Venezia. La Nuova Architettura, Skira, Milano, 1999. che possa aderire perfettamente allo stato di fatto di un teatro quasi interamente compromesso nella sua natura. In effetti gli studi preliminari condotti sull’esistente testimoniano una grande attenzione al manufatto originale. Il progetto, opponendosi alla scelta finale condotta seguendo la filosofia del “com’era, dov’era”, interpreta in modo non ortodosso il concetto di intervento sull’esistente. Nel far questo l’autore “cuce” indosso al manufatto uno spazio che ricalca perfettamente le esigenze di un teatro, reinterpretandone tuttavia la tipologia. Questo rinnovamento del concetto di teatro è decisamente convincente poiché istituisce un percorso assai coraggioso di sperimentazione sullo spazio scenico. Questo avviene in due direzioni separate. Da un lato il teatro diviene percorso, generando una percezione dinamica dell’interno direttamente ispirata alla spirale wrightiana del Guggenheim Museum di New York. Dall’altra si attua una perdita del concetto tradizionale di separazione interno/esterno. I gusci e le spirali evolutive del nuovo teatro penetrano nel caveau ed agiscono come elemento di interpretazione di un vuoto. In altre parole, quello che ora rappresenta un vuoto a cielo aperto (la sala distrutta) rimane tale poiché la nuova architettura scava attraverso essa suggerendo una fluenza continua tra interno ed esterno. L’interno, così, rimane in qualche modo esterno poiché le spirali accartocciate che costruiscono il volume deformato offrono uno sfondamento volumetrico. Tale idea di continuità è offerta dalla matematica di René Thom. I suoi studi sulle bolle e sulle equazioni a coda di rondine 197 possono essere coerentemente applicati all’architettura attraverso un processo che si basa sulla considerazione che per alcuni casi di equazioni a quattro dimensioni (dominio R elevato alla quarta potenza) le curve possono avere curvatura opposta o doppio andamento nel loro sviluppo. Se analizziamo i grafici di Thom, scopriamo come una superficie di curva può essere contemporaneamente interna ed esterna. Lo stesso accade per lo studio dei moti laminari delle superfici di liquidi soggetti a caduta dei gravi. In questi casi è possibile dimostrare come l’esterno di una pellicola d’acqua (quella a contatto con l’aria) possa trovarsi racchiusa all’intero di una bolla nel caso in cui questa sia soggetta a caduta di un grave 198. Coerentemente, il caso di Galofaro è uno dei casi che può ben interpretare questo concetto matematico di inclusione di esterno all’intero dell’architettura. Esiste una perdita della tradizionale distinzione tra interno ed esterno nell’architettura. Questa considerazione finale è in grado di farci comprendere come una ricerca coerente con gli assunti della matematica avanzata possa trovare un alto grado di realismo nella sua applicabilità in spazi che non sono solamente di natura virtuale e quindi relegati nell’ambito percettivo. Il progetto per la Fenice di Venezia ha un alto grado di complessità sia dal punto di vista geometrico/spaziale, sia dal punto di vista della sua realizzabilità. Per tirare alcune conclusioni di questo paragrafo occorre dire che gli spazi ispirati alle geometrie non-euclidee non sono sperimentazioni possibili esclusivamente nell’ambito degli spazi virtuali. Certamente in quel campo trovano un momento di maggiore libertà espressiva, determinata anche dal fatto che non esistono problemi legati alle funzioni o alla tettonica. Abbiamo tuttavia percorso anche il campo degli spazi fisicamente realizzati, siano essi architetture, spazi espositivi o progetti dotati di un alto grado di completezza. In questi casi, la realizzazione nulla toglie alla coerenza delle sperimentazioni. Le elaborazioni tridimensionali sono coerentemente derivate dalle medesime matrici matematiche e le applicazioni hanno sempre un alto grado di coerenza strutturale, insieme 197 Cfr. René Thom, Stabilità strutturale e morfogenesi, op. cit. In particolare vedasi il Cap. VII, Dinamica delle forme, per lo studio delle increspature delle superfici liquide e il Cap. V, Le catastrofi elementari sullo spazio R4 associate a conflitti di regime, per quanto riguarda le funzioni a coda di rondine. 198 Per un’analisi più dettagliata del problema cfr. con Paolo Vincenzo Genovese, Considerazioni sulle forme incluse in matematica e in architettura, in «L’Architettura - Cronache e storia», n. 560, giugno 2002, pp. 404-407 e Paolo Vincenzo Genovese, Gli “ombelichi” di Thom. Ovvero come increspare le superfici generando architettura, in «L’Architettura - Cronache e storia», n. 561-562, luglio/agosto 2002, pp. 508-511. ad un alto grado di complessità spaziale. A nostro parere questa osservazione può essere ricondotta al fatto che gli spazi non-euclidei virtuali e architettonici abbiano una radice comune e siano, per così dire, figli di una stessa “madre”. Non è possibile allora parlare di due strade parallele percorse contemporaneamente. Meglio suggerire l’immagine di due insiemi che subiscono continue e reciproche influenze o, in alternativa, due ambiti culturali che propongono diverse espressioni a partire da una comune radice culturale. Certamente il problema non può esaurirsi qui. Se appare evidente la disparità dei risultati, questo significa che esiste una diversità sostanziale degli intenti. Ci sembra di intuire che in questi due mondi siano differenti gli obiettivi perseguiti. Nel caso dello spazio virtuale i toni sono certamente più radicali e il tutto può essere ricondotto, riducendo il discorso all’osso, ad una serie di schizzi visionari che, in passato, più volte hanno fatto capolino nel corso della storia dell’architettura. Non credendo nei paralleli storici troppo diretti, dobbiamo sottolineare che le differenze rispetto a quegli esempi sono maggiori che non i punti di contatto. Certamente è vero il desiderio di proporre, attraverso gli spazi virtuali, un manifesto delle nuove idee legate alle prefigurazioni dell’architettura; è altresì evidente la loro natura di avanguardia dilaniante, espressa attraverso un’ipermodernità fascinosa quanto esaltata. Ma la sostanziale discordanza con il passato che rende impossibile e criticamente errato qualunque forma di parallelismo riguarda il fatto che questi esempi sono concepiti come autonomi rispetto alla fase realizzativa. Se le visioni futuriste di Sant’Elia o quelle Pop di Archigram vivevano pienamente la contraddizione di essere momenti di prefigurazione di architetture impossibili, nel caso della Cyberarchitettura il discorso è sostanzialmente differente. Grazie all’alto grado di realismo di questi lavori, l’occhio ne è conquistato a tal punto che, anche se limitatamente all’aspetto di fruizione visiva, la componente di verosimiglianza è così forte da suggerire una vera e propria confusione nell’osservatore tra opera virtuale e immagine di architettura reale. Anche nei casi più estremi come quelli di Karl S. Chu il discorso spaziale si configura come manifesto programmatico di una nuova realtà in grado, secondo gli intenti degli autori, di coinvolgere l’osservatore come un’architettura vera e propria. Per questo abbiamo ritenuto opportuno parlare di quegli esempi realizzati che si pongono a metà strada tra il manifesto e l’architettura calata nella realtà dei fatti ed in un contesto fisico. Sarebbe tuttavia criticamente scorretto voler verificare in essi quanto l’architettura virtuale può fare, o, in altra maniera, vedere quali sono gli scarti tra le sperimentazioni Cyber e l’edilizia. Questo perché i due ambiti non si pongono in diretta continuità, ma divengono aspetti diversi di una stessa stagione culturale. In questa duplicità sta la completezza e la complessità del movimento Cyber. Fig. 18: Greg Lynn/Form, H2 House (Hydrogen House), Vienna, Austria, 1996. Fig. 19: Reiser+Umemoto, Yokoama Port Terminal, Tokio, Giappone, 1994, progetto. Fig. 20: Neil M. Denari, Massey Residence, Los Angeles, California, 1995 Fig. 21: Makoto Sei Watanabe, The Induction Cities, 1991-’96, progetto. Fig. 22: Anton Markus Pasing, Genesis 9 - super tool, 1995-’96, progetto. Fig. 23: Anton Markus Pasing, Elektrochanger - Haus an der B 54, 1991, progetto. Fig. 24: Anton Markus Pasing, Das letzte Haus, 1995, progetto. Fig. 25: Peter Eisenmann, Aronoff Center, University of Cincinnati, Cincinnati, Ohio, 1988’96. Fig. 26: Marcos Novak, Paracube, 1997-’98, progetto. Fig. 27: Karl S. Chu, Phylux, 1999, progetto. Fig. 28: Asymptote, Virtual Guggenheim Museum, 1999-2002. Fig. 29: Kolatan/Mac Donald Studio, Resi-Rise (vertical mode), New York, 1999, progetto. Fig. 30: Kolatan/Mac Donald Studio, Housing, 1999. Fig. 31: Nastro di Möbius nell’interpretazione di Maurits Cornelius Escher, Striscia di Möbius II. Fig. 32: Ben Van Berkel & Caroline Bos, Möbius House, Het Gooi, Olanda, 1993-’98. Fig. 33: Foreign Office Architects, Virtual House, 1997, progetto. Fig. 34: Foreign Office Architects, Azadi Cinepleh, Teheran, Iran, 1997, progetto. Fig. 35: Foreign Office Architects, Yokohama Port Terminal, Yokohama, Giappone, 1995, progetto di concorso, primo premio. Fig. 36: Oosterhuis Associates, Trans_Ports 2001, Rotterdam, Olanda, 1999-2001, progetto. Fig. 37: Oosterhuis Associates, Saltwaterpavilion, Neeltje Jans, Olanda, 1997, progetto. Fig. 38: NOX, V2 Lab, Rotterdam, Olanda, 1998, progetto parzialmente realizzato. Fig. 39: Herzog & De Meuron, Library of the Eberswalde Technical School, Eberswalde, Germania, 1994-’99. Fig. 40: Massimiliano Fuksas, Europark, Salisburgo, Austria, 1994-’97. Fig. 41: Helmut Jahn, KU 70, Berlino, Germania. Fig. 42: dECOI, Boutique Missoni, Parigi, Francia, 1996, progetto. Fig. 43: NOX, Beachness, Noordwijk, Olanda, 1997, progetto. Fig. 44: Naga Studio Architecture, ESK House, Cairo, Egitto, 2000. Fig. 45: Naga Studio Architecture, Marina International Hotel Sharm Safari Gate, Los Angeles, California, 1998, in corso di costruzione. Fig. 46: Naga Studio Architecture, Sharm Safari Gate , Sharm El Sheikh, Sinai, 1997, in corso di costruzione. Fig. 47: Naga Studio Architecture, Tetraedro. Fig. 48: Gregg Lynn/Form: Embriological Housing, 1998, progetto. Fig. 49: Gregg Lynn/Form: Embryologic Space, 1998, progetto. Fig. 50: René Thom, caduta di gravi nel liquido. Fig. 51: Gregg Lynn/Form: Cardiff Bay Opera House, Wales, 1994, progetto di concorso. Fig. 52: Frank O. Gehry, Casa Lewis, Lyndhurst, Ohio, 1989-’95. Fig. 53: Gregg Lynn/Form: Animated Form, progetto. Fig. 54: Gregg Lynn/Form: Port Authority Gateway, New York, USA, 1995, progetto. Fig. 55: Peter Eisenman, Staten Island Institute of Arts and Sciences,New York, 1997, progetto. Fig. 56: Peter Eisenman, Biblioteca per la Piazza delle Nazioni,Ginevra, Svizzera, 1996’97 Fig. 57: Peter Eisenman, Una chiesa per l’anno 2000, Roma, 1996 Fig. 58: Peter Eisenman, Virtual House, Berlino, 1997, progetto. Fig. 59: NOX, Fresch H2O eXPO, Neeltje Jans, Olanda, 1997 Fig. 60: Oosterhuis Associates, Garbage Transfer Station, Elhorst/Vloedbelt Zenderen, Olanda, 1995 Fig. 61: Greg Lynn, Korean Presbyterian Church, Long Island, 1999 Fig. 62: Neil M. Denari, Massey Residence, Los Angeles, 1995 Fig. 63: Marco Galofaro, Progetto per il Teatro La Fenice di Venezia, Venezia, 1996 PARTE SECONDA Capitolo 3 Studi di architetti contemporanei. Un matrimonio tra arte, scienza, filosofia e tecnologia 3.1. Introduzione e caratteri generali del problema L’ideazione degli spazi non-euclidei presenta, nella progettazione contemporanea, un aspetto del tutto nuovo. Abbiamo più volte sottolineato in questo scritto come questo tipo di ricerche non siano espressione derivata dall’uso delle tecnologie informatiche. Esse sussistono precedentemente alla diffusione degli elaboratori nella pratica professionale. Quello che è sostanzialmente cambiato riguarda le procedure operative per raggiungere quei risultati. Se nelle pagine precedenti avevamo intenzione di illustrare i caratteri e le motivazioni che spingono i diversi autori a creare geometrie anomale e non-razionali, il compito di questa seconda parte è maggiormente rivolto alla pratica operativa. In altre parole, l’intenzione è quella di delineare alcune specifiche operazioni progettuali che possano chiarificare il come avviene la generazione degli spazi precedentemente descritti. In qualche modo si desidera dare uno sguardo “dietro alle quinte” per riuscire a cogliere i trucchi del mestiere dei vari autori. La lettura linguistico/filosofica offerta in precedenza è un’arma potentissima per l’individuazione delle matrici generative di un pensiero. Questa dev’essere completata da una descrizione delle pratiche procedurali, operazione che presenta due grandi vantaggi: quella di approfondire la nostra comprensione degli aspetti culturali sopra descritti e, contemporaneamente, illustrare come effettivamente il computer rivesta ancora il carattere di strumento operativo. Esso è utilizzato, in tutti i casi indagati, per realizzare un’idea poetica o filosofica nell’ambito dell’architettura. Concentrandoci sul problema specifico di questa tesi, è possibile affermare come sia possibile individuare almeno tre differenti modi di utilizzare il computer nella progettazione degli spazi non-euclidei. È evidente che tali differenze comportano una sostanziale diversità di risultati. Sarebbe tuttavia errato separare le discordanze procedurali, scollegandole dagli assunti filosofici dei diversi autori. In qualche modo, la poetica dello spazio sfrutta le potenzialità dell’elaboratore e dei programmi software per ideare un proprio sistema. Così, è necessario, in questo momento, vedere che relazione sussiste tra l’ambito poetico e quello operativo, intendendo suggerire l’idea - che rimarrà latente in questo scritto - di come tra questi due ambiti esistano relazioni sostanziali. Un primo punto determinante che comparirà sovente in queste pagine riguarda il fatto di come negli studi di architettura indagati sia possibile individuare una numerosa serie di influenze estranee alla stretta disciplina dell’architettura. In tal maniera, arte, scienza, filosofia, tecnologia e altro ancora, sono parte sostanziale della generazione dell’architettura. Noi, nei più ristretti ambiti che intendono studiare la generazione dello spazio non-euclideo, desideriamo dimostrare come queste discipline siano parte integrante della natura della progettazione; il computer diviene, allora, un mezzo per portare verso livelli talvolta estremi le idee che, tratte da altri ambiti, ispirano la generazione dello spazio non-euclideo. Queste scelte sono ben più che fonti di ispirazione collaterali; divengono, altresì, momenti di profonda analisi della realtà e parametri interpretativi del contemporaneo in grado di generare visioni di carattere spaziale. Il computer rientra in tutto questo in modo sostanziale poiché strumento in grado di prefigurare, di gestire o di elaborare una grande quantità di dati altrimenti non utilizzabili. Le tre categorie individuate riguardano: a. l’architettura come scultura; b. la Cyber-architettura; c. il computer generatore di idee per l’architettura. Ognuno di questi punti non dev’essere naturalmente letto come perfettamente separato dagli altri due. È impossibile, oltre che errato, individuare in modo esatto gli ambiti poetico/procedurali. Certo è che alcune personalità possono essere citate come particolarmente esemplificative in ognuno di questi casi. È per tale motivo che abbiamo scelto di prendere ad esempio solamente tre autori, le cui metodologie sono particolarmente chiare in queste tre “regioni di pensiero”. Altri progettisti saranno utilizzati per verificare o approfondire temi contenuti in questi spiriti guida che abbiamo scelto nella nostra narrazione. Così, prendiamo Frank O. Gehry come esempio degli architetti scultori (a), Greg Lynn per la progettazione Cyber (b) e Peter Eisenman per quegli aspetti, più misteriosi, della progettazione “automatica” (c). 3.2. La progettazione come scultura. Frank O. Gehry Una delle principali chiavi interpretative del rapporto di Frank O. Gehry con la progettazione è certamente la componente artistica. Questa diviene indispensabile nel momento della ricerca delle motivazioni che spingono l’architetto statunitense ad affrontare i compiti creativi in ambito architettonico. Dovendo individuare le modalità con le quali Gehry affronta il progetto degli spazi non-euclidei, sarebbe scorretto non passare, dapprima, attraverso gli ambiti di carattere poetico. Dapprima una considerazione fondamentale. Al contrario di molti autori analizzati nei capitoli precedenti, Gehry si pone sempre di fronte al problema architettonico. Il suo sforzo, quindi, non è tanto rivolto alla generazione di uno spazio, bensì alla realizzazione di un’architettura dalle forti componenti spaziali. Questo è determinante per distinguere le diverse nature del problema che stiamo studiando. Se Karl S. Chu o Marcos Novak non si pongono l’obiettivo di realizzare spazi non-euclidei realizzabili (e, al contrario, giocano sull’ambiguità di spazi non-euclidei virtuali), in Gehry questa incertezza non esiste. Egli progetta architettura e lo spazio si inserisce sempre all’interno di un programma edilizio ben preciso. Non riteniamo essere questo un problema di carattere generazionale. Pur essendo direttamente legato agli insegnamenti del Movimento Moderno, Gehry propone una differente filosofia, un approccio metodologico che nega negli assunti quei risultati. Un autore a lui quasi coetaneo, Peter Eisenman, è diametralmente opposto nella sua concezione, fatto che svincola il problema del rapporto tra spazio e architettura da una questione di carattere anagrafico. Il punto di partenza dell’analisi della metodologia progettuale dello spazio in Gehry deve tuttavia partire dalla sua visione dell’architettura come fenomeno artistico. Egli stesso ammette che nel suo lavoro è costantemente presente un supporto derivato da pittori e scultori 199 che partecipano attivamente alla formazione dell’idea spaziale, ammettendo, tuttavia, che gli approcci sono sostanzialmente differenti; [...] How you get to that moment of truth is different and the end result is different. 200 In verità questo significa che l’interesse di Gehry si rivolge verso una fusione tra operare artistico ed architettonico. Tale dimensione assume un’importanza del tutto particolare se analizzata alla luce di una questione implicita ma non troppo sotterranea all’intero dell’architettura di Gehry. Egli, così come avvenne nel caso di Frank Lloyd Wright, genera opere che si fondono con la soggettività dell’architetto. Gehry - come Wright - crea un’architettura assolutamente personalizzata, quasi un autoritratto del creatore che con essa si identifica. Questo è sottolineato dalla particolare natura degli spazi gehriani nel caso di Bilbao. Il Guggenheim Museum (Fig. 64) incarna una contraddizione fondamentale: esso esibisce se stesso. Non siamo di fronte a quanto auspicato da Daniel Buren201, il quale immaginava per gli edifici espositivi la semplicità assoluta di un cubo nel quale l’artista può fare ciò che desidera e proiettare in questo luogo neutro ciò che vuole 202. Gehry esprime la sua personale idea di arte e piega all’interno di essa l’evento espositivo e la performance artistica. Tutto ciò sta a significare che l’opera d’architettura diviene una sorta di espressione diretta della personalità dell’artista e non un prodotto funzionalistico. Se trasportiamo questo aspetto all’evento spaziale possiamo notare come lo spazio non-euclideo creato da Gehry sia sostanzialmente una sua personale interpretazione del concetto di spazio, indifferente dalla funzione o dai programmi di carattere economico 203. Gli aspetti legati alla questione spaziale erano presenti, come accennato, anche in Wright. Quello che rende particolarmente significativa la vicenda di Gehry è il suo rapporto con la questione artistica. Se Wright era interessato esclusivamente agli aspetti di carattere architettonico, Gehry tende a rompere i confini tra progetto di architettura e performance artistica204. In riferimento al museo Guggenheim di Bilbao è possibile dire che the cutouts suggested that the boat gallery, and the three leaflike galleries, having gone through an endless process of refining the same shapes, needed that sense of awkwardness, giving the effect of a more casual disposition of form. In addition, “the mutation of architecture into sculpture” has enticed 205 Gehry as well, as exemplified in his own fish and snake designs. Oltre al caso più eclatante di Bilbao in cui la stessa architettura diviene scultura e oggetto d’arte, esiste una ulteriore conferma di questo aspetto di fusione arte/architettura. Gli Uffici Chiat-Day-Mojo a Venice in California (1986-’91) testimoniano in che modo un progetto possa accludere come elemento basilare un oggetto artistico (Fig. 65). Il gigantesco cannocchiale che Claes Oldenburg inserisce come portale all’edificio è una vera e propria parte di edificio trasformata in oggetto artistico o, viceversa, è un oggetto artistico che diviene parte integrante dell’architettura. Il processo di progettazione diviene come un 199 Frank O. Gehry, cit. in, Coosje van Bruggen, Frank O. Gehry, Guggenheim Museum Bilbao, The Solomon R. Guggenheim Foundation, New York, 1997, p. 95. 200 Ibid. 201 Daniel Buren è un artista francese nato a Boulogne-Billancourt, Hauts-de-Seine nel 1938. Le sue performance hanno costantemente un’attenzione per lo spazio architettonico che viene interpretato da pellicole colorate sui vetri delle finestre o dal disegno elementare di partizoni quadrate realizzate sulle pareti neutre dei musei. Una bella lettura in lingua italiana di questo autore è presente nel sito Internet: http://www.pinerolo-cultura.sail.it/Tucci%20russo/buren%20page.htm. Un’interessante rassegna di lavori e di esposizioni è pubblicata in: http://www.art-contemporain.eu.org/base/noms/76.html 202 Cit. in Coosje van Bruggen, Frank O. Gehry, Guggenheim Museum Bilbao, op. cit., p. 115. 203 Questa affermazione è comprovata dalla vicenda legata alla Walt Disney Concert Hall. Il contenzioso giuridico è nato dai problemi di carattere economico derivati dai continui cambiamenti in fase progettuale dell’autore. Queste variazioni, continuate anche in fase di cantiere, hanno fatto levitare il costo dell’intervento oltre misura. 204 Coosje van Bruggen, Frank O. Gehry, Guggenheim Museum Bilbao, op. cit., p. 116. 205 Ibid. “gioco comune” 206, perdendo i connotati di risultato razionale di un processo dettato da esigenze di carattere funzionalistico. Ciò tende a rompere i parametri generativi tipici dell’architettura del Movimento Moderno. In qualche modo si sancisce la rottura di uno status di regole, ridefinendo la metodologia di progetto. Questa metodologia anomala è uno dei punti centrali della poetica di Gehry. Le collaborazioni con Claes Oldenburg o con Richard Serra207 dimostrano come il processo creativo di Gehry sia essenzialmente artistico e non, al contrario, rivolto alla fusione dei due ambiti. L’inserimento di opere d’arte a grande sala in architettura è di fatto un processo non nuovo. Gehry elabora un metodo che parte da una composizione artistica per approdare ad uno spazio di carattere architettonico. Un riferimento diretto delle ultime opere dell’architetto statunitense è, come egli stesso dice, Umberto Boccioni 208. Tale affermazione è di centrale importanza per ricostruire il mondo figurativo di Gehry e per capire la genesi della forma. Non esiste, tuttavia, solamente un’ispirazione di carattere formale. Il riferimento più profondo è l’adesione all’idea di movimento che Boccioni crea nelle sue opere. In riferimento alla scultura Sviluppo di una bottiglia nello spazio del 1912, è possibile parlare di una stretta connessione all’idea di sviluppo temporale dell’idea spaziale. Ovvero, l’oggetto rappresentato è ideato a partire da un «principio di durata» che van Bruggen fa risalire a Henry Bergson209 e che ricollega il discorso artistico/architettonico a quello temporale di matrice cubista. Certamente il processo di fusione tra architettura e scultura non è semplice. Non si tratta infatti di un’influenza o di un’osmosi, ma di una volontaria unione tra due ambiti diversi. Il procedimento è, allora, rivolto ad estrarre dai limiti di ciascuna disciplina un qualcosa di nuovo e che, però, necessita di nuove modalità di approccio. To say that a building has to have a certain kind of architectural attitude to be a building is too limiting, so the best thing to do is to make the sculptural functional in terms of use. If you can translate the beauty of sculpture into building ... whatever it does to give movement and feeling, that’s where 210 the innovation in architecture is. L’opera di architettura, allora, diventa il crogiuolo di una serie numerosa di esigenze che tendono ad ampliare il concetto di architettura. Riteniamo che l’idea di spazio assuma, in quest’ottica, un valore del tutto particolare. Esso non diventa una conseguenza dell’architettura, ma assume, al contrario, un ruolo primario nella composizione e nell’ideazione dell’oggetto architettonico. Allora, «solving all the functional problems is an intellectual exercise» 211, e la composizione formale assume un’importanza del tutto preponderante 212. La metafora del fiore è sovente presente nelle composizioni di Gehry. Gli edifici sfogliati assumono conformazioni a corolla con caratteri tipicamente scultorei. Il sospetto che questo tipo di approccio possa essere un arbitrio artistico dimenticando gli aspetti più rigorosi dell’architettura, è fugato dal fatto che il progetto ha avuto una gestione assai complessa di tutti le componenti di programmazione e di relazione con il territorio. Citando l’esempio più importante, il Museo Guggenheim di Bilbao, possiamo notare come esso sia una realizzazione molto convincente di progetto in grado di 206 Ivi, p. 119. Richard Serra diviene particolarmente importante nella progettazione degli Uffici nazionali olandesi a Praga (1992-’97). Serra ammette di essere a sua volta stato influenzato nelle sue opere da Casa Lewis a Cleveland (Ohio), progetto del 1989-’95. 208 Coosje van Bruggen, Frank O. Gehry, Guggenheim Museum Bilbao, op. cit., pp. 112-113. 209 Ibid. 210 Ivi, p. 119. 211 Frank O. Gehry, cit. in, ivi, p. 95. 212 Il rapporto tra forma e funzione in Gehry è chiaramente contenuto nel problema delle torri d’ingresso del Museo Guggenheim di Bilbao. Il problema del fatto se queste abbiano una funzione o meno e riguardo la loro eccessiva scala, diviene essenziale per comprendere come Gehry agisca in modo sostanziale sulla funzione simbolica dell’elemento architettonico. Questo aspetto sembra divenire preponderante ed assumere un’importanza fondamentale. La rappresentatività di un oggetto o dell’intera architettura diviene “funzione” al pari dei più tradizionali aspetti sanciti dal pensiero Moderno sull’architettura. 207 rivitalizzare il sistema economico regionale. Per confermare che il progetto di architettura diviene una summa di diverse discipline è opportuno far notare che accanto alle questioni di carattere artistico troviamo una serie molto complessa di studi di management. Attraverso la GESTEC, IBS S.A. e la KPMG Peat Marwick e la Solomon R. Guggenheim Foundation, nel 1992 sono stati inclusi art programming e management service, analisi di impatto economico e demografico e stime assai accurate dei costi tecnici. L’aver insistito sull’importanza degli aspetti artistici del lavoro di Gehry ha una funzione fondamentale. La libertà formale e spaziale che deriva da questo approccio è tale che i risultati presentano una enorme difficoltà realizzativa. In tal modo, lo studio associato di Gehry ha dovuto sviluppare una metodologia di “razionalizzazione” del progetto assolutamente rigorosa ed innovativa basata, appunto, sull’elaboratore elettronico. In relazione al Museo Guggenheim, functional problems of the building are worked out in schematic models in which pragmatic solutions to the building prevail over aesthetic decisions, followed by sculptural study models to and fro leading up to the final scheme. Six main models of the Bilbao project summarize the development phase: 1) the sculptural competition model in a scale of 1:500, made of basswood and paper; 2) the presentation model [...] in a scale 1:200, made of plaster and metal [...]; 3) the schematic design model, in a scale of 1:200, made of wood and metal [...]; 4) the schematic model [...], made of wood and paper; 5) the design model, in a scale of 1:100, made of basswood and paper that Gehry was working on all along from the fall of 1992 until December 1993; 6) [...] a verification model in a scale of 1:100, whose refined, computer generated-shapes derived from the design model were milled out of 213 an industrial foam representing metal and wood blocks standing in for Spanish limestone [...]. La creazione dell’organismo architettonico avviene per modelli successivi, elaborati con diversi materiali ed in scale via via più dettagliate. Solamente nelle fasi finali il progetto viene verificato attraverso l’elaboratore. I modelli (Fig. 66), allora, rappresentano per Gehry il momento principale della creazione dell’organismo architettonico e dello spazio non-euclideo. Anche il disegno è, per il maestro americano, uno strumento effimero, mentre solamente al modello sono demandati compiti più specifici214. Riteniamo questo quadro del processo creativo di Gehry particolarmente significativo per la comprensione del suo particolare spazio. I primi modelli per Bilbao erano fatti di carta. Ritroviamo nella soluzione finale la caratteristica di questo materiale. Più volte abbiamo notato come i più recenti progetti di Gehry avessero la sembianza di corolle di fiori. I paramenti esterni non dimenticano il materiale con cui sono stati ideati. In questo caso, allora, il materiale di formazione dell’idea è determinante per la resa finale, aspetto che influisce in modo decisivo anche sullo spazio interno. La concettualizzazione del modello avviene sempre a piccola sala, della dimensione di una scultura molto intima. «You forget about it as architecture, because you’re focused on this sculpting process» 215. Jim Glymph, il principale collaboratore di Gehry nel settore informatico, suggerisce come il metodo progettuale di questo architetto faccia parte della tradizione americana del creatore/inventore che lavora nel proprio garage 216. Come contraltare di questo empirismo e questa sperimentalità quasi incosciente troviamo una società di progettazione di enorme livello. Per rendere possibile la grande libertà formale e spaziale di Gehry lo staff che si occupa della parte informatica si deve avvalere di un programma estremamente sofisticato chiamato CATIA. Questo software, 213 Coosje van Bruggen, Frank O. Gehry, Guggenheim Museum Bilbao, op. cit., pp. 106-107. Ivi, p. 103. 215 Frank O. Gehry, in Ibid. 216 Ivi, p. 250. 214 inizialmente sviluppato per l’industria aerospaziale francese 217, è un modellatore solido a blocchi. Questo significa che è stato studiato per elaborare forme virtuali tridimensionali attraverso funzioni che rendono estremamente verosimile la forma illustrata a video. Esso agisce esattamente come uno strumento in grado di “scolpire” forme elettroniche attraverso opportune periferiche, quali mouse o tavolette grafiche di varia natura. La gestione del modello virtuale tridimensionale ha effetti di grande verosimiglianza e permette una visione realistica dell’oggetto immaginato. La sua natura “a blocchi” sta a significare che esso è composto da numerosi pacchetti, ognuno dei quali ha specifiche funzioni. È pertanto assolutamente inutile in questo tipo di strumenti possedere l’intero programma poiché, a seconda del gruppo di lavoro, verranno assemblati diversi blocchi che rispondono a determinate esigenze. Il campo dell’architettura e del design, pertanto, necessita di pochi blocchi di CATIA, appositamente studiati per quel settore applicativo. Questo strumento, si sposa molto bene con il processo progettuale di Gehry. Egli, infatti, [...] è solito iniziare a progettare da pochissimi schizzi dell’idea, talvolta anche abbastanza confusi; solo in un secondo momento passa alla costruzione volumetrica utilizzando i materiali più strani ma 218 sicuramente adatti ad esprimere quello che ha in mente. Successivamente il computer e il programma CATIA sviluppa le idee iniziali. Con questi strumenti elettronici, infatti, si può passare direttamente e con estrema facilità dalla costruzione dei plastici di studio ai disegni architettonici e viceversa. Quindi, in sintesi, i modelli scultorei sono da considerarsi, per Gehry, al pari di schizzi iniziali senza i quali la complessità dell’architettura non potrebbe scaturire. Il principio, seppur non originale, è interessante per i risultati. Il processo di generazione dell’idea spaziale non diviene più il disegno ma la scultura (di modellini). Il risultato finale è, ovviamente, influenzato da questo procedimento, denunciando il processo creativo. È possibile quindi affermare che Gehry genera un’architettura scultorea scaturita da un pensiero plastico. Gli spazi non-euclidei che nascono sono frutto non tanto di uno strumento informatico quanto, al contrario, di uno plastico. Indagando più approfonditamente il lavoro di Jim Glymph nello studio Gehry, possiamo dire che egli ha determinato un rinnovamento sostanziale nella pratica esecutiva dello studio. La ricerca da lui condotta [...] ebbe inizio nel settore delle industrie aerospaziali e automobilistiche, le quali progettavano e realizzavano da tempo in tre dimensioni piuttosto che in sezioni stratificate a due dimensioni e, come Gehry, iniziavano un processo progettuale dall’esterno della membrana e procedevano verso l’interno. Infine, lo studio scelse di adottare il sistema Catia di Dassault Systèmes di Parigi, un programma elaborato originariamente per la progettazione di aerei da caccia Mirage, distribuito da Ibm e usato su sistemi Ibm. In studio, le dimensioni dei modelli reali furono digitalizzate con l’uso di un dispositivo laser sviluppato da neurochirurgi per mappare il cranio umano, collegato a un digitalizzatore tridimensionale alto circa due metri. I dati vennero poi inseriti nel Catia e elaborati in termini progettuali 219 e strutturali. Questo ci fa capire come il sistema progettuale consentito dai digitalizzatori e dal programma non agisca più, secondo la tradizione, per piante, prospetti e sezioni, ma per organismi discreti, ovvero aventi continuità strutturale. L’oggetto, allora, è immaginato come entità tridimensionale e come tale è gestito e realizzato. La libertà del software deriva dalla possibilità di modellare facce e volumi architettonici con la massima flessibilità. Come è stato fatto notare, il processo di generazione del 217 Questo programma, non a caso, è utilizzato anche dall’industria automobilistica FIAT per la progettazione del design delle auto e per la realizzazione dei modelli tridimensionali da sottoporre a prove aerodinamiche. 218 Giorgio Romoli, Frank O. Gehry. Museo Guggenheim, Bilbao, Testo & Immagine, Torino, 1999, p. 62. 219 Francesco Dal Co, Kurt W. Forster, Hadley Soutter Arnold, Frank O. Gehry. Tutte le opere, Electa, Milano, 1998, pp. 431-433. modello del Guggenheim, e di altre opere di architettura dell’ultima stagione di Gehry, passa continuamente dall’elaborazione di modellini alla loro traduzione in oggetti virtuali e viceversa. In altre parole esiste un percorso altalenante tra modello fisico ed elettronico. Entrambi questi strumenti servono per la definizione della forma e lo studio dei processi realizzativi. Il dialogo costante tra questi due estremi rende necessario l’utilizzo di apparecchiature che siano in grado di tradurre un oggetto reale in uno virtuale e un modello computerizzato in una scultura fisica. Il programma utilizzato dallo studio di Gehry permette questo attraverso opportuni strumenti hardware. Gehry (e il suo studio) genera decine e decine di modelli e vi opera, per certi versi, come uno scultore. Concepisce in rapidi schizzi e in successivi bozzetti plasma la materia, verifica gli spazi, gli effetti tridimensionali, il gioco dei cavi e dei pieni. Realizzato un modello soddisfacente, si può digitalizzarlo (cioè leggerlo per punti con una penna elettronica) e realizzare un nuovo modello, questa 220 volta elettronico, che sarà la base di migliaia di altre verifiche e modifiche. Una volta realizzato il primo modellino fisico, quindi, esso viene “tradotto” in un modello virtuale grazie ad una penna ottica. Il procedimento è estremamente semplice dal punto di vista operativo. Il modello fisico viene posizionato su una piattaforma munita di sensori ottici capaci di rilevare fonti luminose nello spazio. Una penna ottica munita di una piccola lampadina in punta viene collocata sui punti notevoli del modellino. Attraverso un pulsate, i rilevatori individuano e registrano la posizione di questa lampadina nello spazio fornendo una terna di punti cartesiani di quel determinato punto. L’operazione viene ripetuta per tutti i punti che costituiscono il modello e quindi collegati attraverso comandi software. Quello che si ottiene è uno “scheletro” del modellino fisico tradotto nella memoria del computer (Fig. 67). La grande intercambiabilità tra i modelli virtuali e quelli fisici ha generato un nuovo tipo di progettazione. Se si volesse ricercare un indice per la collocazione storica di questo edificio [il Museo Guggenheim di Bilbao], sarebbe sufficiente considerare l’impiego inusitato di tecnologie computerizzate nella sua realizzazione. Per il museo di Bilbao, Gehry ha utilizzato in pieno il potenziale della progettazione assistita da elaboratore. Tralasciando il suo ruolo ausiliare, lui e i suoi collaboratori hanno utilizzato dei programmi originariamente elaborati per la progettazione di fusoliere di aeroplani ma che, in questo caso, sono serviti da matrice con la quale dar forma a ogni parte e raffinare ogni elemento della progettazione e della costruzione del museo. È stata superata la divisone secolare tra le mani che progettano e gli strumenti che eseguono: le fasi e le tecniche separate di 221 concezione e realizzazione sono state intrecciate in un “loop” ininterotto. Il brano appena citato è molto importante per la concezione di una nuova realtà progettuale che si basa sul rinnovamento metodologico derivato dall’uso del computer. Per questo motivo abbiamo deciso di inserire lo studio dei metodi gehriani in questo scritto. Pur essendo un autore che realizza spazi attraverso modelli fisici, il processo elettronico diviene fondamentale e capace, anzi, di rinnovare la pratica progettuale. In sostanza, quello che accade in Gehry è la perdita di distinzione tra processo immaginativo e processo realizzativo. L’ideazione di un’idea spaziale è strettamente connessa con la sua realizzazione, poiché la tradizionale distinzione tra le diverse fasi è stata compressa in tempi ridottissimi fino a cadere completamente. In making use of the new computer program, the layout process was accelerated and, as sculptural shapes could be computed, a more time-saving, economic way of building was devised, affecting, for instance, the structuring of a steel frame, or figuring out what it takes to fit panels together on a wall. 220 221 Antonino Saggio, Frank O. Gehry, Testo & Immagine, Torino, 1997, p. 74. Kurt W. Forster, Coreografia architettonica, in Francesco Dal Co, Kurt W. Forster, Hadley Soutter Arnold, op.cit., p. 31. The new process could work for both high technology in terms of construction, such as numerically 222 controlled machines, and traditional craft equally well [...]. Le macchine a controllo numerico, allora, possono restituire il modello computerizzato “scolpendo” la materia. Il computer, in altre parole, comanda una fresa che modella legno e altri materiali facilmente lavorabili al fine di creare l’oggetto fisico desunto dal modello virtuale. Così avviene l’interscambio. L’aspetto molto interessante dal punto di vista teorico riguarda il fatto che l’architettura possa essere direttamente derivata da equazioni polinominali 223, generate automaticamente dal computer nella fase di acquisizione del modello fisico con le penne ottiche. Le libere curve scultoree create da Gehry non hanno una matrice matematica; è il computer che, attraverso CATIA, genera strutture matematiche complesse per restituire la complessità del reale. Queste equazioni sono espressive dello sviluppo delle forme dello spazio, restituite attraverso coordinate di punti nella memoria del computer che, uniti, generano le strutture a guscio virtuali del modello tridimensionale. Molti autori hanno sottolineato come il computer per Gehry sia uno strumento indispensabile, non solamente nella concezione della forma e degli spazi. Se questo ruolo è centrale in questa trattazione, occorre sottolineare come gli effetti più pragmatici della gestione del progetto siano vantaggi altrettanto fondamentali ed imprescindibili nei progetti gehriani. Attraverso il computer, si potranno, naturalmente, avere nuove infinite visioni tridimensionali, simulare l’effetto dei diversi materiali, ricavare piante, prospetti e sezioni, studiare contemporaneamente l’insieme e il più minuto dettaglio. Ma un modello elettronico è per sua natura qualcosa di estremamente diverso e più duttile rispetto a uno tradizionale. [...] Vi si potrà modificare un elemento architettonico e verificare simultaneamente l’effetto non solo su tutte le visioni desiderate, ma anche sulla normativa, sul costo, sui calcoli statici, sulle dispersioni termiche. Si potrà verificare quando un materiale, rispetto a un altro, incide non soltanto in tutti gli altri aspetti quantitativi, ma anche come reagisce alla luce naturale o artificiale. Si potrà mandare le informazioni a chi deve costruire l’opera e questi (magari utilizzando frese collegate al calcolatore) potrà realizzare al vero quanto serve. [...] Il modello diventa, in questa 224 accezione, uno strumento per studiare, verificare, simulare, realizzare e in parte costruire. Tale metodo è particolarmente chiaro e sofisticato nel caso del Guggenheim di Bilbao. Esso è stato, tuttavia, utilizzato fin dal 1989 nel progetto Vila Olimpica a Barcellona (Fig. 68). In questo albergo, situato nel villaggio Olimpico, è presente un elemento simbolico di grande importanza nella poetica di Gehry: il pesce. Nella progettazione strutturale del pesce lo studio Gehry impiegò per la prima volta un elaboratore elettronico nel processo costruttivo. A causa dei limiti di budget e di tempo di esecuzione, la ricerca di software e hardware adatti fu dettata dalla necessità di assistere i fabbricanti e le imprese coinvolti nel progetto a costruire la struttura il più velocemente ed economicamente possibile. L’elaboratore non servì come strumento progettuale o di rappresentazione, ma piuttosto per facilitare la produzione, ampliando un processo di progettazione tridimensionale che si era dimostrato adeguato e sufficiente per trent’anni. Benché lo studio Gehry avesse già in precedenza realizzato pesci e altre strutture curvilinee complesse, la loro rappresentazione si era limitata ai tradizionali elaborati grafici bidimensionali. Nella ricerca del mezzo tridimensionale appropriato, lo studio cercò un sistema che gli permettesse di continuare a lavorare con modelli concreti e, al tempo stesso, di specificare alle imprese come realizzare strutture del tutto uniche, demistificando il comportamento materiale, la geometria superficiale e i principi strutturali di curve complesse, in modo che i tempi e il denaro spesi sul progetto riflettessero il costo reale dell’assemblaggio e non i costi associati all’incomprensione. [...] Lavorando in stretta collaborazione con l’impresa su modelli a scala reale della scultura del pesce di Barcellona ed estraendo i dati dal modello computerizzato, furono elaborate delle serie di nodi standardizzati ma flessibili e adattabili alle diverse geometrie e ai diversi angoli di rotazione dei vari componenti. Il database fornì all’impresa la posizione e l’orientamento di ciascun nodo, rendendo 222 223 224 Coosje van Bruggen, Frank O. Gehry, Guggenheim Museum Bilbao, op. cit., pp. 251-252. Ivi, p. 250. Antonino Saggio, Frank O. Gehry, op. cit., pp. 74-75. quella che altrimenti era una struttura complessa relativamente facile da assemblare. Catia fu anche impiegato nella progettazione e nella preparazione degli esecutivi per la Disney Concert Hall ed è 225 rimasto da allora una parte integrante dell’iter progettuale di tutti i progetti successivi. All’inizio, tuttavia, Gehry era restio ad utilizzare tecnologie informatiche all’interno della sua progettazione. The program seemed to limit architecture to symmetries, mirror imagery, and “simple Euclidean geometries”, as Glymph put it, but questions of how to visualize gestural moves resulting in sculptural three-dimensional forms while retaining the immediacy of a sketch, or how to translate them into a 226 very large scale, were unresolved. Gehry si è presto reso conto della necessità e dei vantaggi dell’utilizzo di questo strumento, giustificando successivamente l’adozione con le parole: «I just didn’t like the images of the computer, but as soon as I found a way to use it to build, then I connected» 227. Per voler sintetizzare, come lo stesso Glymph ammette, i vantaggi derivati dall’introduzione delle tecnologie informatiche nel processo di sviluppo gehriano sono [...] the layout porcess was accelerated and, as sculptoral shapes could be computed, a more timesaving, economic way of building was devised, affecting, for instance, the structuring of a steel frame, 228 or figuring out what it takes to fit panels together on a wall. In effetti, i problemi derivati dall’esecuzione di un progetto così grandemente complesso non sarebbero potuti essere superati senza un adeguato controllo delle diverse fasi di progetto, e il Guggenheim di Bilbao non sarebbe potuto essere costruito. Un altro caso interessante è il progetto, non realizzato, del Childrens’s Museum di Boston (Massachusetts) del 1992-’96 (Fig. 69). Il progetto è stato elaborato contemporaneamente al Guggehneim di Bilbao, ma, al contrario di quest’ultimo, presenta una tecnica mista di sviluppo delle forme non-euclidee. Sono stati adoperati vari metodi per documentare le geometrie scultoree del progetto. Le superfici e le forme complesse sono state modellate con l’uso del programma computerizzato Catia e poi trasferite sul Cad per essere usate dall’architetto incaricato degli elaborati grafici esecutivi e della direzione dei lavori, mentre l’onda è stata rigorosamente controllata attraverso geometrie circolari e calcoli manuali tradizionali. Questi differenti sistemi descrittivi hanno riportato l’informazione 229 tridimensionale al formato standard dell’elaborato grafico d’architettura. Analizzando quest’ultima citazione, è lecito domandarsi come mai sia stata fatta una scelta così curiosa. Il brano ci dice che è stato scelto un metodo di sviluppo computerizzato per alcuni settori dell’edificio, mentre per altri ci si è basati su un’elaborazione più tradizionale. Senza indulgere in inutili fantasie alla ricerca delle motivazioni profonde, occorre rilevare come tale approccio abbia dato risultati profondamente differenti. Questo giustifica la tesi che metodi differenti di rappresentazione offrono differenti risultati. Si può infatti notare come l’onda presente sul molo, elaborata con tecniche di rappresentazioni tradizionali, abbia una conformazione decisamente più semplice rispetto ai blocchi deformati immersi nell’acqua. L’onda è costituita da due setti separati e tamponati da una vetrata. Tali curve sono conformate secondo una doppia curvatura. Queste, pur complesse, sono tali da poter essere gestite con un sistema di rappresentazione derivante dalle geometrie proiettive. Ed in qualche modo il risultato finale è espressivo di questa scelta. Questo caso, quindi, è particolarmente interessante poiché 225 Francesco Dal Co, Kurt W. Forster, Hadley Soutter Arnold, op.cit., p. 431-433. Coosje van Bruggen, Frank O. Gehry, Guggenheim Museum Bilbao, op. cit., pp. 251. 227 Ibid. 228 Ibid. 229 Francesco Dal Co, Kurt W. Forster, Hadley Soutter Arnold, op.cit., p. 503. 226 dimostra come la scelta del modo di sviluppare una geometria sia determinate per la soluzione finale. La generazione di uno spazio complesso dipende essenzialmente da come questo è immaginato, ma, soprattutto, dalle scelte metodologiche utilizzate per lo sviluppo della conformazione di queste geometrie. Le forme degli involucri, come facilmente comprensibile, hanno dato vita ad una differente conformazione dello spazio interno. In entrambi i casi essi appartengono alle geometrie non-euclidee, ma se nell’onda questo spazio appare di una certa semplicità e riconducibile ad un luogo definibile dall’immaginazione, l’utilizzo di tecniche computerizzate per la generazione di luoghi di alta complessità, dà come risultato la formazione di uno spazio impossibile da ricostruire mentalmente. Evidentemente questo significa che l’adozione di tecniche computerizzate estremamente sofisticate, amplia l’immaginazione del progettista offrendo la possibilità di concretizzare spazi non ricostruibili dal fruitore con la sua immaginazione se non attraverso uno sforzo plastico di notevole entità. Nel caso di Gehry, ripetiamo, essendo lo spazio derivato da un pensiero scultoreo sulla forma, esso è in qualche modo una conseguenza dell’involucro. Come altrove sottolineato, egli agisce dall’esterno verso l’interno, adottando una pratica compositiva degli involucri che conseguentemente generano spazio. La matrice generatrice è la forma, e lo spazio ne è conseguenza. 3.3. L’architettura nata dalla virtualità. Greg Lynn Greg Lynn è un architetto particolarmente interessante perché rappresenta il prototipo di tutta quella generazione di architetti americani nati negli anni sessanta. L’aspetto generazionale è particolarmente significativo. Come sottolinea Hani Rashid del gruppo Asymptote, questo determina l’appartenenza di questi progettisti ad una scuola diversa rispetto a coloro che, come Eisenman, Gehry e tanti altri, sono in diretto contatto con i “grandi padri” del Movimento Moderno. I giovani, infatti, subiscono in minima parte l’autorità di quei maestri e ne sono, pertanto, indipendenti 230. Il risultato è quello di rivolgersi verso un’architettura parzialmente svincolata dai canoni del Novecento, sforzandosi di trovare una propria strada indipendente. Per questo, in sintesi, è importante sottolineare alcuni temi di riflessione comuni a molti giovani progettisti che, soprattutto nella scuola americana, rappresentano un po’ i nuovi canoni della ricerca architettonica intorno allo spazio non-euclideo. Questi i punti: § perdita della riconoscibilità formale del progetto architettonico o dello spazio del vissuto; § tendenza alla deterritorializzazione, allo sradicamento dell’oggetto architettonico, alla perdita della tettonica, alla mobilità, alla temporaneità e precarietà; § da questo ne consegue una ricerca verso la rappresentazione del movimento e della fluidità nella forma e nello spazio dell’architettura o dell’organismo spaziale; § l’adesione ad una sorta di neo-espressionismo che, pur nell’inesattezza del neologismo, offre chiaramente la volontà di rappresentare forme zoomorfe, fitomorfe od antropomorfe nella esasperazione di una visionarietà formale; § la scelta di trattare la virtualità come uno dei paradigmi fondamentali della ricerca spaziale e formale contemporanea, utilizzandola talvolta come termine esaustivo della progettazione (spazi virtuali), talvolta come momento di inizio per una progettazione che arriva fino all’architettura realizzata; § infine, la scelta di radicare il progetto con il contesto ampiamente inteso, fino a trasformarlo in un oggetto reattivo alle sollecitazioni dell’intorno e, più in generale, dell’informazione. 230 Cit. in Christian Pongratz e Maria Rita Perbellini, Nati con il computer, Testo & Immagine, Torino, 2000, p. 15. È possibile notare come, tra essi, non compaiano assolutamente i precetti funzionalisti del razionalismo. Troviamo, al contrario, riflessioni originali e facenti parte della cultura artistica contemporanea, contaminata dall’influsso che l’informatica ha avuto anche nel terreno dell’arte. Riteniamo che tale novità sia resa possibile, anche, dall’uso dello strumento informatico, il quale necessita di logiche di progettazione assolutamente diverse rispetto alla tradizionale matita. La maggior parte di questi giovani autori utilizza l’elaboratore in tutte le fasi della progettazione, dall’idea concettuale iniziale 231 fino alla gestione del cantiere. Come abbiamo sostenuto per tutto questo scritto, il problema della creazione di uno spazio non-euclideo va oltre la sua possibilità realizzativa. Alcuni progettisti volontariamente scelgono di generare forme che devono rimanere solamente luoghi virtuali. Questa non è una limitazione della capacità di generare luoghi, bensì un “ampliamento” del concetto di spazio. Il pericolo è sempre in agguato. Pur avendo legittimato, con fatica, la possibilità di esistenza e di liceità degli spazi virtuali, è opportuno sottolineare come un pericolo intrinseco derivi dal fatto di produrre solamente immagini suggestive, senza alcuna consistenza spaziale, fisica o virtuale che sia. Questa premessa è indispensabile nello studio del lavoro di Greg Lynn. Egli insegna e pratica la necessità della generazione spaziale fugando ogni suggestione formalista. In questo egli si discosta, come abbiamo visto, dal pensiero di Eisenman che, sovente, utilizza la tecnica dell’estraneamento nella progettazione architettonica, elaborando immagini caotiche e prive di senso fino a condurle ad essere architettura. Lynn nella sua progettazione, impone delle regole al contorno che, in qualche modo, limitano la libertà assoluta che il computer offre. L’elaboratore, allora, è usato per la generazione di forme e modelli e per la definizione di un metodo progettuale diverso, novità resa necessaria dalle nuove pratiche operative dettate dallo strumento. In verità, la complessità dei nuovi ruoli assunti dallo strumento è notevolissima. Lynn, nella ricerca di un metodo progettuale che sia conforme allo Zeitgeist contemporaneo, è conscio del fatto che l’elaboratore riveste un ruolo assolutamente complesso che va al di là del suo essere medium. Esso può essere anche finalità ed elemento generatore di architettura. Questo aspetto è dato dalla natura particolarissima del nostro tempo, basato sull’informazione. Allora, «l’atto di progettare e costruire un edificio crea nuove informazioni»232, e pertanto l’utilizzo del computer è chiamato ad assolvere un compito di generazione di informazioni e non di semplice strumento attuativo. Ma qual è la ragione per cui la tecnologia dell’informazione sta diventando così vitale per l’architettura? [...] L’informazione è la materia prima dell’era attuale, condizione preliminare e basilare per la programmazione, progettazione, costruzione e gestione degli edifici. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione mettono in collegamento tutti i membri di uno studio di 233 architettura durante il processo ideativo e creativo. Anche Schmitt, appena citato, evidenzia un aspetto determinante nel quale, noi, individuiamo un pericolo. Egli, parlando delle fasi operative della progettazione assistita, ammette come l’immersione del soggetto nella realtà virtuale e la sua interazione con i comandi offre una disinvoltura molto elevata nella generazione di forme. Individuiamo la problematica dell’eccessiva libertà formale che diviene arbitrio, perdendo così di vista l’obiettivo della creazione di uno spazio formalmente complesso, oggetto del nostro discorso. Questa pericolosa china porta necessariamente verso la smaterializzazione dell’architettura e l’errore del riconoscere come architettura anche uno spazio virtuale. In verità, il problema non sussiste. Aldo Loris Rossi sottolinea come l’architettura sia 231 232 233 Ivi, p. 18. Gerhard Schmitt, Information Architecture, Testo & Immagine, Torino, 1998, p. 11. Ivi, p. 7. solamente quella dello spazio del vissuto e che il resto è esclusivamente suggestione formale. Occorre chiarire definitivamente una cosa. L’errore è considerare come architettura ogni forma di elaborazione di spazio o di forma effettuata con il computer. Il fraintendimento è confondere quelle azioni intese a generare spazi non-euclidei con le immagini bidimensionali che, pur suggestive ed appartenenti ad una medesima famiglia culturale, non generano alcun tipo di spazio, ancorché virtuale. Parallelamente dobbiamo riconoscere alcuni valori intrinseci della progettazione assistita. È infatti possibile parlare di diversi livelli di astrazione nella progettazione con l’elaboratore. Questo significa che tramite questo strumento è possibile creare architettura in diversi gradi, dall’opera concettuale fino agli aspetti più tecnici. È, in sostanza, una natura molteplice che accresce le possibilità e le interrelazioni tra le diverse fasi creative, rafforzate, in più, da una continuità molto forte tra l’aspetto ideativo e quello esecutivo. Le differenti operazioni avvengono con un medesimo mezzo e attraverso una continuità logica molto forte. Lynn e altri autori della medesima scuola americana, operano generando spazi virtuali e reali che, pur differenti, possiedono caratteri comuni. Questo è vero per un duplice motivo. Il primo deriva da una sorta di riconoscibilità formale tra luoghi fisici e virtuali. Essi nascono, in Lynn, con medesimo strumento e filosofia, pur nella differenza di obiettivi. Il secondo risiede nella natura per così dire logica degli spazi. Spazi astratti della rete Web, spazi non-euclidei virtuali e fisici, possiedono tutti una natura comune che possiamo individuare nel concetto di continuum. La successione dei luoghi virtuali della rete e la continuità spaziale dei progetti tendono a negare lo schema ad albero caratterizzato dai processi logici strutturalisti in virtù di una interconnessione molto più attiva. In altre parole, è possibile dire che l’incrocio “trasversale” tra i diversi ambienti ha abituato il fruitore ad una libertà e a possibilità connettive assolutamente maggiori che in passato. Questo lo ritroviamo anche negli spazi di Lynn e degli altri autori analizzati in precedenza. Quel che più conta nell’analisi di Lynn e delle sue procedure è, tuttavia, l’aspetto formale, da non confondersi con un superficiale formalismo. La decostruzione dell’organismo architettonico, alla ricerca di una forma fluida, flessibile, tanto più corporea e vitale quanto più disorganica, è l’obiettivo centrale della ricerca di Greg Lynn. Liberata dalla rigidità euclidea, la materia si ripiega su se stessa, alla ricerca di quelle linee di involuzione che riconducono l’organismo verso una direzione opposta a quella della differenziazione delle specie, e cioè verso l’indifferenziato, verso il fatto comune [...] fra edificio e suolo, fra geometria 234 architettonica e orografia del terreno. L’aspetto più interessante per l’analisi dell’operare di Lynn risiede nell’importanza del contesto. Il delirio formale non è una gratuita modellazione di materia elettronica, ma, in osservanza a quanto detto, Lynn si impone dei vincoli per la generazione delle forme, regole intrinseche dettate dalla conformazione, dalla natura, dalle dinamiche dell’intorno. Pur nell’anomalia figurativa, la conformazione delle forme prende avvio da dinamiche intrinseche del luogo. L’operazione che Lynn segue per interpretare queste dinamiche risiede nella deformazione topologica. Il concetto, sul quale non torneremo, diviene fondamentale alla luce delle possibilità intrinseche in questo nuovo campo di genesi morfologica. Se alla forma architettonica non è ancora concessa la possibilità di mutazione né la capacità di trasformazione con cui le forme naturali interagiscono con l’ambiente e la sua variabilità, un primo passo per la liberazione della forma dalla sua immobilità è possibile attraverso la deformazione 235 topologica [...]. 234 235 Maria Luisa Palumbo, Nuovi ventri, Testo & Immagine, Torino, 2000, p. 61. Ibid. Questo brano, pur ammettendo l’influenza del contesto sull’architettura, non approfondisce granché la genesi della forma. Non è chiaro se Lynn abbia la volontà di deformare la forma spaziale assorbendo le caratteristiche del terreno o se, come avviene in Günther Domenig, facendo scaturire le forze telluriche dal suolo per poi trasformare la materia. Sicuramente i due procedimenti sono distanti e non paragonabili e, pertanto, occorre indagare più approfonditamente la questione per capirne il senso. Lo studio di alcuni lavori di Lynn ci permette di capire che egli, come Eisenman, parte nella definizione di un progetto da un’idea poetica o concettuale forte e da questa evolve la generazione della forma con il computer. Pertanto è possibile dimostrare che ogni forma di morfologia in Lynn è la rappresentazione di un’idea, sia essa movimento, topografia, spiritualità, o altro ancora. Anche la topologia è solamente un mezzo per poter arrivare alla rappresentazione di quell’idea poetica iniziale utilizzata come spunto concettuale. Così, lo stirare una forma, il piegarla, storcerla, ha l’obiettivo di creare geometrie non-euclidee al limite della rappresentabilità per trasformarle, successivamente, in spazio del vissuto con diversi tipi di tecniche. La forma in Lynn e sempre non-figurativa divenendo, pertanto, informale. Ecco il punto di partenza fondamentale. Per fare questo, però, è indispensabile il computer. Esso è utilizzato per la concezione stessa delle forme e non, come accade in Gehry, per la loro razionalizzazione. Gehry è uno scultore, mentre Lynn è un vero innovatore della metodologia progettuale con l’elaboratore. L’ambiente elettronico è ovviamente assai sofisticato; i segni sono riconosciuti come tali e cioè dotati di un significato che è possibile manipolare nel tempo 236. L’ambiente virtuale diviene una natura fondamentale per la creazione di questo tipo di spazi. Un punto di chiarezza. Lynn è una sorta di figura intermedia tra coloro che creano spazi destinati a vivere nella virtualità e quegli autori che progettano luoghi fisici. Interessante notare come egli si ponga a metà strada tra questi due estremi. Lo spazio di navigazione (virtuale) consiste in un volume chiuso e deformabile (blob), generato da un’unica superficie ripiegata. La forma è creata da un equilibrio fluido tra forze di attrazione e repulsione che agiscono sulla sua superficie. Il risultato, come ogni oggetto topologico, non è comprensibile facilmente. Occorre tirare in ballo una componente di carattere temporale, il cui svolgimento rende la forma percorribile e pertanto esperibile 237. In più, le forme generate topologicamente non presentano inizio e fine ma sono avvolte su se stesse senza alcuna interruzione 238. Se si rivolge solo per un attimo l’attenzione alla matematica, possiamo notare come lo studio delle superfici topologiche di grado tre e quattro ha la facoltà di generare superfici dotate di una sottigliezza del tutto particolare. Se prendiamo una superficie topologica di Hoffmann, possiamo notare come il suo sviluppo possieda tre bucature senza alcuna interruzione tra le diverse superfici 239. Questa proprietà delle superfici avvolte della topologia, ha un corrispettivo di grande interesse in architettura. La continuità di superficie è, in quest’ultimo campo, una delle costanti del Novecento e ad essa Lynn si rivolge. Le risposte date a questo problema fondamentale sono state diverse e l’attuale corrente Cyber ne offre una particolarmente interessante: la stretta fusione tra matematiche superiori e architettura. Un’interpretazione dell’opera di Lynn che non condividiamo riguarda l’uso delle forze primigenie per involvere la forma in qualcosa di non razionale 240. Non notiamo in Lynn questa irrazionalità; questa lettura sembra legare Lynn all’espressionismo e, pertanto, ad una cultura tedesca e austriaca. Lynn è pur sempre figlio dell’ambiente americano e deve la sua concezione dell’architettura prevalentemente all’opera di Eisenman. La ragione la ritroviamo nel fatto che 236 Ibid. Cfr. con Paolo Vincenzo Genovese, Sistemi spaziali pluridimensionali. Il problema del tempo, in «L’Architettura - Cronache e storia» n. 565, novembre 2002, pp. 772-773. 238 Gerhard Schmitt, Information Architecture, op. cit., p. 82. 239 Ivars Peterson, Il turista matematico, Sansoni, 1998, pp. 88-91. 240 Maria Luisa Palumbo, Nuovi ventri, op. cit., p. 62. 237 attraverso le tecniche computerizzate è infatti possibile sostituire alla logica delle forme e delle geometrie precostituite una logica basata sulla simulazione dei processi morfologici che, a partire da un nucleo embrionale, evolvono nella formazione di un organismo. Si tratta, cioè, di sviluppare la capacità di autogenerazione e auto-organizzazione delle forme, in un 241 processo di interazione molteplice con le informazioni che caratterizzano un determinato ambiente. Questo è un primo accenno sul processo del fare spazio attraverso il computer. Abbiamo appena appreso come il processo sia quasi bionico, capace di individuare nello studio di forme naturali un principio organizzatore ed evolutivo di forma. La natura evolutiva comporta la perdita di equilibrio, aspetto perfettamente coerente con la topologia delle forme e la natura temporale dello spazio. Ricollegandosi ai più recenti progetti di Lynn (prodotti tra gli anni 1994 e il 2002), possiamo notare come l’idea di mutazione non sia solamente una metafora per descrivere la morfogenesi della forma. Negli ultimi anni Lynn ha lavorato sul concetto di Animation, un principio poetico che implica movimento e visione. In realtà le definizioni con cui Lynn lavora sono molto sottili e, quindi, preferiamo riportare le esatte parole da lui usate. Animation is a term that differs form, but is often confused with, motion. While motion implies movement and action, animation implies the evolution of a form and its shaping forces; it suggests animalism, animism, growth, actuation, vitality and virtuality. In its manifold implications, animation touches in many of architecture’s most deeply embedded assumptions about its structure. What makes animation so problematic for architects is that they have maintained an ethic of statics in their discipline. More than even its traditional role of providing shelter, architects are expected to provide culture with stasis. Because of its dedication to permanence, architecture is one of the last modes of thought based on the inert. Challenging these assumptions by introducing architecture to models of organization that are not inert will not threaten the essence of the discipline, but will advance it. Just as the development of calculus drew upon the historical mathematical developments that preceded it, so too will an animate approach to architecture subsume traditional models of statics into a more advanced system of dynamic organizations as subset. The uses for an animate approach to architecture might be in its conception and design while more conventional tools remain in force for modelling and fabrication. Traditionally, in architecture the abstract space of design is conceived as an ideal neutral space of equivalent Cartesian coordinates. In other design fields, however, design space is conceived as an environment of forces rather than as an inert neutral vacuum. In naval design, for example, the abstract space of design is imbued with the properties of flow, turbulence, viscosity and drag so that particular form of a hull can be thought of in terms of in terms of its motion though water. [...] An ethic of motion neither implies that architecture must be literally moveable, nor does it preclude actual motion. The contours and profiles of form can be shaped by collaboration between an envelope and the active context in which it situated. While physical form can be defined in terms of static coordinates, the virtual force of the environment in which it is designed should also contribute to its shaping. In this way, topology allows for not just the incorporation of a single moment but rather a 242 multiplicity of vectors and therefore a multiplicity of times, in a single continuous surface. La nozione di «animation» diventa il punto di riflessione intellettuale sulla generazione di forme topologiche dotate di grande complessità. Quello che intendiamo sottolineare è come la riflessione matematica, trattata nelle precedenti pagine, non sia distinta dalla pratica progettuale con l’elaboratore. Se si affiancano le curve di Hoffmann alle architetture di Foreign Office Architects, troviamo una sostanziale corrispondenza. In Lynn questo è particolarmente interessante poiché è il metodo a divenire fondativo di una nuova relazione tra progettista e strumento informatico. La nozione di forma diviene evolutiva, nel senso di costruzione derivata da sollecitazioni dinamiche, facenti riferimento a matrici organiche di crescita di forma. Lynn possiede “una marcia in più” rispetto ad altri architetti analizzati. Come sarà possibile confrontare nel paragrafo successivo in relazione all’opera di Eisenman, Lynn pensa sempre all’architettura, ovvero all’opera realizzata o realizzabile. 241 242 Ibid. Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), ArchiLab , Thames & Hudson, London, 2001, p. 258. Eisenman assume una posizione più programmatica e fortemente orientata verso la costituzione di una teoria filosofica. In Lynn la forma dinamica crea architettura e non solamente spazio astratto. Uno dei metodi che Lynn utilizza per realizzare queste opere è quella del morphing. Questa tecnica, presa in prestito dall’industria cinematografica, consente il passaggio da un’immagine ad un’altra completamente diversa senza che il passaggio soffra di alcun salto. È, quindi, una sorta di metamorfosi della forma che risulta particolarmente interessante per la nostra trattazione. Come nota l’ambiguo Marcos Novak, uno dei punti essenziali di passaggio culturale nella tecnica della rappresentazione dell’architettura è l’uso della tecnica morphing che ha sostituito il vecchio collage 243. In realtà, questa nota sulla tecnica morphing è molto importante. La trasmutazione di un elemento figurativo in un altro comporta un cambiamento decisivo nella cultura figurativa contemporanea. Quello che il cinema degli ultimi anni ci propone è una raffinata serie di sequenze che propongono allo spettatore il continuo mutare di forme le une nelle altre. Il risultato è di aver ottenuto una capacità figurativa estremamente flessibile nell’immaginario collettivo, cosa che ha influito in modo determinante sulla cultura iconografica degli ultimi anni. Accanto ai vari pupazzi futuribili alla Terminator, si è creata una capacità di comprensione figurativa molto flessibile e basata sulle forme fluide 244. Allora diviene comprensibile come si attiva il processo progettuale di Lynn. Egli utilizza la trasmutazione delle forme per generare spazio. Questo, pur nella estrema libertà linguistica, è sempre realizzabile, aspetto che lo distingue nettamente da altri autori quali Karl Chu. Nel caso del progetto di concorso per il Port Authority Gateway del 1995 (Fig. 70), è interessante notare gli aspetti generativi della forma. Il tema è costituito dalla realizzazione di una pensilina per autobus, collocata nei pressi di una grande arteria stradale nella città di New York. The site was modelled using forces that simulate the movement and flow pedestrians, cars and buses across the site, each with differing speeds and intensities of movement along Ninth Avenue, 42nd and 43rd streets and the four elevated bus ramps emerging from below the Hudson River. These various forces of movement established a gradient field of attraction across the site. To discover the shape of this invisible field of attraction, Lynn introduced geometric particles that change their position and shape according to the influence of the forces. From the particle studies, he captured a series of phase portraits of the cycles of movement over a period of time. These phase portraits are swept with a secondary structure of tubular frames linking the ramps, existing buildings and the Port Authority Bus Terminal. Eleven tensile surfaces are stretched across these tubes as an enclosure and projection 245 surfaces. Come appare chiaro, il processo generativo delle forme è di natura dinamica. Sembra che Lynn abbia cristallizzato differenti flussi di movimento dando forma all’architettura. La forma nasce dal movimento. Analizzando le immagini che corredano questo scritto, scopriamo qualcosa di più. Alcuni rendering mostrano una serie di sfere che, rimbalzando, formano un percorso. Questa forma temporalizzata, ovvero generata da una particella elementare “fotografata” in istanti successivi, diverrà poi l’andamento delle strutture tubolari. Il processo, allora, è semi-automatico. Lynn, attraverso l’elaboratore, offre un comando di espulsione di una pallina soggetta a moto elastico. I rimbalzi stabiliscono la forma finale. Ritroviamo quanto riportato in precedenza sul metodo di Lynn. Egli opta per una libertà controllata, una libera generazione di forme limitata da regole ben precise. In questo caso le regole sono stabilite dalla necessità di basarsi sulla contemporanea presenza ed armonizzazione di diversi flussi di movimento, mentre l’aspetto più visionario è dato dall’accettazione della forma finale, assai libera ed espressiva. Occorre citare, 243 Marcos Novak, cit. in Christian Pongratz e Maria Rita Perbellini, Nati con il computer,, op. cit., p. 17. Per ampliare questa idea di architettura fluida cfr. con Paolo Vincenzo Genovese, Concetti fluidi e architettura liquida, in «L’Architettura - Cronache e storia», n. 563, settembre 2002, pp. 626-627. 245 Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), ArchiLab , op. cit., p. 260. 244 solamente come accenno, ad una teoria matematica soggiacente a tutto questo. La matematica stocastica si occupa di sviluppi caotici all’interno di un range limitato. Il caos assoluto è privo di interesse, mentre presenta un alto grado di veridicità lo sviluppo delle possibilità casuali in un sistema governato da numeri finiti e da limitate possibilità combinatorie. Lynn fa esattamente questo: pone libertà in sistemi limitati, solo parzialmente governati dall’arbitrio. La coordinazione di condizionamenti di forze esterne fra loro dissimili sono gli input per formare, attraverso software creati per l’industria cinematografica e per l’animazione, un’architettura dinamica e flessibile, grazie ad un processo animato di progettazione formale 246. Lynn, al contrario di Eisenman, è convinto che il computer non abbia facoltà di creare alcunché indipendentemente dalla volontà dell’uomo, il quale rimane l’ultimo artefice dell’architettura. L’elaboratore è allora un medium e nulla più. Il metodo progettuale di Lynn [...] può essere inteso come la presenza combinata di due caratteristiche fondamentali: per prima cosa, l’impiego di una metodologia progettuale che procede secondo una dimensione temporale e parametri sperimentali non lineari; in secondo luogo, la necessità di controllare e guidare i sistemi 247 organizzativi [...] nei loro processi spesso imprevedibili di trasformazione, mutazione e crescita. Queste brevi descrizioni del lavoro applicativo di teorie architettoniche contemporanee dimostra come il processo stesso di creazione di un’architettura si avvicina idealmente all’applicazione di strumenti 248 e metodi astratti. È semmai la sintesi con gli aspetti funzionali che rende l’opera di Lynn un caso particolarmente significativo della progettazione contemporanea. In realtà questo sistema fortemente integrato tra processi automatici e creativi non è assolutamente nuovo. Nel 1967 Nicholas Negroponte aveva fondato un laboratorio (l’Architecture Machine Group) con l’intento di riformare il processo di progettazione architettonica attraverso l’associazione di uomo e macchina 249. Questo progetto, poi degenerato in una sorta di “programma Cyber”, ha dimostrato i suoi limiti. Infatti ha tramutato l’intento iniziale nella ricerca di possibilità di connessione tra corpo, architettura e informazione. Questo aspetto, pur visionario, riconduce la ricerca di Negroponte con le sperimentazioni di Anton Marcus Pasing analizzate in precedenza. Tale approccio, seppur risibile negli aspetti più estremi, presenta una interpretazione interessante. È infatti possibile pensare che questa relazione intenda esaltare l’individualità della persona (o ad individualizzare la macchina) all’interno della progettazione architettonica assistita. In altre parole questo significa che i processi standard di progettazione CAAD o modellatori solidi hanno la tendenza a cucirsi addosso al fruitore per creare un prodotto software in “simbiosi” - per quanto minima - con l’utente. Esiste, quindi, una informatizzazione del corpo e dello spazio. Ciò è un’affermazione molto importante nell’economia della nostra tesi. Questo ragionamento ci porta a pensare che, attraverso i processi di fusione e di interattività tra uomo e macchina, si possa arrivare ad una contemporanea “umanizzazione della macchina” e ad una “informatizzazione della natura umana”. Pertanto lo spazio virtuale (di qualunque natura esso sia) non diviene un sistema astratto e lontano dalla capacità sensibile umana. Esso è un nuovo tipo di comprensione che si viene ad aggiungere a quelli esistenti. Tali affermazioni non sono apologetiche di un sistema che, personalmente, condividiamo solo in parte. È, semmai, l’accettazione di un mondo nel quale persone in totale buonafede credono fermamente. Il nostro compito, allora, è quello di registrare un evento e di porlo in chiave critica. Siamo 246 Christian Pongratz e Maria Rita Perbellini, Nati con il computer, op. cit., p. 45-46. Ivi, p. 46. 248 Gerhard Schmitt, Information Architecture, op. cit., p. 6. 249 Cfr. con Nicholas Negroponte, Soft Machine Architecture, MIT Press, Cambridge, 1975. 247 convinti che sia assolutamente impossibile ideare sistemi esperti in grado di generare architettura in modo automatico. Anche i cosiddetti “sistemi esperti” - cioè quelli capaci di svolgere funzioni diverse rispetto a quelle per cui sono state programmate - sono per il momento estremamente limitati. In un saggio fondamentale sull’intelligenza artificiale, anche Douglas Hofstadter sancisce l’attuale impossibilità di ideare programmi di intelligenza artificiale forte, ovvero capaci di operare in ambiti complessi. Nell’analisi delle tattiche belliche di Sun Tzu, Thomas Cleary estrapola un principio fondamentale del Tao, a cui lo stratega cinese si riferisce. Egli afferma che la non-forma e la fluidità sono strumenti per preservare il potenziale dinamico, l’energia; questa verrebbe cristallizzata, morendo, se assumesse una forma definita. La forza è paragonata all’acqua che, come osserva il TaoTe Ching, non avendo forma precisa prevale su ogni cosa a dispetto dell’apparente cedevolezza. Sun Tzu scrive: “La forza non ha schieramento costante, l’acqua non ha forma costante. La capacità di assicurarsi la vittoria cambiando 250 e adeguandosi al nemico è chiamata genialità”. Questo parallelo con la cultura cinese è di fondamentale importanza per comprendere la natura di alcuni recenti lavori di Greg Lynn. A partire dal 1998, Lynn ha iniziato alcune sperimentazioni che, altrove, abbiamo chiamato Blob Architecture. L’aspetto esteriore è quello di bolle di materia informe che assumono forme bizzarre nello spazio. Lynn utilizza queste sperimentazioni per riflessioni su cellule abitative variabili nella forma e nella dimensione. La ricerca è rivolta alla formazione di unità base ripetibili ma sempre diverse. L’idea della serie variata, così importante nel design, è qui applicata all’architettura. Un elemento base viene deformato, creando una serie pressoché infinita di possibilità formali e aggregative. Lo spazio abitato nasce dalla realizzazione fisica di queste forme. Il concetto Tao di assenza di forma è centrale in questo ambito. L’importante non è tanto il risultato, quando il processo per arrivare ad essa. Rispondendo alla necessità di analizzare i metodi di formazione dell’idea, occorre approfondire di più le modalità operative sulla forma. Una massa di materia elettronica viene posta nell’ambiente virtuale (Fig. 71). Questo è disseminato con una sorta di “punti pesanti” capaci di attrarre secondo diverse forze le figure iniziali. I nodi iniziano ad interagire fra loro, secondo una forza gravitazionale a loro conferita. Come è facilmente comprensibile le interazioni possibili sono infinite. Le forze attrattive deformano le figure iniziali, le quali, a loro volta, influenzano la disposizione dei punti pesanti in una sorta di azione e retroazione. I nodi si fondono e si alterano a vicenda e le figure sono deformate secondo combinazioni infinite. Il programma di lavoro approda alla creazione dello studio di unità abitative. L’elaborazione formale non è fine a se stessa come avviene nelle monadi di Chu. L’obiettivo è quello di arrivare allo studio di sistemi di prefabbricazioni in serie variata. I pannelli che formano le diverse soluzioni sono stati studiati per essere di unica forma e dimensione, ma assemblati in modo infinitamente vario. L’apertura di porte e finestre avviene esclusivamente attraverso una distorsione topologica in modo tale che non si debba tagliare la superficie precedentemente formata. L’approfondimento su Lynn deve necessariamente chiudersi con una riflessione sulla New York Presbyterian Church, progetto iniziato nel 1999 e terminato negli ultimi mesi del 2001 (Fig. 72). Anche se il risultato formale non è allo stesso livello dei precedenti progetti, presenta alcuni elementi di notevole interesse che convalidano gli aspetti più teorici e coraggiosi dell’opera di Lynn. La composizione è basata su una serie di piegature si superfici topologiche che sono state precedentemente richiamate in questo scritto. L’importante è riflettere ora sui processi generativi. Lynn, qui, lavora accanto ad altri tre autori, Michael McInturf e Garofalo Architects. 250 Thomas Cleary, Introduzione, in Sun Tzu, L’arte della guerra, Ubaldini Editore, Roma, 1990, p. 27. Along with the constant flow of information via simple email programs with attachments, the three architects envisioned the project with the aid of animation software. This allowed the architects to define coordinates and surfaces in motion-based environments, where time is a factor. Core volumes were defined using an early “blob modeler” software (no longer on the market), and subsequently aggregated into a singular surface, generated from the interacting subunits. The resulting virtual model was thought of as “live” for practical reasons: as the parameters of the project changed (budget, material, client needs), the three architects could easily modify the scheme without sacrificing the 251 initial ideas. Ogni forma di progettazione che Lynn intraprende parte, allora, da quelli che potremo definire sistemi semi-automatici di generazione della forma. Ciò sta a significare che, pur parzialmente indipendente dalla volontà del progettista, la forma finale dell’architettura è composta con una perfetta consapevolezza creatrice da parte dell’autore. In questo senso possiamo dire che Greg Lynn è a metà strada tra lo stampo modernista di Gehry nella creazione della forma (intendendo con ciò un uso consapevole della creatività) e alcuni aspetti inconsapevoli nell’opera di Eisenman, ottenuti grazie ad un uso estremo dell’elaboratore nel processo progettuale. 3.4. La generazione automatica degli spazi non-euclidei. Peter Eisenman Nell’indagine sulle modalità di progettazione degli spazi non-euclidei attraverso l’uso del computer, un posto del tutto particolare va riservato a Peter Eisenman. Ci siamo più volte soffermati su questo autore nei capitoli precedenti; questa è l’occasione per approfondire di più i processi metodologici che egli utilizza per creare le sue opere. Occorre non dimenticare che Eisenman parte sempre da un’elaborazione intellettuale altamente filosofica. Anticipando alcune conclusioni, è possibile dire che i suoi progetti sono essenzialmente realizzazioni di un’idea astratta o, in altre parole, la sua architettura tende a “dimostrare” un’operazione intellettuale. Fondamentale, per comprendere questi ambiti di pensiero, è il fatto che Eisenman tenda ogni volta a reinventare la metodologia progettuale. Non desideriamo dare giudizi di valore su questo approccio; certamente il metodo filosofico è estremamente complesso e denso di risultati teorici di grande rilievo. Un aspetto poco convincente che tendiamo a rilevare un po’ in tutti i suoi progetti è la loro estrema astrattezza. Questo accade soprattutto nei lavori non realizzati, ma anche nelle opere architettoniche il risultato non sfugge quasi mai ad una sorta di programmaticità, di inconsistenza che tende a lasciar sullo sfondo il senso materiale dell’architettura: essa, quindi, sembra l’applicazione di una teoria. Negli anni più recenti, Eisenman ha utilizzato un sistema concettuale basato, con sfumature diverse, sulla teoria della complessità 252. Per lui, la complessità diviene un sistema di espressione, più che un semplice ambito culturale e di pensiero 253. Questo significa che, secondo una formula estremamente celebre e rivoluzionaria, il medium è il messaggio254. Egli non utilizza questa teoria per trarre spunti concettuali per un’elaborazione filosofica al servizio dell’architettura. In qualche modo tende a confondere fini e mezzi e a rendere espressiva la teoria stessa. Essa, altresì, si giustifica da sé, è sistema di espressione e non ambito di interpretazione. Questo rende l’approccio di Eisenman radicalmente polemico. L’architettura e l’urbanistica non solo sono affrontati in termini complessi, ma, ancor più, vengono decostruiti nella loro essenza; queste discipline si evolvono su se stesse e si rinnovano distruggendo di volta in volta il traguardo 251 Peter Cachola Schmal (a cura di), DigitalReal, Birkhäuser, Basel-Boston-Berlin, 2001, p. 113. L’argomento, oramai celebre, non ha bisogno di approfondimenti. Basti in questa nota ricordare alcuni dei testi fondamentali per la comprensione dell’argomento. In particolare: Mario Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano, 1997; Daniel Pierre Bovet e Pierluigi Crescenzi, Introduction to the theory of complexity, Prentice Hall, New York [etc.], 1994. 253 Luca Galofaro, Eisenman digitale, Testo & Immagine, Torino, 1999, p. 18. 254 Cfr. con Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1999. 252 raggiunto 255. La pratica della decostruzione è in Eisenman radicale. I sistemi di evoluzione concettuale che fondano il proprio pensiero critico su processi non lineari 256 e persino arbitrari. In generale Eisenman non configura luoghi o architetture. Egli si rivolge alla creazione di spazi (da qui il nostro particolare interesse) che non sono direttamente rivolti alla creazione di luoghi per l’abitare, bensì sono materializzazioni di idee e concetti astratti. Questa soluzione è per Eisenman l’espressione della complessità di uno spazio257. In qualche modo, possiamo affermare che la sua è architettura concettuale, ovvero progettazione rivolta alla realizzazione non di opere significanti in sé, bensì facenti parte di un sistema teorico che diviene principale per la comprensione del lavoro. Egli fa propri i temi dell’arte concettuale che prevede l’attività dell’artista essenzialmente come lavoro intellettuale, e la cui realizzazione non aggiunge alcunché di significativo. Eisenman giustifica questo approccio con la perdita progressiva di materialità del mondo contemporaneo, atteggiamento che abbiamo osservato e tentato di verificare nei capitoli precedenti 258. Il processo fondamentale di quest’era consiste nella dissoluzione degli oggetti: essi perdono materialità e si trasformano in informazioni che, dopo essere state trattate, si traducono in una nuova 259 materialità, nuovi oggetti. Come verificato in altri autori, e come ci hanno confermato le parole di Luca Molinari utilizzate come critica alla Cyber-achitettura 260, è possibile dire che il sistema della visione rappresenta un momento particolarmente significativo per comprendere questo genere di sperimentazioni. Essa, infatti, non è limitata ad una pura comunicazione di contenuti, ma sovente incarna il significato. La rappresentazione coincide con i contenuti. La forma (architettonica) è sempre stata legata al significato che deve avere l’architettura. Questo legame appare oggi mutato. Il significato sembra essere stato sostituito dagli strumenti della comunicazione, ostacolo al discorso simbolico e significante 261. La visione, per Eisenman, è [...] il sistema di relazioni che definisce le condizioni tipologiche dell’architettura, ed è il modo di definire una relazione fra un soggetto e un oggetto, un modo di organizzare lo spazio e gli elementi di 262 uno spazio. Seguendo una lettura semiologica, è possibile affermare che «il meccanismo della visione forma l’architettura e la sua rappresentazione». Una delle contraddizioni che Eisenman coglie nel contemporaneo riguarda la sopravvivenza della forma di rappresentazione prospettica. Essa, quindi, condiziona in senso negativo la visione, relegando lo spazio e l’architettura in canoni rinascimentali oggi inadeguati. La prassi di rappresentare lo spazio su una superficie bidimensionale ha influenzato la prassi architettonica tanto da imporre un’organizzazione spaziale intorno ad assi, punti e simmetrie263. La teoria di Eisenman, allora, è rivolta a rifondare i modelli di visione dello spazio. Se uno dei punti di maggior rinnovamento viene dall’introduzione della quarta dimensione temporale all’interno del sistema di concezione spaziale, Eisenman cerca di attualizzare tale visione al sistema culturale contemporaneo. Per fare questo, egli introduce la virtualità. «Il suo manipolare le forme si realizza attraverso lo spazio e non attraverso la materia inerte» 264. Le logiche 255 Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 22. Ibid. Ivi, p. 58-59. 258 Cfr. Cap. 2, parte prima, di questo scritto. 259 Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 59. 260 Cfr. Cap. 2.2., parte prima; in particolare vedasi nota 145. 261 Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 10. 262 Ivi, p. 70. 263 Ibid. 264 Ivi, p. 18. 256 257 sono antigerarchiche e tese alla dissoluzione del monocentrismo di carattere prospettico. Qui ritroviamo un concetto fondamentale di ripiegatura di cui abbiamo già parlato in precedenza. Lo spazio ripiegato costruisce un nuovo rapporto fra orizzontale e verticale, figura e piano, interno ed esterno. L’idea di spazio ripiegato si sottrae all’inquadramento e punta invece su una modulazione temporale. Lo spazio ripiegato non privilegia più la proiezione planimetrica, ma si traduce in un 265 curvatura variabile. Sull’idea di piegatura, Eisenman ha composto alcuni dei più recenti progetti con esiti davvero interessanti, in particolare lo Staten Island di New York 266. Ogni scelta, i risultati spaziali sono obiettivamente antigerarchici, anche se il risultato finale non riesce mai a raggiungere la consistenza dell’architettura. Di certo, questa composizione è per la nostra trattazione fondamentale, poiché ragiona in termini assai propositivi sul concetto di spazio, uno spazio ripiegato appunto. Insistiamo su questi aspetti teorici perché tutti fanno parte di una metodologia estremamente importante della creazione. Basta infatti approfondire le procedure di analisi che l’architetto americano utilizza per lo studio dei frattali e del DNA come strumenti di generazione di spazio per comprendere come egli intenda rifondare la procedura operativa di ideazione di luogo 267. Se la concezione razionale dell’architettura ha dominato l’approccio progettuale del Movimento Moderno, in questo caso Eisenman si rivolge alle conquiste attuali della scienza e della biologia molecolare. Ma Eisenman và anche oltre. Egli supera le operazioni booleane di composizione di forma. All’algebra di Boole si sostituisce una geometria biologica268. Il DNA e i frattali assumono nel loro sviluppo casuale una metodologia di funzionamento del sistema di relazioni progettuali e di generazione di uno spazio. L’interesse è verso la ricorsività e la molteplicità. Egli dimentica lo stato perfetto dell’essere per rivolgersi a quello imperfetto del divenire 269. Ancora una volta riconduciamo questo paragrafo alla pratica del fare. Eisenman in questa stagione creativa opera, attraverso la poetica del DNA e dei frattali, attraverso tre procedure operative: replica, trascrizione e translazione. Il risultato si trova nella progettazione dei Laboratori Biologici dell’Università Goethe di Francoforte sul Meno del 1987 (Fig. 73). Su una spina centrale, egli articola geometrie complesse che si sviluppano a “U” e a “V”. Essa è una vera e propria metodologia di sviluppo. Aderendo allo sviluppo biologico, egli indica «[...] la regola della futura crescita dell’organismo [...]» 270 ed elabora le necessarie eccezioni. La metafora biologica è, quindi, una metodologia operativa analoga al procedimento bionico, ma basato su operazioni intellettuali più funamboliche e concettuali. In realtà, non siamo di fronte ad un vero e proprio metodo progettuale. Il compito dello studio Eisenman è, dapprima, quello di ricercare di volta in volta possibili significati da cui far scaturire il progetto. Davanti ad un compito di carattere architettonico, il processo di progettazione inizia da molto lontano. La ricerca avviene in libri, architettura locale e quant’altro. Tutto si tramuta nella ricerca di soluzioni di carattere teorico che dovrebbero indicare una nuova metodologia progettuale. In sostanza, siamo di fronte ad un problema di traduzione271 in cui l’apparato teorico desunto dalla cultura del luogo viene ad essere trasformato in processo di progetto. Solo successivamente a questa parte teorica l’attenzione si concentra sulla questione della localizzazione. I modelli dell’area sono sia strategia conoscitiva e sia strategia creativa. Non è un’operazione meccanica di supporto, bensì costituisce un momento fondamentale di ogni fase di progetto. 265 Peter Eisenman, Vision Unfolding: Architecture in the Age of Electronic, in «Domus», n. 734, gennaio 1992. Cfr. la descrizione del progetto nel Cap. 2.2., parte prima. 267 Cfr. con Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., Antonino Saggio, Peter Eisenman, Testo & Immagine, Torino, 1996 e soprattutto il difficile scritto Peter Eisenman, Diagram Diaries , Universe, New York, 1999. 268 Antonino Saggio, Peter Eisenman, op. cit., p. 47. 269 Ibid. 270 Ibid. 271 Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 27. 266 L’elaborazione attraverso il computer è, in verità, un’estensione di questo procedimento. Il modello informatico è da considerarsi al pari di un modello di studio e capace di portare senso all’architettura. È fondamentale analizzare il processo (certo concettuoso e forse inutilmente complicato) di progettazione attraverso l’elaboratore. Se Gehry agiva con il computer come strumento di traduzione dell’idea scultorea in ambito virtuale, Eisenman lo utilizza come elemento dotato di imprevedibilità. Il computer offre soluzioni impreviste ampliando le possibilità creative. Questo, per Eisenman, potrà cambiare lo spazio in cui viviamo272. Progettare con il computer tramuta il processo dal «disegnare assi» al «disegnare vettori». Questi hanno la capacità di esprimere concetti e modellare spazio, attraverso un processo spesso imprevedibile 273. [...] La macchina trascrive i vettori aggiornando i parametri temporalmente, legandoli fra loro e raggiungendo traguardi espressivi inaspettati. Nel progetto per una casa virtuale, per esempio, s’individua come sito di progetto un campo a intensità variabile. La condizione del campo è un assemblaggio di punti e linee, i cui contorni risultano da un’azione-reazione di vincoli interni prodotti dalla macchina. Con queste condizioni si produce la figura in relazione ai vettori e al tempo. [...] Nella quotidianità della progettazione il dialogo avviene fra due differenti modelli di sviluppo progettuale; i modelli tridimensionali sono costantemente prodotti, ma sempre dopo la concettualizzazione, che avviene al computer in un processo di affinamento continuo. Il computer diventa la materializzazione del pensiero, che è ancora lontano da una possibile realizzazione 274 architettonica, ma che necessita di essere visualizzato [...]. Il passo appena citato, descrivendo i processi creativi (peraltro un po’ oscuri) di Eisenman, risulta essere particolarmente interessante perché suggerisce alcune regole procedurali nella prassi operativa dell’architetto americano. Il computer diviene strumento che suggerisce possibili soluzioni. Esso è capace di suscitare sorpresa nel progettista, relegato al ruolo di co-autore dell’architettura. Non occorre soffermarsi eccessivamente sulla descrizione di questa particolare operazione concettuale. Ciò che è importante rilevare è il metodo operativo con il computer. Il comEsso appartiene ad un nuovo modello di pensiero e anche le opere che possono scaturire posseggono una nuova tipologia di possibilità. In altre parole, le opere generate con l’ausilio del “computer creatore” hanno una natura diversa da quella tradizionale. Il computer può inserire alcuni elementi di disturbo che alterano la volontà iniziale (e le possibilità) del progettista. La macchina pone vincoli, indipendenti dalle condizioni iniziali; con essi il progettista interagisce. La domanda ora è: come mai introdurre vincoli aggiuntivi a quelli già imposti dalla normale pratica edilizia? La risposta non è chiara, né contenuta negli scritti di Eisenman o in altre trattazioni. Posso qui suggerire un’ipotesi. Il computer, come nuovo strumento, genera pratiche operative di nuovo tipo capaci di ideare, per Eisenman, un nuovo mondo e nuove modalità interpretative della realtà. Il generare vincoli, quindi, da parte del computer può essere letto come necessità di stabilire inedite regole di composizione, nelle quali i vincoli reali sono sostituiti da quelli virtuali imposti dalla macchina come arma per eludere la libertà assoluta nella composizione . Tale interpretazione è confermata anche da un altro aspetto della filosofia di Eisenman. Il computer è destinato a rivoluzionare il sistema di visione. Una buona definizione è quella che stabilisce la visione come un processo per mezzo del quale un soggetto ha una rappresentazione del mondo situato davanti ai suoi occhi 275. Senza entrare nei dettagli di questo processo, Eisenman, giustamente, sottolinea come il processo di visione sia stato sostanzialmente alterato dall’introduzione dello strumento informatico. Infatti, in ambito architettonico, la visione è il modo di definire le relazioni fra un soggetto e un oggetto , un modo di organizzare lo spazio e gli elementi 272 Ivi, p. 59. Ibid. 274 Ibid. 275 Voce «Visione», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit. 273 dello spazio 276. Il modello informatico, in qualche modo, porta alle estreme conseguenze la teoria benjaminiana di riproducibilità. Il filosofo berlinese per primo colse il carattere della nuova sociologia dell’arte nella società di massa. La perdita dell’«aura» (ossia del venir meno della qualità magico-rituale del prodotto estetico) fa sprofondare ogni opera estetica in oggetto di consumo in quando perde il suo carattere di unicità. Una conseguenza più sottile della mera riproducibilità è da considerarsi nell’abitudine alla visione 277. La moltiplicazione di un’immagine o di un oggetto avvilisce l’impatto emotivo che, soggetto ad una continua sollecitazione, perde il carattere di rarità per uniformarsi a quello di omologazione. Se questo è vero nell’ambito artistico e nella società moderna, la questione informatica ha posto il problema su scale sostanzialmente diverse e di portata ben più vasta. Come sottolinea Galofaro, anche la visione segue i processi di perdita dell’«aura» evidenziati da Benjamin. Nella visione, l’interazione tra uomo e oggetto si svaluta; [...] Il paradigma elettronico svaluta l’originale, produce la copia, creando nuovi parametri, un nuovo 278 modo di interpretare e leggere la realtà. La riflessione di Eisenman è riguardo alla natura della percezione attraverso i media. Egli sottolinea la differente natura della percezione della realtà: i media mettono in forse il come e il cosa noi vediamo. 279 In base a questa affermazione di Eisenman, riteniamo il suo contributo fondamentale per la nostra trattazione. In effetti, egli coglie fra i primi il problema della nuova natura della visione nell’epoca informatica. Il senso di spazio che ci ha accompagnato per tutto questo scritto non è più limitato alla percezione del fisico, ma estende, al contrario, il suo influsso anche al virtuale. Eisenman pone le basi per un’apertura del sistema percettivo anche a ciò che fisico non è, collocandolo sullo stesso livello del primo termine e considerandolo anch’esso come reale. L’aspetto rivoluzionario è in Eisenman molto forte. Egli dipinge il passaggio all’epoca informatica con i toni di un profeta e, pertanto, lontano dall’asciuttezza e dalla credibilità dello studioso. Ecco perché le sue parole devono essere prese con una certa cautela. Nonostante la visionarietà delle sue parole, ritengo valide alcune implicazioni contenute nel suo lavoro teorico. Eisenman ci conduce all’idea che il computer altera le realtà oggettive trasformandole in qualcosa di nuovo del tutto differenti da ciò che è conosciuto, aprendo nuovi orizzonti all’immaginazione. Azzardiamo ad una conclusione parziale. Se Gehry concepisce il computer come strumento al servizio della realizzazione, Eisenman lo vede come strumento filosofico. Per questo motivo le procedure operative appaiono tanto complicate (e non complesse, come sottolinea Umberto Galimberti in alcuni saggi dedicati alla cultura contemporanea). Implicite nelle affermazioni di Peter Eisenman sono alcune posizioni estreme. La sua pratica operativa e i suoi scritti portano direttamente alla conclusione che il «paradigma elettronico lancia una sfida all’architettura»280, volontariamente confondendo la divisione tra architettura reale e spazio virtuale. Tuttavia non è questo che importa. Certe posizioni sono certamente programmatiche e, come tali, utilizzate per fondare implicazioni ideologiche. Nelle precedenti pagine ho accennato ad un nuovo sistema di visione che lo strumento elettronico ha fatto scaturire. Il problema, in Eisenman, nasce dallo studio della prospettiva in Piranesi, capitolo molto vasto e importante nella produzione del Maestro. Egli rileva come il sistema di rappresentazione rinascimentale abbia influenzato cinquecento anni di pratica progettuale, determinandone la natura. Ora 276 Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 70. Cfr. Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1991. 278 Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 70. 279 Cfr. Peter Eisenman, intervista ne «Il Progetto», n. 1, 1997. 280 Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 70. 277 [...] la prospettiva non è più il mezzo che guida il fare architettura. Le nuove tecnologie forniscono 281 la chiave del cambiamento [...]. Esse non soltanto influenzano l’atto creativo con le nuove potenzialità, bensì plasmano le forme di edifici e città, gestendone funzionalmente gli spazi. Contemporaneamente il computer ci permette di creare, gestire, pensare, disegnare. In Eisenman il computer è uno dei punti di partenza per concepire forme e, contemporaneamente, strumento pratico per gestire la complessità di superfici altrimenti non misurabili 282. Il concetto parte dal fatto che l’elaboratore è l’unico strumento capace di rappresentare correttamente la complessità della forma. Per espressa dichiarazione di Eisenman (ma della quale personalmente metto in dubbio la sincerità) uno dei punti della sua architettura è il coinvolgimento del corpo nella progettazione degli spazi. Il passaggio interessante è l’ammissione che anche l’interattività è contatto. [...] Si devono ripensare tutti i significati delle estensioni tecnologiche, che non devono più essere considerate come semplici ausili al nostro progettare, ma come forme e sistemi di pensiero capaci di 283 generare spazio attraverso la simulazione. L’idea di spazio di Eisenman è continuamente rovesciata. Studiando lo spazio piranesiano, egli nota come l’osservatore sia posto nello spazio. Eisenman, al contrario, decostruisce questa gerarchia ponendosi contemporaneamente all’interno e all’esterno. Il computer gli permette di seguire percorsi paralleli che si influenzano reciprocamente. Il metodo seguito è il movimento, consentito dallo strumento elettronico. Dal punto di osservazione monocentrico, Eisenman elabora piani successivi di sequenze temporali. Questo non significa tuttavia creare un effetto cinematografico. Egli si indirizza, al contrario, su una tecnica di “variazione della forma” ottenuta attraverso il morphing (tecnica, come visto, usata anche da Greg Lynn). Il movimento, allora, non è cinematica, ma trasmutazione di una forma in un’altra. Nel progetto del Klingelhofer Triangle di Berlino (1995), Eisenman mette in relazione figure diverse e decisamente sorprendenti (dadaismo?): un orologio e un chip per computer (Fig. 74). Successivamente, attraverso la tecnica del morphing, la prima tende a mutare nell’altra, senza che nessuna delle due prevalga o sia perfettamente riconoscibile. Il dinamismo è considerato attraverso una nuova natura, la trasformazione di forme. Insistiamo su questo processo perché rappresenta uno dei procedimenti essenziali nella produzione di Eisenman nella generazione dello spazio. Eisenman propone un sistema urbanistico che si basa sul concetto piranesiano di relazione tra figure nel suo progetto per il Klingelhofer Triangle a Berlino, ma a differenza dell’invenzione piranesiana per Campo Marzio il suo sistema non è basato sulla reinterpretazione di forme classiche romane; prende invece spunto dallo sviluppo del pensiero contemporaneo, e in particolar modo da quella che può essere considerata la profonda trasformazione delle forme dell’era meccanica all’era dell’informazione. [...] Piranesi si serve dell’architettura romana, Eisenman di una tecnica usata nel cinema contemporaneo chiamata morphing, che è adottata come tecnica di trasformazione, un sistema capace di modificare le figure scelte in modo che nessuna risulti dominante sull’altra; non più un 284 rapporto tra figura e terreno [...]. 281 Ivi, p. 15. È quanto avvenuto nella realizzazione dell’Aronoff Center. Adottando un sistema di puntatori al laser, l’impresa costruttrice è riuscita a posizionare la complessa planimetria dell’edificio sul territorio. Il sistema di puntatori è solo un esempio della gestione del progetto utilizzata da Eisenman con l’ausilio del computer. Tale sistema non è certo nuovo. Solo un esempio: Reima Pietilä nella residenza presidenziale Mica Moraine nei pressi di Helsinki del 1985-’93, utilizzò un analogo sistema di puntatori. Eisenman non è in questo particolarmente innovativo, se non nel fatto che il computer diviene uno strumento globale di ideazione dell’architettura, sia come strumento di generazione spaziale, sia dal punto di vista realizzativo. 283 Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 58. 284 Ivi, p. 19. 282 Ci siamo imposti il compito di indagare i processi formativi dell’idea di spazio e, ora, di indagare le pratiche operative. Eisenman ha iniziato il progetto per Klingelhofer Triangle di Berlino con la tecnica della trasmutazione di forme dal moderno al contemporaneo. Il significato è da ricercarsi nella volontà di far rinascere l’architettura fuori dai dogmi riconosciuti 285. Il progetto è sviluppato a partire da diagrammi 286 che agisce sul luogo a partire da due scale di intervento: la prima è al livello della città, dove il morphing è utilizzato per creare nuove relazioni con i centri fondamentali della città. Così, sovrapposta alla realtà materiale urbana, Eisenman individua nuove trame. La seconda scala avviene a livello dell’isolato, processo che coinvolge nuovi modi dell’abitare. Egli ripensa il rapporto tra spazio pubblico e privato, ottimizzando lo sfruttamento delle aree libere. Il metodo offre una flessibilità totale e un metodo che agisce direttamente sulle altezze, sulla trasparenza, sulla 287 densità e sul programma piuttosto che sulla forma. Un analogo processo di elaborazione è stato utilizzato nel raddoppiamento della consistenza nell’Aronoff Center (il primo progetto che ha utilizzato la gestione elettronica dei diagrammi in un progetto architettonico di Eisenman) ottenendo come risultato un sistema dotato di grande fluidità. Morphing e diagrammi di collegamento offrono come effetto il passaggio armonioso di una forma in un’altra, di uno spazio in qualcosa di diverso. Più in generale, Eisenman segue una tendenza abbastanza comune che vede la diffusione delle forme non-euclidee grazie alla facilità offerta dal computer. Le geometrie intuitive e topologiche, quindi, rappresentano un po’ i due poli di questo problema. L’utilizzo da parte di Eisenman delle seconde è una scelta dettata dalla volontà di giungere ad una chiara percezione degli oggetti implicati nella relazione spaziale. L’interesse è verso le relazioni reciproche tra forme, tra sistemi che interagiscono tra loro. In effetti, se si volesse trovare un aspetto particolarmente importante in Eisenman, questo riguarda la volontà, sempre, di creare relazioni. Ciò avviene nel momento della contestualizzazione del progetto, nella ricerca degli aspetti culturali che soggiacciono alla creazione dell’architettura, alla volontà di definire trame complesse che pongono la semplice architettura all’interno di una maglia di maggiori dimensioni. Tale aspetto - che appartiene, per inciso, anche a Daniel Libeskind 288 - intende inserire in maniera inequivocabile un progetto nel contesto, non limitandosi ad aspetti formalisti o di interpretazione della cultura locale o delle tipologie esistenti. L’operazione di Eisenman (e Libeskind) è di natura intellettuale, ma non per questo priva di suggestione, anche se non si allontana mai da una certa concettuosità. Se il processo generativo è comune tra Eisenman e Libeskind, completamente differente è la gestione delle fasi successive al progetto. Qui troviamo la grande novità di Eisenman che utilizza il computer come elemento determinante nella creazione di forma. Al contrario di Libeskind - che utilizza un approccio decostruttivo al progetto, ma con un uso Moderno degli strumenti di progettazione -, Eisenman demanda quasi tutto l’aspetto compositivo al computer; I suoi spazi coinvolgono emotivamente l’uomo costretto a reinventare i propri riferimenti, e quest’invenzione è preordinata in ogni fase del processo ed è modificata dal computer, che amplifica il 289 tentativo di destabilizzare. 285 Ivi, p. 22. Cfr. Peter Eisenman, Diagram Diaries , op. cit. 287 Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 22. 288 Cfr. con Livio Sacchi, Daniel Libeskind. Museo ebraico, Berlino, Testo & Immagine, Torino, 1998, in particolare vedasi la descrizione delle trame che Libeskind effettua nella generazione della forma del Museo ebraico. Le matrici generative delle linee sono molto simili a quelle che Eisenman utilizza nel progetto del Klingelhofer Triangle sempre a Berlino. Cfr. anche Daniel Libeskind, Between the Lines, in Erweiterung des Berlin Museums mit Abteilung Jüdisches Museum, Feireiss, Kirstin, Berlin, 1992. 289 Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 75. 286 Per approfondire di più la pratica di Eisenman con l’uso del computer occorre brevemente riferirsi alle operazioni booleane che egli utilizza nella composizione di forme. L’algebra binaria della geometria booleana è alla base dell’utilizzo dei computer. Con essa si possono creare molteplici sistemi di assi derivati dall’unione di vertici e lati, effettuare translazioni, sommare o sottrarre 290 qualunque forma primitiva euclidea per ottenere altre figure non classificate tra i solidi platonici. È importante in questo momento rilevare come l’algebra booleana non abbia ancora la complessità delle geometrie non-euclidee. In realtà, la libertà intrinseca nell’elaborazione topologica delle forme, non appartiene alla geometria booleana. In effetti, per semplicità di trattazione, si possono considerare le geometrie booleane come il primo passo compiuto nell’informatica verso l’elaborazione di forme complesse. Come sottolinea Antonino Saggio, l’algebra di Boole venne utilizzata da Eisenman nella creazione del Carnegie Mellon Research Center di Pittsburgh del 1987-’88 (Fig. 75). In questi anni l’utilizzo del computer era ancora grandemente immaturo e l’uso della “semplice” algebra di Boole rappresentava, allora, la punta più avanzata della ricerca dell’elaborazione di forma con il computer. Il procedimento di addizione, sottrazione e intersezione è assolutamente chiaro nella lettura del progetto. Di questo lavoro è interessante la prima elaborazione che [...] si confrontava con la sinuosità del fiume (attraverso due linee di cubi di scala e di altezza diverse, che si sovrapponevano parzialmente in un doppio spessore), si riduce progressivamente di dimensione e, al contempo, diviene più complesso plasticamente (con una serie di operazioni di sottrazione, incastro e intersezione e una serie di strutture filiformi a ricordare le forme degli altri prismi 291 virtuali) [...]. Non occorre andare oltre in questa descrizione. La metodologia è talmente elementare che non richiede ulteriori approfondimenti. Procediamo oltre nell’indagine sul modus operandi di Eisenman considerando le attuali implicazioni con l’uso del computer. Una delle fondamentali categorie che Eisenman utilizza è certamente lo spazio. Ma esso è elaborato in maniera duplice attraverso modelli fisici e modelli elettronici che dialogano costantemente. La modellazione è strategia creativa e conoscitiva e costituisce un ponte teorico della massima importanza. Più in dettaglio. I modelli utilizzati da Eisenman sono di tre tipi: plastici, modelli diagrammatici e plastici informatici. L’analisi dettagliata di queste pratiche è importante per comprenderne la pratica operativa. In sostanza, i modelli servono, come ovvio, per visualizzare e per seguire l’evoluzione dell’edificio da realizzare. Inizia così un circuito creativo tra atto cognitivo-percettivo e intervento figurativo-operativo. L’importanza di questa fase è sottolineato dal fatto che Eisenman tende ad eliminare la differenza tra modelli e architettura, confondendone la natura. Questo aspetto, pur criticabile, fa parte di una metodologia stimolante nel suo insieme. I plastici fisici sono accostati a quelli digitali e, grazie all’uso della fotografia digitale e della microfotografia, si può offrire un’indagine estremamente verosimile dell’idea di spazio elaborata. Occorrere fare una breve nota a quanto detto. Come sottolineano continuamente le aziende software nel momento della presentazione di un CAAD, uno dei fattori principali che può determinare l’appetibilità di un programma è la capacità che questo ha di offrire immagini fotorealistiche dell’architettura digitale. La ricerca della verosimiglianza è, allora, un fatto puramente tecnico e, come tale, assai poco interessante per questa trattazione. Eisenman, infatti, intende la verosimiglianza in tutt’altro modo. Il suo interesse riguarda la possibilità di prefigurare spazio non-euclideo in modo comprensibile, e non come apparato fotorealistico. 290 291 Le operazioni booleane sono essenzialmente tre: incastro, sottrazione e intersezione. Antonino Saggio, Peter Eisenman, op. cit., p. 46. L’utilizzo dei plastici è affiancato a quello dei modelli diagrammatici non iconici. Essi sono strumenti che non hanno alcuna attinenza rispetto alla figuratività dell’architettura, non rappresentano nulla, ma sono strumento teorico di composizione. I modelli diagrammatici sono elaborati per raffigurare analiticamente questioni attinenti alla localizzazione delle funzioni di un edificio e alle connessioni fra esse. In questo caso l’interesse è rivolto alle logiche di funzionamento, ma (rigorosamente) ininfluenti in fatto di forma. Gli altri diagrammi filosofico-scientifici o matematici costituiscono la struttura formale del progetto. Ci sembra di intuire (siamo abituati alla nebulosità delle parole di Eisenman) come questi ultimi due diagrammi siano utilizzati come diagrammi di deformazione. Di volta in volta, essi sono basati sui frattali, sui cristalli liquidi, sul DNA, sulla teoria del caos o delle catastrofi, sugli atomi di Leibniz. Nel caso, ad esempio, del progetto di concorso per una Chiesa a Roma per l’Anno 2000 (Fig. 76), Eisenman utilizza dei diagrammi di deformazione generati dall’alterazione dei cristalli liquidi nella loro condizione di sospensione tra cristallo statico e stato liquido. Queste alterazioni sono capaci di modellare lo spazio, seguendo, tuttavia, le implicazioni filosofiche insite nei concetti poetici di rapporto tra vicinanza e distanza contenuti nell’idea di pellegrinaggio Cristiano e, in altri termini, del rapporto tra Dio e la Natura. Così, una volta definiti, i diagrammi di deformazione (siano essi derivati dai cristalli liquidi o da altro ancora) sono sovrapposti a quelli tipologici, e dalla reciproca influenza nasce la forma dello spazio. Il computer, quindi, è utilizzato per la gestione di questi sistemi di autorganizzazione, di disposizione caotica dei cristalli. Essi delineano lo spazio del vissuto. L’ultima fase nell’elaborazione riguarda i modelli informatici, utilizzati nell’ottica di un’architettura rivolta ad inventare forme e spazi. Il computer è, contemporaneamente, strumento comunicativo e di gestione delle elaborazioni. Esso agisce, in pratica, sui diagrammi, mentre l’operatore ne stabilisce sviluppi e genesi. L’elaboratore controlla le forme, stabilisce criteri di sintesi, modifica e confronta in tempi estremamente brevi le differenti soluzioni in un processo di lavoro che continua a ritornare su se stesso. La conclusione sull’opera di Eisenman coinvolge l’idea di architettura elettronica. Essa è una «sperimentazione raggiunta in architettura attraverso le tecniche elettroniche» 292. Come sottolineato in precedenza, il punto cruciale riguarda il sistema di rappresentazione. Eisenman tenta di adeguare le nuove possibilità rappresentative dello spazio attraverso l’ausilio del computer con una adeguato rinnovamento concettuale e nell’uso metodologico dello strumento. Il computer, per Eisenman, può diventare un nuovo sistema concettuale, con le proprie regole e potenzialità. Il virtuale in architettura non deve essere letto come una trasposizione o simulacro della realtà o, peggio, simulazione della fisicità dell’architettura. Egli opta per una prefigurazione di una possibilità fisica futura. La forma è una possibilità futura, non il contrario del reale, una seconda natura che anticipa le possibilità di costruzione, mantenendo in sé tutta la teoria che, all’atto della costruzione, verrebbe a cadere. 292 Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 50. Fig. 64: Frank O. Gehry, Guggenheim Museum, Bilbao, Spagna, 1991-‚97 Fig. 65: Frank O. Gehry, Uffici Chiat-Day-Mojo, Venice, California, 1986-’91 Fig. 66: Modelli di studio per il Guggenheim Museum di Bilbao di Frank O. Gehry Fig. 67: Modelli tridimensionali del Guggenheim Museum di Bilbao Fig. 68: Frank O. Gehry, Vila Olimpica, Barcellona, Spagna, 1989. Fig. 69: Frank O. Gehry, Childrens’s Museum, Boston, 1992-’96. Fig.70: Greg Lynn, Port Authority Gateway, 1995 Fig. 71: Greg Lynn, Embriological House Fig. 72: Greg Lynn, New York Presbyterian Church, 1999-2002 Fig. 73: Peter Eisenman, Laboratori Biologici dell’Università Goethe,i Francoforte sul Meno, 1987 Fig. 74: Peter Eisenman, Klingelhofer Triangle, Berlino, 1995 Fig. 75: Peter Eisenman, Carnegie Mellon Research Center, Pittsburgh, 1987-’88 Fig. 76: Peter Eisenman, Chiesa a Roma per l’Anno 2000 CONCLUSIONI GENERALI Capitolo 4 Il rinnovamento della pratica operativa nella progettazione degli spazi non-euclidei con il computer Per comprendere compiutamente il senso generale di questo scritto occorre considerare come il problema della progettazione degli spazi non-euclidei attraverso l’uso del computer non sia un processo di matrice moderna. I criteri di soluzione di questo problema utilizzano logiche sostanzialmente differenti e le soluzioni sono apparentemente molto distanti da un consueto processo di progettazione architettonica. I risultati, infine, posseggono una sorta di inquietante straneamento che tende a far perdere le consuete coordinate consolatorie di un progetto di architettura. Questo aspetto così difficile da comprendere risiede non tanto nelle potenzialità insiste nello strumento informatico. Il computer è solamente un mezzo - più sofisticato di altri forse - per raggiungere un fine. Riteniamo che la motivazione più profonda risieda nella generazione di una nuova cultura che diviene sistema all’interno del quale la progettazione di spazi viene ad essere collocata. Uno dei concetti più pregnanti, allora, è da ritrovarsi nel fatto che non è più possibile parlare di architettura costruita come unico luogo nel quale si manifesta l’esperienza dello spazio della percezione. Esso può essere individuato anche in tutta quella numerosa serie di esperienze di luoghi virtuali. La difficoltà di questo aspetto è fondamentale. In sostanza, è possibile dire che l’idea di spazio con il quale l’individuo si confronta non è più limitabile a luoghi fisici, ma anche a sistemi che vivono solamente nella memoria di un computer o nelle immagini di uno schermo. Esse sono, senz’ombra di dubbio, due cose differenti, ma facenti parte di un unico sistema culturale che noi, in questo scritto, abbiamo definito come cultura Cyber. Essa non è solamente capace di produrre videogiochi o assurdità virtuali, bensì è un contenitore più ampio che raccoglie tutte le infinite manifestazioni di una cultura globale. Tale situazione è in grado di suggerire la grande varietà del fenomeno. L’analisi condotta ha evidenziato come alcune poetiche di architetti e artisti siano strettamente connesse con ricerche in campo aerospaziale, militare o matematico. E tutto si manifesta anche nell’impossibilità di individuare un unico movimento di architettura che racchiuda in un calderone unificante tutte le esperienze in precedenza citate. In altre parole, quando si parla di Cyber-architettura si pongono l’uno accanto all’altro autori con poetiche, linguaggi, visioni, differenti. Non troviamo più un sistema di -ismi di stampo framptoniano. Il problema, quindi, diviene di individuare tracce comuni per approcci diversi. Il filo rosso che abbiamo individuato rimane esclusivamente l’uso del computer per creare spazi noneuclidei. Pertanto, gli esiti e i percorsi per poter arrivare a questo obiettivo sono molto distanti gli uni dagli altri. Se analizziamo i differenti autori che hanno progettato e anche costruito spazi non-euclidei, scopriamo risultati diversissimi, talvolta di grande disparità qualitativa. L’importante è aver individuato un sistema di pensiero soggiacente. Uno particolarmente importante è la perdita di forma. Con questa definizione abbiamo inteso individuare una corrente che si rivolge prepotentemente verso l’informale. Questo termine individua una precisa categoria in campo artistico, ma può essere usata con profitto anche nel nostro ambito. Ciò perché la Cyber-architettura utilizza approfonditamente sia processi derivati dalla scienza, dall’arte, ma anche da una nuova cultura visiva assolutamente particolare; essa tende a non proporre distinzioni tra gli aspetti più banali della comune produzione di massa da quelli più colti ed elitari. Un parallelo estremamente fecondo per la comprensione di questi processi di azione sulla forma deriva dal bricolage, analizzato nel capitolo 2. Tale approccio al fare è oramai un classico nei processi in interpretazione della cultura di un luogo. In questo scritto, è stato ampiamente utilizzato per comprendere i processi operativi di molti autori. Qui, i materiali eterogenei, le tecniche composite, l’apparente disordine che sfocia, poi, in un ordine a sorpresa, è tradotto in termini di frammenti elettronici, immagini digitali, deformazioni generate con il computer, l’uso del morphing e quant’altro l’elaboratore consente di utilizzare. In entrambi i casi troviamo un atteggiamento manipolativo di particelle decontestualizzate. Il risultato è un oggetto composto alla somma di parti differenti, riaggregate nella generazione di un nuovo senso. Il processo, particolarmente interessante nel lavoro di Eisenman, si basa sulla perdita di metodo nella cultura della previsione. Tale atteggiamento parte dalla considerazione che il mondo contemporaneo sia assolutamente imprevedibile a causa della sua complessità. Bricolage e simulazione sono strumenti assai simili e capaci di essere un mezzo potente di prefigurazione di un sistema complesso. La possibilità di prefigurare è essenziale in questo mondo concettuale basato sulla produzione di forme. Tuttavia, giudicare l’attuale generazione di spazi non-euclidei semplicemente come forma rappresenta un aspetto puramente superficiale che nasconde un problema ed una complessità maggiori. La prefigurazione, dicevamo, diviene una necessità laddove esista una articolazione morfologica di alto livello. Questo aspetto suggerisce come esista un sistema concettuale capace di supportare una simile produzione, ben lungi dall’essere un superficiale delirio visionario. Non a caso, uno dei problemi essenziali che ci siamo trovati a dipanare riguarda il definire i risultati prodotti dalla Cyber-architettura. Un giudizio finale è quello di un sistema di pensiero filosofico e figurativo rivolto alla definizione di una nuova natura di spazio. Il caso non è molto dissimile da quelle esperienze di architettura classificate nella storia della critica come utopie. Senza entrare nel dettaglio, è possibile stabilire una regola generale che identifica tutti i periodi utopici con alcuni caratteri simili. Il punto sostanziale è l’aver ereditato una serie di inquietudini nate dalla fine di un mondo culturale non più attuale ed incapace di rispondere alle mutate esigenze di una società in rapido cambiamento. Gli architetti visionari del tardo Settecento, o alcune avanguardie storiche dell’inizio del Novecento, le utopie Radical degli anni settanta del XX secolo, avevano tutti manifestato un disagio espresso da architetture volutamente impossibili o bizzarre. Desideriamo evitare ogni forma di discussione sul fatto se esse fossero o meno architettura. Il nodo che rimane inequivocabile è che ogni epoca sopra citata ha introdotto, attraverso questi sogni (o incubi che siano), un’innovazione della concezione dell’architettura che ha generato un nuovo sistema figurativo che si è riversato su una radicale rivoluzione del mondo architettonico. La Cyber-architettura presenta alcuni caratteri che tendono a collocarla in queste forme di delirio che anticipano sostanziali innovazioni in ambito culturale. Non è possibile dire, allo stato attuale della critica architettonica, se sia lecito parlare di rivoluzione prossima ventura manifestata dalle invenzioni dell’architettura virtuale. Un aspetto certo che è stato più volte confermato dallo studio svolto è che l’ambito della cultura Cyber presenta un’unità molto forte. La Cyber-architettura è una delle espressioni di un sistema più ampio, dotato di grande complessità, e di incoerenza. La produzione di tutti gli autori analizzati rientra in un unico mondo, fortemente articolato e dotato di diverso spessore. Lo sforzo è stato quello di dimostrarne l’unicità. Un punto che in modo inequivocabile caratterizza tutte le diverse manifestazioni è l’immaterialità. Sia per gli autori che propongono forme destinate a rimanere virtuali, sia per gli architetti che, attraverso elaborati processi mentali, arrivano a creare architetture costruite, esiste come punto comune il desiderio di costituire un nuovo repertorio formale basato su un’estrema elaborazione di principi impliciti nel Decostruttivismo. Non siamo parlando di un mondo figurativo, quindi, ma di un sistema filosofico basato sulla destrutturazione di processi di pensiero e sull’alterazione dei processi logici in funzione di una creatività basata sul corto circuito. Da qui, esistono dei fili conduttori che il mondo post-moderno ha sviluppato in modo autonomo generando, appunto, il sistema culturale Cyber. Una delle tesi sottese a questo scritto è che esista una continuità fortissima tra decostruzione e Cyber-cultura. Le forme generate attraverso l’elaboratore presentano una complessità estrema. Questo mondo figurativo, pur presentando matrici autonome, è in diretta continuità con il decostruttivismo in architettura. Non è un caso che molto autori, storicamente collocabili come maestri del decostruttivismo, siano divenuti figure cardine nella comprensione della Cyber-architettura. Questi maestri hanno apportato un contributo fondamentale a tutti coloro che, più giovani, costituiscono l’attuale Nouvelle Vogue dell’architettura internazionale. Costoro presentano caratteri di forte autonomia nei confronti dei maestri, ma non sono pienamente comprensibili senza la considerazione delle matrici culturali e figurative dalle quali essi traggono ispirazione. La differenza maggiore tra maestri ed allievi - indipendentemente dalle eredità stilistiche e linguistiche - risiede nel rapporto assai diverso con la virtualità. Ma il problema non può essere semplificato con una semplice adesione o rifiuto. È il mondo contemporaneo ad imporre un rapporto obbligato con l’immaterialità. Non esistono scelte, ed anche i più elementari comportamenti quotidiani devono fare i conti con ciò. La virtualità è uno degli aspetti sostanziali della cultura Cyber, un sistema di relazione che tende a dimenticare la fisicità delle relazioni in funzione di una forte immaterialità. La confusione che non si deve generare riguarda il fatto che virtualità non è un termine riferibile esclusivamente alla generazione di spazi, ma coinvolge ogni aspetto delle relazioni umane. La sociologia ci ha insegnato come ogni forma di comunicazione contemporanea sia influenzata dalla virtualità della rete Web. Virtualità è un concetto ancora più generale che Hofstadter riconosce essere generato dalla mobilità dei concetti della mente. La virtualità è la consapevolezza di esistenza riferita ad oggetti non fisici. La prospettiva del tutto nuova che la Cyber-cultura ha offerto è la confusione tra reale e virtuale. Se questa distinzione risulta essere chiara in termini generali, le cose tendono a complicarsi sotto la lente dell’analisi. Nella produzione di cultura e - nel caso da noi analizzato in questo scritto - di architettura, la differenza tra reale e virtuale non risulta essere così chiara. Una risposta possibile è quella che interpreta “architettura” come la realizzazione fisica di un manufatto e “virtuale” l’elaborazione elettronica di una forma. L’aspetto fondamentale è che il problema spaziale tende a riconnettere questi due estremi. Pur rimanendo chiara la distinzione, è stato definito come gli spazi non-euclidei generati con il computer e gli spazi di architettura (realizzata) siano figli di una stessa madre. Il fatto positivo di certe forme estreme è quella di aver ampliato in modo esponenziale le possibilità figurative degli spazi in architettura. In qualche modo, i deliri di alcuni autori hanno avuto l’indiscusso vantaggio di essere stati terreno fecondo per quei progettisti che sono stati in grado di realizzare architettura. La conclusione intende richiamare un problema importante: le comuni matrici figurative dell’architettura virtuale e di quell’architettura costruita di derivazione Cyber. L’ottava Mostra Internazionale di Architettura di Venezia svoltasi nel 2002 è un evento di particolare significato. Essa segue una precedente manifestazione (2000) nella quale la presenza dell’architettura virtuale era preponderante ed eccessiva. L’ultima mostra, intitolata Next, era dedicata all’architettura prossima ventura. Come sottolineato dai curatori, l’interesse principale era rivolto a quelle opere in corso di realizzazione o in avanzata fase di progettazione. Il significato è molto profondo. In contrapposizione alla libertà assoluta e, francamente, un po’ vuota della precedente esposizione, l’attenzione era in questo caso rivolta alla complessità dell’architettura nel farsi luogo, nel rapporto con il cantiere. Così, ogni sogno gratuito era bandito. Ciò sancisce un preciso cambiamento di rotta ed un ritorno all’ordine che condividiamo. L’analisi comprova che molte opere presenti, pur rispondendo ai criteri stabiliti dai curatori, avevano un indiscutibile debito con la precedente stagione. Molte architetture presenti offrivano un uso maturo dello strumento informatico, utilizzato come apertura figurativa per un uso non-euclideo delle forme, poi razionalizzate per l’edificazione. In questi termini, diviene molto più sottile il problema del comprendere cosa è reale e cosa virtuale. Pur avendo una chiara immagine della distinzione presente tra opere che vivono nella memoria di un computer e lo spazio del vissuto, esiste una sfumatura assai meno evidente di come possano essere distinguibili esperienze la cui matrice figurativa è unica e le cui problematiche legate alla virtualità/realtà rappresentano solamente un problema di scala. Un utile fattore che abbiamo utilizzato per comprendere questi sottili problemi è rappresentato dalla lettura delle forme e dello spazio del vissuto attraverso lo strumento della morfologia. L’obiettivo principale di questa tesi è individuare il modo in cui il computer ha generato un’alterazione del modus operandi degli architetti nella creazione di quegli spazi che abbiamo chiamato non-euclidei. L’esigenza di occuparsi di questo esclusivo ambito è stata una drastica riduzione del problema. Il computer negli ultimi vent’anni ha rivoluzionato ogni ambito legato alla progettazione e all’esecuzione dell’architettura. L’insistere con la massima energia sul problema dello spazio non-euclideo ha un’importanza determinante poiché fa comprendere come il computer abbia saputo cambiare il modo di concepire la geometria. La storia della matematica dell’Ottocento e del Novecento fa comprendere in che modo l’idea di spazio matematico ha influenzato le concezioni dello spazio nella fisica. Le conquiste di Cantor, di Hilber e Fréchet nell’ambito delle dimensioni plurime si intrecciano con le elaborazioni della geometria topologica. L’aver inserito uno studio sulle matematiche superiori ha avuto l’obiettivo di individuare un ambito di pensiero che è stato determinante per comprendere l’attuale modo di intendere lo spazio. Tali conquiste, pur relegate nel regno di pochi specialisti, hanno contribuito a mutare il concetto di spazio e di forma complessa nella cultura contemporanea. Gli studi sulle matematiche superiori e sulle geometrie topologiche hanno fornito un terreno fertile sul quale effettuare alcune considerazioni in materia di forma. Se si considerano quelle magnifiche elaborazioni intellettuali in ambito matematico, è possibile comprendere come l’attuale cultura architettonica della decostruzione e della Cyber-architettura abbia radici ben fondate. Non si capirebbe altrimenti l’uso disinvolto di certe geometrie. Un compito molto importante era quello di riuscire a stabilire la genesi della forma, aspetto che non poteva assolutamente essere spiegato da un’invenzione intuitiva, da un’eredità storica (aspetto quest’ultimo che non spiega un bel nulla), o da un uso maturo di uno strumento potente quale il computer è. La ragione più intrinseca risiede nella capacità di alcuni architetti di captare le inquietudini derivate dalla scoperta di nuovi territori di confine negli ambiti scientifici. L’Espressionismo degli anni trenta e quaranta del Novecento ha saputo esternare un desiderio di forma capace di interpretare le teorie sulla deformazione spazio/temporale di Einstein, e tale discorso si è dipanato nei decenni successivi in una coerente ricerca di nuove applicazioni di quel mondo. Tali complesse geometrie rappresentavano un superamento dei postulati di Euclide, per riferirsi agli spazi avvolti di natura topologica o, ancor più, degli spazi immaginari delle geometrie di Lobacevskij. La natura degli spazi Cyber non è tanto una complicazione di forma dovuta all’ipertrofica deformazione di forme base. Questa, pur complessa, rientra nell’ambito di una geometria cartesiana. Il significato più profondo di ciò risiede nel fatto di alterare la natura stessa dello spazio. Così come la matematica di Lobacevskij e, poi, di Fréchet aveva ampliato a dismisura la natura dello spazio facendolo divenire immaginario e pluridimensionale, allo stesso modo troviamo delle analoghe rivoluzioni negli autori che abbiamo analizzato. Essi non aggrediscono la forma, ma progettano spazi avvolti, alterati, attorcigliati, pluridimensionali. Così, le forme virtuali o le architetture contorte non sono un desiderio di forma ma l’espressione di quel particolare tipo di spazio la cui natura è, appunto, non-euclidea. Non-euclideo non significa pertanto formalmente complesso, bensì desidera aderire ad un concetto più profondo che si trova nella natura pluridimensionale dello spazio in fisica e matematica. Le forme non sono avvolte e magmatiche perché sono modellate in base a concetti scultorei, ma perché esprimono il deformarsi dello spazio su se stesso, in osservanza ai principi della fisica e della matematica. Questa è una conclusione fondamentale nell’economia del nostro scritto. Tende a dare una spiegazione chiara di quali siano i riferimenti dell’attuale produzione Cyber. Il mondo contemporaneo è caratterizzato da una pluralità di linguaggi e da una molteplice interpretazione della realtà. Non è possibile riferirsi ad una sorta di nuovo International Style che fornisca un quadro unitario delle poetiche e del modo di fare architettura. Se questo era vagamente possibile nel periodo dello strutturalismo - nel quale l’ideologia dominante era derivata da un’interpretazione chiara della realtà organizzata secondo sistemi e sottosistemi -, l’attuale polisemia del mondo non consente questa semplificazione. Per questo motivo abbiamo sempre parlato di ottica Cyber nella descrizione delle geometrie non-euclidee. La volontà di creare organismi spaziali di questo genere non è una tendenza universale, bensì una delle tante possibili tra quelle in atto. Anche all’interno dei casi indagati raramente è possibile trovare qualcosa che caratterizzi unitariamente lo stile, il linguaggio o l’approccio metodologico. Tutto risulta essere molto diverso e fortemente individuale. Per tale motivo, l’unico modo che riteniamo valido per interpretare questo contesto è leggerlo attraverso la generazione di spazi non-euclidei, astenendosi dall’offrire giudizi di valore e proponendo questa interpretazione come superiore ad altre. Il desiderio è individuare delle categorie operative e capire sia la genesi della forma, sia le motivazioni che spingono certi autori a riferirsi ad un mondo così bizzarro. Una risposta è stata individuata nell’adesione alle teorie matematiche e fisiche. Questo, però, avviene in modo non sempre consapevole. Nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte ad uno spirito del tempo, le cui idee girano e si mescolano tra loro. Così, sarebbe illecito attribuire ai vari architetti delle competenze in campo matematico, o interpretare le forme avvolte come direttamente riferite alle geometrie lobacevskiane. Crediamo che esista una cultura figurativa che tragga spunto da queste aperture, fornite in ambiti paralleli e, magari, separati. Teorie così difficili sono, pertanto, abbastanza ermetiche e relegate in settori specialistici. Ma non esiste alcun ambito della cultura che rimanga assolutamente impermeabile. Esiste, in più, un aspetto ancora più chiaro e che agisce secondo canali molto meno sotterranei rispetto a quelli appena descritti. È l’uso del computer. I software e le procedure di calcolo utilizzate dai sistemi hardware sono basati su operatori matematici. Esiste una sorta di natura intrinseca del modo di lavorare dei calcolatori che necessariamente porta verso certi risultati. Questa affermazione racchiude una duplice verità. Da una parte esiste la questione della libertà compositiva offerta dai vari comandi di CAAD e modellatori solidi. Gli strumenti di composizione sono intuitivi e consentono di generare e aggregare forme con la massima libertà, senza doversi confrontare con problemi di carattere proiettivo. Una conclusione fondamentale riguarda il fatto che l’organismo è immaginato nella sua forma tridimensionale. Ci siamo più volte soffermati sul problema della visione. Il computer ha determinato una rivoluzione dei sistemi percettivi contemporanei, esattamente come cinema e televisione hanno rivoluzionato la concezione del mondo, divenendo media. Anche l’elaboratore ha cambiato la visione, ora basata su icone e sulla metamorfosi della forma. La facilità con la quale un software permette di visualizzare anche le geometrie più articolate è un invito a sperimentazioni sempre più estreme. La sua espressione sarà elementare e priva della storica difficoltà di delineare con chiarezza un oggetto. Tale facilità, dicevamo, è una sorta di liberazione dalle difficoltà del disegno, fatto che, unito alla possibilità di concepire un oggetto nella sua completezza, fa comprendere il necessario passaggio verso un ambito figurativo differente e più ampio dal punto di vista formale e concettuale. Esiste una seconda ragione che lega matematica e generazione di forma con il computer. L’elaboratore, nel suo normale uso, utilizza sistemi di calcolo binario. Questa elementare grammatica gli fornisce un’anima profondamente matematica. Egli, in altre parole, non può far altro che operare processi di natura matematica. Così, l’uso di operatori booleani e altri processi legati alle matematiche superiori, divengono parte integrante del modello di funzionamento del computer. Essi, altresì, sono strutturati in modo tale da avere una sorta di natura matematica che non potrebbe funzionare altrimenti. Quanto detto non porta l’interpretazione del problema verso una soluzione meccanica. In verità, ogni progetto indagato, ogni forma elaborata, ha una natura essenzialmente poetica. Anche nei casi in cui gli autori sono tesi nello sforzo di elaborare una teoria della progettazione computerizzata, il risultato non sfugge mai all’arbitrio. Così, è di fatto inutile richiamare le «Monadi» di Leibniz da parte di Chu, o le teorie del caos e dei cristalli liquidi per Eisenman. Il processo ed i risultati saranno sempre operazioni creative più o meno riuscite. Sempre è possibile riconoscere una sorta di ipnosi e di esuberanza che il computer trasmette ai suoi utilizzatori. Ogni autore che usa in modo creativo l’elaboratore ha l’indiscutibile difficoltà di frenare la sua mano nella creazione di spazi. L’ipertrofia che ne consegue ha creato uno dei maggiori difetti che abbiamo individuato in questo movimento: la perdita di costruibilità in funzione di un autocompiacimento formalista. Riprendendo un’osservazione fatta nel capitolo secondo, osserviamo come le coordinate interpretative della Cyber-architettura siano profondamente differenti rispetto all’architettura tradizionale. È lecito parlare di spazi di percezione indipendentemente dalla loro consistenza fisica. In analogia con le grandi prospettive di Giuseppe Galli Bibiena, il cui fascino risultava intatto anche nella pura percezione visiva delle sue incisioni, anche nel caso degli spazi noneuclidei della cultura Cyber ci troviamo di fronte ad un processo di godimento estetico assai potente anche nella semplice visione a schermo. Riteniamo, tuttavia, che in quest’ultimo caso il coinvolgimento sia assolutamente maggiore e capace di una forma più estrema di seduzione. In sintesi, possiamo affermare come potenza dello strumento e seduzione che questo offre agli operatori, sono due aspetti che tendono a mischiarsi. Non siamo di fronte ad un vano gioco di forme rese possibili dalla flessibilità dello strumento informatico o da una smaliziata cultura dell’immagine elettronica. I risultati raggiunti sono una conseguenza della contemporanea azione tra cultura d’immagine e substrato scientifico di derivazione matematica. L’elaborazione di forme non-euclidee e topologicamente complesse non è una semplice elaborazione formale, bensì presenta una radicata cultura dello spazio che, a partire dalle matrici organico/espressioniste, ha raggiunto una piena maturazione nella decostruzione in architettura per poi passare, come ultima fase, alla Cyber-architettura. Pertanto, se alcuni autori cadono nella trappola del virtuosismo formalistico, la corrente nel suo insieme dev’essere registrata come facente parte di una rivoluzione sana nell’ambito della sperimentazione sugli spazi. Grazie all’utilizzo del computer, anche le metodologie di generazione della geometria hanno assunto una complessità tutta particolare. Eisenman e Lynn (ma accanto a loro anche molti altri) sono dei paradigmi molto importanti per comprendere il problema. In entrambi i casi, la nascita della forma non avviene mai in modo artistico, ma esiste sempre una “giustificazione” di carattere metodologico. L’analisi degli scritti dedicati ai due autori hanno dimostrato che queste pretese teoriche hanno una grande base di astrazione e di arbitrio. È fondamentale considerare il fatto che il computer è usato per generare la forma. Per entrambi, l’obiettivo principale è quello di radicare il progetto al luogo. Per far questo Lynn ed Eisenman creano dei processi nei quali lo strumento informatico subisce delle sollecitazioni dal contesto e, reagendo, crea forma. La complessità del processo necessita di una grande potenza di elaborazione dati, aspetto supportabile solo con l’elaboratore. Tali variazioni hanno un preciso riferimento alla matematica stocastica gestita tramite il computer. Quanto detto dimostra una fortissima unità tra poetica, matematica ed informatica, vertici di un problema rivolto ad una soluzione nuova della ricerca sullo spazio. La trattazione si orienta verso una sintesi che tende ad individuare due distinti approcci al problema della generazione degli spazi non-euclidei con l’utilizzo del computer. Una strada è quella della creazione di spazi esclusivamente virtuali, destinati a rimanere come pura forma di percezione sullo schermo. La seconda soluzione è quella di spazi costruiti che divengono, pertanto, architettura. Queste due direzioni sono figlie di una stessa cultura, influenzandosi reciprocamente, traendo le une dalle altre spunti di riflessioni. In altre parole, questi sono aspetti diversi di una medesima realtà poliedrica e complessa. In effetti, analizzando le architetture costruite notiamo due cose. Primo: molto spesso le matrici figurative e formali sono esattamente identiche. Nella fase di elaborazione, i risultati sono uguali e solo nel tempo della costruzione si possono notare alterazioni dovute alle necessità di cantiere. I processi di generazione degli spazi non-euclidei sono in entrambi i casi molto simili, per non dire coincidenti. Il secondo aspetto riguarda il fatto che, sovente, gli autori che creano architettura costruita sono gli stessi che hanno creato importanti manifesti programmatici della Cyber-architettura. Questo testimonia un’indivisione tra i due tipi di approccio. È evidente che gli architetti minori sono da considerarsi come fasce estreme di un movimento. Essi sono interessanti solo dal punto di vista di una concezione militante della corrente. È opportuno guardarsi indietro e porre l’attenzione principalmente su quei progettisti che, pur ideando articolate teorie, sono in grado, al momento opportuno, di rifondere questo apparato concettuale in spazio del vissuto. Un aspetto molto importante da sottolineare in queste conclusioni è che il computer, dallo stretto punto di vista operativo, non è affatto uno strumento utilizzato da tutti nel medesimo modo. Per alcuni (Naga Studio Architecture, Ben Van Berkel & Caroline Bos, Neil M. Denari) esso è un mezzo di prefigurazione dell’architettura, capace con la sua grande velocità di calcolo di visualizzare forme altrimenti impossibili da rendere in modo chiaro. Questi autori sono coloro che maggiormente sono indirizzati verso la creazione di uno spazio costruito. Per loro, il punto fondamentale non riguarda la fantasia e l’apertura consentita dalla rivoluzione informatica. L’essenziale è la capacità di gestione dell’idea architettonica complessa. La tradizione decostruttivista ha trovato nell’uso del computer uno mezzo ottimale di gestione di materiali, forme e costi. Un secondo gruppo di architetti (Kolatan/Mac Donald Studio, Oosterhuis Associates, Greg Lynn/Form) prevede nell’atto ideativo una maggiore libertà. Gli aspetti innovativi e rivoluzionari sono assai più spinti ed è la stessa natura dell’architettura ad essere condizionata. Siamo in un campo che confina tra architettura e scultura e la creazione può essere essenzialmente rivolta verso la generazione di una pura forma, tenendo in minimo conto le problematiche di carattere statico, costruttivo ed esecutivo. Essi, tuttavia, non si allontanano eccessivamente dai caratteri linguistici dell’architettura. L’innovazione formale e spaziale è certamente molto più accentuata rispetto ai precedenti, ma non abbandonano mai la realizzabilità. Ciò che intendiamo dire è che questo gruppo di progettisti tende ad innovare l’architettura pur rimanendo all’interno di una possibile realizzabilità dell’opera. Quanto viene prodotto ha le caratteristiche di un progetto di spazio architettonico all’interno di una visionarietà che fa di questi progetti dei manifesti di un’avanguardia contemporanea. L’ultimo gruppo di progettisti che individuano una corrente unitaria sono coloro che, come Karl S. Chu e Asymptote, sono assolutamente indifferenti al problema della realizzabilità. Per questi autori la generazione di spazio del vissuto può esaurirsi nella virtualità, ed esiste una sostanziale noncuranza verso le problematiche dello spazio fisico della percezione. Tale tendenza rappresenta la vena più estrema di quelle appena descritte. Tutte le componenti finora riscontrate sono estremizzate. Per comprendere le motivazioni di simili costrutti teorici occorre non dimenticare i parametri di lettura della cultura Cyber. Poiché essa ha creato un sistema organico e funzionante basato essenzialmente sull’immaterialità, questa architettura ne diviene una delle possibili espressioni. Al pari del Web, gli spazi di Chu sono coerenti nel loro essere pura forma visibile. Rimangono collocati nella virtualità ma la loro percezione è sempre non contraddittoria e reale, esattamente come gli spazi fisici. Qui scaturisce una fondamentale difficoltà interpretativa. Un simile mondo risulta convincente solo ad una lettura effettuata all’interno della cultura Cyber. Adottare una chiave interpretativa di carattere architettonico ne rivela tutta l’ambiguità (e la pericolosità). I due ambiti non devono essere confusi. Ricordiamo che anche le forme più estreme di elaborazione degli spazi non-euclidei, quelli destinati ad un’esistenza puramente virtuale, hanno una funzione fondamentale: generare una feconda rivoluzione in quegli architetti che hanno dirottato queste energie verso la realizzazione. Le parole appena spese per individuare le linee generali entro cui collocare le diverse esperienze trattate, non completano il quadro generale. È possibile, altresì, rivoltare la lettura delle differenti tendenze attraverso un’interpretazione che privilegi lo strumento. Il computer è dotato di grande flessibilità e potenzialità. La lettura del come esso è usato dai diversi autori è un mezzo fondamentale per interpretare l’attuale sistema di pensiero. Poiché l’obiettivo principale è quello di individuare le modalità con le quali nasce l’idea di spazio non-euclideo, è stato necessario capirne l’utilizzo. Ma lo studio ha portato ad un variegato panorama. Pur con notevoli differenze, è possibile individuare tre categorie principali di uso del computer: gli architetti-scultori, i cyber-architetti e quegli autori che usano il computer in modo pressoché automatico nella generazione degli spazi. Il primo gruppo di architetti non offre un quadro sostanzialmente nuovo della progettazione. Tutti gli autori indagati usano il computer come strumento razionalizzante, capace di gestire progetto e cantiere in modo efficiente. I processi creativi sono tendenzialmente tradizionali ed il computer entra solo in una seconda fase nell’atto creativo. Generalmente questi autori sono personalità che si sono formate prima della diffusione del computer. Pertanto esiste un certo impaccio nell’utilizzo di uno strumento che si è sommato ai tradizionali metodi di progettazione. Questi progettisti usano essenzialmente plastici scultorei, schizzi, disegni, e sono tendenzialmente restii ad ammettere un effettivo vantaggio nel progettare con lo strumento informatico. Resta indiscutibile un fatto: in uno stesso autore, esiste una differenza molto evidente tra i progetti realizzati con e senza il computer. L’architettura immaginata in una stessa stagione creativa presenta una notevole diversità e, tendenzialmente, esiste un’elaborazione di forma molto più complessa nel caso in cui il computer sia entrato come partner di studio. È il caso del Childrens’s Museum di Boston di Frank O. Gehry. Qui, parti differenti sono state realizzate con e senza il computer. Si nota in modo chiaro come esista una diversa complessità della forma, ma soprattutto dello spazio del vissuto. In generale, il computer ha apportato un sistema di gestione di forma che ha permesso al progettista una maggiore libertà. In questo primo gruppo di autori, le cose sono piuttosto semplici. Essi hanno una grande maturità nella creazione di spazio non-euclideo ed il computer è solamente un mezzo capace di fornire aiuto ad un processo già lungamente ed autonomamente sviluppato. Il caso è differente per quei giovani autori che si sono formati con il computer. Per costoro l’elaboratore non diviene uno strumento conquistato lungo il percorso di formazione. La loro pratica è radicalmente legata ad un utilizzo creativo della macchina. Il progetto nasce con il computer ed esso ne fa parte in modo indissolubile. Questi autori sono giovani, spesso non ancora quarantenni, con poche fabbriche realizzate. Rappresentano un gruppo di persone che possiedono una vena avanguardistica più spinta, una carica visionaria più estrema e soffrono di un tendenziale difetto: l’astrattezza. Al contrario di quegli autori che ragionano solamente in termini di spazio virtuale, i cyberarchitetti hanno una concretezza maggiore. Essi non si perdono in spazi astratti, privi di legame con il reale. Le loro opere, pur estreme, presentano una certa realizzabilità anche se tendono a negare i precetti più classici del Movimento Moderno. Questo è abbastanza ovvio. La loro tradizione culturale è post-moderna e, perciò, differente rispetto al passato. Sono autori che riflettono sulla cultura informatica, sulla contaminazione tra le arti e sulla tendenziale perdita di dogmi. Esistono nei loro processi creativi, forme di automazione che risultano assai suggestive dal punto di vista metodologico. Il progetto ha sempre una certa dose di indeterminazione, una variabile indipendente risolta dal computer. I processi automatici sono estremamente stimolanti poiché sono una concretizzazione della teoria del caos e dell’imprevedibilità all’interno del progetto di architettura. Senza rischiare di andare troppo oltre, è necessario sottolineare come gli apparati teorici che abbiamo incontrato sono caratterizzati da una grande sofisticatezza. Possiamo notare che, ogni qualvolta ci avviciniamo a degli spazi non costruiti, ci troviamo di fronte a delle teorie complicate e concettuose. Gehry, per fare un esempio, non ha mai elaborato una sovrastruttura intellettuale per giustificare le sue creazioni. Esattamente il contrario capita in coloro che, sul filo del rasoio, tendono a giustificare la mancanza di realtà con un costrutto che tenda a tappare i buchi di elaborazioni immature. Questo secondo estremo ha, per noi, un interesse del tutto secondario. Abbiamo studiato quelle personalità solo per avere un quadro completo del fenomeno e dimostrare come il sistema di relazione sia estremamente stretto. Il frammentato panorama che abbiamo richiamato in queste pagine presenta più discordanze che punti in comune. Siamo di fronte, pertanto, ad un composito gruppo di progettisti che non è possibile inquadrare in nessun movimento omogeneo. Certamente essi si sono formati sulle eredità della decostruzione internazionale, elaborando una diversa poetica scaturita dalla novità dello strumento utilizzato: il computer. In questo mondo, scorgiamo essere solamente due i punti di contatto che rendono lecito l’accostare personaggi, esiti e qualità così difformi: l’uso dell’elaboratore nel processo progettuale e la generazione di spazi non-euclidei. Questo duplice indirizzo possiede una forte coerenza. Non è data sperimentazione sulle geometrie non-euclidee senza l’uso dell’elaboratore. Certamente, il processo di uno spazio formalmente complicato non è una scoperta recente. Ma questa tendenza, già chiaramente delineata da diversi autori del Movimento Moderno, possiede nel mondo contemporaneo un più alto grado di complessità, divenuta ingestibile senza l’uso del computer. Questo dimostra la necessità, per questa corrente di derivazione decostruttivista, dell’uso dell’elaboratore per la gestione dell’idea spaziale. Tale presupposto ha creato la possibilità per i progettisti di spingersi verso territori più estremi, così arditi da far immaginare una macchina che fosse in grado di generare autonomamente l’idea spaziale. Tale fenomeno è da collocarsi accanto alla cultura Cyber che vede una fiducia incrollabile nella rivoluzione digitale. Possiamo notare in questo quadro conclusivo come le geometrie non-euclidee siano un punto di approdo molto preciso, con ragioni storiche fondate e ineluttabili. Sia interpretando il fenomeno come evoluzione della visione organico/espressionista, sia come risultato delle influenze dello Zeitgeist contemporaneo che permea la cultura contemporanea anche delle teorie matematiche e fisiche, la sintesi tra spazio non-euclideo e computer è una scelta obbligata per il sentire contemporaneo. La conclusione verso cui tutto sembra convergere è che spazio virtuale e architettura costruita, nell’ambito delle geometrie non-euclidee, appartengano esattamente alla medesima famiglia di sperimentazioni. Esse sono espressioni diverse di un’unica cultura, fatta di spazio informale, mondo cyber e uso disinvolto dell’elaboratore elettronico. Esiste solo un differente grado di verosimiglianza. Lo spazio virtuale non descrive affatto un mondo lontano. Così come la rete internet è una metafora dello spazio reale, composto di un territorio immateriale, una mappa strettamente fitta di interconnessioni e di rivolgimenti, allo stesso modo lo spazio non-euclideo che abbiamo descritto in queste pagine è un’“allegoria” della quotidiana esperienza dello spazio fisico. Anche lo spazio elettronico è spazio del vissuto, presenta caratteristiche del tutto simili e il fruitore non si trova dinnanzi ad un universo del tutto nuovo. Medesime sono le esperienze visive, identiche sono le logiche di connessione. Ci troviamo di fronte ad una percezione assai simile a quella reale. Lo spazio virtuale e quello reale è identicamente comunicativo. È un qualcosa all’interno del quale l’individuo, con la sua coscienza e con la sua percezione, vi si trova immerso. Al pari dello spazio reale, lo spazio virtuale presenta delle caratteristiche comuni: § deve essere percepibile; § deve comunicare; § deve essere dotato di logica; § deve essere biunivoco, ovvero consentire una fruizione in avanti ed indietro; § è uno spazio nel quale l’individuo proietta il proprio inconscio; § è uno spazio stimolante nel quale riconoscersi o nel quale riconoscere un gruppo di appartenenza; § deve avere profondità, ovvero deve offrire la sensazione di poter essere scoperto ed esplorato; § deve esprimere l’idea di libertà; § deve essere complesso; § formalmente deve essere espressione di una cultura. Questi caratteri danno un’idea della grande massa di implicazioni che la creazione di uno spazio virtuale necessita. Quindi, il problema di uno spazio non-euclideo virtuale non può assolutamente essere ridotto ad una pura questione formale. Quello che importa è che esso sia in qualche modo metafora del reale. Se questo non accade, la costruzione elettronica non è spazio ma qualcosa d’altro (ad esempio una semplice pagina video priva di profondità). Lo spazio, al contrario, dà sempre l’impressione di avere una polidimensionalità. Davanti ad uno spazio fisico e ad uno spazio virtuale, si ha sempre la precisa sensazione di avere un intero mondo da esplorare, fatto di diversi ambienti che sono lì in attesa di essere scoperti. Questo intendiamo quando parliamo di spazio complesso, virtuale e reale. In entrambi i casi, ci troviamo di fronte ad un sistema che non esaurisce la propria comunicazione con un’immagine immediatamente esperibile. Ogni forma di spazio deve essere interpretato, ha un suo mistero che non può essere decifrato istantaneamente. Questo rende così importante l’invenzione dello spazio virtuale noneuclideo. Non è solo una riproduzione figurativa delle sperimentazioni in architettura; nemmeno è un motore che influenza lo spazio antigeometrico della percezione fisica. Queste influenze biunivoche certamente esistono, ma hanno ragione d’essere esclusivamente perché la natura dello spazio fisico e dello spazio virtuale è identica. Queste parole non devono essere fraintese. Ciò non significa che spazio virtuale e spazio reale sono la stessa cosa. Le differenze sono fondamentali e numerose. § lo spazio reale coinvolge tutti i sensi dell’individuo, mentre lo spazio virtuale implica prevalentemente sensazioni visive; § lo spazio reale è continuo e, pertanto, non esistono divisioni tra ambienti diversi; § nello spazio reale troviamo problematiche legate alla tettonica, alla realizzabilità, alla natura dei materiali, alle necessità realizzative, tutti aspetti assenti nello spazio virtuale. Nella virtualità, questi elementi, se presenti, sono di natura biecamente imitativa e non forniscono alcun interesse alla nostra trattazione; § lo spazio reale è imperfetto ed imprevedibile, mentre quello virtuale, essendo frutto di un progetto, è ordinato e privo di qualunque forma di sorpresa. Quanto detto dimostra analogie e differenze, ma tende a verificare un aspetto in modo inequivocabile. Dal punto di vista della pura percezione visiva, le due specie di spazi sono identici. La progettazione dello spazio virtuale presenta delle somiglianze culturali rispetto a quello fisico e, viceversa, ne subisce i caratteri stilistici e le idee sulla sua natura. Non crediamo che ci possano essere confusioni tra i due tipi di spazio. Tutti e due hanno caratteristiche precise e distinte. In nessun caso possono essere confondibili ed intercambiabili. Né crediamo in ipotesi futuristiche nelle quali si potrà, un giorno, tentare una sovrapposizione. Le variabili del mondo reale sono infinite e nessuna elaborazione tridimensionale sarà in grado di riprodurle. Ed in omaggio alla matematica ci permettiamo di riconoscere che la complessità del mondo presenta un fascino derivato dagli infiniti di ordine superiore di Georg Cantor. Bibliografia generale Enciclopedia Multimediale Rizzoli Larousse 2001, RCS Libri, Milano, 2000. AA. VV., 8. Mostra internazionale di architettura. Next, Marsilio, Venezia, 2002. AA. VV., 7. Mostra internazionale di architettura. 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PARTE PRIMA Capitolo 2 Paragrafo 1 e 2 Autore Asymptote Architecture Luogo di formazione e di professione Categoria New York - USA Cyber-architetti Software usato Modellatore solido Aspetti poetici e tecnologici Forma architettonica che emerge dall’interpretazione delle stratificazioni del contesto e della cultura; generazione di forme con il computer, poi completate dagli elementi suggeriti dal contesto; ricerca fondata sulla gratuità, l’indeterminazione e l’irragionevolezza della forma; trasgressione; immaterialità; architettura fra il concettuale e il concretizzabile; architettura tra statica e dinamica; contaminazioni derivate dalla cultura d’immagine contemporanea; distorsione dei flussi di energia; cercare la nuance della contraddizione; fondazione di un nuovo senso degli spazi senza ostacoli. Nell’attuale produzione con lo strumento informatico: spazio come flusso di informazioni; frammentazione del visibile a partire dagli attuali strumenti ottici ed informatici; radicale riconfigurazione dell’architettura attraverso una mutazione radicale delle sue relazioni con lo spazio; l’architettura dovrà supportare innesti e sovrapposizioni; deformazioni delle sue coordinate attraverso interpretazioni simboliche della realtà; oggi l’architettura si deve svincolare dai tradizionali vincoli politici, economici e sociali; le nuove configurazioi sono rese possibili dai nuovi media; nuove modalità per il mondo; riflessione sul tempo e sul concetto di “ora”; l’edificio dovrebbe essere autonomo, senza che tuttavia si liberi dai suoi tradizionali contenuti che però non devono più determinare forma e funzione; concetto fondamentale di autonomia: libertà di pensare e lavorare entro la complessa sfera del reale; l’architettura riceve un’infinità di oggetti, un continuum di progetti che impongono nuovi limiti di definizione; architettura come non-evento; architettura in costante rinnovamento; l’architettura può essere esclusivamente virtuale; essa può essere costruita, esperita, compenetrata e manipolata attraverso la rete Web; nell’architettura esiste nuova “liquidità” e mutabilità che deriva e soddisfa il naturale desiderio dell’ignoto; con The Virtuale Guggenheim Museum è fondato un nuovo paradigma architettonico: tradizionali funzioni di un museo attraverso uno spazio virtuale in costante mutamento; lo spazio digitale include esperienze spaziali per chiarificare l’uso complesso di funzioni, ovvero lo spazio virtuale è strumento per l’uso di funzioni complesse (Virtual Nyse). 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Modellatore solido Aspetti poetici e tecnologici Architettura dell’incompletezza; sistemi caotici e complessi; architettura fluida; organismi costantemente modificabili; progettazione attraverso schemi differenti e con infinite variazioni; progettazione attraverso sezioni e prospetti; sistemi strutturali capaci di generare complessità e flessibilità; uso della geodetica; connessioni tra interno ed esterno attraverso superfici complesse; uso di diagrammi dinamici senza origine definita; uso di diagrammi-forza digitali 3D generati dalla continua interazione tra modelli reali e modelli computerizzati; coinvolgimento dei flussi dei sistemi viventi e non viventi; invenzione formale indifferente alla funzione; la funzione viene introdotta dopo che l’oggetto è costruito; concetto di curvatura e piega; poetica del non-finito; idea delle turbolenze applicate anche ai sistemi strutturali; luoghi come acenti parte della struttura. Riferimenti bibliografici essenziali Andrew Benjamin, Reriser+Umemoto, Recents Projects, Academy Editions, London, 1998 Christian Pongratz, Maria Rita Perbellini, Nati con il computer, Testo & Immagine, Torino, 1999 Siti Web Opera Titolo Yokohama Port Terminal, Tokyo Tipo Tipologia Progetto Areoporto Anno di progettazione Anno di realizzazione 1994 Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto Opera Titolo Kansai Library, Kansai Tipo Tipologia Progetto Biblioteca Anno di progettazione Anno di realizzazione 1996 Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto Opera Titolo Austria Music Theatre, Graz, Austria Tipo Tipologia Progetto di concorso Teatro Anno di progettazione Anno di realizzazione 1998 Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto PARTE PRIMA Capitolo 2 Paragrafo 2 Autore André Poitiers Luogo di formazione e di professione Categoria Hamburg, Braunschweig Cyber-architetti (Germania), London (GB) Software usato Microstation-J (CAAD), Microstation-Modeler (modellatore solido), Photoshop (videografica) Aspetti poetici e tecnologici Nuovo modo di sperimentare attraverso l’uso del computer; computer come estensione delle possibilità e capace di offrire soluzioni inaspettate; fusione delle esigenze funzionali, di uso, di forma e di invenzione spaziale nella nuova architettura; compimento del volume e degli spazi interni in modo automatico e contemporaneo; libertà di invenzione di forme, di tagli e compenetrazioni; fasi del lavoro: scelta dei vincoli del contesto, coordinate bidimensionali del progetto in base a tali vincoli, tale griglia e poi riempita dalla massa dell’involucro che interagisce con l’involucro, la struttura spaziale emerge dal “lancio” degli elementi volumetrici iniziali, da tale struttura spaziale emergono gli elementi funzionali e servizi, progetti di parti funzionali, integrazioni finali; legame tra design e architettura: sono la stessa cosa e si influenzano reciprocamente; ispirazioni da trarre dal quotidiano, dal “qui e ora” e non dalle utopie; indifferenza delle funzioni nella forma architettonica: la Plasma House può essere abitazione, aeroporto o centro acquisti; gli spazi sono contenitori di forma; opposizione alla forma blob: l’architettura deve essere lo sviluppo di una forma autonoma ma pienamente funzionale; la progettazione deve essere subordinata ad una severità funzionale effettata al di fuori della forma; scambio dell’architettura con altre discipline; l’architettura è un evento. 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Riferimenti bibliografici essenziali Erotische Museum Berlin, Katalog zum Ausstellung in der Aedes Galerie, Berlin, 1996 Förderprise des Landes Nordrhein-Westfalen für junge Künstlerinnen und Künstler 1999, Katalog, 1999 Anton Markus Pasing, Remote controlled architecture, Verlag H.M. Nelte, Wiesbaden, 1998 Angelika Schnell, Junge Deutsche Architekten, Birkhäuser, Basel-Berlin-Boston, 2000 Siti Web Opera Titolo Genesis 9, super tool Tipo Tipologia Progetto Progetto di cyborg interattivo Anno di progettazione Anno di realizzazione 1995/’96 - Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto Opera Titolo Invisible Tower, Rio de Janeiro Tipo Tipologia Progetto Progetto di grattacielo Anno di progettazione Anno di realizzazione 1995/’97 - Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto Opera Titolo Ektochanger, Deutschland Tipo Tipologia Progetto Edificio d’abitazione Anno di progettazione Anno di realizzazione 1991 - Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto Opera Titolo Erotisches Museum, Berlin Tipo Tipologia Progetto Edificio museale multimediale Anno di progettazione Anno di realizzazione 1996 - Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto Opera Titolo Das letztes Haus (L’ultima casa), Graz Tipo Tipologia Progetto - Anno di progettazione Anno di realizzazione 1995 - Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto PARTE PRIMA Capitolo 2 Paragrafo 2 e 3 Autore Marcos Novak Luogo di formazione e di professione Categoria Los Angeles e Parigi Cyber-architetti Software usato Non identificato. Utilizzo di diversi media per grafica, modellazione e musica Aspetti poetici e tecnologici Formazione di non-luoghi elettronici; architettura come interfaccia dell’immaginazione; riflessioni sul cyberspazio; il cyberspazio come luogo per creare spazi per l’abitare umano; uso di programmi generatori di vita artificiale; indefinitezza; architettura ridefinibile sostituendo le costanti con altrettante variabili; mutabilità della forma e conseguente “architettura e città liquida”; tempo come elemtno attivo dell’architettura; “Transarchitettura”; intersezioni e curvature delle superfici; trasformazioni evolutive imprevedibili; costruzione di modelli matematico-algoritmici; procedure generative determinate da molte variabili senza alcuna preoccupazione spaziale; variabili come possibilità di introdurre le influenze esterne; fenditure danno vita al progetto; variabili determinate da alcuni particolari del mondo reale; forma ome elemento conclusivo del progetto; ipersuperfici. Riferimenti Bibliografici Essenziali Christian Pongratz, Maria Rita Perbellini, Nati Con Il Computer, Testo & Immagine, Torino, 1999 Marcos Novak, Tierra Trans Form, In «Medien, Kunst Passagen, n. 3, 1994 AA. VV., Architecture as a Translation of Music, Pamphlet Architecture 16, Priceton Architectural Press, New York, 1994 AA. VV., Cyberspace: First Steps, MIT Press, Cambridge, 1991 Siti Web http://www.aud.ucla.edu/~marcos Rivista elettronica Centrifuge Opera Titolo Paracube Tipo Tipologia Spazio virtuale - Anno di progettazione Anno di realizzazione Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto PARTE SECONDA Capitolo 3 Paragrafo 3 Autore Greg Lynn (Form) Luogo di formazione e di professione Categoria Venice, California - USA Cyber-architetti Software usato Alias. Modellatore e animatore film e industria automobili Aspetti poetici e tecnologici Computer come strumento generatore di forma; processi di progettazione basati sulla deformazione di corpi elettronici; morfogenesi; attenzione alla forma; inclusione dei condizionamenti esterni nel progetto; inclusione del tempo e del movimento nell’architettura; dinamicità e flessibilità; computer come medium; concezione non-lineare del tempo; controllo del progettista sui sistemi autogeneranti di forma; studio delle geometrie topologiche; studio della forma a prescindere dall’architettura; uso di “vettori di trasformazione” per le superfici topologiche e segmenti; uso di software diversi per i processi generativi; improvvisazione e filtro critico; tecnica “Blob” e “Metaballs”; sconfinamenti dell’architettura nel design e nella produzione industriale; studio dei processi di produzione in tempi brevi. Riferimenti bibliografici essenziali a AA. VV., 7 mostra internazionale di architettura - Less Aesthetics More Ethics, Marsilio - La Biennale di Venezia, Venezia, 2000 Greg Lynn, Projects, Sites and Stations, Provisional Utopias, Lusitania Press, New York, 1995 Greg Lynn, Animate Form, Princeton Press, New York, 1999. Libro e CD interattivo Christian Pongratz, Maria Rita Perbellini, Nati con il computer, Testo & Immagine, Torino, 1999 Siti Web http://www.a-node.net http://www.basilisk.com Opera Titolo Embriological Housing Tipo Tipologia Progetto Studio di abitazioni Anno di progettazione Anno di realizzazione 1998 - Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto spazi per Opera Titolo Korean Presbyterian Church, New York Tipo Tipologia Architettura realizzata Chiesa presbiteriana Anno di progettazione Anno di realizzazione 1995 In corso di realizzazione Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto PARTE PRIMA Capitolo 2 Paragrafo 3 Autore Matthias Loebermann Luogo di formazione e di professione Categoria Stuttgardt (Germania), Londra (GB), Nürberg (Germania) Cyber-architetti Software usato ArchiCAD Aspetti poetici e tecnologici Integrazione tra media e architettura; nuove modalità di relazione tra architettura e questione pubblica effettuate anche grazie ai nuovi media; necessità di un’architettura concreta; ricerca di nuove idee, ma anche ipotesi per nuovi prodotti industriali riesaminati alla luce delle attuali esigenze industriali; progetti leggeri: molti padiglioni e sistemi espositivi; l’architettura deve avere una struttura elementare e fondamentale; contro il formalismo; neutralità della forma; flessibilità, capacità di accettare modificazioni, adattabilità: grazie a ciò gli edifici riescono a sopravvivere nel tempo; trasparenza: possibilità di relazionare l’interno all’esterno; la trasparenza non è una condizione ma una funzione dinamica; contro la rigidezza monolitica poiché nega la complessità e la capacità di relazione; gioco di sovrapposizioni, mobilità e permeabilità negli elementi di facciata; trasparenza è forma di virtualità. Riferimenti bibliografici essenziali Mattias Loebermann, Sequenzen, Verlag der Buchhandlung Walter König, Köln, 1998 Angelika Schnell, Junge Deutsche Architekten, Birkhäuser, Basel-Berlin-Boston, 2000 Siti Web Opera Titolo RID Pavillon, Hannover Tipo Tipologia Progetto Padiglione espositivo per Raumfahrt Initiative Deutschland Anno di progettazione Anno di realizzazione 2000 - Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto PARTE PRIMA Capitolo 2 Paragrafo 2 e 3 Autore Kunst und Technik Luogo di formazione e di professione Categoria Berlino (Germania) Cyber-architetti Software usato Non identificato.CAAD e videografica Aspetti poetici e tecnologici Fusione tra architettura, design, arte; investigazione degli spazi di confine tra persone, discipline e spazi e ridefinizione dei confini disciplinari; riflessione sulla virtualità indirizzata per indagare temi quali l’accessibilità, la connessione, l’usabilità e altre forme di comunicazione; la generazione culturale di Internet rappresenta una nuova interpretazione del pensiero di Benjamin; lo spazio virtuale non è più una fantasia ma può essere architettonicamente investigata; al centro della sperimentazione non ci sono emergenze spaziali, bensì percezioni espanse della realtà e del significato della tecnologia; sperimentazione sull’uso simultaneo di più spazi o realtà; progetti su estensioni della percezione sensoriale; uso attraverso la percezione; la sperimentazione sugli spazi virtuali non consiste nella riproduzione di spazi usuali con l’informatica, bensì l’ideazione di spazi invisualizzabili nel cyberspace e il tentativo di una loro traduzione nello spazio reale; produzione di immagini e loro riproduzione; costruzione di spazio attraverso la luce; produzione di spazi disorientanti; percezione della corporeità e non solo della visione; compresenza di tutti i sensi nella comunicazione e nella percezione; l’architettura, come i media tecnologici, devono avere funzione e significanza e devono essere relazionati alla realtà contemporanea e all’uso quotidiano. Riferimenti bibliografici essenziali Angelika Schnell, Junge Deutsche Architekten, Birkhäuser, Basel-Berlin-Boston, 2000 Siti Web http://www.realities-united.de http://www.kut-berlin.de http://www.multi.mind.de Opera Titolo [multi mind], Hamburg Tipo Tipologia Performance Installazione d’arte Anno di progettazione Anno di realizzazione 1999 1999 Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto Opera Titolo [lichtwaage], Berlino Tipo Allestimento Tipologia Installazione multimediale Anno di progettazione Anno di realizzazione 1997 1997 Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto Opera Titolo [flussbad], Berlino Tipo Tipologia Progetto Sistemazione della riva della Sprea nell’Isola dei musei Anno di progettazione Anno di realizzazione 1998 - Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto Opera Titolo Zentrum der Tierzucht, Hannover Tipo Tipologia Progetto Allestimento fieristico Anno di progettazione Anno di realizzazione 1999 - Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto PARTE SECONDA Capitolo 3 Paragrafo 2 Autore Frank O. Gehry Luogo di formazione e di professione Categoria Los Angeles - USA Architetti-scultori Software usato CATIA. Modellatore solido a blocchi Aspetti poetici e tecnologici Espressione del caos urbano nell’architettura; architettura scultorea; sperimentazione nell’uso semantico dei materiali; fluidità; espressività; architettura come arte; poetica del non-finito; grado zero dell’architettura; annullamento delle differenze tra colto e quotidiano; decostruzione; collisione tra blocchi edilizi; geometrie irregolari; movimento figurativo in architettura; creazione per “sommatorie”; architettura tesa alla creazione di una “scena urbana” di ispirazione barocca; operazioni di tranciamento, separazione, divisione; trasfigurazione degli elementi figurativi; Pop Art; collisione fra volumi; indifferenza del sistema statico da quello espressivo/architettonico; uso espressivo di materiali. Riferimenti bibliografici essenziali Francesco Dal Co, Kurt W. Forster, Hadley Soutter Arnold, Frank O. Gehry. Tutte le opere, Electa, Milano, 1998 Alessandro Rocca, Bilbao: studio di fattibilità per un museo di arte moderna e contemporanea, e Dalla spirale alla rete: Gehry, Gwathmey & Siegel, Isozaki, Wright, in «Lotus International», n. 85, maggio 1995 Coosje van Bruggen, Frank O. Gehry, Guggenheim Museum Bilbao, The Solomon R. Guggenheim Foundation, New York, 1997 Siti Web http://www.sectionweb.com/jp/design/fr-gehry.htm http://fly.to/decostruttivismo http://www.arcspace.com/gehry_new/ (in particolare Link dedicato a CATIA) Opera Titolo Guggenheim Museum, Bilbao Tipo Tipologia Architettura realizzata Museo Anno di progettazione Anno di realizzazione 1991 1997 Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto Opera Titolo Edificio per la «Nationale-Nederlanden, Praga Tipo Tipologia Architettura realizzata Edificio per uffici Anno di progettazione Anno di realizzazione 1992 1996 Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto PARTE SECONDA Capitolo 3 Paragrafo 4 Autore Peter Eisenman Luogo di formazione e di professione Categoria New York - USA Computer come architetto Software usato Software morphing Aspetti poetici e tecnologici Computer come sistema globale di azione; generazione dell’architettura è la reiterazione di cicli di modificazione esclusivamente formale effettuata dal computer; idea di simulazione; dialogo incessante tra modelli reali e virtuali; prassi di elaborare la forma, sovrapporla, mutarla, girarla nello spazio virtuale e portare a compimento quella “meno” chiara; uno della sovrapposizione, collage e montaggio; uso del Morphing; decostruzione in architettura; studio ed utilizzo della teoria del caos in architettura; uso di geometria booleane; ideare il puro spazio del vissuto; organizzazione spaziale nella quale l’interesse per la consistenza volumetrica dell’edificio e per qualunque risultato formale è ininfluente; uso dei media come strumento comunicativo in campo architettonico; rinnovamento dell’architettura in funzione delle nuove metodologie di percezione introdotte dal computer; perdita della razionalità del progetto; torsione di una massa addensata: idea di piegatura; sovrapposizioni funzionali e spaziali generate dal computer;uso di griglie sovrapposte e deformate; uso degli gli spazi interstiziali (between); idea della deformazione sospesa dei cristalli liquidi; uso di sistemi vettoriali di deformazione; impostazione di un metodo di deformazione indipendente dalla volontà dell’architetto. Riferimenti bibliografici essenziali Pippo Ciorra, Peter Eisenman: opere e progetti, Electa, Milano, 2000 Peter Eisenman, Diagram Diaries, Universe, New York, 1999 Luca Galofaro, Eisenman digitale, Testo & Immagine, Torino, 1999 Antonino Saggio, Peter Eisenman, Testo & Immagine, Torino, 1996 Siti Web http://guardiolahouse.interfree.it/ http://www.greatbuildings.com/architects/Peter_Eisenman.html http://www.greatbuildings.com/buildings/Frank_House-Eisenman.html http://prelectur.stanford.edu/lecturers/eisenman/ http://www.epdlp.com/eisenman.html Opera Titolo Carnegie-Mellon Pennsylvania Research Center, Tipo Tipologia Progetto Università Anno di progettazione Anno di realizzazione 1987-’88 - Pittsburgh, Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto Opera Titolo Casa Guardiola, Santa Maria del Mar, Cadice, Spagna Tipo Tipologia Progetto Casa d’abitazione Anno di progettazione Anno di realizzazione 1988 - Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto Opera Titolo Facoltà di Architettura, Cincinnati, Ohio Tipo Tipologia Progetto Università Anno di progettazione Anno di realizzazione 1988-’91 - Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto Opera Titolo Rebstock Park, Francoforte, Germania Tipo Tipologia Progetto Quartiere d’abitazione Anno di progettazione Anno di realizzazione 1998 1998-2002 Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto Opera Titolo Biblioteca per la Piazza delle Nazioni, Ginevra, Svizzera Tipo Tipologia Progetto Biblioteca Anno di progettazione Anno di realizzazione 1996-’97 - Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto Opera Titolo Staten Island Institute of Arts and Sciences, New York Tipo Tipologia Progetto Spazio museale e nodo d’interscambio Anno di progettazione Anno di realizzazione 1997-2002 - Foto PARTE PRIMA Capitolo 2 Paragrafo 2 e 3 Autore Günther Domenig Luogo di formazione e di professione Categoria Graz - Austria Architetti-scultori Software usato ArchiCAD. CAAD per architettura Aspetti poetici e tecnologici Aggressione della forma; fusione edificio-territorio; architettura-scultura; legame tra la parte e il tutto; penetrazione di corpi architettonici; il corpo e lo spazio interposto; introspezione psicologica; unità tra intero e contesto; opere che scaturiscono da un punto interno esplodendo; scelta dei materiali determinata dagli schizzi iniziali; architettura come organizzazione estetica; disegno come fondamento dell’architettura; senso di leggerezza e del volo; dissoluzione dell’architettura come scatola ed elemento concluso; sintesi fra arte e architettura, uso luministico dei materiali. Riferimenti bibliografici essenziali Paolo Vincenzo Genovese, Günther Domenig. Lanci di masse diroccate, Testo & Immagine, Torino, 1998 Raffaele Raja, Günther Domenig. Werkbuch, Residenz Verlag, Salisburgo-Vienna, 1991 Günther Domenig, Steinhaus, Ritter Verlag, Klagenfurt, 1993 Siti Web http://www.iic.wifi.at/Graz/standard/bereiche/domenig.htm http://www.bldgsite.com/journal/bauen.htm Opera Titolo Zentralsparkasse in Favoritenstrasse, Vienna Tipo Tipologia Architettura realizzata Edificio bancario e centro culturale Anno di progettazione Anno di realizzazione 1974 1974-’79 Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto Opera Titolo Steinhaus, Steindorf, Carinzia, Austria Tipo Tipologia Architettura realizzata Casa per abitazione Anno di progettazione Anno di realizzazione 1986 In corso di realizzazione Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto PARTE PRIMA Capitolo 2 Paragrafo 2 e 3 Autore Neil M. Denari Architects Luogo di formazione e di professione Categoria New York, Los Angeles - Cyber-architetti USA Software usato Non identificato. CAAD di architettura Aspetti poetici e tecnologici Azione progettuale volta a disegnare mappe del mondo, fogli su cui registrare i territori; uso di superfici avvolte su se stesse per creare geometrie 3D; architettura fluida; il mondo è visto come un foglio ripiegato su se stesso; architettura che nasce da una sovrapposizione tra diversi elementi quali funzione, forma, testo, materiali; idea di architettura nata da una “proiezione ininterrotta”. Riferimenti bibliografici essenziali Neil M. Denari, Gyroscopic Horizons, Princeton Press, Cambridge, 1999 Neil M. Denari, Recents Work , E.S.P. Publications Co.Ldt, Bangkok, 1996 Christian Pongratz, Maria Rita Perbellini, Nati con il computer, Testo & Immagine, Torino, 1999 Siti Web http://japan.park.org/Japan/Sony/3DWorld/Neil_Denari Opera Titolo Massey Residence, Los Angeles Tipo Tipologia Progetto Villa unifamiliare Anno di progettazione Anno di realizzazione 1994 Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto PARTE PRIMA Capitolo 2 Paragrafo 2 Autore Coop Himmelb(l)au Luogo di formazione e di professione Categoria Vienna - Austria Architetti-scultori Software usato Non identificato. CAAD per architettura Aspetti poetici e tecnologici Biomorfismo; distruzione della scatola e consistenza muraria; rinnovamento della concezione dell’abitare; linguaggio; coniugazione tra tecnologia e linguaggio; dissonanza, caos, instabilità, dissoluzione, corruzione della forma architettonica e della tipologia; contributi extradisciplinari all’intero dell’architettura; fusione tra arte, architettura e performance; indeterminatezza dello spazio; poetica del frammento; uso di materiali economici; dinamica spazio/temporale; dissoluzione della purezza linguistica; materiali poveri per l’esaltazione del frammento; decostruzione; progettazione come divertissement; concetto di “stratificazione”. Riferimenti bibliografici essenziali Coop Himmelb(l)au, Architektur ist jetzt: Projekt, Gerd Hatje, Stoccarda, 1983 Coop Himmelb(l)au, Die Faszination der Stadt, Verlag der Georg Buechner, Darmstadt, 1988 Cesare De Sessa, Coop Himmelb(l)au, Testo & Immagine, Torino, 1998 Sara S. Richardson, Coop Himmelb(l)au: Wolf Prix and Helmuth Swiczinsky: a bibliography, Vance Bibliogr., 1989 Siti Web http://www.t0.or.at/~kfricke/kanal2.htm http://db.nextroom.at/nextroom/profil/11617.html http://stud2.tuwien.ac.at/~e8725259/P2.htm Opera Titolo Cinema multisala UFA, Dresda Tipo Tipologia Architettura realizzata Multisala cinematografica e caffetteria Anno di progettazione Anno di realizzazione 1993 1998 Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto Opera Titolo Museo, padiglione Est, Groningen, Olanda Tipo Tipologia Architettura realizzata Museo Anno di progettazione Anno di realizzazione 1993 1995 Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto Opera Titolo Fabbrica Funder 3, St. Veit an der Glan, Carinzia, Austria Tipo Tipologia Architettura realizzata Fabbrica Anno di progettazione Anno di realizzazione 1988 1989 Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto PARTE PRIMA Capitolo 2 Paragrafo 2 Autore Dagmar Richter Studio Luogo di formazione e di professione Categoria Stuttgardt, Frankfurt am Cyber-architetti Main (Germania), Kopenhagen (Danimarca), Los Angeles (USA) Software usato Modellatore solido Aspetti poetici e tecnologici Adesione alla corrente femminista; riflessione sul rapporto tra pensiero femminista e pratica di progetto postmoderna; riflessioni sull’autonomia dell’autore nel processo di progettazione; miniaturizzazione come acquisizione di flessibilità anche attraverso i suoi significati politici; problematizzazione dei concetti di “traduzione”, “copia”, “canto corale” in rapporto ai problemi di progetto; intersezioni tra ricerca e attività di progetto; continue riletture e nuove interpretazioni della realtà; riconfigurazione della sfera infrastrutturale a livello territoriale; apertura verso nuove possibilità spaziali e architettoniche; dissoluzione delle grandi masse architettoniche; prevalenza delle strutture leggere; controllo elettronico della progettazione è in grado di soddisfare le complesse domande della società contemporanea; pensiero complessivo e funzione tra architettura, territorio, trasporti e pensiero sostenibile; integrazione tra zone agricole ed infrastrutture; nuova leggerezza dell’architettura, nuova flessibilità, nuove libertà grazie ai nuovi materiali; forme non predeterminate; fluidità come nuova forma simbolica per il nuovo millennio; complessità e non-linearità. Riferimenti bibliografici essenziali ArchiLab, Katalog zur Austellung in Orléans Empty Space, Austellungskatalog zum 6, Wienerarchitekturseminar 1995, Wien-NewYork, 1996 Francesca Hughes, The Architect. Reconstructing her Practice, MIT Press, Cambridge MA Angelika Schnell, Junge Deutsche Architekten, Birkhäuser, Basel-Berlin-Boston, 2000 Siti Web Opera Titolo Neue Bürolandschaft, concorso per Shinkenshiku Tipo Tipologia Progetto Sistemazione urbanistica di contorno nodo autostradale Anno di progettazione Anno di realizzazione 1994 - Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto Opera Titolo Zeitkapsel Tipo Tipologia Progetto Oggetto di design e sistemazione di paesaggio Anno di progettazione Anno di realizzazione - - Piante, schemi diagrammatici e teorici Foto Kunst und Technik Berlino Domanda: Il mio lavoro riguarda gli influssi del computer sullo spazio, ovvero sull’architettura, sulla progettazione. Che cos’è lo spazio? Che cos’è lo spazio elettronico e lo spazio reale, ci sono differenze? Risposta: Sicuramente si vuole arrivare al punto in cui queste due realtà si integrano a vicenda. Potrei cominciare a descrivere quello che percepisco. Nello spazio elettronico si cerca di simulare, con il computer si cerca di sostituire, riprodurre i sentimenti. Nei giochi elettronici vediamo una ricerca dell’ambiente realistico. E molta gente è affascinata dalla possibilità di riprodurre spazi, avvenimenti, situazioni del mondo reale. Ma se riflettiamo un po’ più approfonditamente, questo alla fine può risultare la cosa meno interessante, poiché i limiti del mondo reale - come ad esempio la forza di gravità, la logica dello spazio, il fatto di dover entrare ed uscire dall’unica porta presente in una stanza - sono limitazioni che non dovrebbero essere assolutamente presenti nello spazio elettronico. Ed è quindi interessante utilizzare la libertà assoluta che ci offre lo spazio elettronico. Penso comunque che sotto questo punto di vista, ovvero il concetto del senso dello spazio e spazio elettronico, siamo ancora all’inizio. Il problema è come collegare i due spazi. I tentativi in questa direzione sono innumerevoli, ma la cosa più importante è il concetto che la geometria possiede nello spazio e nello spazio elettronico in modo che si vada al di là di quello che viene definito dai tecnici. Essi si limitano a rispecchiare nello spazio elettronico la geometria dello spazio materiale. D: La geometria è importante nello spazio elettronico? R: Lo spazio elettronico non dev’essere geometrico. Lo spazio geometrico può essere senza forma. E’ tuttavia importante capire dove si colloca il punto d’incontro dello spazio reale con lo spazio elettronico; in più deve esserci un contatto logico con lo spazio reale ed elettronico, in modo che il secondo offra un ampliamento della realtà. Non è infatti detto che lo spazio elettronico sia geometricamente strutturabile o configurabile. Ad esempio, nello spazio elettronico a cui accedo, clicco su un cuscino perché voglio sapere di che materiale è fatto, ma invece mi si visualizza un testo che non corrisponde ovviamente ad una forma geometrica; l’importante è il testo in se stesso. Il fatto che lo spazio elettronico sia geometrico, non è altro che un caso particolare, cioè uno modo speciale di completamento dello spazio reale. Che oggetti materiali geometrici e oggetti elettronici vengano simulati elettronicamente è un dato di fatto specifico. D: Ci sono delle nuove linee di pensiero sulla forma in questi ultimi anni nella cultura elettronica? R: C’è la speranza che questa cultura ci sia. Con l’avvento del computer è possibile pensare a spazi più complessi rispetto a prima. Quando abbiamo in mano un oggetto complesso è difficile “penetrarlo” con il pensiero, capirne il senso. Quindi sarebbe positivo se il computer potesse aiutarci in questa fase, ma ho la sensazione che per noi ciò non sia ancora diventato una realtà. Devo anche aggiungere che noi non dedichiamo molto tempo alla realizzazione della forma, ma ci fermiamo ad un livello più concettuale. Quindi è difficile arrivare ad una concretizzazione della forma. Sotto questo punto di vista noi non siamo dei “ricercatori/scienziati della forma”. Altre persone sono molto più avanti di noi nell’utilizzo del computer come “mezzo/attrezzo” di pensiero. Ma penso che questo sia un punto dove noi tutti vogliamo arrivare. Questa è una componente. L’altra componente per me essenziale, anche se può sembrare un po’ pragmatica, è che la nostra idea/rappresentazione si può discostare un po’ da quello che poi potremo realizzare, sempre se parliamo di architettura. Ad esempio una determinata forma angolare non sarebbe realizzabile senza l’impiego del computer. Nessuno sarebbe in grado di realizzare i progetti per questo singolo particolare se nel computer non ci fosse già il modello. Quindi il computer deve essere un “utensile” di pensiero e cultura, ma noi non siamo “studiosi della forma”. Anche noi abbiamo installato in poco tempo i programmi, ma non abbiamo attuato nessun tipo di ricerca di una nuova forma D: Si può parlare di forma senza spazio materiale? R: Sì, assolutamente. Quello che manca a tutto questo mondo virtuale, ai giochi elettronici è una lingua autonoma della forma. Quello che vediamo in questo mondo virtuale deriva dal mondo materiale, si tratta di un’architettura legata alla forza di gravità, di un’architettura conosciuta. Non è un’architettura elettronica. Essa dovrebbe essere tridimensionale, come minimo! Ci deve essere quindi una forma specificamente sviluppata nello spazio elettronico, ed è la cosa che oggi ancora manca. Forse ciò è da attribuire al fatto che si vuole arredare lo spazio elettronico con oggetti del mondo reale, ben conosciuti per rafforzare il senso di “immersione”. Ma saranno cose che prima o poi dovranno scomparire perché, ad esempio, non ha senso costruire una volta in uno spazio elettronico perché non ci sono pesi da sostenere o sostegni necessari per il soffitto. D: Spazio senza forma o forma senza spazio? R: Dipende da come la si pensa. Ci sono persone che riescono a vedere una forma estraniandola dallo spazio. Questo è comunque possibile solamente nello spazio virtuale, non in quello reale. D: Qual è il punto iniziale nella progettazione? Quali sono i primi passi nello spazio architettonico? R: Beh, questo dipende da quello che si vuole raggiungere. E’ necessaria una riflessione. Ci succede infatti che l’oggetto realizzato sia diverso da quello pensato. L’architettura, gli spazi sono una possibilità. A volte realizziamo macchine o software, ma non mi posso immaginare che il primo passo nel senso di architettura come spazio reale possa essere il primo a nascere. Prima deve esserci sempre un altro pensiero e poi giungo alla conclusione che per realizzare questa idea ho bisogno dell’architettura. Il grande cambiamento che avverrà nei prossimi anni, o decenni, sarà la possibilità di avere spazi virtuali. Se voglio, potrò andare a fare la spesa nello spazio virtuale, cosa di cui si sta ora molto parlando. Quindi mi sembra chiaro che una delle conseguenze sarà che la funzione si sposterà dallo spazio reale a quello virtuale. Non vado più in negozio a comprare, bensì attraverso il computer mi muoverò tra spazi virtuali (Webpage). Ma cosa succede allo spazio reale? Verrà meno una determinata funzione reale? Molte persone hanno paura, ma in fondo proprio in questo c’è una possibilità; non tutte le funzioni devono essere materializzate, ma avrò la possibilità di decidere: costruisco il grande magazzino realmente o virtualmente? Quindi in futuro si arriverà alla decisione che tutto quello che oggi si vuole simulare con il computer, cambierà direzione. Invece di pensare che cosa posso sostituire della realtà, si arriverà ad una osservazione più uniforme. Un certo oggetto lo voglio reale, mentre un altro lo vorrò virtuale ed il mio mondo si comporrà egualmente di cose materiali e virtuali. Un esempio: posso immaginare una stanza con tre pareti ed una parete monitor, in modo tale da creare una realtà mediale che simuli il tridimensionale. Si giungerà ad una maggiore livellamento. Avrò la libertà di decidere di non costruire tutto in cemento, e ne consegue una maggiore libertà di rappresentazione della realtà. Nell’architettura questo si manifesterà nel modo seguente; diremo: «questo lo voglio in cemento senza dover pensare o passare attraverso l’architettura materiale, questo sarà il secondo passo o forse il terzo». D: Che cosa significa ora il computer, i software, l’intero mondo informatico? R: Il computer è semplicemente un supporto operativo, se devo scrivere un testo, ad esempio, non posso più immaginare di farlo senza l’aiuto di un programma di elaborazione testi. Specialmente con testi lunghi. Il computer ti permette in parte di lavorare in modo indisciplinato, ma a volte è estremamente autoritario e ti costringe in strutture di pensiero molto rigide assolutamente non volute dall’operatore. D’altra parte ci permette di gestire e amministrare le cose in modo completamente diverso da un supporto operativo convenzionale che non è in grado di essere alla stregua del computer. Il computer facilita certe operazioni, mentre in altri casi le rende più difficili. Sicuramente oggigiorno il lavoro eseguito con il computer si contraddistingue. Dieci anni fa si usavano i modelli architettonici in polistirolo, mentre oggi viene tutto eseguito con modelli eseguiti al computer. L’influsso del computer non è così neutrale come si pensi. D: La cultura architettonica viene influenzata dal computer? R: Indubbiamente. La maggior parte dei software proviene dall’America e sicuramente influenzano in modo diverso l’architettura rispetto ai software prodotti in altre nazioni. André Poitiers Hamburg Domanda: Che utilità ha il software nella costruzione di Plasma House? Risposta: Il programma, con la sua struttura, rende possibile e risveglia tutto un nuovo modo di sperimentare. I moderni software CAD offrono a chi elabora il progetto e al costruttore uno strumento con il quale si possono generare tutte le forme immaginabili. La immissione dei dati segue il rapporto 1/1. Esiste allora un cambiamento di direzione, una violazione delle esigenze funzionali e costruttive con l’umanizzazione della scala [Maßstab] che è possibile trovare un ambiente pseudoreale. Le strutture di Plasma House nascondono in un processo cooperativo uno spazio tridimensionale dei programmi CAD sotto la considerazione della forma, della funzione e delle esigenze di utilizzazione intorno allo spazio. Il programma CAD genera le forme con l’aiuto delle operazioni booleane. In questa prassi matematica il modo di eseguire i modelli 3D non segue solo la visualizzazione, bensì anche vengono impiegate e seguite le decisioni legate alle coordinate spaziali e alle “strutture a griglia” [Gitternetzstrukturen]. Ogni punto nello spazio tridimensionale è esattamente stabilito. Questo potenziale programma è la condizione fondamentale per l’analisi, la modificazione e il compimento di un volume e delle strutture interne ad esso subordinate. Gli effetti primari dei volumi si generano attraverso la combinazione di cinque numeri elaborati dallo strumento di lavoro: per esempio le primitive 3D (quali cubo, sfera, cilindro, ecc.) si possono estrudere attraverso rotazioni o sviluppi lineari. Il volume si può tagliare in parti a proprio piacimento, differenziare o riunire insieme attraverso procedimenti di fusione. Attraverso operazioni di scomposizione si decompongono i volumi in superfici. Queste diventano, attraverso assegnazioni opportune, muri solidi di elementi costruttivi guidati per essere prodotti. Il software offre accanto agli strumenti costruttivi e di modellizzazione una serie di possibilità di visualizzazione. Queste serie vanno dalle rappresentazioni fotorealistiche fino ai modelli tridimensionali interattivi con più attori. D: Quali software utilizza? R: Microstation-J, Microstation-Modeler, Photoshop. D: Può, attraverso otto fasi, descrivere lo sviluppo di Plasma House, il suo lavoro più rapporesentativo? R: Fase 1 Libera scelta di volumi, dipendenti dal tipo di direttive edilizie della città. Fase 2 Ordinamento bidimensionale della struttura spaziale risultante in base agli esami riguardo le profondità d’uso degli spazi e al piano delle altezze. Fase 3 Questa struttura spaziale deve riempirsi con la massa architettonica. Da ciò si esercita una pressione negativa utile allo spazio dell’involucro nei singoli piani esposti a tali forze. Fase 4 Sulla base di questi requisiti spaziali i volumi sviluppati sono eliminati, dopodiché sussistono operazioni di lancio al di fuori dell’organismo in opposte direzioni, cosicché una nuova struttura spaziale emerge, questa volta differenziata, in modo che, ora, le capacità funzionali possono essere analizzate. Fase 5 Un ulteriore processo del lancio segue: i nuovi corpi spaziali emergono nuovamente; questi dipendono da funzione e posizione e sono collegati attraverso elementi secondari come ponti, scale, passaggi, ecc. Fase 6 I singoli volumi sono suddivisi in grande densità di intrecci con reti funzionali. Fase 7 Le singole parti sono articolate in tutti i piani nelle tre dimensioni e quattro livelli. Fase 8 Integrazioni del modello completo. D: Può, per cortesia, descrivere passo per passo il suo procedimento di costruzione della Plasma House? R: Uno un oggetto d’uso quotidiano - in questo caso l’imballaggio dell’orologio G-Shock Casio - deve essere costruito in funzione di particolari obiettivi che vengono posti, scelto nella produzione di massa; questo viene dapprima digitalizzato e conseguentemente con uno speciale software elaborato. D: Quali paralleli vede tra gli oggetti di design e l’architettura? R: Non c’è nessuna distinzione per me tra design e architettura. Ambedue hanno un fine da raggiungere: loro devono portare una domanda funzionale in una forma. Per dirla più semplicemente significa: la funzione in una casa è nell’abitare, nel lavorare o qualcosa nel portare a conoscenza. Prendendo ad esempio un cavatappi, questo deve essere appropriato all’uso, ovvero estrarre un tappo dalla bottiglia. In entrambi i casi affermano, nella forma, un legame tra finalità ed estetica. L’estetica del design e dell’architettura è inoltre la maggiore espressione dello spirito del tempo o dimostra il presente. Uscendo al di fuori di questi semplici paralleli possiamo trarre la conclusione che è insensato definire una distinzione tra design e architettura. D: Perché lei parte con la sua prima fase? R: Poiché c’è una profonda analogia tra design e architettura, perché non ci si deve servire della creatività, infilando le forme? Tali influssi trasversali non sono eccezionali: musica e moda si ispirano l’un l’altro, lo sport influenza la moda e così via. Per me questa è una causa pressoché inevitabile, di come un oggetto di design come l’imballaggio dell’orologio G-Shock si sviluppa in una casa. Per questo l’imballaggio dell’orologio GShock non ha un carattere astratto e autonomo nella forma, bensì essa è anche multifunzionale nelle sue possibilità - si dimostra con ciò fuori dall’architettura tradizionale. Esso è accatastabile e più il suo imballaggio è comunicativo, rappresentativo. Inoltre l’imballaggio si può alleare con altri elementi per generare una nuova struttura: più imballaggi possono essere riuniti in uno schermo a formare una grande pila. E alla fine superano anche le loro possibilità, gli imballaggi alienano il loro originario scopo e possono essere riempiti da qualsiasi cosa. Precisamente così nel futuro si lavorerà con i moduli dell’architettura. Con ciò appare ovvio che le cose non hanno alcuna comune finitezza, e solo le pareti si possono spostare o al più scegliere la forma delle coperture. Tutto va verso un nuovo e radicale sbocco: le forme base relative e astratte possono dipendere dal contesto e dalla funzione differenziandosi in base ai contenuti. D: Cosa vuole dimostrare con le sue idee sulla Plasma House? R: L’architettura degli ultimi vent’anni si è occupata principalmente delle sue radici storiche. Un esempio di questo è l’architettura industriale formata dall’estetica dell’acciaio e del vetro. La stagnazione creativa fu il risultato. È perciò tempo che l’architettura guardi fuori di sé. Questo sta facendo e, mentre percorre questi passi uno dopo l’altro, trasforma il territorio annettendolo a sé e sfruttandolo. Questo territorio è divenuto il disegno di un oggetto d’uso. In un certo qual modo, sussiste una nuova importanza per un simile processo [di rapporto con il territorio], esattamente come il territorio ha influito sulla visione nel periodo successivo agli anni sessanta. Attraverso le fantasie sulla navigazione spaziale, Archigram, Superstudio e J. Friedmann hanno provocato in modo esemplare l’entusiasmo tecnologico. E loro furono naturalmente influenzati dalle avanguardie russe. Nelle sue forme estreme questi schizzi architettonici di stazioni spaziali potevano atterrare in qualsiasi luogo. Questi luoghi possiedono perciò una nuova funzione e una nuova definizione. La classica edilizia urbana avrebbe trovato in questi modelli un carattere solitario. Non si sarebbe classificato come ambiente, bensì vi si sarebbe subordinato. L’ingenuo entusiasmo per la navigazione spaziale e per il progresso tecnologico è passato da molto. Oggi è il mondo è sufficientemente occupato con il suo “qui e ora”. Le utopie sono qualcosa del passato millennio. Le utopie hanno corrisposto allo spirito del tempo, si sono occupate di vuote presenze. La vita quotidiana e i temi dei nostri giorni sono le vere ispirazioni. D: Qual è la relazione concettuale tra Plasma House e il design di oggetti? R: Plasma House ha relazioni tra oggetto e architettura, tra forma e funzione. Plasma House ha le stesse qualità di una confezione. Essa è accatastabile in fila e può essere integrata in strutture superiori. Inoltre può essere usata per scopi diversi: come abitazione, centro di acquisti, come terminal di aeroporto, eccetera. La sua costruzione segue il concetto «la funzione segue la forma»: gli spazi vengono classificati nelle forme prestabilite [gli spazi vengono classificati come contenitori di forma (MIO )]. Questo è un compito assai impegnativo, ma d’altro lato questa è una vera innovazione per la forma. Esso è un passo verso un incerto avvenire. D: Che paralleli ci sono tra Plasma House e l’architettura sperimentale degli anni sessanta? R: Il primo parallelo è: entrambi sono esperimenti e con ciò sono salti in un nuovo mondo di pensiero. La prima cosa fu che tutto divenne un gioco improvvisamente senza più ruoli. Le referenze nascono invece sui fenomeni, sugli sviluppi, sulle correnti fuori dall’architettura. Allora, negli anni sessanta, l’architettura era influenzata dalle navigazioni spaziali, dalla fantascienza e dalla Pop Art. Oggi c’è un ardente desiderio verso le realtà comprensibili, aspetto indicato ovunque nella società (il successo delle Soap-opera televisive è un sintomo), e verso le illimitate possibilità dei software per computer e la loro del tutto singolare estetica. Oltre a ciò abbiamo anche qualcosa in più: il reale esiste anche agli oggetti d’uso comune elaborati con il computer. D: Fino a che punto la sua Plasma House è collegata alla cultura Blob? È una nuova definizione del Blob? R: La genesi del blob è sfuggita alla genesi della Plasma House. Il Blob ha - come anche le strutture biomorfe alla moda - forme arbitrarie e per ultimo anche non funzionali. Nelle sue varianti delle prove costruttive essa è una forma senza contenuto. Plasma House, al contrario è lo sviluppo di una struttura esistente, essa ha una funzionalità autentica. Essa è vuota, ma questo è anche un nuovo sbocco per l’architettura. Un ulteriore differenza è la giocosità, e con questo l’ultima facoltà del Blob, Plasma House sostiene una severità funzionale sviluppata al di fuori. D: I moderni software inaugurano nuove vie nello sviluppo dei progetti? R: Si. Il software diventa un costruttore digitale sotto il controllo degli architetti umani. Esso interpreta i vantaggi e procure quindi un risultato, questo ha una speciale permanenza nella coscienza. D: Perché lei procede così? R: Molto semplice: le possibilità tecniche stabiliscono oggi il nostro pensiero. Pochi anni fa nessuno comunicava tramite messaggi SMS con i telefono cellulari, perché questa possibilità non c’era. Ora si spediscono notizie, immagini, pezzi musicali tra le persone con questi sistemi digitali. La comunicazione trova con ciò una nuova maniera di esprimersi. Anche l’architettura si comporta così. I nuovi software-CAD e la nuova estetica digitale aprono alla configurazione degli edifici una nuova dimensione. Anton Markus Pasing Münster Domanda: Cosa significa per lei spazio in architettura? Che ruolo gioca per lei? Risposta: Lo spazio è la “pre-essenza”, nel senso di “esistenza a priori”. È un concetto aprioristico. Solo dentro questa ipotesi di spazio noi siamo nella condizione di intraprendere una divisione, di considerarlo come entità a se stante, sfumarlo e fare delle formulazioni. L’architettura è solo una delle possibili espressioni all’interno dello spazio. Per quanto concerne gli ambiti sconfinati, lo spazio calma le nostre piccole anime con la creazione di un sotto-spazio simulato, verificabile e chiaro. Uno spazio non può essere diviso. Esso rimane sempre tale. L’architettura ci aiuta a trovare un luogo. Attraverso l’architettura, noi trasmettiamo nella matrice spaziale le nostre rappresentazioni di mondo e molto altro ancora. Lo spazio architettonico non è altro che un medium usato da molti. D: Brevemente, quale relazione esiste tra la sua architettura e la forma? R: La forma non esiste senza materiale. La forma non è solo la formulazione di materiali con lo scopo di soddisfare i sensi (in senso erotico), o per richieste di carattere estetico o funzionale. La forma è un’auto-soddisfazione materiale e visuale. La forma è un’impronta dell’anima. L’architettura è, a tal riguardo, solo una variante della forma. La forma segue i sogni (Form follows Dream). D: Qual è il punto di inizio, il primo passo nella genesi dell’organismo architettonico? R: La brama, il desiderio è il punto di inizio. Successivamente noi costruiamo un’idea per mezzo di un concetto che può diventare architettura. L’architettura può essere definita organismo solo finché l’umanità con essa comunica o usa l’architettura. L’architettura senza umanità è morta. Architettura e uomo costruiscono una famiglia. D: Quale ruolo gioca il supporto del computer nella costruzione dei suoi progetti? R: Il supporto informatico è, nella regola, solo uno strumento. Esso non rimpiazza nessuna idea e nessun concetto. Tuttavia, i difetti e le possibilità dei diversi programmi possono talvolta inserire apparizioni inattese o notevoli nella nascita dell’architettura. Questi sbocchi possono essere dentro il progetto. Il computer può dare impulsi. D: Quali software utilizza? R: Cinema 4d, Vector Works (MiniCad), Photoshop, Strata Studio Pro, Swivel 3d, 3d Max, Quark X-Press.