Ecumenismo nell`ottica del VATICANO 2
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Ecumenismo nell`ottica del VATICANO 2
Gianfranco Bottoni Ecumenismo e dialogo interreligioso nell’ottica pastorale dopo il Concilio Vaticano II A cinquanta anni dall’inizio del Concilio Vaticano II che ci ha consegnato il decreto, che è quasi una costituzione, sull’ecumenismo Unitatis Redintegratio e la dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra Aetate ci rendiamo conto dell’enorme cammino che l’evento conciliare ha messo in moto. Al punto che più che ristudiare i testi conciliari, ci appare importante volgere lo sguardo su quanto essi, insieme allo svolgersi della storia, hanno provocato. E con un’attenzione sia alla formazione di una fede adulta sia alla dimensione pastorale della vita ecclesiale. Quale potrebbe essere la prospettiva con cui una Comunità parrocchiale si occupa di ecumenismo cristiano e di dialogo interreligioso? Penso che possa essere quella di collocarsi nella problematica di operatori pastorali e sociali, che s’interrogano sui contenuti della predicazione e della catechesi e sulla qualità delle relazioni con soggetti di diversa identità culturale e religiosa. I cristiani di oggi infatti non possono non interrogarsi sul senso e sulle forme della propria testimonianza e della propria missione nel contesto di una società culturalmente secolarizzata e socialmente frammentata. Questo tipo di società è terreno propizio per la diffusione sia delle nuove forme di religiosità e dei movimenti ad esse connessi, sia delle grandi religioni storiche, che penetrano attraverso i fenomeni dell’immigrazione e della globalizzazione: questa società multireligiosa interpella i cristiani proprio sui versanti dell’ecumenismo e del dialogo. All’interno di questo quadro mi limito, in modo del tutto rapsodico, a proporre solo qualche considerazione che mi è suggerita dall’impegno ecumenico a Milano. 1. Che cosa s’intende per ecumenismo? Innanzitutto urge liberare la parola ecumenismo da equivoci e fraintendimenti. Troppo spesso il termine assume connotazioni negative e spregiative, perché ricondotto ad atteggiamenti acritici di ingenuo irenismo, di relativismo della propria identità confessionale, di sincretismo etico e religioso. Questi atteggiamenti possono anche avere riscontri nella realtà, ma non sono mai espressione dell’ecumenismo: dovrebbero, invece, essere diagnosticati come patologia di un cristianesimo immaturo. L’ecumenismo non può essere confuso con l’assenza di tensione e di dialettica nella ricerca della verità. Esso è espressione della vita cristiana adulta, che è ricerca di Dio nella sequela del Signore e sotto la guida dello Spirito. E lo Spirito di Dio non uniforma, ma diversifica le forme storiche dell’esperienza cristiana per unirle in un’armonia che valorizza le differenze in modo dialettico e trascende i nostri progetti concordistici 1 di fallace unità. Tutto questo esige conversione alle vie di Dio: qui sta il cuore dell’impegno ecumenico. Il Sinodo 47° della Diocesi di Milano definisce l’ecumenismo come “il cammino che lo Spirito fa percorrere ai battezzati e alle Chiese sulle vie della conversione a Dio e della riconciliazione in Cristo; proprio attraverso questo cammino i cristiani “si aprono alla maturità spirituale della fede e riconoscono di essere già tra loro in una vera, anche se non completa, comunione”. E “la Chiesa continua il Sinodo milanese - è sempre in tensione ecumenica al di là del problema contingente delle sue divisioni storiche: tale tensione ecumenica verso la pienezza della verità e della comunione, che è la ‘cattolicità’ della Chiesa una e santa, si lega al mandato apostolico della evangelizzazione ed è una dimensione fondamentale di tutte le attività pastorali”. In questa ottica l’ecumenismo non è un’attività opzionale o riservata per “addetti ai lavori”, ma è costitutiva dell’essere stesso della chiesa e deve divenire dimensione qualificante di tutta la pastorale ordinaria. Infatti in tutti i campi della pastorale cattolica ogni predica o catechesi, ogni “lectio divina” o celebrazione liturgica, ogni iniziativa ricreativa o culturale, ogni attività assistenziale o caritativa, ecc. o resta antiecumenica o può diventare ecumenica nei contenuti e nei metodi... E’ questa una considerazione che forse sfugge alla coscienza dei fedeli e di molti operatori pastorali. Quanti infatti hanno la consapevolezza che, a causa di una storia di divisioni tra le chiese e della conseguente formazione ricevuta, l’atteggiamento con cui ciascuno tende ad operare in ogni settore dell’attività pastorale è originariamente segnato da pregiudizi antiecumenici e da una visione autoreferenziale della propria esperienza religiosa? Un altro equivoco consiste nell’estendere il senso di ecumenismo ad ogni istanza di dialogo o di apertura alle diversità. In senso proprio il termine si riferisce all’ambito del dialogo interconfessionale tra cristiani che hanno in comune il battesimo e la fede che in esso si professa. Pertanto la recente moda di promuovere “tavole rotonde” o iniziative ecumeniche invitando contemporaneamente rappresentanti di religioni (musulmani, ebrei, buddisti, ecc.) e di confessioni cristiane (ortodossi, evangelici, anglicani, ecc.) rischia di essere inopportuna, anche se nasce da intenzioni di sincera apertura al confronto. Non si può infatti ignorare che le varie confessioni cristiane appartengono alla stessa religione e il dialogo interreligioso è cosa assolutamente diversa dal dialogo interconfessionale: le due cose non possono essere mescolate in nome di un’impropria accezione di ecumenismo. E’ invece correttamente ecumenico il tentativo di dialogare tra cristiani di diverse confessioni per affrontare non divisi il problema molto attuale dell’incontro con le altre religioni (monoteiste e non) e, più a monte, il problema (nella sua singolare specificità) della relazione che lega in modo inscindibile la chiesa di Gesù Cristo al popolo dell’alleanza. Per questa ragione è opportuno non separare i due termini ecumenismo e dialogo, anche se si riferiscono a problemi e ambiti che devono restare nettamente distinti. 2 2. Il servizio della koinonia nelle chiese locali Finché ogni chiesa confessionale si sente autosufficiente nell’annunciare il vangelo e nel rappresentare di fronte alle altre religioni tutto il cristianesimo, rischia di restare autoreferenziale e di annunciare se stessa anziché l’unico Signore. Questo rischio diventerà sempre più reale di fronte alle nuove sfide: infatti secolarismo e pluralismo religioso interpellano non le singole chiese confessionali, ma l’intero cristianesimo. Proprio la problematica, che nasce a livello pastorale e locale su questi temi, è stata uno dei moventi che hanno fatto avvertire l’esigenza di dar vita al Consiglio delle chiese cristiane di Milano. Esso, come altri consigli di chiese, ha vari obiettivi pastorali: in particolare, quello della formazione alla sensibilità ecumenica e quello della collaborazione fraterna tra le chiese di fronte ai comuni problemi. Al di là dei comuni obiettivi pastorali, il movente fondamentale che soggiace alla costituzione di consigli di chiese credo vada cercato attraverso l’ascolto di quanto lo Spirito dice oggi alle chiese. L’ascolto e il discernimento dello Spirito si rendono possibili nella misura in cui abbandoniamo la “cultura del progetto”, nella quale si esprime costantemente la tentazione idolatrica di cercare l’unità come a Babele. Lo Spirito santo invece sempre ci precede e opera per edificare l’unità della chiesa come icona della divina koinonia, ovvero segno della comunione che c’è in Dio, nel mistero della sua tri-unità spirituale. Sappiamo che la sinodalità, non disgiunta dal servizio dell’unità, è la struttura ecclesiale che meglio esprime il mistero della divina koinonia in ogni realtà ecclesiale e nel rapporto tra le chiese. L’espressione sinodo rimanda all’immagine del camminare insieme, del convenire in una stessa via o luogo, da parte di coloro che hanno ricevuto il compito di rappresentare le diverse chiese, allo scopo di delineare i comuni percorsi della fede. Parlando di sinodalità in senso analogico (ovviamente non in senso canonico) si può dire che, a livello locale, i consigli di chiese ne sono una piccola, ma importante esperienza: essi esprimono quella comunione che è già donata dallo Spirito di Dio. Tuttavia ci si può chiedere se la prospettiva della sinodalità non sia una meta ancora un po’ utopica o, più propriamente, una via irta di ostacoli e difficoltà che potrebbero frenare invece che promuovere il cammino ecumenico. La coltivazione del dialogo interconfessionale attraverso rapporti bilaterali non sarebbe più facile e feconda? Certamente i dialoghi teologici bilaterali hanno dato risultati positivi e preziosi e devono proseguire. Tuttavia essi non smuovono mai le chiese a passi decisivi sulle vie dell’unità visibile. In questo fatto c’è forse un segno da interpretare: l’unità è dono dall’alto e non è frutto della nostra capacità di mediazione e di concordia. La disponibilità a procedere in un cammino simultaneamente condiviso da una pluralità di confessioni cristiane attraverso relazioni multilaterali costituisce una via molto complessa e faticosa, ma certamente aperta più all’azione dello Spirito che alla nostra. Uno stile di sinodalità in campo ecumenico e a livello locale, anche se può apparire fragile o sterile, resta, a mio parere, la scelta giusta. Non è infatti nella debolezza che si manifesta la potenza di Dio? E non potrebbe essere possibile alla potenza di Dio ciò che oggi agli occhi di molti ecclesiastici appare ancora improbabile o addirittura impertinente: un futuro grande concilio pancristiano di tutte le chiese dell’ecumene? Un tale evento ecumenico è tutt’altro che ovvio in quanto implicherebbe una 3 soluzione alle spinose questioni delle diverse ecclesiologie e interpretazioni del primato. Tuttavia il segretario del Consiglio Mondiale delle Chiese, Konrad Raiser, aveva proposto di avviare un processo conciliare per gli inizi del nuovo millennio. Questo processo preparatorio, per quanto un concilio ecumenico possa risultare eventualità remota, non avrebbe comunque bisogno di essere avviato anche a livello pastorale attraverso esperienze “sinodali” locali a servizio della koinonia? Nella positiva risposta a questo interrogativo va ricercato, a me pare, il motivo profondo della nascita dei consigli locali o nazionali di chiese e della speranza in essi riposta. Essi infatti non sorgono per decisioni prese “a tavolino” o per iniziativa di una chiesa che convoca le altre. Nascono invece sulla base di un vissuto: è in un contesto di collaborazione ecumenica già collaudata che si verifica la simultanea presa di coscienza, da parte di più chiese, di essere chiamate dallo Spirito ad autoconvocarsi per cercare in modo stabile di “camminare insieme”. Certamente questo è stato il caso di Milano. E ai livelli più locali? Nelle parrocchie non si fanno evidentemente consigli pastorali interconfessionali, ma lo stile della sinodalità può essere cercato e vissuto anche tra le comunità parrocchiali cattoliche ai livelli decanali o zonali. Non mira anche a questo la qualificazione ecumenica della pastorale ordinaria? 3. La koinonia tra chiese sorelle in Europa Nelle comunità parrocchiali spesso si lamenta una vita pastorale un po’ asfittica, ripiegata su se stessa, senza slancio ideale e prospettive per il futuro in un mondo che cambia. La proposta di un impegno ecumenico per la vita della comunità in molti luoghi risulta astratta per l’assenza di concreti interlocutori di altre tradizioni confessionali. D’altra parte la “cattolicità” della fede cristiana esige la mutua conoscenza e la relazione di scambio tra comunità di differenti tradizioni. Giovanni Paolo II insisteva, ad esempio, sull’immagine dei due polmoni del cristianesimo, quello dell’oriente e quello dell’occidente. Infatti non ci possono essere né una fede che respira a pieni polmoni, né un’autentica cattolicità ecclesiale, senza relazioni ecumeniche con i cristiani di altre confessioni e con le loro ricchezze spirituali. La “sprovincializzazione” nell’esperienza della fede, se non avviene come dovrebbe per obbedienza alla propria vocazione “cattolica”, di fatto può essere oggi stimolata sia dai processi attivati per promuovere la cittadinanza sociale europea, sia dall’esigenza di dare un’anima spirituale al continente e di aprirlo ai problemi del mondo intero. A questo proposito, si deve osservare che la matrice cristiana della cultura in Europa non è riconducibile ad una sola confessione. Conseguentemente non ci può essere oggi apporto dei battezzati all’edificazione della “casa comune europea” se non in prospettiva ecumenica. Non sarebbe allora un salutare stimolo, per una migliore respirazione a pieni polmoni, l’iniziativa di viaggi, inviti, scambi, gemellaggi, cooperazioni tra una nostra comunità cattolica e un’analoga realtà comunitaria di un altro paese del continente e di un’altra confessione cristiana? 4 Perché non potrebbero i cattolici italiani incominciare a rapportarsi con i cristiani d’Europa: ad ovest con anglicani, a nord con protestanti, ad est con ortodossi? Quale enorme vivificazione della vita pastorale e dell’attività formativa di una parrocchia, di un’associazione, di un’istituzione religiosa potrebbe derivare dalla relazione culturale ed ecumenica con un analogo soggetto d’oltralpe!... La pariteticità e la reciprocità nella relazione sono la prima condizione “sine qua non” per vivere tra chiese sorelle la koinonia ad immagine della comunione trinitaria: da tutti c’è da ricevere e a tutti c’è da dare. Di ritorno dalle celebrazioni del millennio della santa Russia il card. Carlo M. Martini pose alla sua diocesi la questione: come può una chiesa locale accogliere i preziosi doni spirituali della tradizione cristiana orientale e aiutare la Chiesa ortodossa russa ad affrontare con le proprie risorse problemi pastorali e sociali, che noi da tempo abbiamo affrontato, mentre là esplodono nuovi? Le richieste di collaborazione, proposte dalle chiese ortodosse dell’Europa orientale dopo la caduta del muro di Berlino, confermavano l’intuizione di Martini. Riguardavano scambi a livello teologico e soprattutto pastorale, spesso su temi sociali, sulla modernità e sui rapporti tra chiesa e società, tra chiesa e stato. Come vi abbiamo risposto? Una seconda condizione è la rigorosa vigilanza nei confronti di qualsiasi atto o intenzione che possa destare motivati sospetti di proselitismo. Come reagiremmo noi cattolici se un’altra chiesa confessionale, intervenendo dall’estero in Italia con un massiccio investimento di mezzi e di iniziative, tendesse a provocare di fatto la riduzione dei cattolici a minoranza confessionale? Non avremmo seri motivi per parlare di proselitismo? Analogamente, siamo sicuri che nell’est europeo gli investimenti e gli interventi confessionali delle chiese occidentali non siano risultati espressione di quella mentalità, secondo la quale non ci sarebbe nulla di sconveniente se le chiese occidentali si sostituissero alle chiese ortodosse in ampi settori del servizio ai poveri e dell’opera di evangelizzazione? I sospetti di proselitismo da parte ortodossa nei confronti dell’occidente risultano a molti cattolici più o meno esagerati. Tuttavia, se le chiese sono tra loro sorelle, non possono comportarsi da concorrenti che gareggiano a chi fa meglio il bene. Esse devono aiutarsi nelle difficoltà e non approfittare l’una dell’eventuale debolezza dell’altra per sostituirla con le proprie opere nella sua missione. Sotto questo profilo le denunce di proselitismo che le chiese orientali negli anni ’90 lanciarono a quelle occidentali non erano prive di fondamento. Purtroppo in oriente non sono mancate iniziative, da parte di soggetti religiosi occidentali, che rispondono a logiche più imprenditoriali che ecclesiali oppure che prescindono dalla correttezza ecumenica, quale è stata definita nel giugno 1993 a Balamand dalla Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa. Sono iniziative di base che sfuggono ad una verifica ecumenica e ad una corresponsabilità ecclesiale. Farsi promotori di cooperazione est-ovest, collaborando direttamente con le chiese ortodosse che nell’Europa orientale hanno storicamente alimentato e rappresentato la santità cristiana, è fare scelte che ancora oggi risultano andare contro corrente e pertanto richiedono coraggio. E’ questo però un irrinunciabile, anche se scomodo, obiettivo dell’ecumenismo e della coscienza cristiana. 5 4. L’autocoscienza cristiana di fronte al popolo dell’alleanza Troppo spesso si equivoca sulle ragioni del radicale mutamento di mentalità e sensibilità, che in tempi recenti è stato avviato da parte cristiana nei confronti del popolo ebraico. In questo specifico ambito la questione centrale deve essere meglio messa a fuoco: essa non va ricondotta, prima di tutto, a errori del passato, sensi di colpa, tentativi di dialogo interreligioso, opportunità di rapporti diplomatici, abbagli teologici di un’identità cristiana in crisi, sentimentalismi nei confronti della terra santa, ecc. La questione centrale non riguarda altro che il cristianesimo stesso, la definizione della sua identità in rapporto all’ebraismo, il quale costituisce contemporaneamente la sua “radice santa” e una diversa identità che, permanendo nella storia, continua ad interpellare la sua autocoscienza. Il senso profondo delle svolte e delle novità nella relazione cristiano-ebraica, va dunque ricercato nell’esigenza, per ora appena avvertita soltanto da una minoranza cristiana, di definire la propria identità non più in termini sostitutivi o contrapposti a quella del popolo dell’alleanza mai revocata. Riscoprire l’ebraicità di Gesù e della chiesa apostolica, del nuovo testamento e delle fonti cristiane non significa stemperare la specificità o la novità del messaggio evangelico. Al contrario, significa mettersi in condizione di poterle cogliere ed esaltare per come realmente si sono rivelate secondo le vie di Dio, anziché comprenderle secondo gli angusti parametri delle nostre contrapposizioni religiose e ideologiche. Prende così l’avvio un cammino durante il quale ci si accorgerà sempre di più che sono non pochi e, comunque, non giustificati gli stereotipi antigiudaici che permangono nella predicazione e nella catechesi, nell’esegesi biblica e nella tradizione liturgica, nella teologia e nella prassi pastorale. Essi devono essere rimossi per lasciare posto a corrette conoscenze della tradizione ebraica e ad interpretazioni della fede cristiana che esprimano una più profonda e fedele intelligenza delle Scritture. Per questa via non può che maturare l’esigenza di tenere simultaneamente uniti e tra loro in tensione due aspetti apparentemente contrastanti: la continuità e la discontinuità tra ebraismo e cristianesimo nell’attuale fase della storia della salvezza. Non si tratta infatti né di ebraicizzare il cristianesimo, né di cristianizzare l’ebraismo e neppure di separare o contrapporre due identità tra loro inscindibilmente legate e, nello stesso tempo, irriducibilmente differenti. Il cammino intrapreso dalle chiese e dai cristiani di una propria teshuvà (conversione come ritorno a Dio e alle fonti della sua rivelazione) non può essere confuso con una qualsiasi forma di dialogo interreligioso, né può essere definito dialogo in senso proprio. Il dialogo in senso proprio tra ebrei e cristiani è più un’eventualità futura che una realtà presente. Non è comunque del dialogo che primariamente oggi preme occuparsi, bensì di una più vera e matura comprensione della rivelazione ebraico-cristiana di Dio. Per questo obiettivo alla ricerca cristiana può venire dalla tradizione ebraica vivente un contributo prezioso che sarebbe stolto non valorizzare. 6 E’ evidente che il contributo ebraico non consisterà nella stessa lettura che dell’evento Gesù Cristo diamo come cristiani. Non è questo che ci attendiamo dal loro contributo. Chi lo esigesse si è mai domandato se Gesù Cristo è “pietra d’inciampo” solo per i giudei o per tutti? Non lo è anche per la fede dei cristiani? E il senso delle Scritture è chiuso o resta aperto alla continua ricerca sotto la guida dello Spirito che ci condurrà alla verità tutta intera? I cristiani non avrebbero delle Scritture una più profonda intelligenza se cercassero di intuire la lettura che ne faceva il giudeo Gesù di Nazaret? Tutta la sua vita e il suo ministero fino alla morte infatti non sono altro che il frutto di un costante ascolto della parola che Dio ha rivolto ad Israele. Abbiamo coscienza, noi cristiani, che Gesù ha vissuto con irripetibile radicalità quella stessa vocazione di figlio di Dio che Israele nell’alleanza era stato ed è sempre chiamato a vivere e a testimoniare come suo ministero tra le genti? Come viene motivata, nella predicazione e nella catechesi, l’unità dei due testamenti? La ragione decisiva dell’unità dei due testamenti dovrebbe essere identificata nell’ebraicità della fede di Gesù. Infatti per la lettura cristiana della Bibbia la figura di Gesù è centrale: non perché i testi della prima alleanza avrebbero senso solo in riferimento al Cristo, ma perché Gesù di Nazaret li ha interpretati da autentico ebreo e li ha vissuti con singolare fedeltà. Per questo tra i due testamenti c’è continuità e non sostituzione. Con Gesù si ha dunque un’autorevole estensione del senso delle Scritture del primo testamento, che tuttavia restano aperte sia alla lettura nel loro originario contesto storico sia alla molteplicità dei sensi indagati dalla tradizione ebraica vivente. Proprio perché questa materia è molto delicata e, nello stesso tempo, riguarda i contenuti stessi della predicazione e della catechesi, è necessario offrire alle comunità locali e agli operatori pastorali sussidi essenziali ed accessibili, chiari e documentati. A Milano il Gruppo interconfessionale “teshuvà” con la sua iniziativa dello Studio biblico ebraicocristiano intende assolvere a questo compito, integrando il proprio contributo a quelli che soprattutto il SAE, i gruppi di amicizia ebraico-cristiana, i valdesi ed altri vanno realizzando. Se non è, dunque, principalmente di dialogo con gli ebrei che ci dobbiamo occupare di fronte alla realtà storica del loro popolo, è fuorviante esigere “a priori” da essi la paritetica reciprocità. Ad esempio a Graz, all’assemblea ecumenica di tutte le chiese europee, dove mi era stato chiesto da parte cattolica di organizzare un forum sulla relazione cristiano-ebraica, ho concordato con i promotori che il dialogo non fosse tra cristiani ed ebrei, bensì tra cristiani di diverse confessioni che si interrogassero a proposito della loro autocoscienza e della loro teshuvà nei riguardi del popolo ebraico. Al presidente dei rabbini d’Europa, René Sirat, abbiamo chiesto di ascoltare e, solo al termine del dibattito, di commentare da ebreo la ricerca dei cristiani. Dinanzi a cristiani consapevoli dell’urgenza di una propria teshuvà, la reazione di Sirat è stata quella di auspicare che anche gli ebrei un giorno possano fare teshuvà nei confronti di Dio per quanto concerne il loro rapporto con i cristiani. E’ questo un significativo esempio di come potrebbe nascere la reciprocità anche in una relazione, che, riguardo alla percezione della necessità del dialogo, inizialmente è asimmetrica. Infatti l’ebraismo può comprendersi indipendentemente dal cristianesimo, mentre il cristianesimo avrebbe una mutilata autocoscienza se prescindesse dalla sua radice ebraica. 7 Quando però ebrei e cristiani guardano alla meta, cui tende il loro cammino, scorgono che questa è comune e che fecondo per entrambi può essere il dialogo fondato sulla stessa speranza. 5. Dialogo e annuncio in società religiosamente plurali All’appuntamento dell’incontro interreligioso non solo le comunità locali, ma anche pastori e teologi giungono impreparati. Gl’interrogativi di fondo restano senza risposte soddisfacenti. Che fare nel frattempo, visto che la problematica di una società religiosamente e culturalmente plurale incalza sempre di più e bussa alle porte della nostra esistenza quotidiana? Laddove si avverte la necessità di un minimo di informazione sulle religioni si organizzano corsi o cicli di conferenze sulle diverse religioni o “tavole rotonde interreligiose”. Per rispondere a questa domanda a Milano hanno operato l’ufficio diocesano e l’ex Centro ambrosiano di documentazione per le religioni. L’informazione in campo religioso è un inderogabile dovere per operare correttamente nei confronti degli extracomunitari: non solo nell’ambito della prima accoglienza, ma ancor più in quelli delle scuole, degli ospedali, delle carceri, ecc. In Italia, per di più, è particolarmente carente la conoscenza delle altre religioni, ma purtroppo anche quella del cristianesimo. Non dobbiamo infatti scordare che, in vista dell’incontro o del dialogo con altre religioni è comunque prioritaria una specifica formazione delle comunità cristiane locali alla propria fede. Se, ad esempio, desidero dialogare con un rappresentante di un’altra religione, mi serve incontrare non un buddista o un musulmano studioso di cristianesimo, bensì una persona che viva profondamente la sua esperienza religiosa e che ne conosca con serietà dottrina e pratica. L’opportuna apertura al dialogo che ho bisogno di trovare nel mio interlocutore non è tanto quella che gli deriverebbe da una sua eventuale cultura interreligiosa, bensì quella che scaturisce dalla sua capacità di comprendere e vivere il cuore della sua religione con autentica fedeltà e intelligenza spirituale. Il musulmano con cui ha senso cercare il dialogo deve poter rappresentare vasti settori dell’islam; se poi è così sapiente da trovare nella sua stessa fede le ragioni per aprirsi al cristiano, il mio dialogo con lui potrà essere più vero e fecondo. In modo perfettamente simmetrico si deve dire che il cristiano è pronto al dialogo interreligioso non quando o perché diviene esperto di una o più religioni, bensì nella misura in cui raggiunge un profondo livello di maturità spirituale e di sapienza teologica nel vivere la propria fede. Questo è il cristiano che gli interlocutori di altre religioni cercano per un dialogo serio. Non a caso nelle esperienze più qualificate del dialogo interreligioso il cristianesimo è spesso rappresentato da monaci o teologi di profonda fede e spiritualità. Questa constatazione interpella la nostra pastorale ordinaria: solo nei monasteri si possono trovare personalità cristiane adatte al dialogo con le altre religioni? Perché non c’è una maggiore attenzione alla spiritualità adulta nella cura pastorale e nella formazione delle comunità locali? Oggi nella società c’è una domanda religiosa, che non viene sufficientemente soddisfatta. La proliferazione di nuove forme di religiosità e la loro diffusione attraverso i più svariati movimenti stanno ad indicare che ci sono bisogni religiosi che non trovano adeguate risposte nella pastorale ecclesiale. 8 Il pluralismo religioso, che già caratterizza l’odierna società, costituisce una provvidenziale provocazione perché pone ai cristiani l’esigenza di meglio focalizzare l’obiettivo sul nucleo essenziale della propria fede. Anche nel contesto della formazione popolare al cosiddetto “dialogo della vita” (o della carità) è opportuno che i cristiani s’interroghino criticamente donde scaturisca la loro istanza di conoscere le altre religioni e in quale atteggiamento intendono rapportarsi con persone e comunità che le rappresentano: nell’atteggiamento del dialogo o dell’annuncio? La questione è complessa, ma ritengo che non debba essere posta in questi termini. Secondo i vangeli il Signore Gesù ai discepoli affidò, infatti, solo il mandato dell’annuncio. Oggi noi giustamente poniamo l’esigenza di collocare accanto all’annuncio il dialogo. Dialogo e annuncio, nell’insegnamento magisteriale cattolico, vengono presentati come inseparabili: per il cristiano non deve esserci dialogo senza annuncio, né annuncio senza dialogo. Questa equilibrata visione è valida per evitare integralismi e proselitismi oppure atteggiamenti rinunciatari e relativistici. Tuttavia non può essere interpretata nel senso che l’annuncio e il dialogo costituiscano per il cristiano due distinti mandati, sia pure tra loro interconnessi. Da tale interpretazione potrebbe derivare un duplice equivoco: quello di finalizzare e strumentalizzare il dialogo all’annuncio oppure quello di fare dell’annuncio solo un’occasionale eventualità all’interno di una universale cultura (o ethos) del dialogo. La questione che forse bisogna affrontare in termini nuovi è quella relativa alla qualità e alle modalità dell’annuncio. Le forme di annuncio, che la cristianità ha storicamente conosciuto, si sono così poco caratterizzate in senso dialogico che la categoria del dialogo è stata introdotta o in alternativa o in giustapposizione a quella dell’annuncio. E’ stata questa una necessità, avvertita nei tempi moderni, per definire un approccio ad altre culture ed esperienze religiose che fosse pertinente rispetto alle nuove esigenze di una società pluralista. Perché, però, l’annuncio dovrebbe avvenire sempre e solo nelle forme e nelle modalità della missione finora storicamente conosciute? Dovremmo allora affermare di Gesù di Nazaret che ha annunciato senza dialogare oppure che ha ricevuto dal Padre il duplice mandato sia di annunciare che di dialogare? Evidentemente no: Gesù ha svolto solo la missione di evangelizzare, ma il suo annuncio è stato portato in termini esemplari per ogni forma di dialogo. Se, anziché ricercare la conferma delle nostre attuali categorie di annuncio e dialogo, ci mettessimo in serio ascolto dell’evangelo, non necessariamente sconfineremmo in un’acritica operazione di archeologia biblica o di tendenziale fondamentalismo. Attraverso un’attenta lettura dell’evangelo, è invece possibile trovare nella testimonianza di Gesù l’ispirazione per superare sia la contrapposizione tra annuncio e dialogo, sia la loro giustapposizione. Il Gesù della narrazione evangelica non ha fatto alcun proselitismo missionario, non ha mai indottrinato nessuno. Ha, se mai, posto il dialogo ai livelli più profondi dell’incontro interpersonale, là dove si gioca l’opzione fondamentale della vita e la conversione del cuore. Infatti la conversione del cuore non s’identifica con il passaggio da un sistema religioso ad un altro, né lo implica. 9 6. L’ascolto dello Spirito alla sequela di Gesù In attesa di una convincente interpretazione teologica del fenomeno del pluralismo religioso, che non vanifichi la cristologia né continui a separarla dalla pneumatologia, la prassi pastorale e la preparazione al dialogo potrebbero provvisoriamente lasciarsi illuminare da una maggiore attenzione all’evangelo del regno di Dio, che Gesù proclamò nella potenza dello Spirito. L’evangelo del regno di Dio che Gesù annuncia è buona notizia perché svela la signoria di Dio sulla vita e sulla storia; in altre parole, proclama l’esserci di Dio nei cuori delle persone e nelle vicende dell’umanità, a cominciare dalle esperienze e dalle situazioni, dai soggetti e dai luoghi da cui la mentalità etica e religiosa intendeva, allora come sempre, escludere la benedizione di Dio. “Va’: la tua fede ti ha salvato, i tuoi peccati ti sono rimessi”: questo evangelico e stupefacente annuncio di Gesù raggiunge chi è lontano da Dio, chi non sa di avere la fede, chi è ritenuto indegno di perdono o escluso dalla salvezza perché peccatore o pagano... Gesù incontra le persone con profonda attenzione alla loro interiorità e alla loro situazione esistenziale e religiosa: egli, mosso dallo Spirito, è sempre all’ascolto dello Spirito e ne percepisce la presenza negli eventi e nel cuore dei suoi interlocutori. C’è infatti un solo regno: Gesù lo proclama con potenza svelando la vita di Dio che opera anche laddove i nostri angusti schemi religiosi non la scorgono, anzi la escludono. Questo avviene nelle opere e nelle parole di Gesù durante il suo ministero rivolto alle “pecore perdute della casa d’Israele”. Ancor più radicalmente avviene nella sua “ora”. Egli la offre “per la moltitudine” dell’intera umanità. Lo Spirito la trasfigura con la luce della pasqua, rigenerando in evento di rivelazione di Dio e di salvezza dell’uomo quell’ora, che fu umanamente sperimentata come la tragedia del silenzio del Padre e della maledizione della croce. Tutto questo non è riducibile a messaggio di una religione che include o esclude le altre religioni come “vie di salvezza”. L’evento Gesù Cristo è la “via” che Dio ha percorso per svelarci in lui la “verità e la vita” della presenza del suo Spirito persino nelle situazioni umane ritenute più lontane da Dio. Nell’incontro tra Dio e l’umanità c’è un duplice movimento, dall’alto e dal basso: c’è la via percorsa da Dio verso ogni creatura e c’è la via che ogni religione propone ai propri seguaci di percorrere verso Dio. Queste diverse vie religiose, di cui l’umanità dispone per elevarsi verso il cielo, agli occhi nostri possono risultare alternative tra loro, ma non alternative alla via percorsa da Dio. Ciascuna di queste vie nasce dall’intreccio di elementi buoni e spuri, che risultano dai vari tentativi della ricerca umana, sostenuta dai doni dello Spirito più o meno accolti e corrisposti. Nessuna via religiosa è autosufficiente per essere “via di salvezza”, perché Dio è autore della salvezza attraverso la sua “via”. In questo quadro, appena abbozzato, come si pone il cristiano? Certamente non confondendo, né identificando la “via” percorsa da Dio, che è Gesù Cristo, con la via religiosa che gli uomini hanno da percorrere nello stesso cristianesimo: le vie di Dio non sono mai le nostre. 10 Con questa irrinunciabile distinzione è possibile non relativizzare il ruolo salvifico di Gesù Cristo e, nello stesso tempo, non assolutizzare il ruolo del cristianesimo. L’annuncio cristiano pertanto, quando non rimane comunicazione a livelli superficiali, è dialogo che rispetta le differenze religiose e sa scoprirne la valenza di “vie di salvezza”. Il vero dialogo interreligioso, se è reciproca comunicazione della propria autocoscienza religiosa, è sempre reciproca testimonianza del messaggio centrale di ogni fede. Il cristiano può allora incontrare le altre religioni senza alcun complesso di superiorità e porsi in atteggiamento di ascolto dello Spirito presente negli interlocutori, perché egli non ha da evangelizzare in modo diverso da quello del suo Signore e Maestro. Nelle situazioni sempre nuove (e certamente diverse da quelle del Gesù storico) il cristiano non può illudersi di dover fare meglio di lui o comunque in una prospettiva differente. Infatti il problema serio e urgente, in sede di formazione pastorale al dialogo, è proprio quello di non scordare che l’appello del Signore alla sua sequela riguarda ogni aspetto della vita cristiana e, pertanto, anche l’incontro con uomini e donne di esperienza e tradizione religiosa diversa dalla propria. Quando Gesù invia due a due i settanta discepoli ad annunciare l’evangelo, dice loro di farsi ospitare nelle case di coloro che vanno ad incontrare. L’ospitalità, nel suo duplice senso di ospitare e di farsi ospitare, caratterizza in senso profondo e nuovo tutto il ministero di Gesù. È lo stile nuovo del suo evangelo, uno stile concreto di vita e di relazione. La sua persona ospita in modo radicale ogni suo interlocutore nella sua libertà e alterità. E, nella povertà di chi non ha dove posare il capo, si propone per essere ospitata dall’umanità che egli incontra e valorizza. La sequela del Signore in questa novità del suo evangelo dovrebbe far pensare non a una missione di annuncio o dialogo in cui si esporta o si confronta o si afferma un sistema religioso alternativo o concorrente con quelli altrui. Ma essa consiste nel lasciarsi guidare dello Spirito nel relazionarsi come ospiti ospitati e ospitanti. L’evangelo può essere ospitato da ogni religione o cultura se è solo evangelo nella sua essenziale povertà. Ed è lieta notizia nella misura in cui riconosce e ospita la bellezza di ciò che sa scoprire con stupore nelle ricchezze delle altrui tradizioni religiose. Nell’incontro con chi è di un’altra religione e nel dialogo con ogni persona, interrogarsi su come seguire il Signore, a molti cristiani, probabilmente appare questione oziosa e infeconda. Penso invece che, fino a quando non si avrà luce nuova dalla teologia, sia opportuno lasciarsi guidare dall’evangelo e cercare umilmente di perseguire le seguenti operazioni: - ascoltare nella sua alterità ogni itinerario religioso, - discernervi con rigore e stupore l’opera dello Spirito, - testimoniare la comune speranza di una pienezza da tutti attesa, - rendere ragione di questa speranza che nasce dall’evangelo di Gesù. Se le comunità locali vengono formate a fare proprio l’atteggiamento con cui Gesù evangelizza, esse si trovano ad incontrare ogni persona nella luce dello Spirito e ad accogliere tutti come figli e figlie di Dio (e pertanto come sorelle e fratelli), anzi a scorgere nell’altro il Signore stesso che viene. 11 Il fondamento dell’ecumenismo e del dialogo sta proprio in questa intelligenza spirituale che, nella sua lettera pastorale Parlo al tuo cuore, C.M.Martini indica come regola di vita per ogni comunità e per ogni persona battezzata: “Il cristiano radicato nella propria Chiesa locale non fa preferenza di persone, ma a tutti mostra l’accoglienza che mostrerebbe al Signore Gesù se questi in persona si presentasse a lui. Per questo ama e coltiva il dialogo ecumenico e il dialogo interreligioso, a partire da una coscienza della propria identità che è così certa e serena da lasciarsi volentieri arricchire dai tesori degli altri”(n.40). La figura di Martini è la figura di un “Padre della Chiesa” dei nostri giorni. Gigante a livello europeo per l’ecumenismo, negli anni della sua presidenza al Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, Martini diceva, alla conclusione del suo ministero a Milano, di aver amato l’ecumenismo pur non facendo cose particolari per esso, se non solo il suo servizio della Parola. Ma è proprio qui ciò che deve legare tutti i cristiani e ciò di cui ha più bisogno il cammino ecumenico. Nei confronti del rapporto con le altre religioni amava citare non dei teologi, ma Teresa di Calcutta, la quale richiesta di che cosa pensasse delle altre religioni aveva risposto: “Io amo tutte le religioni e sono innamorata della mia”. È questa l’intelligenza cristiana più profonda di fronte al fenomeno della pluralità di religioni e visioni del mondo. E forse si deve concludere che non si sono mai innamorate dell’evangelo di Gesù Cristo coloro che rifiutano l’incontro con altre religioni. Non c’è materia di conversione un po’ per tutti in ascolto dello Spirito alla sequela del Signore sulle piste che ci ha richiamato il Concilio Vaticano II? Gianfranco Bottoni Responsabile per l’ecumenismo e il dialogo della Diocesi di Milano 12