Il totem del lupo - 761015

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Il totem del lupo - 761015
LIBRO
IN
ASSAGGIO
IL TOTEM DEL LUPO
DI JIANG RONG
IL TOTEM DEL LUPO
1
I QUANRONG AFFERMAVANO DI DISCENDERE DA UNA COPPIA DI CANI BIANCHI E
AVEVANO SCELTO IL CANE COME PROPRIO TOTEM.
FAN WENLAN, BREVE C ORSO DI ST ORIA GENERALE DE LLA CINA
MU, RE DEI ZHOU, FECE GUERRA AI QUANRONG E, DOPO AVERLI SCONFITTI,
RITORNÒ NELLE SUE TERRE PORTANDO COME TROFEO QUATTRO LUPI E QUATTRO CERVI
BIANCHI.
LIBRO DEGLI HAN. ST ORIA DEGLI XIONGNU
Sdraiato nella neve, Chen Zhen puntò il cannocchiale verso un grosso esemplare di lupo
della prateria mongola e per un istante ne incrociò lo sguardo, grigio e duro come acciaio. Per
la paura tabbrividì come se quegli occhi avessero il potere di penetrargli l’anima. Questa volta
però aveva accanto a sé il vecchio Bileg a dargli conforto. Viveva nella prateria da due anni
ma non aveva ancora imparato a dominare il terrore che gli incutevano i feroci lupi di quelle
regioni. Il solo pensiero di essere costretto a fronteggiare un intero branco, ancor più
minaccioso su quell’altopiano selvaggio, gli mozzava il fiato, che usciva gelido dalla sua
bocca. Non si erano portati dietro né fucili né coltelli. Non avevano nemmeno un uurga o un
qualunque attrezzo di ferro. Possedevano soltanto due corte mazze per spronare i cavalli. I
lupi non avrebbero impiegato molto a sbranarli, se soltanto avessero fiutato il loro odore.
Il giovane tremava e, quasi senza riuscire a respirare, si voltò verso il compagno a cercare
protezione. A sua volta Bileg teneva sotto controllo con il cannocchiale i movimenti dei lupi che
si apprestavano ad accerchiare una mandria di gazzelle.
«Sta’ calmo! Non fare rumore, se ci tieni alla pelle!» lo esortò sottovoce senza staccare gli
occhi dalla scena. «Voi cinesi la paura del lupo l’avete fin dentro le ossa. Per questo perdete
tutte le battaglie nelle praterie.» Ma poiché Chen Zhen non rispondeva, gli lanciò uno sguardo
severo e lo ammoni di nuovo, questa volta a voce alta: «Se perdi la testa, siamo finiti: basta un
passo falso e li abbiamo addosso»
Chen Zhen fece segno con il capo di avere capito e, afferrata una mandata di neve, la
strinse forte nel pugno al punto da ridurla a un pezzo di ghiaccio.
Sulle pendici sottostanti, le gazzelle brucavano guardinghe i pochi ciuffi d’erba che
spuntavano tra la neve. Sembravano ignare dei lupi che si avvicinavano. Alcuni di essi,
muovendo dai fianchi per chiudere alle prede ogni via di scampo, erano arrivati quasi a
sfiorare il luogo in cui erano appostati i due uomini. Per non attirare la loro attenzione, Chen
Zhen si impose di evitare anche il minimo movimento. Sarebbe rimasto immobile, come una
statua di ghiaccio...
Era la seconda volta che si trovava di fronte ai lupi nella prateria. E, come la prima, si
sentiva impotente, scosso dai brividi dalla testa ai piedi. Nessun altro cinese, pensò, avrebbe
retto a una tale esperienza.
Era arrivato due anni prima in quella regione, nel Nord della Repubblica Popolare, per
unirsi a una brigata di produzione in un pascolo di confine. Era la fine di novembre e la
prateria di Erén era un’immensa distesa di neve immacolata. Secondo i programmi, i “giovani
intellettuali” - come venivano chiamati gli studenti - avrebbero dovuto essere ospitati in una
yurta indipendente. Ma al loro arrivo la tenda non era ancora pronta e lui fu sistemato presso
la famiglia di Bileg con l’incarico di accudire le pecore. Circa un mese dopo, il vecchio lo
portò con sé al comando distrettuale, a una quarantina di chilometri dall’accampamento, dove
dovevano ritirare del materiale di studio. Ne approfittarono per fermarsi lungo il cammino a
fare alcune compere. Ma all’ora del rientro il vecchio, membro del Comitato rivoluzionario del
pascolo, dovette trattenersi per una riunione convocata senza preavviso. Ciò nonostante
bisognava portare il più presto possibile alla brigata di produzione il materiale prelevato al
posto di comando: le direttive erano chiare, non si poteva transigere. A Chen Zhen non restò
che salire in sella e fare ritorno all’accampamento da solo. Bileg insistette perché montasse
almeno il suo cavallo, un destriero nero e veloce che conosceva alla perfezione la strada di
casa. Né lasciò che il giovane partisse senza avergli ripetutamente raccomandato di non
prendere scorciatoie. Era più prudente per lui seguire la strada carrabile: dopo una decina di
chilometri avrebbe incontrato un gruppo di tende e se la sarebbe cavata senza inconvenienti.
Montato in sella, Chen Zhen si rese conto della potenza del purosangue, e imboccando il
sentiero che correva sul crinale volle provare a lanciarlo al galoppo. Quando in lontananza
intravide l’accampamento ai piedi del monte Tsagaan Uul, aveva già dimenticato le
raccomandazioni del vecchio. Abbandonata la via principale che si snodava per una decina
di chilometri prese un sentiero secondario pensando di far prima.
Faceva sempre più freddo ed era quasi a metà strada, quando il sole gelato si avvizzì
tremando oltre la linea dell’orizzonte. Dal terreno innevato s’alzava una fastidiosa condensa.
A ogni movimento delle braccia e dei fianchi, il giovane sentiva scricchiolare il giaccone
foderato di pelliccia irrigidito dal gelo. Un manto bianco di sudore ghiacciato ricopriva il
dorso del cavallo, mentre uno strato compatto di neve sotto gli zoccoli ne rallentava il passo. Il
proffio ondulato delle colline si estendeva a perdita d’occhio: neppure un filo di fumo si
scorgeva in lontananza. Il cavallo ora procedeva al trotto, senza dare segni di stanchezza.
Sembrava facesse tutto il possibile per rendere confortevole il tragitto al suo occasionale
cavaliere. Chen Zhen decise di allentare le briglie, lasciando che l’animale scegliesse la
direzione e l’andatura che preferiva. Ma d’un tratto si sentì invadere il petto dall’ansia. Forse
aveva sbagliato a non seguire i consigli del vecchio. Il cavallo avrebbe potuto smarrire la
strada e il tempo cambiare di punto in bianco. Non sarebbe sopravvissuto, se si fosse alzata la
bufera: nessuno sarebbe potuto venire a soccorrerlo in quel deserto di ghiaccio e neve.
Immerso in questi angosciosi pensieri, dimenticò la paura dei lupi.
All’improvviso, all’imbocco di una stretta valle, il cavallo scartò di lato e, protendendo le
orecchie, guardò fisso davanti a sé, visibilmente irrequieto. Poi, con esitazione, riprese il
cammino. Prima di allora Chen Zhen non aveva mai percorso da solo un tratto di strada così
lungo nella prateria innevata. Non si rese conto del pericolo imminente. E quando il purosangue, spalancando gli occhi e dilatando le froge, accennò a cambiare strada, Chen Zhen
tirò le briglie per costringerlo a procedere ancora nella stessa direzione. L’andatura divenne
più irregolare e nervosa. Il cavallo batteva con vigore gli zoccoli sul terreno, come se si
preparasse a lanciarsi da un momento all’altro in una corsa forsennata. Chen Zhen tentò
ditenerlo a freno come poteva: aveva imparato che in inverno bisogna dosare la forza dei
cavalli per non stancarli, e così provò a fare.
Non comprese i segnali di allarme che il destriero si ostinava a inviargli, finché
quest’ultimo non si voltò a mordergli gli stivali di pelle, in un ultimo disperato tentativo di
richiamare la sua attenzione. Soltanto allora Chen Zhen intuì che forse voleva indicargli un
pericolo che a lui era sfuggito. Troppo tardi. Il cavallo tremante aveva ormai imboccato la
gola.
Chen Zhen percorse con lo sguardo l’intero spazio. Per poco non cadde di sella quando si
accorse di un branco di lupi appostati nella neve una quarantina di metri più avanti sopra di
loro, sul versante riscaldato dagli ultimi raggi del sole che conferivano al loro mantello uno
spettrale aspetto dorato. Dall’alto le belve lo scrutavano di sbieco e di fronte, con occhi ostili e
minacciosi. Se li si sentiva addosso, sulla pelle, dentro di sé, quegli sguardi acuminati e
insistenti, che gli penetravano il corpo come gli aculei di un istrice. I lupi più vicini sembravano
grossi come leopardi. In altezza erano almeno una volta e mezzo queffi che aveva visto allo
zoo di Pechino. Una decina di esemplari, che al suo arrivo erano sdraiati, si alzarono di scatto
sbuffando, le lunghe code tese come sciabole o come archi in procinto di colpire il nemico. In
mezzo a loro, al centro, si ergeva il capobranco. Chen Zhen lo riconobbe dalla fierezza
dell’aspetto. Illuminato dai raggi dell’ultimo sole, sfoggiava un mantello argenteo, che andava
sfumando verso il bianco sul collo, sul torace e sull’addome.
Calcolò che in tutto gli animali dovevano essere almeno una trentina. Forse addirittura
quaranta. Quando in seguito raccontò l’accaduto a Bileg, il vecchio gli spiegò che
probabilmente aveva interrotto un raduno. I lupi dovevano avere avvistato nei paraggi qualche
mandria di cavaffi e il capobranco stava dettando le istruzioni per sferrare l’attacco a
sorpresa. Per fortuna, non dovevano essere affamati: quando il mantello lucido, vuol dire che
sono ben nutriti.
Sarà anche stato così, ma a quello spettacolo Chen Zhen si sentì mancare le forze. Fu una
sensazione strana. Ricordava di avere avvertito un suono lieve, metallico, simile a quello che,
vibrando, produce una moneta d’argento purissimo in balia del vento. Solo in un secondo
tempo capì che quello era il suono dell’anima che lo abbandonava, lasciando dietro di sé un
involucro inerte, il corpo. Per un interminabile istante la vita di Chen Zhen si interruppe. Tempo
dopo, ripensando a quell’esperienza spaventosa, il giovane provò un profondo senso di
gratitudine verso Bileg. Se non gli avesse prestato il suo cavallo, non se la sarebbe cavata. Era
un animale speciale, abituato alla caccia: aveva avuto a che fare con i lupi un’infinità di volte
e sapeva come comportarsi.
Quando tutto sembrava perduto, il cavallo ritrovò infatti la calma necessaria. Come un
viandante che passasse di li per caso, proseguì per la sua strada, sotto lo sguardo vigile dei
lupi. Si comportava con indifferenza, lasciando intendere che non aveva intenzione di
disturbarli. Stava attento a non commettere passi falsi, moderava l’andatura assicurandosi,
come un giocoliere addestrato a reggere sul capo pile di piatti e di tazze di vetro, che il suo
inesperto cavaliere non si inclinasse troppo dilato e perdesse l’equilibrio.
Forse fu proprio il coraggio del cavallo a richiamare indietro lo spirito di Chen Zhen che si
era disperso nell’aria prima del tempo, o forse fu il Cielo, il Tengger, a correre in suo aiuto e a
ridargli coraggio. A chiunque fosse debitore, nel preciso istante in cui l’anima ritornò al suo
posto dopo aver fiuttuato nell’aria gelida, Chen Zhen sentì crescere dentro di sé una calma
inspiegabile, che veniva da lontano e gli faceva scoprire una determinazione che non
sospettava di possedere.
Si risistemò saldamente in sella e, prendendo esempio dal comportamento del cavallo,
raccolse le forze che gli rimanevano. Finse anch’egli di non essere impensierito dalla vicinanza
dei lupi. Si limitava a controllame i movimenti con un’occhiata furtiva. Sapeva quanto fossero
rapidi nella corsa: potevano coprire le poche decine di metri che li separavano in una
manciata di secondi. Avvertendo quasi il loro fiato sul collo, Chen Zhen si disse che non
doveva mostrare il minimo segno di debolezza. Ricordò una massima di Zhu Geliang, lo
stratega del periodo dei Tre Regni: esibisci un fronte compatto, raccomandava, se vuoi tenere
nascosta al nemico la vuinerabilità della tua difesa. Ecco, doveva avanzare come se fosse
preceduto da un impenetrabile reparto di fanteria e avesse le spalle coperte da schiere di
soldati a cavallo. Soltanto così, giocando d’astuzia, poteva sperare di avere la meglio sul
feroce e scaltro signore delle praterie.
Il capobranco allungò il collo per scrutare oltre il pendio collinoso alle sue spalle, imitato
dagli altri lupi, attenti come sicari pronti a scattare all’ordine del mandante. Era chiaro che li
aveva presi alla sprovvista. Quell’uomo solo, a cavallo, che aveva l’audacia di passare in
mezzo a loro senza fucile né bastoni non prometteva nulla di buono.
Le ultime luci del crepuscolo s’andavano smorzando, mentre pochi metri dividevano ormai
Chen Zhen dalle belve. Il giovane si rese conto di non avere mai corso un pericolo così grande
in vita sua. Procedeva a passo lentissimo. Uno dei lupi si era staccato dal branco e correva
lungo il pendio alle sue spalle. Evidentemente era un esploratore mandato in avanscoperta a
verificare che non ci fossero altri uomini a proteggerlo. Chen Zhen ebbe il timore che l’anima
lo abbandonasse di nuovo.
Anche il cavallo sembrava aver perso il suo autocontrollo: sebbene continuasse a tenere
d’occhio i movimenti degli animali, il giovane lo sentiva tremare e ne percepiva la paura
contagiosa. Chen Zhen calcolò che, quando il lupo esploratore avesse terminato la sua
ricognizione, loro sarebbero stati all’altezza del branco. Già se li vedeva mentre si
precipitavano giù dal pendio e gli si scagliavano addosso serrando le fauci. Il cavallo spostò
cautamente il peso sulle zampe posteriori, preparandosi al combattimento o alla fuga. Ma
nemmeno un purosangue come quello avrebbe potuto correre più veloce dei lupi e rimediare
da solo all’inesperienza del suo cavaliere.
Chen Zhen fece, allora, quello che fanno i pastori quando si trovano ad affrontare una
difficoltà insormontabile, superiore alle loro forze. Pregò. A voce alta. «Cielo eterno, Tengger,
aiutami. Tendimi una mano!» Poi sussurrò il nome del vecchio Bileg, che nella lingua dei
mongoli significa “saggio lungimirante” Sperava che il suo spirito gli ispi.rasse quella
prontezza d’azione che contraddistingueva i nomadi della prateria. Ma nessuna voce infranse
il silenzio della valle. E al giovane non rimase che alzare di nuovo gli occhi al cielo,
rassegnato a contemplarne per un’ultima volta il meraviglioso colore blu ghiaccio.
Poi, con il fragore di un tuono gli riecheggiò nelle orecchie una frase che una volta aveva
sentito pronunciare dal vecchio: “I lupi hanno paura del fucile, dell’uurga e di tutti gli oggetti di
ferro”. Anche se non portava armi con sé, aveva però qualcosa che poteva funzionare. I suoi
stivali poggiavano su staffe di ferro più grosse del consueto. Forse poteva spaventare i lupi con
quelle. In ogni modo, erano sufficienti a restituirgli un barlume di speranza.
Bileg gli aveva ceduto il cavallo ma non la sella. Prima di partire, temendo il peggio,
aveva insistito perché ne montasse una che aveva staffe massicce, con l’imboccatura larga e la
barra d’appoggio arrotondata anziché squadrata. Gli aveva spiegato che, avendo imparato a
cavalcare da poco, era più adatta a lui. Così gli sarebbe stato più facile mantenere la giusta
postura. Inoltre, nel caso in cui fosse stato disarcionato, non correva il rischio di impigliarsi e di
farsi sbaflottare qua e là dalla foga del cavallo, o addirittura di finire calpestato dagli zoccoli.
In attesa del ritorno del lupo mandato in avanscoperta, il resto del branco continuava a
esaminarli in modo ostile. Quando furono alla loro altezza, Chen Zhen sifiò le staffe dai piedi
e ne afferrò una per mano. Sapeva che era l’unica possibilità che aveva per salvarsi: se avesse
fallito, non ce ne sarebbe stata un’altra. Doveva essere deciso, rapidissimo. Di colpo, voltò il
cavallo dilato e lanciò un urlo in direzione del branco. Tutta la paura accumulata esplose in un
grido tremendo, addirittura bestiale. Quindi sollevò le pesanti staffe fino al petto e le batté
selvaggiamente le une contro le altre.
Clang, clang...
Il frastuono riecheggiò nella valle, nitido e assordante come il rumore che producono gli
operai quando battono la strada ferrata. L’effetto sui lupi fu dirompente. Li spaventò più di un
tuono a del sereno, un fenomeno naturale che conoscevano bene, e più dello scatto delle
tagliole, che pure avevano imparato a temere. Rendendosi conto di quale scompiglio aveva
provocato, Chen Zhen moltiplicò il rumore, finché il capobranco non ordinò la ritirata. Con le
orecchie abbassate e il collo incassato, i lupi ripararono in ordine verso la cima del pendio. E
da lì continuarono a tenerlo d’occhio, emettendo un ululato che ricordava il sibilo delle
tempeste di sabbia. Il lupo esploratore aveva interrotto la missione e si affrettò a raggiungerli.
Chen Zhen non osava credere che due pezzi di ferro fossero bastati a tenere a bada un
branco di lupi. Si rianimò di colpo e, senza cessate di battere le staffe, agitò le braccia come
aveva visto fare ai pastori quando nella prateria si chiamano fra loro.
«Hurdal! Hurdal! Presto! Da questa parte! I lupi sono qui, non fateveli scappare!» strillò a
squarciagola, chiamando a raccolta una schiera di immaginari compagni di caccia.
Chissà, forse i lupi comprendevano i suoni della lingua locale o, più semplicemente,
avevano avuto tante volte a che fare con i cacciatori da temerne persino i gesti. Fatto sta che,
per scongiurare un’eventuale aggressione, decisero di abbandonare il campo. Chen Zhen notò
con sorpresa che mantenevano serrati i ranghi anche nella fase della ritirata. Lo schieramento
era aperto dal capobranco e dai lupi più feroci, mentre queffi più grossi coprivano le spalle
agli altri impedendo che si scompaginassero in preda alla paura. Il giovane ne era ammirato e
rimase a osservarli fino a quando il branco non si fu dileguato sollevando dietro di sé una
coltre di pulviscolo nevoso.
Sulla valle era ormai sceso il buio. Senza nemmeno lasciare a Chen Zhen il tempo di
risistemarsi, il cavallo prese a correre al galoppo verso l’accampamento vicino. Il giovane
sentiva il vento pungente che gli si infilava attraverso il colletto e le maniche, e gli raggelava il
sudore.
Da quel giorno Chen Zhen ebbe sempre rispetto per il Tengger, il Cielo che gli abitanti
della prateria venerano come un dio, e non dimenticò mai di rendergli onore. Nei confronti dei
lupi, invece, sentiva crescere dentro di sé un sentimento ambiguo, di attrazione e insieme di
timore reverenziale. Era affascinato dal potere demoniaco di quelle creature che avrebbero
potuto prendergli l’anima. Sprigionavano una forza magnetica di cui non aveva mai avuto
esperienza prima. Probabilmente la gente della praieria aveva scelto il lupo come totem
proprio in virtù di quella forza, che conosceva pur non potendo percepirla con i sensi. In
qualche modo il giovane sentiva di aver penetrato il segreto della spiritualità mongola. Aveva
aperto su quel mondo solo un impercettibile spiraglio, eppure vi si sentiva già completamente
immerso.
Nei due anni che seguirono, Chen Zhen non si trovò altre volte tanto vicino a un branco di
lupi così numeroso. Mentre pascolava le pecore, gli era capitato di scorgerne qualche
esemplare in lontananza. Ma, persino quando si spingeva più lontano, era raro che ne
incontrasse più di quattro o cinque insieme. In compenso, quasi sempre si imbatteva in
carcasse di pecore, di mucche o di cavalli. Gli era accaduto persino di vedere un’immensa
distesa di ossa, un autentico cimitero a cielo aperto. In un’altra occasione, mentre si recava in
un accampamento vicino, si fermò a osservare un gruppo di cacciatori che stavano scuoiando
un lupo e, una volta terminato il lavoro, ne appendevano la pelle sulla cima di un palo
lasciandola ondeggiare al vento, come una bandiera o un vessifio. Il vessillo del lupo.
© 2004 by Jiang Rong
© 2006, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
Titolo originale: Lang Tuteng
Edizione Mondolibri S.p.A., Milano
su licenza Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
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