Siria, i calcoli del regime
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Siria, i calcoli del regime
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶10 giugno 2014¶N. 24 25 Politica e Economia Siria, i calcoli del regime Elezioni farsa Bashar al-Assad si è fatto confermare per la terza Marcella Emiliani «Vergognose», «inutili», «indecenti». In Occidente il coro è stato unanime nel giudicare le elezioni presidenziali che si sono svolte in Siria il 3 giugno scorso. Più preciso il giudizio degli oppositori interni al regime di Bashar al-Assad: «elezioni di sangue». Perché sono nate dal sangue, si sono svolte nel sangue e il sangue sarà il loro epilogo. Il vincitore è stato, come ampiamente previsto, Bashar al-Assad che si è fatto riconfermare per la terza volta alla presidenza portando a casa l’88,7% dei voti, una specie di plebiscito, appena mascherato dalla presenza in lista di altri due candidati. L’affluenza alle urne sarebbe stata del 73,47% degli aventi diritto, una percentuale ancora più grottesca del risultato, visto che non hanno votato le regioni del calcolato che dal 30 marzo al 20 maggio scorso siano stati effettuati almeno 1864 sorvoli, il 58% dei quali appunto con elicotteri armati con le micidiali bombe-barilotto. Ma è il calcolo politico di Bashar l’aspetto più gelidamente inquietante della vicenda. Il 15 febbraio di quest’anno sono falliti i negoziati tra il regime e l’opposizione, detti Ginevra 2, mediati da Lakhdar Brahimi per conto dell’Onu e della Lega araba. In ballo c’era la road map per una transizione pacifica al dopo Bashar laddove l’opposizione (presente con la sola Coalizione nazionale siriana), con l’appoggio degli Stati Uniti e di molte altre cancellerie occidentali, intendeva avviare la Siria ad un genuino processo democratico con la creazione di un governo ad interim che avrebbe dovuto indire elezioni per la Costituente. Di quel governo tù dell’appoggio fattivo di Hezbollah, dell’Iran, della Russia e della Cina, tutti partner notoriamente poco sensibili al rispetto dei diritti umani, civili e politici. Ma Bashar ha disinnescato la primavera di Damasco anche in virtù degli errori dell’Occidente. Minacciare interventi armati, come ha fatto Barak Obama dopo il 21 agosto 2013 e dopo il bombardamento con gas nervino di un sobborgo di Damasco, e fare una rapida marcia indietro non ha certo aiutato l’opposizione siriana. Come non aiuta l’opposizione affermare che il regime di Damasco è un regime fuorilegge, e poi ammettere che rappresenta il male minore rispetto agli estremisti islamici che lo combattono (al Nusra e l’Isis, Islamic State of Iraq and Sham alias Siria) come ha fatto di recente Tony Blair, inviato speciale in Medio Oriente a AFP volta alla presidenza con l’88 per cento dei voti, una sorta di plebiscito truccato «L’intero Stato è in crisi» Intervista Secondo l’analista egiziano Issandr el Amrani, il neoeletto generale Al Sisi dovrà guidare un Paese frammentato in un clima molto instabile AFP Costanza Spocci e Giulia Bertoluzzi nord e dell’est in mano ai ribelli, senza contare i quasi tre milioni di rifugiati che, fuggiti all’estero, a tutto pensavano meno che a legittimare elezioni farsa. Il fatto è che un dittatore feroce ha usato uno strumento democratico come le elezioni per poter continuare una politica di durissima repressione contro i suoi stessi concittadini che dal 2011 ad oggi è costata la vita ad almeno 150.000 persone e ha provocato il ferimento di altre 680’000. Inoltre su una popolazione che conta 23 milioni di abitanti, il 40% risulta sfollata, mentre sono fuggite in Libano, Giordania, Iraq e Turchia non meno di 2 milioni e 800’000 persone stando alle cifre ufficiali dell’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Ora, anche in virtù delle elezioni del 3 giugno, la politica che ha portato a tutto questo continuerà. Cosa si aspettava infatti Bashar alAssad dalle urne? Innanzitutto doveva indire le presidenziali perché il suo secondo mandato settennale scade il 17 luglio, e farsa per farsa, meglio avere le carte in regola, anche se truccate. In secondo luogo doveva capitalizzare il vantaggio militare acquisito quest’anno sul terreno nelle tre roccaforti dell’opposizione armata al suo regime, Hama, Aleppo e Homs: un risultato ottenuto con l’aiuto degli Hezbollah libanesi e non è stato certamente un caso che sui manifesti elettorali a favore di Bashar (in Rayban neri ed espressione truce quanto enigmatica) fosse presente anche il faccione barbuto di Nasrallah. Detto tra parentesi, su Aleppo e Homs fino a pochi giorni prima dell’apertura delle urne sono piovute micidiali barrel bombs (bombe imbottite di esplosivo, spezzoni di ferro, e materiali infiammabili, misti a pesticidi e clorina) che, sganciate da elicotteri, propagano la distruzione in un raggio di chilometri. Sulla sola regione di Hama, poi, è stato però Bashar e i suoi non dovevano fare parte. Il regime siriano, spalleggiato da Russia e Cina, non ha accettato l’estromissione dell’attuale presidente e tutto si è bloccato. Brahimi però doveva continuare a lavorare per una Ginevra 3, ma non appena ha saputo delle elezioni, vedi caso, si è dimesso. Le presidenziali, infatti, hanno lo scopo principale di affossare la road map della transizione negoziale concepita dalla comunità internazionale (leggi: soprattutto Stati Uniti, Europa e Stati arabi sunniti) sostanzialmente per far fuori Bashar col minor spargimento di sangue possibile. La ricetta della transizione di Bashar invece è tutt’altra ed è contenuta nella Costituzione fatta approvare in fretta e furia dallo stesso Bashar nel 2012, Costituzione che prevede l’esistenza di partiti «legali» di opposizione, che possono entrare in parlamento e presentare anche propri candidati alle presidenziali. Non era mai successo prima, ma – come dicevamo – alle presidenziali del 3 giugno hanno concorso due veri e propri pellegrini senza nessuna chance di affermazione come Maher Abdul-Hafiz Hajjar (dell’Hizb Iradat Al-Sha’ab cioè il Partito della volontà del popolo, comunista, che ha ottenuto il 3,2% dei voti) e Hassan bin Abdullah al-Nouri dell’Iniziativa nazionale per l’amministrazione e il cambiamento in Siria, che è talmente di opposizione da esser stato ministro tanto con Hafez al-Assad quanto con Bashar. In tutti i casi ha portato a casa il 4,3% dei consensi. Questa la ricetta ufficiale della transizione sulla carta. Nei fatti nudi e crudi la strategia del regime prevede di autoperpetuarsi costi quel che costi, con l’assedio e il bombardamento delle roccaforti dell’opposizione e il massacro della popolazione civile. Finora, è brutto dirlo, questa strategia ha pagato in vir- nome del cosiddetto Quartetto ovvero Onu, Usa, Unione europea e Russia. Probabilmente Blair ha detto ad alta voce quello che molti politici occidentali (e mediorientali) pensano. Di fronte all’atrocità della crocifissione di cristiani e all’orgia di sgozzamenti ad opera dei terroristi islamici, come è stato denunciato negli ultimi tempi, perfino Bashar con le sue gasificazioni di massa può sembrare il male minore. Ma viene davvero da chiedersi che fine abbia fatto la politica e la diplomazia internazionale. Evidentemente nessuno nelle cancellerie occidentali si rende conto della posta in gioco dietro la guerra civile siriana. La totale inazione dell’Occidente tutto, Stati Uniti in testa, segnerà il tramonto definitivo della credibilità del medesimo Occidente in un’area calda e cruciale qual è il Medio Oriente e contemporaneamente toglierà forza alla stessa idea di democrazia come alternativa ai regimi tirannici e corrotti che ancora prosperano numerosi nella regione. In attesa dunque che qualcuno si svegli a Washington, a Londra, piuttosto che a Parigi, Bonn o a Roma, segnaliamo che a garantire lo svolgimento «corretto» delle elezioni, il regime siriano ha invitato solo osservatori dei paesi amici: Russia, Cina, Iran, Venezuela, Nicaragua e Cuba, che – come è noto ai più – sono grandi esperti in fatto di elezioni free and fair. Alla stampa internazionale è stato impedito l’ingresso in Siria. Quanto ai rifugiati all’estero è stato loro formalmente concesso di votare a partire dal 28 maggio, ma in maggioranza hanno disertato gli uffici di registrazione, perché registrarsi significava essere automaticamente schedati dai servizi di sicurezza del regime. I medesimi che hanno garantito la «pace sociale» nelle poche aree in cui non infuria la guerra e dove i fan di Bashar al Assad hanno affollato i seggi. «Le presidenziali egiziane ci hanno fatto capire che il Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF) è andato completamente nel panico», ci dice Issandr el Amrani, analista al Cairo dell’International Crisis Group per il Nord Africa e autore del blog «The Arabist». Il Comandante delle Forze Armate egiziane Abdel Fattah Al Sisi ha vinto le scorse elezioni del 26 e 27 maggio con il 93,3% dei voti contro il 3% del nasserista Hamdeen Sabbahi. Un risultato elettorale scontato, ma in cui non sono mancati colpi di scena: a fronte di una scarsa affluenza alle urne il primo ministro ha dichiarato un giorno di vacanza nazionale, e la Commissione Elettorale ha poi optato per un’estensione del voto al terzo giorno. «Una decisione che, oltre danneggiare l’immagine dello stesso Sisi», commenta Amrani, «la dice lunga su che tipo di regime si sta instaurando in Egitto: poco coordinato e molto più insicuro di quello che abbia mai dato a vedere». Il vero problema non era il tasso di partecipazione in sé (46%), quanto piuttosto assicurarsi che non ci fosse uno scarto importante tra i numeri effettivi e le attese dichiarate. Non è detto che questo episodio comunque mini per forza la sua legittimità a governare: «la realtà è che comunque tutte le istituzioni statali lo appoggiano», rendendo chiara quella che sarà la sua spina nel fianco. Amrani spiega che «le istituzioni agiscono in modo impulsivo e senza seguire una strategia coerente». Ed è proprio questo, secondo Amrani, il punto di svolta per capire se Sisi «sarà un vero democratico e se lo Stato egiziano saprà agire coerentemente». Secondo l’analista, è l’intera struttura statale ad essere in crisi. «Sisi non potrà neanche contare a vita su un aiuto gratuito dal Golfo e avrà difficoltà ad attuare le drastiche riforme neoliberali richieste dalle organizzazioni internazionali», spiega Amrani. «Questo Paese ha visto la gente scendere in piazza negli ultimi tre anni; immaginiamo che il governo decida di tagliare i sussidi, ad esempio sul carburante: il giorno dopo si troverebbe tutta la categoria degli autotrasportatori a bloccare ogni strada del Paese». Sisi è un uomo piuttosto giovane proveniente dall’esercito, «fa già parte del meccanismo, e ha più probabilità di gestirlo rispetto ad un esterno». Parlando di riforme strutturali però, aggiunge: «Nemmeno Mubarak in 30 anni è riuscito ad attuarle». Il regime che si è instaurato negli ultimi 9 mesi è molto più restrittivo di quello di Mubarak, e in pochissimo tempo molto sangue è già corso nelle strade egiziane. «Sisi non ha ancora un partito di governo pronto, e una volta formato sarà difficile che venga impostata una disciplina interna tale per cui i membri agiscano da politici, e non da businessmen legati all’esercito, che creano il loro partito ad hoc giusto per entrare in parlamento e avere un appoggio forte». E quindi la domanda da porsi è: chi è nell’entourage di Sisi? «Onestamente non credo che un uomo entrato nell’esercito all’età di 15 anni e che è stato nell’intelligence militare per gli ultimi dieci anni, si circonderebbe di persone che non vengono dall’esercito». «Nel 2011, i giovani avevano focalizzato il malcontento sulla classe dirigente egiziana, e sono proprio loro a non aver votato in queste ultime elezioni. «Considerando che in un anno dalle 20 alle 25mila persone sono state incarcerate e che più di duemila sono state uccise, non sarei così sicuro che i ragazzi che avevano partecipato alla rivoluzione del 2011 potranno starsene senza fare niente contro gli abusi e le torture della polizia». E se da una parte ci sono i giovani, dall’altra rimangono i Fratelli Musulmani. «L’organizzazione avrà sicuramente bisogno di tempo per riprendersi dagli arresti, dall’esilio forzato e dall’espropriazione dei beni». L’organizzazione si è frammentata, la leadership è stata dispersa in parte all’estero e in parte in prigione, ma nonostante tutto continua ad operare. «La vera incognita» spiega Amrani, «è se la leadership ha o no il potere d’imporsi qualora decidesse di prendere una direzione precisa». «Alcuni membri lasceranno e i più giovani ascolteranno sempre di meno le indicazioni della leadership», come è successo in diversi casi di violenza nell’Università del Cairo. La difficoltà della nuova presidenza sarà dunque quella di gestire un panorama politico molto frammentato ed è anche lecito chiedersi come si svilupperà il nuovo sistema. I centri di opposizione sia giovanile, sia di sinistra che della Fratellanza, rimarranno ad operare in strada o riusciranno in qualche modo ad inserirsi in un’opposizione istituzionale? L’esercito resta l’unica istituzione forte del Paese ma deve agire in uno stato in crisi. Importante sarà la composizione del futuro parlamento e come e se la legge elettorale sarà modificata: quella corrente privilegia le candidature indipendenti, quindi l’aumento di clientelismo e corruzione. «La maggioranza dei partiti vorrebbe un sistema basato su lista che potrebbe creare una macchina partitica stabile. Se non dovesse cambiare, rischiamo di ritrovarci con una replica del Partito Nazional-democratico di Mubarak basato su quelle stesse ambizioni personali che hanno poi portato al suo collasso». Se le parlamentari si svolgeranno davvero prima della fine di quest’anno, non ci sarà il tempo necessario a formare un nuovo partito di governo e «Sisi sarà costretto ad affidarsi a coalizioni frammentate di partiti, dai conservatori e pro-militari ai più liberali e di sinistra. E il clima di instabilità rimarrà in ogni caso alto».