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RASSEGNA STAMPA
venerdì 20 giugno 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
L’UNITÀ
AVVENIRE
IL FATTO
REDATTORE SOCIALE
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
del 20/06/14, pag. 13
Tom, l’uomo di frontiera che amava gli
«ultimi»
PIETRO FOLENA
Dieci anni fa moriva Tom Benetollo. Cambiò i connotati all’Arci
Autodidatta,amante della politica, pacifista, sempre alla ricerca di nuove
strade
Uomini di frontiera, è difficile trovarne. In alto, è facile: protetti dai libri e da sicuri
portafogli». Era un caldissimo giorno di luglio del 1978. La Padova della militarizzazione
della politica rendeva difficile - dopo il ‘77, le gambizzazioni e gli attentati di autonomia
operaia e le azioni violente dello squadrismo di estrema destra- pensare la politica in
termini di conflitto pacifico. Tom Benetollo ci provava, e scrisse a me, giovanissimo
segretario della Fgci veneta, una lunga «Dedica alla cinese» che cominciava così. Quella
dedica la conservo sempre appesa dietro alla mia scrivania. Dieci anni dopo quella
scomparsa tragica e improvvisa, la parola che più mi rimbalza nella mente è frontiera. Tom
era uomo di frontiera, e dell’abbattimento di dogane, confini, muri ha fatto la ragione della
sua esistenza, così ingiustamente breve. Sapeva bene - venendo dalla campagna, orfano
di padre da giovane, con la sua adorata mamma Italia, Tom che aveva brillato negli studi
diventando un intellettuale autodidatta come pochi - che chi non è «in alto», se sbaglia un
bivio, paga nella vita. Bisogna muoversi «senza mai tornare, come mobili stelle polari». Ed
essere rapidi - negli anni ‘70, non nell’era di un twit -, anzi «più rapidi di questo mondo che
vuole coglierci e ingessarci nella sua vecchiaia». La vita pubblica di Tom Benetollo è stata
segnata da tre distinte fasi. La prima, negli anni 70, quella dell' impegno politico a Padova
e in Veneto, segnata dall'iniziativa per difendere lo spazio della partecipazione, negli anni
delle spranghe, delle molotov e delle P.38. La seconda, quella del tentativo, nella Fgci
nazionale e poi nella sezione esteri del PCI, di far prevalere un'impronta pacifista, contro i
blocchi, promuovendo e organizzando il grande movimento contro i missili nucleari. E la
terza, quella nell'Arci, fino a diventarne Presidente, e a cambiare i connotati della più
grande associazione culturale italiana, come si vedrà dai fatti di Genova, nel 2001, fino
alla sua scomparsa tre anni dopo.
In ognuna di queste fasi, Tom è stato in movimento. Rapido, non ipercinetico, e
profondamente insoddisfatto. Ho scritto, dopo la sua scomparsa, che Tom -nel suo essere
“eretico” rispetto all'ortodossia di Partito, e nel suo essere antiestremista- è stato
autenticamente berlingueriano. È difficile immaginare un uomo più lontano dalla politicaspettacolo, e dall’abitudine consolidata di larga parte della leadership politica a usare
indifferentemente un argomento e il suo contrario a seconda delle convenienze. Quando di
Enrico Berlinguer si propone un'immagine, nel 2014, da cui è sostanzialmente scomparsa
la lotta per la pace e contro gli euromissili, e la ricerca di nuove strade per un mondo
nuovo, si sbianchetta anche il senso dell'impegno di Tom. Nel suo stare sulla strada non
c’era il rifiuto della politica e del potere. Sarebbe un grave torto alla sua memoria iscrivere
Tom in quella categoria di acchiappa-farfalle. Tom, spirito libertario e anarchico come
pochi, amava l’organizzazione, si poneva il problema della democrazia e del governo. Ha
amato il partito a cui è stato iscritto sempre (prima il Pci e la Fgci, e poi il Pds e infine, non
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senza crescente fatica, a causa della guerra nel Kosovo, i Ds): e la sua critica al partito e
alla politica ha riguardato l’autoreferenzialità, l’incapacità ad aprirsi e a contaminarsi, la
scarsa «cultura della strada». La strada che Tom percorreva non era la «buona strada» - o
la retta via, che dir si voglia -. Non vi era traccia di populismo, di buonismo né di pelosa
compassione. Tom- per molti versi missionario laico e civile, come lo sono Ciotti, Zanotelli,
Strada - percorreva «la cattiva strada», quella di cui aveva cantato magistralmente
Fabrizio De André. E se è l’amore, nella poetica del cantautore genovese, a rimettere in
circolo la vita, questo amore, in una visione politica, è amore per gli altri.
La politica come amore. Amore per i neri americani sfruttati. Amore per il tormentato uomo
dell’est, negli anni dopo il crollo del Muro, che Tom, insieme alla nostra Fgci, aveva
auspicato. Amore per tutte le vittime dei soprusi. Tom portò l’Arci nelle lotte contro la
cancellazione dell’articolo 18, e persino nel referendum promosso dalla Fiom. La strada
era la strada del mondo. Tom è stato globale e universale, ben prima che si parlasse di
globalizzazione. Quando, nel 1987, lascia il lavoro di funzionario e dirigente della sezione
Esteri del PCI, e va all’Arci, Tom costruisce prima del tempo una nuova identità plurale. E
quando, dopo, le “strade” della sinistra si sono divise, talvolta in modo irreparabile, la sua
Arci diventa già un luogo comune, una strada in cui viandanti - «lampadieri», come scrisse
a un suo compagno-, pellegrini, ciclisti, marciatori della pace e lavoratori dei call center,
tribù avversarie della sinistra camminano, talvolta senza volerlo o neppure saperlo,
insieme. Mi domando, senza risposta, che cosa direbbe oggi, di questa politica, Tom.
Sembra passata un’eternità, e sembra siano rimasti sotto le macerie dei vecchi castelli del
'900 i valori da cui tutti siamo nati: eguaglianza, fraternità, libertà. La stessa Arci, dopo
Tom, non è stata più lontanamente la stessa - e forse non poteva esserlo -. Sono stati più
rapidi altri, che hanno proposto come nuovo qualcosa che in definitiva è molto arcaico: il
culto di un Capo. La sinistra sociale, e perché no, anche politica -tra la mutazione genetica
del Pd e la crisi delle altre sinistre potrà riprendere forma se sarà mobile, rapida,
innovativa. «Una lezione di morale?» conclude la Dedica alla cinese: «Accendere la luce
del sole», altrimenti se ne viene bruciati. «Noi andiamo senza mai tornare».
Da Redattore Sociale del 19/06/2014
Dieci anni senza Tom Benetollo, “uomo di
frontiera, preferiva il noi all’io”
Il ricordo dell’Arci: “La sua opera un argine contro il declino e la
degenerazione della politica”. Giulio Marcon: “Faceva politica anche
con l’esempio, aveva un carisma sobrio, molto generoso, metteva il noi
davanti all’io”
Sono passati dieci anni dalla scomparsa di Tom Benetollo, protagonista del movimento
pacifista italiano. Dalla “battaglia” contro gli euromissili degli anni ottanta in poi, è stato
animatore di tutte le principali istanze pacifiste. E' stato co-fondatore dell'Associazione per
la pace, presidente dell'Arci, in prima fila nelle mobilitazioni antirazziste e nel movimento di
solidarietà in Medio Oriente e in ex Jugoslavia.
"La sua morte ha lasciato un vuoto incolmabile. Tom é stato una grande personalità
politica e, per tutti noi, una persona speciale – ricorda oggi Francesca Chiavacci,
presidente nazionale dell’Arci –. Ha segnato irreversibilmente l'identità dell'associazione e
il suo cammino verso il futuro ed è stato per la sinistra e la società civile italiane, spesso
con discrezione, una mente lucida e visionaria, capace di tessere reti e alleanze,
mobilitare, farci vedere lontano".
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Arrivato all’Arci nel 1987, Benetollo contribuisce a fondare l‘Associazione per la pace,
diventa poi presidente di Arci Nova e dal 1997 presidente nazionale dell’Arci. Ne
promuove la partecipazione alle grandi manifestazioni di Genova contro il G8 nel 2001, ai
Forum sociali mondiale ed europeo, a Porto Alegre, a Mumbay, a Firenze, a Parigi. “La
sua presidenza ha segnato un periodo di grande rinnovamento e sviluppo
dell’associazione, che si è caratterizzata in quegli anni come uno dei soggetti più attivi del
movimento pacifista, antiliberista e altermondialista” aggiunge l’attuale presidente, che a
nome dell’associazione sottolinea: “L’intera sua opera è stata un argine contro il declino e
la degenerazione della politica, rigenerata nell’impegno sociale diretto”.
In ricordo dell’impegno di Benetollo oggi viene presentato il volume "Abbiamo fatto la
pace", una selezione dei suoi articoli, dal 1981 al 2004. La presentazione, con la
presidente della Camera Laura Boldrini, si svolgerà nella sala Aldo Moro della Camera alle
17. Il libro contiene una testimonianza Giulio Marcon - ex portavoce di Sbilanciamoci! ed
ex presidente dell’associazione per la pace, storico esponente dell’azione pacifista e oggi
deputato di Sel – che lo ricorda così: “È sempre stato un uomo di frontiera. Riusciva a fare
da cerniera tra mondi diversi, una qualità preziosissima in un mondo come il nostro, che
tende a essere un po’ autoreferenziale. Ci ha lasciato tanti insegnamenti, molti dei quali
ancora validi. Faceva politica anche con l’esempio, aveva un carisma sobrio, molto
generoso, metteva il ‘noi’ davanti all’‘io’, anteponeva il senso di un’azione collettiva al suo
destino personale”.
Cosa direbbe oggi, vedendo come vanno le cose? “Me lo chiedo spesso e questo dà il
senso dell’importanza di questa figura. Oggi probabilmente direbbe che serve una società
civile autonoma e politicamente consapevole. Rifiuterebbe ogni forma di populismo, ogni
semplificazione nella lettura della società e ci darebbe una mano a ricostruire un terreno
comune per le associazioni e i movimenti”.
Da GR SOCIALE del 19 giugno 2014
TOM, GIORNALISTA E LAMPADIERE
Editoriale
di Ivano Maiorella
Dieci anni fa se ne andava Tom Benetollo. Era presidente dell’Arci e tante altre cose.
Ripensare a lui significa ripercorrere la storia degli arcipelaghi associativi, da quello
pacifista a quello ambientalista, attraverso un ventennio, a cavallo tra i due secoli.
Benetollo è uno spartiacque che unisce i ricordi, le persone, la voglia di fare. Da Comiso
alla ex Jugoslavia, da Genova ai Social Forum, al popolo arcobaleno contro la guerra in
Iraq, passando per la nascita del Forum del Terzo Settore, di Banca Etica e di altre reti.
E le nuove esperienze editoriali che partivano dalla cultura delle associazioni. In alcune di
quelle occasioni che servivano a buttare giù progetti e sogni di carta stampata e di
“comunicazione sociale”, ci conoscemmo meglio. Con l’esperienza del periodico “Sulla
Strada”, ad esempio, all’inizio degli anni ’90, nato come supplemento mensile al
Salvagente. Insieme a lui c’era un altro indimenticabile dirigente associativo, Gianmario
Missaglia, presidente Uisp, anche lui prematuramente scomparso nel 2002.
Benetollo era stato un giornalista quasi a tempo pieno, un “lampadiere” come si definiva,
uno che “vede poco davanti a sé, ma consente ai viaggiatori di camminare più sicuri”. Era
stato corrispondente dell’Unità dal Veneto negli anni giovanili dell’Università, a Padova. Mi
ritrovai poi nel tentativo di dar vita ad un periodico di approfondimento sul terzo settore,
verso la fine degli anni ’90. Lui propose Or.So come titolo della testata, ovvero:
organizzazioni sociali. Non se ne fece niente. Nel 2004 curai il “Dizionario del
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Volontariato”, libro che fu diffuso insieme all’Unità. Era giugno, ci aveva appena mandato il
suo pezzo e prima di andare in stampa arrivò la triste notizia della morte. Il libro fu
dedicato a Tom, che nel capitolo di cui era autore (dedicato alla “Solidarietà
internazionale”) scriveva: “Sei un “animale sociale”. Questa socialità si è allargata al
mondo. Sei persona planetaria. L’interdipendenza ti interroga: come vivere la cittadinanza
globale? La solidarietà internazionale è consapevolezza della tua responsabilità e dei tuoi
diritti. E’ percezione del mondo: senti gli intrecci della tua esisteza”.
E proseguiva: “Se scegli un obiettivo tienilo in mente. Dare continuità alla solidarietà è
fondamentale…E fallo con equilibrio: se sostieni un bambino in un campo profughi
palestinese, ricordati che c’è da dare una mano alle forze di pace israeliane. Contribuisci a
creare legami e dialogo tra chi vive tragedie così grandi”.
E ancora: La libertà di informazione è a rischio nei paesi più ricchi. E’ un lusso in quelli
poveri. Intellettuali e artisti sono spesso esuli. Fai girare le notizie e le culture. E’
importante”. E dagli voce. Ciao Tom.
http://www.giornaleradiosociale.it/editoriali/tom-giornalista-e-lampadiere/
Da Unita.it del 20/06/14
«Abbiamo fatto la pace»
Dieci anni fa moriva Tom Benetollo. Un aneurisma alla aorta lo ha portato via alla sua
gente. Che non era solo l’arci, di cui era presidente, ma era il movimento pacifista, era la
sinistra italiana, dagli allora Ds a Rifondazione comunista passando per i sindacati
confederali, i Cobas e tutto il mondo dell’associazionismo.
Benetollo militò nella Fgci, nel Pci, e collaborò dal Veneto con l'Unità. Fu anche membro
del segretariato delle convenzioni End (European nuclear disarmamento). E' nell'87 l'addio
al Pci e l'approdo all'Arci.
Il 20 giugno, a 10 anni esatti, dalla sua scomparsa, questo “mondo” ricorderà Tom
Benetollo alla Camera dei deputati (ore 17) attraverso la presentazione del suo libro
Abbiamo fatto la pace: una raccolta di scritti dedicati al pacifismo.
All’iniziativa sarà presente la presidente della Camera Laura Boldrini mentre Chiara
Ingrao, Giulio Marcon e Mario Pianta offriranno una testimonianza di questo uomo. Che
era diventato anche un po’ un mito, sebbene lui fosse figura lontana dalla mitizzazione,
per sua indole e carattere.
Ma di certo, nel momento in cui i cosiddetti movimenti prendevano forza, Benetollo ha
avuto la capacità di “gestire” la relazione con la politica istituzionale.
Oggi, dieci anni dopo la sua scomparsa, all’Arci - che ha appena nominato sua nuova
presidente Francesca Chiavacci - e alla sinistra di questo Paese, restano il suo esempio,
l’intelligenza, la forza e il messaggio.
http://www.unita.it/italia/tom-benetollo-arci-pace-pacifismo-dieci-anni-anniversario-ricordomito-camera-dei-deputati-1.575878
Sono inoltre state pubblicate le locandine che l’Arci ha fatto in ricordo
di Tom su L’Unità (pag. 12) e su il manifesto (ultima pagina)
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Da Novaradio del 20/06/14
Intervista
alla presidente nazionale Arci Francesca Chiavacci
Da Frequenze Sociali del 20/06/14
Intervista
alla presidente nazionale Arci Francesca Chiavacci
Da Repubblica.it del 20/06/14
La "fabbrica dei rifugiati" lavora a ciclo
continuo in "sintonia" con le guerre e le
dittature
Dal 1° gennaio al 17 giugno sono arrivati in Italia via mare oltre 58mila
migranti, di cui più di 9.000 minori. L'UNHCR per la Giornata mondiale
avanza 10 proposte di riforma: un piano sull'asilo per cui governo, enti
territoriali, società civile e rifugiati pianifichino le attività; e poi andare
oltre il sistema dei grandi centri (CARA) e valorizzare la rete dei piccoli
progetti nell'ambito dei sistemi europei e internazionali
di VLADIMIRO POLCHI
ROMA - Fuggono con mamma e papà, viaggiano per mesi, hanno in media cinque anni.
Sono i bambini siriani, che sbarcano in questi giorni sulle coste italiane. Chissà se anche
loro sanno che il 20 giugno si celebra la Giornata mondiale del rifugiato, istituita nel 2000
per ricordare i milioni di persone costrette ad abbandonare le proprie case? Sì, perché la
"fabbrica dei rifugiati" lavora a ciclo continuo: più sono le guerre che scoppiano e le
dittature che nascono, più lei produce.
I numeri di Save the Children. Stando al rapporto di Save the Children, "dal primo gennaio
al 17 giugno sono arrivati in Italia via mare oltre 58mila migranti, di cui più di 9.000 minori.
Quasi tutti i minori accompagnati sono bambini siriani, con un'età media di 5 anni ma
anche molto più piccoli, in fuga dal conflitto iniziato 3 anni fa insieme alle loro famiglie o a
una parte di esse". Negli sbarchi di quest'anno, infatti, si registra una maggioranza di
persone proveniente da Paesi in conflitto, sotto dittatura o con situazioni di grave
emergenza. Potenziali profughi, insomma, più che migranti economici
Le proposte dell'Unhcr. L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati in
occasione della Giornata mondiale ha elaborato 10 proposte di riforma. Tra queste:
"L'Unhcr propone un Piano annuale sull'Asilo dove Governo, Enti Territoriali, società civile
e rifugiati pianifichino le attività con l'obiettivo condiviso di garantire standard europei e
internazionali". Non solo. Bisogna "andare oltre il sistema dei grandi centri (CARA) e
valorizzare la rete dei piccoli progetti nell'ambito del Sistema di Protezione dei Richiedenti
Asilo e Rifugiati (SPRAR). L'esperienza dei CARA ha dimostrato infatti che le maggiori
dimensioni dei centri portano a minor qualità in termini di standard di accoglienza". E
ancora l'Unhcr esprime "il proprio apprezzamento per l'intenzione del Governo di adottare
un Testo Unico sull'Asilo che, quando in vigore, doterà per la prima volta l'Italia di una
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legislazione organica che ponga norme chiare in tema di soccorso, accoglienza e
integrazione dei richiedenti asilo e rifugiati".
L'appello dell'Arci. L'Arci ricorda invece che "meno del 50% delle persone arrivate in Italia
in cerca di protezione è stato foto segnalato: siamo diventati un Paese di transito ma
questo non è affatto un vanto. L'incertezza del diritto, che caratterizza il nostro sistema
asilo, fa sì che nessuno voglia imbattersi nella lungaggini delle nostre procedure, nel
rischio di rimanere in un CARA per un anno o in un hotel o trattenuto in un CIE o, ma
bisogna esser fortunati, in un centro SPRAR. In occasione di questo 20 giugno facciamo
appello alle forze politiche, al governo tutto e ai parlamentari, affinché venga
immediatamente potenziata la rete di disponibilità degli enti locali e delle organizzazioni
sociali, all'interno dello SPRAR, assumendo le responsabilità che competono a un grande
Paese, crocevia del Mediterraneo e dei flussi che lo attraversano. Chiediamo inoltre che
l'Europa apra canali d'ingresso umanitari, evitando così che le persone in cerca di
protezione siano obbligate a imbarcarsi dal Nord Africa rischiando la propria vita e
pagando un prezzo troppo caro per sé e i propri cari".
http://www.repubblica.it/solidarieta/profughi/2014/06/20/news/la_fabbrica_dei_rifugiati_lav
ora_a_ciclo_continuo_in_sintonia_con_le_guerre_e_le_dittature-89469942/
Da Redattore Sociale del 19/06/14
Giornata del rifugiato, iniziative dell’Arci in
tutta la Toscana
Ad Arezzo va in scena la ‘Camminata migrante’, a Prato incontro sul
tema ‘Africa: le ragioni dell’esodo’, a Pontassieve si parlerà di diritto
d’asilo
FIRENZE – Domani, venerdì 20 giugno, è la Giornata Mondiale del Rifugiato. Per questo
l'Arci in Toscana, che in molti territori è protagonista dei programmi SPRAR (servizio di
protezione e accoglienza rifugiati) del Ministero dell'Interno, sarà impegnata nei territori in
alcune iniziative.
Ad Arezzo lo Sprar locale organizza una “Camminata Migrante” (partenza ore 9.30 dalla
Casa delle Culture, piazza Fanfani – conclusione prevista intorno alle ore 11.30) che
coinvolgerà i cittadini stranieri residenti da tempo nella zona, che vestiranno gli 'abiti' di
guide turistiche. I 'ciceroni', provenienti da tante parti del mondo, guideranno cittadini
vecchi e nuovi, turisti e studenti, nei quartieri più multietnici e faranno conoscere la loro
realtà di migranti in trasformazione, come ad esempio la Casa delle Culture o la
Prefettura.
In Lunigiana, a Villafranca al mattino sarà allestito un gazebo con distribuzione di
materiale informativo e palloncini per i più piccoli, mentre in serata, a Bagnone,
appuntamento con musica e buffet multietnico.
A Prato, alle ore 21, il Comune organizza un incontro pubblico sul tema: "Africa: le ragioni
dell'esodo: Quale accoglienza in Italia ed a Prato?". L'iniziativa, che si svolgerà nel cortile
del Cinema Terminale (via Carbonaia 31), è organizzata in collaborazione con Arci
Regionale e la Cooperativa Pane e Rose Onlus (enti gestori del progetto Sprar). Sono
previsti interventi del vice sindaco e assessore alle politiche di cittadinanza Simone Faggi,
dell'avvocato Luigi Tessitore (Asgi Toscana) e di Melissa Zorzi (operatrice UNHCR) che
porterà la testimonianza dell’opera svolta in Libia.
Mentre a Pontassieve, il Centro Interculturale del Comune di Pontassieve, in
collaborazione con Arci Firenze, organizza alle ore 21 presso il Parco Fluviale 'Fabrizio De
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Andrè': 'Diritto di Asilo: nella mia città accoglienza per i rifugiati'. Verrà proiettato il film
'Terra di Transito' di Paolo Martino. Interverranno: Monica Marini (Sindaco di Pontassieve)
e Francesco Giannoni (Coordinatore Progetti SPRAR per Arci Comitato Regionale
Toscano).
Infine, a Pontedera sarà allestito uno stand informativo presso piazza della Stazione per
un momento di incontro tra la cittadinanza della Valdera con i rifugiati che il territorio
accoglie.
Da Gr Sociale del 19/06/14
Servizio sulla chiusura della Carovana Antimafie
http://www.giornaleradiosociale.it/audio/19-06-2014/
del 20/06/14, pag. XIII (Roma)
Forte Fanfulla a rischio chiusura
Una settimana di concerti, appuntamenti, spettacoli
teatrali e proiezioni, dal 23 al 30 giugno, per scongiurare ciò che adesso sembra
ineluttabile: la sospensione delle attività del noto circolo Arci Forte Fanfulla, nell'omonima
strada (via Fanfulla da Lodi 5) in cui ha sede, al Pigneto. «In questi anni - rivendicano i
fondatori - abbiamo lavorato sul territorio attraverso lo sviluppo dì attività aggregative,
realizzando più di i.ooo iniziative annuali (concerti, presentazioni, mostre, cinema, teatro,
corsi di lingua). La storica associazione culturale, nata e radicatasi nel quartiere Pigneto, è
attiva dal 2007 e conta un corpo sociale di quasi 20.000 tesserati. Ma ora dobbiamo
arrenderci alla crescente difficoltà economica causata dagli onerosi costi d'affitto». Chissà
se la campagna di sostegno porterà a trovare una soluzione. Sono già tantissimi ad aver
aderito all'iniziativa #fattifortefanfulla, dalle case editrici alle compagnie teatrali, a tanti
artisti della scena musicale italiana, Thony, Filippo Gatti, Underdog, Simone Avincola,
Giovanni Truppi, Crimìnal Jokers, Camillas, Andrea Rivera, Leo Pari, Pino Marino, il
collettivo Borgata Boredom e dj internazionali come Felix Kubin. E «#fattifortefanfulla»
sarà il nome del festival che per una settimana dalle 18 (sabato e domenica dalle 15)
riempirà di suoni gli spazi colorati e pieni di libri, con bistrot, che erano un approdo per
molti: lunedì salirà fra gli altri sul palco il cantautore ]acopo Ratini. Nei giorni seguenti si
esibiranno Petramante e Truppi, The Elephants, Africa sound collective, la band romana
Luminal, domenica no stop di teatro dalle 16. Ogni sera seguiranno dj set. Una curiosa
immagine di cavaliere che sorregge una dama (morta? Solo svenuta si spera,..)
accompagna l'appello per il circolo Arci, accompagnato dal motto «Noi che non volevamo
chiudere mai»: «Non un riconoscimento, mai un sostegno, anche stavolta ci difendiamo da
soli. La nostra non è una resa ma un tentativo di resistenza».
L.Ma.
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Da Repubblica.it (Roma) del 20/06/14
Pigneto, il circolo Arci Forte Fanfulla
costretto a chiudere: "L'affitto è troppo alto,
aiutateci"
Nato nel 2007 e diventato punto di riferimento nel quartiere non riesce
più a sostenere le spese, 12mila euro al mese. Ma non vogliono
arrendersi e hanno lanciato una settimana, dal 23 al 30 giugno, ricca di
iniziative tra musica, teatro e creatività
Pigneto, il circolo Arci Forte Fanfulla costretto a chiudere: "L'affitto è troppo alto, aiutateci"
Il circolo Arci Forte Fanfulla di Roma comunica che sospenderà la propria attività. Una
decisione sofferta che deriva da una crescente difficoltà economica causata
dall'impossibilità a sostenere gli onerosi costi d'affitto: 12mila euro al mese. Così la storica
associazione culturale, nata e diventata punto di riferimento nel quartiere del Pigneto, è
attiva dal 2007 e conta un corpo sociale di quasi 20.000 tesserati. Ma il circolo non vuole
arrendersi, per questo da organizzato la campagna #fattifortefanfulla, che si svolgerà dal
23 al 30 giugno, una settimana ricca di iniziative all'insegna della musica, del teatro e della
creatività.
Nel corso di questi anni hanno lavorato sul territorio attraverso lo sviluppo di attività
aggregative realizzando più di 1000 iniziative annuali (concerti, presentazioni, mostre,
proiezioni, spettacoli teatrali, corsi di lingua e servizi di assistenza sociale e fiscale).
Hanno cercato di mettere in atto una "politica fruibile e popolare che, con il tempo, ha
contribuito a una riqualificazione del quartiere dal punto di vista sociale e culturale - si
legge in una nota del circolo Arci - Questo risultato è stato raggiunto grazie alla
partecipazione e all'impegno di tutti i soci che hanno messo a disposizione le loro
competenze professionali e artistiche e a tutti gli amici e i collettivi della scena
indipendente, italiana e internazionale, che hanno contribuito a rendere quella del Fanfulla
un'esperienza straordinaria".
"Rivendichiamo con orgoglio di aver portato avanti in questi anni un progetto culturale
fondato sull'idea di impresa sociale, da noi considerato uno degli strumenti utili per
l'auspicato rilancio delle politiche culturali nel nostro paese. Il Fanfulla è una casa comune
della sinistra, uno spazio che con fierezza ha ospitato e supportato diversi rappresentanti
delle realtà antagoniste romane ma anche del mondo politico e istituzionale, pur nella
totale assenza di un riconoscimento e di un sostegno concreto da parte delle istituzioni. La
nostra non è una resa ma una resistenza - riporta ancora la nota - Perciò invitiamo tutti a
sostenere la campagna #fattifortefanfulla".
http://roma.repubblica.it/cronaca/2014/06/19/news/pigneto_il_circolo_arci_forte_fanfalla_c
ostretto_a_sospendere_l_attivit_l_affitto_troppo_alto_aiutateci-89422296/
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ESTERI
del 20/06/14, pag. 6
«Il 27 si firma l’accordo con la Ue»
Simone Pieranni
Ucraina. Oggi Poroshenko presenta il piano di pace, da discutere con
Ue e Russia il 23 giugno
23 e 27 giugno: sono le prossime date rilevanti nella crisi ucraina. Il 23 il neo presidente
Poroshenko dovrebbe presentare il piano di pace, per portare il Paese ad una
normalizzazione e procedere, addirittura, alle elezioni parlamentari anticipate il prossimo
autunno.
Il 27 giugno, invece, è la data prescelta per la firma dell’accordo di associazione con la Ue,
quell’intesa negata da Yanukovich e all’origine delle proteste scaturite infine con la
cacciata dell’ex presidente, l’arrivo di Yatseniuk come capo del governo di Majda,
l’annessione della Crimea alla Federazione russa, la guerra civile e infine l’elezione
dell’attuale presidente Poroshenko.
Quest’ultimo pare avere fretta di ritrovarsi a capo di un Paese quanto più normale. Oggi
dovrebbero essere presentati i dettagli della road map che poi verrà illustrata nei dettagli il
23 giugno al Consiglio dei ministri degli Esteri dell’Unione europea in Lussemburgo. Lo ha
annunciato il capo di Stato ucraino, Petro Poroshenko, presentando il nuovo capo della
diplomazia di Kiev, Pavlo Klimkin, ai funzionari del ministero degli Esteri. Quest’ultimo
sostituisce il precedente ministro, a sua volta nominato per acclamazione da Majdan,
cacciato per aver definito «testa di cazzo» il presidente russo Putin.
Si tratta di un gesto importante, da parte di Poroshenko, poiché Mosca aveva reagito in
modo decisamente rabbioso a seguito degli insulti pubblici nei confronti del proprio
presidente. Non si tratta dell’unico cambiamento effettuato da Poroshenko, desideroso di
sistemare i propri fedeli alleati in posizioni chiave. Il primo l’ha sistemato a capo della
procura generale, ruolo decisivo in un eventuale post– guerra, perché dovrà procedere a
sistemare tutti i crimini e reati commessi in questi ultimi mesi. E non sarà da andarci
troppo leggeri, quindi la presenza, precedente, di un membo dei nazisti di Svoboda a capo
della procura non era certo un buon viatico.
Al posto del fascista di Svoboda, Poroshenko ha sistemato l’ex vice premier Vitali Iarema,
del partito «Patria» di Tymoshenko. A capo della Banca centrale invece, da ieri c’è Valeria
Gontareva, ma la legge ucraina consente al presidente di nominare anche il ministro della
Difesa e il capo dei servizi segreti. È ipotizzabile che Poroshenko proceda con altre
sostituzioni.
A est nel frattempo si continua a combattere, mentre dagli Usa arrivano nuove accuse a
Mosca. Il segretario del Tesoro americano Jacob Lew infatti ha balenato ancora una volta
di fare partire la terza fase delle sanzioni contro la Russia, ovvero misure che colpiscono i
settori bancario, minerario e dell’energia, se Mosca «non fermerà le forniture di armi ai
gruppi separatisti nell’est dell’Ucraina».
Lew, che a Berlino ieri ha incontrato il ministro delle Finanze Wolgang Schaeuble, ha
chiesto alla Russia il sostegno al piano di pace del presidente ucraino Petro Poroshenko
che si articola a partire dal cessate il fuoco unilaterale garantito da Kiev. «Posso
confermare che vediamo un nuovo rafforzamento militare russo, almeno alcune migliaia di
soldati sono state dispiegate alla frontiera ucraina, E vediamo manovre nelle vicinanze
dell’Ucraina» ha detto il segretario generale dell’Alleanza Atlantica, Anders Fogh
Rasmussen, in una conferenza stampa tenuta dopo aver tenuto un discorso alla Chatham
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House a Londra. «Se tale dispiegamento fosse per sigillare la frontiera e fermare il flusso
di armi e combattenti, sarebbe un passo positivo. Ma non è quello che stiamo vedendo»
ha sostenuto Rasmussen rispondendo a chi chiedeva se potesse confermare il ritiro delle
truppe russe annunciato qualche settimana fa.
«Ritengo che questo sia un passo indietro molto deplorevole» ha accusato il segretario
generale della Nato, aggiungendo: «Sembra che la Russia tenga aperta l’opzione di
intervenire ulteriormente. Quindi la comunità internazionale dovrebbe rispondere con
fermezza se la Russia intervenisse».
del 20/06/14, pag. 12
Telefonata tra il premier e la Merkel su nomine e programmi europei Il
Fondo monetario incalza: basta austerity, va rivisto il patto di stabilità
Ora il negoziato si concentra su Cameron ancora contrario al candidato
del Ppe
Donne il 40% dei commissari Ue ipotesi di
una candidata italiana I paletti di Renzi per
Juncker
LAVINIA RIVARA
ROMA .
La candidatura di Jean Claude Junker alla presidenza della Commissione Ue si rafforza
man mano che si avvicina il vertice decisivo dei leader europei di giovedì prossimo. La
cancelliera Angela Merkel ha riconfermato anche ieri il suo sostegno
all’ex premier lussemburghese per poi tornare ad affrontare l’argomento in un colloquio
telefonico con Matteo Renzi.
Al centro del quale — ha fatto sapere palazzo Chigi — c’è stata «la piattaforma
programmatica su cui sta lavorando Van Rompuy », reduce dall’incontro di mercoledì con
lo stesso Renzi, «anche per rispondere alle sollecitazioni provenienti dall’Italia».
Ma la presidenza della Commissione non è che il pezzo centrale di un puzzle assai più
complesso, al cui completamento mancano ancora molte tessere.
Il pacchetto nomine infatti comprende anche la guida del Consiglio Europeo e,
naturalmente, i commissari, a partire da quelli più prestigiosi come gli Esteri. Un pacchetto
che il mediatore Van Rompuy non ha ancora in mano. E tuttavia dalle trattative emerge
una convergenza su un criterio base: al vertice delle istituzioni europee ci dovrà essere
una adeguata rappresentanza di genere, cioè circa il 40 per cento di donne. In questo
solco cresce l’ipotesi che l’Italia indichi come suo candidato alla Commissione proprio una
donna. Una scelta che, del resto, sarebbe perfettamente conseguente con la linea fin qui
seguita da Renzi sia per la formazione del suo governo (la metà dei ministri, con incarichi
di peso come gli Esteri e la Difesa), sia per la composizione della segreteria del Pd. Ma
anche una soluzione che taglierebbe fuori candidature maschili di prestigio di cui da tempo
si parla, da Massimo D’Alema a Enrico Letta fino a Mario Monti.
Ma il capitolo nomine non è esaustivo. «Oggi il problema non sono i nomi, vengono prima
le richieste programmatiche» insiste Renzi con i suoi interlocutori europei.
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Tra queste una maggiore flessibilità per favorire gli investimenti produttivi (che non vuol
dire il loro scorporo dal calcolo del deficit pubblico, come ha precisato il ministro Padoan) e
un rafforzamento del Frontex per governare l’emergenza immigrati.
«Già se venissero accolte queste due richieste — sostiene il premier — il 60 per cento dei
problemi attuali degli italiani sarebbero risolti». E a dare una mano alla linea antirigore ieri
è arrivato anche il Fondo monetario internazionale chiedendo all’Eurozona una
semplificazione del patto di stabilità e uno stop alle politiche di austerity, anche se il Pil
dovesse risultare ancora negativo. Il direttore generale Christine Lagarde ha anche chiesto
che Bce di «considerare l’acquisto su larga scala di bond sovrani » contro la deflazione.
Tutte questioni che saranno al centro di un minivertice dei leader del Pse domani a Parigi.
E infine c’è il nodo Cameron. Ieri la Merkel ha teso la mano dicendosi «molto aperta nei
confronti della Gran Bretagna». Il che potrebbe tradursi in un sostegno per un portafoglio
pesante in cambio del via libera a Juncker.
del 20/06/14, pag. 6
Così la Corte Usa punisce l’«indisciplinata»
Argentina
Claudio Tognonato
America Latina. Hedge fund più forti degli Stati sovrani
Non sempre è necessario ricorrere alle guerre e l’occupazione di territori per fare
prevalere i diritti dei più forti. Se con la pace di Westfalia, nel 1648, si stabiliscono le prime
regole del diritto internazionale che limitano e garantiscono la sovranità nelle relazioni tra
gli Stati, oggi i diritti dei fondi speculativi (hedge fund) prevalgono sullo Stato nazione. La
Corte suprema degli Stati uniti, ignorando i pareri contrari della stessaa amministrazione
Obama, di Francia e Messico, che si erano già presentati come amicus curiae, così come
il parere dei membri del Club di Parigi e molti altri paesi, ha sentenziato contro la
rinegoziazione del debito raggiunta dall’Argentina. Una decisione che mette in seria
difficoltà anche i paesi debitori e la finanza globale. Ma può un Paese sovrano essere
giudicato dai tribunali di un altro Paese?
Se c’è oggi un governo mondiale questo è gestito dagli organismi finanziari internazionali.
Queste istituzioni promuovono i principi neoliberisti, consigliano vivamente la deregulation,
la privatizzazione dell’economia, la liberalizzazione del commercio mondiale, la libera
circolazione del denaro e la restrizione di doveri e diritti dello Stato nazione. Questi principi
portano il nome di Washington Consensus, anche se chi non aderisce resta
automaticamente fuori dal mondo.
L’Argentina nel dicembre 2001 è stata portata al fallimento grazie alla cecità delle politiche
monetariste adottate dalla dittatura militare nel 1976 e successivamente confermate dai
governi democratici che non ne hanno modificato l’indirizzo. Tutto sotto la copertura, gli
elogi e l’approvazione del governo della finanza mondiale, Fondo Monetario Internazionale
in testa. Basti ricordare che il 25 marzo 1976, la mattina dopo il colpo di Stato del generale
Jorge Videla il Fmi concedeva un credito al governo dittatoriale, il primo di una serie che
ha portato il Paese ad accumulare il più grande debito della sua storia, che nel 2001
rappresentava il 160% del Prodotto interno lordo.
Si diceva che i paesi non potevano fallire, ma l’Argentina apriva un nuovo capitolo e si
dichiarava in default. L’ultima manovra era stata quella di prelevare dai conti correnti in
dollari (assai diffusi all’epoca) il risparmio degli argentini per coprire il debito estero in
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scadenza. Le banche restarono chiuse per 90 giorni e quando aprirono porte e sportelli li
argentini si sono ritrovati pesos al posto di dollari. La moneta locale valutata prima alla pari
con il dollaro (1 peso = 1 dollaro) era stata svalutata a 3 pesos per ogni dollaro. Con
questa manovra li argentini sono stati spogliati di due terzi del loro risparmio. La crisi
economica portò alla caduta di vari governi in pochi giorni e alla fine solo nel 2003 si
risolse con la vittoria di Néstor Kirchner.
Il nuovo governo cercò di riprendere in mano una società sconvolta e un’economia ferma.
Il paese cominciò a superare la crisi e nel 2005 arrivò ad un compromesso con i creditori
perfezionato poi nel 2010 con un secondo accordo che stabiliva una rinegoziazione del
debito con termini analoghi a quelli imposti agli argentini. La negoziazione ottenne il
consenso del 93% dei possessori di titoli. Oggi una sentenza della Corte Suprema degli
Stati Uniti ha sancito che i titoli del 7% che non è entrato nella rinegoziazione devono
essere corrisposti in un 100%. In denaro, i fondi acquisiti nel 2008 per 48 milioni valgono
oggi 834 milioni di dollari, registrando un incremento pari al 1608%.
Di fronte a questi margini di guadagno l’accordo raggiunto dallo Stato argentino diventa
carta straccia perché tutti potranno fare ricorso e chiedere un analogo trattamento.
Perché questo è possibile? Innanzitutto perché i prestiti consessi ai paesi in via di
fallimento prevedono la competenza in caso di controversie di tribunali scelti dal creditore,
in questo caso i tribunali degli Stati uniti. Poi perché i titoli del 7% che non sono entrati
nella rinegoziazione sono stati acquistati a prezzi stracciati perché considerati insolventi,
cioè «titoli spazzatura» dai grandi gruppi finanziari, sopranominati fondi avvoltoi. Solo che
la capacità di manovra di questi fondi speculativi, gli studi di avvocati ai loro servizio e le
amicizie politiche a disposizione possono distruggere l’economia di un intero Paese.
Questo può accadere all’Argentina.
Il perché tutto ciò sia possibile ha anche altri ragioni. È vero che l’Argentina si è ripresa,
ma per farlo ha dovuto rompere con il Fmi, saldando la totalità del suo debito, espellendo
la delegazione del Fondo dal proprio territorio e ignorando le sue raccomandazioni. Dal
2001 l’Argentina si è gestita da sola, non ha chiesto crediti ed è riuscita a crescere con
politiche redistributive, un ampiamento dello stato di benessere con massicci investimenti
in educazione, ricerca e salute. Lo Stato è riuscito a riprendere e gestire molte attività
strategiche che erano state privatizzate e la disoccupazione, che nel 2001 era arrivata al
25% è scesa all’attuale 7%. Troppa autonomia.
L’Argentina è un cattivo esempio anche perché da anni continua ad alzare la voce contro
le politiche neoliberiste, l’austerità e gli interventi del Fmi e non è la prima volta che viene
punita. La sentenza della Corte degli Stati uniti può però diventare pericolosa per
l’economia globale, a dirlo è lo stesso Gerry Rice, portavoce del Fmi manifestando la
preoccupazione per le ripercussioni del verdetto sull’intero sistema finanziario.
Al di là dei ripensamenti del funzionari Fmi l’Argentina (nella foto reuters Cristina Kirchner)
ha assicurato il pagamento dei debiti in scadenza di chi è arrivato ad un accordo
rinegoziando il debito. Per coprire quanto chiesto dai tribunali di New York, l’Argentina
dovrebbe cedere più della metà delle sue riserve. Nessun paese sovrano sarebbe
disposto a prendere una simile decisione, nemmeno l’indisciplinata Argentina.
del 20/06/14, pag. 1/42/43
Messico-Usa l’odissea dei bambini di
frontiera
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VITTORIO ZUCCONI
WASHINGTON
I BAMBINI lo chiamano “El Tren de la Muerte”, ma nessuno sa davvero quanti di loro quel
treno della morte uccida. Però tanti. Daniel Zavala ricorda di averne visti scivolare molti dal
tetto dei carri merce traballanti lungo i 3mila chilometri di rotaie fra la partenza da El
Salvador fino all’arrivo a El Paso, nel Texas, ma il treno non si ferma per raccoglierli,
perché i bambini sono figli del nulla. Non esistono. Una notte vide una bambina che si era
addormentata rotolare dal tetto e sentì soltanto un urlo allontanarsi nella notte. Qualcuno
sparse la voce che le ruote del treno le avevano tranciato le gambe. Magari non è vero.
Anche Daniel, come i 60, o 70, o 80mila minori — duecento al giorno, morto più morto
meno — che quest’anno soltanto hanno lasciato o lasceranno l’El Salvador, l’Honduras, il
Guatemala, il Messico
affidati dalle famiglie ai coyotes , agli sciacalli che li imbarcano nel viaggio verso la
“Frontera del Grande Norte”, degli Stati Uniti, deve soltanto guardare avanti. Come la
biblica moglie di Lot, mai voltarsi indietro. Per lui, per tutti loro, l’andata è un tuffo nel
vuoto, ma il ritorno è impossibile. Se tornano sanno che le gang, i trafficanti, gli “scafisti”
del Tren de la Muerte li uccideranno comunque.
Il viaggio che Daniel ha raccontato all Cnn cominciò quando aveva 16 anni e i narcos
entrarono a casa sua a San Salvador per spiegare a lui, e alla madre, che ormai era
grande abbastanza per entrare nell’organizzazione e non aveva scelte. Tranne una:
tuffarsi nei 3000 chilometri di viaggio attraverso Guatemala City, Puebla, San Luis Potosi,
Durango, Chihuahua e il Rio Grande, da attraversare naturalmente a piedi. Evitando
d’inciampare nei cadaveri, grandi e piccoli, disseminati nei sentieri e lasciati ai coyote,
quelli per bene, a quattro zampe. I parenti, che non erano poveri, ma soltanto disperati,
raschiarono 7mila dollari dai materassi, fecero debiti, vendettero tutto quello che era
vendibile e Daniel si arrampicò sul tetto del primo merci di passaggio verso il nord, sotto gli
occhi dei “coyotes” che sparavano, o buttavano giù, quelli che tentavano di salirci sopra
senza avere pagato. Naturalmente sotto gli occhi vitrei
e indifferenti della Policía ben pagata per non vedere.
L’illusione, la speranza, il “tutto o niente” di questi viaggiatori della notte che sono l’esatto
equivalente degli africani e degli asiatici che s’imbarcano sui relitti galleggianti verso
Lampedusa, è di trovare,
lassù oltre il fiume, quella nazione che ha scolpito ai piedi della Statua della Libertà, le
parole della poetessa Emma Lazarus: «Datemi i vostri poveri, i vostri affranti, le vostre
folle ammassate... e accenderò la mia lanterna accanto alla porta d’oro». Le loro storie
sono tutte uguali. Violenze, botte e reclutamenti forzosi per i maschi nelle gang che hanno
bisogno di continui rinforzi e rimpiazzi, per i vuoti lasciati caduti nella loro guerra
quotidiana. Violenze, botte e stupri per le femmine, a cominciare da età che preferiscono
non quantificare in un numero.
Ma dietro la golden door, la porta d’ora, Daniel, e le altre migliaia di bambini a volte
talmente piccoli da dover portare cucita sulla maglia una pezza con il telefono e l’indirizzo
di un parente negli Usa ricamato sopra, non trovano la poetessa con la sua lanterna, ma le
guardie del Border Patrol. Ogni giorno arrestano decine di bambini e di ragazze, per
rinchiuderli
in centri di accoglienza dove, ha raccontato Enrique, un quattordicenne, al New York
Times , «non ci sono finestre e siamo così tanti da dover dormire a turno sul cemento,
perché non c’è posto per sdraiarci tutti».
Se non siete mai stati alla Frontera del Texas e dell’Arizona in estate, non riuscirete a
immaginare quali forni possano diventare, casematte senza areazione né finestre, di
giorno e quali frigoriferi quando cala il sole sul deserto.
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Quella dei migranti bambini — ne arrivano con ancora i resti del pannolino fissato dalla
madre e disintegrato nei sei giorni di viaggio — è l’ultima incarnazione della inarrestabile
corsa verso il Grande Norte . La speranza è che le autorità della California, dell’Arizona,
del Texas dove l’onda di marea arriva, siano mosse a pietà da quei bambini e ragazzi, più
di quanto non lo sarebbero con genitori e adulti, ma la pietà si sbriciola nel solvente
dell’opportunità politica, come il pannolino sbrindellato di una bambina di quattro anni che
se la fece addosso per il terrore della guardia che la interrogava nella base aerea di
Lackland in Texas, oggi convertita in centro di raccolta.
La metà di loro sono immediatamente rispediti oltre frontiera, al loro destino e senza
neppure l’assistenza, per modo di dire, dei coyotes che alle fermate del treno si
arrampicavano con loro per dar loro abbastanza acqua e cibo per farli sopravvivere. Gli
altri, come Daniel Zavala, che hanno un aggancio, un nome, un parente legale negli Usa,
entrano nel labirinto delle procedure d’immigrazione per asilo politico, dove le probabilità di
smarrirsi sono altissime, quasi quanto quelle di incontrare un serpente a sonagli nel
tragitto a piedi verso il Rio Grande. Per uscirne con il rettangolino plastificato della
“residenza”, un tempo chiamata la “carta verde” che verde non è più, serve il filo di un
avvocato che sappia, conosca, riconosca le trappole e le vie giuste. I figli del Tren de la
Muerte con assistenza legale hanno nove volte più probabilità di arrivare al permesso di
soggiorno rispetto a chi si arrangia da solo, al massimo con un interprete. Ma un avvocato
costa almeno 3.500 dollari, tre o quattro volte il guadagno mensile delle famiglie che li
accolgono.
Daniel, che ora ha 17 anni, è stato fortunato. Non è rotolato giù, nel sonno, dal tetto dei
carri. Non è morto di sete e d’insolazione nelle ore di lento viaggio sotto il sole del Messico
sdraiato come un pollo sopra la piastra di lamiera rovente. Non è rimasto impigliato nei
campi di concentramento alla frontiera. Dopo pochi giorni, è stato passato all’assistenza sociale, molto più umana, poi a un’organizzazione chiama Kind, acronimo di
volontariato legale e umano che riesce a raccogliere 3mila avvocati disposti a lavorare pro
bono , gratis, come tutti gli studi legali dovrebbero di tanto in tanto fare. Chi lo ha accolto
gli ha indicato la strada maestra per uscire dal labirinto: la divisa della Us Army Rotc,
l’uniforme dei corsi premilitari al liceo che indossava, tutto tirato e splendente di mostrine e
insegne, davanti alla Commissione d’inchiesta parlamentare, per raccontare il suo viaggio.
Per sfuggire alle armi che nel El Salvador lo avrebbero ucciso, Daniel dovrà quindi
affidarsi alle armi, sotto la bandiera degli Stati Uniti. Sempre armi, dunque, ma almeno
questa volta sarà lui a imbracciarle.
del 20/06/14, pag. 14
Iraq, Obama invia truppe speciali
Trecento consiglieri militari. «Ma non torneremo a combattere»
Guido Olimpio
WASHINGTON — Consiglieri militari. Una soluzione che ricorda il Vietnam. Ma è quella
scelta, per ora, da Barack Obama. Trecento membri delle forze speciali che assisteranno
gli iracheni contro i ribelli sunniti. Dunque quegli «uomini sul terreno» che la Casa Bianca
aveva escluso di mandare. E’ vero che i soldati, come ha promesso il presidente «non
tornano in Iraq per combattere», ma rimettono piede comunque in un conflitto che la Casa
Bianca aveva considerato chiuso.
È stato lo stesso Obama a spiegare il piano dopo un consulto con il suo team: 1)
Protezione dell’ambasciata a Bagdad con i 275 marines. 2) Aumento dell’intelligence. 3)
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Supporto all’Iraq con la creazione di due centri operativi, uno nella capitale e l’altro nel
Nord. 4) Invio dei 300 «specialisti» con la promessa che non parteciperanno ai
combattimenti. 5) Possibili «azioni mirate», da affidare ad aerei e droni, «se» e «quando»
saranno necessari. 6) Pressione per ottenere una nuova politica in Iraq, capace di ridurre i
contrasti tra sunniti, sciiti e curdi. 7) Missione diplomatica del segretario di Stato Kerry.
La strategia americana dunque cammina lungo un doppio sentiero partendo dal principio
che «non esiste soluzione militare». Ed ecco il vero target. A Washington sarebbero felici
se il primo ministro iracheno al Maliki, considerato il responsabile di una linea settaria, si
facesse da parte. Obama, su questo punto, ha fatto l’elegante: «Non è compito degli Usa»
scegliere i governi. In realtà tutti sanno che considera al Maliki uno dei problemi e
vorrebbe che ci fosse un altro al suo posto. Il premier non è di questa idea ed ha puntato i
piedi. I diplomatici statunitensi hanno contro-manovrato. Si racconta di contatti con un alto
esponente sunnita, Usama Nujaifi, con i curdi ed una vecchia conoscenza sciita, Ahmed
Chalabi, personaggio con ambizioni ma anche un passato nebuloso. Uomo degli Usa
prima dell’invasione del 2003, è stato sospettato di essere troppo vicino agli iraniani.
Toccherà a John Kerry condurre i sondaggi con un viaggio nella regione entro un paio di
giorni. Allargando la maggioranza a Bagdad si può aprire un dialogo che coinvolga i
sunniti moderati e isoli gli estremisti dell’Isis. Un piano dove coinvolgere anche quei Paesi
del Golfo, dall’Arabia al Qatar, per nulla disposti a lasciare campo agli sciiti. Washington
conta inoltre sulla sponda dell’Iran, il padrino sciita. Il presidente non ha nascosto
l’esistenza di «contrasti profondi», ha sottolineato l’appoggio dei mullah al siriano Assad,
però si è augurato un atteggiamento «costruttivo», con iniziative che non esasperino i
contrasti. Un riferimento al ruolo dei pasdaran che agiscono al fianco dei governativi
iracheni.
L’altro sentiero battuto da Obama è quello militare. I 300 «consiglieri» saranno gli occhi sul
teatro, indispensabili per guidare eventuali raid aerei. Fonti ufficiose aggiungono che le
incursioni non sarebbero limitate all’Iraq ma potrebbero includere anche la Siria, dove l’Isis
ha uomini e basi. I militari Usa, inoltre, agiranno nei centri di coordinamento. Un aspetto
non da poco. Di fatto gli americani partecipano alle operazioni. Defilati quanto si vuole, ma
sono lì. Come sono già nei cieli iracheni i ricognitori. Il rischio che le unità americane
possano essere risucchiate nella guerra civile esiste. Con il tempo la Casa Bianca
potrebbe scoprire poi che il team non basta. Ne manderà altri? Senza contare che i
commandos agiranno vicino a reparti sciiti a volte inquadrati dagli iraniani.
Considerazioni bilanciate dal timore che il fronte sunnita guidato dall’Isis metta a segno
nuovi colpi. Ieri gli insorti hanno occupato al Muthanna, il centro dove al tempo di Saddam
si producevano armi chimiche. Sembra che non ve ne siano più, ma il solo nome
preoccupa.
del 20/06/14, pag. 7
Abdullah non accetterà i risultati: favorito
Ghani
Giuliano Battiston Emanuele Giordana
Kabul - Di fronte alle telecamere e ai giornalisti, ieri alle 16 Abdullah Abdullah ha aperto
una crisi politica dalle conseguenze potenzialmente esplosive. L'ex ministro degli Esteri,
candidato alla presidenza insieme al tecnocrate Ashraf Ghani, ha dichiarato infatti di non
riconoscere come legittimo il lavoro delle due Commissioni elettorali, accusate di aver
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favorito il suo sfidante. Abdullah non accetterà dunque i risultati del conteggio ancora in
corso, e alza il tiro. Oltre ai funzionari delle Commissioni, sotto accusa finiscono il
presidente uscente Karzai e l’intera comunità internazionale. “Karzai non si è dimostrato
neutrale”, aveva detto Abdullah già mercoledì, “perché l'intero sistema ha lavorato per
favorire un determinato candidato”, Ashraf Ghani. Alla comunità internazionale l’ex braccio
destro del comandante Massoud imputa invece l'inerzia nell’esaminare le sue lamentele
dei giorni scorsi.
La prima riguarda Ziaulhaq Amarkhel, segretario della Commissione elettorale
indipendente, il cui staff il giorno del voto è stato fermato mentre trasportava schede
elettorali bianche senza la scorta della polizia. Per Abdullah l’episodio è solo una tra tanti,
il segno di “una truffa su scala industriale” messa in campo da Ghani, con il sostegno del
presidente Karzai e dell’apparto governativo. Ieri è tornato a chiedere la testa di Amarkhel,
mentre Nooristani, portavoce della Commissione elettorale, ha replicato che la decisione
spetta a Karzai. Abdullah ha poi messo in dubbio i dati preliminari forniti da Nooristani
poche ore dopo il voto: quei 7 milioni di votanti sarebbero troppi, superiori ai 6.6 milioni
registrati al primo turno, il 5 aprile, e in contrasto con i dati raccolti dai suoi osservatori sul
campo. Sarebbe inoltre eccessiva la percentuale di elettori registrata in alcune province a
maggioranza pashtun e pro-Ghani. “Sono almeno 10 le province dove i voti registrati
superano il numero di abitanti”, ha ricordato Abdullah, per il quale i 5.000 funzionari della
Commissione elettorale licenziati dopo il primo turno sarebbero stati sostituiti con
sostenitori di Ghani.
Le dichiarazioni di Abdullah preoccupano gli osservatori internazionali e gli afghani. Il
portavoce della missione dell’Onu, Ari Gaitanis, si è detto “rammaricato” per la decisione di
Abdullah di ritirare i suoi osservatori dagli uffici in cui il conteggio è in corso. Lo stesso han
fatto le ambasciate di Stati Uniti e Gran Bretagna. Karzai ha fatto diramare una nota in cui
ribadisce la sua neutralità. Gli afghani si chiedono se quella di Abdullah sia una strategia
per negoziare un posto nel futuro governo: la mossa di un politico che si è reso conto di
aver perso la partita. Altri temono che la crisi politica possa diventare conflitto aperto.
Abdullah ha alternato infatti toni enfatici a dichiarazioni più concilianti. Si è appellato “alla
nostra gente e alla popolazione afghana” – per qualcuno una chiamata alle armi – per poi
rassicurare che il suo team rispetterà la legge. La crisi è appena cominciata.
Alla vigilia della crisi, è la tarda mattinata di ieri, Ashraf Ghani fa circolare la sua versione
dei fatti. Già la sera prima aveva twittato un paio di messaggi alla volta del suo rivale: toni
pacati ma fermi. E, con un tam tam di sottofondo, l'ex ministro dalle buone letture, il
tecnocrate che piace ai laici e sembra aver convinto una larga parte della gioventù afgana,
ribadisce che l'unica linea da seguire è, sul piano legale, la Costituzione e su quello etico
la trasparenze. Ci cono contestazioni? Bene, la Commissione per i reclami è lì per questo.
I commissari elettorali han dato troppo presto e con leggerezza i dati sull'affluenza? Ci
sarà tempo perché arrivino i dati ufficiali, un lavoro per esperti non per chi vuole fare
illazioni.
Il suo staff ha i dati che gli osservatori del candidato Ghani hanno raccolto nei seggi, ma il
presidente in pectore – cui le prime proiezioni, gli exit pool, le indiscrezioni e le relazioni
dei suoi nei vari seggi danno vincitore di diverse lunghezze – li tiene per adesso per sé. Gli
unici dati accettabili, ribadiscono i “ghaniani”, sono quelli che il 2 e il 22 luglio la
Commissione elettorale elargirà come ufficiali. Regole insomma e non supposizioni. Criteri
assodati e sottoscritti da ambi i candidati, non illazioni o costruzioni su elementi non
ufficiali. E se poi è solo una mossa per negoziare qualche posto al sole nel futuro governo,
Ghani fa sapere che non è disponibile per nessuna trattativa segreta. Quanto a Karzai,
Ghani – che pure ha avuto col presidente uscente più di uno screzio – ne rispetta
l'imparzialità senza tirarlo (diremmo noi) per la giacchetta. Ma basteranno i toni
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rassicuranti e urbani di questo personaggio sulla cui ascesa nessuno avrebbe
scommesso? Basterà richiamarsi alla Costituzione, alle regole o alle garanzie che la
comunità internazionale richiede per evitare il patatrac? E' preso per dirlo. Mentre sulla
capitale scende la sera, Hakim fa spallucce davanti alle nostre preoccupazioni: «La
situazione politica è grave? Uff, qui abbiamo visto ben di peggio». Purché il kalashnikov
continui a rimanere con la sicura.
Intanto i talebani vanno avanti: un gruppo di kamikaze ha incendiato almeno 37 veicoli
della Nato al porto doganale di Torkham, alla frontiera col Pakistan (Passo Khyber). Crisi o
non crisi la guerra continua.
del 20/06/14, pag. 7
Tra terrore e uccisioni di routine
Alessandro Portelli
Territori Occupati. Sui morti palestinesi e i tre giovani coloni scomparsi
Tre ragazzi israeliani scomparsi – quasi certamente rapiti – nei pressi di Hebron, nella
Palestina occupata. Letteralmente, non ci dormo la notte. (…) A Hebron c’ero stato meno
di una settimana prima del fatto, e quello che ho visto fa rabbrividire. Qui l’occupazione
israeliana non si è limitata a edificare un insediamento coloniale (Kiryat Arba, sulla collina
di fronte a Hebron), ma ha preso direttamente possesso di una parte della città stessa.
Hebron è dove si dice sia sepolto Abramo e dove David sarebbe stato proclamato re.
Con questa motivazione, poche centinaia di estremisti religiosi israeliani si sono insediati
dentro la città, e adesso il venti percento del territorio urbano è direttamente sotto controllo
israeliano, occupato da settecento coloni religiosi e altrettanti soldati.
I ventimila arabi che abitavano in questa parte di Hebron sono andati via oppure sono
diventati invisibili. Non possono nemmeno passare per le strade principali, riservate
esclusivamente ai coloni (qui le chiamano «strade sterilizzate»).
I vecchi mercati sono macerie abbandonate, le strade laterali sono chiuse da muri, i
negozi sono sbarrati, le porte delle case che danno sulla strada sono sigillate per impedire
ai loro abitanti di calpestare le strade proibite (se vogliono uscire di casa, devono passare
dal tetto e scendere con la scala sul retro), quei pochi che restano sono frequentemente
aggrediti, insultati, sputati dai coloni protetti dai militari. Per strada vedo solo plotoni di
soldati accompagnati dai coloni. È una città fantasma segregata.
Mi accompagna un esponente di Breaking the Silence, l’organizzazione dei soldati
israeliani che hanno deciso di rendere pubbliche le violenze, gli abusi e i crimini commessi
dalle forze di occupazione. Si definisce ebreo ortodosso, e dice di non essere un pacifista.
Di Hebron occupata conosce ogni sasso, ogni porta.
Mi decifra alcune delle scritte che vediamo sulle porte e sui muri – quella che più mi
impressiona dice «arabi al gas».
Recentemente, racconta, un gruppo di giovani palestinesi ha cercato forme di protesta non
violente. Si sono messi d’accordo con un’organizzazione di donne ebree di Gerusalemme
che in solidarietà sono venute a Hebron, si sono cambiate in abiti tradizionali palestinesi e
così vestite si sono incamminate per una strada «sterilizzata». Le hanno arrestate
immediatamente.
E poi, qualcuno rapisce quei tre ragazzi ed è logico che si scateni l’inferno.
Mentre scrivo sono a New York e mi capita per mano il Wall Street Journal, uno dei
migliori esempi di giornalismo anglosassone. Centoventi righe ben documentate e precise
sulle azioni e le dichiarazioni di Netanyahu e del governo israeliano in risposta alla crisi.
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Nel mezzo dell’articolo, una frase: «Gli arresti hanno provocato scontri e dimostrazioni
nella West Bank, che hanno lasciato almeno un palestinese morto». Non una sillaba di
più. Chi era, in che modo è stato «lasciato morto», che diavolo significa – per un
giornalismo così attento alla precisione e ai fatti – «almeno» un morto?
Mi viene in mente un fulminante dialogo delle Avventure di Huckleberry Finn. «Si è fatto
male qualcuno?» «Nossignora; è morto un negro».
Il rapimento di tre ragazzi israeliani – su questo non ci piove – è un atto terroristico e un
delitto. Ammazzare «almeno» un arabo è routine. L’atto terroristico è una notizia, ha
conseguenze immediate, gravi e clamorose. La routine non è una notizia, non merita titoli
e approfondimenti. Ma la routine scava profondo, e nel tempo gli effetti possono essere
terribili per tutti.
A Kiryat Arba – spaziosa, bianca di pietra e verde di alberi – c’è un giardino. In cima al
giardino, un tempo c’era un monumento e un sacrario. Sono stati rimossi, ma rimane una
tomba.
È la sepoltura di Baruch Goldstein, che il 25 febbraio del 1994 irruppe nella parte
musulmana della Tomba di Abramo e ammazzò ventinove palestinesi prima di essere
sopraffatto. La scritta sulla tomba recita: «Al santo Baruch Goldstein, che ha dato la vita
per il popolo ebraico, per la Torah e per la nazione di Israele». Sulla tomba sono deposti
dei sassi, segno tradizionale di pietoso e devoto omaggio.
Dei tre ragazzi, purtroppo, nessuna notizia.
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INTERNI
del 20/06/14, pag. 2
Silvio torna alla carica per la grazia
FRANCESCO BEI
ROMA .
«Noi stiamo riscrivendo la Costituzione per la terza repubblica e questi qui mi trattano
come un volgare delinquente! ». Uscito dal tribunale di Napoli dopo essere stato trattato
senza troppi riguardi dal presidente Giovanna Ceppaluni, l’umore di Silvio Berlusconi era
sotto i tacchi. Ma la coincidenza temporale fra le giornate calde sul fronte giudiziario
- ieri Napoli, oggi l’appello a Milano su Ruby - e la chiusura dell’accordo con Renzi sulle
riforme riporta in primo piano ad Arcore il sogno sempre inseguito di un patto di
«pacificazione» nazionale.
La novità rispetto allo scorso anno, quando l’interlocutore delle colombe forziste era
ancora Giorgio Napolitano e il tema sul tavolo la grazia da concedere previa richiesta o
“motu proprio”, è che Berlusconi ormai si è rassegnato rispetto all’attuale inquilino del
Colle. E punta direttamente al prossimo.
Non a caso, nella conferenza stampa di mercoledì, pur senza mai citarlo direttamente, dal
leader di Forza Italia sono arrivati pesanti giudizi politici sul capo dello Stato. Da
Napolitano non si aspetta più nulla, da Renzi ancora molto, moltissimo.
Che sia una speranza unilaterale o che ci sia un non detto alla base del patto del
Nazareno - peraltro sempre negato dal premier - non c’è dubbio che negli ambienti più
vicini all’ex Cavaliere questo progetto si accarezza con molta cura. E quando se ne parla,
la voce si abbassa e diventa un sussurro, le allusioni si sprecano. «Le riforme con Renzi racconta una fonte che raccoglie quotidianamente i ragionamenti del leader del
centrodestra noi le faremo sicuramente. I nostri senatori se ne faranno una ragione,
Brunetta se ne farà una ragione. L’accordo è già stato siglato da Verdini nei dettagli....ed è
un accordo a 360 gradi». Di più, per ora, non si riesce a sapere. Ma di sicuro l’ambizione
di Berlusconi resta quella di sempre, essere sottratto ope legis ai suoi giudici e ai suoi
processi. Anzitutto quello Ruby, dove già pende sul suo capo una condanna a sette anni in
primo grado. I tempi del processo d’appello rischiano di essere brevi e difatti la prima
battaglia del collegio di difesa - fuori i pasdaran Ghedini e Longo dentro i più “istituzionali”
Coppi e Dinacci - sarà proprio quella per spostare tutto a dopo l’estate.
Dietro questa strategia del rinvio si nasconde l’operazione politica. A torto o a ragione
Berlusconi è convinto infatti che, se parteciperà alla riscrittura dell’edificio istituzionale
della nuova Repubblica, questo non possa non avere conseguenze anche sul suo destino
giudiziario. E visto che Napolitano si dimetterà una volta assicurato l’iter delle riforme
(quella costituzionale e quella elettorale), il leader di Forza Italia punta a partecipare in
prima persona al patto con Renzi per l’elezione del nuovo capo dello Stato. Essere “padre
costituente” e king maker del prossimo presidente della Repubblica, nella sua testa,
dovrebbe spalancargli le porte alla terza fase del piano, quella più importante. Ovvero
ottenere il sospirato provvedimento di indulgenza per il processo Ruby, che nel frattempo
potrebbe aver esaurito anche il secondo grado e volare verso una condanna definitiva. Da
leader «responsabile» e «condannato modello» chi potrebbe negarglielo? Da qui l’enfasi
ripetuta sulla «grande umiltà» con cui svolge settimanalmente la sua opera di assistenza
ai malati di Cesano Boscone.
È un’operazione complicata, piena di incognite, ma sostanzialmente senza alternative.
Una mossa disperata, ma lucida. L’univa variante rispetto alla grazia - che stava già per
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essere chiesta un anno fa su sollecitazione di Confalonieri, Gianni Letta e della famiglia - è
che stavolta sul tavolo c’è anche un’altra ipotesi. Con l’elezione del nuovo capo dello Stato
Berlusconi spera infatti di incassare da Renzi, in alternativa alla grazia, un provvedimento
generalizzato di clemenza sotto forma di indulto. Uno sfolla-carceri che avrebbe le maglie
ritagliate apposta sul suo caso. Sette anni di condanna sono troppi? I forzisti sono convinti
che la condanna del capo andrà riducendosi parecchio già in appello, tanto più che la
stessa procura di Milano aveva chiesto alla Corte “solo” sei anni per l’imputato.
Certo, sono vari i procedimenti giudiziari ancora pendenti sul suo capo. L’inchiesta Ruby
Ter per corruzione in atti giudiziari, un possibile rinvio a giudizio a Bari per la scandalo
escort, il processo napoletano per la compravendita dei senatori. Ma di tutti il più
pericoloso è quello Ruby, sia per la condanna già avuta in primo grado, sia perché una
sentenza definitiva comporterebbe la revoca del beneficio dell’indulto per i tre anni che gli
sono stati scontati dalla sentenza Mediaset. Le voci maliziose di Forza Italia raccontano
che c’è un’altra ragione che spinge verso la richiesta di un indulto al posto di una grazia
individuale. Il fatto è che molti altri potrebbero essere interessati.
Esponenti del partito berlusconiano ma anche del Pd. Per non parlare del principale
architetto dell’accordo del Nazareno, Denis Verdini.
Berlusconi intanto sta preparando le sue munizioni per la difesa politica e mediatica
durante il processo. Pare sia pronto al lancio, in concomitanza con l’inizio del processo
d’appello, anche il volume apologetico «la mia verità», stampato dalla Mondadori.
del 20/06/14, pag. 6
Con Migliore escono Fava, Di Salvo e Piazzoni. “No alla deriva
minoritaria” L’ex capogruppo: “Basta opposizione sterile, serve l’intesa
con i democratici”
Sel a pezzi, quattro dimissioni e altri dieci
vanno verso il Pd Renzi: da noi porte aperte
ROMA .
«La mia decisione era già presa». Gennaro Migliore, il capogruppo che ha sbattuto la
porta di Sel, nega che la cena all’Hotel Bernini con il vice segretario dem Lorenzo Guerini
sia stata decisiva. Ma la diaspora di “Sinistra ecologia e libertà” è stata squadernata a quel
tavolo, mercoledì sera. E ieri Vendola non è riuscito a ricucire. La segreteria, convocata in
fretta e furia, ha solo preso atto dell’esodo.
Decapitato il vertice del gruppo a Montecitorio. Lasciano Sel, oltre a Migliore, il vice
presidente vicario Titti Di Salvo, il segretario Ileana Piazzoni, il vicepresidente del Copasir
Claudio Fava. Nei giorni scorsi avevano detto addio altri due deputati, Michele Ragosta e
Ferdinando Aiello. Nella prossima settimana dovrebbe lasciare Sel in dieci almeno, tra i
quali potrebbero esserci Stefano Quaranta, Nazzareno Pilozzi, Alessandro Zan, Fabio
Lavagno, Luigi Lacquaniti. È un terremoto.
Nichi Vendola cerca di limitare i danni e lancia l’ennesimo appello a Migliore - «per me è
come un figlio» - perché si fermi, ci ripensi. Ma è inutile. Poco prima del redde rationem
della riunione, è Fava per primo a dare alle agenzie la lettera del congedo: «È una scelta
dolorosa ma inderogabile. C’è una deriva minoritaria in cui non mi riconosco più». Arriva a
stretto giro di posta la lettera aperta di Migliore «ai compagni e alle compagne »: «Le
posizioni sono incompatibili, si è rotto il rapporto di fiducia». Ma è «l’opposizione sterile»,
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che si è incagliata sullo scoglio del voto sul provvedimento renziano degli 80 euro per i
redditi medio- bassi ad avere divaricato le differenze fino alla frattura. Migliore non
partecipa alla segreteria.
“Sinistra, ecologia e libertà” è in piena tempesta. Chi resta accusa i fuoriusciti. Circolano
veleni, allusioni, accuse. Titti Di Salvo parla della sofferenza di trarre il dado: «Però la
nostra scelta è in linea con la cultura di sinistra di governo che noi ci siamo dati. Abbiamo
tutti l’amaro in bocca, tuttavia è un percorso lineare». Il Pd di Renzi non ha certo fatto
campagna acquisti. Ed è proprio il premier-segretario che, con i suoi collaboratori ragiona:
«Massimo rispetto per il travaglio dentro Sel. Chi guarda al Pd troverà un partito aperto,
attento alle diverse sensibilità, intenzionato a lavorare avendo come obiettivo la giustizia
sociale, ma che si pensa come un vero e proprio partito della nazione». In pratica i
Democratici sono pronti ad accogliere gli ex vendoliani.
Il drappello di fuoriusciti dovrà però decidere se confluire subito nel gruppo dem o puntare
a una fase di passaggio. Migliore è orientato a entrare nel Pd, mentre Fava sarebbe più
propenso a un gruppo di riformisti. Le ipotesi sono tante. Potrebbe costituirsi un gruppo
anche con chi è andato via da Scelta civica e con i socialisti. Riccardo Nencini, il
segretario del Psi, commenta: «Il sistema politico italiano post-elezioni europee genera
sismi quasi quotidiani. Non gioisco quando nei partiti si consumano divisioni. Sta di fatto
che dei partiti nati dopo il 1992 solo un pugno sopravvive».
Anche in Senato manovre in corso. Se un paio di senatori di Sel potrebbero lasciare per
andare nel Pd, gli altri sono pronti invece a un gruppo con i fuoriusciti del Movimento
5Stelle.
Nelle ultime settimane sono state già fatte dichiarazioni comuni a indicare la volontà di un
matrimonio. Per Loredana De Petris, senatrice vendoliana, il partito è «sotto choc».
Franco Giordano, ex capogruppo, in Transatlantico scherza sull’overbooking nel Pd di
Renzi: «Ormai ci sono posti solo in piccionaia... ». Beppe Fioroni, dem, popolare e anti
renziano, aveva ironizzato proprio sull’overbooking nel PdR. «L’unico overbooking
di Renzi è quello di elettori... », stoppa Migliore. La diaspora si sposta anche a livello
locale. Dall’Emilia l’assessore regionale Massimo Mezzetti chiede l’azzeramento di tutte le
cariche del partito, mettendo gli amministratori provvisoriamente come traghettatori verso
un nuovo congresso: «Il clima che si respira nei territori è quello dell’8 settembre del
1943». ( g. c.)
del 20/06/14, pag. 6
IL CASO/DALLA ZUANNA PASSA AI DEMOCRATICI
Inizia l’esodo anche da Scelta civica
ALBERTO CUSTODERO
ROMA .
Continuano le manovre di assestamento — e il caos — all’interno di Scelta Civica. Ieri il
senatore Gianpiero Dalla Zuanna ha lasciato il gruppo “montiano “ di Palazzo Madama per
transitare in quello del Pd, che l’ha accolto all’unanimità. È solo il primo. Tra gli ex
montiani, infatti, rischia di partire un vero e proprio esodo verso i democratici.
Sul tavolo, del resto, c’è la sopravvivenza del partito. Ieri c’è stata una riunione per la
elezione dei capigruppo che si erano dimessi la scorsa settimana, Andrea Romano alla
Camera e Gianluca Susta, al Senato. Per un equivoco, tuttavia, ieri s’è tenuta una
assemblea lampo, ed è stata poi rinviata alla prossima settimana. Candidati a sostituire i
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dimissionari restano l’avvocato Andrea Mazziotti per Montecitorio e Antino Cesaro per il
Senato.
Ma l’assestamento dei gruppi è tutt’altro che di facile soluzione. Scelta Civica s’era già
scissa in autunno in due gruppi, uno di 20 e uno di 27. «Quella divisione — ricorda il
deputato Giovanni Monchiero — aveva avuto come pretesto la scontro tra cattolici e non.
Ma in un Parlamento questo distinguo “religioso” non ha alcun senso». «L’idea —
aggiunge — è dunque quella di riaggregare entro luglio il gruppo di Scelta Civica,
ritrovandosi in 35 o 36. E a quel punto di procedere a una scissione vera e propria, ma su
criteri politici di destra e sinistra». Da una parte ci sarebbe un gruppo orientato sul Pd
insieme all’Udc di Casini ma non con l’Ncd di Alfano in una logica di rafforzamento della
maggioranza e di supporto dell’azione riformatrice del governo. Dall’altra c’è chi accusa
Mario Mauro e Tito Di Maggio di voler puntare sul centrodestra. Ancora non è chiaro se
questi due gruppi confluiranno in qualche partito o se diventeranno autonomi, con un
nuovo nome. Discorso a parte, il destino del partito, ora retto da Renato Balduzzi dopo le
dimissioni di Stefania Giannini. A settembre si terrà un evento nazionale che dovrà
valutare se davvero serve ancora il progetto politico del Movimento di Scelta civica.
del 20/06/14, pag. 8
Grillo insiste, il premier risponde: vediamoci mercoledì La Boschi tratta
con Forza Italia, intesa a un passo
Renzi-M5S, sì all’incontro Riforme, 100 i
senatori i sindaci saranno solo 20
TOMMASO CIRIACO
ROMA .
Si incontreranno, e già questa è una notizia. Dopo molte insistenze grilline e un po’ di
tattica, Matteo Renzi ringrazia il Movimento cinque stelle per l’apertura al dialogo sulle
riforme e accetta di vedere la delegazione pentastellata. Il summit, in agenda per
mercoledì, si terrà a poche ore dalla dead line per la presentazione degli emendamenti in
commissione affari costituzionali al Senato. Il governo, intanto, continua a limare il testo. E
ieri è stato il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi a illustrare le correzioni al
capogruppo di FI Paolo Romani. Il presidente del Consiglio, comunque, già intravede le
condizioni per ottenere un risultato positivo: «Sono ore decisive ».
Per strappare l’appuntamento, a Beppe Grillo è toccata un po’ d’anticamera. Per questo,
ha martellato parecchio “la casta che non ci sta”: «Boschi ha incontrato Romani - ha
attaccato il leader - Perché non hanno fatto lo streaming? Cosa hanno da nascondere?».
La modalità istituzionale a cinquestelle, d’altra parte, funziona così: una carezza per
mostrarsi dialoganti e uno schiaffo per tranquillizzare la base. Alla fine, in ogni caso, il
comico ha stretto i tempi: «Noi pensiamo di poter dare un contributo fondamentale alle
riforme costituzionali e alla legge elettorale. Preferenze, taglio ai costi della politica e
dimezzamento dei parlamentari. Renzi, ci stai o no?».
Ci sto, ha fatto sapere il presidente del Consiglio. «Vediamoci, c’è molto da fare e non c’è
tempo da perdere - ha messo nero su bianco in una lettera - È importante che le forze
politiche più rappresentative provino a scrivere insieme le regole del gioco. Nessuno ha la
verità in tasca, tutti possono dare una mano». Solo in un passaggio Renzi punge il
Movimento, con un chiaro riferimento all’alleanza con l’estrema destra di Nigel Farage:
«Sull’immigrazione conto sull'aiuto di tutte le forze politiche di buona volontà per
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respingere la montante provento, xenofoba, non solo italiana, ma esigendo impegni
concreti dall’Ue».
Il premier si concede un solo dubbio sulla composizione della squadra di pontieri:
«Preferite incontrare una delegazione del governo o del Pd?». Decideranno i pentastellati,
lasciando coperto fino all’ultimo l’unico jolly: la presenza di Grillo al summit. In attesa
dell’evento le altre forze politiche limano il testo di riforma. E l’incontro tra il ministro delle
Riforme e il capogruppo azzurro - preceduto da giorni di triangolazione tra il premier, Silvio
Berlusconi e Denis Verdini - ha permesso ieri ulteriori passi avanti per la trasformazione di
palazzo Madama.
I senatori saranno un centinaio in tutto: ottanta consiglieri regionali, venti sindaci e una
manciata di parlamentari nominati dal Colle. Boschi, che si è presentata all’appuntamento
senza un testo scritto - e limitandosi a illustrare le modifiche - ha puntato tutto sulle novità
che vanno incontro ai desiderata azzurri: la riduzione della quota riservata ai sindaci, in
particolare, e una proporzionalità assoluta nell’assegnazione dei consiglieri regionali, al
netto dei premi di maggioranza dei diversi consigli. Soddisfatto, alla fine, è proprio
Romani: «Abbiamo potuto apprezzare significativi passi avanti rispetto al testo base che
vanno nel senso delle proposte da noi avanzate. Resta ancora da fare».
La cautela, in realtà, risponde soprattutto all’esigenza di attendere l’imprimatur del partito,
anche se a causa delle grane giudiziarie del Cavaliere (ieri l’ex premier era a Napoli, oggi
a milano per il processo Ruby) resta difficile anche solo riunire gli azzurri. Entro lunedì,
comunque, i relatori presenteranno gli emendamenti concordati. È Renzi, d’altra parte, a
non potersi permettere altri rallentamenti. Una volta limato il patto, Forza Italia è
intenzionata a reclamare un faccia a faccia tra il premier e l’uomo di Arcore.
del 20/06/14, pag. 3
Cento eletti e più poteri
C’è l’accordo sul Senato
Incontro tra il ministro Boschi e il capogruppo di Fi Romani. A Palazzo
Madama 74 scelti dai consigli regionali, 21 sindaci e 5 nominati dal Colle
In questi numeri - 74-21-5 - ci dovrebbe essere la soluzione di trent’anni di tentativi andati
a vuoto, commissioni, seminari, disegni di legge, crisi di governo, alleanze velenose,
ribaltoni. La somma fa 100 e dovrebbero essere i componenti del nuovo Senato. Dietro
ogni cifra ci sono scelte, decisioni, confronti. Non è esagerato dire che ognuna si porta
dietro una precisa idea di Stato. E quindi: 74 saranno i consiglieri regionali; 21 i sindaci; 5 i
senatori nominati dal Presidente della Repubblica. Tranne quest’ultimi, saranno eletti dai
consigli regionali (elezioni di secondo grado) e un sindaco per ogni regione. Finisce, dopo
quasi settant’anni, il bicameralismo perfetto, il rapporto politico del nuovo Senato con il
Governo a cui non darà più la fiducia. Palazzo Madama conserverà però ampi poteri: il
voto sulle leggi di revisione costituzionale e sulla legge elettorale e poteri di controllo e
ispettivi sull’attuazione delle leggi, sulle politiche pubbliche, sulla pubblica
amministrazione, sull’impiego dei fondi strutturali europei. Il cane da guardia del governo e
della camera dei deputati. C’è la cornice. Manca ancora «qualche dettaglio». Ma la cornice
c’è. Ed è «condivisa» dalla maggioranza di governo più Forza Italia e Lega. Una cornice
che va a comprendere anche la riforma della legge elettorale. Perché poi, come è sempre
stato chiaro, tutto si tiene. L’ha capito anche Grillo che adesso che sente puzza di
isolamento, corregge l'ultima offerta (domenica), la affranca dalla legge elettorale e la
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allarga a tutte le riforme costituzionali. Conviene partire dai fatti. E dalle dichiarazioni.
«L’accordo è vicino, forse è la volta buona» dice il premier Renzi mentre il ministro Maria
Elena Boschi passa la giornata, ieri ma anche oggi, ad incontrare i delegati dei vari partiti.
Prima il capogruppo di Forza Italia Paolo Romani, poi il coordinatore di Ncd Gaetano
Quagliariello. «Ci sono positive modifiche rispetto alle proposte iniziali, ma per noi sono
ancora necessari approfondimenti e valutazioni per determinare la posizione del partito nel
suo complesso» dice Romani alle quattro del pomeriggio mentre lascia la Commissione
Affari costituzionali. Una cautela più di forma che di sostanza, anche per rispetto al leader,
Berlusconi, in tutt'altre faccende affaccendato: ieri ha testimoniato al processo Lavitola a
Napoli dove per la prima volta nella sua vita ha dovuto, imprecando, rispondere alle
domande di un giudice; stamani sarà alla casa famiglia di Cesano Boscone con i malati di
Alzheimer mentre a Milano inizierà il processo di Appello per Ruby. «Nel fine settimana ci
incontreremo – annuncia Romani – e finiremo le limature che ancora sono necessarie».
Una cosa è chiara: il presidenzialismo rilanciato in queste ore può attendere.
Soddisfatto anche Quagliariello che quando era ministro ha tenuto per un anno le riforme
pronte nel cassetto senza riuscire però, perché non era mai il momento, a portarle
neppure in Consiglio dei ministri. Ncd porta a casa l'inserimento dei costi standard in
Costituzione, meno sindaci di quanto fosse previsto all’inizio (erano il 50 %
dell’assemblea, ora sono un terzo), «una base di legittimazione comune» e la
«proporzionalità della rappresentanza delle regioni» (la Lombardia ha diritto ha più
senatori del Molise). All’ora di pranzo il sottosegretario Luciano Pizzetti, mattatore di
lunghe e estenuanti trattative, s’aggira nel corridoi della Commissione Affari Costituzionali
e parlotta con il relatore, il leghista Roberto Calderoli, e Donato Bruno di Forza Italia. C’è
un tema di cui si è scritto e parlato meno ma che più tutti è stato oggetto di trattative: la
riforma del Titolo V della Costituzione, ovverosia quali funzioni- attenzione, non più poteri per le Regioni. Il primo testo del governo le aveva praticamente spogliate di tutto. Il
federalismo in questo caso ha avuto il sopravvento: il Carroccio ha fatto il suo e il
governatore Vasco Errani, presidente della Conferenza Stato-Regioni tutto il resto.
Alle sei del pomeriggio il ministro Boschi twitta «Al lavoro sulle riforme #italiariparte». È la
volta buona, forse per davvero, se anche Romani ammette che «non ci sono problemi di
tempi, la prossima settimana il voto sugli emendamenti e il 3 in aula». La tabella di marcia
sembra segnata. Tra oggi e domani i relatori Anna Finocchiaro (che è anche il presidente)
e Roberto Calderoli dovrebbero depositare i circa 20 emendamenti al ddl del governo che
contengono le modifiche. Mercoledì (25) scadono i termini per i subemendamenti, poi una
settimana di votazioni prima di arrivare in aula. «Sto lavorando con Calderoli ma credo che
le obiezioni che ancora esistono possano essere facilmente superate » ha spiegato il
presidente Finocchiaro nel pomeriggio dopo un lungo colloquio con il sottosegretario
Pizzetti che, ha tenuto a precisare, «ha portato opinioni e non carte». Rivendicando il ruolo
del Parlamento in questa delicatissima fase.
Sei ore, oggi, domani, a questo punto poco importa quando arrivano gli emendamenti
«condivisi» - è questa la parola magica - da Calderoli e Finocchiaro. La strada imboccata
sembra quella giusta.
Quello che sta prendendo forma è un Senato modello Bundesrat tedesco ma con i
senatori nominati dai consiglieri regionali. Sulla legge elettorale, che non può prescindere
dalla forma del Parlamento, l’accordo sarebbe stato trovato alzando dal 37,5 al 40% la
soglia di accesso al premio di maggioranza.
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del 20/06/14, pag. 11
Nel gruppo di Bruxelles anche un’ex di Le Pen e l’ultradestra lituana e
scandinava L’ideologo Becchi: decisione presa a larghissima
maggioranza, siamo la vera opposizione
Il M5S difende il patto con gli xenofobi
RODOLFO SALA
MILANO .
Si arrampica un po’ sugli specchi, Giulia Sarti, deputata dei Cinquestelle che commenta
così la nascita del nuovo gruppo (euro) parlamentare bastato sull’alleanza tra gli inglesi di
Farage e i grillini: «Sono contenta, va bene così». Ma come? Quando c’è stata la
consultazione interna lei si era espressa per il “matrimonio” con i Conservatori inglesi,
convinta che fossero «i meno peggio» rispetto all’Ukip di Farage. E lo aveva fatto
turandosi il naso, come documenta una foto. Però, a conferma che l’alleanza con gli
ultranazionalisti e ultraliberisti dell’Ukip lascia spazio a qualche perplessità nell’elettorato
grillino, aggiunge che gli eletti del movimento a Strasburgo avranno il loro bel daffare per
limitare almeno un po’ il predominio (se non altro numerico) dei nuovi alleati: «Starà ai
nostri 17 eurodeputati far valere i nostri sette punti e i nostri valori, magari facciamo
diventare ambientalista Farage». In ogni caso, taglia corto, «la consultazione c’è stata e le
polemiche sono finite».
Già, ormai è fatta. E c’è anche un’eletta con Marine Le Pen nella nuova formazione che al
Parlamento europeo mette insieme Grillo e Farage. Compagnia assortita, per arrivare al
numero magico di 48, soglia minima per costituire un gruppo parlamentare di eurodeputati,
italiani e inglesi non hanno guardato troppo per il sottile. Imbarcando non solo Joelle
Bergeron, transfuga del Front national, ma anche estremisti di destra come i lituani di
Ordine e giustizia, i “Democratici” scandinavi ossessionati dal fenomeno dell’immigrazione,
più un paio di eletti rispettivamente in Cecoslovacchia e, di nuovo, in Lituania. Unico
collante, un euroscetticismo spinto, condito dall’avversione dichiarata a Bruxelles.
Ma tanto si doveva fare, anche perché le regole dell’Europarlamento impongono che un
gruppo autonomo deve essere composto da deputati eletti almeno in sette Paesi diversi.
Obiettivo raggiunto, per il rotto della cuffia. Anche se la compattezza di questa
delegazione “arlecchino” è tutta da dimostrare. Ma tant’è, e dopo il via libera arrivato dalla
Rete Beppe Grillo esulta: «Ha vinto la democrazia». A dominare il nuovo gruppo ci sono i
24 dell’Ukip di Farage. Poi vengono i grillini, che portano in dote 17 deputati. Tra gli altri
sei ci sono la francese ex lepenista, stropicciata da Marine per essersi detta favorevole al
voto agli stranieri, e quindi gli oltranzisti scandinavi, lituani e cechi.
Boccone indigesto, per Luis Orellana, senatore espulso dal M5S: «Grillo è stato molto
scorretto a non dire per tempo agli elettori dell’alleanza con Farage ». E a difendere
l’ortodossia stavolta, sul blog del comico, ci pensa il professor Paolo Becchi, l’ideologo del
movimento: «Non sorvoliamo sul fatto che questa decisione è stata presa a larghissima
maggioranza; siamo ormai abituati agli attacchi della stampa nemica, il fango gettato su
questo accordo è dettato dalla paura dell’eurocrazia che si crei una miscela esplosiva tra
Ukip e M5S; nonostante tutti abbiano cercato di boicottare la formazione del gruppo,
Farage è riuscito a costituirlo; in Europa è nata per la prima volta una vera opposizione».
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del 20/06/14, pag. 4
LA GIORNATA
Il Csm archivia il caso Bruti-Robledo
ROMA
Se quella giocata su Milano fosse una partita la si potrebbe sintetizzare così: vince Bruti,
perde Robledo. Anche grazie all’arbitraggio di Napolitano e di Vietti, i numeri uno e due del
Csm. Decisione «rispettosa delle indicazioni del presidente» dice Vietti. A quattro mesi
dalla “bomba” Robledo, le 20 pagine di esposto inviate al Csm con le presunte
inadempienze e violazioni del procuratore di Milano Bruti Liberati contro il suo aggiunto, il
Csm chiude la pratica con un “non luogo a procedere”. Tecnicamente, con 16 voti a
favore, viene archiviata l’ipotesi di trasferire d’ufficio tutti e due, o anche uno solo dei
protagonisti. Non c’è materia per farlo. Vietti vota con Unicost e Area, il centro e la sinistra
della magistratura, ma anche con i laici di centrodestra e centrosinistra.
Resta isolata sulle sue posizioni Magistratura indipendente, la destra delle toghe, che
avrebbe voluto la mano dura contro Bruti, al punto da chiedere al Guardasigilli
“un’ispezione politica” su Milano. Non ce la fa a votare, per via di altri urgenti impegni, il
presidente della Cassazione Santacroce. Si astiene il procuratore generale della
Cassazione Ciani perché sarà lui, assieme al Guardasigilli, a valutare se su singoli episodi
esistono gli estremi per un’azione disciplinare. Il fascicolo Sea, “dimenticato” da Bruti in
cassaforte, ma sul quale Robledo dimostrò inerzia investigativa.
Le carte riservate di Expo, raccolte indebitamente e inviate da Robledo al Csm come
pezza d’appoggio per le sue argomentazioni anti-Bruti. Sul tavolo dei padroni dell’azione
disciplinare non c’è nulla invece che riguarda i processi Ruby 1,2,3, segnalati da Robledo
per varie, e sempre presunte anomalie che alla fine la maggioranza del Csm ha messo da
parte. Tutte le carte finiranno anche alla quinta commissione che, ormai col nuovo Csm,
dovrà valutare la riconferma di Bruti nell’incarico di procuratore (fino al dicembre 2015,
perché poi scatta per lui la nuova età pensionabile del decreto Renzi). Non passa la
richiesta di trasferire Robledo, chiesta dall’inedita coppia Zanon (costituzionalista in quota
Pdl) e Nappi (ex Area) che piglia solo i voti dei proponenti.
( l. mi.)
del 20/06/14, pag. 10
Grandi manovre per il nuovo Csm E parte la
rottamazione nei tribunali
Superato l’ostacolo del voto al Csm sulle pratiche a suo carico, Edmondo Bruti Liberati
potrebbe guardare con animo più sereno (in teoria, ché la pratica può sempre rivelarsi
cosa diversa) alla riconferma nell’incarico di procuratore di Milano: altri quattro anni a
partire da luglio, quando scadranno i primi quattro. In fondo il suo ufficio ha lavorato bene,
ha sentenziato ieri l’organo di autogoverno dei giudici, in tempi rapidi e con risultati più che
soddisfacenti. Tuttavia, se pure dovesse ottenere la conferma, il procuratore dovrà
andarsene prima della nuova scadenza fissata a luglio 2018 a causa del decreto-legge
che imporrà la pensione dei magistrati a 70 anni (senza più le proroghe fino a 75 previste
dalla legislazione vigente). E Bruti, che raggiungerà il nuovo limite d’età il prossimo 10
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ottobre, dovrà lasciare la scrivania entro e non oltre il 31 dicembre 2015, unica deroga
concessa dal governo per non scoprire all’improvviso i vertici di troppi uffici giudiziari. Per
quella data — a meno di qualche ripensamento legislativo dell’ultima ora, magari a seguito
delle riflessioni sulla «necessità e urgenza» di un simile provvedimento — tutti gli
ultrasettantenni dovranno appendere la toga al chiodo. Il che significa che lasceranno il
servizio 445 magistrati su 9410 in attività; poco meno del 5 per cento. Un’incidenza
relativa, tant’è che tra gli stessi giudici chi si lamenta è, tutto sommato, una minoranza
piuttosto esigua. Peraltro consapevole che l’innalzamento della facoltà di lavorare fino a
75 anni fu un gentile omaggio della maggioranza politica di Silvio Berlusconi all’ex
presidente della Corte di Cassazione Nicola Marvulli, nel 2002, nel tentativo di
ingraziarselo in vista della decisione sullo spostamento da Milano dei processi a carico
dell’ex Cavaliere; Marvulli intascò il regalo, ma la Cassazione lasciò a Milano i processi
contro Berlusconi. Il problema organizzativo nasce dall’applicazione immediata e senza
scaglionamenti graduali della nuova norma, dal momento che di quei 445 giudici e pubblici
ministeri destinati alla pensione di qui a un anno e mezzo, due su tre ricoprono incarichi
apicali negli uffici giudiziari: 191 direttivi e 104 semidirettivi, per un totale di 295. Il che
significa che entro il dicembre 2015 si dovrà rinnovare per due terzi la guida del potere
giudiziario in Italia. Nel dettaglio, a parte i vertici della Corte suprema e della Procura
generale (quelli attuali e i principali candidati alla loro successione), bisognerà sostituire 31
procuratori della Repubblica, titolari dell’azione penale; 50 presidenti di tribunale, 15
presidenti di corte d’appello e altrettanti procuratori generali distrettuali, e 51 presidenti di
sezione della Cassazione (il «palazzaccio » sarà l’ufficio più colpito, al punto da
convincere il primo presidente Giorgio Santacroce a scrivere un’insolita quanto allarmata
lettera al ministro della Giustizia). E ancora presidenti dei tribunali di sorveglianza,
procuratori e presidenti dei tribunali minorili, avvocati generali della Cassazione. Tra i 104
incarichi semidirettivi da rinnovare ci sono soprattutto procuratori aggiunti e presidenti di
sezione dei tribunali e delle corti d’appello. Si tratta di una vera e propria rivoluzione,
generazionale ma anche culturale, visto il peso dei nomi di coloro che lasceranno la toga:
da Bruti Liberati, per l’appunto, al pg e ai presidenti di tribunale e corte d’appello milanesi
Minale, Pomodoro e Canzio; da Gabriella Luccioli, prima donna a entrare in Cassazione, a
Marcello Maddalena già procuratore e ora pg a Torino, fino a Leonardo Guarnotta, ultimo
magistrato ancora in servizio del nucleo fondativo del pool antimafia di Falcone e
Borsellino. E molti altri nomi che con le loro indagini o sentenze hanno scritto la storia
della giurisdizione italiana. A condurre questa rivoluzione — che prevedibilmente creerà
non pochi contenziosi davanti ai giudici amministrativi — sarà il nuovo Consiglio superiore
della magistratura che uscirà dalle elezioni dei 16 componenti togati previste per il 6 e 7
luglio e degli 8 componenti «laici» da nominare in Parlamento. Le previsioni per i posti
assegnati a giudici e pubblici ministeri riferiscono che la corrente «centrista» di Unità per la
costituzione e la «sinistra» rappresentata da Area potrebbero avere rispettivamente 7 e 6
seggi, e 3 dovrebbero andare alla «destra» di Magistratura indipendente. Ma uno o due
seggi restano in bilico, e potrebbero passare da un gruppo all’altro, tenendo conto che
sono in corsa anche i cosiddetti indipendenti. In ogni caso Unicost e Area dovrebbero
mantenere saldamente, come ora, la maggioranza. Tra i «laici» invece, secondo
consolidate prassi mai smentite,cinque componenti dovrebbero andare alla coalizione di
governo (verosimilmente 4 scelti dal Partito democratico e uno dal Ncd di Alfano) e tre
all’opposizione (di certo uno a Forza Italia e uno al Movimento 5 Stelle, l’altro da
assegnare). Nomi ne circolano pochi, c’è molta incertezza. È però pressoché sicuro che
tra i quattro «laici» indicati dal Pd — sui quali il premier-segretario Matteo Renzi avrà
l’ultima parola — ci sarà il vicepresidente chiamato a guidare la consiliatura in raccordo col
capo dello Stato. Sarà insomma un Csm di marca renziana. Che forse non a caso dovrà
28
procedere a una rivoluzione inevitabilmente associata alla «rottamazione» tanto cara al
giovane capo del governo.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 20/06/14, pag. 15
La «nazione» dei profughi
Oggi sono più di 50 milioni
Mai così tanti dalla fine della II Guerra mondiale
Un Paese in più al mondo, popoloso quanto la Colombia o il Sudafrica, poco meno
dell’Italia: 51,2 milioni di persone. Per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale, i
«migranti forzati» hanno superato la soglia dei cinquanta milioni.
È il primo dato che emerge dal nuovo Rapporto dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati
(Unhcr), diffuso oggi e anticipato al Corriere . Si riferisce a donne, uomini e bambini
costretti a lasciare le proprie case e a mettersi in viaggio, in conseguenza di guerre,
persecuzioni, violazioni dei diritti umani. Tiene insieme il conteggio degli «sfollati» —
rimasti all’interno dei confini nazionali — 33,3 milioni di persone; quello dei «rifugiati» —
che hanno attraversato almeno una frontiera — 16,7 milioni, la metà minorenni; più 1,2
milioni di «richiedenti asilo», che nel 2013 hanno fatto domanda di protezione
internazionale.
A spingere i numeri verso l’alto è il conflitto siriano, che ha superato il terzo anno e non
promette soluzioni. È da qui che arrivano i flussi che fanno tracimare il Rapporto: 2,47
milioni di rifugiati a fine 2013; 6,5 milioni di sfollati interni. Con conseguenze che si
irradiano in tutta l’area euromediterranea. «La crisi si protrae — spiega Carlotta Sami,
portavoce dell’Unhcr per il Sud Europa — ed è talmente devastante, con la distruzione di
villaggi, di intere città, delle infrastrutture, di tutto il sistema sanitario, da non lasciare ai
profughi speranze di rientro». I dati del 2013 dicono anche questo: più guerre, più lunghe,
più bassa la quota di chi riesce a tornare a casa (solo 416 mila in tutto il pianeta).
Certamente non i siriani, che si sono al principio allontanati in un raggio breve, Libano,
Giordania e Turchia, appena al di là della frontiera, e che adesso, osserva Sami, spesso
coi bambini al seguito, partono verso progetti di vita altrove, la maggior parte in Europa,
qualcuno negli Stati Uniti. Perché le prospettive di rimpatriare (trovando le condizioni per
ricominciare) sono scarse.
Corollario della crisi siriana, la trasformazione — nell’arco di un anno soltanto — del
piccolo Libano nel terzo Paese al mondo per rifugiati (856 mila), il primo in assoluto (e con
ampio distacco) nella proporzione tra abitanti e profughi: 178 ogni mille. Uno
sbilanciamento destinato ad avere conseguenze in un incastro già fragile di minoranze.
Qui, come nell’intera regione. Carichi così alti pesano inevitabilmente negli altri Stati
confinanti, soprattutto in Giordania (641 mila).
In cima alla lista degli approdi, però, restano Pakistan (1,6 milioni di profughi) e Iran (857
mila), effetto ancora della crisi afghana: benché i riflettori si siano spostati altrove, le
violenze in queste valli continuano a obbligare migliaia di persone a mettersi in viaggio.
Sono ancora gli afghani i più numerosi tra i rifugiati (2,56 milioni), assieme ai siriani, certo,
e ai somali (1,12 milioni): tre nazionalità che assieme rappresentano il 53 per cento di tutti
i popoli in fuga.
Crisi lunghe, speranza di rinascita in Europa: è una delle ragioni che spiegano l’aumento
degli sbarchi sulle nostre coste. In Italia, indica il Viminale, al 13 giugno sono 53.763.
Unhcr fornisce al Corriere la cifra delle richieste d’asilo nello stesso arco di tempo, che dà
la misura di chi intende restare: 23 mila. Oltre il doppio delle domande presentate nei primi
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sei mesi del 2013 (10.900), non lontano dalla cifra complessiva dell’anno scorso (27.000).
Molto al di sotto, però, delle quote tedesche (42 mila solo da gennaio ad aprile), che
lasciano pensare a un nuovo «record». La Germania, già nel 2013, è in cima alla lista
mondiale per richieste d’asilo, con un numero che equivale a una città delle dimensioni di
Vicenza: 109.580.
Alessandra Coppola
del 20/06/14, pag. 5
Frontiere chiuse, Milano crocevia della tratta
Nicola Grigion
MILANO
Giornata internazionale del rifugiato. Guardati da via Albini ministri e
scafisti appaiono molto simili: sia gli uni che gli altri gestiscono le
frontiere: i primi decidono gli ostacoli per gli ingressi, i passeur
mettono i mezzi per superarli. E il «traffico di profughi» diventa un
business
Quando arriviamo davanti al distributore automatico di bibite all’incrocio con via Aldini,
abbiamo la sensazione di aver interrotto una discussione importante. La trattativa che è in
corso lì dentro è di quelle serie. Sul piatto ci sono le speranze di intere famiglie. Si parla di
confini e di blocchi alle frontiere ma non siamo a Bruxelless e non si tratta dei pugni che
Renzi e Alfano dovrebbero sbattere sul tavolo dell’Unione Europea. Siamo sul ciglio di una
strada di Milano e in quei pochi metri quadrati si decidono veramente le strade dei profughi
in Europa. Le stesse scene si ripeteranno qualche ora più tardi, nel cuore della notte, ai
bordi delle strade, in maniera molto più plateale.
È così che fiumi di parole della politica si trasformano in carta straccia. In quella trattativa
neppure tanto nascosta c’è tutta l’ipocrisia delle politiche europee sull’immigrazione.
Guardati da questa angolazione i ministri e i trafficanti sembrano molto simili. Sia gli uni
che gli altri discutono dei modi per gestire le frontiere. I primi decidono il percorso ad
ostacoli, i secondi ci mettono l’auto per superarli. A nessuno interessa granché del diritto
dei migranti di scegliere dove andare.
È la storia di ogni notte in via Aldini, davanti al centro di accoglienza del «Progetto Arca»,
che con il Comune sta gestendo «l’emergenza siriani». Capannelli di gente che
perfezionano accordi già presi qualche ora prima, bagagliai aperti carichi di valigie,
qualche saluto ed un po’ di diffidenza mista a paura. In quella via le norme europee, quel
fastidioso regolamento Dublino che ingabbia i richiedenti asilo nel primo paese di approdo,
cadono sotto i colpi dell’inarrestabile desiderio di ricongiungersi ai parenti, di lasciare
l’Italia che poco ha da offrire dopo aver abbandonato la Siria, la Turchia, l’Egitto e poi la
Libia, che da offrire avevano invece solo morte. Ed anche qui, così come nel continente
africano, tutto ha un prezzo. Ma mentre nel Canale di Sicilia si proclama una guerra in
nome della lotta ai trafficanti, con tanto di pattugliamenti e controlli radar, a Milano non ci
sono inseguimenti, sparatorie o arresti. Qui sul traffico di essere umani non viene spesa
neppure una parola. Da queste parti gli scafisti su strada, anzi, risultano utili, perché
garantiscono la decongestione dei centri italiani e un notevole risparmio di risorse. Non si
illudano i legalitari, perché fermare i passeur non basterebbe comunque a bloccare le
traiettorie di chi fugge. Ma se questo passaggio avvenisse alla luce l’Europa sembrerebbe
certo qualcosa di più di un agglomerato di egoismi nazionali. I migranti, in ogni caso, a
31
prescindere da Alfano, Barroso e Dublino III, le frontiere le attraversano eccome e lo fanno
pagando. Anche per loro i trafficanti sono utili davanti all’imperdonabile ipocrisia europea.
Il tariffario può oscillare tra i 500 ed i 1.000 euro a persona per raggiungere la Germania,
tra i 1.000 ed i 2.000 per la più ambita Svezia. Qualcuno fa il furbo e non ti porta a
destinazione, come è capitato qualche giorno fa ad una famiglia lasciata sul ciglio della
strada in zona Varese, o ad una donna che ha pagato per lei e suo figlio ma poi ha visto
scomparire il passeur dietro l’angolo. Ma anche questi rischi fanno parte della sfida, e il
mercato non si ferma.
Verso la fine del 2013 i respingimenti alla frontiera erano frequenti. In Sicilia venivano
prese le impronte digitali a chi sbarcava dalle navi di «Mare Nostrum» e tutto risultava più
difficile, poi, dopo un periodo più morbido, in questi ultimi mesi, le frontiere verso la
Svizzera e l’Austria, quelle ferroviarie, sono tornate ad essere pressoché impraticabili. Ma
se si parte in macchina e ci si muove verso la Francia tutto diventa più semplice. Chi è qui
è disposto a pagare prezzi da capogiro: duemila, tremila euro per un’intera famiglia.
Hanno speso tanto per raggiungere Milano, ora vogliono arrivare fino in fondo, a qualsiasi
costo. C’è anche chi, più sfortunato, ha dovuto lasciare le impronte digitali nei centri del
sud, altri invece hanno già in tasca un’espulsione di un paese europeo. Per loro tutto è
diventato più difficile ma non demordono. Chi non ha con sé il denaro, se lo fa spedire dai
parenti. Il desiderio più grande, che è insieme anche una preoccupazione, è quello di far
tornare a studiare i bambini, grandi e piccoli. Occorre qualche giorno per trovare un
prestanome che ritiri il denaro da uno dei tanti Money Transfer del capoluogo lombardo e
tutta la rigida macchina del confine diventa immediatamente più fluida, permeabile,
lasciando sullo sfondo la sensazione che ogni operazione di controllo, ogni irrigidimento
dei dispositivi formali della frontiera, ogni retorica sulla chiusura dei confini, non servano
ad altro che ad alzare le quotazioni di un posto verso la meta, a decidere il grado di
difficoltà del viaggio.
Così il «dio denaro» si è ritagliato la sua parte anche in questa ultima «emergenza». E a
Milano, in queste notti di giugno, così come ormai avviene da ottobre, la libertà è a
pagamento e si contratta agli angoli delle strade.
del 20/06/14, pag. 5
Un treno «clandestino» per il diritto d’asilo
N. G
Partirà nel primo pomeriggio dalla stazione centrale di Milano, il No Borders Train, il treno
che sabato 21, insieme ai rifugiati, si muoverà verso il confine con la Svizzera per sfidare
le frontiere europee. Ormai da mesi le autorità elvetiche hanno ripristinato controlli serrati,
nonostante gli accordi sulla libera circolazione con l’Ue. La caccia per il momento è
riservata a richiedenti asilo e rifugiati, che vengono rispediti in Italia senza neppure poter
presentare domanda di protezione internazionale, violando così anche le regole del
Regolamento Dublino. Sembra solo il preludio a quello che accadrà nei prossimi mesi,
quando, con l’applicazione dei risultati del referendum dello scorso febbraio, le attenzioni
della polizia di frontiera svizzera coinvolgeranno anche i cittadini comunitari, italiani in
primis, destinati a breve ad essere sottoposti ad un rigido sistema di quote di ingresso.
Per questo, sabato, proprio dopo la celebrazione della giornata mondiale del rifugiato,
centinaia di attivisti e migranti raggiungeranno il capoluogo meneghino partendo in
carovana da diverse parti d’Italia, per poi raggiungere il confine ed iniziare a dare
concretezza a quell’asilo europeo invocato da molti ma ancora ostaggio degli egoismi
32
nazionali degli stati. Punteranno diretti sulle autorità di frontiera elvetiche perché mettano
fine alle prassi illegittime contro chi chiede asilo. Perché se è vero che le norme europee
prevedono che la richiesta di protezione internazionale venga presentata nel primo paese
d’arrivo, è vero anche che richiedenti asilo e rifugiati hanno il diritto di potersi rivolgere ad
un altro stato, soprattutto quando, come avviene in Italia, non sono garantite condizioni
degne di accoglienza, con migliaia di rifugiati abbandonati, costretti a vivere in palazzi e
case occupate, a cui è negato anche il diritto alla residenza dal nuovo piano casa del
governo Renzi. E proprio sabato, mentre il treno raggiungerà il confine, a Roma i
movimenti per la casa torneranno in piazza contro il decreto Lupi, mentre ad Ancona gli
attivisti delle Ambasciate dei diritti si preparano a riaprire alla città la zona del porto, oggi
sottratta ai cittadini anconetani per nascondere gli altri respingimenti, quelli che l’Italia
continuamente pratica nei confronti di chi fugge dalla Grecia.
Una giornata di lotta, quella di sabato, che ruota intorno ai confini europei. Quelli che
perseguitano la vita di chi li attraversa anche dopo averli superati, come con il Piano casa,
o come quelli che rigidi e apparentemente inviolabili come quelli svizzeri, così come quelli
che, ipocritamente, svaniscono nell’ombra dei passaggi clandestini, gonfiando le tasche di
passeur e trafficanti.
Ma i veri protagonisti della giornata saranno i movimenti, le lotte, la solidarietà, le battaglie
che su scala europea stanno costruendo un’altra Europa: quella vera, oltre le gabbie ed
oltre i confini.
del 20/06/14, pag. 11
L’Italia cambi il sistema d’asilo
E nel 2014 può farlo
LUIGI MANCONI
VALENTINA CALDERONE
VALENTINA BRINIS
La settimana scorsa la Camera dei Deputati ha bocciato per mancanza di copertura
economica alcuni importanti articoli della Legge di Delegazione Europea 2013-bis,
contenenti misure significative a sostegno dell’accoglienza e dell’integrazione dei rifugiati.
Se fossero passati, il Governo sarebbe stato delegato dall’Unione Europea a modificare (e
possibilmente migliorare) il sistema d’accoglienza per i rifugiati e le procedure per il
riconoscimento della protezione internazionale. Attualmente le persone che sbarcano in
Italia sono per lo più gestite con provvedimenti di carattere emergenziale, nonostante il
fenomeno degli arrivi via mare sia strutturato. Le politiche di accoglienza si rivelano
spesso inefficaci rispetto alle esigenze e sicuramente non sono «lungimiranti». Ciò ha fatto
sì che la maggior parte dei fondi economici destinati a questo tema viene per lo più spesa
per soluzioni che oltre a garantire vitto e alloggio non offrono altri servizi. Sarebbe
necessario - come è stato in questo contesto più volte ribadito - aumentare i fondi per altre
forme di accoglienza che, in Italia, consistono nello Sprar (Sistema di Protezione
Richiedenti Asilo e Rifugiati) e nel Cara (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo). Un
passo del genere è stato di recente compiuto dal governo, ma non è sufficiente a
rispondere alle richieste. Le riforme sono estremamente urgenti e ora spetta al Senato
modificare il testo di legge già discusso alla Camera, tenendo presente le norme scartate
in quel contesto. Il 2014 è l’anno in cui l’Italia ha l’occasione di cambiare definitivamente il
sistema dell’asilo, un’opportunità che non va persa in alcun modo. Oggi è la Giornata
33
Mondiale del Rifugiato e per quest’occasione sono state organizzate in tutta Italia
numerose iniziative. In alcune di queste verranno raccontate le storie di chi fugge dal
Paese di origine e cerca di realizzare il proprio progetto migratorio.
del 20/06/14, pag. 11
Sempre più bambini nei barconi della
speranza
Il rapporto Save The Children: «Nel 2014 sono sbarcati oltre novemila
minori. Più della metà viene dalla Siria e ha subito fame e molestie»
Sono quasi tutti siriani, arrivano dopo viaggi che durano anni, con tappe forzate in Libia o
in Egitto e spesso hanno subito molestie. Quasi tutti i minori sbarcati in Italia dal 1 gennaio
al 31 maggio 2014 sono bambini in fuga. Hanno un’età media di 5 anni, a volte meno, e
non tutti sono accompagnati. È quanto emerge da un rapporto di Save the Children. 1.542
bimbi su 2.124 arrivati nel 2014 provengono dalla Siria. Un viaggio terribile iniziato nella
maggior parte dei casi 1 o 2 anni fa per sottrarsi a combattimenti che non risparmiano città
e villaggi e che colpiscono la popolazione civile e soprattutto loro, i bambini, uccisi,
torturati o armati, esposti ad amputazioni o malattie gravi per mancanza di cure, spesso
senza cibo sufficiente e senza acqua. A loro è dedicato «L'Ultima Spiaggia. Dalla Siria
all'Europa, in fuga dalla guerra», il rapporto presentato da Save the Children alla vigilia
della Giornata mondiale del rifugiato per dare loro un nome e un'identità, dare voce alla
loro ultima speranza di futuro rivolta all'Italia e all'Europa, e che racconta le loro storie.
Gli arrivi dei profughi siriani sono andati ad intensificare gli ingenti flussi già provenienti
dagli altri Paesi: secondo i dati ufficiali e le stime di Save the Children, dal 1 gennaio al 17
giugno 2014 sono arrivati via mare in Italia più di 58.000 migranti, di cui più di 5.300
donne, più di 9.000 minori, di cui solo 3.160 accompagnati. La presenza di bambini e
adolescenti sulle imbarcazioni soccorse da Mare Nostrum è oramai una costante. Basti
pensare che il 24 maggio, a bordo di una sola imbarcazione soccorsa vi erano 488
migranti tra cui 171 minorenni. La maggior parte, ben 141, erano bambini e bambine
siriane che viaggiavano con uno o entrambi i genitori. Nel 2013 l'arrivo dei profughi siriani
si è intensificato fino a raggiungere solo tra agosto e ottobre 9.365 persone (805 donne e
1.405 minori), mentre quest'anno la Siria è il secondo principale Paese di provenienza dei
migranti arrivati in Italia (6.620 su 41.243 tra il 1/1 e il 31/5), preceduta solo dall'Eritrea. La
maggioranza di queste famiglie appartengo alla classe media. Sono professionisti,
imprenditori, commercianti, agricoltori o allevatori e sono fuggiti dalla Siria 1 o 2 anni fa per
intraprendere un lungo e costoso viaggio, spesso passando per il Libano e l'Egitto.
Raccontano che in Libia hanno provato a vivere cercando una casa e un lavoro,ma sono
stati esposti a persecuzioni, furti, minacce e violenze. Passano dall’Italia, ma la loro metà
sono i Paesi del nord Europa, in particolare, Svezia, Norvegia, Germania e Svizzera.
Esemplare è la storia di Hassan che ha appena 28 anni ed è sbarcato con la moglie, un
figlio di 2 anni e mezzo e una bimba di 16 a Lampedusa il 15 ottobre 2013. Appena
trasferiti in Sicilia hanno dovuto lasciare le loro impronte digitali anche se non volevano:
«Mi hanno detto che le impronte erano solo per l'anticrimine e sarei potuto comunque
entrare dove volevo in Europa». Non era così, dopo aver raggiunto l'Austria e aver fatto la
domanda di asilo è risultato che erano già registrati come richiedenti asilo in Italia, e sono
stati rinviati a Roma. Quella della Siria è una delle più grandi crisi umanitarie del nostro
tempo. «Sono 4,3 milioni i bambini intrappolati nel Paese e in grave bisogno di aiuto, ma
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siamo a 3 mesi dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu sulla facilitazione
dell'accesso degli aiuti umanitari e non abbiamo visto cambiare di una virgola la situazione
sul campo - ha denunciato Valerio Neri, direttore generale di Save the Children. L'Italia e
l'Europa hanno la responsabilità imprescindibile di accogliere questi bambini. «Chiediamo
ai Paesi europei di riconoscere la propria responsabilità e predisporre programmi di
reinsediamento e altre forme di ammissione umanitaria».
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 20/06/14, pag. 10
Le spiagge distrutte dal gioco della guerra
CAPO TEULADA, IN MEZZO ALLE DUNE SI TROVANO LE BOMBE
di Mario Marcis
È la propaggine più a sud della Sardegna. Capo Teulada ha tutte le potenzialità per fare
bella mostra nei depliant delle agenzie turistiche: mare cristallino, sabbia bianca e colline
ricoperte da macchia mediterranea. E invece, in mezzo alle dune, capita di trovare le
bombe. Come quella che il deputato ed ex governatore della Sardegna Mauro Pili ha
mostrato martedì in una conferenza stampa a Cagliari, denunciando 50 anni di
bombardamenti. Poi mercoledì si è reso protagonista di un’irruzione all’interno del
poligono militare. In un video pubblicato su Youtube, si vede il leader di Unidos correre
con una bandiera dei Quattro mori in mezzo all’area usata per le esercitazioni. Il deputato
è stato denunciato a piede libero per occupazione abusiva di una base militare. “È quello
che volevo. Ora voglio un pubblico processo per poter spiegare con carte alla mano che lo
Stato impedisce ai sardi di godere di questo straordinario patrimonio e nel contempo lo
utilizza per distruggerlo a colpi di bombe e missili”, ha detto Pili. A Capo Teulada si fa la
guerra da più di 50 anni. Per finta – esercitazioni, tutto perfettamente legale –ma si fa la
guerra. In alcune bellissime spiagge della zona, come per esempio Porto Zafferano, si può
prendere il sole solo a luglio e agosto.
IL RESTO DELL’ANNO l’accesso è limitato ai militari. Esiste perfino una zona interdetta, la
cosiddetta ‘penisola delta’. “L’unica zona di arrivo dei proiettili esplodenti presso la quale
l’accesso è interdetto sin dagli anni ‘60 al personale militare e civile”, si legge nella
relazione della Commissione uranio impoverito del Senato, che ha visitato l’area a
dicembre 2011. Perché nel frattempo, sul solco dell’inchiesta del procuratore della
Repubblica di Lanusei Domenico Fiordalisi sui sospetti casi di tumori nelle aree vicine a un
altro poligono sardo, quello di Quirra (Sardegna sudorientale) la Commissione del Senato
ha avviato un’indagine anche sugli altri poligoni. Tra questi Capo Teulada e Capo Frasca,
sempre in Sardegna e Torre Veneri, vicino Lecce. La sensazione è che la Sardegna non
sia più disposta a farsi carico di più della metà – il 65% – delle servitù militari presenti sul
territorio nazionale. Discorso che vale anche per i vertici della politica regionale. Ieri la
giornata politicamente più calda. Il governatore della Sardegna Francesco Pigliaru ha
infatti deciso di non firmare il protocollo di intesa con il Ministero della Difesa sulle servitù
militari. Fallito, almeno per la parte sarda, il vertice organizzato dal ministro della Difesa
Roberta Pinotti con i presidenti di Sardegna, Puglia e Friuli Venezia Giulia. “Da troppo
tempo i sardi protestano ma non vengono ascoltati. Esiste una pesante sproporzione tra le
servitù sarde ed il resto d’Italia: si tratta di 30 mila ettari e 80 chilometri di costa interdetti al
turismo. Sono numeri enormi che facciamo fatica ad accettare ulteriormente. Non sono qui
per sentire dire che l’attuale dimensione dei poligoni non è negoziabile, è tempo di
cambiare copione. Il rischio è che si intacchi la fiducia nella leale collaborazione fra i
diversi livelli istituzionali”, queste le parole del governatore della Sardegna. Il ministro
Pinotti ha ammesso di “comprendere la posizione” di Pigliaru. “Puntiamo ad arrivare ad
un’intesa”, ha aggiunto. Intesa raggiunta invece con la presidente del Friuli Venezia Giulia
Debora Serracchiani che ha firmato “convintamente” il protocollo.
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del 20/06/14, pag. 9
Energia, famiglie e imprese
faticano a pagare le bollette
Relazione annuale dell’Autorità: il 30% della produzione nazionale è
coperta dalle rinnovabili ● La crisi si riflette sui consumi e sui
pagamenti
Bollette sempre più difficili da pagare per famiglie ed imprese. A lanciare l’allarme, durante
l’annuale relazione al Parlamento, è stato il presidente dell’Autorità per l’energia e il
sistema idrico, Guido Bortoni, che ha sottolineato come negli ultimi due anni la crisi
economica abbia reso sempre più difficile onorare i pagamenti.
SOFFERENZE
«Nel 2012, con aggravamento nel 2013» ha spiegato Bortoni «le sofferenze correlate alla
crisi si sono manifestate in maniera evidente sotto forma di morosità di imprese e famiglie,
pur al netto di comportamenti opportunistici comunque difficili da isolare. Come ormai è
tratto distintivo di questa Autorità, occorre stringere selettivamente le maglie della
regolazione, per tutelare i clienti in effettivo stato di difficoltà economica ed evitare ad un
tempo le facili sospensioni del servizio da parte dei fornitori. Bisogna considerare per
esempio che nel 2013 i prezzi del gas per i consumatori domestici italiani sono risultati più
alti della media dell’Area euro per tutte le classi di consumo. Al tempo stesso però
dobbiamo confinare i comportamenti opportunistici e le facili morosità, visto che la
morosità rappresenta anche per i fornitori una variabile di reale criticità in un contesto già
di crisi». «Sempre nel 2013 un milione emezzo di famiglie» ha continuato Bortoni «hanno
usufruito dei bonus sociali previsti per contribuire al pagamento delle bollette energetiche,
ma rappresenta solo il 35% degli aventi diritto. Il problema della morosità ne richiama un
altro ben più grave: quello della povertà energetica. È da diversi anni in essere un
meccanismo per l’erogazione di bonus sociali sia elettrici, sia gas, ma solo una parte degli
aventi diritto chiede di usufruirne». «Si rendono pertanto necessari e urgenti » ha
sottolineato il numero uno dell’Autorità «interventi mirati di semplificazione delle procedure
di accesso, nonché di focalizzazione di azioni informative. L’entità del problema impone
misure di revisione al rialzo degli sconti e di adeguamento del meccanismo ai nuovi
parametri europei». Infine il presidente dell’Autorità per l’energia e il sistema idrico ha fatto
il punto sulle Rinnovabili: «Le rinnovabili hanno raggiunto in Italia nel 2013 una quota pari
al 30% della produzione. Ma il cambiamento del mix produttivo comporta anche delle
possibili criticità per la sicurezza del sistema. Il nostro parco di generazione ha cambiato
radicalmente struttura, con una quota di fonti rinnovabili che, in termini di potenza
installata, al termine del 2013 ha superato il 37% del totale. La rivoluzione del mix
produttivo è ora tale che una quota di circa il 30% della produzione nazionale, quella
rinnovabile con costo variabile nullo, offre a zero la vendita della propria energia (incentivi
in disparte), pareggiando di fatto la produzione nazionale a gas quanto a volumi prodotti. Il
cambiamento ha inciso sensibilmente sui mercati, a rischio di possibili criticità: le
Rinnovabili infatti non sono programmabili e hanno una estrema dispersione sul territori ».
Federica Guidi, ministro dello Sviluppo economico, subito dopo l’intervento di Bortoni in
Parlamento, ha spiegato come «il governo cerchi di spingere verso una omogeneizzazione
delle politiche energetiche e delle infrastrutture, visto che su questo tema le politiche
nazionali non sono più sufficienti. Ma le politiche energetiche devono essere come minimo
37
ben gestite e organizzate e omogeneizzate anche a livello europeo, altrimenti il singolo
sforzo della singola nazione rischia di essere vanificato».
del 20/06/14, pag. 10
Il processo Ilva subito sospeso, gli atti in
Cassazione
I difensori di 15 imputati vogliono la rimessione del procedimento per
trasferirlo a Potenza
Cominciato e subito rinviato al 16 settembre. Così il processo a Taranto per il disastro
ambientale dell’Ilva. La decisione di rinviare tutto a dopo le ferie è stata presa dal gup
Wilma Gilli per decidere sulle eccezioni sollevate dai difensori di alcuni imputati. L’ipotesi
di un avvio del processo con rinvio immediato circolava già da alcuni giorni considerato
che c’è un’istanza di rimessione presentata dalla difesa del gruppo Riva e di alcuni
imputati. Nessun sit-in all’esterno della caserma del comando provinciale dei Vigili del
fuoco, solo qualche striscione dei Cobas, ma a distanza dall’edificio. Il processo noto
come «Ambiente svenduto» riguarda il disastro ambientale compiuto dall’Ilva secondo
l’accusa della Procura che chiede il rinvio di 49 persone e di 3 società. Coinvolti fra gli altri
Nicola e Fabio Riva, fratelli e proprietari dell’Ilva, ma anche ex direttori del siderurgico
tarantino, dirigenti dello stabilimento, politici, amministratori pubblici come il sindaco di
Taranto, Ezio Stefàno, e il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola. Ieri davanti al
gup Wilma Gilli nella prima udienza sono state decine le richieste di costituzione parte
civile da esaminare ma soprattutto con un grosso nodo da affrontare: se rimettere subito
gli atti alla Corte di Cassazione, visto che gli avvocati del gruppo Riva e di altri imputati
chiedono la rimessione del processo, ovvero il trasferimento in un'altra città, oppure
costituire comunque le parti civili, in almeno un paio di udienze, poi attendere il verdetto
della Suprema Corte. Alla fine l’aggiornamento al 16 settembre ma per alcune eccezioni
sollevate dalla difesa. La carta della rimessione del processo è stata invece giocata dalla
difesa nella convinzione che a Taranto non esistano le condizioni per uno svolgimento
«sereno» del processo. Troppo rilevante è il caso Ilva, grande l'impatto, anche psicologico,
sulla città, ancora recenti sono le manifestazioni e i cortei di protesta contro l’acciaieria,
l’ultimo dei quali si è tenuto ai primi di aprile scorso. Il processo, quindi, dicono i legali del
gruppo Riva e di altri imputati, va spostato in alto luogo. La Procura respinge le accuse e
fa presente che l'equilibrio del giudizio a Taranto è dato dal fatto che proprio i Riva, i
principali indagati, visto che per loro l'accusa è di associazione a delinquere finalizzata al
disastro ambientale, nelle scorse settimane sono stati assolti dall’accusa di monopolio
illecito al porto. Tra i presenti in tribunale spicca la presenza di Aurelio Rebuzzi, che ha
perso il figlio 16enne qualche tempo fa a causa di una grave malattia. C’è Vincenzo
Fornaro, l'allevatore al quale nel 2008 furono abbattuti centinaia di capi di bestiame, tra
pecore e capre, che risultarono contaminate dalla diossina dell'Ilva. E giustizia chiedono
un pò tutti coloro che hanno perso i loro cari o subito danni dall'inquinamento. «Se non ci
fosse giustizia, i nostri familiari morirebbero due volte», sottolinea Aurelio Rebuzzi. «Non si
risolve il problema chiudendo l'Ilva -ammonisce Maurizio Landini, segretario della Fiom
Cgil- L’Ilva deve continuare a produrre e a garantire lavoro ma in un quadro
completamente nuovo e diverso dall’attuale. Lo stabilimento va risanato, messo a norma e
reso sicuro».
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CULTURA E SCUOLA
Da ilSole24ore.com del 20/06/14
Stati generali della Cultura, Franceschi: dal 1°
luglio cambiano tariffe e orari dei musei.
Giannini: storia dell'arte in tutti i licei
«Ho firmato un decreto ministeriale che introduce una vera e propria rivoluzione tariffaria
per i musei. Entrerà in vigore il 1 luglio prossimo». È la novità annunciata dal ministro della
Cultura e del Turismo, Dario Franceschini, nel suo intervento alla terza edizione degli Stati
generali della cultura a Roma (Auditorium della Conciliazione) organizzata dal Sole 24 Ore
in collaborazione con Fondazione Roma (diretta twitter: hastag #SGC14). Franceschini ha
specificato che l'ingresso ai musei resterà gratuito solo per i giovani sotto i 18 anni e per
alcune categorie, come per esempio quella degli insegnanti.
Gli over 65 invece pagheranno il biglietto, mentre resteranno valide le riduzioni fino ai 25
anni. Il decreto istituisce anche una giornata al mese con ingresso gratuito nei musei: ogni
prima domenica del mese. Altre novità: il prolungamento dell'orario di apertura di tutti i
grandi musei (compresi Colosseo, Pompei e Uffizi) fino alle 22 tutti i venerdì. Viene poi
reso permanente, per due volte all'anno, l'ingresso a 1 euro nei musei.
Sull'art bonus il ministro ha poi chiosato: «Dopo gli sgravi fiscali offerti non ci sono più
alibi, aspetto ora la risposta dei privati». Tema chiave di questa edizione degli Stati
generali: «Valorizzare il patrimonio. Ora o mai più». Il direttore del Sole 24 Ore Roberto
Napoletano, introducendo i lavori, ha ribadito l'importanza di investire sul capitale culturale
dell'Italia. Ecco la cronaca della giornata.
Ore 13,40. Napoletano: cultura scalda i cuori
«Ho apprezzato l'approccio pragmatico dei ministri Franceschini e Giannini». Lo ha detto il
direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano in conclusione dei lavori della terza edizione
degli stati generali della cultura a Roma. E ha aggiunto: «La cultura appassiona e scalda i
cuori, non abbiamo mai avuto dubbi su questo». E infatti @SGC14 è tra i #TT di oggi.
Ore 13,24. Giannini: estendere insegnamento storia dell'arte
«Se Dario Franceschini si sente ministro dell'Economia, io mi sento ministro dello
Sviluppo». Lo ha detto il ministro dell'Istruzione Stefania Giannini nel suo intervento agli
stati generali della Cultura. Poi ha ggiunto: «Per reintrodurre la storia dell'arte in tutte le
nostre scuole, a tutti i livelli, bastano 25 milioni di euro all'anno. Il budget del mio ministero
è di 51 miliardi l'anno, quindi penso proprio che ce la possiamo fare, anzi, ce la dobbiamo
fare».
Ore 13,04. Fassino: allargare ai privati il perimetro delle risorse
«In tempi di crisi va allargato il perimetro delle risorse disponibili per la cultura. A quelle
pubbliche, che sono in calo, vanno affiancate quelle private, sotto forma di mecenatismo,
partnership o sponsorizzazioni». Lo ha detto il sindaco di Torino e presidente dell'Anci
Piero Fassino nel suo intervento agli stati generali della cultura.
Ore 12,57. Fassino: cultura elemento costitutivo dello sviluppo
«La cultura è elemento costitutivo e non aggiuntivo del modello di sviluppo» ha aggiunto il
sindaco di Torino e presidente dell'Anci Piero Fassino.
Ore 12,54. Osanna: non riusciamo a usare i soldi che abbiamo
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«Dobbiamo essere messi nelle condizioni di poter usare i soldi che abbiamo». Lo ha detto
Massimo Osanna, Soprintendente di Pompei e Ercolano. «Non riesco a fare politica
culturale perché sono impegnato tutti i giorni a risolvere contenziosi e affrontare problemi
burocratici».
Ore 12,50: Greco: valorizzazione e tutela non sono due cose diverse
«Valorizzazione e tutela non sono due cose diverse» Christian Greco, direttore della
Fondazione Museo delle Antichità egizie di Torino, che ha aggiunto: «Sono tornato dopo
17 anni perchè da fuori vedevo ancora di più le potenzialità dell'Italia. Chiedo di essere
responsabile del mio operato e di essere valutato da persone competenti».
Ore 12,44. Paolucci: se sovrintendente è bravo non ha bisogno di manager
Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, ha rivendicato invece il sistema italiano
delle soprintendenze, rispetto alla cultura americana del manager. E ha detto: «se un
sovrintendente è bravo che bisogno ha del bocconiano di fianco a lui». Poi in maniera
polemica ha chiosato: «I maggiori disastri sono sempre stati fatti in nome della
valorizzazione»,
Ore 12,11. Franceschini: al via nuovo piano tariffario musei dal 1° luglio
«Ho firmato un provvedimento che rivoluziona il piano tariffario nei musei dal 1° luglio.
Restano la gratuità per under 18 e le riduzioni per gli under 25 ma sopra i 25 anni
pagheranno tutti», senza più esenzioni per gli over 65. Lo ha annunciato il ministro dei
Beni Culturali Dario Franceschini, che ha anche spiegato che ha specificato che il decreto
istituisce anche una giornata al mese con ingresso gratuito nei musei: ogni prima
domenica del mese. Inoltre, ha continuato il ministro, «ci saranno almeno due notti al
museo con ingresso a 1 euro ogni anno». Un'altra novità che contiene il provvedimento,
ha aggiunto Franceschini, è l'apertura di tutti i grandi musei fino alle 22 tutti i venerdì.
Ore 12,05. Franceschini: coniugare tutela e valorizzazione
La tutela del nostro patrimonio culturale è la condizione per poterlo valorizzare». Lo ha
detto il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, nel suo intervento agli stati generali
della cultura, che ha aggiunto: «Serve una cultura manageriale da affiancare alla tutela
scientifica del nostro patrimonio». E ancora: «Servono la conservazione e il marketing».
Ore 12,00. Franceschini: dopo art bonus non ci sono più alibi
«Dopo gli sgravi fiscali offerti da art bonus non ci sono più alibi, aspetto ora la risposta dei
privati». Lo ha detto il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, nel suo intervento agli
stati generali della cultura
Ore 11,55. Franceschini: investimenti in cultura rendono di più
«Gli nvestimenti nella cultura sono quelli che rendono di più». Lo ha detto il ministro dei
Beni Culturali Dario Franceschini, che ha ricordato: «Per ogni euro investito in cultura ne
ritornano 1.7». E ha aggiunto: «Sono certo di guardare il ministero economico più
importante di questo Paese»
Ore 11,50: Benedini: Renzi su strada giusta
«Credo che Renzi e la sua squadra siano su strada giusta. Il premier ha visione e coraggio
per rompere le troppe incrostazioni italiane. Non abbiamo alternative». Lo ha detto il
presidente del Gruppo 24 Ore Benito Benedini
Ore 11,45. Benedini: Expo 2015 sarà volano anche per la cultura
«Expo 2015 sarà volano anche per la cultura. Basteranno le grandi mostre che Il 24Ore
Cultura sta allestendo per anno prossimo». Lo ha detto il presidente del Gruppo 24 Ore
Benito Benedini, che ha aggiunto: «Senza la cultura non c'è sviluppo. Bisogna diffondere
le opere d'arte sul territorio e serve la creazione di un museo nazionale».
Ore 11,15. Carandini: allargare Art bonus a beni privati
«Il provvedimento su Art Bonus mi soddisfa come cittadino. Ma spero che sia primo atto di
un percorso più ampio». Lo ha detto Andrea Carandini, presidente Fai (Fondo Ambiente
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Italiano), che chiede un allargamento. E dice: «perché i beni privati non possono godere
dell'art bonus»? Il Fai chiede di poter accedere al credito d'imposta dell'artbonus, perché
ne sono esclusi tutti i beni di proprietà. E Carandini spiega: «Se ci regalano una villa
palladiana di grande valore artistico non possiamo accedere all'art bonus»
Ore 11,00. Emanuele: largo ai privati nella cultura
«Largo ai privati nella gestione della cultura, perché non vanno visti come un nemico». Lo
ha detto il presidente della Fondazione Roma, Emmanuele Emanuele.
Ore 10,45. Emanuele: la cultura energia pulita del paese
«La cultura è l'energia pulita del nostro paese». Lo ha detto il presidente della Fondazione
Roma, Emmanuele Emanuele. E ha aggiunto: «Bisogna ricominciare a far studiare la
storia dell'arte» nelle scuole.
Ore 10,38. Emanuele elogia provvedimento Art Bonus
Il presidente della Fondazione Roma, Emmanuele Emanuele, ha elogiato il provvedimento
"Art bonus" del ministro Franceschini e ha ricordato che «i musei potranno disporre dei
ricavi della biglietteria e dei servizi aggiuntivi, mentre prima non era così».E ha aggiunto:
«I sovrintendenti non hanno le competenze per valorizzare il nostro patrimonio, devono
fare un altro lavoro, servono manager
Ore 10,30. Emanuele: industria culturale pilastro del made in Italy
«L'industria culturale è pilastro del made in Italy perché produce il 15,3% del valore
aggiunto complessivo del Paese dando complessivamente lavoro (grazie all'aeffetto
moltiplicatore) a 1,4 milioni di persone (il 6,2% del totale degli occupati»). Lo ha detto
Emmanuele Emanuele, presidente della Fondazione Roma, citando dati Unioncamere.
Emanuele ha ricordato però che l'Italia è ultima in Europa nei consumi culturali: «Nel 2013
6 italiani su 10 non hanno letto nemmeno un libro».
Ore 10,15. Napoletano cita De Gasperi
Il direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano, introducendo i lavori della terza edizione
degli Stati generali della cultura, ha ribadito l'importanza di investire sul capitale culturale
dell'Italia. E ha citato il primo discorso da capo del governo di Alcide De Gaspari alla Scala
a Milano. «Lo volle fare lì perché quel simbolo si riaccendesse - ha detto Napoletano - e
perché era convinto che l'Italia avesse due leve: il lavoro e la cultura. E pensava che
dovessero essere utilizzate insieme».
Ore 10,00. Imprese all'opera
Non mancano gli esempi di imprese che amano la cultura: la Tod's di della Valle ha
donato 25 milioni di euro per il restauro del Colosseo; Fendi ha finanziato il restauro delle
fontane romane, a partire da Fontana di Trevi (2,18 milioni di euro e lavori fino al 2015).
Bulgari si sta occupando della scalinata di Trinità dei Monti, donando 1,5 milioni. Il Museo
Egizio di Torino è rinato con una struttura articolata che comprende anche il contributo di
soggetti privati (tra cui la Compagnia di San Paolo).
Ore 9,45. L'arte della formazione
Nella filosofia che ha ispirato il Manifesto e gli Stati generali c'è l'idea che il concetto di
"cultura" debba essere interpretato con una concezione allargata a educazione, istruzione,
ricerca. Sull'onda del Manifesto, sul domenicale del 5 dicembre 2013 Armando Massarenti
ha lanciato l'idea di un Senato delle competenze.
Ore 9,30. Gli sgravi fiscali
Nella II edizione degli Stati generali, lo scorso 22 novembre a Milano, il presidente della
Fondazione Roma, Emmanuele Emanuele, lanciò la proposta di sgravi fiscali per le
imprese, citando la detraibilità per le sponsorizzazioni e il mecenatismo. Il ministro della
Cultura, Dario Franceschini, con l'Art Bonus (credito d'imposta del 65% per le donazioni a
favore dei beni culturali), si è mosso in questa direzione. Si può allargare il campo del
credito d'imposta.
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Ore 9,10. Gli interventi di Giannini e Franceschini
Dopo l'intervento di Piero Fassino, presidente Anci e sindaco di Torino, oggi alle 12.30
avranno luogo gli interventi di Stefania Giannini (Ministro dell'Istruzione, dell'Università e
della Ricerca) e di Dario Franceschini (Ministro dei Beni Culturali e del Turismo). Le
conclusioni della giornata saranno a cura del direttore del Sole 24 Ore Roberto
Napoletano. Per ulteriori informazioni è possibile consultare il sito dedicato:
www.statigeneralidellacultura.ilsole24ore.com
Ore 8,55. L'impatto del decreto sulla defiscalizzazione
I lavori, moderati dal vicedirettore di Radio 24 Sebastiano Barisoni, proseguiranno oggi
con un confronto tra Andrea Carandini (Presidente FAI Fondo Ambiente Italiano) e
Armando Massarenti (responsabile Il Sole 24 ORE Domenica) sul tema "Fruibilità delle
opere: proposte a confronto. La defiscalizzazione dei beni culturali e le nuove azioni per il
rilancio", nel corso del quale verrà analizzato l'impatto sul sistema cultura delle norme del
decreto sulla defiscalizzazione, con l'obiettivo di evidenziare le opportunità che la
relazione tra pubblico e privato può aprire ed i vantaggi che possono derivare in termini di
tutela del patrimonio.
Ore 8,32. Incontro aperto da Benedini e Napoletano
L'incontro odierno, aperto dal saluto di benvenuto del presidente del Gruppo 24 ORE
Benito Benedini e dall'introduzione ai lavori a cura del direttore Roberto Napoletano, vedrà
l'intervento di Emmanuele Emanuele (presidente Fondazione Roma) sul valore e
promozione della cultura.
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-06-19/al-via-stati-generali-cultura-parolachiave-valorizzare-patrimonio-082434.shtml?uuid=ABSaKcSB
del 20/06/14, pag. 33
Dagli Uffizi al Colosseo apertura serale il venerdì e più domeniche a
ingresso libero: il piano di Franceschini
Musei, 1 su 3 non paga addio biglietti gratis
per gli over 65
FRANCESCO ERBANI
ROMA .
Si pagherà per entrare nei musei, nei siti monumentali e archeologici dello Stato anche se
si hanno più di 65 anni, un’età che finora garantiva l’accesso gratuito. Non è una misura
punitiva per gli anziani, assicura il ministro Dario Franceschini, che ha firmato un decreto
contenente compensazioni e che però ha lasciato inalterato l’ingresso senza costi per
alcune categorie (insegnanti, giornalisti...): nelle stesse strutture si entrerà gratis ogni
prima domenica del mese, le Notti al museo diventeranno due l’anno (ingresso a un euro),
e tutti i venerdì i grandi complessi, da Pompei al Colosseo agli Uffizi, saranno aperti fino
alle 22. Gratis continueranno a entrare gli under 18, con riduzione gli under 25. Il tutto a
partire dal primo luglio.
Più agevolazioni per i giovani meno per gli anziani? L’obiettivo è comunque quello di
incrementare gli introiti, anche se la porzione degli istituti interessati è molto piccola: sono
infatti 224 i luoghi d’arte a pagamento appartenenti allo Stato su un totale di 431 (207 sono
gratuiti). E i 431 sono solo una parte degli oltre 4.500 fra musei, aree archeologiche e
monumenti censiti in Italia, in maggioranza di proprietà pubblica, ma non statale, e poi di
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proprietà ecclesiastica o privata. In ogni caso Franceschini propone al presidente dell’Anci,
Piero Fassino, di allargare la misura ai musei civici, di proprietà dei comuni.
Pochi di numero, i luoghi d’arte investiti dalle modifiche sono comunque fra i più visitati,
sono potenti attrattori di turismo culturale. Nel 2013 i visitatori nei musei statali sono stati
poco sopra i 38 milioni (sugli oltre cento che hanno frequentato anche musei non statali),
26 di questi sono entrati in strutture a pagamento, ma solo poco più di 17,6 hanno pagato,
gli altri 8,7 no: grosso modo il 30 per cento.
Ed è su questo 30 per cento che si vuole incidere per portare più soldi alle casse dello
Stato (126 milioni gli introiti del 2013). Quanti siano questi soldi non è chiarissimo.
Essendo rimaste le agevolazioni, più o meno giustificate, sono le persone
ultrasessantacinquenni quelle penalizzate. E fra gli over 65 al ministero hanno puntato
soprattutto sul turismo straniero. Franceschini vi ha fatto riferimento esplicito: è assurdo,
ha detto, «che anche facoltosi turisti stranieri over 65 non paghino il biglietto». Secondo
una stima, il 49 per cento di chi visita musei statali non viene dall’Italia, un paese che
trascina nel tempo molti record negativi, primo fra tutti uno che ci inchioda: non superano il
28 per cento gli italiani che in un anno hanno messo piede almeno una volta in un museo.
La porzione di persone anziane è spesso prevalente nei cortei di turisti stranieri che
percorrono le città italiane. Ma oltre le rilevazioni empiriche sono i dati sul turismo nel
mondo a confermarlo. Inoltre, si fa notare al ministero, l’agevolazione per età non
distingue fra redditi alti e bassi.
Ma Annalisa Cicerchia, economista della cultura, sottolinea l’altra novità del
provvedimento: «L’ingresso gratuito per tutti, dodici volte l’anno, è una misura che ci
allinea a molti paesi europei e non solo e che migliora la relazione fra i nostri musei e i
territori in cui essi si trovano, che è una delle sfide culturali più ambiziose».
Quanto alle aperture notturne, già molti musei e siti archeologici sperimentano queste
soluzioni. Compatibilmente con i bilanci ridotti all’osso e la carenza di personale, però. Fa
notare Maria Rosaria Barbera, soprintendente archeologico di Roma, che la spending
review obbliga a non sforare di un euro i costi dell’anno precedente su diversi capitoli di
spesa. Compresi i consumi di elettricità, che schizzano con le aperture notturne.
del 20/06/14, pag. XIII
I più importanti cantieri nelle mani di aziende e mecenati E ministero e
Campidoglio chiedono investimenti
Stato cerca sponsor tra nuovi sgravi fiscali e
ritorni d’immagine i privati salvano la cultura
SARA GRATTOGGI
CERCASI mecenati disperatamente. Con lo Stato e il Comune a corto di fondi, la caccia
allo sponsor (o, meglio, al filantropo) per restaurare monumenti e siti archeologici romani
si fa sempre più pressante. L’appello del ministro Dario Franceschini per la Domus Aurea
(«mi aspetto che le grandi imprese italiane collaborino ora che l’Art Bonus prevede un
credito d’imposta del 65%») è solo l’ultimo di una lunga serie. Per il restauro della reggia di
Nerone negli ultimi sette anni sono stati spesi 18 milioni di euro, fra fondi della
Soprintendenza, del commissariamento e del Cipe. Ma ne servono altri 31 per il sistema di
protezione esterno. Del resto, spiega la soprintendente Mariarosaria Barbera «la nostra
programmazione 2014 prevede circa 42 milioni per più di 200 interventi, fra manutenzione
e cantieri. Ma le risorse non bastano, quindi siamo costretti a finanziarli in forma ridotta».
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Qualche esempio? «Abbiamo accolto il 25% circa delle richieste provenienti dal Palatino e
dal Foro, dove nell’ultimo anno abbiamo avuto 33 cantieri, mentre per gli allestimenti
museali abbiamo soddisfatto il 15% delle richieste». «Se avessimo 80 milioni all’anno da
investire, cioè il doppio di quel che abbiamo — conclude Barbera — potremmo senz’altro
assicurare la giusta conservazione e valorizzazione del patrimonio». Anche la
Soprintendente al Polo museale, Daniela Porro, ieri si è sfogata: «Noi amministratori di
Beni culturali siamo lasciati a noi stessi. Le nostre strutture sono autonome, non ricevono
un euro dallo Stato se non per la gestione del personale. Ma devono occuparsi della tutela
di un patrimonio immenso».
Da qui, l’appello del ministro. Che arriva dopo gli analoghi inviti del sindaco Ignazio
Marino, anche lui in cerca di filantropi per i monumenti della Sovrintendenza capitolina. Da
mesi, Marino gira per il mondo con il dossier sui nove tesori da salvare: dalla Cisterna
delle Sette Sale, per cui servono 6 milioni, al Mausoleo di Augusto, per cui ne mancano 4.
Del resto, molti dei principali cantieri in corso a Roma sono finanziati da privati: Della Valle
per il Colosseo (25 milioni), Yuzo Yagi per la Piramide Cestia (2 milioni), Fendi per la
Fontana di Trevi (2 milioni), mentre Bulgari interverrà sulla scalinata di Trinità dei Monti
(1,5 milioni). Non solo. Per la prima volta, con lo Stadio di Domiziano di piazza Navona, il
Campidoglio ha dato a una società privata la concessione in uso per 9 anni di un sito
archeologico, in cambio della sua riqualificazione. Se tutti cercano sponsor, c’è chi si offre
volontario. Ieri il presidente della Fondazione Roma, Emmanuele Emanuele è tornato a
farsi avanti: «Da anni la fondazione si è detta disponibile a dare un contributo al restauro
di alcune realtà abbandonate del Centro, perché la Roma barocca è un susseguirsi di
meraviglie da tutelare».
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ECONOMIA E LAVORO
del 20/06/14, pag. 13
“Fiscal compact blindato” ma Merkel pronta a
trattare sui bond per le grandi opere
FEDERICO FUBINI
ROMA
Il semestre di presidenza italiano dell’Unione europea è alle porte ed era un pezzo che un
evento del genere non creava tanta attesa fuori dal Paese di turno. A Bruxelles, a Berlino
o a Parigi tutti accettano che Matteo Renzi è la sorpresa del voto per l’europarlamento. La
novità che il premier rappresenta è diventata da subito un ingrediente del negoziato fra i
governi, quello che sta per iniziare per cercare di chiudere più in fretta le ferite dalla
recessione.
Non è un caso se ieri l’Italia ha inviato un testo a Herman Van Rompuy, presidente del
Consiglio europeo. Lì dentro è formulato un doppio obiettivo: una lettura meno severa
della disciplina di Bruxelles sui conti pubblici, più un grande programma europeo di
investimenti. Quest’ultimo include l’opzione dei cosiddetti project bond, veri e propri piani
di grandi opere da sviluppare con garanzie comunitarie: quanto di più vicino esista a un
eurobond, una messa in comune di risorse per costruire un gasdotto, un’autostrada o un
tratto di ferrovia.
Renzi alza la posta, perché capisce che è il momento di sfruttare il senso di innovazione
legato al suo nome. Poi però c’è l’altro volto dell’Italia, quello che tutti conoscono da
sempre. Nell’ultimo anno l’economia ha generato altri 150 mila disoccupati in più, mentre
in Spagna se ne contano 300 mila in meno. La produzione industriale è scesa in due degli
ultimi tre mesi, con un tenue più 0,7% solo in aprile, mentre in Spagna viaggia nella
ripresa a velocità doppia. Anche il debito pubblico continuerà a salire, fino almeno al 135%
del Pil alla fine di quest’anno. Il premier ha ereditato un Paese che non dà ancora segni di
convalescenza, in questo simile soprattutto alla Francia. Oltralpe la produzione industriale
procede in modo persino più letargico e il numero dei disoccupati è inchiodato da un anno
a quota tre milioni: non continuano a salire come in Italia, ma non iniziano a scendere
come in Spagna.
La dimensione della politica oggi rafforza Renzi in Europa, ma l’economia no. Quanto alla
Francia, sia la politica che l’economia minano l’autorità in Europa del presidente François
Hollande, il cui partito ha la metà dei voti del Front National. Solo per Angela Merkel tanto
la politica che l’economia sono puro e semplice vento nelle vele.
Tutto questo era al lavoro ieri, quando il premier ha sentito al telefono la cancelliera dopo
aver visto Van Rompuy a Roma mercoledì.
Nelle scorse settimane, l’impressione di molti dei suoi interlocutori in Europa è stata che
l’Italia stesse chiedendo una rilettura radicale delle regole di bilancio del Fiscal Compact.
L’idea era di togliere dal calcolo del deficit ciò che un governo spende in investimenti per
la crescita. Giusta o sbagliata che sia, questa proposta però non è accettabile a Bruxelles,
né fra i socialdemocratici o i cristiano-democratici della Grosse Koalition di Berlino. A
Renzi, mercoledì Van Rompuy ha detto chiaramente che solo i leader di governo nel
Consiglio europeo possono cambiare le regole e adesso non esistono le condizioni perché
succeda. Van Rompuy ha poi aggiunto un concetto: se ciò che l’Italia chiede è una lettura
più elastica delle regole sul deficit - non una riscrittura - allora l’ultima parola spetta alla
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Commissione europea. Il governo italiano si sente dunque incoraggiato ad andare avanti
con le proposte per allentare il Fiscal Compact. Per arrivarci è pronto a offrire l’appoggio a
Jean-Claude Juncker, candidato Angela Merkel per la guida della Commissione europea,
in cambio di un’apertura alle sue idee.
Visto da Bruxelles o da Berlino non tutto appare altrettanto lineare. E il problema adesso
non è tanto la Commissione, benché in queste settimane la direzione generale Affari
Monetari stia valutando se è aprire (a fine anno) una procedura per debito eccessivo
sull’Italia. No. Il problema è che né il centrodestra, né il centrosinistra della Grosse
Koalition di governo in Germania vogliono permettere che il Paese con il debito pubblico
più alto dopo la Grecia, l’Italia, apra una breccia nelle regole. Merkel non crede che ciò
serva a creare crescita e sa che l’opinione pubblica tedesca non glielo perdonerebbe.
Questa trattativa rischia di diventare un vicolo cieco di conflitto politico e diffidenza in
Europa.
Al contrario, il governo tedesco è sempre più aperto all’ipotesi di aprire a un grande piano
comune di investimenti in Europa per riassorbire un po’ di disoccupazione. È pronto a
pensarci per dare una mano - in mancanza di leader migliori - a Hollande contro l’estrema.
Ma neanche questo è acquisto. Come precondizione a questi progetti, i tedeschi
vorrebbero vedere in Italia e in Francia riforme incisive come quelle che oggi rendono la
ripresa spagnola chiaramente più forte. Le regole del mondo del lavoro sono l’aspetto a
cui Merkel oggi guarda di più: a quel punto per lei diventerebbe più facile, di fronte ai suoi
stessi elettori, accettare grandi piani di spesa europei. L’Europa del resto è sempre stata
un gioco cooperativo, in cui ciascuno accetta una parte del rischio politico delle scelte. Se
saprà prendere la propria, Renzi adesso ha un capitale politico da investire e moltiplicare.
del 20/06/14, pag. 4
“Così mi macchiate il brand”
Antonio Sciotto
Fiat. Dura lettera contro la Fiom: "Lo stop alla Maserati è irrazionale, ci
danneggia tutti". L’ad in difficoltà, ormai protestano anche i "sindacati
del sì". Offre 15 euro, ma poi scrive ai «colleghi»
Offre loro un piatto di lenticchie – 15 euro lordi di aumento al mese – ma poi li chiama
«colleghi», e li spinge a mostrare «fiducia e passione» per fare dell’Italia «la protagonista
del mondo». Dal video di Happy, con gli operai che ballano felici tra le linee di Melfi, è
passato qualche mese, e alla Fiat la situazione non si è certo ripresa: anzi, ormai
scioperano perfino i “sindacati del sì”. Quindi che fare? Sergio Marchionne prende carta e
penna per riempire di orgoglio tute blu sempre più inquiete, con una lettera indirizzata a
ciascuno di loro. Bastasse così poco.
La missiva – pubblicata ieri integralmente su La Stampa – è indirizzata principalmente agli
operai della Fiom, gravemente redarguiti per lo sciopero alla Maserati di lunedì scorso,
definito dall’ad delle meraviglie «incomprensibile, irrazionale e ingiustificato». In una nota
diffusa il giorno della protesta, Marchionne aveva già spiegato che il fermo della
produzione aveva fatto venire a mancare 11 automobili, un piccolo quantitativo, ma
prezioso per una fabbrica che tira nel panorama di una crisi generale.
E così, ecco secondo il manager, il danno operato dallo stop della Fiom, prima di tutto di
immagine: «Quello che è successo pochi giorni fa – scrive – ha certamente cancellato
opportunità preziose per sfruttare alcuni picchi di domanda. Ma, cosa ben più grave, ha
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inferto un duro colpo al nostro e al vostro lavoro. Non ha offerto dell’Italia l’immagine che
vorremmo portare nel mondo, quella di un Paese serio e di grande valore».
Questo alle “pecore nere”. Ci sono poi le “vittime” del «comportamento di un’esigua
minoranza», ovvero gli operai che hanno deciso di non scioperare – e, per esteso, tutti
quelli che non aderiscono alle iniziative della Fiom, sempre più ingombranti e fastidiose
per Marchionne. A loro, l’ad chiede di «mantenere il coraggio e la voglia di fare qualcosa di
buono», li sprona a «difendere l’italianità vera» (che in tempi di mondiali, è una virtù che
certo commuove).
Anche perché, la Fiat e Marchionne, questo è il succo del messaggio indirizzato ai «cari
colleghi» (chiama così i dipendenti), hanno «fatto tutto il possibile per mantenere aperti i
nostri stabilimenti italiani e salvaguardare i posti di lavoro». «Lo abbiamo fatto al di là di
una logica di mercato – conclude Marchionne – come atto di responsabilità verso tutti voi e
verso il nostro Paese, considerando soprattutto che la disoccupazione ha raggiunto picchi
mai visti prima».
Insomma, irresponsabile adesso remare contro: e un messaggio subliminale è indirizzato
anche agli iscritti ai “sindacati del sì” (Fim-Uilm-Fismic-Ugl) che con lo stop agli
straordinari, deciso dopo l’offerta choc di 15 euro lordi di aumento mensile, potrebbero
danneggiare prodotti che tirano: non solo la Maserati, ma, come ricorda la stessa Stampa,
il Ducato, realizzato alla Sevel, in Abruzzo.
Scioperi, sia quello Fiom alla Maserati di Grugliasco (contro gli eccessivi carichi di lavoro)
che quello delle flessibilità indetto dai “sindacati del sì” per il contratto, che comunque
hanno avuto una prima ricaduta sulle politiche aziendali. La Fiat ha comunicato infatti ieri
che non ricorrerà più agli straordinari in tutti gli stabilimenti, che a Grugliasco non
estenderà i turni a 12 da settembre, e che per ora sospenderà i 500 trasferimenti previsti
da Mirafiori: una sorta di “rappresaglia”, pare, rispetto ad accordi già chiusi con i “sindacati
del sì”.
I «sindacati del sì», però, forse intimoriti dalla missiva urbi et orbi, si sono affrettati a
dichiarare che i rimproveri della lettera non sono indirizzati a loro, ma soltanto alla Fiom, e
adesso invocano «responsabilità» per riaprire il negoziato e magari concludere: il
segretario generale della Fim Cisl, Giovanni Farina, dice che «la lettera non ci riguarda,
ma Marchionne farebbe bene a riconvocare la trattativa sul contratto e chiudere il
rinnovo».
Parla di «grande delusione per lo sciopero di lunedì» l’ad della Maserati, e responsabile di
Alfa Romeo, Harald Wester. Mentre per la Fiom parla da Torino Federico Bellono: «Le
parole di Marchionne sono inaccettabili – dice – Non ci sentiamo direttamente chiamati in
causa, sembra un avvertimento indirizzato a tutti i lavoratori della Fiat».
del 20/06/14, pag. 4
Torino, cancellato il vertice Ue sulla
disoccupazione
Roberto Ciccarelli
Il vertice Ue sulla disoccupazione giovanile previsto a Torino l’11 luglio è stato cancellato.
Probabilmente si terrà a fine anno a Bruxelles. Lo ha annunciato il presidente del Consiglio
Renzi al termine dell’incontro con il presidente del Consiglio europeo Herman Van
Rompuy a Roma. A loro avviso per discutere di occupazione (e disoccupazione) in Europa
bisogna aspettare che le trattative tra i governi in corso in queste ore partoriscano
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l’organigramma della nuova Commissione alla cui presidenza sembra essere stato
confermato Jean-Paul Juncker, inviso però alla Germania della Merkel e all’Inghilterra di
Cameron.
Renzi dovrebbe tenere per sé un vertice sulla disoccupazione, arricchendo l’agenda del
semestre italiano a guida Ue il cui unico risultato dovrebbe essere un maggiore
riconoscimento delle differenze tra spese correnti e spese per fare le riforme strutturali a
trattati invariati. Quindi senza modificare i vincoli capestro stabiliti dal Fiscal Compact (che
dal 2016 obbligherà un paese come l’Italia ha tagliare 50 miliardi di debito pubblico
all’anno, per i prossimi 20) oppure l’obbligo del pareggio di bilancio. È probabile che il
governo italiano punti a qualche deroga, ma ancora non è chiara quale.
La motivazione reale dell’annullamento del vertice è stata fornita dal ministro del lavoro
Giuliano Poletti che ha definito «saggia» la decisione: «È abbastanza noto che fosse in
essere una mobilitazione, un aumento dell’attenzione e potenzialmente di una
problematicità rispetto all’ordine pubblico» ha detto dopo un consiglio Ue sull’occupazione
in corso a Lussemburgo. Poletti sembra avere confermato che l’incontro europeo previsto
inizialmente a Torino si svolgerà negli ambienti ovattati di Bruxelles con la nebbia o la
neve, preferibili all’afa di metà estate del capoluogo piemontese.
A quale mobilitazione si riferisce il ministro con il suo linguaggio legnoso che preannuncia,
in filigrana, scontri, arresti, violenze di ogni tipo da parte delle forze dell’ordine, come e più
di quelle già viste a Roma lo scorso 12 aprile durante una manifestazione per il diritto alla
casa e la riforma del lavoro che porta il suo nome?
Da settimane su twitter gli hashtag #civediamol11 e #renzistaisereno riempiono sempre
più le «timeline», mentre su facebook c’è una pagina omonima che raccoglie documenti,
foto e immagini di una mobilitazione contro la legge Poletti che precarizza i contratti a
termine e la legge delega in discussione in parlamento che completerà il «Jobs Act».
Questo provvedimento estenderà l’«Aspi» e la «mini-Aspi» ai cocopro e ai cassintegrati, 1
milione e 200 mila persone. Una misura giudicata del tutto insufficiente per affrontare una
disoccupazione giovanile al 46%, mentre quella generale ha raggiunto il 13,6% nel primo
trimestre 2014.
Nella piattaforma che ha convocato la manifestazione a Torino a cui avrebbero dovuto
partecipare anche movimenti dalla Germania, dalla Grecia o dalla Francia, non mancano i
riferimenti al piano casa approvato dal governo Renzi considerato un atto di guerra contro
i poveri costretti ad occupare palazzi a causa dell’emergenza abitativa e della
disoccupazione di massa.
Il corteo è stato convocato da un’assemblea riunita a Palazzo Nuovo, la sede delle facoltà
umanistiche a Torino, lo scorso 31 maggio. Cinquecento studenti, precari, lavoratori, centri
sociali e sindacati di base (Usb, Cub, Cobas) hanno redatto un appello contro «i capi
dell’Europa che vogliono incontrarsi per decidere del nostro futuro. Saremo presenti anche
noi per imporre la voce di quanti non trovano rappresentanza dentro queste istituzioni e ne
pagano i costi col proprio impoverimento e la propria precarizzazione».
«Il fiorentino – scrive il sito InfoAut — è allergico alle contestazioni e deve ancora coltivare
la sua immagine di salvatoere della patria: per ora è basata su promesse, paura e
speranze, ma che deve ancora incassare un voto concreto (più di quello delle europee)
per assicurarsi la stabilità del parlamento italiano. Iniziare il semestre europeo con un
vertice sulla disoccupazione giovanile fatto a Torino (la città più povera del Nord Italia,
segnata dal movimento No Tav e da mobilitazioni come quella del 9 dicembre) non
sarebbe stato certo il miglior viatico per la sua immagine in Italia e in Europa. A maggior
ragione per un vertice che sarebbe durato 24 ore, in un clima di assedio, una pura
passerella politica in cui nessuna reale soluzione sarebbe potuta emergere, nemmeno una
da spendere sul piano mediatico».
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La cancellazione del vertice di Torino è un nuovo episodio di una storia relativamente
lunga. Del «summit» europeo contro la disoccupazione se ne parla dall’insediamento della
nuova legislatura nel 2013. Non è difficile ricordare gli annunci prima fatti trapelare, poi
prontamente smentiti, a proposito della convocazione del vertice da parte del governo
Letta. Già alla fine del 2013 alcuni ministri dell’allora esecutivo lo avevano convocato ad
aprile a Roma. I movimenti stabilirono la data del 12 aprile, uno dei giorni in lizza per la
convocazione del vertice.
del 20/06/14, pag. 7
Il rap operaio per salvare Piombino
«Per tornare a narrare quel lavoro cancellato dall’agenda politica». Dopo aver superato un
casting - «tanto in cassa integrazione abbiamo poco da fare» - Deborah, Mauro, Massimo,
Alessandro, Francesco, Roberto e ancora Alessandro sono diventati attori e cantanti.
Sono sei lavoratori più la moglie di un operaio della Lucchini di Piombino. Sono i
protagonisti di uno spot televisivo ideato da Klaus Davi in collaborazione con la Cgil cui i
lavoratori cantano sulle note di Quelli che ben pensano di Frankie Hi-nrg. Mentre la
musica va, accanto ai loro volti compaiono le loro mansioni (elettromeccanico, gruista,
classificatore rottame, tornitore) e gli anni da cui sono «in solidarietà » (non meno di tre).
«Un modo nuovo, innovativo, tutt’altro che conservatore» per lanciare un messaggio molto
importante: la Lucchini e Piombino - «e tutto l’acciaio in Italia » - non devono chiudere. Già
protagonista di un video-appello - ripreso anche da Papa Francesco che rispose e accolse
alcuni operai in piazza San Pietro - il massmediologo Klaus Davi ha deciso di rilanciare: 2
minuti e 50’ di musica - già disponibili sulla rete e «a disposizione delle tv pubbliche e
private che lo vorranno passare come“ dovere civile”», sottolinea Susanna Camusso - più
due backstage del video realizzato dalla Brw Filmland, agenzia guidata da Marco
Bussinello che produce gli spot di multinazionali come Barilla. Presentato ieri mattina alla
sala Di Vittorio della sede nazionale della Cgil, lo spot è stato anche lo spunto per una
riflessione più ampia sulla «mancata narrazione del lavoro» fra lo stesso Klaus Davi,
Susanna Camusso, la giornalista Lucia Annunziata e il presidente della Regione Toscana
Enrico Rossi. Dal 24 aprile, giorno della firma dell’Accordo di programma a Palazzo Chigi
e dell’ultima colata di acciaio a Piombino, i 2.200gli addetti dello stabilimento e 1.600 gli
impiegati nell’indotto diretto sono in attesa dell’aperture delle offerte che dovrebbero dare
agli indiani di Jindal la sola laminazione a freddo.
ROSSI:CONCORDIA, NO ALTRI INCHINI
Uno striscione srotolato chiedeva «La Concordia a Piombino». Sul punto ha fatto
chiarezza - e rumore - il presidente della Toscana Enrico Rossi. «Con i lavori di bonifica
dasettembre il porto di Piombino avrà un escavo di 20 metri e potrà accogliere la
Concordia, distando solo 53 miglia dall’Isola del Giglio. Invece si è deciso di spostare la
nave ad inizio agosto e di portarla a Genova, mettendo a rischio la riserva di cetacei nelle
isole toscane. Ora, io chiedo al governo di pensarci bene, non vorrei che facessimo un
secondo inchino: quello dello Stato alla Costa Crociere».
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