L`inglese è la lingua più strana del mondo

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L`inglese è la lingua più strana del mondo
Cultura
MaGNUM/CoNTraSTo
Londra
L’inglese è la lingua
più strana del mondo
John McWhorter, Aeon, Regno Unito. Foto di Matthew Stuart
Tendiamo a pensare che l’inglese si sia imposto grazie alla sua semplicità.
In realtà è una lingua bizzarra, le cui regole sono il risultato di una storia tortuosa
C
hi parla inglese sa che è
una lingua strana, e lo
sanno tutti quelli che sono
costretti a impararlo. La
prima stranezza riguarda
lo spelling, il modo in cui si
scrivono le parole, che è un vero incubo. Nei
paesi dove non si parla inglese non esistono
le “gare di spelling”. Nelle lingue normali
c’è almeno una corrispondenza di base tra
come si scrivono le parole e come la gente le
pronuncia. Ma l’inglese non è normale.
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Lo spelling è una questione di scrittura,
mentre la lingua riguarda fondamentalmente il parlato. La parola parlata è nata
molto prima di quella scritta, parliamo molto più di quanto scriviamo e circa duecento
lingue delle migliaia che ci sono nel mondo
non si usano mai o quasi mai in forma scritta. Tuttavia, anche nella forma parlata, l’inglese è piuttosto strano. Strano in un modo
che i madrelingua tendono a non notare,
soprattutto perché gli anglofoni americani
e britannici non muoiono propriamente
dalla voglia d’imparare altre lingue. Ma la
tendenza degli anglofoni al monolinguismo li mette nelle condizioni del proverbiale pesce che non sa di essere bagnato perché
non ha idea di cosa signiichi essere asciutto. Gli sembra che la loro lingua sia “normale” solo ino a quando non si rendono conto
di cosa signiica veramente normale.
Un esempio: non esiste nessun’altra lingua abbastanza simile all’inglese da permettere a un anglofono di capire la metà di
quello che viene detto senza averla prima
studiata, e l’altra metà con un piccolo sforzo. Tra il tedesco e l’olandese c’è questo tipo
di rapporto, come c’è tra lo spagnolo e il
portoghese o tra il tailandese e il laotiano.
Quella che si avvicina di più all’inglese è
un’oscura lingua antica nordeuropea chiamata frisone. Per notarlo basta confrontare
la parola del frisone tsiis con quella inglese
cheese (formaggio); oppure la frase “brea,
bûter, en griene tsiis is goed Ingelsk en goed
Frysk” con “bread, butter and green cheese
is good english and good frisian” (pane,
burro e formaggio fresco si capisce sia in
inglese sia in frisone). Ma naturalmente
questa è una frase scelta di proposito, e nel
complesso i madrelingua inglesi tendono a
pensare che il frisone somigli più al tedesco,
e infatti è proprio così.
Agli anglofoni dà fastidio che molte lingue europee assegnino un genere ai nomi
comuni senza motivo, per cui in francese la
luna (lune) è femminile e la barca (bateau) è
maschile. Ma in realtà sono loro a essere
strani, perché quasi tutte le lingue europee
appartengono alla stessa famiglia – l’indoeuropeo – e tutte, tranne l’inglese, hanno
nomi maschili e femminili.
Ecco altre stranezze. Esiste una sola lingua in tutto il pianeta in cui solo la terza persona singolare del presente di un verbo ha
una desinenza. Il verbo to talk (parlare), si
coniuga così: I talk, you talk, he/she talks.
Perché? Il presente delle lingue normali
non ha nessuna desinenza per le varie persone o le ha tutte diverse (in spagnolo si dice
hablo, hablas, habla). E trovatemi un’altra
lingua in cui serve un ausiliare (do) per fare
una domanda o negare qualcosa.
Fare la conta in celtico
Perché l’inglese è una lingua così eccentrica? E perché si è sviluppata così?
All’inizio era praticamente una specie
di tedesco. L’inglese antico è così diverso
dalla sua versione moderna che si fa fatica
a credere che sia la stessa lingua. “Hwæt!
We Gardena in geardagum / þeodcyninga,
þrym gefrunon”: la prima frase dell’antico
poema epico Beowulf nell’inglese di oggi
equivale a “So, we Spear-Danes have
heard of the tribe-kings’ glory in days of
yore” (Allora noi danesi armati di lance abbiamo sentito parlare della gloria passata
dei re delle tribù). Gli islandesi sono ancora in grado di leggere i poemi epici scritti
mille anni fa nel norvegese antico che è
l’antenato della loro lingua, mentre per gli
anglofoni che non hanno studiato le lingue
antiche il Beowulf potrebbe anche essere
scritto in turco.
La prima trasformazione avvenne
quando gli angli, i sassoni e gli juti (ma anche i frisoni) invasero la Gran Bretagna
portandosi dietro la loro lingua. L’isola era
già abitata da persone che parlavano lingue molto diverse. Erano tutte di origine
celtica, come il gallese, l’irlandese e il bretone di oggi. I celti furono sottomessi ma
sopravvissero, e visto che gli invasori germanici erano solo 250mila, i primi a parlare
l’inglese antico furono soprattutto i celti.
È importante ricordare che le lingue
celtiche erano molto diverse dall’inglese.
Tanto per cominciare, il verbo andava
all’inizio della frase. Ma avevano anche
una strana costruzione che usava il verbo
I vichinghi
impararono solo
una parte del sistema
delle coniugazioni
do per formare le domande e le frasi negative, e a volte come raforzativo prima di
qualsiasi verbo: “Do you walk? I do not
walk. I do walk”. Questo modo di costruire
le frasi oggi suona familiare agli anglofoni
perché i celti cominciarono a usarlo nella
loro versione dell’inglese. Ma prima di allora sarebbe sembrato bizzarro a chiunque,
come lo sembrerebbe oggi in qualsiasi altra lingua tranne l’inglese e le lingue celtiche che sono sopravvissute. Per un anglofono il solo fatto di sofermarsi su questo
strano uso del do è di per sé strano, come
prendere coscienza del fatto che ha una
lingua in bocca.
Oggi nel mondo non esiste
nessuna lingua documentata,
oltre al celtico e all’inglese, che
usi il do in questo modo. Quindi
la stranezza dell’inglese è cominciata con la sua trasformazione nella
bocca di persone che si sentivano più a loro
agio con lingue molto diverse. Anche se
non se ne rendono conto, quelli che parlano inglese si esprimono ancora come loro.
Quando gli anglofoni fanno la conta dicendo “eeny, meeny, miny, moe” hanno la
sensazione di contare anche se stanno pronunciando dei numeri senza senso. In realtà quelle sillabe sono numeri celtici, modiicati nel tempo ma riconoscibili come
quelli che i contadini usavano quando contavano gli animali o giocavano.
Le cose cambiarono ancora quando arrivarono dal mare altri germanofoni. La
seconda ondata di sbarchi cominciò nel
nono secolo, e i nuovi invasori parlavano
un’altra derivazione dal tedesco, il norve-
gese antico. Ma non imposero la loro lingua, preferirono sposare le donne del posto
e adottare l’inglese. Però erano adulti e, di
norma, gli adulti non imparano facilmente
una nuova lingua, soprattutto nelle culture
basate sull’oralità. Non esistevano le scuole né i mezzi di comunicazione. Le lingue
s’imparavano ascoltando e cercando di ripetere. Possiamo solo immaginare che tipo
di tedesco parlerebbe la maggior parte di
noi se dovesse impararlo in questo modo,
senza mai vederlo scritto, e avendo troppe
cose da fare (come macellare animali, persone e così via) per preoccuparsi dell’accento.
Per gli invasori l’importante era riuscire
a comunicare. Ma si può comunicare anche
parlando una lingua in modo molto approssimativo. Quindi gli scandinavi facevano
più o meno quello che ci si sarebbe potuto
aspettare: parlavano un cattivo inglese antico. E i loro igli ascoltavano sia quello sia il
vero inglese antico. La vita andò avanti e
ben presto il loro cattivo inglese diventò
quello vero, e così siamo arrivati a oggi: gli
scandinavi hanno reso più facile la lingua.
Scandinavi pigri
A questo punto dovrei fare una precisazione. In ambito linguistico è pericoloso dire
che una lingua è “più facile” di un’altra,
perché non esiste un metro oggettivo in
base a cui classiicarle. Ma anche se la divisione tra giorno e notte non è così netta,
non possiamo ingere che non esistano differenze tra le dieci di mattina e le dieci di
sera. E che certe lingue siano molto più
complicate di altre. In questo
senso, l’inglese è “più facile” di
altre lingue germaniche, e questo grazie ai vichinghi.
L’inglese antico aveva tutti i
generi che ci aspetteremmo da
una buona lingua europea. Ma gli scandinavi non si presero la briga di impararli, così
nell’inglese di oggi non ci sono. Inoltre, i
vichinghi impararono solo una minima parte di quello che un tempo era stato il sistema
delle coniugazioni, di conseguenza nell’inglese è rimasta solo quella “s” della terza
persona singolare, attaccata lì come un insetto morto sul parabrezza. Su questo e altri
aspetti della lingua furono i vichinghi a eliminare le diicoltà.
Seguirono anche l’esempio dei celti,
usando la lingua nel modo che gli sembrava
più naturale. Oggi sappiamo per certo che
gli scandinavi introdussero migliaia di nuove parole, comprese alcune che gli anglofoni oggi considerano profondamente “loro”.
Pensate a una canzone come Get happy: enInternazionale 1174 | 7 ottobre 2016
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trambe le parole del titolo sono norvegesi.
A volte sembrava che gli scandinavi volessero riempire la lingua di cartelli del tipo
“siamo qui anche noi”, aggiungendo alle
parole esistenti il loro equivalente in norvegese e creando doppioni. Per questo oggi in
inglese ci sono due parole per dire fossato:
dike (portata dagli scandinavi) e ditch (usata
nell’inglese antico).
Ma le parole furono solo l’inizio. Gli invasori lasciarono il segno anche nella
grammatica. Per fortuna ormai non si insegna quasi più che è sbagliato mettere la
preposizione alla ine di una domanda – come in “which town do you come from?”
(da quale città vieni?) – invece di metterla
all’inizio. In inglese le frasi con la “preposizione appesa” suonano perfettamente
naturali e non fanno male a una mosca. Ma
presentano anche un problema: le altre lingue non usano le preposizioni in questo
modo. In italiano “quale città vieni da?” è
naturale come mettere i pantaloni alla rovescia. C’è qualche lingua che lo consente:
una parlata dagli indigeni in Messico,
un’altra in Liberia. Ma inisce qui. In generale è una stranezza. Ma guarda caso era
consentita anche nel norvegese antico (ed
è rimasta nel danese moderno).
Possiamo riassumere tutte queste bizzarre inluenze norvegesi in una frase: “The
man you walk in with” (l’uomo con il quale
entri). Innanzitutto perché tra the e man
non c’è concordanza di genere, poi perché il
verbo non ha desinenza e inine per la preposizione in fondo. Tutte queste caratteristiche le dobbiamo a quello che i vichinghi
fecero al caro vecchio inglese che si parlava
in quell’epoca.
Come se non bastasse, l’inglese è disseminato di parole provenienti da tante altre
lingue. Dopo i norvegesi arrivarono i francesi. I normanni – che si dà il caso discendessero dagli stessi vichinghi – conquistarono l’Inghilterra, e la governarono per diversi secoli: in poco tempo l’inglese acquisì
diecimila nuove parole. Poi, a partire dal
cinquecento, gli anglofoni istruiti decisero
di scrivere in modo più rainato, e quindi
cominciò la moda di usare parole latine per
dare un tono più elevato alla lingua. Grazie
a questo inlusso del francese e del latino,
l’inglese acquisì parole come cruciied, fundamental, deinition e conclusion. Oggi sembrano abbastanza inglesi, anche se quando
furono introdotte, nel cinquecento, molti
uomini di lettere le trovavano irritanti, pretenziose e invadenti (pensate a come i pedanti francesi di oggi storcono il naso davanti all’uso delle parole inglesi nella loro
lingua). Ma le lingue tendono a non com-
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portarsi come le persone vorrebbero. Ormai infatti il dado era tratto: l’inglese aveva
migliaia di nuove parole che facevano concorrenza a quelle indigene per indicare le
stesse cose. Un altro risultato di questa ulteriore aggiunta furono le triplette, che oggi
consentono agli anglofoni di esprimere un
concetto a vari livelli di formalità. Help (aiuto) è inglese, aid è francese, assist è latino.
Kingly (regale) è inglese, royal è francese e
regal è latino.
I diversi modi di
chiamare la carne
dipendevano dalla
posizione nella società
Poi ci sono i doppioni, meno complicati
delle triplette ma comunque divertenti,
come le coppie inglese/francese begin e
commence (cominciare) o want e desire (volere). Particolarmente degne di nota sono
le trasformazioni culinarie: in inglese si
macellano cows (mucche) e pigs (maiali),
ma si mangiano beef e pork. Perché? Perché
in genere nell’Inghilterra normanna i lavoratori inglesi macellavano mentre i ricchi
francesi mangiavano. I diversi modi di
chiamare la carne dipendevano dalla posizione che si occupava nella scala
sociale, e quelle distinzioni di
classe sono arrivate discretamente ino a noi.
Non è cosi semplice
Ma attenzione: tradizionalmente si tende a
esagerare il vero signiicato di questi diversi
livelli di formalità importati. Alcuni ritengono che siano gli unici responsabili della
ricchezza lessicale dell’inglese. È il caso di
Robert McCrum, William Cran e Robert
MacNeil, che nel 1986 hanno scritto The
story of English. Secondo loro la prima ondata di parole latine permise a chi parlava l’inglese antico di esprimere concetti astratti.
Ma nessuno ha mai quantiicato la ricchezza o l’astrazione in questo senso (quale popolo sviluppato non ha concetti astratti o
non ha la capacità di esprimerli?) e non esiste nessuna lingua documentata che abbia
un’unica parola per ogni concetto.
Le lingue, come l’intelletto umano, sono
troppo piene di sfumature, perino caotiche, per essere così elementari. Perfino
quelle non scritte hanno un registro formale. Inoltre, un modo per esprimere formalità è usare espressioni sostitutive: l’inglese
usa la parola life (vita) come concetto generale, ma ha anche existence come forma più
elegante, mentre nella lingua zuni dei nativi
americani il modo più elevato per dire vita è
“respiro”.
Perino in inglese, le radici originarie
sono più inluenti di quanto si voglia ammettere. Non sappiamo molto della ricchezza lessicale dell’inglese antico perché
i testi scritti che ci sono arrivati sono molto
pochi. È facile dire che comprehend (capire), preso in prestito dal francese, ha fornito un modo più formale per dire understand, ma bisogna considerare che anche
in inglese antico per questo concetto c’erano diverse parole che, rese in inglese moderno, equivarrebbero a “forstand”, “underget” e “undergrasp” o qualcosa di simile. Sembra che tutte volessero dire “capire”, ma di sicuro avevano connotazioni
diverse, ed è probabile che le distinzioni si
basassero su diversi gradi di formalità.
Nonostante questo, è vero che l’invasione delle lingue latine ha conferito alcune peculiarità all’inglese. Per esempio, da
quel momento è nata l’idea che i paroloni
fossero più soisticati. Nella maggior parte
delle lingue del mondo non si ha la sensazione che le parole più lunghe siano più
nobili o più speciiche. In swahili “tumtazame mbwa atakavyofany” signiica semplicemente “vediamo che farà il cane”. Se
i concetti formali richiedessero parole più
lunghe, le persone che parlano
swahili dovrebbero fare sforzi
sovrumani per controllare il iato. L’idea che i paroloni siano più
eleganti è dovuta al fatto che le
parole francesi, e soprattutto
quelle latine, tendono a essere più lunghe
di quelle dell’inglese antico, come nel caso
di end e conclusion (ine) o walk e ambulate
(camminare).
L’introduzione di tanti vocaboli stranieri spiega, almeno in parte, il fatto che in inglese le parole che si usano nella stessa frase
possono avere tante origini diverse. L’idea
stessa di etimologia rimanda a una serie di
lingue, ogni parola ha una sua afascinante
storia di migrazioni e scambi. Ma le radici
di altre lingue sono più banali. Quasi sempre una parola deriva semplicemente dalla
sua versione precedente. Gli arabofoni, per
esempio, non trovano molto interessante lo
studio dell’etimologia.
A essere onesti, i lessici ibridi sono piuttosto comuni nel mondo, ma nell’inglese
questa tendenza è maggiore che nella maggior parte delle lingue europee. Una frase
può essere formata da parole che derivano
dall’inglese antico, dal norvegese antico,
dal francese e dal latino. E poi c’è anche il
greco. Secondo una moda che raggiunse il
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culmine nell’ottocento, tutto quello che era
scientiico doveva avere un nome greco.
Inine, sempre a causa delle contaminazioni, gli anglofoni devono combattere
anche con due modi diversi di accentare le
parole. Se aggiungiamo un suisso alla parola wonder (meraviglia) otteniamo wonderful (meraviglioso). Ma se lo aggiungiamo alla parola modern, che è sempre accentata sulla prima sillaba, l’accento si
sposta sulla seconda e diventa modernity.
Lo stesso discorso vale per personal e personality. Questo non succede con le parole di
origine inglese antica: l’avverbio derivato
da greedy è greedily.
La diferenza sta nel fatto che -ful e -ly
sono suissi germanici, mentre -ity è arrivato con il francese. I suissi francesi e latini
tendono ad attirare l’accento – come
nell’italiano tempesta, tempestoso – mentre
quelli germanici lo lasciano dov’è. Chi parla
inglese non nota queste cose, che però sono
uno dei motivi per cui una lingua “semplice” in realtà non lo è mai.
La storia dell’inglese, da quando sbarcò
sulle sponde delle Isole Britanniche 1.600
anni fa a oggi, è quella di una lingua che è
diventata sempre più deliziosamente strana. In tutto questo tempo le sono successe
molte più cose che alla maggior parte delle
lingue della terra. Quelli che seguono sono
i primi due versi in norvegese di una poesia
del nono secolo intitolata The lay of Thrym
(Il canto di Thrym). Signiicano “quando si
svegliò / Ving-Thor era arrabbiato”:
Vreiðr vas Ving-Þórr / es vaknaði
In islandese moderno, gli stessi due versi suonano così:
Reiður var þá Vingþórr / er hann vaknaði
Non serve conoscere l’islandese per capire che la lingua non è cambiata molto.
“Arrabbiato” un tempo era vreiðre ; la parola
reiður è rimasta la stessa, ha solo perso la
“v” iniziale e l’ultima sillaba è scritta in modo leggermente diverso.
Ma in inglese antico la frase “quando si
svegliò / Ving-Thor era arrabbiato”, sarebbe stata “wraþmod wæs Ving-Þórr/he
áwæcnede”. È evidente che l’inglese di Beowulf ha fatto più strada di quanta ne abbiano fatta gli islandesi da Ving-Thor.
Quindi l’inglese è veramente una lingua
bizzarra, e il modo in cui si scrive è solo l’inizio. Nel libro Globish, Robert McCrum sostiene che l’inglese aveva un “vigore” unico, era “troppo solido per essere cancellato
del tutto” dalla conquista normanna. McCrum elogia l’inglese per la sua “lessibilità” e “adattabilità” dovuta al lessico ibrido.
In realtà sta solo seguendo una lunga tradizione di vanterie, che somiglia alla convinzione dei russi che la loro lingua sia “grande
e potente”, come la definì il romanziere
dell’ottocento Ivan Turgenev, o quella dei
francesi di avere una lingua di una “chiarezza” unica.
Ma è diicile stabilire quali lingue non
sono “potenti”, soprattutto considerato che
quelle meno note e parlate da pochissime
persone sono di solito molto complesse. La
convinzione difusa che l’inglese sia la lingua che predomina nel mondo perché è
“lessibile” implica che esistono altri idiomi
rimasti uguali a quelli che parlavano le loro
tribù d’origine perché erano misteriosamente rigidi. Ma io non ne conosco nessuno. Quello che l’inglese ha di diverso dalle
altre lingue è che è peculiare in senso strutturale. E lo è diventato a causa delle frecce e
dei dardi – ma anche dei capricci – dell’oltraggiosa storia. u bt
L’AUTORE
John McWhorter insegna linguistica e
studi americani alla Columbia university. Il
suo ultimo libro è The language hoax (2014).
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