Capitolo 1

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Capitolo 1
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La «catena del valore per l’azionista»:
l’anello mancante
«Il miglior modo per investire non è prevedere in che
misura un settore crescerà o avrà un impatto su tutta la
società, ma determinare il vantaggio competitivo di
ogni azienda e, soprattutto, la durata di tale vantaggio».
(Warren Buffett – Presidente Berkshire Hathaway –
Fortune, 22 novembre 1999)
«Nella moderna cultura aziendale, caratterizzata da
forti influssi dell’ottica strategica…, il goodwill
esprimerebbe in questo senso una modalità, una
forma di valorizzazione del vantaggio competitivo.
Ma non risulta che la cultura del goodwill abbia a sua
volta già fatto il collegamento concettuale
e metodologico con la nozione strategica
di vantaggio competitivo».
(Giovanni Panati e Gaetano M. Golinelli, Tecnica
economica industriale e commerciale, 1994, p. 892)
1.1
Introduzione
In questo Capitolo dimostreremo che i processi di creazione, misurazione e diffusione
del valore per l’azionista sono legati da una sequenza di relazioni causa/effetto, che inizia dalle fonti intangibili dei vantaggi competitivi delle imprese. Per illustrare il collegamento tra gli intangibili e la cosiddetta teoria del valore (Miller e Modigliani, 1961;
Damodaran, 1999, 2001), in particolare, svilupperemo un modello di «catena del valore
per l’azionista» (v. Fig. 1.1), in cui le misure di performance del prezzo azionario dipendono da aspettative di valore intrinseco dei flussi di cassa e delle opzioni reali, e queste
ultime grandezze, a loro volta, dalla capacità dell’impresa di ottenere un rendimento del
capitale superiore al suo costo.
Proveremo, inoltre, che la capacità di ottenere un rendimento del capitale superiore al
suo costo (ROIC > WACC), misurabile attraverso indicatori finanziari di breve periodo,
è il presupposto necessario della creazione del valore intrinseco d’impresa. Il valore
intrinseco dei flussi di cassa e delle opzioni reali, che orienta la formazione dei prezzi
azionari, infatti, dipende dal comportamento di tali indicatori finanziari di breve, mossi
a loro volta da particolari generatori economici del valore. Con tale termine, in particolare, ci riferiamo all’intensità e alla durata dei vantaggi competitivi attesi, che consentiranno all’impresa di ottenere rendimenti del capitale superiori al suo costo, nell’orizzonte di previsione esplicita ed eventualmente anche nel periodo del valore residuo.
1.2
Perché misurare il valore per gli azionisti?
La creazione di valore per gli azionisti/proprietari è il meccanismo su cui si basa da
sempre la crescita dell’economia capitalistica. Dal valore d’impresa, infatti, derivano i
rendimenti dei fattori lavoro e capitale che, a loro volta, determinano il livello di benes-
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sere collettivo e la ricchezza di una nazione (Porter, 1990). In condizioni di reale concorrenza dinamica, poiché le posizioni di potere di mercato sono solo transitorie e i vantaggi competitivi devono essere costantemente ricostruiti (D’Aveni, 1994), l’obiettivo
del valore per gli azionisti massimizza anche il consumer welfare, la responsabilità
sociale dell’impresa e la capacità innovativa e competitiva di un sistema economico
nazionale, imponendo un limite temporale alle rendite dei produttori e il trasferimento
di queste ultime ai consumatori. Infatti, la «corporate social responsibility» (CSR) si
basa sul presupposto che l’impresa dovrebbe realizzare e contribuire a uno sviluppo
sostenibile, nel senso ampio di sviluppo economico che, accanto alla creazione di valore per gli azionisti, realizzi una conservazione nel tempo dell’ambiente naturale e un
miglioramento sociale e del capitale umano (Perrini, 2006). Se definiamo la «corporate
governance» come il sistema delle regole secondo le quali le imprese sono gestite, allora la corretta governance è parte prioritaria di un sistema efficace e responsabile d’impresa. La CSR è pertanto la disciplina che spinge le società verso l’ottimizzazione
anche degli interessi diversi da quelli degli azionisti e che induce a spostare l’ottica
degli obiettivi dal breve termine al medio-lungo periodo. Ciò in modo da assicurare il
corretto equilibrio di tutti gli interessi in gioco, anche, e soprattutto, nelle situazioni
fisiologiche. Infine, tutto ciò dovrebbe trovare riscontro in una comunicazione trasparente, che dimostri la sostenibilità dei comportamenti di un’impresa, a livello economico, ambientale e sociale, e trasferisca adeguatamente sui mercati finanziari il relativo
valore per l’azionista (Demattè, 2004).
Il valore, in particolare, costituisce l’argomento centrale attorno a cui ruota l’intera
impalcatura concettuale della moderna teoria finanziaria d’impresa. Lo sviluppo di tale
disciplina, infatti, può essere ricondotto alla scelta della massimizzazione del valore
d’impresa come unica funzione obiettivo e alla costruzione di modelli attorno a essa
(Damodaran, 1999). Ne discende che ogni decisione relativa agli investimenti, alla struttura finanziaria e alla politica dei dividendi deve essere considerata «giusta» o «sbagliata» in funzione della sua capacità di aumentare o distruggere valore per l’azionista: in
tal senso, il valore per gli azionisti è l’espressione sintetica dell’eccellenza gestionale,
raggiunta applicando i più opportuni principi di economia, di strategia e di finanza.
La teoria del valore richiama la necessità di una confluenza tra strategia e finanza.
Valutare le strategie (corporate, di business o funzionali) dalla prospettiva del valore
creato per l’azionista (value-based management), per esempio, è il modo più corretto di
orientare la condotta dell’impresa (Grant, 2005). Più in particolare, il value-based management può aiutare a prevedere l’impatto, in termini di valore per gli azionisti, di strategie d’investimento alternative a livello corporate e di business, come l’ingresso in nuovi
mercati, la gestione delle sinergie, il lancio di un nuovo prodotto, la formazione di joint
venture. Lo stesso vale nel momento in cui è necessario stimare il risultato futuro di
importanti operazioni finanziarie, tra cui fusioni e acquisizioni, ricapitalizzazioni e riacquisto di azioni proprie (stock repurchase o buy-back). L’analisi del valore serve anche a
esaminare le potenzialità di miglioramento delle attività operative esistenti, permettendo
di capire se una divisione o unità di business, così com’è strutturata allo stato attuale, sta
creando o distruggendo valore e quali sono le leve operative su cui agire per incrementarne l’efficienza economica.
Allo stesso modo, anche la strategia deve essere utilizzata per orientare i processi finanziari di misurazione e trasferimento sul mercato del valore per gli azionisti. Secondo la
teoria dei mercati efficienti, infatti, i prezzi di borsa dovrebbero rappresentare la misura
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più adeguata del valore delle strategie future delle imprese. Nel mondo reale, tuttavia, i
prezzi di borsa e il valore intrinseco delle società sono grandezze spesso assai diverse.
Osservando la volatilità dei mercati finanziari negli ultimi anni, infatti, sembra che tutti
vogliano conoscere l’esatto valore delle imprese, ma nessuno sia più capace di farlo.
La colpa di tutto ciò è da attribuire, oltre che al moltiplicarsi di shock esterni capaci
di influenzare il corso dei titoli, alla crisi del «tradizionale paradigma valutativo», sempre più debole e obsoleto in un’economia basata sull’informazione e sugli intangibili
(Guatri, 2000). Per rinvigorirlo, tuttavia, non servono nuovi algoritmi o altre regole del
valore, ma soltanto (e non è poco!) modelli per un più efficace trasferimento delle informazioni dai mercati economici a quelli finanziari. Come giustamente osservato da
Damodaran (2001, prefazione), i fondamentali che determinano il valore sono gli stessi,
indipendentemente dal tipo d’impresa che si sta valutando e dal mercato in cui essa opera. Gli errori di stima e le recenti gravi imperfezioni dei mercati finanziari, invece, devono essere attribuiti alla sempre maggiore difficoltà nella formulazione delle ipotesi valutative di base, in uno scenario economico («era degli intangibili») in cui i vantaggi competitivi, da cui origina la capacità generativa di valore delle imprese nell’orizzonte di
previsione esplicita e nel periodo del valore residuo, sono sempre più vulnerabili e transitori (Wiggins e Ruefli, 2005).
A tal proposito, siamo convinti che, in assenza di un collegamento razionale degli
algoritmi valutativi alle specifiche fonti intangibili del vantaggio competitivo dell’impresa, il comportamento dei mercati finanziari non potrà mai liberarsi delle sue imperfezioni e trasferire nei corsi azionari il reale valore intrinseco delle strategie future delle
imprese (misurabile in termini di flussi di cassa e di opzioni reali). Per questo, nelle
prossime sezioni, svilupperemo un modello di «catena del valore per l’azionista», il cui
ultimo anello, focalizzandosi sulle fonti intangibili del vantaggio competitivo, indica le
ragioni che determinano la capacità corrente di creazione di valore di un’impresa e fornisce le uniche informazioni attendibili sugli sviluppi di quella futura.
1.3
La «catena del valore per l’azionista»: un diagramma di sintesi
Spostandosi sempre più al centro del dibattito economico, la teoria del valore per l’azionista, grazie agli sforzi di accademici e consulenti, ci consente oggi di contare su una
molteplicità di strumenti e metodi di stima delle prestazioni finanziarie d’impresa. Tra i
più importanti di questi ricordiamo: il rendimento totale per gli azionisti (TRS), il valore aggiunto di mercato (MVA), l’utile per azione (Earning Per Share, EPS), i modelli di
flussi di cassa scontati (Discounted Cash Flow, DCF), il profitto economico, l’Economic
Value Added (EVA®), le opzioni reali (Real Options Valuation, ROV), il rendimento del
capitale investito (ROIC) e il reddito operativo al netto delle tasse (NOPAT)1. Tale
abbondanza di strumenti, tuttavia, rischia di disorientare i manager, nel momento in cui
devono prendere decisioni atte a creare valore per l’azionista e orientare in questa direzione l’intero sistema organizzativo.
Non vogliamo sostenere, con questo, che esistono misure di valore inutili, anche se
alcune di queste sono sicuramente migliori di altre. Molti, per esempio, e questa è anche
1
Tralasciamo, per motivi di sintesi, altri modelli e sigle di riferimento meno comuni.
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la nostra posizione, ritengono più corretto stimare il valore intrinseco dell’impresa con i
flussi di cassa scontati (DCF), piuttosto che con misure di tipo contabile, tra cui l’utile
per azione (Damodaran, 2001; Copeland, Koller e Murrin, 2000). Il profitto economico/EVA®2, invece, è considerato lo strumento più adatto a indicare la creazione di valore,
sia nel breve, sia nel lungo termine, mentre la valutazione con i flussi di cassa scontati
riassume in un valore unico la performance complessiva realizzata nel tempo (orizzonte
di previsione esplicita e periodo del valore residuo). Entrambi i metodi, in ogni caso, a
parità d’ipotesi valutative e con le dovute accortezze, convergono sullo stesso risultato
di stima del valore d’impresa (v. § 1.8.3).
È del tutto inutile e fonte solo di confusione metodologica avventurarsi in discussioni
circa la supremazia dell’uno o dell’altro di questi indici/metodi di misura del valore, e
lasciamo il tema ad altri autorevoli palcoscenici. Non esiste un metodo o un parametro
di misura delle prestazioni d’impresa migliore in senso assoluto. Ciascuno di questi,
infatti, è stato ideato per rispondere a obiettivi diversi, e perciò è in grado di descrivere
il valore per l’azionista da una particolare prospettiva, complementare rispetto alle altre.
Per questo, abbiamo deciso di seguire un approccio strutturato che collega tra loro,
mediante precisi legami di causa-effetto, i diversi indici/metodi di misura del valore d’impresa, dando evidenza alle finalità particolari e agli specifici limiti di ciascuno.
La Fig. 1.1 rappresenta una «catena del valore per l’azionista». Le ultime misure del
diagramma (Quadrante 4) sono il rendimento totale per l’azionista (TRS) e il valore
aggiunto di mercato (MVA). Tali indicatori danno contezza, in modo diverso, dei processi di trasferimento sui mercati azionari del valore intrinseco dell’impresa. Il TRS, in
particolare, si ottiene sommando la rivalutazione del prezzo di borsa ai dividendi distribuiti. Il MVA, invece, si calcola sottraendo al valore di mercato del debito e dell’equity
dell’impresa (cosiddetto valore asset side) il valore contabile del suo patrimonio d’asset
iscritti a bilancio. La natura dei mercati è riflettere il valore atteso dalle strategie dell’impresa nei prezzi di borsa. Per questo, il TRS e il MVA non possono che essere misure «a posteriori» di creazione del valore per l’azionista, utili, al massimo, per fissare
obiettivi di lungo periodo di crescita del titolo.
Spostandoci più a destra nel nostro diagramma (Quadrante 3), troviamo il valore
intrinseco dell’impresa, misurato in base alla capacità di generare flussi di cassa nel lungo termine e in funzione del suo portafoglio di opzioni reali (ROV). Il valore intrinseco
dell’impresa, così stimato, può essere utilizzato per valutare le strategie e per selezionare opportunità d’investimento alternative. Queste misure, poiché basate su proiezioni e
rappresentative solo di un risultato unico di valore complessivo, non possono essere
invece impiegate per giudicare la performance di periodo dell’impresa. Per la sua congenita complessità, inoltre, la ROV presta facilmente il fianco a tentativi di strumentalizzazione e di manipolazione delle stime di valore (v. § 1.7).
Il DCF e le opzioni reali (ROV), però, presentano il vantaggio di poter essere collegati a indicatori finanziari a breve del valore per l’azionista (Quadrante 2), tra cui il profitto economico/EVA®, che rappresenta il surplus di valore creato nell’esercizio in corso
2 Profitto economico è un termine generico sinonimo di EVA® (Economic Value Added), un marchio
registrato di Stern Stewart e Co. Nel testo è riportato il procedimento finanziario per la stima del profitto economico: profitto economico = (ROIC – WACC) × CI. Lo stesso risultato si ottiene anche attraverso l’approccio operativo (profitto economico = NOPAT – WACC × CI).
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Figura 1.1
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La catena di creazione/misurazione/trasferimento del valore
per l’azionista: un diagramma di sintesi
una volta remunerati tutti i fattori della produzione, compreso il costo opportunità per il
capitale proprio. Il profitto economico/EVA® misura l’efficacia dell’impiego del capitale investito nei singoli esercizi e può essere utilizzato per la valutazione dell’impresa,
fornendo esiti di stima che convergono con quelli del modello DCF (a parità d’ipotesi
valutative e con le dovute accortezze). Il profitto economico/EVA® si misura moltiplicando il surplus ottenuto tra rendimento e costo del capitale (ROIC – WACC) per il
capitale investito a inizio periodo (CI). Questo importante indicatore finanziario, in altre
parole, riflette la capacità dell’impresa di ricavare dal capitale disponibile un rendimento superiore al suo costo (ROIC > WACC).
Come vedremo nei paragrafi successivi, la capacità di ottenere dal capitale disponibile un rendimento superiore al suo costo (ROIC > WACC) è il presupposto necessario del
valore intrinseco sia dei DCF, sia delle opzioni reali (ROV). In un modello valutativo di
DCF, infatti, il valore attuale netto (VAN) è pari a zero, nel caso in cui ROIC = WACC.
Per quel che riguarda il portafoglio di opzioni reali (ROV), invece, come osserva la più
autorevole dottrina, non è possibile attribuirgli un valore in assenza di un diritto di
esclusiva o di una fonte di vantaggio competitivo sostenibile, capaci di garantire, per gli
investimenti futuri, un rendimento del capitale superiore al suo costo (Damodaran, 2001,
p. 336 ed. it.). Ciò perché, in ultima analisi, il valore di un’opzione reale non deriva dai
flussi di cassa che saranno prodotti dal successivo investimento (quantificato nel prezzo
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di esercizio dell’opzione reale o strike price), ma dalla possibilità che tali flussi rappresentino un rendimento superiore al costo del capitale (ROIC > WACC).
Tuttavia, anche gli indicatori finanziari a breve del valore riescono a fare luce solo su
un limitato segmento della catena del valore per l’azionista. Il loro uso autonomo, rispetto
alle altre misure di valore del nostro diagramma, risente in particolare del limite di segnalare in ritardo le variazioni nei processi di creazione di valore. Questa è una grave lacuna.
Negli attuali scenari economici, infatti, le prestazioni storiche e correnti non sono più il
solo presupposto di quelle future. Il motivo di tutto ciò è che i vantaggi competitivi, da cui
origina la capacità generativa di valore delle imprese, ormai sono sempre più transitori ed
esposti alle forze del mercato concorrenziale (Wiggins e Ruefli, 2005).
Per ovviare a questo limite congenito degli indicatori finanziari di breve è necessario
focalizzarsi sui generatori economici del valore (Quadrante 1), rappresentati, nella fattispecie, dall’intensità (CAM) e dalla durata (CAP) dei vantaggi competitivi attesi. Il vantaggio competitivo, in particolare, è il presupposto della creazione del valore per l’azionista, poiché in sua assenza il rendimento del capitale (ROIC) sarà al massimo pari al
suo costo (WACC) o persino inferiore (Damodaran, 2001; Copeland, Koller e Murrin,
2000). Per questo, tale tipo d’analisi permette di capire le ragioni, economiche e strategiche, che determinano la corrente capacità generativa di valore (ROIC > WACC) di
un’impresa e fornisce le uniche informazioni razionali e attendibili sugli sviluppi di
quella futura.
L’analisi dei generatori economici del valore completa il nostro modello di «catena
del valore per l’azionista», ribadendo una necessaria confluenza tra strategia e finanza.
Da un lato, infatti, la misura del profitto economico/EVA® (Quadrante 2) può essere utilizzata come «metro» di misura dell’intensità (magnitudo) dei vantaggi competitivi correnti e passati dell’impresa3. Dall’altro, invece, l’intensità (CAM) e la durata (CAP) dei
vantaggi competitivi attesi (Quadrante 1) determinano il comportamento futuro degli
indicatori finanziari di breve periodo (Quadrante 2) e, mediatamente agli effetti generati
su questi, il valore intrinseco dei DCF e delle opzioni reali (Quadrante 3). Tutte queste
misure, infine, devono essere trasferite ai mercati e contribuire alla corretta formazione
dei prezzi azionari (Quadrante 4).
Nelle sezioni successive approfondiremo i singoli segmenti della «catena del valore
per gli azionisti», concentrandoci, prima, sugli effetti finanziari (misurazione e trasferimento del valore) e, poi, sulle cause economiche (creazione del valore) della capacità di
3 La più recente letteratura in tema di strategia (Barney, 2002; Barney e Hesterly, 2006) considera il
vantaggio competitivo come la capacità di ottenere un tasso di rendimento sul capitale disponibile superiore al suo costo (ROIC > WACC), superando la precedente e più generica definizione che considerava
questo stesso concetto solamente in termini di un rendimento sopra la norma. In questo modo, è possibile valutare gli effetti finanziari del vantaggio competitivo coerentemente con l’assunto di base dell’economia neoclassica, secondo cui, in assenza d’imperfezioni di mercato, l’impresa può realizzare rendimenti capaci al massimo di remunerare il solo costo sopportato per i fattori della produzione (costo
opportunità del capitale proprio compreso). Inoltre, questa più recente concezione evita il rischio di
dover attribuire un vantaggio competitivo a imprese che ottengono rendimenti superiori alla norma in
un settore in cui tutte le imprese sono in perdita o distruggono valore per l’azionista. Come più avanti
meglio specificato, per questi motivi negli studi di strategia d’impresa la creazione di valore (ROIC >
WACC) è considerata il metro con cui si misura la forza finanziaria del vantaggio competitivo (Barney,
2002; Peteraf, 1993). Il vantaggio competitivo, allo stesso tempo, è ciò che determina i rendimenti del
capitale superiori al suo costo (creazione di valore).
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ottenere un tasso di rendimento superiore al costo del capitale (ROIC > WACC). In questo modo, stabiliremo un collegamento diretto tra i processi finanziari, relativi alla misurazione e al trasferimento sui mercati borsistici del valore per l’azionista, e i meccanismi
competitivi, che invece determinano la capacità dell’impresa di creare lo stesso valore
sui mercati economici, ottenendo un rendimento del capitale superiore al suo costo
(ROIC > WACC).
1.4
Le misure di performance dei prezzi azionari e le regole
di trasferimento del valore sui mercati finanziari
(il «mulino» delle aspettative – Quadrante 4)
I mercati finanziari hanno la caratteristica di trasferire anticipatamente nei corsi azionari il valore che sarà creato in futuro dagli investimenti che un’impresa ha già attuato
(attività in essere) o che realizzerà in futuro (valore della crescita), scontato a un tasso
capace di rifletterne la rischiosità (WACC). Questo processo è detto appunto di trasferimento del valore. I mercati finanziari, in particolare, funzionano guardando in avanti, e i
prezzi delle azioni sono il segnale più immediato delle aspettative generalizzate degli
investitori circa le performance future dell’impresa (Rappaport e Mauboussin, 2001),
che solo in parte dipendono dalla capacità di produrre risultati positivi dimostrata in
passato. La continua revisione delle aspettative degli investitori, che avviene in funzione
dell’evolvere di variabili razionali (dati di performance, variabili macroeconomiche,
comunicazione finanziaria, andamento degli indici di borsa ecc.) o irrazionali (euforia
degli investitori e bolle speculative), determina il movimento dei corsi azionari, sul quale possono avere un impatto anche shock esogeni al mercato stesso e spesso alla stessa
sfera economica. Non è la creazione di valore intrinseco in sé, quindi, a far aumentare o
diminuire i prezzi azionari, almeno nel breve periodo, ma lo scarto tra le performance
comunicate e le attese degli investitori, incorporate in precedenza nei prezzi di mercato4.
1.4.1
Il rendimento totale per l’azionista
Le misure più comuni per valutare la prestazione dei prezzi azionari sono il rendimento
totale per gli azionisti (TRS) e il valore aggiunto di mercato (MVA). Il TRS si ottiene sommando le rivalutazioni del prezzo borsistico ai dividendi distribuiti. Per questo, è una misura di prestazione che incorpora anche le oscillazioni di valore di un titolo azionario derivanti da cause esogene rispetto all’impresa. L’analisi del valore basata sul rendimento totale per
gli azionisti, in particolare, è molto sensibile al comportamento degli indici settoriali e di
mercato e risente delle vicende, spesso convulse, dei mercati finanziari. Copeland, Koller e
Murrin (2000), per esempio, stimano che a queste influenze di natura esogena, nell’insieme, è da attribuire una quota vicina al 40 per cento dei rendimenti offerti da un campione di
circa 400 imprese, in un qualsiasi intervallo temporale esteso da uno a tre anni.
Il TRS, inoltre, per le sue caratteristiche intrinseche, trascura completamente i processi di creazione del valore, soprattutto nel breve termine, riflettendo nei suoi risultati i
4 Non a caso i testi di finanza descrivono, tra le altre, anche le strategie finanziarie tese a gestire la performance nei mercati azionari, «pilotando» gli utili dell’impresa e/o le aspettative di analisti e investitori. Si
veda, a tal proposito, Damodaran (2001).
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soli scostamenti tra la performance comunicata e le attese degli investitori. Paradossalmente, le aziende peggiori, quelle da cui ci si aspetta meno, possono dare la migliori
soddisfazioni in termini di TRS. Al contrario, le aziende migliori, quelle che soddisfano
con continuità le aspettative di creazione di valore, possono risultare penalizzate da questa misura di performance azionaria, perché meno soggette a variazioni sensibili nel
prezzo del titolo azionario. Per spiegare come funziona il TRS, Copeland, Koller e Murrin (2000) suggeriscono di pensare alle performance attese dal mercato, implicite nel
prezzo delle azioni, paragonandole alla velocità della macina di un «mulino». Il TRS, di
conseguenza, oscilla in funzione della diminuzione o dell’aumento della velocità della
macina. Per le aziende ritenute eccellenti, quelle con la maggiore velocità della macina,
è difficile battere le aspettative dei mercati, e anche prestazioni oggettivamente elevate
non sono in grado di incrementare il TRS, se sono state anticipatamente incorporate
dagli investitori nei prezzi di borsa (aumento della velocità della macina). Le aziende
meno performanti, al contrario, potrebbero più facilmente sorprendere il mercato, ottenendo più facilmente una prestazione superiore ad aspettative modeste.
1.4.2
Il valore aggiunto di mercato (MVA)
Il valore aggiunto di mercato (Market Value Added, MVA) è un indicatore del successo
aziendale, attraverso il quale è possibile valutare le prestazioni di un’impresa risalendo alla
differenza tra le risorse apportate dagli investitori a titolo di debito ed equity (CI) e il suo
complessivo valore attuale di mercato (asset side, valore dell’equity e del debito). Il MVA è
utilizzato per stilare le classifiche «Stern Stewart Performance 1000» (Tab. 1.2), regolarmente
pubblicate su importanti riviste economiche internazionali (Fortune, Business Week, CFO
Magazine, ecc.). Il MVA, in particolare, si calcola sottraendo dal valore di mercato dell’impresa asset side (valore del debito più quello dell’equity) il capitale contabile investito (CI)5:
MVA = Valore di mercato asset side – Capitale contabile investito
Da un punto di vista matematico-finanziario, il MVA rappresenta una semplice estensione
delle proprietà del valore attuale netto (VAN) ai processi di trasferimento del valore sui
mercati finanziari. Stewart (1991), infatti, suggerisce di considerare il MVA come la valutazione, effettuata dal mercato a una certa data, del VAN di tutti i progetti d’investimento che
l’impresa ha in essere (asset in place) e che deve ancora realizzare (valore della crescita). Il
VAN, che è la misura più diretta del surplus di valore creato da un investimento, si ottiene
sottraendo dal valore attuale (VA) dei flussi di cassa disponibili per gli investitori (FCFF)
che dal progetto sono complessivamente attesi l’ammontare delle risorse investite in esso.
La dimostrazione dell’analogia tra il MVA e il VAN richiederà adesso alcuni brevi passaggi.
La teoria del valore considera l’impresa come l’insieme degli investimenti già sostenuti (attività in essere) e di quelli ancora da realizzare, cioè la crescita futura attesa
(Damodaran, 1999, 2001). Di conseguenza:
Valore impresa (asset side) = Valore attività in essere +
+ Valore crescita futura attesa
5
Stewart (1991) raccomanda di adottare una misura di tipo economico-contabile del capitale investito,
più ampia del semplice valore contabile indicato in bilancio, che comprende al suo interno anche le
poste assimilabili al capitale proprio. Ciò consente di definire più puntualmente l’ammontare dell’investimento complessivo degli azionisti nell’impresa.
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dove:
t=∞
Valore attività in essere = ∑ VA FCFFtAttività in essere
t=1
t=∞
Valore crescita futura attesa = ∑ VANtProgetti futuri
t=1
In base alle appena ricordate proprietà del VAN, sottraendo dal valore delle attività in
essere (asset in place) il capitale contabile già investito (CI), è possibile esprimere il
valore dell’impresa come di seguito:
t=∞
Valore impresa (asset side) = Capitale investitoAttività in essere + ∑ VANtAttività in essere +
t=1
t=∞
+ ∑ VANtProgetti futuri
t=1
da cui, sottraendo CI Attività in essere, si ottiene:
t=∞
t=∞
t=1
t=1
MVA = ∑ VANtAttività in essere + ∑ VANtProgetti futuri
Ecco dimostrato che la strada per massimizzare il MVA è la capacità di massimizzare il VAN
degli investimenti in essere e della crescita futura attesa. A questo punto, però, entra necessariamente in scena la capacità dell’impresa di ottenere, dagli investimenti in essere e dalla crescita futura attesa, un rendimento del capitale superiore al suo costo (ROIC > WACC). È
noto, infatti, che in un modello di flussi di cassa scontati il VAN è zero se rendimento e costo
del capitale coincidono (ROIC = WACC). La relazione tra MVA e VAN ci consente, quindi, di
stabilire anche una relazione tra il valore dell’impresa e il rendimento in eccesso rispetto al
costo del capitale (ROIC > WACC) atteso dai suoi investimenti in essere e da quelli futuri.
Data la sostanziale uguaglianza tra VAN e profitto economico (dimostrata nell’Appendice1 del presente Capitolo), il MVA può essere espresso anche in funzione dello
scarto tra ROIC e WACC 5bis:
t=∞
MVA = ∑
t=1
Profitto economicot, Attività in essere
t
(1 + WACC)
t=∞
Profitto economicot, Progetti futuri
t=1
(1 + WACC)t
+ ∑
dove:
Profitto economicot, Attività in essere =
Profitto ecnomicot, Progetti futuri =
ROIC
=
NOPAT
=
CI
=
It
=
WACC
(ROICt – WACCt) · CI;
(ROICt – WACCt) · It;
NOPAT/CI;
reddito operativo al netto delle tasse;
capitale investito iniziale;
ammontare dei reinvestimenti complessivi in capitale
fisso e circolante non-cash, al netto degli ammortamenti,
misurati all’inizio del periodo t;
= costo medio ponderato di approvvigionamento del capitale;
5bis Si propone l’utilizzo del WACC per il processo di attualizzazione poiché è ancora il modello dominante anche se può dar luogo ad alcuni inconvenienti.
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Tabella 1.1
Le relazioni tra valore di mercato, MVA e profitto economico
Capitale investito
(D) = (B)
t=∞
Profitto economicot, Attività in essere
t=1
(1 + WACC)t
∑
t=∞
∑
t=1
(E)
+
Profitto economicot, Progetti futuri
Debito e mezzi propri
(B) = (D)
Valore aggiunto
di mercato (MVA)
(C) = (A) – (B) = (E) + (F)
Valore di mercato
asset side (A)
(1 + WACC)t
(F)
Il MVA è quindi uguale al valore attuale di tutti i profitti economici (o EVA®) attesi in
futuro. Il profitto economico, ricordiamo, si misura moltiplicando lo scarto, ottenuto tra
il ROIC e il WACC, per il capitale investito (CI) a inizio periodo. Il MVA, quindi, valuta la prestazione di un’impresa tenendo conto della sua capacità di creare valore investendo il capitale disponibile a un tasso di rendimento superiore al suo costo (ROIC >
WACC). La Tab. 1.1 sintetizza le relazioni tra valore di mercato, MVA e profitto economico, appena descritte, dando già da ora una sommaria dimostrazione del legame indissolubile tra il valore trasferito sui mercati finanziari e le attese di creazione di valore sui
mercati economici, in base alla capacità di ottenere un surplus tra rendimento e costo del
capitale investito (ROIC > WACC) dalle attività in essere e dalla crescita futura attesa.
Queste caratteristiche particolari fanno del MVA uno dei migliori indicatori per stimare la performance dell’impresa. Giudicare le performance delle imprese in base alla
crescita dimensionale (fatturato, NOPAT), invece, non ha lo stesso potere informativo,
visto che questa aggiunge valore per l’azionista solo se ROIC > WACC. Verso la fine del
2002, per esempio, Microsoft aveva un valore di mercato di $ 237,547 miliardi, a fronte
d’investimenti contabili pari a soli $ 25,207 miliardi. Il suo MVA aggiungeva, quindi,
ben $ 212,340 miliardi alle risorse messe a disposizione dai suoi azionisti (v. Tab. 1.2).
Nello stesso momento, General Motors (GM) stava distruggendo valore per gli azionisti:
il suo MVA era negativo per $ 14,081 miliardi, a fronte di un valore di mercato pari a $
105,679 miliardi e di un capitale investito di $ 119,778 miliardi.
Gli stessi input di stima del MVA possono essere elaborati come rapporto, invece che
come differenza. Il market to book ratio (rapporto tra valore di mercato e capitale contabile)
rappresenta una variante del MVA, espressa come rapporto e non come valore assoluto:
Market to book ratio =
Valore di mercato asset side
Capitale contabile investito
Sempre verso la fine del 2002, il market to book ratio di GM era pari 0,8824, testimoniando una chiara situazione di distruzione di valore per l’azionista, mentre lo stesso indice di
Microsoft raggiungeva 9,4239, a indicare una situazione, del tutto opposta alla prima, di
notevole incremento delle risorse apportate dagli azionisti all’impresa. In termini concreti,
le cifre riportate nella Tab. 1.2 stanno a indicare che il mercato, verso la fine del 2002, si
aspettava che gli investimenti di Microsoft in capitale contabile, pari a $ 25,207 miliardi, e
la crescita futura attesa avrebbero prodotto, nel prevedibile futuro, un VAN complessivo di
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1 | La «catena del valore per l’azionista»: l’anello mancante
Tabella 1.2
2002 1999
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
.....
238
240
244
245
246
247
248
249
251
252
2
4
6
22
12
32
8
13
21
3
14
16
1
5
24
.....
233
241
67
251
101
27
50
9
42
65
La classifica MVA 2003 per le più grandi compagnie quotate
con un fatturato superiore a $ 7 miliardi
Company name (milions $)
General Electric Co
Microsoft Corp
Wal-Mart Stores
Johnson e Johnson
Merck e Co
Procter e Gamble Co
Intl Business Machines Corp
Exxon Mobil Corp
Coca-Cola Co
Intel Corp
Dell Computer Corp
Citigroup Inc
Cisco Systems Inc
Oracle Corp
Lilly (Eli) e Co
……………………...……
Sears Roebuck e Co
ATeT Wireless Services Inc
Honeywell International Inc
Wachovia Corp
General Motors Corp
Motorola Inc
JP Morgan Chase e Co
AOL Time Warner Inc
SBC Communications Inc
ATeT Corp
MVA Marketto-book
ratio
Market
Value
Capital
EVA®
Sale Growth1
222.767 3,2406 322.190 99.423
5.983 73.420
212.340 9,4239 237.547 25.207
2.201 30.785
207.346 3,8163 280.970 73.624
2.928 244.524
124.237 3,6105 171.829 47.592
2.839 36.298
107.076 3,8517 144.624 37.548
3.872 21.446
92.231 3,2486 133.248 41.017
2.315 42.606
90.422 1,8734 193.955 103.533 –8.032 81.186
85.108 1,4514 273.634 188.526 –2.175 178.909
82.413 4,3509 107.007 24.594
2.496 19.983
77.395 3,0817 114.574 37.179 –3.736 26.764
69.425 10,6263 76.637
7.212
360 33.730
68.078 1,6262 176.795 108.716
2.964 92.029
59.702 2,2050 109.249 49.547 –4.623 19.209
59.502 63,5678 60.453
951
1.401 9.417
57.366 4,2978 74.761 17.395
1.096 11.078
.....
.....
.....
.....
.....
.....
–6.859 0,8675 44.898 51.758
–314 41.366
–7.106 0,8361 36.249 43.355 –5.102 15.631
–9.231 0,7806 32.846 42.078
–833 22.274
–10.182 0,8182 45.839 56.021 –1.762 23.591
–14.081 0,8824 105.697 119.778 –5.065 155.974
–15.904 0,6538 30.030 45.934 –5.849 26.679
–25.499 0,6505 47.466 72.965 –3.646 43.372
–27.148 0,7923 103.550 130.697 –27.539 40.961
–38.372 0,7555 118.558 156.930 –8.434 43.138
–72.674 0,5103 75.733 148.406 –27.116 49.931
32%
41%
48%
32%
3%
7%
–7%
11%
2%
–9%
43%
12%
28%
–3%
12%
.....
1%
105%
–6%
7%
2%
–17%
29%
757%
–13%
–20%
1. Crescita cumulativa aggregata del fatturato nei tre anni passati.
Fonte: adattata da Stephen Taub, «Which Companies Created the Most Wealth for Shareholders Last Year?», CFO
Magazine, July 1, 2003.
$ 212,340 miliardi. Utilizzando il market to book ratio, invece, ogni dollaro investito allora
dalla Microsoft era valutato dal mercato ben 9,4239 dollari.
Il MVA è un equivalente concettuale del goodwill, o avviamento dell’impresa (Stewart,
1991). Il market to book ratio, invece, rappresenta una semplificazione del noto indice q di
Tobin (Tobin, 1969), che rapporta il valore di mercato asset side al costo di sostituzione dei
suoi asset tangibili (fisici e finanziari) iscritti a bilancio. Il MVA/goodwill è unanimemente considerato una valida proxy del valore complessivo dei capitali intangibili dell’impresa (Stewart, 1997; Hall, 2001). Un market to book ratio (o un Tobin’s q) maggiore di 1, invece, indica che l’impresa ha un patrimonio di capitali intangibili considerato
di valore dagli investitori finanziari. Dietro queste associazioni vi sono spiegazioni di
derivazione contabile ed economica, focalizzate, rispettivamente, sull’invisibilità di
bilancio degli intangibili e sulla considerazione che tali forme di capitale rappresentano,
ormai, le uniche fonti di vantaggio competitivo a disposizione delle imprese (Simon e
Sullivan, 1993; Lev, 2001).
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1.4.3
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Parte prima | Le basi dell’i-Valuation
Gli indicatori di performance azionaria come debito di reputazione
con il mercato
La metafora del «mulino» manageriale, suggerita da Copeland, Koller e Murrin (2000)
per una migliore comprensione delle caratteristiche del TRS, sembra calzare a pennello
anche rispetto al MVA. In questo caso, il MVA rappresenta la quantità complessiva di
valore (profitto economico) attesa dagli investitori nel prevedibile futuro, secondo una
velocità predefinita della «macina». Più che una misura di performance, quindi, il valore
aggiunto di mercato deve essere considerato una promessa di performance fatta dall’azienda ai propri azionisti all’interno di quello che gli esperti di comportamento organizzativo chiamerebbero il «contratto psicologico» che lega l’azienda agli azionisti, definendo
appunto il sistema di attese reciproche. Sulla capacità di mantenere o meno questa promessa, l’impresa costruisce la propria reputazione e il proprio successo. Più precisamente,
il valore del MVA, anticipatamente trasferito sui mercati finanziari, in ragione di precise
aspettative d’incremento del valore dell’investimento in equity, rappresenta una passività
invisibile in bilancio, cui l’impresa, prima o poi, dovrà far fronte (Costabile, 2001).
Nessuno porterà in tribunale i libri dell’azienda, in caso di mancato adempimento di
questo debito reputazionale (passività invisibile). Le conseguenze di tale inadempienza,
rappresentate dalla sanzione del mercato, che si muove come un vero giudice seppur
senza la toga, possono però essere molto severe. La rottura del contratto psicologico tra
investitori e impresa, infatti, produce effetti sui mercati finanziari, in termini di crollo
della fiducia e di una drastica riduzione dei corsi azionari, la cui violenza è proporzionale all’imperfezione delle informazioni sottese alle aspettative infrante di crescita del
valore o di una generosa politica dei dividendi6.
Squilibri troppo marcati tra i processi di creazione e di trasferimento del valore nuocciono non solo al mercato e all’economia in generale, ma anche alle imprese che eventualmente beneficiano di un aumento ingiustificato dei propri corsi azionari. A queste
condizioni, infatti, crescono inutilmente il WACC (in funzione del cambiamento della
struttura finanziaria prodotto dall’apprezzamento dell’equity) e i rischi di rottura del
«contratto psicologico» con gli investitori. In entrambi i casi avverrà una distruzione di
valore: nel primo, dall’interno, nella misura in cui l’aumento ingiustificato del WACC
sottrae efficienza alla gestione del capitale; nel secondo, dall’esterno, a seguito di un
successivo crollo dei corsi azionari.
Il fatto che il WACC vada calcolato secondo parametri di mercato, relativi al valore
del debito e delle azioni (Damodaran, 1999, 2001), conferma la natura di debito di reputazione del MVA e l’esigenza di considerarlo come una vera e propria fonte d’indebitamento, che incide sulla struttura finanziaria dell’impresa e sui processi di creazione del
valore per l’azionista. A dimostrazione che titoli apprezzati dal mercato possono essere
usati come fonte di finanziamento per una politica d’investimenti, si potrebbero ricordare le acquisizioni effettuate dalle imprese che avevano beneficiato della «bolla» della
6 La «politica dei dividendi» riguarda la decisione di restituire agli azionisti i flussi di cassa in eccesso
rispetto alle necessità operative dell’impresa (excess cash). La teoria del valore impone di restituire
sempre il denaro agli azionisti se non esistono concrete opportunità d’investimento a un tasso di rendimento superiore al WACC. Il denaro può essere restituito sotto forma di dividendi, riacquisto d’azioni
proprie e tramite uno spin-off. Per approfondire le politiche dei dividendi si consulti Damodaran (1999).
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1 | La «catena del valore per l’azionista»: l’anello mancante
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new economy utilizzando esclusivamente la «carta» dei propri titoli azionari e senza
uscite di cassa.
1.5
Le regole di misurazione del valore intrinseco dell’impresa
(Quadrante 3)
Quali sono le metodologie valutative più adatte a influenzare la formazione dei prezzi in
un mercato finanziario ben funzionante? Buona parte della comunità degli investitori è
ancora ancorata a misure contabili di prestazione, come per esempio l’utile per azione
(EPS). Noi crediamo, al contrario, che esistano buone ragioni, indicate di seguito in
modo sintetico, per decidere di non impiegare misure contabili per la stima del valore
d’impresa:
1. la divergenza contabile tra utili e flussi di cassa dimostra che non necessariamente un
innalzamento degli utili incrementa il valore per l’azionista;
2. l’impostazione contabile valorizza flussi non direttamente prelevabili dagli investitori;
3. il calcolo dell’utile omette l’imputazione di un onere per il costo del capitale azionario;
4. gli utili trascurano il peso degli investimenti incrementali, in capitale fisso e circolante, necessari per sostenere i percorsi di crescita futura;
5. gli utili possono essere calcolati utilizzando metodi contabili alternativi, ugualmente
accettabili;
6. infine, cosa ben più importante, nessuna valutazione di un investimento azionario può
prescindere dal fatto che gli unici flussi che gli azionisti ricevono sono i dividendi
effettivamente distribuiti dalla società.
La valutazione d’impresa in funzione dei flussi di dividendo ricevuti dagli azionisti può,
invece, essere svolta con il Dividends Discount Model (DDM; v. Appendice 1B al Capitolo). Tuttavia, nonostante i fondamentali concetti valutativi su cui poggia, il DDM presenta limiti tali da sconsigliarne l’utilizzo; il più severo di tali limiti è la discrezionalità
della politica dei dividendi (Damodaran, 1999). Spesso, infatti, le imprese non distribuiscono dividendi anche quando, soddisfatte le esigenze di reinvestimento, hanno i flussi
di cassa necessari per farlo (excess cash). La liquidità in eccesso, infatti, può essere utilizzata dal management per distribuire un dividendo, trattenuta all’interno dell’azienda
o, infine, impiegata per il riacquisto d’azioni proprie sul mercato (stock buy-back). La
prassi del buy-back è in forte aumento nella maggior parte dei paesi sviluppati7. Negli
Stati Uniti, per esempio, la percentuale di liquidità restituita agli azionisti sottoforma di
riacquisto d’azioni proprie è passata dal 32 per cento nel 1989 al 50 per cento circa nel
1998 (Damodaran, 1999).
La convinzione della superiorità del modello DCF sta diffondendosi sempre più
all’interno della comunità degli studiosi e di quanti sono comunque interessati alla valutazione d’impresa. Le grandezze che interessano il DCF sono i flussi di cassa per l’impresa (FCFF) e i flussi di cassa per gli azionisti (FCFE). Il FCFF coincide con il flusso
7 In Italia il buy-back è regolamentato dagli articoli 2357 e seguenti del Codice Civile, che consentono
il riacquisto di azioni proprie da parte delle società solo nei limiti degli utili acquisiti e delle riserve
disponibili che risultano dall’ultimo bilancio e per un ammontare nominale non superiore alla decima
parte del capitale sociale.
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Parte prima | Le basi dell’i-Valuation
di cassa operativo dall’impresa, quello generato al netto delle imposte, effettivamente
disponibile per i creditori e gli azionisti che hanno apportato capitali a diverso titolo e
prelevabile dall’azienda (v. Tab. 1.3). Per le società che non hanno debiti (unlevered), il
FCFF coincide con la liquidità al netto delle imposte a disposizione degli azionisti
(FCFE). I FCFE, infatti, si calcolano sottraendo dai FCFF gli oneri finanziari netti e le
emissioni nette di debito (rimborsi di debiti meno nuovi debiti emessi)8.
La stima del valore per gli azionisti (capitale netto) attraverso il DCF si basa sulle
seguenti relazioni:
■
■
■
■
■
■
la crescita delle vendite e il margine operativo (EBIT/Sales) determinano il reddito
operativo (EBIT);
sottraendo dal reddito operativo le imposte (v. Box 1.2), si ottiene il reddito operativo
netto (NOPAT);
detraendo dal NOPAT gli investimenti in capitale circolante e in capitale fisso, al netto degli ammortamenti, si arriva alla stima del flusso di cassa per l’impresa (FCFF) in
base all’approccio operativo;
sommando tutte le transazioni monetarie tra l’impresa e i suoi conferenti capitale, si
ottiene lo stesso valore di FCFF attraverso il procedimento finanziario:
FCFF = interessi passivi – nuovo indebitamento + dividendi – aumenti di capitale –
interessi attivi + nuovi titoli negoziabili;
i FCFF scontati al costo medio ponderato del capitale (WACC) determinano il valore
complessivo dell’impresa o valore delle operazioni (debito ed equity - asset side);
il valore delle operazioni può essere stimato anche con il criterio dell’Adjusted Present Value (APV), come somma del valore unlevered dell’impresa, ottenuto attualiz-
Tabella 1.3
Il calcolo del reddito operativo netto (NOPAT) e dei flussi di cassa (FCFE/FCFE)
Reddito operativo (EBIT)
(–)
(=)
(+)
(=)
(+/–)
(=)
(+/–)
(=)
(–)
(+/–)
(=)
8
Imposte sul reddito operativo9 e IRAP sul VAP (v. Box 1.2)
REDDITO OPERATIVO NETTO (NOPAT)
Ammortamenti
FLUSSO DI CIRCOLANTE DELLA GESTIONE CORRENTE
Impieghi di circolante
FLUSSO MONETARIO DELLA GESTIONE CORRENTE
Investimenti netti fissi
FLUSSO DI CASSA DISPONIBILE PER L’IMPRESA (FCFF)
Oneri finanziari netti (= + interessi attivi – interessi passivi +/– scudo fiscale sul debito)
Variazioni dell’indebitamento
FLUSSO DI CASSA DISPONIBILE PER L’AZIONISTA (FCFE)
Per un approfondimento delle metodologie di stima dei flussi di cassa e in particolare per il calcolo dei
flussi di cassa operativi dell’impresa si confrontino per tutti: Zanda, Lacchini e Onesti (2005) e Massari e Zanetti (2004 e 2007).
9 Le imposte sul reddito operativo sono pari a quelle che l’azienda dovrebbe corrispondere in assenza
dell’area finanziaria (interessi attivi/passivi).
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■
■
■
25
zando i FCFF al costo del solo capitale azionario (Ke ), e del valore attuale dei benefici della deducibilità fiscale degli oneri finanziari10;
il valore dell’impresa, più le attività non operative meno il valore di mercato del debito, delle azioni privilegiate e di altri diritti che hanno la precedenza rispetto alle azioni ordinarie, è pari al valore del capitale netto;
se la dinamica del rapporto di indebitamento è correttamente riflessa nei tassi utilizzati per scontare i flussi di cassa, il valore del capitale netto ottenuto scontando al
WACC i FCFF deve convergere con quello ottenuto scontando i FCFE al costo (Ke)
del solo capitale azionario (modello dei DCF del capitale netto). Il modello del DCF
del capitale netto è particolarmente adatto per la valutazione di imprese che forniscono servizi finanziari, poiché queste usano il lato delle passività di bilancio per creare
valore (Copeland, Koller e Murrin, 2000);
il valore del capitale netto meno il valore di eventuali stock option, assegnate dall’impresa al management e ai dipendenti, è uguale al valore per gli azionisti (prezzo
delle azioni ordinarie).
A volte, al valore d’impresa misurato attraverso il DCF è il caso di aggiungere quello
delle opzioni reali, che catturano il valore di opportunità di crescita incerte connesse a
vasti e/o innovativi progetti di investimento che differiscono dalla norma (v. § 1.7).
Come regola generale, la crescita del «business ordinario» va inclusa nell’analisi DCF,
mentre il metodo delle opzioni reali (ROV) è da impiegare per la stima del valore della
crescita che si estende oltre le usuali linee del business (Rappaport e Mauboussin,
2001). L’importante è non misurare due volte la crescita. In realtà, è consigliabile considerare il valore delle opzioni reali un’eccezione, di cui beneficiano solo poche imprese a
determinate condizioni, piuttosto che una regola ricorrente all’interno di specifici settori. Questo valore, infatti, sussiste solo se è effettivamente giustificato dall’esistenza di
una fonte durevole di vantaggio competitivo in grado di assicurare all’impresa rendimenti superiori al costo del capitale sui successivi investimenti (strike price) necessari a
finanziare l’esercizio dell’opzione (Damodaran, 2001; v. § 1.7).
1.6
Il modello DCF e la misura del valore per l’azionista
In questa sezione approfondiremo il modello DCF basato sull’attualizzazione dei FCFF
al WACC, poiché è il più frequentemente adottato nella pratica. Nella fattispecie, il valore del capitale netto (equity side) si ottiene come differenza tra il valore delle operazioni (asset side) e il valore del debito e d’altri diritti spettanti a investitori (per esempio le
azioni privilegiate) che hanno la precedenza rispetto alle azioni ordinarie (Copeland,
Koller e Murrin, 2000). I valori delle operazioni e del debito sono pari ai rispettivi flussi, scontati a tassi tali da rifletterne opportunamente la rischiosità (WACC per le operazioni, costo del debito per gli oneri finanziari).
Il computo dei FCFF inizia dalle vendite, che rappresentano un’approssimazione delle entrate operative monetarie dell’impresa. Da tale valore si sottraggono, poi, i costi
operativi, tra cui l’ammortamento e gli accantonamenti. Ciò che residua, a questo punto,
è il reddito operativo al lordo delle tasse (EBIT):
10
Per un approfondimento sul metodo APV si veda Massari e Zanetti (2004).
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Parte prima | Le basi dell’i-Valuation
EBIT = Vendite – Spese operative
L’EBIT può essere ricavato anche in funzione del margine operativo (OPM), che rappresenta l’espressione del reddito operativo in percentuale delle vendite (EBIT/vendite):
EBIT = Vendite × OPM
La stima del reddito operativo (EBIT), da cui poi risalire ai FCFF e/o ai profitti economici attesi, richiede una preliminare rettifica dei dati contabili, finalizzata a ottenere una
panoramica della situazione aziendale, di tipo più economico-finanziario che contabile.
Con le rettifiche da apportare ai bilanci, in particolare, le stime del reddito operativo e
del capitale investito devono riflettere le reali condizioni economiche del business11. A
tal riguardo, la prima cosa da fare è separare le attività operative (capitale operativo
investito) da quelle non operative (investimenti non operativi o surplus assets), collegarle ai relativi flussi di risultato (reddito operativo/redditi delle gestioni accessorie) e valutarle separatamente. Stimando separatamente le attività operative dai surplus asset, in
particolare, è possibile (Massari e Zanetti, 2004, p. 37):
1. valutare la dimensione del capitale impiegato nella gestione operativa dell’impresa e, di
conseguenza, rapportare correttamente i flussi di risultato ottenuti alle risorse investite;
2. individuare le classi di valori rilevanti ai fini della proiezione delle dinamiche, economiche e finanziarie, riferibili alla gestione operativa (per esempio i tassi di crescita e
di reinvestimento).
In alcuni casi è preferibile, o addirittura necessario, valutare separatamente le diverse
unità di business dell’impresa. Ciò accade, per esempio, quando il livello d’incertezza
e/o le prospettive di crescita delle diverse aree d’affari divergono sostanzialmente. L’esigenza di valutare l’impresa per distinte aree d’affari si presenta anche per le operazioni
di spin-off o di cessione di ramo d’azienda.
L’ultimo step della riorganizzazione dei dati di bilancio di cui stiamo discutendo consiste nell’apportare opportune rettifiche a particolari voci contabili. Il Box 1.1 riassume le
principali rettifiche da apportare ai bilanci per valutare l’impresa in funzione dei FCFF o
dei profitti economici attesi.
Box 1.1 Una sintesi delle principali rettifiche contabili
■ Riserve su crediti di dubbia esigibilità: qualora dalla lettura della nota integrativa sia possibile
risalire al totale delle rettifiche apportate ai crediti di dubbia esigibilità, queste devono essere
sommate alle voci di pertinenza.
■ Riserva LIFO: quando dalla nota integrativa è possibile risalire alle informazioni relative a tale
riserva, essa deve essere sommata alle rimanenze. Sono assimilabili alla riserva LIFO i fondi
svalutazione magazzino e i fondi garanzia (assimilabili a riserve patrimoniali).
■ Incrementi di immobilizzazioni per lavori interni, stati di avanzamento lavori: è necessario
detrarre le immobilizzazioni in corso d’opera dal valore delle immobilizzazioni, poiché si tratta di
costi relativi a un bene non ancora entrato nel ciclo produttivo aziendale.
11 Per un approfondimento a tal riguardo, si vedano: Massari e Zanetti (2004, Capitolo 2) e Copeland,
Koller e Murrin (2000, Capitolo 9).
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1 | La «catena del valore per l’azionista»: l’anello mancante
27
■ Valore attuale dei beni in leasing non inclusi nelle immobilizzazioni: il leasing è generalmente iscrit-
■
■
■
■
to in bilancio secondo il cosiddetto metodo finanziario, ovverosia imputando l’intera rata del leasing
come costo operativo. Da un punto di vista economico, invece, la locazione finanziaria va considerata come un acquisto differito nel tempo di un asset già parte del processo produttivo. Conseguentemente, è opportuno ripartire tale costo in due quote, una relativa all’ammortamento del bene locato
e l’altra relativa a quello dell’onere finanziario. Il valore attuale del bene in leasing, invece, deve
essere sommato alle immobilizzazioni materiali. In altre parole, i dati contabili relativi alle operazioni di leasing andrebbero rettificati in modo da considerare all’attivo il valore dei beni cui si riferiscono le operazioni stesse e al passivo l’indebitamento implicito nel piano di pagamento dei canoni.
Quote di ammortamento dell’avviamento: in genere, il costo per l’avviamento, sostenuto in sede di
una acquisizione, viene ammortizzato in più anni (tra 5 e 20, con la possibilità in casi particolari di
una estensione a 40 anni), con evidenziazione in bilancio del valore residuo. Le quote di ammortamento dell’avviamento già spesate in precedenza a conto economico vanno considerate pure rettifiche contabili, e quindi devono essere sommate al valore residuo di bilancio.
Fondo imposte differite: si riferisce alla somma cumulata delle differenze annue tra le imposte di
competenza di un esercizio e quelle effettivamente pagate. Nel caso in cui l’impresa rinnovi con
continuità le proprie immobilizzazioni, generando costantemente imposte differite, il fondo in
oggetto va considerato come una vera e propria riserva di capitale.
Costi di ricerca e sviluppo e di pubblicità: le spese di ricerca e sviluppo eventualmente spesate
in conto economico (come, per esempio, previsto dai principi contabili internazionali IAS) devono essere capitalizzate tra le immobilizzazioni immateriali e ammortizzate, in quanto fonti di
flussi di cassa futuri. A questo trattamento devono essere sottoposti anche i costi di pubblicità e
le altre categorie di costo che, data la particolare attività dell’impresa, da un punto di vista economico rappresentano veri e propri investimenti.
Fondo TFR: la normativa italiana impone di iscrivere tale fondo nel passivo della stato patrimoniale come voce a sé stante, in quanto il trattamento di fine rapporto non si configura pienamente come una forma di debito. Data la rilevanza del relativo importo e la sua permanenza
continuativa tra le voci di bilancio della maggior parte delle imprese italiane, è opportuno considerare tale voce come una riserva di capitale. Per questo motivo il fondo TFR va aggiunto al
capitale investito netto (per esempio in una voce autonoma rispetto al capitale circolante).
Fonte: tratto da AIAF, 1998, «L’Economic Value Added (EVA®): principi teorici», supplemento alla Rivista AIAF
n. 26, aprile.
Arrivati a questo punto, è necessario calcolare il reddito operativo al netto delle tasse
(NOPAT). Per fare questo, è possibile moltiplicare il reddito operativo (EBIT) per 1
meno un’aliquota fiscale stimata (t):
NOPAT = EBIT (1 – t)
Questa semplice procedura può divenire complicata nella pratica, specie se si opta per
l’utilizzo dell’aliquota fiscale marginale, vale a dire l’aliquota cui sarebbe sottoposto un
euro incrementale di reddito. Nel Box 1.2 è riportato il procedimento per il calcolo dell’aliquota t in base alla legislazione italiana. Nel caso di perdite operative nette e quando l’aliquota marginale è differente da quella effettiva, è consigliabile utilizzare l’aliquota marginale (Damodaran, 2001). L’aliquota fiscale riportata nei rendiconti, invece, è
quella effettiva, calcolata come segue:
Aliquota fiscale effettiva = Imposte dovute/Reddito imponibile
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Parte prima | Le basi dell’i-Valuation
Box 1.2 Il calcolo di t in base alla legislazione fiscale italiana
L’aliquota t, nel nostro paese, deve essere ricavata considerando le procedure di calcolo delle imposte sui redditi che, per le società di capitali, sono l’IRES e l’IRAP.
Per quel che riguarda l’IRAP, in particolare, è necessario ricordare che sono fiscalmente indeducibili gli
oneri per il lavoro dipendente, oltre agli interessi passivi che pur non rientrano nel calcolo dell’EBIT.
Più in particolare, la base imponibile IRAP per le imprese industriali, mercantili e di servizi (D.Lgs. 15
dicembre 1997, n. 446), con qualsiasi forma societaria o contabilità adottata (semplificata o ordinaria),
si ottiene dalla differenza tra la somma delle voci del valore della produzione (primo comma, lett. a,
art. 2425 cc.) e la somma dei costi della produzione (lett. b del medesimo comma), escludendo le perdite su crediti e le spese per il personale dipendente.
Il calcolo in oggetto richiede di apportare ai componenti negativi e positivi che concorrono alla formazione del valore della produzione, le variazioni in aumento o in diminuzione previste ai fini delle imposte sui redditi. Inoltre, non sono ammesse in deduzione le erogazioni liberali, comprese quelle previste
dall’art. 100, comma 2 del TUIR.
(+) A) Valore della produzione
(–) B6) Materie prime, sussidiarie, di consumo e merci
(–) B7) Costi per i servizi
(–) B8) Costi per godimento beni di terzi
(–) B10 lett. a) Ammortamento immobilizzazioni immateriali
(–) B10 lett. b) Ammortamento immobilizzazioni materiali
(–) B10 lett. c) Altre svalutazioni delle immobilizzazioni
(–) B11) Variazioni rimanenze materie prime, sussidiarie, di consumo e merci
(–) B12) Accantonamento per rischi
(–) B13) Altri accantonamenti
(–) B14) Oneri diversi di gestione
(=) Base imponibile IRAP
Sottraendo, poi, alla base imponibile IRAP gli oneri per il personale si ottiene il reddito operativo
(EBIT) e considerando, infine, gli interessi passivi (o attivi) si ricava il risultato ante imposte.
S’ipotizzi, per esempio, un’azienda con ricavi pari a € 100, costi totali deducibili ai fini IRAP pari a €
42, costi per il lavoro dipendente pari a € 20 e oneri finanziari pari a € 8. Il reddito operativo ante
imposte (EBIT), in questo caso, è pari a € 38 (€ 100 – € 42 – € 20), l’utile d’esercizio è pari a € 30
(€ 100 – € 42 – € 20 – € 8), le imposte sul reddito operativo (IRES calcolato in ipotesi di assenza di
indebitamento) più l’IRAP sul valore della produzione sono pari a € 15,105 (€ 12,54 + € 2,465, il che
equivale complessivamente al 39,75 per cento dell’EBIT), come risulta dai seguenti algoritmi:
IRES sul risultato ante imposte = (Ricavi – costi totali deducibili ai fini IRAP – costi per lavoro dipendente – oneri finanziari = risultato ante imposte) · 0,33 = (€ 100 – € 42 – € 20 – € 8) · 0,33 = € 9,9
IRES sul reddito operativo (calcolate nell’ipotesi di assenza di indebitamento) = (Ricavi – costi totali deducibili ai fini IRAP – costi per lavoro dipendente = EBIT) · 0,33 = (€ 100 – € 42 – € 20) ·
0,33 = € 12,54
IRAP = (Ricavi – costi totali deducibili ai fini IRAP) · 0,0425 = (€ 100 – € 42) · 0,0425 = € 2,465
Da quanto scritto emerge chiaramente che nel nostro paese non esiste un’unica aliquota t da applicare all’EBIT dovendosi, perlomeno, distinguere tra le due ipotesi di tassazione appena descritte: l’IRES (27,5 per cento) e l’IRAP (3,9 per cento) che vengono applicate su due imponibili differenti.
Il reddito operativo al netto delle tasse (NOPAT) si ottiene, quindi, sottraendo al reddito operativo
(EBIT) le imposte specifiche sul risultato operativo (IRES calcolato in ipotesi di assenza di indebitamento) e l’IRAP sul valore della produzione. Nel nostro esempio, NOPAT = € 38 – € 15,105 = € 22,895.
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Il FCFF si ottiene, a questo punto, sottraendo dal NOPAT le variazioni del capitale circolante e la differenza tra le spese in conto capitale e la quota d’ammortamento:
FCFF = NOPAT – (Spese in conto capitale – Ammortamenti) +
– Variazioni del Capitale circolante non-cash
La differenza tra le spese in conto capitale e gli ammortamenti e l’incremento del capitale circolante non-cash rappresenta il fabbisogno totale del reinvestimento (I) effettuato
dall’impresa per le proprie necessità di crescita12. Più semplicemente, il calcolo del
FCFF può, quindi, ridursi alla differenza NOPAT – I:
FCFF = NOPAT – I
L’ammontare annuo delle spese in conto capitale e degli ammortamenti, necessari per la
stima del fabbisogno totale di reinvestimento (I), è facilmente ricavabile dai dati di
bilancio. Tra le spese in conto capitale devono essere computati anche investimenti
cosiddetti «esterni», relativi alle acquisizioni e ai leasing operativi e altri costi eventualmente non capitalizzabili, nel caso siano assimilabili a investimenti fissi (per esempio le
spese di ReD non capitalizzabili in base ai nuovi IAS). Per tali asset non capitalizzabili
assimilati a capitale investito, è necessario computare anche una quota fittizia d’ammortamento. L’irregolarità di tali investimenti consiglia l’utilizzo di una media storica o di
dati di settore (indice di rotazione del capitale). I dati storici d’investimento in conto
capitale, invece, potrebbero essere fuorvianti. Vi sono periodi, infatti, in cui gli investimenti in conto capitale di un’impresa sono elevati (lancio di un nuovo prodotto, rinnovo
degli impianti ecc.), e altri in cui sono modesti.
Il capitale circolante (o capitale circolante operativo) è uguale alla differenza tra le
attività correnti (crediti verso clienti e rimanenze) e le passività correnti non gravate da
interesse (debiti verso fornitori e ratei passivi). È opportuno utilizzare medie storiche
anche per la stima della crescita del capitale circolante.
Quando un’impresa cresce, generalmente aumenta proporzionalmente anche il fabbisogno di investimento. Per questo, al fine di una più precisa stima del fabbisogno di
reinvestimento (I) atteso, è consigliabile stimare i tassi di investimento incrementale in
capitale fisso (%IFA) e capitale circolante (%IWC), ossia gli investimenti incrementali
in capitale fisso e circolante per ogni euro di fatturato in più:
Fabbisogno totale di reinvestimento (I) = Crescita delle vendite · (%IFA + %IWC)
I tassi d’investimento incrementale in capitale fisso netto (%IFA) e circolante (%IWC)
sono variabili chiave per il computo dei FCFF. Per evitare di sottostimarne o sopravvalutarne il valore, è opportuno fissare tali tassi conformemente all’indice di rotazione del
capitale dell’impresa (Sales/CI) (Damodaran, 2001). Il tasso di reinvestimento (IR =
I/NOPAT) si calcola, invece, rapportando il fabbisogno totale del reinvestimento effettuato dall’impresa (I) al NOPAT e può essere utilizzato per la stima del FCFF attraverso
la seguente formula:
12 Approfondimenti relativi alla stima delle componenti del fabbisogno di reinvestimento sono rivenibili in Massari e Zanetti (2004, Capitolo 2) e Copeland, Koller e Murrin (2000, Capitolo 9).
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Tabella 1.4
Parte prima | Le basi dell’i-Valuation
L’identità fondamentale tra fonti e impieghi di capitale: il caso Wal-Mart
($ milioni)
1987
1988
771,9
1.106,8
(334,9)
1064,3
1.011,8
(52,5)
89,2
485,0
118,3
152,4
67,7
6,9
(334,9)
90,5
3,9
(52,5)
FCFF operativo
NOPAT
(–) I
FCFF
FCFF finanziario
Interessi passivi (dopo le imposte)
(–) Nuovo indebitamento (al netto dei rimborsi)
Dividendi
(–) Aumento di capitale
FCFF
Fonte: Stewart (1991).
FCFF = NOPAT (1 – Tasso di reinvestimento)
Il tasso di reinvestimento può arrivare oltre il 100 per cento, se le necessità di reinvestimento sono così elevate da superare il NOPAT. In questo caso il FCFF è negativo, anche
con un NOPAT positivo, e l’impresa dovrà intervenire con nuove coperture finanziarie.
Fonti e impieghi di liquidità, infatti, devono sempre coincidere o bilanciarsi. In altre
parole, il FCFF prodotto o assorbito dalle attività operative deve bilanciare la somma di
tutte le transazioni monetarie tra l’impresa e i suoi conferenti capitale. Un flusso di cassa negativo, quindi, dovrà essere finanziato cedendo titoli negoziabili in portafoglio o
attingendo a fonti esterne di finanziamento, per coprire i fabbisogni di reinvestimento in
eccesso rispetto al NOPAT con nuovo debito e/o capitale di rischio.
Al contrario, un’impresa che ha un tasso di reinvestimento inferiore al 100 per cento
investe meno risorse di quante ne produce, ottenendo un FCFF positivo. Le risorse in
eccesso prodotte dalle attività operative (excess cash) possono essere impiegate per il
pagamento degli interessi passivi (al netto del risparmio fiscale), per il rimborso di debiti, per distribuire dividendi, per lo stock buy-back (riacquisto azioni proprie) o per investire in un portafoglio di titoli facilmente negoziabili.
Il modello di valutazione FCFF si basa sull’identità tra fonti e impieghi di liquidità
appena descritta. Questo significa che il FCFF può essere stimato anche secondo un procedimento finanziario, alternativo rispetto a quello operativo descritto in precedenza,
basato sulla somma di tutte le transazioni monetarie intercorse con i conferenti capitale
a diverso titolo. I due procedimenti di stima del FCFF, operativo e finanziario, devono
convergere (v. Tab. 1.4):
FCFF = Interessi passivi – Nuovo indebitamento + Dividendi – Aumenti di capitale +
– Interessi attivi + Nuovi titoli negoziabili
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1 | La «catena del valore per l’azionista»: l’anello mancante
1.6.1
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Il costo del capitale
Una delle variabili più importanti da stimare del modello DCF è il costo medio ponderato d’approvvigionamento del capitale (WACC). Il WACC deve essere calcolato in
modo da riflettere esattamente il rischio combinato d’azioni e debito e il loro relativo
peso nella struttura finanziaria. La necessità di attualizzare il FCFF al WACC deriva dall’identità fondamentale tra fonti e impieghi di liquidità (v. Tab. 1.4), su cui si basa l’impalcatura concettuale del DCF. Essendo calcolato prima del finanziamento, ovverosia al
lordo degli oneri finanziari, il FCFF non è influenzato dalla struttura finanziaria dell’impresa. È proprio il WACC che eserciterà, in un secondo tempo, il condizionamento della
struttura finanziaria sul valore d’impresa attraverso l’attualizzazione, facendo convergere, se tutti i tassi necessari sono correttamente misurati, gli esiti di stima del capitale netto ottenuti con i metodi DCF di tipo asset side (FCFF attualizzati al WACC – valore del
debito), equity side (FCFE attualizzati al Ke) e APV (FCFE attualizzati al WACC + valore del beneficio fiscale dell’indebitamento).
La formula del WACC è esprimibile nel seguente modo13:
WACC = Ke [Equity/(Debito + Equity)] + Kd [Debito/(Debito + Equity)]
dove:
Ke = costo del capitale netto, ovverosia tasso di rendimento richiesto dagli investitori
azionari dell’impresa;
Kd = costo corrente del debito, aggiustato in funzione del beneficio fiscale (t) connesso
all’indebitamento14.
I pesi del debito e dell’equity devono essere stimati a valori di mercato (Damodaran,
1999; Copeland, Koller e Murrin, 2000)15. Rimandando ai migliori testi di finanza aziendale chi volesse approfondire l’argomento dei modelli di rischio e rendimento, ricordiamo soltanto che il costo del capitale netto (equity) deve riflettere il rischio aggiunto a un
portafoglio diversificato e può essere agevolmente misurato tramite il Capital Asset Pricing Model (CAPM):
Costo del capitale netto (equity) = Tasso di interesse privo di rischio +
+ Premio per il rischio
13 La formula del WACC va ampliata nei casi in cui l’impresa utilizza anche altre fonti di finanziamento, come per esempio le azioni privilegiate e/o forme ibride di finanziamento. In particolare, è necessario considerare anche l’incidenza sul WACC di tali forme di finanziamento, il cui peso deve essere sempre stimato a valori di mercato.
14 Il metodo più diretto per stimare il costo del debito al netto del beneficio fiscale per l’indebitamento
consiste nel moltiplicare il costo del debito al lordo del beneficio fiscale dell’indebitamento per (1 – t),
ove t, per l’indeducibilità fiscale ai fini IRAP degli oneri finanziari, è rappresentato dall’aliquota IRES.
Per eventuali approfondimenti sulla stima di t, ai fini del calcolo del costo del debito, si veda Mechelli
(2005).
15 Al riguardo, la teoria del valore è rigida: i pesi dell’equity e del debito vanno calcolati a valori di mercato, anche per le imprese non quotate. Nella prassi, tuttavia, non mancano deroghe a quest’impostazione teorica, con una ponderazione basata su valori di bilancio per le imprese non quotate.
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Parte prima | Le basi dell’i-Valuation
Il premio per il rischio, in particolare, si calcola moltiplicando la differenza tra il rendimento del mercato azionario e il tasso privo di rischio per il coefficiente beta dell’azienda (che ne misura il rischio sistematico; v. Capitolo 3)16. Per il tasso privo di rischio può
essere opportuno utilizzare i rendimenti di un titolo di Stato zero-coupon della stessa
durata dei flussi da attualizzare o di uno a lunga scadenza. Nel Box 1.3 è descritto il procedimento di stima del beta per le imprese non quotate.
Box 1.3 La stima del beta per le imprese non quotate
Per le imprese non quotate in borsa, o per quelle quotate solo di recente, non essendo possibile stimare il beta utilizzando i valori storici dei corsi azionari, bisogna procedere diversamente. Il beta di
settore, o di un campione d’aziende quotate similari, è normalmente riconosciuto come un indicatore in grado di stimare il rischio operativo dell’azienda oggetto di valutazione. Lo stesso, invece,
non può dirsi per quel che riguarda il rischio finanziario, nel caso in cui il rapporto d’indebitamento
dell’impresa si discosti da quello di settore o del campione d’aziende comparabili. Per utilizzare
correttamente il beta settoriale, o di un campione d’aziende comparabili, come surrogato del beta
specifico, qualora sussistano le differenze nel rapporto d’indebitamento di cui sopra, è quindi
necessario effettuare i seguenti passaggi, utilizzando la formula di Hamada (1972).
a) Depurare il beta medio di settore (beta levered di settore) del rischio finanziario medio relativo alle
aziende del campione, ottenendo in questo caso il beta operativo o unlevered di settore. In formule:
βUNLEVERED = βLEVERED /[1 + (1 – Tax Rate) · (DC /EC )]
dove:
Tax Rate = aliquota fiscale dell’impresa;
DC /EC = leverage di settore stimato a valori di mercato.
Il beta operativo di settore (beta unlevered), pure detto Business Risk Index (BRI), può anche essere
ottenuto direttamente da diverse fonti d’informazione finanziaria.
b) Aggiungere al beta operativo di settore (beta unlevered), ottenuto come indicato al punto (a), il rischio
finanziario specifico dell’azienda, giungendo così alla stima del suo beta levered:
βLEVERED = βUNLEVERED · [1 + (1 – Tax Rate) · (DA /EA )]
dove:
DA /EA
1.6.2
= leverage aziendale stimato a valori di mercato.
La crescita attesa
In ogni valutazione, ciò che determina il valore sono i flussi di cassa futuri. Uno degli
input più importanti per la stima del capitale netto è perciò il tasso di crescita attesa (g)
del NOPAT. La crescita del NOPAT può essere stimata in modo endogeno, ovverosia
16
In sostanza, è il rendimento addizionale richiesto dagli investitori per spostare il loro denaro da un investimento privo di rischio a uno di media rischiosità, quale quello nel mercato azionario. Per questo esso deve
riflettere sia il grado di avversione media al rischio degli investitori sia la loro percezione della differenza di
rischiosità tra investimenti come le azioni e gli investimenti privi di rischio (Damodaran, 2001, p. 54 ed. it.).
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1 | La «catena del valore per l’azionista»: l’anello mancante
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come funzione della qualità (ROIC incrementale) e della quantità (IR) del reinvestimento dell’impresa (Damodaran, 2001, p. 138):
gNOPAT = IR · ROIC
dove:
tasso di investimento (IR) =
I
;
NOPAT
I = Spese in conto capitale – Ammortamenti – Variazioni nel capitale circolante non-cash;
ROIC =
NOPAT
.
CI
I parametri per il calcolo del tasso di crescita dovrebbero essere valori attesi per il futuro. In particolare, il ROIC dovrebbe rappresentare il rendimento sul capitale atteso dai
nuovi investimenti (ROICI o ROIC incrementale). Molto spesso, però, si ritiene che il
rendimento sul capitale ottenuto dall’impresa sui suoi investimenti in essere rappresenti
una buona proxy per il rendimento dei futuri investimenti.
1.6.3
L’orizzonte di previsione esplicita e la stima del valore residuo (TV)
A differenza di un’obbligazione, l’investimento in equity ha un orizzonte temporale
indefinito. Il metodo DCF, quindi, almeno da un punto di vista teorico, dovrebbe
richiedere da parte degli analisti la previsione dei flussi di cassa per l’intera vita futura dell’azienda. Nella realtà, invece, si ricorre a una semplificazione, stimando puntualmente la crescita del NOPAT per un periodo (n – orizzonte di previsione esplicita),
per poi quantificare un valore residuo dell’impresa (TV), rappresentativo di tutti i
flussi di cassa successivi a quella data (periodo del valore residuo). Il valore residuo
(TV) non è altro che il valore dell’impresa alla fine dell’orizzonte di previsione esplicita. In formule:
t=n
Valore impresa = ∑
t=1
FCFFt
Valore residuon
+
(1 + WACC)t
(1 + WACC)n
Il valore residuo (TV), in particolare, può essere stimato con quattro diversi procedimenti. Il primo consiste nella valutazione relativa (multipli), il secondo si basa sul valore di liquidazione, il terzo è il modello di crescita stabile e il quarto, infine, valuta il
NOPAT residuo come una rendita perpetua (c.d. formula della convergenza).
a) Il valore residuo secondo l’approccio della valutazione relativa - Questo approccio permette di stimare il valore residuo a una data futura attraverso la c.d. valutazione
relativa, ovverosia applicando un multiplo agli utili o ai ricavi previsti per quello stesso
anno. Per esempio, se s’impiega un multiplo sui ricavi pari a 2, ipotizzare che l’impresa
tra n anni avrà 10 milioni di ricavi equivale a stimare che il valore residuo a quella data
sarà pari a 20 milioni. L’estrema semplicità di questo procedimento può essere pagata a
caro prezzo, visto l’enorme effetto che un cambiamento anche modesto del multiplo può
avere sul valore residuo. Quando il multiplo è estrapolato da un campione d’aziende
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Parte prima | Le basi dell’i-Valuation
comparabili17, la valutazione del valore residuo assume tutti i connotati di una valutazione relativa, allontanandosi dai criteri teorici del DCF utilizzati invece per la stima del
valore d’impresa durante l’orizzonte di previsione esplicita. Il calcolo del multiplo in
base ai fondamentali dell’impresa, al contrario, avvicina maggiormente questo procedimento al DCF. In ogni caso, l’impiego di questa metodologia comporta un mix pericoloso tra metodi di valutazione diversi e non è pienamente coerente rispetto ai contenuti
del DCF (Damodaran, 2001, p. 159).
b) Il terminal value (TV) come valore atteso di liquidazione - Questo procedimento
presuppone la liquidazione dell’impresa alla fine dell’orizzonte di previsione esplicita.
Nelle valutazioni in cui si presume che l’impresa, a una certa data futura, non sarà più
operativa o cederà sul mercato le sue attività, il valore residuo diventa un vero e proprio
valore di liquidazione, determinabile in due diversi modi (Damodaran, 2001, p. 159). Il
primo si basa sulla rettifica per l’inflazione del valore contabile delle attività di bilancio.
Di seguito è riportato un semplice esempio di rettifica, per un tasso d’inflazione atteso
del 3 per cento, di attività contabili pari a $ 2 miliardi la cui vita media è stimata in cinque anni:
Valore atteso di liquidazione =
= Valore di libro delle attività Anno residuo (1 + Tasso d’inflazione)Vita media dell’attività =
= $ 2 milioni (1,03)5 = $ 2,319 miliardi
Il limite di questo procedimento è che trascura l’effettiva capacità delle attività contabili di generare reddito. Volendo stimare il valore di liquidazione atteso, ipotizzando che le
attività da liquidare genereranno flussi di cassa pari a $ 400 milioni annui, per i 15 anni
successivi alla data del valore residuo, e che il WACC sia del 10 per cento, il calcolo
può essere eseguito come segue:
1– 1
冢
(1,10) 冣
Valore atteso di liquidazione = $ 400 milioni
= $ 3,042 miliardi
15
0,10
c) La stima del valore residuo attraverso il modello di crescita stabile (steady
growth) - Questo procedimento presuppone (ipotesi semplificatrice) che i flussi di cassa, a iniziare dall’anno residuo (n), cresceranno in modo perpetuo a un tasso costante
(Damodaran, 2001). La formula del TV, in questo caso, può essere mutuata dal modello
di Gordon della crescita costante (steady growth):
Valore residuo =
FCFFn+1
WACCn+1 – gn
Esprimendo il FCFFn+1 in funzione del tasso di reinvestimento (FCFF = NOPAT · (1 – IR))
e il tasso di reinvestimento (IR) in funzione della sua relazione con il tasso di crescita g
17
I limiti della valutazione relativa (basata sui multipli), in questo caso, aumentano per le difficoltà legate
alla necessità di trovare un’azienda (o un campione di aziende) comparabile con la situazione, dell’azienda
oggetto di valutazione, prevista alla fine dell’orizzonte di previsione esplicita (periodo del valore residuo).
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del NOPAT e il ROIC incrementale (g = IR · ROICI) si ottiene la formula dei TV basata
sui generatori del valore (Copeland, Koller e Murrin, 2000, p. 308):
冢
冣
gn
ROICI
WACCn+1 – gn
NOPATn+1 1 –
Valore residuo =
Il modello della crescita perpetua presuppone la costanza/sostenibilità nel tempo del tasso di crescita g e del costo del capitale (WACC) impiegati nella formula. Per questo, il
tasso gn dovrà necessariamente essere inferiore o, al massimo, uguale a quello con il
quale cresce annualmente l’intera economia. Non è ragionevole, infatti, pensare che
un’impresa possa crescere per sempre a un tasso superiore a quello di crescita dell’economia. Per la stima del valore residuo attraverso il modello della crescita stabile si può
utilizzare anche un tasso di crescita perpetuo negativo, ipotizzando che l’impresa diventerà, man mano, più piccola, fino a svanire del tutto (Damodaran, 2001, p. 160). Crolla,
così, il presupposto della durata indefinita dell’investimento in equity.
d) La stima del valore residuo attraverso la formula della convergenza (steady
state) - Questo metodo è anche definito «formula della convergenza», perché presuppone che, alla fine dell’orizzonte di previsione esplicita, il rendimento dei nuovi investimenti arrivi a convergere verso il costo del capitale (ROICI = WACC), in quanto l’effetto della concorrenza erode gradualmente le condizioni di realizzazione di un tasso di
redditività superiore al WACC (Copeland, Koller e Murrin, 2000, p. 320). Con questi
presupposti teorici, mutuati dall’economia neoclassica, la formula del modello di crescita costante può essere semplificata come segue:
Valore residuo =
NOPATn+1
WACCn+1
La formula della convergenza (semplificata) si ricava da quella dei «generatori del valore»:
冢
冣
gn
ROICI
WACCn+1 – gn
NOPATn+1 1 –
Valore residuo =
Con la formula della convergenza, s’ipotizza che il rendimento sul capitale incrementale investito uguaglierà il WACC alla fine dell’orizzonte di previsione esplicita (per questo poniamo ROICI = WACC):
WACCn+1 – gn
gn
NOPATn+1
WACCn+1
ROICI
=
WACCn+1 – gn
WACCn+1 – gn
冢
NOPATn+1 1 –
Valore residuoROIC=WACC =
冣
Dividendo numeratore e denominatore per (WACCn+1 – gn) si ottiene la formula della
convergenza:
NOPATn+1
Valore residuoROIC=WACC =
WACCn+1
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Parte prima | Le basi dell’i-Valuation
Scomparendo dall’equazione il tasso g di crescita, il modello incorpora in sé l’ipotesi di
stato stazionario (steady state) e considera tutti i flussi di cassa posteriori al periodo di
previsione esplicita come una rendita perpetua. In stato stazionario, gli investimenti
sono esattamente pari all’ammortamento; per questo nella formula troviamo il NOPAT,
che coincide con il valore del FCFF, rappresentando per intero il flusso annuale disponibile per tutti i conferenti capitale (sia di rischio, sia di debito). Ciò, tuttavia, non significa necessariamente che alla fine dell’orizzonte di previsione esplicita non vi sarà più
crescita nominale del NOPAT: significa solo che questa non creerà più nuovo valore,
essendo il rendimento associato al reinvestimento (crescita) esattamente pari al costo del
capitale e, conseguentemente, anche da un punto di vista matematico, può essere tranquillamente eliminata dalla formula18.
La formula della convergenza assume implicitamente che alla fine dell’orizzonte di
previsione esplicita termineranno i vantaggi competitivi che permettono di ottenere un
tasso di rendimento superiore al costo del capitale e, con questo, anche le opportunità di
investire nuovo capitale a un tasso di rendimento superiore al suo costo. La teoria del
valore, infatti, dimostra che la crescita dimensionale dell’impresa crea nuovo valore per
l’azionista solo se il ROIC sugli investimenti incrementali supera il WACC (VAN > 0).
Non sempre, però, si può ipotizzare che ciò accada anche oltre l’orizzonte di previsione
esplicita, poiché un rendimento del capitale superiore al suo costo è necessariamente il
frutto di un vantaggio competitivo che protegge l’impresa dalle forze della concorrenza,
a un certo punto destinato necessariamente a svanire (Damodaran, 2001).
Miller e Modigliani (1961) sono stati i primi a osservare esplicitamente che qualsiasi
ipotesi circa la durata del periodo di creazione del valore (ROICI > WACC) non può essere formulata a prescindere da considerazioni relative alla sostenibilità del vantaggio competitivo. Molti autori, sulla scia dell’insegnamento di Miller e Modigliani (1961), preferiscono fissare l’orizzonte di previsione esplicita in funzione della durata del vantaggio
competitivo (Competitive Advantage Period, CAP), che permette all’investimento incrementale di fruttare un tasso di rendimento superiore al WACC, per poi valutare il valore
residuo utilizzando la formula della convergenza (Stewart, 1991; Rappaport e Mauboussin, 2001). Al contrario, la perpetuità del periodo di creazione del valore dovrebbe essere
considerata un tratto esclusivo di poche aziende eccellenti, ritenute in grado di difendere
e/o ricostruire all’infinito le proprie basi del vantaggio competitivo.
Alcuni esperti di valutazione (per esempio Rappaport e Mauboussin, 2001) consigliano di rettificare la formula della convergenza, supponendo che nel periodo del valore
residuo gli utili cresceranno in funzione del tasso d’inflazione atteso, senza bisogno
d’investimenti incrementali. Ne deriva la seguente formula:
Valore residuo =
NOPATn+1
WACCn+1 – g
In questo caso g è il tasso d’inflazione atteso. È assai improbabile (o meglio impossibile), tuttavia, che il NOPAT possa crescere, anche solo al tasso d’inflazione atteso, senza
18
La semplificazione su cui si basa la «formula della convergenza» consiste quindi nell’ipotizzare che
l’azienda chiuderà il «rubinetto» degli investimenti, alla fine dell’orizzonte di previsione esplicita, perché in quel momento si esauriranno le sue opportunità d’investimento economicamente convenienti (che
creano valore e non lo distruggono).
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1 | La «catena del valore per l’azionista»: l’anello mancante
Tabella 1.5
La stima del valore residuo in funzione della sostenibilità del CAP
Periodo di vantaggio
competitivo (CAP)
Relazione ROIC/WACC
Attività in essere: sostenibile
ROIC Attività in essere > WACC
Nuovi investimenti: sostenibile ROIC nuovi investimenti > WACC
Formule del valore residuo
FCFFn+1
WACCn+1 – gn
Modello della
crescita costante
Attività in essere: sostenibile
Nuovi investimenti: NON
sostenibile
ROIC Attività in essere > WACC
ROIC nuovi investimenti = WACC
NOPATn+1
WACCn+1
Formula della
convergenza
Attività in essere: NON
sostenibile
Nuovi investimenti: NON
sostenibile
ROIC Attività in essere = WACC
ROIC nuovi investimenti = WACC
NOPATn+1
WACCn+1
NOPATn+1 =
CIinizio n+1 · WACCn+1
Formula della
convergenza
(variante
restrittiva)
investimenti incrementali di capitale. Per questo, rettificando la formula della convergenza per il tasso d’inflazione atteso, si rischia di sopravvalutare di molto il valore residuo (Copeland, Koller e Murrin, 2000, p. 321).
Un’ipotesi ancora più restrittiva potrebbe presupporre che alla fine dell’orizzonte di
previsione esplicita anche il rendimento del capitale investito nelle attività in essere
(asset in place) sia pari al WACC. Ciò può accadere tutte le volte che l’impresa sfrutta
vantaggi competitivi non sostenibili a lungo e non dimostra di possedere le capacità per
ricrearli e affrontare la competizione in modo dinamico. In questo caso il NOPAT residuo, da inserire nella formula della convergenza, dovrebbe essere uguale al capitale
investito all’inizio dell’anno n + 1 moltiplicato per il WACC previsto nello stesso anno
(CIn+1 · WACCn+1)19. Nella Tab. 1.5 sono indicati alcuni suggerimenti per la scelta della
formula del valore residuo in funzione della sostenibilità dei vantaggi competitivi (Competitive Advantage Period; v. § 1.9) che faranno fruttare un tasso di rendimento superiore al costo del capitale, rispettivamente, alle attività in essere e agli investimenti incrementali (valore della crescita).
1.6.4
Un esempio di stima del valore intrinseco dell’impresa secondo
il modello FCFF
La stima dei FCFF futuri può essere attuata, secondo il procedimento di Rappaport,
conformemente a specifiche ipotesi relative alla crescita delle vendite (gSALES), al livello
di margine operativo (OPM) e ai tassi di investimento incrementale in capitale fisso netto (%IFA) e circolante (%IWC) che, sommati e moltiplicati per le vendite incrementali,
(Venditet–1 · gSALES) danno l’incremento del capitale impiegato (I). In formule:
FCFF = [Venditet–1 · (1 + gSALES) · (OPM) · (1 – t)] – Vendite incrementali ·
· (%IFA + %IWC)
19
Il ROIC si calcola rapportando il NOPAT al capitale investito a inizio anno (ROIC = NOPAT/CI). Se
ROIC = WACC, allora NOPAT/CI = WACC e NOPAT = CI · WACC.
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Parte prima | Le basi dell’i-Valuation
Per la stima del valore d’impresa è necessario formulare le ipotesi di cui sopra relativamente all’orizzonte di previsione esplicita e al periodo del valore residuo (TV). È anche
richiesta la stima del WACC. Nella Tab. 1.6, a titolo illustrativo, presentiamo un esempio
di valutazione con il metodo DCF, basato sulle seguenti ipotesi:
Capitale investito iniziale
€ 50 milioni
Crescita attesa nel periodo esplicito di previsione
8% nel primo anno, tasso che poi decresce
linearmente fino al 2% nel quinto anno
Crescita attesa per la stima del TV
2%
Tassi attesi di investimento incrementale in
capitale fisso netto e circolante
Rispecchiano l’indice di rotazione del capitale
dell’impresa: 28% l’investimento incrementale
in capitale fisso netto e 8% quello in capitale
circolante. Si mantengono costanti anche nel
periodo di stima del TV
Margine operativo
Rimane costante al 18% per tutto il periodo
esplicito di previsione e per il calcolo del TV
WACC
Rimane costante al 10% per tutto
il periodo esplicito di previsione e per il calcolo
del TV
1.7
Oltre il flusso di cassa scontato: il valore delle opzioni reali (ROV)
Come tutti i modelli valutativi, anche il DCF ha i suoi limiti. Per esempio, se c’è una
possibilità, seppure molto piccola, che una start-up possa diventare la Microsoft del
futuro, il DCF non è in grado di rilevarla (Damodaran, 2001). Allo stesso modo, i flussi
attesi da tale modello trascurano le possibilità d’ingresso in nuovi mercati connesse al
possesso di un asset immateriale (una marca o un capitale intellettuale). Più in particolare, il DCF non riesce a cogliere il valore della flessibilità, intesa come possibilità di
modificare le decisioni relative a un investimento reale, in funzione dell’evoluzione delle variabili che ne determinano il valore atteso. In estrema sintesi, valga a tal proposito il
giudizio di Amram e Kulatilaka (1999), secondo cui al DCF sfugge la natura contingente di decisioni del tipo: «se le cose andranno bene, aumenteremo l’investimento in capitale». In questo senso, il DCF è incompleto e in certe situazioni va appunto integrato
con idonei strumenti capaci di colmare questa sua lacuna (nella fattispecie rappresentati
dalla Real Option Valuation, ROV), ove il rispetto di una serie di presupposti del valore
delle opzioni reali, di seguito indicati, lo renda opportuno.
Gli enormi sviluppi in campo matematico-finanziario, da quando nel 1972 Black e
Scholes presentarono il loro innovativo modello per la determinazione del prezzo delle
opzioni finanziare, ci hanno messo a disposizione metodi di valutazione basati sulla teoria delle opzioni reali (ROV), che riescono a quantificare la flessibilità di un progetto
d’investimento. La ROV, in particolare, completa l’analisi DCF per alcune imprese che
hanno nel proprio «attivo» un portafoglio di opzioni reali che aggiunge valore alla stima
dei FCFF attesi. Riguardo alle potenzialità della ROV, tuttavia, la nostra posizione è
piuttosto prudente, poiché consideriamo il valore del portafoglio di opzioni un’eccezio-
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Tabella 1.6
Il valore d’impresa in funzione dei FCFF attesi
Dati in milioni di euro
Anno 1
Anno 2
Anno 3
Anno 4
Anno 5
Residuo
Crescita delle vendite
Vendite
Incremento delle vendite
Margine operativo
EBIT meno aliquota imposta
reddito operativo (35%)
NOPAT
% investimento incrementale
in capitale fisso netto
Investimento incrementale
in capitale fisso netto
% investimento incrementale
in capitale circolante
Investimento incrementale in
capitale circolante
I
I/NOPAT
FCFF = NOPAT – I
FCFF = NOPAT · (1 – I/NOPAT)
TV
WACC
WACC cumulativo
Valore attuale del FCFF
Valore attuale cumulativo dei FCFF
Valore attuale del TV
Valore dell’impresa
8,00%
150,00
11,11
18,00%
27,00
35,00%
17,55
6,50%
159,75
9,75
18,00%
28,75
35,00%
18,69
5,00%
167,74
7,99
18,00%
30,19
35,00%
19,62
3,50%
173,61
5,87
18,00%
31,25
35,00%
20,31
2,00%
177,08
3,47
18,00%
31,87
35,00%
20,72
2,00%
28,00%
28,00%
28,00%
28,00%
28,00%
3,11
2,73
2,24
1,64
0,97
8,00%
8,00%
8,00%
8,00%
8,00%
0,89
4,00
23,00%
13,55
13,55
0,78
3,51
19,00%
15,18
15,18
0,64
2,87
15,00%
16,75
16,75
0,47
2,11
10,00%
18,20
18,199
10,00%
110,00%
12,32
12,32
10,00%
121,00%
12,55
24,86
10,00%
133,00%
12,59
37,45
10,00%
146,00%
12,43
49,88
0,28
1,25
6,00%
19,47
19,47
248,22
10,00%
161,00%
12,09
61,97
154,13
216,09
10,00%
ne alla regola comune, da appurare attraverso una serie di «test fondamentali» volti a
verificare l’esistenza di diritti di esclusiva o di solidi vantaggi competitivi relativi al progetto in esame (Damodaran, 2001, p. 336).
La ROV applica quella delle opzioni finanziare agli investimenti reali, quali quelli
riguardanti le miniere e i giacimenti, gli impianti industriali, l’estensione del raggio
d’azione dell’impresa (diversificazione) e le immaterialità legate alla tecnologia e al
marketing. Un’opzione finanziaria dà al suo possessore il diritto, ma non l’obbligo, di
acquistare o vendere un’attività sottostante a un prezzo stabilito (cosiddetto prezzo di
esercizio o strike price) in un lasso temporale predeterminato (durata dell’opzione). Il
diritto di compiere una certa azione è una forma di flessibilità, quella che sfugge al
DCF, mentre l’obbligo è un vincolo fonte di rigidità manageriale. Le opzioni che conferiscono il diritto ad acquistare un’attività finanziaria a un prezzo stabilito sono le
cosiddette «call», mentre «put» sono quelle che danno il diritto di vendita, sempre a un
prezzo stabilito.
Analogamente a quanto accade nel mondo finanziario, anche in quello del business
reale possono esistere situazioni in cui si ha il diritto, ma non l’obbligo, di sfruttare
opportunità strategiche future. La flessibilità di poter effettuare ulteriori investimenti, di
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Parte prima | Le basi dell’i-Valuation
estendere il raggio d’azione dell’impresa, di rinviare o abbandonare un progetto iniziale,
in risposta al cambiamento di tipo strategico ed economico in atto, se effettivamente
sussistente, ha un valore, che può essere definito attraverso le formule per le opzioni
reali. In un contesto concorrenziale, in cui i vantaggi competitivi delle imprese sono
temporanei e devono essere continuamente rinnovati in modo dinamico, il valore del
rinvio o dell’estensione di un progetto può sembrare irrilevante (Damodaran, 2001).
Quando invece esiste una protezione legale o competitiva che garantisce solidi diritti di
esclusiva, le possibilità di variazione del valore del progetto nel tempo gli conferiscono
la caratteristica di un’opzione reale.
È possibile rintracciare opzioni nascoste anche nel lato delle passività di bilancio delle
imprese. Queste, però, sono di natura finanziaria, risultando più facilmente individuabili
rispetto a quelle reali, appena indicate, annidate tra le attività delle imprese. Un primo tipo
di opzioni rinvenibili nel lato delle passività di bilancio è rappresentato dalle obbligazioni
e azioni privilegiate convertibili. Tali titoli contengono opzioni call, poiché danno al loro
possessore il diritto di scambiarli in azioni ordinarie, in base a un rapporto di conversione
predeterminato. Anche i warrant sono opzioni call, perché garantiscono il diritto di acquistare azioni ordinarie a un prezzo prefissato. Infine, devono essere considerate opzioni call
le stock option assegnate a manager e dipendenti. Queste passività vanno stimate, attraverso i sistemi di prezzatura delle opzioni finanziarie, e sottratte dal valore per l’azionista
(Copeland, Koller e Murrin, 2000; Damodaran, 2001). Allo stesso modo è necessario valutarne l’impatto sul costo medio ponderato del capitale (WACC).
Nel corso di questa breve analisi, descriveremo le tecniche di valutazione delle opzioni reali di rinvio e di espansione di un progetto20. Incominceremo a descrivere i driver
del valore di un’opzione finanziaria, per poi esaminare le analogie tra le opzioni finanziarie di tipo call e quelle relative a un investimento strategico. Non mancheremo, infine, di specificare le condizioni particolari (test) che danno valore alle opzioni reali e
inducono a includerle in una valutazione d’impresa, a integrazione del DCF.
1.7.1
Le determinanti del valore di un’opzione finanziaria
Il valore di un’opzione finanziaria, indipendentemente dalla specifica formula scelta per
calcolarlo, è sempre funzione delle stesse variabili, riferite all’attività sottostante, alle
caratteristiche dell’opzione e ai mercati finanziari (Damodaran, 2001, p. 302; v. Tab. 1.7):
■
■
il valore corrente dell’attività sottostante. Le opzioni traggono il proprio valore da
un’attività sottostante. Il valore di un’opzione finanziaria su un titolo azionario, per
esempio, è rappresentato dal corso azionario. Un incremento del valore dell’attività
sottostante, quindi, determinerà un aumento del valore della call, che conferisce il
diritto ad acquistare il titolo a un prezzo predeterminato, e una diminuzione del valore della put, che invece garantisce il diritto a vendere, sempre a un prezzo prefissato;
la varianza nel valore dell’attività sottostante. Le opzioni sono diverse da altri titoli
finanziari, poiché il possessore non potrà mai perdere una somma superiore al prezzo
di acquisto dell’opzione (protezione verso il basso). Una maggiore varianza nel valo-
20 Per un’analisi delle diverse tipologie di opzioni reali studiate in letteratura si rimanda, tra gli altri, ad
Amram e Kulatilaka (1999).
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Tabella 1.7
Le variabili che influenzano i prezzi delle opzioni call e put
Effetto sul valore
della call
della put
Aumento del valore dell’attività sottostante
Aumento del prezzo di esercizio
Aumento della varianza dell’attività sottostante
Aumento della durata
Aumento dei tassi di interesse
Aumento dei dividendi distribuiti
Aumenta
Diminuisce
Aumenta
Aumenta
Aumenta
Diminuisce
Diminuisce
Aumenta
Aumenta
Aumenta
Diminuisce
Aumenta
Fonte: Damodaran, 2001, p. 304.
■
■
■
■
re dell’attività sottostante, in questo caso, non comporta rischi di perdite aggiuntive,
ma solo maggiori possibilità di rendimento, e quindi fa lievitare il valore del prezzo
sia dell’opzione put, sia della call;
i dividendi pagati dall’attività sottostante. Il valore dell’attività sottostante diminuisce se durante la vita dell’opzione vengono pagati dividendi. Il valore dei dividendi
attesi fa quindi automaticamente salire il prezzo della put e scendere quello della call;
il prezzo d’esercizio dell’opzione (strike price). Rappresenta il prezzo prefissato per
l’esercizio dell’opzione. Al suo crescere si riducono le possibilità di guadagno del
possessore di una call, che per questo varrà meno, e aumentano quelle del proprietario di una opzione put, che invece, in questo caso, costerà di più;
la durata dell’opzione. Una maggiore durata fa crescere il prezzo della call e della
put, in quanto aumenta le probabilità che l’attività sottostante possa variare di valore;
il tasso d’interesse privo di rischio. Tale tasso, che deve essere corrispondente alla
durata dell’opzione, rappresenta un costo opportunità, il cui aumento farà crescere il
prezzo dell’opzione call e diminuire quello della put. Ciò accade perché il valore
attuale del prezzo d’esercizio non sarà pagato (ricevuto) prima della scadenza della
call (put).
1.7.2
Analogia delle opzioni call con le opzioni di investimento strategico
Le analogie tra le opzioni finanziarie call e le opzioni reali di espandere o rinviare un
progetto di investimento ci permettono di stimare, attraverso la ROV, il valore della crescita incerta che oltrepassa le linee del business ordinario (Rappaport e Mauboussin,
2001). Il valore di un progetto d’investimento può essere influenzato da opzioni di
espansione o di rinvio. Un progetto iniziale può essere considerato un’opzione di espansione quando permette all’impresa di intraprendere altri progetti o di entrare in altri
mercati. Il valore del progetto iniziale, in questo caso, è maggiore di quanto non possa
sembrare analizzandolo solo in termini di DCF. Un investimento iniziale, tuttavia, contiene opzioni di questo tipo, e può essere giustificato anche con un VAN negativo, solo
se crea un diritto esclusivo o un solido vantaggio competitivo per l’ingresso in un nuovo
mercato o per il successivo investimento (Damodaran, 2001). La valutazione delle
opzioni di espansione completa l’analisi DCF, nella quale dovrebbe essere inserita la
crescita del business ordinario, valorizzando il portafoglio potenziale di opzioni che le
imprese hanno di investire di più in futuro se le cose andranno meglio. L’importante,
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ovviamente, è non misurare due volte il valore dello stesso tipo di crescita (Damodaran,
2001, p. 333).
Il valore dell’opzione di rinvio deriva, invece, dalla possibilità che il VAN di un progetto di investimento, inizialmente negativo, grazie a successivi sviluppi tecnologici o di
mercato possa poi diventare positivo. L’opzione di rinvio, tuttavia, ha un valore significativo solo nel caso in cui il progetto, anche in futuro, possa essere intrapreso solo dall’impresa in oggetto, grazie a un diritto legale d’esclusiva o per la presenza di barriere
all’entrata o di solidi vantaggi competitivi. Per questo motivo, l’opzione di rinvio si presta particolarmente per la valutazione di investimenti tecnologici, ben protetti da un brevetto, che si trovano nelle incerte fasi preliminari della ricerca.
L’equazione più nota e agevole per la stima dell’opzione di espansione è quella ideata da Black e Scholes21 per valutare le opzioni europee22, con una protezione da dividendi. Nel caso della valutazione dell’opzione di rinvio, la formula originale va modificata,
in modo da computare il costo del rinvio, alla stregua di una rettifica per il tasso di dividendo. Nel modello Black e Scholes il valore di un’opzione call viene indicato come di
seguito:
Prezzo della call = SN(d1) – Xe–rt N(d2)
dove:
ln
d1 =
S
σ2
+ r+
t
X
2
σ 冑苳t
冢 冣 冢
冣
d2 = d1 – σ 冑苳t
Per tenere conto del pagamento dei dividendi, e per impiegarla per la prezzatura dell’opzione reale di rinvio, la versione della Black e Scholes può essere modificata come
segue (Damodaran, 2001, pp. 311-312):
Prezzo della call = Se–yt N(d1) – Xe–rt N(d2)
dove:
ln
d1 =
S
σ2
+ r–y+
t
X
2
σ 冑苳t
冢 冣 冢
冣
d2 = d1 – σ 冑苳t
La Tab. 1.8 elenca le variabili necessarie per valutare le opzioni call e le opzioni reali corrispondenti.
21
Tra gli addetti ai lavori, molti consensi sta guadagnando anche il metodo binomiale.
Le opzioni europee, a differenza di quelle americane, non prevedono la possibilità di un esercizio
anticipato rispetto alla data di scadenza dell’opzione.
22
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Tabella 1.8
La corrispondenza tra le variabili per la stima di un’opzione reale
di investimento e di una opzione finanziaria call
Opzione reale
Variabile
Opzione call
Valore dei flussi di cassa del progetto
S
Valore corrente dell’attività sottostante
(prezzo dell’azione)
Volatilità del progetto
σ
Volatilità dell’azione
Costo annuo del rinvio (solo per le opzioni
di rinvio): y = 1/numero degli anni di durata
dei diritti di esclusiva sul progetto
Y
Correzione per il tasso di dividendo:
y = dividendi/valore corrente dell’attività
Costo dell’investimento aggiuntivo per
esercitare l’opzione reale
X
Prezzo d’esercizio dell’opzione (strike price)
Funzioni di distribuzione normale cumulata
corrispondenti a queste variabili normali
standardizzate
N(d1); N(d2)
Valori della funzione di ripartizione
normale standard
Tempo di decadenza dei diritti sul progetto
o durata del vantaggio competitivo (CAP)
t
Durata o tempo di scadenza dell’opzione
Tasso di interesse privo di rischio
r
Tasso di interesse privo di rischio
Fonte: adattata da Luehrman (1998).
Ad un primo esame, gli input per il calcolo di una opzione di rinvio o espansione sono i
medesimi richiesti per le opzioni finanziarie. Nella pratica, tuttavia, stimare questi input
può essere piuttosto complesso. Il primo di questi è il valore corrente dell’attività sottostante (S), che rappresenta il valore attuale del progetto di espansione/rinvio, esclusi i costi
dell’investimento iniziale, se intrapreso alle condizioni del momento. X, invece, rappresenta il prezzo di esercizio dell’opzione (strike price), ovverosia il successivo investimento
necessario per realizzare il progetto. È prassi comune ipotizzare che questo costo non vari
in termini reali e che l’incertezza, di conseguenza, riguardi solo il valore S dei flussi di
cassa attesi dal progetto in valutazione. Il prezzo della call sale tanto più quanto più S > X,
anche se le equazioni di prezzatura delle opzioni valorizzano anche progetti con S < X
(VAN negativo). In assenza di incertezza circa il valore di S, infatti, la ROV non avrebbe
senso. È proprio questa varianza del valore attuale dei flussi di cassa che, invece, aggiunge
valore a un progetto, imponendone la valutazione alla stregua di un’opzione. L’esistenza di
opzioni reali è proprio ciò che consente di accettare progetti con un VAN negativo (S < X).
Il prezzo dell’opzione dipende in gran parte dalla varianza del valore attuale dei flussi di cassa (σ), aumentando notevolmente al passaggio da settori stabili a settori dinamici in cui le variabili economiche e i risultati attesi sono in continua evoluzione. È proprio questo l’input più difficile da stimare. A tal proposito è prassi scegliere una delle
seguenti tre strade (Damodaran, 2001)23:
1. disponendo dei dati storici, per esempio in un’impresa molto grande, si può utilizzare la varianza dei flussi di cassa riscontrati in progetti simili;
23
Ulteriori metodi di stima di σ sono rinvenibili in Mun (2002).
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2. assegnare delle probabilità ai vari scenari di mercato, valutare i relativi flussi di cassa
e calcolare poi la varianza dei diversi risultati ottenuti. Un metodo simile consiste
nello stimare la distribuzione di probabilità delle variabili economiche in grado di
influenzare i flussi di cassa del progetto e utilizzare delle simulazioni per calcolare la
varianza dei valori attuali che ne deriva;
3. infine, in modo più agevole, per quei progetti che riproducono a grandi linee l’attuale
modello di business, è possibile utilizzare la volatilità del prezzo delle azioni come
stima della banda di valori potenziali del progetto.
La durata dell’opzione (t) è un altro driver che, crescendo, spinge al rialzo anche il valore del prezzo delle opzioni. Il motivo è che con il passare del tempo cresce il valore della flessibilità. Anche questo, però, è un input difficile da stimare, perché richiede un’analisi strategica delle fonti del vantaggio competitivo o dei diritti di esclusiva sottesi alla
possibilità che il progetto continui a generare rendimenti superiori al costo del capitale.
A tal proposito, infatti, s’ipotizza che, decaduti tali diritti o vantaggi competitivi, l’intensificarsi della concorrenza renda impossibile conseguire rendimenti superiori al costo
del capitale, portando a zero il VAN del progetto stesso e il valore dell’opzione (Damodaran, 2001). Il tasso di interesse privo di rischio (r) va misurato con riferimento alla
stessa durata assegnata all’opzione reale (t).
Il costo del rinvio (y) di un’opzione reale viene, invece, misurato ipotizzando che i
diritti sul progetto, o i relativi vantaggi competitivi, decadano dopo un certo periodo
di tempo, con il quale, come detto, deve coincidere la durata dell’opzione. Poiché, a
quel punto, l’ingresso di nuovi concorrenti renderà impossibile conseguire rendimenti
superiori al costo del capitale, ogni anno di rinvio rappresenta una perdita dei flussi di
cassa che creano valore. Di conseguenza, (y) sarà uguale a 1 diviso per gli anni della
durata dell’opzione (1/n). Ipotizzando, quindi, una durata di 5 anni dell’opzione, (y)
sarà pari al 20 per cento (1/5). È prassi non applicare un costo di rinvio alle opzioni di
espansione, poiché il più delle volte le imprese ne dispongono senza avere un preciso
orizzonte temporale entro cui dover decidere se effettuare o meno l’espansione
(Damodaran, 2001, p. 332 ed. it.).
La Tab. 1.9 calcola, nel concreto, le variazioni dei prezzi dell’opzione reale di espansione, espressi in percentuale di S, in funzione degli input della Black e Scholes. Si noti,
a tal proposito, che l’equazione utilizzata valorizza il prezzo delle opzioni reali anche
quando il VAN del progetto è negativo (S/X < 100). Questa è la dimostrazione che la
flessibilità strategica aggiunge valore a quanto stimato con il DCF. Ciò vale solamente,
però, se esistono le condizioni (σ) affinché possa variare il valore attuale atteso dei flussi di cassa e dei vantaggi competitivi, o dei diritti d’esclusiva sul progetto, sostenibili
sino al termine della vita dell’opzione (v. Tab. 1.9).
1.7.3
Alcuni test fondamentali per giustificare il valore di un’opzione reale
A questo punto del discorso è opportuno consigliare la massima prudenza nell’utilizzo della ROV, specialmente nei casi in cui esso è finalizzato a giustificare premi elevati rispetto ai valori di stima ottenuti con i metodi tradizionali. Gli input del modello, infatti, sono molto difficili da ottenere e risultano sempre viziati da un’irrimediabile imprecisione latente. Tali input, inoltre, sono facilmente manipolabili, il che
consente, almeno teoricamente, di avvalorare qualsiasi conclusione. Il valore espres-
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1 | La «catena del valore per l’azionista»: l’anello mancante
Tabella 1.9
Le variazioni dell’opzione reale di espansione al mutare degli input
della Black e Scholes
Durata dell’opzione di espansione 18 mesi; r = 4,5%; prezzi delle opzioni espressi come percentuale di S; X stimato al VA
S /X
σ
0,25
0,50
0,75
1,00
1,25
0,50
0,31
6,50
17,47
29,61
41,47
0,75
4,70
16,37
28,49
40,50
50,66
1,00
15,32
26,67
37,59
47,79
57,09
1,25
27,63
35,86
44,96
53,77
61,91
1,50
38,32
43,62
50,96
58,52
65,68
Durata dell’opzione di espansione 30 mesi; r = 4,5%; prezzi delle opzioni espressi come percentuale di S; X stimato al VA
S/X
σ
0,25
0,50
0,75
1,00
1,25
0,50
1,64
13,62
29,18
43,33
57,77
0,75
9,23
24,89
39,85
53,28
64,81
1,00
20,74
34,70
47,79
59,47
69,49
1,25
32,15
42,81
53,90
64,08
72,89
1,50
41,77
49,43
58,75
67,66
75,51
Fonte: adattata da Brealey e Myers (1996).
so tramite la ROV, infine, deve essere giustificato in base alle caratteristiche fondamentali di un’opzione finanziaria, che presuppongono la necessaria esistenza di un
diritto esclusivo a ottenere un guadagno, in caso di cambiamento nel valore dell’attività sottostante, a fronte di un investimento iniziale (il prezzo di acquisto dell’opzione). Per dimostrare che «non tutti gli investimenti contengono opzioni e non tutte le
opzioni, anche se presenti, hanno valore», Damodaran (2001, p. 336) propone alcuni
duri test per l’attribuzione del valore alle opzioni reali, da noi di seguito riportati e
commentati.
■
■
Il primo investimento è un requisito indispensabile per la successiva espansione (o il
successivo investimento)? Se così non fosse, quanto è necessario il primo investimento a quello successivo? Nel caso di un’opzione finanziaria, il prezzo di acquisto dell’opzione funziona da investimento iniziale, assegnando un diritto esclusivo a un guadagno al crescere del valore dell’attività sottostante. In assenza di un investimento
iniziale, che aggiunge valore all’analisi DCF creando un diritto a sfruttare un tipo di
flessibilità strategica, non può esistere un’opzione reale. Se così non fosse, tutto
avrebbe valore, a prescindere dalle garanzie circa i futuri rendimenti attesi in eccesso
rispetto al costo del capitale.
L’impresa possiede un diritto esclusivo sulla successiva espansione (o sul successivo
investimento)? In caso contrario, l’investimento iniziale offre almeno all’impresa un
significativo vantaggio competitivo negli investimenti successivi? A tal proposito,
Damodaran osserva chiaramente che il valore di una opzione reale non deriva dai
flussi di cassa generati dal successivo investimento, ma dal fatto che questi flussi rap-
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■
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Parte prima | Le basi dell’i-Valuation
presentano un rendimento superiore al costo del capitale, aprendo così il discorso
relativo all’analisi delle fonti dei vantaggi competitivi attesi. I rendimenti superiori al
costo del capitale costituiscono un risultato straordinario, frutto di qualche vantaggio
competitivo dell’impresa o di barriere all’entrata che limitano l’azione della concorrenza. La possibilità di rendimenti sopra il costo del capitale, infatti, attira nuovi concorrenti, e la concorrenza, a sua volta, elimina la possibilità di conseguire rendimenti
superiori al WACC. Rispetto all’analisi di Damodaran, visti i più autorevoli risultati
di ricerca sulla protezione dell’innovazione, siamo solo più scettici circa la possibilità
di conseguire diritti esclusivi o solidi vantaggi competitivi attraverso i brevetti, in settori diversi dalla chimica fine e dal farmaceutico24.
Quanto sono sostenibili i vantaggi competitivi e/o i diritti esclusivi sulla successiva
espansione (o sul successivo investimento)? Poiché, come detto al punto precedente, il valore di un’opzione deriva dal fatto che i flussi di cassa del successivo investimento generino un rendimento superiore al costo del capitale, questo interrogativo è funzionale alla determinazione della durata (t) di un’opzione. Non ha senso,
infatti, computare nel valore dell’opzione un periodo di durata privo di una protezione dalla concorrenza che garantisca uno scarto di rendimento rispetto al costo
del capitale25.
I test proposti da Damodaran ci rimandano all’analisi dei generatori economici del valore (Quadrante 1 della «catena del valore per l’azionista»). Valutare il portafoglio di
opzioni reali di espansione e rinvio, quindi, significa valutare le fonti dei vantaggi competitivi attesi e dei diritti di esclusiva che garantiranno, ai successivi investimenti, un
rendimento al di sopra del costo del capitale. Un’opzione reale, in definitiva, avrà un
valore rilevante, tale da giustificarne il computo in una valutazione DCF, solo se il primo investimento è un requisito indispensabile per la futura crescita e se crea diritti di
esclusiva o solidi vantaggi competitivi sostenibili nel tempo. Ciò vale anche per le
opzioni di espansione computate in sede di acquisizione d’intere imprese. Se queste
garantiscono solo l’opzione di espandersi all’interno di un nuovo settore, ma non il diritto a farlo in modo esclusivo e/o godendo di significativi vantaggi competitivi rispetto
alla concorrenza, esse non avranno un valore sostanziale, a prescindere dal metodo di
prezzatura dell’opzione selezionato.
24 La famosa ricerca svolta presso l’Università di Yale da parte di Levin et al. (1987) dimostra che i brevetti rappresentano uno strumento efficace di protezione dall’imitazione solo per le innovazioni tecnologiche di prodotto nel settore farmaceutico e in quello della chimica fine. Nei restanti settori, la protezione dell’innovazione è affidata, con efficacia alterna, ad altri strumenti di natura organizzativa (segretezza, rapidi spostamenti lungo la curva d’apprendimento, politiche commerciali, riduzione dei lead
time ecc.). L’inefficacia dei brevetti nel proteggere l’innovazione, nella maggior parte dei settori, è
dimostrata anche da più recenti ricerche (Cohen, Nelson e Walsh, 2000).
25 A tal proposito, Fernandez (2002, p. 534) osserva: «A real option will only be valuable if it provides
a sustainable competitive advantage. This competitive advantage basically depends on the nature of the
competitors (normally, if competition is fierce and the competitotors are strong, the advantage’s sustainability will be less) and on the nature of the competitive advantage (if it is a scarce resource, for example scarce buildable land, the advantage’s sustainability will be greater).
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1 | La «catena del valore per l’azionista»: l’anello mancante
1.8
Il profitto economico e gli indicatori finanziari del valore
per l’azionista (Quadrante 2 – Le ipotesi valutative di base)
Nelle sezioni precedenti abbiamo dimostrato che il valore attuale dei flussi di cassa attesi
per l’impresa (FCFF), scontati a un tasso tale da rifletterne la rischiosità (WACC), rappresenta la misura più appropriata del valore dell’impresa. La ROV, in aggiunta, qualora sussistano realmente i presupposti del valore d’eventuali opzioni di espansione o di rinvio,
permette di colmare le lacune del DCF, allargando lo spettro della valutazione anche al
valore della flessibilità manageriale. Ciononostante, il quadro dei driver del valore non è
ancora completo. Il DCF e la ROV, infatti, riassumono le prestazioni in un dato unico, difficilmente utilizzabile come indicatore di breve termine per interpretare e spiegare agevolmente dati storici e proiezioni. Non ha molto senso, inoltre, valutare la performance aziendale attraverso il FCFF annuo, se anche un suo segno negativo può essere un ottimo indicatore di creazione di valore, qualora l’impresa sottragga risorse al NOPAT (tasso di reinvestimento negativo) per crescere investendo in progetti che le garantiranno in futuro un
rendimento maggiore del costo del capitale. Il FCFF annuo, infine, è facilmente manipolabile, per esempio riducendo investimenti di carattere strategico per la crescita futura.
1.8.1
Il FCFF espresso in funzione di ROIC e g
Spostandoci ancora verso destra (Quadrante 2) lungo il nostro diagramma della «catena
del valore per l’azionista», troviamo gli indicatori finanziari atti a raffigurare efficacemente i processi di creazione del valore nel breve periodo. Per risalire a tali indicatori
finanziari è sufficiente scomporre il FCFF nei suoi generatori più diretti: il tasso g di
crescita e il ROIC. Il rendimento sul capitale investito (ROIC) è determinato dal rapporto tra il reddito operativo al netto delle tasse (NOPAT) e il capitale investito a inizio
anno nelle relative attività operative (operations):
ROIC =
NOPAT
Capitale investito
È prassi comune stimare gli input del ROIC facendo riferimento solo ai flussi di reddito
e alle attività riferibili alla gestione operativa, ovverosia sottraendo dal capitale investito
tutte le attività non strumentali rispetto alle operazioni e non computando nel NOPAT i
relativi flussi di liquidità. Il valore di tali attività andrà poi calcolato separatamente e
aggiunto al valore d’impresa. Per una più corretta stima del NOPAT e del capitale investito operativo è opportuno eseguire le rettifiche contabili già ricordate nella sezione relativa alla stima dei FCFF (capitalizzazione dei leasing operativi, spese di ricerca ecc.).
Il tasso di crescita g si ottiene, invece, moltiplicando il ROIC marginale atteso dai
nuovi investimenti per il tasso di reinvestimento (IR):
Tasso di crescita = ROICI ·
I
NOPAT
dove:
I/NOPAT = tasso di reinvestimento (IR);
ROICI = ROIC marginale atteso dai nuovi investimenti;
I
= investimento complessivo annuo al netto dell’ammortamento.
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Parte prima | Le basi dell’i-Valuation
Per dimostrare che ROIC e g rappresentano i più diretti generatori finanziari del valore
d’impresa, dobbiamo esprimere i FCFF in termini di NOPAT e tasso di reinvestimento:
冢
FCFF = NOPAT · 1 –
I
NOPAT
冣
In base alla relazione tra g, ROIC e IR (g = ROIC · IR), è possibile sostituire il tasso di
reinvestimento (IR), ottenendo il FCFF dalla seguente espressione:
冢
FCFF = NOPAT · 1 –
g
ROICI
冣
L’analisi del ROIC e del tasso di crescita ci permette di entrare all’interno dei meccanismi di creazione del valore per l’azionista. La Tab. 1.10 illustra l’azione di questi più
diretti generatori finanziari della creazione del valore, mostrando la sensibilità degli esiti di stima alle variazioni di ROIC e g.
Si noti che si crea nuovo valore per l’azionista solo se il ROIC è maggiore del costo
del capitale. Se il ROIC coincide con il WACC (entrambi al 9 per cento), la crescita
dimensionale non aggiunge valore per gli azionisti: i nuovi investimenti, infatti, hanno
un VAN pari a zero. La simulazione dimostra anche che crescere investendo in progetti
con un ROIC < WACC significa distruggere valore per l’azionista. Infine, dal nostro
esempio emerge che, quando il ROIC è elevato, è più facile incrementare il valore per
l’azionista attraverso un aumento del tasso di crescita, piuttosto che cercando di incrementare ulteriormente il rendimento del capitale investito. Questo spiega, da un lato, la
convenienza per gli investitori di accettare flussi di cassa minori, a fronte di rendimenti
attesi dai nuovi investimenti superiori al costo del capitale, e, dall’altro, i pericoli di un
orientamento al breve che lede le prospettive di crescita futura dell’impresa.
La dimostrazione che la crescita dimensionale non aggiunge valore se ROIC =
WACC può essere effettuata anche attraverso la formula dei generatori del valore per la
stima del valore residuo (modello della crescita stabile):
Valore residuo =
NOPATn+1 (1 – Tasso di reinvestimento)
WACCn+1 – gn
Tabella 1.10 Il valore d’impresa per varie combinazioni di ROIC e g
ROIC
Crescita (g) NOPAT
5,00%
7%
9%
7,50%
922,02
881,66
834,86
Distruzione
di valore
9%
1.000,00
1.000,00
1.000,00
Indifferenza
12,50%
1.109,18
1.165,67
1.231,19
Creazione di
valore 15,50%
1.163,516
1.248,128
1.346,26
20,00%
1.214,46
1.325,43
1.454,13
Ipotesi: NOPAT iniziale = 90; WACC = 9%; periodo esplicito di previsione 10 anni; valore residuo stimato
in ipotesi di ROIC = WACC
Fonte: adattata da Copeland, Koller e Murrin (2000, p. 78).
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Tabella 1.11 Il valore residuo (TV) per varie combinazioni di ROICI e crescita (g)
ROICI
Crescita (g) NOPAT
3,00%
5%
7%
7,50%
900,00
750,00
300,00
9%
1.000,00
1.000,00
1.000,00
12,50%
1.140,00
1.350,00
1.980,00
15,50%
1.209,677
1.524,194
2.467,74
20,00%
1.275,00
1.687,50
2.925,00
Ipotesi: NOPATn+1 = 90; WACCn = 9%. Tutti i valori sono stimati con il modello della crescita stabile (TV =
= FCFFn+1/(WACCn+1 – gn)). Il valore residuo stimato con la formula della convergenza (TV = NOPATn+1/WACCn)
è pari a 100.
Sostituendo il tasso di crescita stabile g in base alla relazione che lo lega al tasso di reinvestimento e al ROIC incrementale (g = IR · ROICI), si ottiene:
Valore residuo =
NOPATn+1 (1 – Tasso di reinvestimento)
WACCn+1 – (Tasso di reinvestimento × ROICI)
Ponendo adesso la redditività marginale dei nuovi investimenti (ROICI) uguale al
WACC, giungiamo a:
Valore residuoROIC=WACC =
NOPATn+1 (1 – Tasso di reinvestimento)
NOPATn+1
=
WACCn+1 – (Tasso di reinvestimento · WACCn+1)
WACCn+1
A questo punto, il tasso di crescita stabile non compare più nella formula e l’equazione, in termini di valore creato per l’azionista, dà lo stesso risultato della formula di
valutazione di un’impresa in stato stazionario (steady state). La Tab. 1.11 dimostra, con
esempi numerici, quanto appena affermato circa la relazione tra ROIC, WACC e g. La
crescita non aggiunge valore in tutti i casi in cui ROIC = WACC. Realizzandosi questa condizione (nel nostro esempio il ROIC uguaglia il WACC al 9 per cento), la stima
del valore residuo (TV) in ipotesi di crescita stabile (modello della crescita stabile –
FCFFn+1/(WACCn+1 – gn)) dà il medesimo risultato di quella effettuata ipotizzando lo
stato stazionario (formula della convergenza – NOPATn+1/WACCn+1).
1.8.2
Il profitto economico come indicatore di efficienza economica
di breve periodo
Per esprimere i generatori finanziari del FCFF (ROIC e tasso di crescita) in un unico
dato numerico, è necessario utilizzare il profitto economico come indicatore annuo delle performance dell’impresa. Il profitto economico è un indicatore interno all’impresa
che stima l’efficacia dell’impiego del capitale investito. Più in particolare, il profitto
economico rappresenta il sovrareddito che l’iniziativa imprenditoriale è riuscita a generare, dopo che sono stati remunerati i terzi finanziatori e i sottoscrittori del capitale di
rischio. Il flusso di reddito che residua da questo calcolo è un risultato rappresentativo
del contributo del singolo esercizio alla creazione del valore (quello stesso valore
espresso in maniera sintetica dal VAN per tutta la durata prevista dell’investimento). La
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differenza principale tra il profitto economico e l’utile contabile è l’addebito di tutti gli
oneri per l’utilizzo del capitale (compreso un costo opportunità per il capitale proprio) e
non solo degli interessi passivi sulle forme di debito. Il profitto economico può essere
stimato attraverso la seguente formula:
Profitto economico = (ROIC – WACC) · CI
Il profitto economico è dunque la differenza tra ROIC e WACC moltiplicata per il capitale investito a inizio anno (metodo di stima finanziario). Il tasso di crescita, in questo
caso, è connesso al ritmo con cui cresce annualmente di dimensioni il capitale investito
d’impresa, attraverso il fabbisogno di reinvestimento, e alle variazioni del ROIC. Applicando l’approccio di stima operativo, il profitto economico può essere specificato anche
come differenza tra NOPAT e oneri per il capitale impiegato (capital charge):
Profitto economico = NOPAT – Oneri per il capitale impiegato = NOPAT – (WACC · CI)
Da un punto di vista sostanziale, il profitto economico non può essere considerato una
novità. In finanza, per esempio, il concetto che un investimento crea valore solo se il suo
rendimento genera un surplus rispetto al costo del capitale (e, quindi, ha un VAN maggiore di zero), è noto da tempo. In economia, invece, l’equivalente concettuale e matematico della capacità di generare rendimenti in eccesso rispetto al costo del capitale
(profitto economico) è la rendita economica, intesa come puro surplus dopo che tutti i
fattori produttivi sono stati remunerati, compreso anche un costo opportunità per il capitale proprio. Già Alfred Marshall, David Ricardo o John Stuart Mill, per esempio, applicavano compiutamente alle proprie teorie il concetto di rendita economica. In strategia,
infine, il surplus tra rendimento e costo del capitale (rendita economica) è il metro con
cui si misura il vantaggio competitivo di un’impresa (Peteraf, 1993; Barney, 2002). Il
profitto economico, in virtù di queste analogie concettuali e matematiche con il VAN, la
rendita economica e il vantaggio competitivo, deve essere considerato l’anello di congiunzione tra la finanza, l’economia e il management strategico.
Una delle metriche di profitto economico più conosciute è l’Economic Value Added
(EVA®), un marchio registrato dalla Stern Stewart & Co. per un utilizzo alternativo al
DCF e come misura di performance interna ed esterna all’impresa (Market Value
Tabella 1.12 Il calcolo dell’EVA® alla Applied Power
Dati in milioni di $
NOPAT
Capitale impiegato nell’attività operativa
Rendimento economico (ROIC)
Costo del capitale in % (WACC)
WACC × CI
ROIC – WACC
EVA® = (ROIC – WACC) × CI
EVA® = NOPAT – WACC × CI
Fonte: tratta da Stewart (1991, p. 212 ed. it.).
1989
1988
1987
1986
25,60
153,90
16,63%
11,10%
17,08
5,53%
8,52
8,52
19,10
99,90
19,12%
12,00%
11,99
7,12%
7,11
7,11
9,50
67,20
14,14%
13,50%
9,07
0,64%
0,43
0,43
5,40
55,60
9,71%
10,90%
6,06
–1,19%
–0,66
–0,66
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Added). La notorietà di questa metrica è cresciuta notevolmente, specialmente dopo il
1993, quando la prestigiosa rivista economica «Fortune» per la prima volta ha pubblicato una dettagliata descrizione del concetto di EVA® e delle tecniche della Stern Stewart,
informando dei successi ottenuti dall’applicazione di tale metodologia all’interno di
importanti imprese americane. La Tab. 1.12 riporta il calcolo dell’EVA®, così come presentato da Stewart (1991).
1.8.3
Il valore intrinseco dell’impresa misurato in funzione dei profitti
economici attesi: la convergenza con il metodo DCF
Il profitto economico può essere efficacemente utilizzato come misura di valore intrinseco
dell’impresa alternativa al DCF. Poiché, come dimostrato nell’Appendice 1A del presente
Capitolo, il profitto economico rappresenta un’estensione del concetto di Valore Attuale
Netto (VAN), il valore d’impresa stimato in funzione del profitto economico sarà calcolato nel modo seguente:
Valore dell’impresa = Capitale investito iniziale +
+ Valore attuale dei profitti economici attesi
La stima del valore intrinseco dell’impresa, effettuata in funzione dei profitti economici
attesi, riflette le proprietà del VAN, basandosi sulla logica secondo cui, se in tutti gli
esercizi futuri l’impresa dovesse conseguire un rendimento del capitale uguale al suo
costo, il valore attuale dei suoi FCFF sarebbe uguale al capitale investito iniziale (come
dimostrato nella Tab. 1.10). In altre parole, quando il rendimento del capitale investito è
pari al suo costo non vi sarà nessun premio equivalente alla somma delle quantità di
valore per gli azionisti creato in più ogni anno. Se i profitti economici attesi sono negativi, dal capitale investito iniziale va sottratta la somma dei valori attuali delle inefficienze economiche previste. Nel concreto, la stima del valore dell’impresa in funzione del
profitto economico può essere espressa come di seguito:
t=n
Valore dell’impresa = CI + ∑
t=1
Profitto economicot
TV
+
t
(1 + WACC)
(1 + WACC)n
dove:
Valore residuo (TV)
=
Profitto economicon+1
;
WACCn+1 – gn
Profitto economicon+1 = Valore normalizzato del profitto economico nel primo anno
successivo al periodo esplicito di previsione26.
La Tab. 1.13 dimostra la convergenza tra il valore intrinseco d’impresa ottenuto con il
DCF e quello misurato in funzione dei profitti economici attesi. A parità d’ipotesi valu-
26 Copeland, Koller e Murrin (2000) hanno sviluppato la seguente formula per il calcolo del valore residuo del profitto economico, in funzione dei generatori finanziari del valore ROIC e g:
g
(ROIC – WACC)
NOPATn+1
ROIC
Profitto economicon+1
VR profitto economico =
+
WACC · (WACC – g)
WACC
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Parte prima | Le basi dell’i-Valuation
Tabella 1.13 Il valore dell’impresa in funzione dei profitti economici attesi: la convergenza
con il DCF
Dati in milioni di euro
Anno 1
Anno 2
Anno 3
Anno 4
Anno 5
Residuo
NOPAT
ROIC
17,55
35,00%
50,00
50,00
18,69
35,00%
54,00
54,00
19,63
34,00%
57,51
57,51
20,31
34,00%
60,39
60,39
20,72
33,00%
62,50
62,50
21,13
33,00%
63,75
63,75
2,73
2,24
1,64
0,97
0,78
57,51
2,78
36,00%
5,40
13,29
10,98
0,64
60,39
2,78
36,00%
5,75
13,87
10,42
0,47
62,50
2,78
36,00%
6,04
14,27
9,75
0,28
63,75
2,78
36,00%
6,25
14,47
8,98
184,47
22,39
32,82
42,57
51,55
Capitale investito iniziale
(+) Investimento incrementale
in capitale fisso netto
3,11
(+) Investimento incrementale
in capitale circolante
0,89
Capitale investito finale
54,00
Indice di rotazione del capitale
2,78
CI/Vendite
36,00%
WACC · CI
5,00
Profitto economico
12,55
Valore attuale del profitto economico 11,41
Profitto economico residuo
Stima del valore d’impresa
Valore attuale cumulativo
del profitto economico
(+) Valore attuale del profitto
economico residuo
(+) Valore attuale della variazione
di capitale nell’anno 5*
(+) Capitale investito iniziale
(=) Valore dell’impresa
11,41
6,37
14,76
114,54
–
50,00
216,09
* Questo riconcilia le ipotesi di crescita stabile, ROIC e capitale investito effettuate per stimare il profitto economico
residuo; si veda in proposito Damodaran (2001).
tative, il risultato ottenuto è lo stesso dell’esempio di valutazione DCF, riportato in precedenza (v. Tab. 1.6).
1.8.4
L’albero del ROIC
Nel secondo Quadrante della nostra «catena del valore per l’azionista» (Indicatori finanziari del valore per l’azionista – Ipotesi valutative di base) sono messi in luce i meccanismi
finanziari attraverso cui diverse combinazioni di ROIC, WACC e g si trasformano in un
valore intrinseco dell’impresa, misurabile in funzione dei flussi di cassa o dei profitti economici attesi. È il rapporto tra ROIC e WACC che determina la creazione o la distruzione di
valore, in funzione della quantità di capitale già investito e di quella necessaria a finanziare
la crescita futura. I driver finanziari del valore, dunque, sono la redditività del capitale investito nelle attività in essere (ROIC), la redditività dei nuovi investimenti (ROICI), il costo
medio ponderato del capitale (WACC) e l’ammontare del capitale investito (CI) e del reinvestimento (I). Il tasso di reinvestimento (IR), a sua volta, dipende dal tasso g e dal NOPAT.
Il rapporto che lega ROIC, WACC e g può essere letto anche attraverso i tre «principi-guida» per la creazione del valore d’impresa formulati da Damodaran (1999):
01
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1. secondo il principio di investimento, in particolare, un’impresa genera valore solo se
riesce a ottenere, dagli investimenti nelle strategie in essere e da quelli necessari a
finanziare le opzioni di sviluppo, un rendimento superiore al costo del capitale impiegato (ROIC > WACC);
2. il principio di finanziamento, invece, indica di scegliere la struttura finanziaria che
massimizzi il valore degli investimenti effettuati, in base al rapporto tra equity e debito (stimati a valori di mercato) che minimizzi il WACC (WACC < ROIC)27, e sia in
linea con il tipo d’investimento da effettuare;
3. infine, il principio dei dividendi suggerisce di non reinvestire e di restituire il denaro
(tutti i flussi di cassa in eccesso) agli azionisti in assenza d’opportunità d’investimento in grado di generare un rendimento superiore al WACC, ovverosia quando non vi
sono possibilità concrete di creare valore (g = 0 se ROIC ≤ WACC). La restituzione
dei flussi di cassa in eccesso (excess cash), in particolare, può avvenire, conformemente alle preferenze degli azionisti, attraverso dividendi straordinari, il riacquisto
d’azioni proprie (buy-back) o uno spin-off.
Un sistema particolarmente efficace per avvicinarsi ancora di più alle fonti ultime del
valore d’impresa è «l’albero del ROIC» (Copeland, Koller e Murrin, 2000). La ramificazione dell’albero ha inizio con la scomposizione del ROIC nelle sue componenti basilari:
ROIC =
NOPAT
CI
Con il secondo passaggio si arriva al ROIC al netto delle imposte, stimato in funzione
del reddito operativo (EBIT):
ROIC =
EBIT
· (1 – t)
CI
Rapportando semplicemente il reddito operativo al lordo delle tasse (EBIT) e il capitale
investito con i ricavi, otteniamo:
EBIT
EBIT Ricavi
=
·
CI
Ricavi
CI
A questo punto, abbiamo ramificato il ROIC al lordo delle tasse in altre due componenti fondamentali:
■
■
il margine operativo (OPM = EBIT/ricavi), che misura l’efficienza con cui l’azienda
converte i ricavi in profitti economici e flussi di cassa;
l’indice di rotazione del capitale (ricavi/capitale investito), che dà contezza dell’efficienza con cui l’azienda impiega il capitale investito.
Come riportato nella Tab. 1.14, il margine operativo (OPM) e l’indice di rotazione del
capitale possono, a loro volta, essere scomposti in successivi indicatori che rapportano
27
Per un esame approfondito della relazione tra differenti rapporti d’indebitamento (i cui pesi nella
struttura finanziaria vanno calcolati a valori di mercato), WACC e valore intrinseco dell’impresa, cfr.
Damodaran (1999).
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Parte prima | Le basi dell’i-Valuation
Tabella 1.14 L’albero del ROIC: una simulazione
Ipotesi
ROIC
1 – aliquota fiscale effettiva sul reddito operativo (=)
ROIC prima delle imposte (=) (A) · (B)
A) Reddito operativo/ricavi (OPM) (=) 1 – (C + D + E)
B) Ricavi/capitale investito (Indice Rotazione Capitale) (=) 1 : (F + G + H)
C) Costo del venduto/vendite
D) Spese generali, amministrative e di vendita/vendite
E) Ammortamenti dell’anno/vendite
F) Capitale fisso netto/vendite
G) Capitale circolante operativo/vendite
H) Altre attività/vendite
1
2
3
17,14%
60,00%
28,6%
15%
1,905
52,7%
28,8%
3,50%
38,50%
14,00%
0,00%
20,00%
60,00%
33,3%
15%
2,222
52,7%
28,8%
3,50%
35,00%
10,00%
0,00%
26,86%
60,00%
44,8%
24%
1,905
48,0%
25,0%
3,50%
38,50%
14,00%
0,00%
alle vendite diverse voci di spesa (per esempio costo del venduto, spese di vendita, generali e amministrative, ammortamenti ecc.) e varie componenti del capitale investito (capitale circolante, attivo fisso ecc.). Questo procedimento è particolarmente utile per individuare direttamente le voci maggiormente critiche, di costo o d’investimento, su cui agire
per incrementare il ROIC delle attività in essere o dei nuovi progetti d’investimento.
L’albero del ROIC sintetizza le stesse variabili da cui dipende il valore intrinseco dei
flussi di cassa attesi nella formula di Rappaport (1986): la crescita attesa dei ricavi (g),
il margine operativo atteso in futuro, l’aliquota fiscale e l’indice di rotazione del capitale (ricavi/capitale investito). La crescita dei ricavi e il margine operativo (OPM) determinano il reddito operativo atteso in futuro, in base alla seguente relazione:
Reddito operativo (EBIT) = Ricavin–1 · g · OPM atteso
La crescita dei ricavi e l’indice di rotazione del capitale determinano, invece, il fabbisogno di reinvestimento (I). Il fabbisogno di reinvestimento, infatti, può essere verosimilmente misurato moltiplicando la crescita attesa in termini reali delle vendite per il tasso
di reinvestimento atteso in funzione dell’indice di rotazione del capitale (1/indice di
rotazione del capitale):
Crescita attesa dei ricavi in termini reali
Fabbisogno di reinvestimento =
Indice di rotazione del capitale
L’equazione secondo cui
FCFF = EBIT (1 – t) – Fabbisogno di reinvestimento,
può essere quindi espressa anche in funzione delle diverse ramificazioni dell’albero del
ROIC:
FCFF = Ricavin–1 · g · OPM atteso · (1 – t) –
Crescita attesa dei ricavi in termini reali
Indice di rotazione del capitale
A parità di condizioni, di conseguenza, un cambiamento positivo atteso in una qualunque delle ramificazioni dell’albero del ROIC comporterà un incremento dei FCFF (o dei
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profitti economici attesi) e, mediatamente a questo, del valore intrinseco dell’impresa:
un maggiore indice di rotazione del capitale riduce i fabbisogni di reinvestimento, mentre una maggiore crescita dei ricavi o del margine operativo (OPM) comporta un aumento del reddito operativo atteso (EBIT).
1.9
L’analisi dei generatori economici del valore per l’azionista:
l’intensità e la durata dei vantaggi competitivi attesi
(Quadrante 1)
Dopo aver scomposto le misure più complesse, lungo i Quadranti 4, 3 e 2 della nostra
«catena del valore per l’azionista», fino ad arrivare ai driver finanziari elementari che compongono l’albero del ROIC, disponiamo ancora soltanto di indicatori «a posteriori» della
performance. Gli indicatori finanziari del valore per l’azionista (ipotesi valutative di base),
descritti nel Quadrante 2, per quanto ulteriormente disarticolati, infatti, non riescono a fare
luce sul «perché» dei risultati di un’impresa e a individuare gli sviluppi della performance
futura. L’utilizzo di dati storici, ai fini della stima dei FCFF e dei profitti economici attesi,
in alcuni casi può essere addirittura fuorviante, poiché tali indicatori finanziari riflettono
situazioni passate e, quindi, destinate a mutare in funzione del cambiamento continuo delle variabili competitive e di mercato (Copeland, Koller e Murrin, 2000, p. 81).
Per ovviare a questi limiti rilevanti è necessaria l’analisi dei «generatori economici
del valore per l’azionista» (Quadrante 1 della «catena del valore per l’azionista»), tesa
alla valutazione dell’intensità e della durata (CAP) dei vantaggi competitivi attesi. L’intensità e la durata (CAP) dei vantaggi competitivi attesi rappresentano i driver economici più diretti della creazione di valore per l’azionista (Mauboussin e Johnson, 1997;
Mauboussin e Bartholdson, 2002). L’intensità del vantaggio competitivo, in particolare,
determina lo scarto tra il rendimento e il costo del capitale (ROIC – WACC) che l’impresa può ottenere, sia sui suoi investimenti in essere (asset in place), sia su quelli futuri (valore della crescita). L’intensità del vantaggio competitivo, di conseguenza, è un
costrutto scomponibile in due diversi fattori:
1. lo scarto tra il ROIC e il WACC relativo alle attività in essere;
2. lo scarto atteso tra il ROIC incrementale (ROICI) e il WACC, che a sua volta determina
la quantità di nuovo capitale (I) che l’impresa potrà investire a un tasso di rendimento
superiore al suo costo e la crescita attesa (in base alla nota relazione g = IR × ROICI).
Si presume che l’intensità dei vantaggi competitivi attesi influenzi in modo imprescindibile le politiche di reinvestimento (I e IR), in funzione del principio finanziario secondo
cui la crescita aziendale aggiunge nuovo valore per l’azionista solo se il nuovo capitale
investito rende un tasso superiore al suo costo. In assenza di vantaggi competitivi attesi,
in grado di garantire un ROIC marginale (ROICI) superiore al WACC, infatti, la strategia
che massimizza il valore per l’azionista, è quella di «chiudere i rubinetti» degli investimenti e restituire i FCFF in eccesso agli investitori (principi finanziari di «investimento»
e di «dividendo»: Damodaran, 1999). In base alla relazione g = ROICI · IR, quindi, l’intensità del vantaggio competitivo determina anche il tasso di crescita g.
La seconda dimensione (economica) del processo di creazione di valore per l’azionista è la durata del vantaggio competitivo (Competitive Advantage Period, CAP), vale a
dire il periodo durante il quale si stima che l’impresa riuscirà a reinvestire il capitale
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disponibile a un tasso superiore al suo costo. Il concetto di CAP si fonda sugli assunti
della teoria economica neoclassica, riconoscendo esplicitamente che ogni investimento
del capitale disponibile a un tasso di rendimento superiore al suo costo è sempre destinato, nel momento in cui svaniscono i vantaggi competitivi o le barriere all’entrata che
lo proteggono, a essere annullato dalle forze della concorrenza. Miller e Modigliani
(1961) sono stati i primi a formalizzare il concetto di CAP all’interno degli algoritmi
valutativi, nel loro seminale articolo sulla valutazione delle imprese. L’equazione M&M
può essere sintetizzata come segue28:
(3) = (1) + (2)
(1)
(2)
Valore d’impresa
(asset side)
Attività in essere
Piani futuri di crescita
V=D+E
=
NOPAT
WACC
+
I · (ROIC – WACC) · CAP
WACC · (1 + WACC)
dove:
NOPAT
=
WACC
=
I
=
(ROIC – WACC) =
CAP
reddito operativo al netto delle tasse;
costo medio ponderato del capitale;
nuovi investimenti netti annui in capitale fisso e circolante;
misura finanziaria dell’intensità dei vantaggi competitivi attesi che
permettono di reinvestire a un tasso di rendimento superiore al WACC;
= durata dei vantaggi competitivi attesi che permettono di reinvestire a
un tasso di rendimento superiore al WACC.
Esprimendo la formula in funzione del CAP otteniamo29:
CAP =
(Valore asset side · WACC – NOPAT) · (1 + WACC)
I · (ROIC – WACC)
L’equazione M&M, anche se fornisce un risultato non sempre caratterizzato da assoluta
precisione30, ha il pregio di svelare indubbiamente il ruolo dell’intensità e della durata
(CAP) dei vantaggi competitivi attesi nei processi di misurazione del valore d’impresa. Il
concetto di CAP, nella prassi, trova il suo principale utilizzo ai fini della determinazione
dell’orizzonte di previsione esplicita (o orizzonte temporale esplicito T o n), che dovrebbe
coincidere con il momento in cui la società perde i vantaggi competitivi che le consentono
28
Sul concetto di CAP cfr. anche le analisi di Rappaport (1992), Stewart (1991), Mauboussin e Johnson
(1997) e Mauboussin e Bartholdson (2002).
29 Cfr. a tal proposito Mauboussin e Johnson (1997).
30 Come osservato da Stewart (1991, p. 280), l’equazione M&M appena descritta ha il grandissimo pregio
di rappresentare puntualmente i driver del valore di un’azienda, ma non è adatta per calcolarlo con estrema
precisione. L’ultimo termine del modello del valore è solo un’approssimazione del flusso di cassa. L’equazione M&M è precisa, in particolare, solo quando il tasso di crescita previsto e il tasso d’attualizzazione
coincidono. Per la stima del valore è più corretto, quindi, applicare i metodi FCFF e del profitto economico.
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di conseguire uno scarto tra ROIC e WACC sui nuovi investimenti (Borsa Italiana, 2002,
p. 21; Rappaport, 1986). Al termine del CAP, svanite le opportunità di reinvestire a un tasso superiore al costo del capitale, si chiude la valutazione applicando la formula della convergenza al valore residuo (Rappaport e Mauboussin, 2001; Stewart, 1991).
I risultati della più recente ricerca sulla sostenibilità del vantaggio competitivo (Wiggins e Ruefli, 2005), tuttavia, dovrebbero indurre a non limitare l’utilizzo del concetto di
CAP alla sola previsione dell’estensione dell’orizzonte temporale esplicito. È stato
dimostrato, infatti, che il vantaggio competitivo, nella maggior parte dei settori, è un
fenomeno sempre più transitorio e che l’unica strategia per realizzare un vantaggio
sostenibile nel tempo è cercare di mettere in fila una serie di vantaggi competitivi temporanei (Wiggins e Ruefli, 2005; Thomas e D’Aveni, 2004). Queste evidenze dovrebbero bastare per giustificare l’opportunità di basare sul CAP anche la spiegazione dei tassi
di rendimento superiori al WACC, attesi sulle attività in essere (asset in place), durante
l’orizzonte temporale esplicito.
Al fine di considerare, anche durante l’orizzonte temporale esplicito, un’eventuale perdita del vantaggio competitivo sugli investimenti in essere (asset in place), o
una dinamica competitiva più convulsa, in cui la transitorietà dei vantaggi competitivi dell’impresa produce un andamento altalenante degli indicatori finanziari del
valore per l’azionista (ROIC, OPM, IR, g ecc.), il CAP andrebbe distinto in due
diversi fattori:
1. il periodo durante il quale ci si attende che l’impresa otterrà un ROIC > WACC dagli
investimenti in essere (CAPAP);
2. il periodo durante il quale si presume che l’impresa riuscirà a ottenere un ROICI >
WACC dagli investimenti incrementali necessari a finanziare la sua crescita (CAPI).
La durata del CAPAP può essere spiegata dagli stessi fattori studiati dalla teoria circa la
sostenibilità e la rigenerabilità delle basi/fonti del vantaggio competitivo. La sostenibilità del vantaggio competitivo è garantita dalle barriere all’entrata o dai meccanismi di
isolamento (Rumelt, 1987). Mentre le barriere all’entrata (di scala, di differenziazione,
legali ecc.) proteggono le rendite monopolistiche frutto della limitazione alla competizione in un dato settore o segmento di mercato, i meccanismi di isolamento proteggono
dall’imitazione le rendite economiche (ricardiane, capability-building, schumpeteriane e
relazionali; prodotte dai vantaggi competitivi resource-based, basati sulle capacità dinamiche o derivanti dai network strategici. Esempi di meccanismi di isolamento sono i
brevetti, la marca commerciale, l’ambiguità causale, l’unicità storica, la segretezza, i
rapidi spostamenti lungo la curva di apprendimento, l’effetto rete ecc. La rigenerabilità
delle fonti del vantaggio competitivo è legata invece al modo in cui le «capacità dinamiche» dell’impresa riescono a favorire i processi innovativi o di rinnovamento delle strategie (Teece, Pisano e Shuen, 1997).
La stima della durata del CAPI, oltre a basarsi sulle considerazioni appena effettuate,
richiede la formulazione di ulteriori ipotesi circa la capacità/possibilità di estendere/replicare le proprie fonti del vantaggio competitivo in altri segmenti, mercati o aree geografiche. La maggior parte delle imprese di successo dimostra una spiccata capacità di estendere «a macchia d’olio» le fonti dei propri vantaggi competitivi. McDonald’s, Marriott,
Club Med, McKynsey hanno seguito un modello di sviluppo basato sulla replicazione
della loro formula originale di erogazione del servizio. Anche lo sviluppo del marchio
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Toyota su scala mondiale può essere citato a tal riguardo. Spesso, però, esistono limiti
economici che frenano l’estensione di fonti di vantaggio competitivo che ancora garantiscono una redditività degli investimenti in essere superiore al costo del capitale. Per
questo CAPAP e CAPI spesso non coincidono31.
In questo quadro, l’analisi del CAP può essere molto utile anche per prevedere le dinamiche di passaggio di un’impresa dalla fase di crescita del valore, prevista nell’orizzonte
temporale esplicito, a quella dello stato stazionario, ipotizzata nel periodo del valore residuo.
Mauboussin e Johnson (1997), a tal proposito, descrivono, fra i tanti possibili, due modelli
di CAP (v. Fig. 1.2). Il primo è un modello che prevede la flessione lineare dei rendimenti in
eccesso rispetto al WACC durante l’orizzonte di previsione esplicita. Il secondo, invece, prevede un crollo improvviso di tali rendimenti, dovuto al repentino crollo delle barriere all’entrata a protezione della capacità generativa di valore dell’impresa o all’improvvisa sostituzione/distruzione dei suoi vantaggi competitivi da parte della concorrenza. Il modello valutativo dovrebbe adattarsi alle dinamiche di flessione del vantaggio competitivo previste nei
modelli CAP appena descritti, prevedendo, nel primo caso, un avvicinamento graduale degli
indicatori finanziari del valore (ROIC, IR, g, OPM ecc.) alla situazione di stato stazionario
ipotizzata nel periodo del valore residuo e, nel secondo, uno più immediato.
Figura 1.2
Modelli di durata del vantaggio competitivo (CAP) e creazione di valore
Modello teorico di CAP con diminuzione lineare dei
rendimenti in eccesso rispetto al WACC
Returns
Competitive Forces
Drive Returns to WACC
Modello (più verosimile) di CAP con crollo improvviso dei rendimenti in eccesso rispetto al WACC
Returns
CAP
WACC
CAP
WACC
Time
Time
* Area grigia = creazione di valore.
Fonte: Mauboussin e Johnson (1997).
31
I rendimenti di scala decrescenti degli asset tangibili, per esempio, possono limitare l’estensione dei
vantaggi competitivi basati sulla limitazione della competizione. Per quel che riguarda le leggi economiche dei rendimenti di scala crescenti, tipiche degli intangibili, che sembrerebbero poter sostenere una
crescita illimitata, il discorso è più complesso. Un primo limite, in questo caso, è dato dalle dimensioni
stesse del mercato. Un secondo e più importante limite può essere rappresentato da un effetto lock-in, a
favore delle imprese consolidate, che blocca la crescita sul mercato di prodotti/servizi concorrenti,
anche se dotati di un contenuto tecnologico superiore. Infine, non vanno dimenticate le diseconomie
manageriali di penrosiana memoria.
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1 | La «catena del valore per l’azionista»: l’anello mancante
1.9.1
59
Creazione di valore, vantaggio competitivo e rendita economica:
tre definizioni diverse di uno stesso concetto teorico
Che, in un’economia capitalistica, il vantaggio competitivo atteso rappresenti il presupposto necessario per la creazione del valore per l’azionista lo dice e lo dimostra, con una
autorevolezza che a noi pare definitiva e inattaccabile, Damodaran nella sua teoria del
valore (1999, 2001). In questo quadro concettuale, la creazione del valore è un processo
necessariamente dipendente dalla capacità di un’impresa di investire il capitale disponibile a un tasso di rendimento superiore al suo costo (ROIC > WACC). Quando questo
accade, però, «l’impresa sta conseguendo risultati eccezionali (al di là cioè delle aspettative degli investitori alla luce della rischiosità dell’impresa), frutto di qualche vantaggio competitivo o della presenza di barriere all’entrata nel settore in cui essa opera»
(Damodaran, 2001, p. 139; corsivo aggiunto).
L’economia, invece, affronta il tema della creazione del valore per l’azionista (scarto
ROIC-WACC) attraverso il concetto di rendita economica, intesa come il puro surplus
che residua dopo che sono stati remunerati tutti gli input della produzione (incluso il
costo opportunità per il capitale proprio) (Grant, 2005, p. 59, ed. it.). La formula della rendita economica, in particolare, coincide perfettamente con quella per il calcolo
del profitto economico, espresso dal surplus che l’iniziativa imprenditoriale è riuscita
a generare, dopo che sono stati remunerati i terzi finanziatori e i sottoscrittori del
capitale di rischio:
RX,A = SX,A– CX,A– OX,A
dove:
RX,A = rendita ottenuta dall’impresa X per la vendita del prodotto A;
SX,A = totale delle vendite o fatturato dell’impresa X per il prodotto A;
CX,A = totale complessivo dei costi fissi e variabili sostenuti dall’impresa X per
produrre e commercializzare il prodotto A;
OX,A = guadagno minimo per ricompensare il proprietario del capitale per «abstinence,
risk, and management effort» (Foreman, 1919). Questo guadagno minimo può
essere definito attraverso la stima del costo del capitale proprio (equity) con il
metodo CAPM (Capital Asset Pricing Model).
Dal punto di vista della strategia, infine, la creazione di valore per l’azionista (conseguita attraverso lo scarto ROIC-WACC), è il metro con cui si misura il vantaggio competitivo di un’impresa (Peteraf, 1993; Barney, 2002). Sempre in questa prospettiva, il vantaggio competitivo, a sua volta, rappresenta lo strumento elettivo per creare valore (rendita economica) per l’azionista, in funzione dello scarto ROIC-WACC realizzato sugli
investimenti in essere (asset in place) e su quelli ancora da realizzare (valore della crescita). In un’economia capitalistica, infatti, una rendita economica (profitto economico)
può essere conseguita solo in condizioni d’imperfetta competizione32, prodotte da una
32
In situazioni d’equilibrio competitivo non vi è modo di differenziare le proprie strategie e il proprio output produttivo da quelli dei concorrenti e di conseguire qualche tipo di potere contrattuale nei confronti dei
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Parte prima | Le basi dell’i-Valuation
fonte di vantaggio competitivo (potere di mercato) capace di mettere l’impresa al riparo
dalle forze del mercato competitivo, che tendono automaticamente a eliminare ogni possibilità di ottenere rendimenti oltre il costo del capitale (equilibrio economico). Più in
generale, la strategia d’impresa può essere definita come una «continua ricerca di rendite» (Bowman, 1974, p. 47; Mahoney e Pandian, 1992).
Panati e Golinelli (1994), in particolare, sono stati tra i primi a evidenziare l’esigenza
di sviluppare un solido collegamento tra la teoria del valore e la strategia. Alla base del
loro ragionamento v’è l’intuizione di considerare il MVA/goodwill (che sintetizza in sé
il valore attuale dell’insieme dei profitti economici attesi) la pura quantificazione monetaria dei vantaggi competitivi derivanti dalla struttura del patrimonio d’intangibili di
un’impresa. Per tutti questi motivi, ci sentiamo di affermare che lo scarto ROIC-WACC
rappresenta l’anello di congiunzione tra l’analisi economica, la strategia e la valutazione
d’impresa (teoria del valore). Nel Box 1.4 abbiamo riportato una serie di definizioni di
vantaggio competitivo collegate al concetto di creazione di valore (scarto ROIC-WACC)
e di rendita economica (profitto economico).
Box 1.4 Alcune definizioni di vantaggio competitivo collegate al concetto
di creazione di valore (ROIC > WACC) e di rendita economica
Porter says «competitive advantage is at the heart of a firm’s performance in competitive markets»
and goes on to say that purpose of his book on the subject is to show «how a firm can actually
create and sustain a competitive advantage in an industry – how it can implement the broad generic strategies». Thus, competitive advantage means having low costs, differentiation advantage, or a
successful focus strategy. In addition, Porter argues that competitive advantage grows fundamentally out of value a firm is able to create for its buyers that exceeds the firm’s cost of creating it.
Porter M.E. (1980), Competitive Strategy, The Free Press.
Peteraf [1993] defines competitive advantage as «sustained above normal returns». She defines imperfectly mobile resources as those that are specialized to the firm and notes that such resources «can be
a source of competitive advantage» because «any Ricardian or monopoly rents generated by the asset
will not be offset entirely by accounting for the asset’s opportunity cost» (i.e., its value to others).
Peteraf M.A. (1993), «The Cornerstones of Competitive Advantage: A Resource-based View», Strategic Management Journal, 14, pp. 179-191.
Barney [2002: 9] says that «a firm experiences competitive advantages when its actions in an
industry or market create economic value and when few competing firms are engaging in similar
actions». Barney goes on to tie competitive advantage to performance, arguing that «a firm obtains
above-normal performance when it generates greater-than-expected value from the resources it
employs. In this final case, the owners of resources think they are worth $10, and the firm creates
$12 in value using them. This positive difference between expected value and actual value is
known as an economic profit or an economic rent».
Barney Jay B. (2002), Gaining and Sustaining Competitive Advantage, 2a ed. Reading, Mass., Addison-Wesley.
clienti. In questo caso, infatti, le rendite economiche sono pari a zero e non vi sono prospettive di crescita: il rendimento del capitale, come dice la teoria neoclassica, è solo sufficiente a mantenere gli investimenti già effettuati. Traducendo nel linguaggio della finanza l’assunto dell’economia neoclassica appena
citato, secondo cui in assenza di un potere di mercato non sussistono rendite economiche, si ha che, nei
mercati perfettamente competitivi, non sussistono i presupposti per la creazione di valore per gli azionisti,
né attraverso gli investimenti nelle strategie in essere, né tramite le opzioni di sviluppo.
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61
John Kay [1993: 14] defines distinctive capabilities as ones derived from characteristics that others
lack and which are also sustainable and appropriable. «A distinctive capability becomes a competitive advantage when it is applied in an industry or brought to a market.» Kay [p. 194] measures the
value of competitive advantage as valued added, with the costs of physical assets measured as the
cost of capital applied to replacement costs.
Kay John (1993), Foundations of Corporate Success, Oxford University Press.
Dierickx and Cool [1989: 1059] have echoed Barney [1986] in arguing that competitive advantage
is not obtainable from freely tradeable assets. «If a privileged product market position is achieved or
protected by the deployment of scarce assets, it is necessary to account for the opportunity cost of
those assets. Many inputs required to implement a strategy may be acquired in corresponding input
markets. In those cases, market prices are indeed useful to evaluate the opportunity cost of
deploying those assets in product markets. However, the deployment of such assets does not entail
a sustainable competitive advantage, precisely because they are freely tradeable».
Dierickx I., Cool K. (1989), «Asset Stock Accumulation and Sustainability of Competitive Advantage», Management Science, 35, pp. 1504-11.
Besanko, Dranove, and Shanley [2000: 389] say: «When a firm earns a higher rate of economic profit
than the average rate of economic profit of other firms competing within the same market, the firm has
a competitive advantage in that market». They also carefully define economic profit [1999:627] as «the
difference between the profits obtained by investing resources in a particular activity, and the profits that
could have been obtained by investing the same resources in the most lucrative alternative activity».
David Besanko, David Dranove, Mark Shanley (2000). Economics of Strategy, 2a ed. John Wiley e Sons, New York.
Fonte: tratto da Rumelt R.P., What in the World is Competitive Advantage, UCLA Working Paper 2003.
1.9.2
La formulazione delle ipotesi valutative di base in funzione dell’intensità
e della durata dei vantaggi competitivi attesi
Per procedere nella direzione che auspichiamo occorre che la fredda logica dei numeri e
degli algoritmi matematico-finanziari lasci il passo al ragionamento euristico tipico delle migliori teorie economiche e della strategia. La convergenza tra finanza, economia e
strategia dovrebbe essere a questo punto evidente: mentre la finanza si occupa degli
effetti, in termini di misurazione del valore, della capacità di ottenere un rendimento
superiore al costo del capitale, costruendovi sopra modelli come il DCF, il profitto economico e la ROV, l’economia e la strategia si concentrano sulle cause, mettendo a fuoco
i concetti di vantaggio competitivo e di rendita economica.
Siamo convinti che, partendo da queste solide basi teoriche, si possa costruire un nuovo
modello di formulazione delle ipotesi valutative, capace di sanare «l’obsolescenza del tradizionale paradigma valutativo» (Guatri, 2000) e di indicare possibili rimedi per la maggior
parte delle imperfezioni dei mercati finanziari. Nella nostra analisi, la formulazione delle
ipotesi valutative di base (Quadrante 2 della «catena del valore per l’azionista» – Indicatori
finanziari del valore dell’impresa), in particolare, è lo snodo che unisce l’analisi strategica
ed economica con il calcolo matematico basato su algoritmi finanziari. In questa fase della
valutazione è necessario tradurre il linguaggio, qualitativo ed euristico, dell’analisi delle
fonti del vantaggio competitivo dell’impresa in dati di input per gli algoritmi valutativi (nel
nostro caso, quelli relativi ai modelli FCFF, al profitto economico e alla ROV)33.
33
Posta la correttezza degli algoritmi matematici scelti per la misura dei flussi in entrata o per la ROV,
la formulazione delle ipotesi valutative di base è il momento più critico della valutazione, quello che
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La posizione di Damodaran (2001, p. 139 e p. 355), a tal proposito, è molto chiara: la
formulazione delle ipotesi valutative di base circa il periodo di creazione del valore
durante il quale il ROIC supera il costo del capitale richiede necessariamente il vaglio di
ulteriori ipotesi relative ai vantaggi competitivi attesi o alle barriere all’entrata (che, a
loro volta, rappresentano una importante fonte di vantaggio competitivo: Porter, 1980,
1990) che impediscano ai concorrenti di entrare nel mercato o di eliminare la possibilità
di conseguire questi rendimenti. Per passare dalla teoria alla pratica, è necessario capire
come collegare i concetti d’intensità (magnitudo) e durata (CAP) dei vantaggi competitivi attesi alla formulazione delle ipotesi valutative di base.
Nella pratica, in ogni valutazione effettuata con il DCF o basata sui profitti economici attesi le ipotesi valutative di base devono essere necessariamente strutturate in modo
da rispecchiare le due dimensioni fondamentali dei processi di creazione del valore:
a) la dimensione temporale, che attiene alla durata delle diverse fasi di previsione (orizzonte temporale esplicito «n», periodo del valore residuo ed eventuale fase di transizione tra questi due momenti);
b) la dimensione quantitativa, rivolta alla rilevazione delle caratteristiche fondamentali
dell’impresa (ROIC, OPM, g, IR, WACC ecc.), in ciascuno dei periodi di previsione
(orizzonte temporale esplicito «n», periodo del valore residuo ed eventuale fase di
transizione tra questi due momenti).
Scendendo più nel dettaglio, nelle valutazioni DCF o basate sui profitti economici
attesi/EVA®34 le variabili fondamentali da ipotizzare sono le seguenti (Damodaran,
2001, p. 161):
1. la durata complessiva dell’orizzonte temporale esplicito n, alla fine del quale si stima il
valore residuo in ipotesi di crescita stabile (o, alternativamente, di stato stazionario);
2. la durata del periodo di crescita elevata (che può coincidere con l’orizzonte temporale esplicito se si esclude una fase di transizione tra crescita elevata e stabile);
3. la durata dell’eventuale fase di transizione tra crescita elevata e stabile;
4. le caratteristiche dell’impresa (g, ROIC, NOPAT, WACC, IR ecc.) durante:
• il periodo di crescita elevata;
• l’eventuale fase di transizione tra crescita elevata e stabile;
• il periodo del valore residuo (crescita stabile o stato stazionario);
5. come avverrà il passaggio da crescita elevata a crescita stabile.
La Tab. 1.15, anticipando concetti che saranno approfonditi nei prossimi capitoli (v. Capitolo 3), sintetizza il collegamento tra i concetti di intensità e durata (CAP) dei vantaggi
competitivi attesi e le ipotesi valutative di base (indicatori finanziari del valore per l’azionista), di ogni modello DCF o basato sui profitti economici attesi.
Anche il valore delle opzioni reali (ROV), in linea con la rigorosa analisi di Damodaran
(2001, pp. 336 ss.), è strettamente collegato alle dimensioni (intensità e durata) del vantag-
può portare l’analista a incappare negli errori più gravi. Il valore intrinseco dei FCFF attesi e della ROV,
infatti, come dimostrato nelle sezioni precedenti, è assai sensibile a ogni mutazione delle combinazioni
d’input valutativi.
34 Le ipotesi valutative di base per la stima del valore dell’impresa in funzione dei profitti economici
attesi sono sostanzialmente le stesse.
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Tabella 1.15 Il collegamento tra le ipotesi valutative di base e le corrispondenti ipotesi
sull’intensità e sulla durata (CAP) dei vantaggi competitivi attesi
Ipotesi valutative
Ipotesi sulla intensità e sulla durata dei vantaggi competitivi attesi
Dimensione temporale del processo di creazione del valore
Durata del periodo
di crescita elevata
L’ipotesi di un periodo di crescita del valore, durante il quale il ROIC supera il
costo del capitale (WACC), richiede il vaglio di ulteriori ipotesi sulla durata
(CAPAP e CAPI ) dei vantaggi competitivi attesi. Questa ipotesi va verificata
anche per il periodo del valore residuo, se si prevede la continuità della crescita del valore (modello della crescita costante – ROICI > WACC).
Durata dell’eventuale periodo di
transizione da crescita elevata a crescita stabile
La presenza all’interno del modello valutativo di un eventuale periodo di transizione (modello a tre fasi di crescita) e la sua durata devono essere giustificate da ipotesi precise relative all’intensità dei vantaggi competitivi attesi (che
determinano la crescita in base alla relazione g = IR · ROICI ) e alle loro dinamiche di flessione, previste nel modello di CAPI (v. Fig. 1.1).
Dimensione quantitativa del processo di creazione del valore
Le caratteristiche
dell’impresa (g,
ROIC, NOPAT,
WACC, IR ecc.)
durante: (a) il periodo di crescita elevata, (b) nella eventuale fase di trasizione
e (c) nel perido del
valore residuo
L’intensità dei vantaggi competitivi attesi determina lo scarto ROIC-WACC e quello ROICI-WACC. Il tasso di reinvestimento (IR) è direttamente proporzionale all’intensità del vantaggio competitivo: quando l’impresa avrà esaurito i suoi vantaggi
competitivi, e con questi le possibilità di investire a un tasso superiore al WACC,
si assume che non investirà più risorse (Damodaran, 1999, 2001; Stewart, 1991).
Di conseguenza, in funzione della sua relazione con IR e ROICI (g = ROICI · IR),
anche il tasso g è determinato dall’intensità dei vantaggi competitivi attesi. Un
vantaggio competitivo stabile riduce il WACC, attenuando il rischio di insolvenza
(che incide sul costo del debito) e con eventuali effetti indiretti sul beta (che incide sul costo dell’equity; v. Capitolo 3). Per quel che riguarda il periodo del valore
residuo, le ipotesi sullo scarto ROIC-WACC determinano il livello del NOPAT terminale, mentre quelle circa lo scarto ROICI-WACC sono decisive nella scelta tra
modello della crescita e formula della convergenza.
Come avverrà il passaggio da crescita
elevata a crescita
stabile
La scelta tra un modello di crescita a due (senza periodo di transizione), tre o
più fasi dipende dalle ipotesi relative al trend di flessione dei vantaggi competitivi attesi previsto nel modello di CAP (v. Fig. 1.2).
gio competitivo generato dall’investimento iniziale per quello successivo. In particolare, il
presupposto necessario del valore di un’opzione reale è che i flussi di cassa generati dall’investimento successivo (strike price), quello da valutare attraverso la metodologia ROV,
rappresentino un rendimento superiore al costo del capitale (intensità). Il CAP, invece, è
ciò che essenzialmente determina la durata di un’opzione di rinvio.
1.10
I sistemi di valutazione relativa
Si sarà sicuramente notato, a questo punto, che all’interno della nostra «catena del valore per l’azionista» non sono presenti i cosiddetti multipli (sistemi di valutazione relativa;
v. Tab. 1.16). È una nostra scelta precisa e non una dimenticanza.
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Siamo piuttosto scettici, infatti, circa l’impiego dei multipli per la stima del valore d’impresa. Come osservato da Rappaport e Mauboussin (2001, p. 15), i multipli per la stima
del valore d’impresa, pur rappresentando ancora lo strumento di valutazione quantitativa
preferito dalla comunità finanziaria, si basano su una formula ingannevolmente semplice, che cela una logica difettosa. Esamineremo tale difetto di ragionamento, dal quale non
sfugge nessuno dei tanti tipi di multipli in circolazione, prendendo per esempio il multiplo
più semplice e diffuso, cioè il rapporto P/E (prezzo/utili). Il P/E è uguale al prezzo dell’azione (P) diviso per gli utili della società. Generalmente viene calcolato basandosi sulle
stime degli utili per azione (EPS) riferiti all’anno successivo. In formule:
Valore per azione = EPS · (P/E)
Poiché la stima degli utili per azione è facilmente disponibile, la valutazione si chiude
scegliendo solo il multiplo (P/E) più appropriato per determinare il valore di un’azione.
Il calcolo è semplice, ma il risultato risente dell’incompletezza della formula. Ad un
esame approfondito, tale valutazione è soltanto un’inutile tautologia: «Per stimare il
valore, ci occorre una stima del valore» (Rappaport e Mauboussin, 2001, p. 15). La stima del valore, che è la variabile risultante nell’equazione, infatti, ha bisogno di un’altra
stima del valore come variabile causale. Il riferimento, nella fattispecie è a P, ossia il
prezzo appropriato per una azione, che è la sola incognita dell’equazione. I multipli, in
sostanza, non possono determinare in modo affidabile il valore, perché dipendono essi
stesi da una stima affidabile di valore.
La logica sottesa alla valutazione relativa, inoltre, è completamente falsificata dai
contenuti della Resource-Based Theory (Barney, 1991; v. Capitolo 3), che rappresenta il
paradigma dominante e unanimemente accettato nel campo dello strategic management.
La resource-based theory, in particolare, definisce le imprese aggregati unici di risor-
Tabella 1.16 I multipli di mercato di maggiore utilizzo
Multipli fondamentali
Multipli derivati
P/E (Price/Earning ratio)
Prezzo di borsa
Utile netto per azione
P/CE (Price/Cash Earning)
Prezzo di borsa
Utile netto + Ammortamenti per azione
EV/EBIT (Enterprise Value/Earning Before Interest
and Taxes)
Valore dell’acquisto + Valore del debito
Risultato operativo
EV/EBITDA (Enterprise Value/Earning Before Interest,
Taxes, Depreciation and Amortization)
Valore dell’acquisto + Valore del debito
Margine operativo lordo
EV/Sales (Enterprise Value/Sales)
Valore dell’equity + Valore del debito
Fatturato
P/BV (Price/Book Value)
Prezzo di borsa
Patrimonio netto per azione
Fonte: Massari (1998), p. 212.
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se/competenze distintive, distribuite in modo eterogeneo tra i concorrenti e imperfettamente imitabili e trasferibili. La stessa teoria, inoltre, considera tali dotazioni di risorse/competenze distintive le determinanti principali della strategia e dei risultati economici delle imprese, a prescindere dalle caratteristiche del settore (Grant, 2006, p. 157).
Crolla in questo modo l’impianto concettuale della valutazione relativa, basato sull’analisi delle similitudini strategiche e sulla selezione delle imprese comparabili (comparables), poiché l’essenza della strategia e del vantaggio competitivo è, invece, costituita
dalla ricerca sistematica e dallo sfruttamento delle differenze nelle dotazioni di risorse/competenze distintive (Grant, 2005, p. 161, ed. it.).
Appendice 1A
Il profitto economico come estensione del concetto
di VAN
Il valore attuale netto (VAN), inteso come criterio decisionale, è uno dei fondamenti della finanza aziendale. Il VAN di un progetto di investimento, che si ottiene sottraendo
l’ammontare delle risorse investite dal valore attuale dei flussi di cassa da esso attesi, è
una misura del surplus di valore creato da un investimento. Investire in progetti con un
VAN positivo, quindi, significa aumentare il valore dell’impresa.
Il profitto economico è un’estensione della regola finanziaria del VAN. In altre parole, il VAN è il valore attuale del profitto economico atteso da un progetto durante la sua
vita utile35:
t=n
VAN = ∑
t=1
Profitto economicot
t
(1 + WACC)
t=n
(ROICt – WACCc) (I0)
t=1
(1 + WACC)t
+ ∑
dove:
Profitto economicot
WACC
n
I0
=
=
=
=
profitto economico del progetto nell’anno t;
costo medio ponderato del capitale;
durata del progetto in anni;
investimento a inizio periodo.
La relazione tra profitto economico e VAN può essere dimostrata nel modo di seguito
illustrato. Consideriamo un progetto che abbia le seguenti caratteristiche:
1. il progetto richiede un investimento iniziale pari a I0 ed ha una vita attesa di n anni, al
termine della quale il valore di recupero dell’investimento si assume che sia zero. Il
progetto subirà un ammortamento pari a DEPRt nell’anno t;
2. il progetto produrrà un reddito operativo al netto di interessi e tasse nell’anno t pari a
EBITt (1 – t);
3. l’impresa ha un tasso marginale di imposta pari a t;
4. l’impresa sostiene un costo medio ponderato del capitale pari a WACCc.
35 La nostra analisi si basa su quanto esposto da Damodaran (2001). L’uguaglianza tra profitto economico e VAN si realizza sotto l’ipotesi che il valore attuale atteso dai flussi di cassa dell’ammortamento
sia uguale al valore attuale del rendimento del capitale investito nel progetto.
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Il VAN dei flussi di cassa di questo progetto può quindi essere scritto nel seguente modo:
t=n
(EBITt(1 – t) + DEPRt)
t=1
(1 + WACC)t
VAN = ∑
– I0
Considerando ora un investimento alternativo che richieda un investimento iniziale di I0,
offra un rendimento esattamente pari al costo del capitale e consenta un totale recupero
dell’investimento iniziale al termine della vita utile del progetto di n anni. Il VAN di
questo progetto è zero. Scrivendo l’equazione in funzione di I0, in questo caso avremo:
WACC (I0)
t=n
I0 = ∑
t=1
t
(1 + WACC)
+
I0
(1 + WACC)n
Sostituendo tale valore di I0 all’interno dell’equazione del VAN del progetto originario
avremo:
t=n (EBIT (1 – t) + DEPR )
t=n WACC (I )
I0
t
t
c 0
VAN = ∑
– ∑
+
t
t
t=1
t=1 (1 + WACC)
(1 + WACC)n
(1 + WACC)
La stessa equazione può essere riscritta esprimendo separatamente il valore di DEPRt:
t=n
(EBITt(1 – t)
t=1
t
VAN = ∑
(1 + WACC)
t=n
– ∑
t=1
WACCc (I0)
t
(1 + WACC)
I0
–
n
(1 + WACC)
t=n
DEPRt
t=1
(1 + WACC)t
–∑
DEPRt
t=n
I0
=∑
, ovverosia che il valore attuale
n
(1 + WACC) t=1 (1 + WACC)t
atteso dei flussi di cassa relativi all’ammortamento sia uguale al valore attuale del rendimento del capitale investito nel progetto, avremo:
Assumendo ancora che
t=n
EBITt(1 – t)
t=1
t
VAN = ∑
(1 + WACC)
t=n
WACCc (I0)
t=1
(1 + WACC)t
– ∑
Se adesso notiamo che ROIC = EBIT(1 – t)/I0, possiamo riscrivere l’equazione del VAN
del progetto originario nel seguente modo:
t=n
(ROICt – WACC) (I0)
t=1
(1 + WACC)t
VAN = ∑
=
Profitto economico
(1 + WACC)t
Questa relazione tra profitto economico e VAN può essere utilizzata per esprimere il
valore d’impresa come somma del valore delle attività in essere e del valore della crescita futura attesa. Il valore di un’impresa, infatti, come osserva Damodaran (2001, p.
26, ed. it.), può essere espresso come somma del valore degli investimenti già fatti, definiti attività in essere (asset in place), e del valore degli investimenti non ancora effettuati, cioè opportunità di crescita (growth opportunity):
Valore d’impresa = Valore attività in essere + Valore crescita futura attesa
Utilizzando il modello basato sull’attualizzazione dei flussi di cassa (DCF), entrambe le
componenti possono essere scritte in termini di VAN:
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t=∞
Valore attività in essere = Capitale investitoAttività in essere + ∑ VANtAttività in essere
t=1
t=∞
Valore crescita futura attesa = ∑ VANtProgetti futuri
t=1
da cui:
t=∞
t=∞
t=1
t=1
Valore d’impresa = Capitale investitoAttività in essere + ∑ VANtAttività in essere + ∑ VANtProgetti futuri
In base alla relazione tra VAN e profitto economico precedentemente descritta, a questo
punto si ottiene:
t=∞ Profitto economico
t, Attività in essere
Valore d’impresa = Capitale investitoAttività in essere + ∑
=
t=1
(1 + WACC)t
t=∞
Profitto economicot, Progetti futuri
t=1
(1 + WACC)t
=∑
Appendice 1B
La valutazione d’impresa in funzione dei dividendi
attesi
Il valore del capitale netto, che dovrebbe essere riflesso nei prezzi di borsa, può essere
calcolato come il valore attuale dei dividendi attesi, scontato al costo del capitale netto
Ke (Dividend Discount Model, DDM):
t=∞
E(Dividendit)
t=1
(1 + ke)t
Valore del capitale netto (DDM) = ∑
Poiché il capitale netto di un’impresa ha un orizzonte temporale infinito, la formula
può essere modificata ipotizzando uno scenario di crescita stabile (steady growth).
In questo caso, il capitale netto può essere valutato utilizzando il modello di Gordon,
che presuppone un tasso di crescita g costante. Il tasso g, nella fattispecie, dovrà
necessariamente essere inferiore o, al massimo, uguale a quello con il quale cresce
annualmente l’intera economia. Non è pensabile, infatti, che un’impresa possa crescere continuamente a un tasso superiore a quello di crescita dell’economia. In formule:
Valore del capitale netto (DDM crescita costante) =
E(Dividendi prossimo periodo)
(ke – g)
Per stimare il prezzo di un’azione, la cui crescita attesa dei dividendi è elevata, per
esempio 10-15 per cento l’anno, è invece opportuno procedere considerando tale valore
come somma di due componenti (DDM a due fasi di crescita). La prima di queste è la
somma del valore attuale dei dividendi attesi in ciascuno dei periodi in cui si prevede un
tasso di crescita superiore a quello dell’economia in generale. La seconda componente,
invece, viene calcolata ipotizzando che, dopo un certo numero di anni i dividendi
aumentino a un tasso di crescita gn stabile o si stabilizzino (stato stazionario), perdurando continuamente nello stesso valore. In formule:
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t=N
E(dividendit)
t=1
(1 + ke) t
Valore del capitale netto (DDM a due fasi di crescita) = ∑
+
+
Valore terminaleN
(1 + ke)N
in cui N indica il numero di anni e il valore residuo (TV) si basa sull’ipotesi di crescita
stabile o di stato stazionario, dopo il periodo N:
Valore terminaleN (crescita stabile) =
Valore terminaleN (stato stazionario) =
E(dividendiN+1)
(ke – gn)
E(dividendiN+1)
(ke)

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