Dimensioni dell`idea d`Italia secondo Dante

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Dimensioni dell`idea d`Italia secondo Dante
DIMENSIONI DELL’IDEA D’ITALIA SECONDO DANTE:
GEOGRAFIA E STORIA, CRISTIANESIMO E LINGUA*
Qual era l’idea dantesca dell’Italia? Prima di rispondere, occorre definire l’immagine dell’Italia e del
mondo che Dante riceveva dalla geografia e dall’astronomia del suo tempo. Il mondo di Dante è
formato dai tre continenti, Europa Asia Africa, affacciati sul Mediterraneo, il mare che, come dice il
nome, si trova in mezzo alle terre; a loro volta, le terre emerse sono circondate dalle acque dell’Oceano.
Dei quattro punti cardinali, poi, il Nord e il Sud non hanno molta importanza per la geografia umana:
nei climi gelidi e nei climi torridi le condizioni di vita sono troppo dure per gli uomini, e perciò solo
popolazioni scarse, e poco civilizzate, risiedono nelle regioni estreme. La civiltà medievale, come quella
greco-latina, si sviluppa sulla direttrice da Ovest a Est, dallo Stretto di Gibilterra (che gli antichi
chiamavano le colonne d’Ercole), fino al fiume Gange, nella lontana, poco conosciuta India
(Alessandro Magno era arrivato al bacino dell’Indo). Perciò parlare del Sud del mondo, come si fa oggi,
non avrebbe avuto senso per gli antichi o per i medievali.
Non solo Dante non sa nulla dell’America; non solo la rappresentazione cartografica è lontana
dalla precisione assicurata oggi dai satelliti: le carte geografiche antiche non hanno in alto le regioni
settentrionali, ma le regioni orientali. A Est si trovavano il Paradiso terrestre e con esso le origini della
vita: ciò fa capire che la geografia non aveva solo uno scopo descrittivo, e che nell’immagine del mondo
l’uomo medievale cercava dei significati.
Venendo ora all’Italia, la rotazione di 90 gradi rispetto all’odierno orientamento settentrionale
delle carte spiega come la penisola si presentasse con le Alpi in basso e la punta e il tacco dello stivale in
alto; di conseguenza il mar Tirreno si trova sulla destra e l’Adriatico sulla sinistra di chi guarda, al
contrario di quanto vediamo oggi sulle carte geografiche.
E tuttavia queste diversità tra il mondo e l’Italia rispetto alle nostre rappresentazioni della terra,
non cancellano il fatto che Dante ha un’idea molto salda dell’esistenza di un’Italia che è geografica e che
possiede altri elementi di definizione, strettamente connessi alla geografia fisica della penisola: una
dimensione storica, una religiosa, una linguistica. Dante conosceva il poema dedicato da Virgilio al
lavoro dei campi, le Georgiche, nel secondo libro del quale si leggono le «lodi dell’Italia» (laudes Italiae); ma
soprattutto conosceva a fondo l’Eneide, che per lui valeva come grande poesia e anche come grande,
attendibile opera storica: non a torto, del resto, dal momento che la poesia epica mitizza la storia e le
tradizioni di un popolo. Dall’Eneide e inoltre dalla conoscenza del diritto romano Dante si forma
un’idea tutta sua, e veramente profonda, della storia di Roma. Sant’Agostino aveva visto nell’impero
romano solo il frutto di una conquista violenta, e i romani apparivano alla tradizione agostiniana come i
ladroni del mondo. In un primo momento Dante (lo dice lui stesso) aveva aderito a questa concezione
storico-politica, ma in un secondo tempo aveva riconosciuto la legittimità dell’impero di Roma.
Nell’Eneide trovava l’idea di Roma come potenza nata dalla fusione tra i pochi conquistatori giunti nel
Lazio al seguito di Enea e gli abitanti indigeni, i latini, appunto: i due popoli erano destinati a mescolarsi
e a costruire una civiltà nuova, alla quale avrebbero apportato religione e costumi. Dunque non una
pulizia etnica e neppure l’egemonia di una cultura su un’altra, ma una mescolanza che da due etnie
avrebbe dato luogo a una civiltà nuova e diversa, cui dovevano contribuire tanto i superstiti di Troia che
gli abitanti di quella che Dante chiama l’umile Italia.
Da Virgilio Dante ricavava l’idea dei Romani potenti conquistatori, e nello stesso tempo
governatori sapienti dell’impero europeo e mediterraneo (e cioè del mondo), grazie alle arti della
politica e del diritto (nel Medioevo il diritto romano era alla base dell’insegnamento universitario del
diritto civile). Per i cristiani, inoltre, il diritto emanava dall’idea di giustizia, e l’idea di giustizia aveva un
fondamento sacro, religioso. In ultima analisi, Dio era la radice della giustizia, e la giustizia si esprimeva
analiticamente negli articoli dei codici, nella legislazione concreta. Il diritto romano era il frutto più alto
della sapienza che l’uomo poteva raggiungere prima e al di fuori del cristianesimo, era il risultato della
ragione umana, naturale, che la Rivelazione avrebbe illuminato.
* Sintesi della conferenza letta il 26 agosto 2011 nella basilica di San Francesco a Ravenna (su gentile concessione di «Vita e
Pensiero»).
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La fiducia nei risultati raggiunti da Roma, cui danno voce il diritto romano e la poesia di
Virgilio, un pre-cristiano, o di Stazio, un seguace di Virgilio che Dante trasforma in un cristiano,
sostanzia il geniale classicismo, già quasi umanistico, di Dante. Questo classicismo, che esprime i più alti
risultati accessibili alla ragione non ancora illuminata dal cristianesimo, si salda con l’Italia cristiana:
cristiana perché, come tutti sanno, c’è un nesso speciale tra la Palestina e l’Italia, terra l’una del popolo
ebraico eletto da Dio e l’altra sede del vicario di Cristo. La Palestina è alle origini dell’Antico
Testamento, a Roma e in Italia il Nuovo Testamento ha, nella persona del Vicario di Cristo, la propria
incarnazione. Questa è la ragione del fatto, ovvio ma che passa comunemente inosservato, per cui negli
affreschi geografici che ornano la Villa di Caprarola (in provincia di Viterbo) fatta costruire dal
cardinale Alessandro Farnese, ai lati di una porta sono affrescate da una parte la Palestina e dall’altra
l’Italia. Il fatto è che tra Roma e l’Italia la repubblica e poi l’impero di Roma avevano stabilito uno
speciale rapporto giuridico e religioso (con concrete conseguenze fiscali), sicché tutto ciò che non era
Italia aveva il rango di provincia; e il cristianesimo ribadiva con fondamenti nuovi ma non contraddittori
la costruzione preesistente.
Tutti sanno che se Cristo nacque nel presepe il motivo è nel censimento ordinato
dall’imperatore Augusto: la popolazione doveva farsi registrare nei luoghi d’origine, e la Madonna e san
Giuseppe, giunti quando le locande del tempo erano già tutte occupate, dovettero riparare in una stalla.
Ora, l’unica fonte antica del censimento, di cui gli autori pagani non danno notizia, è il Vangelo di san
Luca. All’occhio acutissimo di Dante la cosa non sfugge, e il passo di san Luca è più volte citato nella
sua Monarchia: Dante ne ricava che il Salvatore accettò di nascere nell’occasione del censimento.
Dunque Cristo riconobbe la legittimità dell’atto amministrativo ordinato da Augusto e in certo modo si
sottopose volontariamente alle regole dell’Impero. Prosegue Dante – e la riflessione è perfettamente
fondata – che l’Impero offrì al cristianesimo i canali per una diffusione rapida (in un mondo
frammentato la nuova religione avrebbe incontrato infinite barriere etniche linguistiche e così via),
diversamente, si può osservare, da quanto avvenne alcuni secoli dopo con la diffusione dell’Islam,
religione guerriera.
In conclusione, sapienza giuridico-politica romana e rivelazione cristiana convergono, in una
confluenza che rappresenta uno dei pilastri sui quali si costruisce la cultura occidentale, senza nulla
togliere all’orizzonte universale (tale è il significato di cattolico) del cristianesimo.
A questa Italia geografica, storica e religiosa Dante aggiunge la dimensione di un comune
orizzonte linguistico. Primo in Europa, Dante scrive nel 1304-5 un trattato sull’Eloquenza in volgare (De
vulgari eloquentia), in concreto sulla lirica di argomento e di stile sublime. Dante si sofferma sui tanti
dialetti italiani e ne distingue quattordici, sette sul versante tirrenico e altrettanti su quello adriatico,
separati dalla catena appenninica, dunque sulla base Ovest-Est. Nessuna delle quattordici varietà è
degna di definirsi come il volgare illustre di cui Dante è alla ricerca. Questo volgare risuona in tutta
Italia e però non coincide con nessuna delle varietà parlate, è di tutti e di nessuno. Quando scriverà la
Commedia (che due secoli dopo sarà accompagnata dall’epiteto di Divina) Dante mostra di aver cambiato
idea: il poema è di base indiscutibilmente fiorentina. Qui però interessa che già nel trattato
sull’Eloquenza in volgare Dante riconosce un tetto comune alle tante parlate italiane, e in realtà se lo
inventa, in un momento in cui la letteratura in volgare italiano contava appena su Guido Cavalcanti,
Cino da Pistoia e lo stesso Dante, oltre che sui poeti della scuola siciliana, cessata da alcuni decenni.
Però quell’invenzione fu profetica se, pochi decenni dopo, la letteratura italiana poteva vantare la Divina
Commedia, il Canzoniere, il Decameron, opere di spicco italiano e anzi europeo.
Un’articolazione di questa Italia articolata – si direbbe oggi – in macroregioni è possibile
ricavarla da vari luoghi della Divina Commedia (e si ritrova in diversi autori del XIII-XIV secolo e oltre).
Dante si riferisce infatti, qua e là, ai Lombardi (insediati su un’area più ampia della Lombardia attuale), ai
Toscani (che possono coprire l’area etrusca, dunque fino a Perugia e al Lazio settentrionale) e agli
Apuli, vale a dire gli abitanti del Meridione continentale. Tra i barattieri puniti nelle Malebolge c’è un
dannato non italiano, Ciampolo di Navarra, che a Virgilio e a Dante promette di chiamare le anime di
altri dannati, «Toschi o Lombardi» (Inferno XXII 99). Ma nel Purgatorio la prospettiva cambia e quando,
nella cornice dove sono puniti gli invidiosi, Dante chiede a un gruppo di penitenti «s’anima è qui tra voi
che sia latina», si sente rispondere: «O frate mio, ciascuna è cittadina / d’una vera città; ma tu vuo’ dire
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/ che vivesse in Italia peregrina» (Purg. XIII 92 e 94-96): dove si noterà l’equivalenza tra latino e
abitatore di quella che nel canto di san Francesco è chiamata «italica erba» (Par. XI 98).
Nel 1847, alla vigilia di uno nuovo sconvolgimento dell’ordine europeo, Clemens von
Metternich, il cancelliere austriaco che per trent’anni aveva assicurato la pace a un’Europa esausta dopo
le troppe guerre napoleoniche, e però aveva soffocato il principio di nazionalità sempre più forte in
Italia come in Ungheria, in Polonia come in Germania, definiva l’Italia come una pura espressione
geografica («une expression géographique»), che nulla aveva che fare con il sistema degli stati in cui il
paese era allora diviso. Dante avrebbe avuto parecchio da osservare su questa idea solo fisico-geografica
dell’Italia. Avrebbe e anzi ha molto da dire anche agli italiani d’oggi: per lui l’Italia era anche il giardino
dell’Impero, dell’Impero universale che non è il sogno di chi guarda indietro (come si ripete pigramente,
e sbagliando): la società globale, con i suoi punti di forza e le sue vistose insufficienze, dovrebbe
renderci più facile capire il significato di un ordine mondiale fondato sull’idea di giustizia. Il fatto è che
Dante era convinto che nell’individuo si stratificano numerose fedeltà, vale a dire vincoli sociali diversi
per ampiezza: legami familiari, legami di vicinato e poi di città, di regno e infine di impero universale.
Tra questi legami non c’è contraddizione ma arricchimento reciproco: come invece rischiamo di
dimenticare in Italia quando, troppo spesso, contrapponiamo nazione italiana ed etnicismi localistici. Si
tratta di rilanciare un’idea più ampia, che sia all’altezza dei problemi dell’oggi e che stringa insieme le
diverse fedeltà: come sarebbe necessario per rispetto alla verità, alla giustizia e perfino all’utilità
economica. Ne saremo capaci?
FRANCESCO BRUNI
(UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI, VENEZIA)
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