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Media Res – Alexander Platz, 6 novembre 2004
Scritto il 7 Maggio, 2007 in Recensioni Locali e Club
I Media Res , di cui avevamo già parlato nella sezione “Recensioni Jazz” e “Indipendenti”, a proposito del loro
disco d’esordio “Media Res” uscito per la Jazzing Roma e distribuito da Edel (qui), si sono esibiti il 6 novembre
2004 all’Alexander Platz, uno dei locali più prestigiosi di jazz in Italia. Lì sono passati fior fiore di artisti, dalle
leggende alle nuove leve che da Roma e da quel locale in particolare sono partiti per conquistare il mondo. Alle
pareti ci sono le firme del gotha del jazz italiano ed internazionale. Ma l’Alexander Platz è fucina anche di nuovi
talenti e di nuovi progetti, come questo dei Media Res.
Del loro progetto si era notato anche dal disco che era ben strutturato, con una particolare attenzione verso gli
arrangiamenti, che valorizzavano soprattutto l’ensemble, più che le varie, pur apprezzabilissime , individualità. Anche
dal vivo perciò questo gruppo ha puntato più su racconti corali, che abbracciavano ritmi latini, armonie mediterranee
e ballate di ampio respiro, che sui monologhi interiori degli suoi improvvisatori solitari.
Il tutto condito con una buona dosa di jazz contemporaneo, dove percussioni e fiati si sono ampiamente divise nel far
interagire fra loro le tante componenti strutturali della musica di questo gruppo: il West Coast Jazz degli anni ’50,
così pregno di cool e bop che trovava nel sound del binomio tromba - sax tenore la sua massima espressione;
l’utilizzo delle percussioni di stampo afrocubano; la “cantabilità” mediterranea delle melodie; la libertà e la
frammentazione tipiche del jazz contemporaneo; l’architettura classicheggiante delle composizioni; le suggestioni
evocate dal continente africano.
Questa fusione di jazz con elementi latino-cubani e africani è stato lo sfondo su cui si è articolato tutto il concerto.
Un concerto diviso in due parti: nella prima, i Media Res hanno proposto alcuni brani del loro disco omonimo, e
nella seconda, alcuni brani nuovi.
Primo set. L’apertura è stata affidata a Gujarat , un brano dall’atmosfera molto soft e cool, basato sulle sonorità
calde ed avvolgenti della tromba sordinata e del sax, alle cui spalle si muovono vellutati sia il pianoforte attraverso
dei leggerissimi appoggi sia il contrabbasso, quest’ultimo forse più intenso visto il ruolo di nucleo ritmico. Tutto
intorno si dipanano i due strumenti percussivi: le percussioni, suonate da Sergio Quarta, e la batteria di Marco
Rovinelli, che sfrutta a meraviglia le pause e gli spazi ritmici lasciati liberi dalle percussioni. A dividersi tema ed
assoli sono i due fiati.
Grande ed intenso è il ritmo che li avvolge, un ritmo dal sapore etnico che si fonde con la musicalità delle frasi
evocate dagli strumenti a fiato, frasi reiterate e persistenti come aromi sonori nell’aria. Repentini sono poi i cambi di
ritmo, che spesso alternano fasi più lente a fasi accelerate, dove il sax per primo si lancia in solitario, leggero, lirico,
spavaldo, evocativo e sognante. La batteria, in questi slanci solistici del sax e poi della tromba, procede a piccoli
tocchi di tom e di piatti. Mentre le percussioni si lanciano libere a scandire il forsennato ritmo, la batteria “colora”
tale vorticoso incedere.
Sin da questo primo brano, si può benissimo toccare con mano la voglia e la gioia di vivere e di suonare di questo
gruppo. Fra tutti, si legge in faccia a Marco Rovinelli, il batterista, giovane leva di grande talento di questa
formazione: grande è la sua energia musicale. Il brano diminuisce d’intensità, gli strumenti pian piano sciamano,
resta solo la tromba, lirica ed evocativa. Nella parte finale dell’esecuzione però ritmo e melodia corali tornano ad
essere i solo grandi protagonisti.
Il secondo brano è Dance You Can Dance , una composizione di Gianni Savelli in memoria del padre scomparso.
Essa si apre con il flauto del leader che in solitario racconta la “sua” storia. Quando termina dopo poco, l’atmosfera
viene riempita dal delicato incedere del contrabbasso e dai suoni vellutati e velati del pianoforte. La musica si fa
briosa, allegra, a tratti spumeggiante. La tromba, attraverso l’espediente della sordina schiacciata, verseggia in
sottofondo.
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Grande ritmo, un ballo dall’incedere dolce e delicato, quasi si trattasse di un volteggiare lento e cadenzato verso le
cose belle, allegre e spensierate della vita. Un canto di speranza. Le frasi dettate dai fiati sono ripetute, reiterate,
ondivaghe e “circolari”. Avvolgono e creano sicurezza. Ottimo il dualismo dei fiati. Ottimo il dualismo delle
percussioni. I primi pongono l’accento sulla delicatezza della melodia e dell’eloquio tematico e solistico, le seconde
dettano con grande energia il ritmo ed i tempi.
Pianoforte e contrabbasso, invece, svolgono un compito coadiuvante, il primo nei confronti dei fiati, il secondo delle
percussioni, cercando di fondere insieme questi due dualismi. Il risultato è un omogeneo e sensazionale
caleidoscopio di colori e ritmi scoppiettanti, irruenti e carichi di energia.
I due prossimi brani sono Las Oras , che parla del tempo passato insieme alle persone che si amano, e Graceland , il
racconto di un incontro fugace, di un sogno e di un risveglio improvviso nel cuore della notte. Due melodie dai forti
tratti sudamericani, piene di passionalità ardente, ma anche di dissidio interiore.
Las Oras è caratterizzata da un grande uso, anch’esso molto sudamericano, della sezione ritmica, percussioni batteria - contrabbasso. Le frasi dei fiati sono reiterate, calde ed avvolgenti. Il pianoforte si limita a sporadici
appoggi, mentre la batteria procede con candidi e cadenzati colpi di spazzole sui piatti. Il sax, da Stan Getz in poi, su
brani sudamericani ha sempre cadenze cool. L’interazione fra sax e tromba, poi, ricorda molto il sound anni ’50 del
west coast jazz. La batteria, sull’assolo del sax, torna ad essere suonata con le bacchette. L’atmosfera è
caleidoscopica, colori, suoni e ritmi si spandono nell’aria.
La tromba traccia linee vorticose nel suo assolo. Mentre il brano prosegue, Aldo Bassi passa al flicorno, ma il suo
eloquio si mantiene lo stesso caldo ed avvolgente. Assolo finale della batteria allegro e brioso, giocato sui toni alti ed
acuti dello strumento. Squillanti giungono i suoni alle orecchie di noi spettatori. È un solo vorticoso, ma pur sempre
narrativo: la batteria quasi canta sotto le sue mani.
Questo finale - assolo è davvero straordinario ed è inoltre un ottimo passe-partout per la scena jazzistica italiana ed
internazionale: spero veramente sia data a questo batterista, Marco Rovinelli, la possibilità di emergere e con lui
agli altri componenti di questo gruppo.
Il tema di Graceland è dettato dal sax. Il suo eloquio è molto narrativo. Ottimo il dualismo dei fiati e degli strumenti
percussivi. Il pianoforte ancora una volta tesse, insieme al contrabbasso, il filo rosso che unisce questi due dualismi.
La melodia è molto accattivante e coinvolgente. Durante l’assolo, Stefano Lestini punta sui toni più alti del suo
pianoforte per far risaltare meglio la freschezza di questa melodia.
Legnetti e maracas, suonate da Aldo Bassi e Sergio Quarta, “colorano” ancora di più la scena evocata dalla musica.
Assolo del contrabbasso: ritmico, dinamico, fluido e narrativo. Ottima tecnica che accompagna originali e sofisticate
idee. Nell’insieme, un brano energico e travolgente.
Jali parla del Mali, del popolo mandeng e della sua grande storia e cultura. Ha sonorità che ricordano e celebrano la
meravigliosa musica tramandata per secoli dalla casta dei Jali. Il sound è molto africano: un brano decisamente corale
con molti fiati e molte percussioni. A cucire insieme il tutto pianoforte e contrabbasso. Le frasi dettate dai fiati,
tromba e flauto, sono reiterate e poste su un registro timbrico medio - alto.
Limpide e liquide sono le sonorità del pianoforte. Delizioso il tamburellare delle bacchette su uno dei piatti della
batteria. Il flauto evoca sonorità afro che fanno spaziare la mente su tutto il continente africano, dalla giungla alla
savana. Torna il sax e crea un ottimo contrappunto con la tromba. Assolo vorticoso delle percussioni, calde,
avvolgenti e martellanti. La batteria tamburella su tom e piatti. Riprende il tripudio di tutti gli strumenti. Ottima la
loro coesione e pregevolissimo l’interplay.
Secondo set. Dopo una breve pausa, il concerto riprende con alcuni brani nuovi, pronti, forse, per un altro originale
album di prossima uscita. Il locale già molto affollato, si riempie ancora, un gruppo di inglesi alle mie spalle sbraita,
forse a causa delle troppe birre bevute. Gianni Savelli presenta i nuovi brani, cercando di superare il frastuono della
gente intorno a lui, coadiuvato solo da un piccolo microfono dal volume, purtroppo, troppo basso.
Peccato: non riesco a cogliere quasi nulla dei suoi discorsi. I titoli dei brani si confondono nel frastuono tutt’intorno.
I musicisti accanto a lui guardano un po’ perplessi tale marasma generale. Fa parte del mestiere del musicista e,
forse, anche di quello del cronista. Il concerto, infatti, va avanti: show must go on.
Il sesto brano in scaletta, il primo dei nuovi, il cui titolo purtroppo si confonde tra le risate e le urla degli astanti, è
ricondotto da Gianni Savelli alla sfera delle passioni e della sessualità. Il pianoforte ricama gentile e delicato la
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melodia. Le percussioni e la batteria si esprimono attraverso un dualismo perfetto. Il sax e la tromba incrociano le
loro linee in un crogiuolo di suoni caldi ed avvolgenti.
Le loro frasi “circolari” rendono ancora più arabesca l’atmosfera: la mente si perde nei racconti amorosi e passionali
da “mille e una notte”. Una ragazza accanto a me esclama: “Mi ricorda Bregovic”. Opinioni. In fondo la musica
“vera” è tale proprio perché raccoglie in sé mille significati e si apre perciò a mille letture diverse e complementari.
Diciamo così, una via di mezzo tra “Medina” e “Belgrado”.
Il sax si fa lirico, le sue frasi volteggiano nell’aria. Intrigante è il suo eloquio. La tromba, invece, prosegue cupa,
penetrante, con colori argentati ed aromi d’un tratto argentini. Trasuda cupa e torbida passione. Travolgente ora la
melodia che trascina l’ascoltatore in un turbinio di passioni e di umori. Vari ritmi, vari colori, vari afflati, vari
sussurri.
Il settimo brano tratta di un viaggio intimistico e psicologico verso una terra allo stesso tempo vicina e lontana, la
nostra anima e quella di chi ci sta accanto, anche se non geograficamente. L’atmosfera è onirica e sognante. Il
dualismo dei fiati è costituito da un flauto leggiadro e da un flicorno leggero. Entrambi estremamente narrativi ed
evocativi.
L’assolo del contrabbasso è scoppiettante ed espressivo. Grande tecnica al servizio di fresche ed originali idee. Il
dualismo che si viene a creare nel gruppo è dato proprio dai due fiati estremamente dolci e leggiadri rispetto ad una
ritmica più corposa e cadenzata.
L’ottavo brano, si coglie a malapena nel rumore di sottofondo, si intitola Tribù Errante . L’introduzione è affidata al
sottile afflato del flauto ed ad un pianoforte leggerissimo. Tutto ad un tratto la melodia si fa scoppiettante. Il brano si
ricolma di colori e di ritmi variegati. Allegro ed energico, si conclude con una chiusura in grande stile.
Il nono ed ultimo brano del concerto è un sentito omaggio ad un musicista con cui ha lavorato Gianni Savelli. La
confusione fa sì che il nome sfugga, ma dovrebbe trattarsi di Carl Anderson, la cui importante conoscenza è citata
anche nei ringraziamenti del disco “Media Res” .
L’apertura è costituita da timbri diversi: flauto, maracas, legnetti vari e percussioni. Quando inizia il tema,
l’atmosfera è decisamente afro-latin. Il suono della tromba è roboante e ben compensato dal fraseggio più soffice del
sax. Grande energia sfoggiate anche durante l’assolo: le frasi della tromba si fanno concitate e vorticoso è il suo
eloquio.
La ritmica percussiva è un caleidoscopio di colori, suoni e ritmi. Il contrabbasso avanza pulsante. Forsennata diviene
l’esecuzione. Poi, d’un tratto, si ritorna alla melodia. Finale in diminuendo, sfumato. Ottimo anche qui il dualismo a
calare d’intensità di tromba e sax.
Per concludere possiamo dire che è stato un concerto molto interessante che ha fatto emergere le varie facce
complementari di questo gruppo: a volte, forti reminiscenze etniche legate attraverso l’universale linguaggio del jazz,
altre, un universo musicale vicino al latin jazz ma con “spruzzate” anche afro ed arabiche.
È, in ogni caso, un ottimo sestetto jazz, in cui la grande abilità dei suoi musicisti a produrre suoni “esotici” con
strumenti classici li rende ancora più interessanti ed apprezzabili.
Marco Maimeri
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