La donna del Cortegiano nel contesto della tradizione (XVI secolo)

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La donna del Cortegiano nel contesto della tradizione (XVI secolo)
Departament de Filologia Romànica
Programa: Tradiciones y crisis
2005-2007
Autora: Anna Romagnoli
Directora: Maria de las Nieves Muñiz Muñiz
Departament de Filologia Romànica
Universitat de Barcelona
2009
Departament de Filologia Romànica
Programa: Tradiciones y crisis
2005-2007
Autora: Anna Romagnoli
Directora: Maria de las Nieves Muñiz Muñiz
Departament de Filologia Romànica
Universitat de Barcelona
2009
Departament de Filologia Romànica
Programa: Tradiciones y crisis
2005-2007
Autora: Anna Romagnoli
Directora: Maria de las Nieves Muñiz Muñiz
Departament de Filologia Romànica
Universitat de Barcelona
2009
INDICE
VOLUME PRIMO
pag.
Premessa.
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PARTE I
LA TRADIZIONE FILOGINA E MISOGINA ANTECEDENTE IL CORTEGIANO
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1. Le fonti classiche, ebraiche e cristiane della tradizione misogina e filogina.
1.1. Le fonti classiche: Aristotele, Galeno, Ovidio, Giovenale
1.2. Le fonti ebraiche. L’antico Testamento.
1.3. Le fonti ebraico-cristiane. Gli apologisti, Tertulliano e Cipriano. I padri della Chiesa,
San Girolamo e Sant’Agostino. Il fondatore della Scolastica, San Tommaso.
1.3.1. Eva vs Maria, lussuria e debolezza vs castità e forza.
1.3.2. La supervalutazione della verginità e castità.
1.3.3. Il pensiero degli apologisti in relazione al tema della castità/verginità e lussuria
e in generale delle colpe femminili.
1.3.4. Il pensiero dei padri della chiesa, San Girolamo e Sant’Agostino.
1.3.4.1. San Girolamo: dalla misoginia alla misogamia.
1.3.4.2. Sant’Agostino: la questione femminile nell’ottica teologica.
1.3.5. San Tommaso e la parziale rivalutazione della donna-Eva nell’interazione
costruttiva con l’uomo.
1.3.6. Conclusioni sul tema Eva e Maria.
2. La letteratura misogina e filogina medievale e preumanistica.
2.1. Tra misoginia e filoginia: Andrea Capellano, Giovanni Boccaccio, Francesco Petrarca.
2.2. Intellettuali e opere di linea decisamente filogina: l’opera anonima «Fiori di virtù»
[sec. XIV], «Le Livre de la Cité des Dames» [1405] di Christine de Pizan.
3. Dall’analisi dei vizi e delle virtù ai precetti di comportamento: la precettistica italiana fra
fine Duecento e Trecento: da Egidio Romano a Francesco da Barberino.
4. La letteratura misogina e filogina nella trattatistica spagnola.
5. Il vizio d’origine della letteratura filogina.
6. «Della eccellenza e dignità delle donne» [1525] di Galeazzo Flavio Capra, un trattato in lode
e onore delle donne, di tre anni anteriore al «Cortegiano».
6.1. Tavola di confronto sintetico tra Capra e Castiglione.
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PARTE II
IL MODELLO DELLA PERFETTA DONNA DI PALAZZO
NEL CORTEGIANO DI BALDESAR CASTIGLIONE
7. Premessa
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SEZIONE I
8. Il “cortigiano” Castiglione. L’esperienza del femminile.
8.1. La relazione tra vita e ideologia.
8.2. La madre riverita: amministratrice e mediatrice.
8.3. La moglie amata.
8.4. La Duchessa Elisabetta Gonzaga ed Emilia Pio: oggetto di devozione tra cortese e
cortigiana.
8.5. Una gentildonna di indubbia e dubbia stima: Vittoria Colonna.
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SEZIONE II
9. La rappresentazione della donna nel percorso di stesura del Cortegiano.
9.1. Impostazione della trattazione e contributi critici.
9.2. La lettera al Frisia in onore delle donne (1508).
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9.3. La trattazione specifica del tema femminile e amoroso nelle diverse redazioni del
«Cortegiano»
9.4. La presentazione iniziale della Duchessa e di Emilia Pio nel contesto della corte
nella stratificazione progressiva del testo.
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SEZIONE III
10. Il femminile nel «Cortegiano»: la sua relazione col maschile.
10.1. Una menzione preliminare: la corte di Urbino nei suoi rappresentanti principali,
i duchi Federico e Guidubaldo e soprattutto la duchessa Elisabetta. La funzione
esemplare delle figure di potere per i cortigiani e le donne di palazzo.
10.1.1. Tavola di confronto fra le caratteristiche e le funzioni del duca e della duchessa e
quelle del cortigiano e della donna di palazzo.
10.2. Tavola di confronto fra virtù e funzioni del cortigiano e della donna di palazzo.
10.3. La trattazione della virtù della donna di palazzo nel contesto della rinnovata celebrazione
della corte d’Urbino.
10.4. Le premesse e il contraddittorio che precede la modellizzazione della perfetta donna di
palazzo.
10.5. La specificità del femminile e la complementarità col maschile.
Differenze e somiglianze tra donna di palazzo e cortigiano.
10.6. Il compito specifico della donna di palazzo: l’intrattenimento.
10.7. Gli esercizi del corpo della donna di palazzo: la danza, il canto, la musica
10.8. La cura del corpo e l’abbigliamento: la costruzione dell’immagine di sé: sommo
artificio-somma naturalezza. Il ruolo della grazia, sprezzatura, discrezione nel
raggiungimento della buona fama.
10.9. La cultura della donna di palazzo.
10.10. Un’assenza: l’esclusione della donna di palazzo dalla sfera del politico.
10.11. Un’altra assenza: la donna di palazzo vecchia.
10.12. L’amor cortese e l’amor platonico: una presenza femminile importante,
ma fino a che punto?
10.12.1. L’amor cortese.
10.12.2. L’amor platonico
10.13. L’inasprimento della diatriba tra filogini e misogini e il recupero delle fonti antiche.
La reinterpretazione in chiave filogina dei presupposti misogini.
10.13.1. Gli esempi probanti dei cataloghi.
10.13.1.1. Tavola di riepilogo degli esempi di virtù femminile riportati nei cataloghi del
3º libro per bocca del Magnifico Juliano e del signor Cesare Gonzaga.
10.13.1.2. Gli esempi: un materiale più arretrato rispetto alla modellizzazione della
perfetta donna di palazzo.
10.13.1.3. Le fonti.
10.14. Il confronto di genere come linea frizzante che attraversa tutto il “ Cortegiano”.
10.14.1. Tavola di riepilogo sulle donne nelle facezie, come relatrici e come soggetto che
compie od oggetto che subisce la facezia o burla.
10.14.1.1. La funzione liberatoria delle facezie e la loro normazione.
10.14.2. Tavola esemplificativa su accuse misogine e difese filogine, attuate da cortigiani
o da Emilia Pio e dalla duchessa.
10.14.2.2. Un breve spaccato sulla ricorrenza delle note misogine, a dequalificazione della
donna, nel Libro IV.
10.15. Comportamenti femminili e maschili nella diegesi.
10.15.1. Una ricognizione sull’interazione tra femminile e maschile nella diegesi nel terzo
libro.
10.16. Tavola di confronto delle posizioni filogine e misogine nel “Cortegiano” e di queste
rispetto alla tradizione, con distinzione di quanto, al di là della polemica degli
interlocutori, ci sembra condiviso da Castiglione.
10.17. La tela del discorso. Oltre il femminismo convenzionale.
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SEZIONE IV
11. La comunicazione.
11.1. Le ragioni dell’approfondimento.
11.2. La donna, anzi la dama di palazzo, come facilitatrice della comunicazione.
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11.2.1. La funzione e la normativa teorizzata.
11.2.2. La prassi: i comportamenti delle donne di corte nella conversazione nella parte del
dialogo che tratta della donna di palazzo (Fine Libro II e intero Libro III).
11.2.3. Il linguaggio del corpo nella comunicazione.
11.2.4. Ricapitolazione della comunicazione al femminile.
11.3. La comunicazione come assunto fondamentale interno all’opera.
11.4. La comunicazione come ragion d’essere dell’opera d’arte.
I principi di poetica, lo scrittore, il pubblico.
11.5. La lingua della comunicazione letteraria.
11.6. Il ruolo, nella promozione della comunicazione, del genere letterario prescelto e del
dedicatario.
11.8. Per concludere.
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VOLUME SECONDO
PARTE III
L’EREDITÀ DEL CORTEGIANO NEL CINQUECENTO.
LA CONCEZIONE E LE REGOLE DEL COMPORTAMENTO DELLA DONNA NELLA
PRODUZIONE SUCCESSIVA AL CORTEGIANO
1
.
12. Excursus introduttivo sulle linee guida della trattatistica sulla donna del Cinquecento e sulla
importanza del tema del matrimonio.
12.1.Un panorama variegato in cui la donna non si riscatta dalla sua condizione di organo del
maschile.
12.2. Il matrimonio, argomento e preoccupazione fondamentale della precettistica successiva
al «Cortegiano».
13. Gli epigoni di Castiglione: un saggio di rassegna cronologica
13.1. La «precettistica» realistica: «Il Dialogo de la bella creanza de le donne» ovvero
la «Raffaella» di Alessandro Piccolomini [1539].
13.1.1. Un controcanto al «Cortegiano» all’insegna dell’impulso naturale e del criterio
utilitaristico. Un’educazione corruttrice. Ma sotto il velo dell’ambiguità.
13.1.2. Gli insegnamenti della «Raffaella».
13.1.3. Un breve schema di sintesi per un confronto fra il «Cortegiano» e la «Raffaella»
13.2. La trattatistica comportamentale: funzioni e comportamenti della donna nel privato.
L’«Instituzione» di Alessandro Piccolomini [1542-1560].
13.2.1. Dalla «Raffaella» all’«Instituzione»: una premessa.
13.2.2. Le tracce della «Raffaella» e l’influenza del «Cortegiano».
13.2.3. L’educazione del giovine nobile.
13.2.4. Per un approfondimento sul canone pedagogico, con destinatario privilegiato
il soggetto maschile.
13.2.5. «Della conversazione e intertenimento con donne nobili»
13.2.5.1. Tavola di sintesi su norme e funzioni di genere nella conversazione e sulla diatriba
di genere. Linee portanti del ritratto femminile. Confronto col «Cortegiano».
13.2.6. L’amor cortese e il matrimonio.
13.2.7. Il matrimonio
13.2.7.1. I criteri per la scelta della moglie.
13.2.7.2. I compiti del marito.
13.2.7.3. I compiti della moglie.
13.2.7.4. Due tavole di riepilogo per il rapporto di coppia secondo Piccolomini e un confronto
con la ‘coppia’ del «Cortegiano»
13.3. Il «Dialogo delle bellezze delle donne» di Agnolo Firenzuola [1541].
13.3.1. Tavola di confronto fra la donna di Castiglione e quella di Firenzuola
13.4. «Il Raverta» di Giuseppe Betussi [1544].
13.4.1. Tavola di confronto fra la donna di palazzo del «Cortegiano» e la gentildonna
patrizia del «Raverta», nella modalità di partecipare alla conversazione.
13.5. «Ragionamento di messer Francesco Sansovino nel quale brevemente s’insegna a’ giovani
uomini la bella arte d’amare» [1545] .
13.5.1. Tavola di riepilogo per un confronto sintetico tra il «Cortegiano», la «Raffaella»,
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il «Ragionamento di messer Francesco Sansovino nel quale brevemente s’insegna
a’ giovani uomini la bella arte d’amare».
13.6. Il «Dialogo della istitutione delle donne» di Ludovico Dolce [1545].
13.6.1. Tavola di confronto fra la donna di Castiglione, di Piccolomini nell’«Instituzione»,
di Dolce.
13.6.2. Tavola di confronto fra il «Reggimento e costumi di donna» di Francesco da Barberino
[1264-1348] e il «Dialogo della instituzione delle donne» di Ludovico Dolce [1545].
13.7. «Angoscia doglia e pena. Le tre furie del mondo» di Michelangelo Biondo [1546].
13.7.1. Tavola di confronto fra la donna di Castiglione e la donna di Biondo.
13.7.2. Tavola di confronto fra la donna di Piccolomini nella «Raffaella» e nell’«Instituzion
morale» e quelle di Firenzuola e di Biondo.
13.8. Lo « Specchio d’amore» di Bartolomeo Gottifredi [1547].
«Dialogo di Messer Bartolomeo Gottifredi nel quale alle giovani s’insegna
innamorarsi»
13.8.1. Tavola di riepilogo per un confronto sintetico tra il «Cortegiano», la «Raffaella»,
lo «Specchio d’amore».
13.9. «Dialogo della infinità d’amore» di Tullia d’Aragona [1547].
13.9.1. Tavola di confronto fra la donna di palazzo di Castiglione e Tullia.
13.9.2. Tavola di confronto fra Baffa, la protagonista del «Raverta», e Tullia.
13.10. «Il libro della bella donna» di Federico Luigini da Udine [1554].
13.10.1. Tavola di confronto sintetico tra il «Cortegiano» e il «Libro della bella donna»
13.11. «Il Convito overo Del peso della moglie» di Giovanni Battista Modio [1554].
13.11.1. Tavola di confronto tra Castiglione, Piccolomini, Modio.
13.12. La « Leonora» di Giuseppe Betussi [1557].
13.12.1. Tavola di confronto fra la donna del «Cortegiano» e Leonora
13.12.2. Tavola di confronto fra Baffa, Tullia e Leonora
13.13. Il «Galatheo» di Monsignor Giovanni della Casa, ovvero l’eclisse della donna [1558].
13.13.1. L’assunto pedagogico: essere costumato, piacevole e di belle maniere. La finalità:
l’essere bene accetto in società.
13.13.2. I comportamenti da evitare, ovvero gli atteggiamenti che dispiacciono.
13.13.3. Le regole del parlare, ossia i difetti da evitare.
13.13.4. Quale menzione si fa delle donne nel «Galateo»?
13.13.5. Un confronto sintetico del «Galateo» col «Cortegiano».
13.14. «La civil conversazione» di Stefano Guazzo [1573].
13.14.1. Il modello del «Cortegiano» e il suo adattamento alle istanze promozionali del
patriziato urbano.
13.14.2. La dedica e il proemio.
13.14.3. La protagonista del Libro Primo: la «civil conversazione».
13.14.3.1. Il femminile all’interno del Libro primo: una presenza nell’ombra.
13.14. 4. Il Libro Secondo: finalmente una menzione diretta del femminile nel quadro
di un’interazione di genere.
13.14.4.1. La ‘conversazione’, ossia la relazione tra uomini e donne. La proiezione ridotta
della diatriba tra filogini e misogini del «Cortegiano».
13.14.5. Il Libro Terzo: la donna diviene oggetto di attenzione, ma all’interno della ‘domestica
conversazione’ col marito e come soggetto da educare secondo la sua specificità di
genere.
13.14.6. Il Libro Quarto: la donna ‘regina’ dei giochi serali. La messa in scena della
civil conversazione in un convito privato.
13.14.7. Forme e sostanza. Il punto su alcuni aspetti fondamentali del pensiero di Castiglione,
Della Casa e Guazzo.
13.14.8. Tavola di confronto fra la donna di Castiglione, Piccolomini, Dolce, Guazzo.
13.15. Due voci femminili contro la recrudescenza della tradizione misogina in periodo
controriformistico: Moderata Fonte e Lucrezia Marinella.
13.15.1. Moderata Fonte, « Il merito delle donne» [1600]. Una critica al potere
maschile sotto la tutela dell’ambiguità.
13.15.1.1. Luoghi tradizionali e formulazioni innovative di accusa del maschile e
valorizzazione del femminile. (Tavola.)
13.15.1.2. Corinna e le altre. (Tavola)
13.15.1.3. Le donne del «Cortegiano» e quelle del «Merito delle donne». (Tavola)
13.15.1.4. La moglie nell’«Instituzione morale» e nel «Merito delle donne». (Tavola)
13.15.1.5. Il femminile nella «Città delle dame» e nel «Merito delle donne». (Tavola)
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13.15.2. Lucrezia Marinella, «Le nobiltà, et eccellenze delle donne: et i difetti, e mancamenti
de gli huomini» [1600]. L’assunzione del modello femminile dall’immaginario
poetico maschile.
13.15.2.1. Argomenti filogini, esempi nel catalogo, fonti. (Tavola)
13.15.2.2. Accuse agli uomini, esempi nel catalogo, fonti. (Tavola)
13.15.2.3. Un confronto fra le due scrittrici, Moderata Fonte e Lucrezia Marinella.
(Tavola)
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14. Conclusioni.
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BIBLIOGRAFIA
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SIGLE
BIBLIOGRAFIA PRIMARIA
AF = Agnolo Firenzuola, Dialogo della bellezza delle donne, [1552] in Agnolo
Firenzuola, Opere scelte, a cura di Giuseppe Fatini, Torino, Unione Tipografica Editrice
Torinese, 1966, pp. 469-549.
B = Michelangelo Biondo, Angoscia, doglia e pena. Le tre furie del mondo, [1546], in
Trattati del Cinquecento sulla donna, a cura di Giuseppe Zonta, Bari, Laterza e figli,
1913, pp. 72-220.
C = Baldessar Castiglione, Il libro del Cortegiano, [1528]: Il Cortegiano del conte
Baldesar Castiglione annotato e illustrato da Vittorio Cian, a cura di Vittorio Cian,
Firenze, Sansoni, 1910 (seconda edizione accresciuta e corretta).
CC = Stefano Guazzo, La civil conversazione, [1573], ed. a cura di Amedeo Quondam,
Panini, Modena, 1993.
CD = Galeazzo Flavio Capra, Della eccellenza e dignità delle donne, [1525], a cura di
Maria Luisa Doglio, Roma, Bulzoni, 2001, 2º edizione.
FB = Francesco da Barberino, Reggimento e costumi di donna, Codici manoscritti,
Barberiniano Latino 4001 già 2997 (sigla BL) (sec. XIV), Capponiano 50 (sigla Capp.)
(sec.XVII); edizione: Reggimento e costumi di donna, edizione critica a cura di
Giuseppe E. Sansone, Roma, Zauli Editore, 1995.
G = Giovanni della Casa, Il Galatheo [1559], ed. a cura di Gennaro Barbarisi, Marsilio
Editori,Venezia, 1991.
GB = Giuseppe Betussi, La Leonora, [1557], in Trattati d’amore del Cinquecento, a
cura di Giuseppe Zonta, Bari, Laterza, 1967, pp. 305-348.
GDC = Giovanni Della Casa, Quaestio lepidissima an uxor sit ducenda, Se si debba
prender moglie, [1554] in Prose di Giovanni della Casa e altri trattatisti
cinquecenteschi del comportamento, a cura di Arnaldo Di Benedetto, Torino, UTET,
1970, in Classici Italiani, collezione diretta da Mario Fubini, Classici, pp. 47-133.
GS = Bartolomeo Gottifredi, Specchio d’amore, [1547], in Prose di Giovanni della
Casa e altri trattatisti cinquecenteschi del comportamento, a cura di Arnaldo Di
Benedetto, Torino, UTET, 1970 (Classici Italiani, collezione diretta da Mario Fubini,
Classici Utet), pp. 577-631.
L = Federico Luigini da Udine, Il libro della bella donna, [1554], in Trattati del
Cinquecento sulla donna, a cura di Giuseppe Zonta, Bari, Laterza e figli, 1913, pp. 221305.
M = Giovanni Battista Modio, Il Convito overo Del peso della moglie, [1554], in
Trattati del Cinquecento sulla donna, a cura di Giuseppe Zonta, Bari, Laterza e figli,
1913, pp. 309-365.
1
PI = Alessandro Piccolomini. L’instituzion morale, [1560, ed. corretta; la prima ed. è
del 1542 e reca il titolo: De la institutione di tutta la vita de l’homo nato nobile e in citta
libera libri X in lingua toscana…composti dal s. Alessandro Piccolomini - Venetiis :
apud Hieronymum Scotum, 1542 (Venetiis : apud Hieronymum Scotum)] citato in
Prose di Giovanni della Casa e altri trattatisti cinquecenteschi del comportamento, a
cura di Arnaldo Di Benedetto, Torino, UTET, 1970 (Classici Italiani, collezione diretta
da Mario Fubini).
PR = Alessandro Piccolomini, La Raffaella, [ 1539] in Prose di Giovanni della Casa e
altri trattatisti cinquecenteschi del comportamento, a cura di Arnaldo Di Benedetto,
Torino, UTET, 1970 (Classici Italiani, collezione diretta da Mario Fubini), pp. 431-506.
R = Giuseppe Betussi, Il Raverta, [1544] in Trattati d’amore del Cinquecento, a cura di
Giuseppe Zonta, Bari, Laterza & figli, 1912, pp. 1-149.
S = Francesco Sansovino, Ragionamento di messer Francesco Sansovino nel quale
brevemente s’insegna a’ giovani uomini la bella arte d’amore, [1545], in Trattati
d’amore del Cinquecento, a cura di Giuseppe Zonta, Bari, Laterza & figli, 1912, pp.
151-182.
T = Tullia d’Aragona, Dialogo della infinità d’amore, [ 1547], in Trattati d’amore del
Cinquecento, a cura di Giuseppe Zonta, Bari, Laterza & figli, 1912, pp. 185-248.
BIBLIOGRAFIA SECONDARIA
AC = Adriana Chemello, La donna, il modello, l’immaginario: Moderata Fonte e
Lucrezia Marinella, in Nel cerchio della luna. Figure di donna in alcuni testi del XVI
secolo, a cura di Marina Zancan, Torino, Marsilio Editori, 1983, pp. 95-170.
DC = Daniela Costa, La “Raffaella” di Alessandro Piccolomini: un’armonia nella
disarmonia?, in Disarmonia bruttezza e bizzarria nel Rinascimento, Atti del VII
Convegno Internazionale (Chianciano-Pienza 17-20 luglio 1995), a cura di Luisa Secchi
Tarugi, Firenze, Franco Cesati Editore, 1995, pp. 145-154.
DF = Daniela Frigo, Dal caos all’ordine: sulla questione del “prender moglie” nella
trattatistica del sedicesimo secolo, in Nel cerchio della luna. Figure di donna in alcuni
testi del XVI secolo, a cura di Marina Zancan, Torino, Marsilio Editori, 1983, pp. 57-94.
FD = Francine Daenens, Superiore perché inferiore: il paradosso della superiorità
della donna in alcuni trattati italiani del Cinquecento, in Trasgressione tragica e norma
domestica, a cura di Vanna Gentili, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1983, pp.
11-50.
MZ = Marina Zancan, La donna nel Cortegiano di B. Castiglione. Le funzioni del
femminile nell’immagine di corte, in Nel cerchio della luna. Figure di donna in alcuni
testi del XVI secolo, a cura di Marina Zancan, Torino, Marsilio Editori, 1983, pp. 13-56.
2
Premessa.
Il presente lavoro mira a meglio definire il pensiero di Castiglione sulla donna e
la posizione da lui assunta nel Cortegiano1 in relazione alla plurisecolare questione della
natura e del ruolo femminile, individuando i punti di svolta più significativi nella
precettistica cinquecentesca da lui influenzata.
La critica sull’immagine e sul ruolo della donna nel Cortegiano o nel contesto
della trattatistica rinascimentale presenta a tutt’oggi come rilevanti contributi il saggio
di Marina Zancan2 sul ruolo della donna nel Cortegiano, di Francine Daenens,3 attenta
ai limiti della filoginia nei trattati rinascimentali –un tema su cui esprimono le loro
riserve anche Guidi,4 in relazione a Castiglione e la Piéjus5 in relazione a Piccolomini–,
di Daniela Frigo,6 che si interessa soprattutto alla trattatistica sul matrimonio, di Valeria
Finucci7 che conduce una lettura del rapporto tra cortigiani e dame di palazzo in termini
freudiani, oltre a brevi saggi relativi al passaggio dal silenzio alla parola e al contegno
del corpo, che offrono spunti interessanti anche per la lettura di Castiglione, e opere di
tematica più ampia che pure affrontano ruolo e immagine femminile all’interno di un
discorso più complesso: ci riferiamo al saggio sulla musica di Lorenzetti8 e a quello
sulla conversazione di Quondam.9
Per il resto numerosissime sono le opere critiche sul Cortegiano, ma incentrate
prevalentemente sul modello maschile che ne è l’assunto principale, o sulla sua
contestualizzazione e storia, o su aspetti quali la simulazione, la sprezzatura, la
comunicazione, sulla tipologia del dialogo, sulle scelte di lingua. Anche la dama di
palazzo può affiorarvi qua e là, ma non è l’oggetto di un compiuto e ampio discorso
specifico, quello che invece noi abbiamo inteso fare, ponendo comunque attenzione alle
relazioni con la tradizione che lo precede e lo segue.
1
Baldassarre Castiglione, Il libro del Cortegiano del conte Baldesar Castiglione, (In Venetia :
nelle case d'Aldo Romano, & d'Andrea d'Asola, 1528 del mese d'Aprile), in Baldesar Castiglione, Il
Cortegiano del conte Baldesar Castiglione annotato e illustrato da Vittorio Cian, a cura di Vittorio Cian,
Firenze, Sansoni 1910 (seconda edizione accresciuta e corretta).
2
Marina Zancan, La donna nel Cortegiano di B Castiglione. Le funzioni del femminile
nell’immagine di corte, in Marina Zancan (ed.) Nel cerchio della luna. Figure di donna in alcuni testi del
XVI secolo, Torino, Marsilio Editori, 1983, pp.13-56.
3
Francine Daenens, Superiore perché inferiore: il paradosso della superiorità della donna in
alcuni trattati italiani del Cinquecento, in Trasgressione tragica e norma domestica, Vanna Gentili (ed.),
Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1983, pp. 11-50.
4
José Guidi, De l’amour courtois à l’amour sacré : La condition de la femme dans l’oeuvre de B.
Castiglione, in José Guidi, Marie-Françoise Piejus, Adelin-Charles Fiorato, Images de la femme dans la
littérature italienne de la Renaissance. Préjugés misogynes et aspirations nouvelles, Paris, Université de
la Sorbonne Nouvelle, 1980, pp. 9-80.
5
Marie-Françoise Piéjus, Venus bifrons: le double idéal féminin dans «La Raffaella»
d’Alessandro Piccolomini, in José Guidi, Marie-Françoise Piejus, Adelin-Charles Fiorato, Images de la
femme dans la littérature italienne de la Renaissance. Préjugés misogynes et aspirations nouvelles, cit.,
pp. 81-167.
6
Daniela Frigo, Dal caos all’ordine: sulla questione del “prender moglie” nella trattatistica del
sedicesimo secolo, in Marina Zancan (ed.) Nel cerchio della luna. Figure di donna in alcuni testi del XVI
secolo, cit., pp. 57-94.
7
Valeria Finucci, L’educazione dei fratelli: legge del padre e sua riscrittura nel libro del
«Cortegiano», in Giorgio Patrizi e Amedeo Quondam (edd.), Educare il corpo, educare la parola nella
trattatistica del Rinascimento, Roma, Bulzoni Editore, 1998, pp. 367-391.
8
Stefano Lorenzetti, Musica e identità nobiliare nell’Italia del Rinascimento: educazione,
mentalità, immaginario, Firenze, L. S. Olschki, 2003.
9
Amedeo Quondam, La conversazione: un modello italiano, Roma, Donzelli, 2007.
3
Va aggiunto che la critica fino ad ora, quando specificatamente orientata
sull’immagine della donna, ha seguito un orientamento prevalentemente femminista,
proprio perché tale linea è stata dominante negli ultimi decenni in relazione alla
condizione femminile. Così è stato per la Zancan che ha evidenziato i limiti
dell’emancipazione culturale e interattiva della donna di palazzo nell’intrattenimento,
guardandola in relazione al sapere e al potere maschile, e sottolineando la sua funzione
riflessa, ossia di rispecchiamento narcisistico del cortigiano, e la metaforizzazione del
suo ruolo materno nella promozione dei discorsi, insomma la sua perdurante
funzionalità ai bisogni e al benessere del maschio, e il suo costituire l’oggetto di un
discorso maschile, come limiti che metterebbero in dubbio la filoginia di Castiglione. In
questa prospettiva ha dimenticato il ruolo positivo riconosciuto da Castiglione al
linguaggio del corpo, soffermandosi invece sul passo in cui la battuta del misogino ne
autorizza la svalutazione come forma di irrazionale violenza, lasciando così intuire la
persistenza nella sua stessa valutazione critica del pregiudizio misogino della donnamateria, per cui si considerano i linguaggi non verbali e razionali come sottolinguaggi.
Così pure la Daenens ha voluto cogliere nella stessa filoginia maschile un
inganno per la donna ed evidenziato le tecniche usate per produrre il consenso
femminile, tra le quali l’elogio funzionale a mantenerne la dipendenza, l’uso dei
paradossi che favoriscono una valutazione ambigua e duplice, e l’introduzione nel
dialogo di personaggi femminili più conservatori di quelli maschili, quanto
all’immagine e alle funzioni della donna.
Anche Guidi ha rilevato il limite delle aperture di Castiglione, non solo nei rari
interventi di parola assegnati alle donne, ma anche e soprattutto nel costante richiamo
all’onestà e alla difesa dell’onorabilità che evidenzia il permanere di un severo controllo
sociale sulla donna trasferito dal marito alla pubblica opinione, oltre che nell’ostracismo
dell’adulterio femminile. Ed ha sostanzialmente tacciato di utopia un discorso di
emancipazione femminile fortemente contenuto da opposte istanze sociali, che via via
acquisiscono maggior peso nel Cortegiano, lasciandone una traccia nello stesso iter
delle diverse stesure.
Parimenti la Piéjus, nel suo studio sulla Raffaella di Piccolomini, ha denunciato
la presenza di una linea maschilista volta a favorire il libertinaggio maschile sotto
parvenza di voler riconoscere il diritto della donna al piacere, ed anche l’inconciliabilità
fattuale del duplice ideale femminile, da una parte di moglie pudica, adattata in tutto ai
bisogni del marito, e dall’altra di libera, colta e piacevole amante.
Per parte sua Daniela Frigo ha additato nella centralità assegnata nel
Cinquecento al matrimonio e alla tutela della onorabilità della famiglia e della certezza
della discendenza un elemento chiave per spiegare la perdurante dipendenza della donna
e la preoccupazione di educarla.
Valeria Finucci ha affrontato il rapporto di genere e quello gerarchico all’interno
della corte in termini più specificatamente freudiani, sottolineando il ruolo della
presenza-assenza del duca-padre e della figura sostitutiva della duchessa-madre, a
questo fine deeroticizzata, nel favorire una presunta fratellanza, che spiegherebbe il
rapporto contratto e contenuto a livello erotico dei cortigiani con le sorelle-dame di
palazzo.
Di tutte queste interpretazioni ci siamo giovati, ma tutte ci hanno lasciato
l'impressione di un certo appiattimento unidimensionale, spingendoci a cercare altri
approcci e soprattutto a condurre una lettura comparata dei trattati nel loro evolversi e
nel loro dinamico intrecciarsi. Occorreva, insomma, allargare il contesto e la
prospettiva.
4
In tale senso ci sono stati di aiuto gli studi di Quondam e di Lorenzetti pur
avendo col femminile una solo parziale attinenza. Quondam, nel saggio sulla
conversazione aristocratica, rileva l’importanza assuntavi dalla donna per la
teorizzazione di Castiglione, con il persistente problema però del controllo della
chiacchiera vana che pretende l’acculturazione, nonché dell’onestà, quest’ultima una
mediazione necessaria della libertà all’interno dei giochi di seduzione della corte,
comprovati anche dalla frequenza dei ragionamenti d’amore. Con queste osservazioni
Quondam, se ancora rivolge l’occhio all’emancipazione femminile in termini di
conquista della parola e acquisizione della cultura, pur in forma complementare al
maschio, ne suggerisce anche a latere la funzione di seduzione e piacere, come di un
dato che ne suffraga la centralità. Lorenzetti ci ha permesso di ricondure la relazione tra
seduzione musicale e seduzione femminile a questioni di maggior portata sociale in
rapporto all'identità nobiliare nell’Italia del Rinascimento.
Interessanti anche per fornire un quadro complessivo della condizione della
donna in questa civiltà attentissima alle regole del galateo sociale i brevi saggi
concernenti il passaggio dal silenzio alla parola, o la normativa relativa al contegno del
corpo, anch’esso un elemento socializzante. Tra questi ricordiamo il saggio di Patrizi10
che percorre la pedagogia del silenzio dai classici al Medioevo al Rinascimento
rilevandone anche la consegna prevalente per le donne, e quelli della Romagnoli11 e
dell’Haroche12 che, sebbene evidenzino l’importanza sociale del rispetto delle regole,
riferendosi soprattutto a soggetti maschili, forniscono tuttavia il quadro di riferimento in
cui si normerà la donna per assumerla a positivo soggetto sociale.
A noi sembra che il prevalente punto di vista femminista recuperi
sostanzialmente l’ottica filogina più tradizionale, che è quella di riconoscere nella donna
la presenza a pieno titolo di attributi maschili quali l’intelligenza, per autorizzarne
l’accesso in pari dignità a spazi di dominio privilegiato del maschio, come ad esempio
la cultura, o comunque di insistere sulla pari dignità per favorire pari libertà e pari
opportunità. Di qui l’evidenziazione delle aperture di Castiglione in termini di
concessione dell’accesso allo spazio e alla relazione pubblica, nonché alla cultura, ma
anche la denuncia delle sue persistenti limitazioni nell’acculturazione come
nell’interazione dialogica, nel controllo della castità femminile, nella promozione dei
miglioramenti in funzione delle nuove necessità maschili, un percorso che anche noi
abbiamo condotto, pur con qualche oscillazione. Difficile infatti determinare con
rispetto del tempo storico i limiti della filoginia di Castiglione e molto complesso
l’intreccio delle argomentazioni e dei diversi piani di lettura da quello della
modellizzazione, per noi il più significativo, a quello della diegesi, in cui si infiltrano
maggiormente i limiti della prassi reale, a quello della disputa che potrebbe
parzialmente fuorviare sugli orientamenti reali con la riproposizione accademica della
contrapposizione di genere, agli esempi dei cataloghi e delle facezie, alle stesse battute
del dialogo.
10
Giorgio Patrizi, Pedagogia del silenzio. Tacere e ascoltare come fondamenti dell’apprendere, in
Giorgio Patrizi e Amedeo Quondam (edd.), Educare il corpo, educare la parola nella trattatistica del
Rinascimento, cit., pp. 415-424.
11
Daniela Romagnoli, Parlare a tempo e luogo: galatei prima del “Galateo”, in Giorgio Patrizi e
Amedeo Quondam (edd.), Educare il corpo, educare la parola nella trattatistica del Rinascimento, cit.,
pp. 43-64.
12
Claudine Haroche, Il contegno nella educazione del corpo, in Giorgio Patrizi e Amedeo
Quondam (edd.), Educare il corpo, educare la parola nella trattatistica del Rinascimento, cit., pp. 65-76.
5
Ma ci sembra sostanzialmente sfuggito alla critica, forse proprio perché di
orientamento prevalentemente femminista, il ruolo positivo che la donna esercita anche
in quanto oggetto del piacere, promotrice del piacere (ossia dell’amore) con la sua
bellezza, con la sua molle tenerezza fisica, con la sua capacità di interazione piacevole,
con la sua stessa virtù relazionale che si estrinseca in forme aggraziate e affabili, ma
anche contenute nella onestà, modestia, gravità, nella conciliazione ossimorica di
suavitas e gravitas, e il fatto che il contenimento delle pulsioni nella norma incivilitrice
è un ulteriore elemento di piacevolezza e seduzione. Quello che a prima vista può essere
percepito solo come ethos, come una rigida morale che vorrebbe quasi spegnere l’eros,
in realtà lo conserva in sé e ne diviene quasi una forma. E questa ci sembra una lettura
più semplice, ma autorizzata, dell’opera in termini freudiani, perché, secondo noi, è
rinvenibile nel Cortegiano il superamento del disagio della civiltà, la conciliazione tra
pulsioni e norma inibitrice, la traduzione della stessa norma, proprio perché
sostanzialmente estetica, in una forma ulteriore di piacere. Bellezza, grazia, misura,
funzionano come qualità esteriori e interiori, non tanto o non soltanto perché
l’esteriorità sia la proiezione dell’interiorità, ma per una simbiosi profonda e reciproca
tra essere e parere. Siamo di fronte a una rivalutazione della donna per la sua specificità
femminile estetica, che si traduce anche in una modalità relazionale che incivilisce
attraverso la stessa mediazione estetica. Ancora un semplificato Freud, se vogliamo, con
le due forme di piacere, quello della percezione della bellezza e quello della liberazione
sublimata delle pulsioni, favorita dall’arte. Non per niente il Rinascimento è il
movimento culturale che valorizza bellezza, piacere e cultura, e promuove una società
relazionale e incivilita, quella della conversazione piacevole. Ed è proprio in questo
ambito che la donna trova la sua maggiore rivalutazione e di qui deriva secondo noi, e
non tanto dal ruolo materno, la sua funzione di mediazione.
Questa è la linea che ci sembra più pertinente e innovatrice, una linea, lo
dobbiamo dire, che siamo venuti via via scoprendo nel corso del nostro lavoro,
inizialmente impostato ancora in chiave femminista, che abbiam ritenuto opportuno
sfumare e integrare con altre prospettive. Percorrere questa linea interpretativa, che
tende a rivalutare il contributo di Castiglione alla emancipazione femminile, non è stato
facile perché c’è effettivamente in Castiglione almeno una ‘mediocrità difficile’, un
equilibrio raffinato che scivola nella precarietà, quasi in un’ambiguità o in un gioco
astuto di dissimulazione, per cui resta infine impossibile come per l’analisi in termini di
filoginia o misoginia pervenire a una valutazione certa. Se è indubbio che la donna
acquisisce importanza per la bellezza, la temperanza, la grazia, la funzione mediatrice
che ne fanno un prototipo della civiltà rinascimentale, permane anche l’impressione che
essa resti avvolta nel cono d’ombra del cortigiano del quale sembra essere in funzione.
E fino a che punto i ripetuti richiami all’onestà, modestia, gravitas castigano l’eros, o
esso si esprime in forme solo velate, e per questo addirittura più seducenti, a partire
dalla molle delicatezza delle carni fino ai pur spirituali baci platonici e alla seduzione
dell’interazione affabile e piacevole, pur temperata e in quanto temperata dalla gravitas?
Una domanda che ci ha a lungo accompagnati e cui abbiamo tentato di dare una risposta
di mediazione, avvalendoci di presupposti estetici e freudiani. D’altra parte l’assoluta
rilevanza data agli effetti di piacere, incivilimento ed elevazione dell’amor cortese e
platonico, che hanno a movente la bellezza femminile, rimanda ancora una volta alla
sua valorizzazione come perno della vita associata, anche questo un aspetto non
sufficientemente rilevato dalla critica femminista.
Ancor di più ci sembra sfuggito alla critica un altro aspetto importante di
rivalutazione del femminile, quello della femminilizzazione del maschile, con
l’attribuzione al cortigiano delle doti di bellezza e grazia, una linea assolutamente
6
innovatrice che inverte quella tradizionale della filoginia, di attribuzione alla donna di
doti maschili, e che noi abbiamo cercato di spiegare non solo in chiave esteticorelazionale e incivilitrice, ma anche in relazione al diversificato ruolo del nobile, da
cavaliere d’arme a cortigiano, uomo di fatto prevalentemente di lettere e di mondo,
asservito al principe, in relazione al quale viene investito di connotazioni femminili di
servitù, amore, diplomazia, seduzione, che vanno valorizzate per non esserne
squalificati.
Un ulteriore punto che meritava maggiore attenzione è quello della riprovazione
dell’adulterio e della coniugazione dell’amor cortese col matrimonio, un’operazione
culturale di non poco peso, perché opposta in questo alla tradizione cortese, pur ribadita
sotto altri aspetti in quanto forma importante della civiltà di corte, e funzionale a un
riaccreditamento del matrimonio, una preoccupazione fondamentale della trattatistica
successiva, che troverà il più completo interprete nel Piccolomini dell’Instituzion
morale. Importante perciò accennare ai giochi ossia alle relazioni intercorrenti fra
castità e piacere, nel matrimonio come nell’amor cortese e in quello platonico, una sua
prosecuzione sublimata. L’attenzione prestata da Guidi a questo aspetto è ancora
orientata a leggerlo come deprivazione del piacere cortese, piuttosto che come
riconoscimento e accentuazione del piacere del matrimonio.
Il nostro discorso quindi si muove sostanzialmente su questi quattro fronti, con
un’estensione a filoni contigui, spesso interrelati all’interno dei testi come della nostra
disamina del Cortegiano e dei suoi epigoni: la bellezza esteriore e interiore, nelle
componenti estetiche, virtuose ed erotiche, con attenzione all’amor cortese e platonico;
l’emancipazione (cultura, ruolo pubblico di intrattenitrice, ruolo domestico di moglie
nel matrimonio) e il ruolo assunto nella promozione della comunicazione (un ruolo
tanto importante che ci è sembrato meritare un ampliamento anche all’interno della
finalità e della tessitura complessiva dell’opera nell’impostazione dialogica, nelle scelte
linguistiche, e di destinatario testimonial, seguendo i suggerimenti di Scarpati che
individua nella comunicazione l’assunto fondamentale del Cortegiano); la coniugazione
tra amor cortese e matrimonio, e quindi il riscatto dell’amore coniugale, un aspetto
sviluppato poi da Piccolomini, e, all’interno del matrimonio, la relazione tra i coniugi
con un perdurare della condizione di subordinazione della donna, ma in genere anche
con un appello alla responsabilizzazione e ad atteggiamenti amorosi e civili del marito;
la cooperazione tra i generi, pur nella distinzione dei compiti legati alle diverse
specificità naturali; la femminilizzazione dell’uomo e l’incivilimento complessivo dei
rapporti che ne consegue, dal ripetuto richiamo al rispetto della donna alle aperture
verso i servi di Piccolomini e di Guazzo che invitano i padroni a comportamenti
illuminati e benevoli e al buon esempio, come dei nobili agli ignobili e dei letterati agli
‘idioti’ di Guazzo, atteggiamenti insomma civili nella sostanza oltre che nella forma,
confermati e ampliati al codice prossemico da Della Casa, all’interno di relazioni
improntate appunto al rispetto e al decoro, con una estensione comportamentale e
sociale del campo di azione della grazia castiglionesca.
E inoltre ci si è soffermati anche su aspetti più marginali rispetto alla nostra
trattazione, ma interferenti con questa e per sé stessi molto importanti come il rapporto
tra essere e parere.
In questo percorso così fortemente segnato da Castiglione in relazione ai suoi
epigoni, sottolineiamo che il problema che doveva risolvere Castiglione era quello di
accreditare un’immagine pubblica di donna che la liberasse sia dai condizionamenti
sociali (la relegazione nel privato), sia dal misoginismo, favorendo però di lei la
percezione di una compagna e non di una rivale dell’uomo, e quindi attenuando i
7
termini della polemica filogina. Un’operazione condotta con raffinato equilibrio, su cui
abbiamo insistito assai nel nostro lavoro.
Per favorire la comprensione di questa novità è stato necessario stagliarla sullo
sfondo della tradizione misogina e filogina, il che ha comportato una disamina di voci
della cultura classica (Aristotele, Galeno, Ovidio, Giovenale) ed ebraico-cristiana, dal
Vecchio Testamento agli apologisti e ai padri della Chiesa fino a San Tommaso, per
inoltrarci brevemente nella cultura medievale italo-franco–ispanica, e poi ancora nel
periodo umanistico e primorinascimentale fino alle porte del Cortegiano.
In questa prospettiva si capisce facilmente che il libro di Castiglione ci abbia
interessato nella sua interezza e non solo nel Libro terzo consacrato alla donna. La
presenza del femminile vi è stata rintracciata anche negli interstizi, negli esempi dei
cataloghi e delle facezie, nella disputa tra filogini e misogini, nella relazione teorica con
la modellizzazione maschile, e nell’interazione diegetica. Abbiamo giudicato soprattutto
importante il confronto col modello maschile, perché in relazione a questo si danno
abitualmente e si modificano le condizioni e valutazioni del femminile, essendo esso
storicamente il detentore del potere in una società millenariamente patriarcale e
identificandosi i suoi bisogni anche in quelli sociali istituzionalizzati. Vedremo così che
la modellizzazione della donna di palazzo in Castiglione si determina nelle sue
innovazioni in funzione del cortigiano, un modello umano nuovo rispetto all’antenato
cavaliere, che ha a suo supporto una prassi sociale già invalsa e condivisa.
Abbiamo inoltre approfondito la posizione di Castiglione sul femminile
esaminando aspetti biografici, lettere e opere minori, nonché alcune varianti
significative nel lungo percorso di stesura del Cortegiano.
L’influenza del Cortegiano è stata poi inseguita attraverso i trattati imperniati
sull’educazione del gentiluomo e della gentildonna, sull’amor cortese e platonico, sulla
bellezza femminile, sulla comunicazione, sul matrimonio.
Per la forte intertestualità orizzontale e verticale gli epigoni sono stati presentati
in ordine rigorosamente cronologico in modo da evidenziarne le eventuali dipendenze,
pur tenendo presente innanzitutto il Cortegiano. Accanto ai maggiori, Piccolomini,
Della Casa e Guazzo, sono stati analizzati anche altri trattatisti di minore spicco ma non
meno significativi per ricostruire i meandri di una tradizione tutt'altro che lineare: Il
dialogo delle bellezze delle donne di Firenzuola e Il libro della bella donna di Luigini,
Angoscia, doglia e pena. Le tre furie del mondo di Biondo, Il convito di Modio, il
Dialogo dell’Instituzione delle donne di Dolce, il Raverta e la Leonora di Betussi, il
Dialogo dell’infinità d’amore di Tullia d’Aragona, fino all’ascolto di voci di scrittrici
sulla questione di genere, Moderata Fonte con Il merito delle donne e Lucrezia
Marinella con La nobiltà et eccellenza delle donne et i diffetti e mancamenti de gli
huomini, due trattati che ci hanno permsso di saggiare l’opinione delle donne sulle
donne. Né abbiamo dimenticato le voci dissonanti e di fronda su problematiche
sottaciute, come la Raffaella di Piccolomini, lo Specchio d’amore di Gottifredi, il
Ragionamento di Sansovino.
Il percorso sugli epigoni ci ha così permesso di meglio capire la centralità e
superiorità di Castiglione, lumeggiando retroattivamente alcuni suoi aspetti da essi
sviluppati.
L'analisi condotta su una massa così varia di testi ci ha confermati nell'idea che
le parti prendono luce dal contesto generale non meno di quanto la visione complessiva
non venga illuminata dai dettagli. Così, abbiamo anche offerto volta per volta degli
spaccati sotto forma di tavole sinottiche che mettono a confronto i temi chiave di ogni
autore sia in relazione alle varie immagini di donna e al rapporto col maschile che alle
argomentazioni misogine e filogine.
8
Quanto ai saggi critici che ci hanno offerto un significativo aiuto nel nostro
lavoro, ricordiamo che per la costruzione del percorso sulla tradizione misogina e
filogina classica e medievale è stato fondamentale il contributo dell’opera di Robert
Archer, Misoginia y defensa de las mujeres (trad. sp., Madrid, Cátedra, 2001). Un altro
supporto relativamente a questa sezione ci è stato offerto dall’articolo di Mª Estela
Maeso Fernández, Defensa y vituperio de las mujeres castellanas (Nuevo Mundo
Mundos Nuevos, N. 8, 2008).
Ulteriori contributi sull’immagine della donna nel Rinascimento, oltre a quelli
già citati della Zancan, della Daenens, della Frigo, e della Finucci, e dello stesso
Quondam e Lorenzetti, sono stati offerti dal pregevole commento introduttivo di
Adriana Chemello al Merito delle donne di Moderata Fonte (Venezia, Eidos, 1988) e
dal suo saggio su Moderata Fonte e Lucrezia Marinella, La donna, il modello,
l’immaginario: Moderata Fonte e Lucrezia Marinella, in Marina Zancan (ed.), Nel
cerchio della luna. Figure di donna in alcuni testi del XVI secolo (Torino, Marsilio
Editori, 1983, pp. 95-170), dall’opera di José Guidi, Marie- Françoise Piejus, AdelinCharles Fiorato, Images de la femme dans la littérature italienne de la Renaissance.
Préjugés misogynes et aspirations nouvelles (Université de la Sorbonne Nouvelle, Paris,
1980), a proposito non solo del Cortegiano, ma anche della Raffaella di Piccolomini e
di Bandello, nonché da Daniela Costa, sulla Raffaella, da María José Vega su Poesía y
música en el Quinientos: la fantasía aristocratica («Res publica litterarum», Instituto
Lucio Anneo Séneca, 2006), e dal volume curato da Silvana Seidel Menchi e Diego
Quaglioni, Trasgressioni. Seduzione, concubinato, adulterio, bigamia (XIV- XVIII
secolo) (Bologna, Il Mulino, 2004) relativo al contesto istituzionale.
Altrettanto utili per l’approfondimento sullo studio del Cortegiano, per il saggio
introduttivo e le note offerte, sono state, oltre all’edizione curata da Vittorio Cian
(Firenze, Sansoni, 1910), quelle di Walter Barberis (Torino, Einaudi, 1998), e di
Amedeo Quondam (Mondadori, Milano,,2002) di cui risultano particolarmente
importanti «Questo povero Cortegiano». Castiglione, Il Libro, la Storia (Roma,
Bulzoni, 2000), per la storia testuale ed editoriale, la descrizione dell’ambiente urbinate,
italiano ed europeo, dei dedicatari, della tipologia culturale del gentiluomo d’Antico
regime, e il saggio già citato La conversazione: un modello italiano (Roma, Donzelli,
2007). A questi vanno aggiunti i saggi della Muñiz relativi alla ricezione del Cortegiano
nell’ambiente spagnolo del Cinquecento e del Seicento, Il libro del Cortegiano”
tradotto da Boscán: Nota su un lapsus maschile pro femminile («Quaderns d’Italià», 6,
2001, 101-108) e Sulla ricezione paratestuale del “Cortegiano” di Castiglione in
Spagna e su un sommario seicentesco sconosciuto della traduzione di Boscán, in Studi
offerti a Giovanni Caravaggi (Padova, Unipress, 2008); quello di Alvariño Corte y
cortesanos en la monarquía de España (in Educare il corpo, educare la parola nella
trattatistica del Rinascimento, a cura di Giorgio Patrizi e Amedeo Quondam, Bulzoni,
Roma 1998, pp. 297-365), per il senso del servizio cortigiano e dell’educazione a corte,
e di Giorgio Bárberi Squarotti, L’onore in corte. Dal Castiglione al Tasso (Franco
Angeli, Milano,1986), per la centralità dell’onore nella vita del nobile, cavaliere,
cortigiano, gentiluomo. E inoltre l’importante opera di Mazzacurati, Il Rinascimento
dei modemi. La crisi culturale del XVI secolo e la negazione delle origini (Bologna, Il
Mulino, 1985), sull’allontanamento delle nuove corti dalle origini municipali e sulla
crisi del mondo ‘naturale’ a favore dell’affermazione di una seconda natura aristocratica
avulsa dalla specificità territoriale e tendenziamente universale, e lo stesso saggio già
citato sulla relazione tra la musica e l’identità nobiliare di Lorenzetti (Musica e identità
nobiliare nell’Italia del Rinascimento: educazione, mentalità, immaginario, Firenze, L.
S. Olschki, 2003).
9
In particolare poi, per lo studio delle varie fasi dell’elaborazione del testo, ci
siamo avvalsi delle opere di Ghinassi, soprattutto dell’edizione della Lettera al Frisia
(Fasi dell’elaborazione del Cortegiano, Firenze, Sansoni, 1967, pp. 155-196, estr. da:
«Studi di filología italiana: bollettino dell’Accademia della Crusca», 1967, vol. 25) e
dell’edizione critica della seconda redazione del Cortegiano (Firenze, Sansoni, 1968),
nonché dei volumi di U. Motta, Castiglione e il mito di Urbino. Studi sull’elaborazione
del «Cortegiano» (Milano, Vita e Pensiero, 2003), di Quondam, «Questo povero
Cortegiano», già citato, e dei saggi di Scarpati (Osservazioni sul terzo libro del
«Cortegiano», «Aevum», 3, 1992, pp. 519-537) e di Angela Carella (Il libro del
cortegiano di Baldassarre Castiglione, in Letteratura italiana. Le opere, vol. I: Dalle
origini al Cinquecento, Torino, Einaudi, 1992, pp. 1089-1126). Motta ci ha fornito
inoltre utili informazioni sull’ambiente cortigiano della corte urbinate e romana, e sul
circolo letterario degli Horti romani, nonché su aspetti della vita, dell’operato politico e
letterario del dedicatario, Miguel De Silva e delle relazioni di Castiglione con
quest’ultimo. Del saggio di Scarpati ci siamo avvalsi anche per aspetti relativi alla
centralità della comunicazione nell’assunto del Cortegiano e ai rapporti con la moglie,
emergenti da lettere e da opere letterarie. Di quello della Carella, per ulteriori
approfondimenti in relazione al tema della donna e al genere dialogico, alla lingua, allo
stile, argomenti per analizzare i quali ci si è serviti anche dell’opera di Ghinassi e di
Fedi, La fondazione dei modelli. Bembo, Castiglione, Della Casa (in Storia della
letteratura italiana, vol. IV: Il primo Cinquecento, Salerno, Roma, 1996, pp.507-594) e
della Zorzi Pugliese (Il discorso labirintico del dialogo rinascimentale, Roma, Bulzoni,
1995) e ancora di Quondam sul dialogo nella Civil conversazione. Di tutti i testi citati,
per la centralità del tema della comunicazione anche in relazione alla finalità dell’opera,
alla scelta del genere, della lingua e del dedicatario.
Quanto al tema del silenzio come elemento di educazione nella tradizione
medievale e umanistica, merita una speciale menzione il saggio già citato di Patrizi,
Pedagogia del silenzio. Tacere e ascoltare come fondamenti dell’apprendere (in
Educare il corpo, educare la parola nella trattatistica del Rinascimento, a cura di
Giorgio Patrizi e Amedeo Quondam, Bulzoni, Roma 1998, pp. 415-424), e per quello
delle facezie nella conversazione, contestualizzata all’interno dell’ambito sociale del
Cortegiano e del Galateo, il saggio di Pignatti, La facezia tra «res publica literarum» e
società cortigiana (ivi, pp. 239-269) oltre a quello sulla conversazione di Quondam,
mirato a presentarla come un modello italiano e a cogliere l’archetipo del discorso
faceto in Pontano. Per approfondimenti sulla vita e le relazioni con le donne più
significative, la madre, la moglie, la duchessa ed Emilia Pio, e Vittoria Colonna, nobile,
intellettuale ed amica, sono risultati importanti la biografia di Serassi (Vita del conte
Baldessar Castiglione,... allegata all’edizione del Libro del Cortegiano, Comino,
Padova 1766), i riferimenti di Scarpati, nonché le Lettere dello stesso Castiglione (in
Tutte le opere di Baldassar Castiglione, vol. I, Tomo I e II, a cura di Guido La Rocca,
Mondadori, 1978) e la già citata opera di Quondam, «Questo povero Cortegiano».
Castiglione, Il Libro, la Storia. Di quest’ultima pure il carteggio con Vittoria Colonna
in relazione alla richiesta di restituzione dell’opera.
Per ampliare le conoscenze sopra le connotazioni della nobiltà ci siamo avvalsi
dell’opera di Karl Ferdinand Werner, Nascita della nobiltà. Lo sviluppo delle élite
politiche in Europa (Einaudi, Torino, 2000), e del canone umanistico delle virtù sociali
del nobile stabilito da Giovanni Pontano, I libri delle virtù sociali (a cura di Francesco
Tateo, Bulzoni, Roma, 1999), e infine, per i codici di comportamento in generale, del
Dictionnaire raisonné de la politesse et du savoir-vivre a cura di Alain Montandon
10
(Éditions du Seuil, Parigi, 1995), nonché del volume Educare il corpo, educare la
parola nella trattatistica del Rinascimento (Bulzoni, Roma, 1998), più volte citato.
Interessanti anche i contributi critici su Piccolomini della Stella, L’educazione
femminile nella trattatistica rinascimentale. L’instituzione di Alessandro Piccolomini,
(Bologna, Bulzoni, 1992); della Cestelli Guidi, Educare a essere «anticamente
moderno». L’ «instituzione» del nobile secondo Alessandro Piccolomini, in Giorgio
Patrizi e Amedeo Quondam (edd.), Educare il corpo, educare la parola nella
trattatistica del Rinascimento, cit., pp. 165-180; della Piéjus, Venus bifrons: le double
idéal féminin dans «La Raffaella» d’Alessandro Piccolomini, in José Guidi, MarieFrançoise Piejus, Adelin-Charles Fiorato, Images de la femme dans la littérature
italienne de la Renaissance. Préjugés misogynes et aspirations nouvelles, cit., pp. 81167; della Costa, La “Raffaella” di Alessandro Piccolomini: un’armonia nella
disarmonia?, in Disarmonia bruttezza e bizzarria nel Rinascimento, Atti del VII
Convegno Internazionale (Chianciano-Pienza 17-20 luglio 1995), Luisa Secchi Tarugi
(ed.), Firenze, Franco Cesati Editore, 1995, pp. 145-154. Ma particolarmente
accattivante per la perizia dell’analisi e la verve dello stile il saggio di Baldi, Tradizione
e parodia in Alessandro Piccolomini (Lucca, M. Pacini Fazzi, 2001), in cui si conduce
un confronto puntuale tra la Raffaella e il modello parodiato del Cortegiano.
Importante poi il contributo critico su Guazzo ancora di Quondam nel suo
commento introduttivo all’opera di Guazzo, La civil conversazione (Venezia, presso
Altobello Salicato, 1573) (Modena, Panini, 1993).
Interessanti inoltre perché forniscono un quadro storico della donna in relazione
a immagine, considerazione, costumi e istituzioni i testi citati sull’argomento in
bigliografia, tra cui, per la condizione della donna nell’età classica, toccata da noi di
sfuggita a livello testuale, i volumi curati da Françoise Frontisi Ducroux e Jean-Pierre
Vernant, Ulisse e lo specchio. Il femminile e la rappresentazione di sé nella Grecia
antica (Roma, Donzelli Editore, 2003) e da Danielle Gourevitch e Marie-Thérèse
Raepsaet Charlier, La donna nella Roma antica (Firenze, Giunti, 2003).
Precisiamo infine che per evidenziare certi passaggi dell’argomentazione sono
stati usati diversi caratteri tipografici: il corpo 12 per i rilievi critici più importanti
introduttivi e conclusivi dei diversi paragrafi e per le parti e i capitoli inerenti
strettamente la donna, il corpo 11 per le riproposizioni articolate dello sviluppo del
discorso di Castiglione in particolare laddove concerne il maschile (il cortigiano posto a
confronto con la donna di palazzo) e per l’articolazione del discorso specifico sulla
conversazione sia di Della Casa che di Guazzo, il corpo 10 per le tavole e per le
citazioni, oltre che per le note.
In genere il passaggio dal corpo 12 al corpo 11, nella trattazione della sezione Il
femminile in rapporto col maschile nel Cortigiano, poiché accorpato sotto un’unica
epigrafe è stato segnalato con l’interposizione di due spazi; così pure il passaggio tra un
discorso sintetico introduttivo e lo sviluppo dettagliato dell’argomento sulle orme del
dialogo o dello sviluppo nel testo; o la trattazione dei dettagli della conversazione di
Della Casa e di Guazzo perché solo indirettamente riguardanti il nostro assunto, a livello
emblematico e di contestualizzazione generale. Il corpo 12, oltre che in tutte le parti
riguardanti esplicitamente la donna, è stato conservato anche per la trattazione dei
minori, del resto su questa più direttamente incentrati.
Per l’Instituzione di Piccolomini si è fatto riferimento (a causa delle differenze
tra la redazione del 1542 e quella del 1560, e a causa della diversa fruibilità degli
strumenti a disposizione) a 3 edizioni: la redazione dell’Instituzione del 1542, nella
11
edizione digitale della Biblioteca italiana,13 la redazione del 1560 nella presentazione
antologica di Arnaldo Di Benedetto14 (in Prose di Giovanni della Casa e altri trattatisti
cinquecenteschi del comportamento, Torino, UTET, 1970, pp. 507-569), entrambe
facilmente accessibili, e nella edizione integrale (Venezia, presso Francesco Ziletti,
1583),15 di difficile reperibilità (citata solo in rapporto alla trasformazione della
relazione tra amor cortese e matrimonio, nel passaggio dal L. IX dell’edizione del 1542
al L. X di quella del 1560, assente nella raccolta di passi offerta da Di Benedetto).
L’edizione è stata sempre precisata. Qualora comparisse la sigla PI, essa si riferisce alla
redazione del 1560 nella presentazione antologica di Arnaldo Di Benedetto.
13
Piccolomini, Alessandro, L’istituzione dell’uomo, Roma, Biblioteca italiana, 2004, edizione
digitale della fonte cartacea, che riproduce la redazione del 1542, Piccolomini, Alessandro, Della
institutione di tutta la vita dell'huomo nato nobile, et in citta libera. libri diece in lingua toscana, doue et
peripateticamente, e platonicamente, intorno alle cose dell'etica, e iconomica, e parte della politica, e
raccolta la somma di quanto principalmente puo concorrere alla perfetta, e felice uita di quello, In
Vineggia : per Francesco dell'Imperadori, 1559.
14
Piccolomini, Alessandro, Della institutione morale di m. Alessandro Piccolomini libri XII. Ne’
quali egli levando le cose soverchie, & aggiugnendo molte importanti, ha emendato, & a miglior forma &
ordine ridotto tutto quello che già scrisse in sua giovanezza della Institution dell’huomo nobile (In
Venetia, appresso Giordano Ziletti, 1560 [prima ed.: De la institutione di tutta la vita de l’homo nato
nobile e in città libera libri X in lingua toscana…composti dal s. Alessandro Piccolomini, Venetiis apud
Hieronymum Scotum, 1542], in Prose di Giovanni della Casa e altri trattatisti cinquecenteschi del
comportamento, a cura di Arnaldo Di Benedetto, Torino, UTET, 1970, pp. 507-569.
15
Piccolomini, Alessandro, Della institution morale di M. Alessandro Piccolomini libri XII, in
Venetia, 1583, presso Francesco Ziletti.
12
PARTE I
LA TRADIZIONE FILOGINA E MISOGINA ANTECEDENTE IL CORTEGIANO
13
1. Le fonti classiche, ebraiche e cristiane della tradizione misogina e filogina.
1.1. Le fonti classiche: Aristotele, Galeno, Ovidio, Giovenale.
Inferiorità e lussuria della donna concepita come uomo mutilato.
Ad Aristotele si deve l’aver introdotto il concetto della donna come uomo
mutilato, cooperante nella generazione con la materia, con il corpo, cui il maschio dona
la forma, l’anima. Embrione, mestruazione, allattamento sono oggetto di riflessione da
parte del filosofo che considera le mestruazioni come una forma di sperma mancante del
principio dell’anima e una liberazione del corpo dai residui. I teorici medici, tra cui
Galeno, videro l’apparato riproduttivo della donna come lo specchio di quello
dell’uomo, posto però al rovescio: ovari-testicoli/ utero-scroto/ vagina-pene/ labbraprepuzio. Le parti generative della donna che corrispondono a quelle del maschio, in
forma invertita e poste all’interno del corpo, non sarebbero potute uscire per il difetto di
calore, intenso invece nel maschio. Il difetto di calore nella donna sarebbe un segno
della sua imperfezione perché il calore è lo strumento principale della natura e abbonda
nel maschio. Tuttavia questa imperfezione della donna risulterebbe funzionale alla
procreazione e sarebbe quindi un vantaggio per la specie umana. Secondo il sistema
degli umori, ritenuto valido fino al XVII secolo, la donna aveva comunque una naturale
umidità necessaria alla fertilità. Tale umidità (frutto di una specie di seme dell’utero) si
poteva conservare nella misura giusta con il coito che liberava dall’eccesso di umidità,
causa di irritazione dei nervi e di isteria. Il coito quindi si presentava come un aiuto alla
fertilità e all’equilibrio della donna.
È evidente che queste teorie filosofiche e medico-ginecologiche autorizzavano la
svalutazione della donna, e perché contrassegnata dalla imperfezione in quanto mutilata
negli organi sessuali rispetto al maschio e priva del suo calore, e perché cooperante
nella generazione a livello di materia e non di forma e di anima, e per di più bisognosa
del coito per la sua stessa salute, il che implica una sua naturale incontenibile lussuria.
Da rilevare inoltre come questa teoria medica sostenga da una parte la definizione
denigratoria della donna sotto l’aspetto sessuale «semper parata ad coitum», «lassata
sed non satiata», frase di Giovenale indicante lo stato di insoddisfazione della donna
dopo il coito, e dall’altra contraddica le opinioni dei moralisti e teologi per i quali la
pratica del coito era corruttrice per le donne. Secondo questi ultimi esso provocava nella
donna un aumento del desiderio per la ricerca dell’opposto, e quindi dello sperma caldo,
da parte della natura fredda, ossia dell’utero, per l’eccesso di umidità e l’assenza di
misura e per la minore intensità del piacere da compensarsi con la quantità. A
detrimento ulteriore della donna veniva utilizzato un altro aspetto ginecologico: la
mestruazione, intesa come processo di depurazione dei residui prodotti dal corpo che la
donna non poteva bruciare a causa della sua natura fredda, a differenza di quanto
succedeva nell’uomo, e come flusso di sangue velenoso. Si riteneva ad esempio che la
donna mestruata facesse morire gli alberi che incrociava e ancora a livello popolare
sussiste la credenza che, se una donna mestruata tocca una pianta, la fa seccare. Si
riconosceva tuttavia che durante il concepimento tale sangue diventasse la materia di
Aristotele, Parti degli animali. Riproduzione degli animali, traduzione di Mario Vegetti e Diego
Lanza, 2º ed., Roma, Laterza, 1990-XII, e trad. sp.: Reproducción de los animales, traduzione di Ester
Sánchez, Madrid, Gredos, 1994, pp. 143-144, 147-148, 149.
Galeno, De usu partium corporis humani, traduzione di Robert Archer, dalla edizione con
versione latina di Karl Gottlieb Kühn, Medicorum graecorum opera...Claudii Galeni (Lipsiae, 1822),
tomo 4, pp.158-162.
14
formazione dell’embrione e successivamente servisse per produrre il latte. Se però la
donna praticava il coito durante l’allattamento, il latte si trasformava in veleno. In
conclusione le teorie mediche appoggiavano l’idea del genere femminile come
accessorio complementare al maschio per gli organi sessuali rovesciati adatti a
contenere quelli maschili e per la funzione di fornire la materia per la procreazione. Non
solo, suffragavano anche l’idea della donna come creatura pericolosa, e accanto alla
giustificazione del coito per la tutela della salute della donna, suggerivano anche la
condanna di un’eccessiva lussuria nel periodo dell’allattamento.
Nell’ambito della letteratura classica, tra gli autori latini che determinarono una
tradizione nella considerazione della donna, ricordiamo Ovidio e Giovenale. Ovidio
unisce ad aspetti misogini elogi delle donne e critiche agli uomini. Tra i rilievi di
carattere misogino si possono elencare, a) quello della lussuria: le donne hanno piacere
degli amori nascosti e nutrono un ardore sessuale senza limiti a differenza del maschio
trattenuto dalle leggi (Ars amandi, libro I, vv. 269-281), b) quello della malvagità, le
donne, simboleggiate da Elena, incitano alla guerra (Amores, libro II, 12, vv. 17-29), c)
quello dell’ira incontenibile: la furia della donna ingannata nei confronti della rivale
(Ars amandi, libro II, vv. 373-387). Non mancano però anche figure di donne
eccezionali, meritevoli di elogio, quali Penelope (Ars amandi, libro III, vv. 7-24, 29-41).
Inoltre Ovidio si serve del mito in funzione esemplare, secondo una modalità tipìca
della letteratura classica, conservata anche nella produzione letteraria successiva.
Giovenale si presenta invece come il campione della misoginia nella satira VI e vi usa
al solito toni declamatori e parossistici. Le donne sono presentate come aggressive,
lussuriose, vanagloriose, adultere. Per Giovenale il matrimonio è una forma di schiavitù
da evitare a tutti i costi: la moglie grida, si lamenta, pretende doni, gode nel tormentare
il marito, vuole comandare, segue i propri capricci, fa la gelosa e tradisce con un
atteggiamento impudente. L’esempio più patente della lussuria femminile è quello
dell’imperatrice Messalina, che soddisfaceva i suoi desideri lussuriosi facendo la
prostituta in un postribolo. Insopportabili sono anche le donne letterate e vanagloriose.
Inguardabili quelle che si pongono unguenti e cosmetici per farsi belle e si presentano al
marito così mal conciate, per essere poi belle per l’amante. Infine le donne ricche
abortiscono. Conviene al marito aiutarle in questo, altrimenti si troverebbero padri di un
bastardo, magari nero, etiope. Nasce così un repertorio, o piuttosto, un ritratto canonico
che avrá lunga vita nella letteratura europea.
1.2. Le fonti ebraiche. L’antico Testamento.
La donna viziosa, malvagia, collerica vs la donna virtuosa, pudica, operosa, saggia, fonte di
onorabilità per il marito.
Nella Bibbia troviamo sia la svalutazione della donna in generale o come donna
cattiva, sia la valorizzazione della donna buona. Nell’ Ecclesiastico 9, 1-9, si consiglia
in generale di non confidarsi, non lasciarsi dominare da una donna, evitare le cortigiane,
le prostitute, le vergini, le sposate, le donne altrui. Per la donna si perde la libertà e la
vita. Ma si distingue anche tra donne cattive e donne buone, ad es. nell’Ecclesiastico 25,
1, 8, 11-25, e, se ancora si rileva la perversità della donna come somma malizia, la
collera di una donna come la peggiore possibile, l’essere mantenuti da una donna come
Publius Ovidius Naso, Amores, Heroides, Medicamina faciei feminae, Ars amatoria, Remedia
amoris, a cura di Adriana Della Casa, Torino, UTET, 1982.
Aulus Persius Flaccus; Decimus Iunius Iuvenalis, Le Satire, a cura di Paolo Frassinetti, Torino,
UTET, 1956.
15
fonte di schiavitù e vergogna, e si presenta la donna come principio del peccato, si
chiama anche felice il marito di moglie giudiziosa, il che significa che alla donna si
riconoscono anche valori, quali quelli dell’assennatezza, e la sua possibilità di essere
benefica e non solo malefica per il maschio. Così pure in Ecclesiastico 26, 1-9, si recita:
«felice il marito di una buona moglie poiché il numero dei suoi giorni sarà raddoppiato
[...] La grazia di una sposa rallegra il marito e la scienza di lei lo ingrassa. Dono del
Signore è una moglie che sta zitta e un’anima bene educata non ha prezzo. Grazia sopra
grazia è la moglie pudica e un’anima casta non ha prezzo». E si celebra la grazia
femminile con paragoni con il sole, la lampada brillante, le colonne di oro. E ancora
nella «Lettera di Salomone». Libro dei proverbi, 31, 10-31, la buona moglie è operosa,
lavora la lana e il lino, sa fare affari, sa guidare la servitù, fa sì che suo marito sia
apprezzato, si veste di forza e dignità, apre la bocca con saggezza, ha sulla lingua parole
di amore, di carità, non è oziosa, teme Dio.
Siamo insomma di fronte a celebrazione di virtù che contrastano in modo
simmetrico con i vizi tipicamente femminili: silenzio vs chiacchiera, castità vs lussuria,
assennatezza vs leggerezza, operosità vs oziosità, carità vs maldicenza e irosità.
1.3. Le fonti ebraico-cristiane. Gli apologisti, Tertulliano e Cipriano. I padri
della Chiesa, San Girolamo e Sant’Agostino. Il fondatore della Scolastica, San
Tommaso.
Eva vs Maria, lussuria e debolezza vs castità e forza.
Eva vs Eva, tra difetti e pregi: l’interazione costruttiva con l’uomo.
Ma le figure del Vecchio e Nuovo Testamento intorno a cui si concentra la
dialettica sulla questione femminile nell’epoca della patristica e nel Medioevo sono Eva
e Maria. E mentre Maria è vista solo come buona, le interpretazioni di Eva oscillano: a
volte è percepita solo come piena di difetti, vizi e colpe, a volte invece le si riconoscono
anche delle qualità e dei meriti, ed è soprattuto in relazione alla figura di Eva che si
coglie l’intreccio degli elementi misogini e filogini. Converrà quindi tentare ora una
breve introduzione su alcuni aspetti fondamentali dell’interpretazione delle due figure,
e, successivamente, approfondirne la problematica, dopo avere dato spazio alla
patristica per il peso che questa ha nella codificazione teologica successiva. In
coincidenza con le teorie mediche classiche si pone il topos cristiano medievale della
donna come essere imperfetto, che a livello teologico costituisce comunque un
problema perché era dogma di fede che Dio non potesse creare un essere imperfetto.
1.3.1. Eva vs Maria, lussuria e debolezza vs castità e forza.
L’idea della donna come essere/uomo imperfetto trova sostegno nel mito della
creazione secondo la Genesi 2, 15-3, 24: Eva è formata dalla costola di Adamo solo in
funzione di sua compagna, si lascia persuadere dal serpente e convince Adamo a
peccare, apre la porta al peccato. La colpevolezza di Eva viene esasperata
dall’interpretazione di sant’Agostino che, primo tra i padri della Chiesa, ritiene che la
sua colpa sia ricaduta su tutti i suoi discendenti, mentre per gli Ebrei e i cristiani dei
primi tre secoli l’uomo nasceva libero da peccato e con il potere e la responsabilità della
scelta del bene e del male. La donna si identificherà per secoli con l’immagine di Eva:
debole, instabile, trascinata da bassi desideri di gola e lascivia, e da altri difetti come la
superbia. Maria è la figura di donna opposta ad Eva, nella sua purezza e forza. Il saluto
dell’angelo a Maria, «Ave», è stato interpretato come un richiamo, un riferimento ad
una contro Eva, perché la parola coincide con la lettura al contrario di Eva. Maria è però
16
una figura simbolica piuttosto che un modello in cui il genere femminile possa
identificarsi del tutto perché concepisce senza coito. Sta a rappresentare la capacità della
donna di autosuperamento, di dominio della propria femminilità. Attorno a Maria si
collezionano esempi di donne che hanno dominato la propria femminilità. A partire da
san Girolamo si compileranno cataloghi di esempi ascrivibili a quel paradigma
femminile, tratti non solo dall’Antico e dal Nuovo Testamento, ma anche dalla
letteratura classica.
1.3.2. La supervalutazione della verginità e castità.
Sul modello di Maria, che concepisce mantenendo la sua castità, il cristianesimo
valorizzerà la verginità come grado massimo di autosuperamento della donna. A partire
da sant’Agostino prevale l’idea che il desiderio sessuale, al pari della morte, si sia
introdotto nel mondo dopo la caduta nel peccato e che la verginità sia lo stato naturale
degli esseri umani. Di qui l’idea che una donna sposata potesse raggiungere solo uno
stato imperfetto di virtù, consistente nello sforzarsi di essere casta durante il coito da
realizzare solo con l’intenzione della procreazione. Restava aperto il problema di quali
fossero le circostanze in cui il coito fra coniugi dovesse considerarsi peccato. Secondo
alcuni seguaci di sant’Agostino il coito senza peccato era impossibile. Le donne erano
ritenute colpevoli di eccitare nell’uomo il desiderio carnale, al punto che, per evitare
questo, si invitavano gli uomini casti a non stare soli con le sorelle e nemmeno con la
propria madre. L’utilizzo dei cosmetici era condannato come strumento finalizzato
all’eccitazione del desiderio, e parzialmente giustificato solo nelle donne sposate nei
confronti del proprio marito: farsi belle e attraenti serviva a trattenere il marito dal
fornicare con altre donne, e quindi a trattenerlo dal peccare. Interessante è la
preoccupazione non per la fedeltà del marito, ma per la sua anima, e la serie dei minuti
distinguo che dimostra in che ginepraio ci si muovesse. Del resto siamo in un ambiente
religioso di sottili disquisizioni filosofico-teologiche.
1.3.3. Il pensiero degli apologisti in relazione al tema della
castità/verginità e lussuria e in generale delle colpe femminili.
Tertulliano rivolge nel De cultu feminarum un’accusa durissima alle donne,
investite della colpa di Eva, la porta del demonio, la causa del peccato dell’uomo e della
morte del figlio di Dio.
Sei tu la porta del diavolo, sei tu che hai spezzato il sigillo dell’Albero, sei tu la prima che ha
trasgredito la legge divina, sei stata tu a circuire colui che il diavolo non era riuscito a raggirare; tu, in
maniera tanto facile hai annientato l’uomo, immagine di Dio; per quello che hai meritato, cioè la
morte, anche il figlio di Dio ha dovuto morire: e hai ancora in animo di coprire di ornamenti le tue
tuniche di pelle?
Le donne sono per lui colpevoli di leggerezza e di vanagloria, con l’attenzione
alla cura del corpo e all’uso dei gioielli e di vesti ricercate. Truccandosi, inoltre,
peccano contro Dio, perché dimostrano di non apprezzarne l’operato:
2. Peccano contro di lui, infatti, quelle donne che tormentano la pelle con i cosmetici, tingono di
rossetto le guance, allungano gli occhi con nerofumo. Esse, evidentemente, non sono soddisfatte
dell’arte modellatrice di Dio; e in se stesse accusano e criticano l’artefice di ogni cosa. Disapprovano,
Quintus Septimius Florens Tertullianus, De cultu feminarum libri duo, L’eleganza delle donne:
de cultu feminarum, a cura di Sandra Isetta, Firenze, Nardini Editore, 1986, L. I, cap. 1º, pp. 63-64.
17
infatti, mentre correggono, mentre aggiungono, tanto più che questi ritocchi sono presi dall’artefice
avversario.
3. Cioè dal diavolo. Infatti chi mai potrebbe insegnare a modificare il corpo, se non colui che, con
la malizia, ha trasformato lo spirito dell’uomo? E`stato lui, senza dubbio, a suggerire tali invenzioni,
per far violenza in qualche modo a Dio attraverso noi.
4. Ciò che è secondo natura è opera di Dio. Di conseguenza ciò che è inventato artificialmente è
lavoro del diavolo.
Tuttavia Tertulliano sa essere critico anche nei confronti degli uomini che sono
vanitosi come le donne, curano il proprio aspetto e si ammirano allo specchio (L.II, cap.
8). Giudica quindi più con un criterio moralistico uniforme che con un criterio di genere
difforme. Naturalmente l’austerità esteriore torna a vantaggio di quel pudore che è virtù
essenziale, soprattutto delle donne. Sensualità e vanità sono bandite dalla buona
cristiana, casta e aliena dalla seduzione.
Cipriano nel De habitu virginum sottolinea l’importanza della verginità per la
Chiesa, e i valori della castità e del pudore. Per lui l’attenzione alla bellezza esteriore è
scusabile solo nelle donne maritate, e se diretta ad attrarre il marito, mentre non è
giustificabile nelle nubili. Ci si può gloriare del corpo solo nella sua capacità di
sostenere il martirio. La vergine non deve provocare l’attenzione dei maschi, atto che
costituerebbe già una violazione virtuale della castità, e la vergine ricca non deve fare
uso della sua ricchezza per adornarsi e mettersi in evidenza. La verginità è una
condizione che anticipa quella degli angeli; la castità è una scelta che Dio non impone,
ma consiglia, visto che il mondo è già adeguatamente popolato:
3. [...] La vergine è il fiore della chiesa, luce ed ornamento della grazia spirituale, frutto prezioso,
opera scelta ed incorrotta, degna di elogi e di onore, immagine di Dio che riproduce la sua santità, la
porzione più illustre del gregge di Cristo. Per essa la chiesa gode, su di essa fiorisce splendidamente
l’ammirabile fecondità della madre chiesa e mano mano che aumenta il numero delle vergini, cresce
la gioia della madre [...] (p. 53).
5. [...] Non basta che la vergine sia tale, è necessario che la ritengano e la considerino come tale;
nessuno, quando vede una vergine, deve dubitare che non lo sia. La sua purezza deve presentarsi tale
sotto ogni aspetto. Perché la vergine deve andare adornata e composta come se andasse a cercare
marito? Abbia piuttosto timore di piacere, se è vergine, affinché non sia pericoloso per lei, votata a
cose più alte e divine. Chi non ha marito a cui deve piacere esteriormente, deve rimanere casta e pura
non solo nel corpo, ma anche nello spirito. Non è lecito alla vergine farsi bella per far risplendere la
sua figura, né adornare il suo corpo, poiché la lotta maggiore è con la sua carne da sottomettere e
domare [...] (pp. 54-55).
22. [...] Se rimanete caste e vergini, sarete uguali agli Angeli di Dio [...] (p. 65).
23. Il primo precetto fu di generare e di moltiplicare, il secondo quello della castità. Quando il
mondo era incolto e disabitato, si propagò la umanità tramite la fecondità della generazione, e cosí
aumentò il genere umano; ma da quando il mondo si è popolato, quelli che sono capaci della
continenza vivono eunuchi per il regno di Dio.
Il Signore non comanda questo, ma lo consiglia; non impone il giogo dell’obbligo, ma lascia
libera la volontà. Dicendo però, che vi sono molte dimore nella casa del nostro Padre, vuol
significare che vi sono abitazioni migliori. Voi meriterete queste dimore, abbandonando i desideri
della carne (pp. 65-66). 22
Inutile dire che nella cultura cristiana si radica in particolare il tabù della carne e
del sesso e che la virtù dello spirito si esprime e corrobora nella loro negazione: di qui la
raccomandazione della castità e la sua ipervalorizzazione. Per la sua antinaturalità si
trova una giustificazione: la scelta della castità è ammissibile, oltre che auspicabile,
perché non c’è il rischio che il genere umano si estingua. E si aggiunge che la verginità
21
Ivi, L. II, cap. 5º, p.101.
Thascius Caecilius Cyprianus, Delle vergini, in I trattati, traduzione di Giuseppe Sirolli, Siena,
Cantagalli, 1969, pp.51-66., capp. 3, 5, 22, 23, pp. 53-54-55-65-66.
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deve trovare anche una testimonianza esteriore, deve essere patente alla pubblica
opinione, quasi un’anticipazione di quell’attenzione al parere che nel Rinascimento sarà
quasi più importante dell’essere, mentre qui si propone solo come una sua
enfatizzazione.
1.3.4. Il pensiero dei padri della chiesa, San Girolamo e Sant’Agostino.
1.3.4.1. San Girolamo: dalla misoginia alla misogamia.
Anche San Girolamo tratta il tema della verginità nella Lettera a Demetriade,
una giovine che ha deciso di farsi sposa del Cristo, e tra i consigli di continenza e umiltà
si fa strada anche quello dell’operosità, considerata uno strumento utilissimo per evitare
pensieri oziosi e peccaminosi.
Una volta terminati questi periodi di tempo, e dopo aver fatto in ginocchio quelle frequenti
preghiere che la sollecitudine per la tua anima ti avrà ispirato, per il resto tieni sempre in mano la
lana, oppure torci col pollice e riduci in filo il pennecchio della conocchia, o fa’ girare i fusi nella
navetta per tessere la trama; raccogli in gomitoli o avvolgi in matasse per la tessitura il filato delle
compagne. Esamina poi il tessuto fatto, aggiusta quello sbagliato e prepara quello da fare. Se starai
occupata in attività così svariate, i giorni non ti sembreranno mai lunghi [...]. Osservando queste
norme assicurerai la tua salvezza personale e quella delle compagne, sarai la loro maestra in questo
santo genere di vita e avrai come ricompensa la castità d’un gran numero di altre giovani poiché la
Sacra Scrittura dice: «Ogni ozioso ha l’anima schiava delle passioni» (Prv 13, 4).
Non è un motivo per esimerti dal lavorare il fatto che, grazie a Dio, non ti manca nulla; ma devi
lavorare come fanno tutti, in modo che stando occupata non ti venga di pensare a cose che non
riguardano esclusivamente il servizio di Dio.
Voglio parlarti con tutta franchezza: quand’anche avessi distribuito tutti i tuoi averi ai poveri,
nulla sarà più prezioso agli occhi di Cristo che il lavoro fatto con le tue stesse mani, sia che lo faccia
per il tuo fabbisogno, o per dar buon esempio alle altre vergini, o per offrirlo alla nonna e alla madre
onde ricevere da esse un prezzo maggiore da poter destinare al sollievo dei poveri.23
La concezione del lavoro femminile in chiave antiSatana troverà largo seguito.
Ma San Girolamo non si ferma qui. Infatti nel trattato Contra Iovinianum, un monaco
che aveva negato la superiorità della vita ascetica e del celibato, accompagna la
misoginia alla misogamia. Nel commento alla Lettera di San Paolo ai Corinzi, San
Girolamo interpreta in forma più rigida e severa l’invito di Paolo a non toccare donna e
propende per il celibato. A tale fine, elenca i pericoli rappresentati dalla donna: rende
schiavi, controlla, si lamenta, ha continue pretese. Afferma che i bisogni per cui gli
uomini si sposano (avere chi curi la casa, fuggire dalla solitudine, essere consolato nei
momenti tristi), possono essere meglio soddisfatti da un servo fidato. Inoltre l’uomo
saggio non è mai solo, perché ha la compagnia dei libri dei sapienti, può conversare con
Dio e ottenere con la mente ciò che fisicamente non può raggiungere. La stessa
necessità di avere figli che conservino il meglio di noi è falsa perché i figli spesso
tradiscono i padri e conviene lasciare la propria eredità piuttosto a qualche amico
sincero o fare buone opere. I modelli sarebbero Mosé e Samuele che preferirono ai
propri figli altri più degni di Dio.
1.3.4.2. Sant’Agostino: la questione femminile nell’ottica teologica.
23
Hieronymus, Lettera CXXX, A Demetriade, 15, in Lettere, introduzione, traduzione e note di
Silvano Cola, vol. IV, Roma, Città Nuova Editrice, 1997, pp. 329-359, p. 352.
19
Sant’Agostino affronta nel De civitate Dei la problematica in un ambito più
propriamente teologico e contesta la credenza di alcuni in una resurrezione in cui tutti
gli esseri saranno di sesso maschile. Per Agostino, come afferma Cristo nei Vangeli,
resusciteranno i due sessi, in sé naturali e senza peccato, e non ci sarà invece il desiderio
sessuale, il coito, il parto. Quindi sant’Agostino riconosce alla donna la legittimità alla
resurrezione, alla pari dell’uomo, e sottolinea l’unità dei due sessi, facendo riferimento
alla nascita di Eva da Adamo e al suo valore simbolico di Chiesa collegata al Cristo.
Unità dunque e oscillazione tra parità e dipendenza. È interessante inoltre
l’interpretazione figurale della nascita di Eva dalla costola di Adamo: la costruzione del
corpo di Cristo, ossia la Chiesa, è per Agostino simboleggiata dalla costruzione della
donna dalla costola di Adamo che dorme. Adamo dormiente sarebbe il simbolo del
Cristo morto, col costato attraversato dalla lancia, e il versamento del sangue e
dell’acqua sarebbe il simbolo dei sacramenti su cui si edifica la Chiesa. Questa
interpretazione agostiniana avrà una influenza notevole nella letteratura medievale,
sicché converrà riportarla per esteso:
Fu detto: Finché raggiungiamo tutti l’unità della fede, l’umanità perfetta, la dimensione piena
dell’età di Cristo; e : La conformità con l’immagine del Figlio di Dio. Perciò qualcuno crede che
nemmeno le donne risorgeranno col loro sesso, ma, dice, tutti risorgeranno di sesso maschile, in
quanto Dio creò dal fango solo l’uomo, e la donna dall’uomo. A me pare tuttavia che sia più saggio
chi non dubita della presenza di entrambi i sessi nella risurrezione. Là infatti non vi sarà
concupiscenza, ed è questa la causa della vergogna. Prima del peccato uomo e donna erano nudi,
senza vergogna; dunque i corpi saranno allora spogliati dei loro difetti, ma conserveranno la loro
natura. Il sesso femminile non è un difetto ma una condizione naturale, e nell’altra vita sarà esente sia
dall’accoppiamento sia dal parto. Tuttavia le membra saranno quelle femminili, non idonee allo
scopo precedente ma ad una grazia prima sconosciuta, una grazia che non sedurrà il desiderio, là
inesistente, di chi la guardi, ma che renda lode alla sapienza e alla clemenza di Dio, il quale creò ciò
che prima non esisteva e liberò le sue creature dalla corruzione.
Infatti, alle origini del genere umano la donna fu creata con una costola tolta dal fianco
dell’uomo; questo fatto già allora fu un’opportuna profezia di Cristo e della Chiesa. Il sopore
dell’uomo era la morte di Cristo, il cui fianco, mentre Egli era appeso esanime sulla croce, fu
trapassato dalla lancia, e ne sgorgò sangue e acqua, che sono, come sappiamo, i sacramenti con i
quali è edificata la Chiesa. Anche la Scrittura usò proprio questo verbo; non vi si legge che Dio
«foggiò» o «modellò» la costola dell’uomo, ma che la edificò in una donna. Per cui anche l’Apostolo
parla di edificazione del corpo di Cristo, che è la Chiesa. Dunque la donna è creatura di Dio al pari
dell’uomo; ma la sua creazione dall’uomo sottolinea la loro unità, mentre il modo come fu creata
prefigura, come abbiamo detto, Cristo e la Chiesa.24
Degna di nota è inoltre la valorizzazione della grazia femminile, «una grazia
prima sconosciuta» che, se qui è ritenuta fattore di lode della grandezza divina e non di
seduzione, troverà poi largo credito nel Rinascimento e in Castiglione in primis, come
strumento che favorisce l’accettazione sociale e come fonte di piacere. Ed anche il
riconoscimento del sesso femminile come di un dato naturale, non difettoso, per quanto
espropriato delle sue funzioni terrene e della peccaminosa concupiscenza, nella
resurrezione paradisiaca.
1.3.5. San Tommaso e la parziale rivalutazione della donna-Eva
nell’interazione costruttiva con l’uomo.
Prima di passare alla letteratura medievale conviene però menzionare il pensiero
del filosofo fondatore della Scolastica, San Tommaso d’Aquino. Questi, nella Summa
24
Aurelius Augustinus, La Città di Dio, traduzione e cura di Carlo Carena, Torino, Einaudi; Parigi,
Gallimard, 1992, Libro 22, cap.18, pp. 1121-1122.
20
theologica,25 ribadisce la posizione aristotelica secondo la quale negli animali perfetti la
potenza generativa attiva risiede nel sesso maschile, quella passiva nel sesso femminile.
E osserva altresì che, mentre nelle piante che si riproducono da un seme la potenza
maschile e femminile stanno sempre unite, negli animali l’unione carnale è solo
temporanea e funzionale alla procreazione. Tale differenziazione sembra legata anche a
quella delle funzioni, dei ruoli e delle capacità della femmina e del maschio al quale in
particolare è data la capacità di intendere. San Tommaso riconosce quindi la superiorità
intellettuale del maschio, altro tema di lunga vita nella letteratura misogina. Ritiene
anche opportuna la formazione della donna dall’uomo per la realizzazione delle
seguenti finalità: a) dare maggiore dignità al primo uomo, immagine di Dio e principio
di tutte le specie, come Dio fu principio dell’universo; b) indurre l’uomo ad amare di
più la donna, costruita col suo corpo; c) fare sì che l’uomo e la donna si uniscano non
solo per generare, ma anche per formare una famiglia, con distinzione di ruoli e
dipendenza della donna dall’uomo, che tuttavia la deve rispettare (Eva è stata formata
dalla costola, parte al centro del corpo di Adamo, e non da una parte all’estremità, ad
esempio i piedi, e per questo disprezzabile); d) evidenziare, secondo l’interpretazione
già data da sant’Agostino, un aspetto sacramentale: il principio di Eva è Adamo così
come il principio della Chiesa è il Cristo, e dalla costola del Cristo morto sulla croce
fuoruscirono sangue e acqua, i sacramenti su cui si fonda la Chiesa.
Nel pensiero di San Tommaso si nota da una parte la relegazione della donna in
una posizione di inferiorità, anche se attenuata dalle sue funzioni positive nei confronti
dell’uomo, dall’altra la tendenza a difenderla nella sua debolezza e nel suo ruolo sociale
(l’amore e il rispetto del maschio). Vale la pena di sottolineare che il richiamo del
maschio ai propri doveri è parte costitutiva sia della letteratura misogina che della
letteratura filogina, e attenua la posizione misogina. La sua concezione dei ruoli
differenziati per genere all’interno della famiglia, e della dipendenza della donna dal
maschio, chiamato tuttavia a rispettarla, avrà pure lunga vita e la ritroveremo anche in
Piccolomini e in genere in tutta la trattatistica cinquecentesca relativa a questo
argomento. L’enfatizzazione inoltre sull’origine della donna dalla carne del maschio, da
amare da questi in quanto propria appendice, ne autorizzerà la considerazione
strumentale per il compiacimento narcisistico e per il piacere sessuale a senso unico,
quando consentito.
1.3.6. Conclusioni sul tema Eva e Maria.
Nella produzione di matrice cristiana patristica e scolastica medievale, sotto il
binomio Eva-Maria, si assiste quindi alla proiezione nel sacro della necessità maschile
della figura femminile, pur in forma subordinata come nella struttura sociale. Eva in
quanto figlia/compagna di Adamo, intimamente partecipe del suo corpo nella propria
generazione e nella generazione della discendenza, subordinata a lui per difetto di
intelligenza, perché non generata dalla testa, ma pari a lui perché proveniente dalla
costola, parte centrale del suo corpo, e per questo anche simbolo positivo di medietas e
di equilibrio, più fragile e autrice della colpa, scusata a volte per un atto legato alla
debolezza di natura, il più delle volte invece duramente accusata come colpevole di
vanagloria, superbia, ribellione, artificio di persuasione, da «virago» a «mulier»,
coacervo di tutte le imperfezioni e le colpe. Maria come l’anti-Eva, la madre della sacra
25
Tommaso d’Aquino La somma teologica: testo latino dell’edizione leonina, traduzione e
commento a cura dei Domenicani italiani, Firenze, Salani, 1949; e trad. sp.: Suma de teología, I, 92.2 e I,
92.3, traduzione di José Martorell et al., Madrid, Biblioteca de autores Cristianos, 1988, pp. 823, 824 e
825.
21
famiglia, capace di generare senza coito, depurata dei mali della carne per
l’incarnazione di Dio, portatrice nella generazione, come tutte le donne, della materia
secondo la teoria aristotelica riconfermata da san Tommaso, mentre della forma/anima è
donatore il maschio, in questo caso Dio. Maria investita di tutte le doti (vedi la
celebrazione di Maria nel Canto XXXIII del Paradiso dantesco come creatura
miracolosa in cui convivono i contrari «vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta
più che creatura [....] in te magnificenza, in te s’aduna quantunque in creatura è di
bontate», vv. 1-21), dalla forza d’animo all’intelligenza, dalla castità alla compassione,
doti tipicamente maschili le prime, e doti anche più facilmente riconosciute alle donne
come la compassione le seconde.
Su queste due figure teologi e letterati hanno, per così dire, spaccato i capelli in
quattro, ma mentre non ci sono dubbi sull’accezione e valutazione di Maria, si assiste a
una variazione sulle valutazioni di Eva con sottili distinguo in cui si coglie la presenza
di una posizione ideologica che solo a volte sposa una linea decisamente misogina, il
più delle volte assume almeno sfumature filogine. Da non dimenticare anche
l’interpretazione figurale che fa di Eva, figlia di Adamo, la Chiesa, figlia del Cristo, e
che in Maria ed Eva si avverte comunque la centralità della funzione generativa delle
donne, tradizionalmente a loro riconosciuta, pur in posizione subordinata, in Eva come
punizione, in Maria come forma di sublimazione, redenzione. E, in questo più che mai
legato alla religione, la funzione centrale della donna nel determinare il destino di
salvezza o perdizione dell’uomo su un piano soprannaturale, con trasferimento di
quanto succede sulla terra, donna-dono di grazia o donna-danno, nell’aldi là, o se si
vuole viceversa, per le implicazioni che la religione ha avuto nella considerazione e nel
ruolo sociale della donna. Nel Rinascimento come nella classicità non si parlerà degli
effetti ultraterreni, ma solo di quelli terreni, in termini comunque simili.
Abbiamo già visto come Tertulliano accusasse Eva di essere la porta del
demonio, la causa del peccato dell’uomo e della morte del figlio di Dio, e, con Eva,
tutte le donne investite della sua colpa. A Sant’Agostino si deve l’intepretazione
figurale, poi ripresa da san Tommaso, secondo cui la formazione del corpo di Cristo,
ossia la Chiesa, è simboleggiata dalla formazione della donna dalla costola di Adamo
dormiente, il simbolo del Cristo morto, col costato attraversato dalla lancia, e il
versamento del sangue misto ad acqua sarebbe il simbolo dei sacramenti su cui si
edifica la Chiesa. Abbiamo visto anche come San Tommaso giustificasse l’origine di
Eva da Adamo per la maggiore dignità che ne derivava al primo uomo, per la
promozione dell’unità tra uomo e donna nell’amore e nella costituzione della famiglia,
pur con ruoli diversificati e complementari, per la prefigurazione dei sacramenti
dell’Eucarestia e del Battesimo.
Nel Lucidario spagnolo,26 tratto nel Duecento dall’Elucidarium di Honorius de
Autun (fine del sec.XI), si dice che Eva, figlia di Adamo, in quanto nata da una sua
costola e sua moglie, fu chiamata da esso «varona» perché di ascendenza maschile, e,
dopo il peccato, «mujer», a sottolinearne la successiva debolezza e leggerezza, la
propensione a cadere nel peccato.27 Maria invece merita il nome di «varona» più di Eva
per le sue virtù di bontà e senno. Siamo nell’ambito della letteratura misogina. Le virtù
26
Los «Lucidarios» españoles, a cura di Richard P. Kinkade, Madrid, Gredos, 1968, pp.120-123.
Alcuni secoli dopo, nel 1580, Juan de Espinosa utilizzerà invece la etimologia di mulier in
chiave filogina, facendola derivare da melior. Infatti nel Diálogo en laude de las mujeres (1580), il
personaggio filogino, Filodosso, riesce a convincere l’interlocutore dell’uguaglianza e anche superiorità
delle donne rispetto agli uomini, della necessità di distinguere tra cattive e buone, tra il generale e il
particolare, utilizzando anche argomenti etimologici come mulier-melior, donna- domina (Juan de
Espinosa, Diálogo en laude de las mujeres, a cura di José Lopez Romero, Granada, Ediciones A. Ubago,
1990).
27
22
sono quelle maschili e la donna è virtuosa se sa vincere i difetti della sua natura
femminile facendo proprie le virtù naturali maschili. Lo stesso nome di mulier è
sinonimo di coacervo di vizi. Boccaccio nel De mulieribus claris presenta Eva, illustre
perché prima madre, con compassione, come debole di fronte alla tentazione del
demonio e poi costretta a patire la pena dell’esilio dal Paradiso Terrestre, i dolori del
parto e la vecchiezza, le fatiche del lavoro, la pena della morte. Ed è una novità che Eva
venga compatita e non solo accusata, come succede il più delle volte nella letteratura
misogina.
Il catalano Francesc Eiximenis in Lo libre de les dones28 [1396] celebra le doti di
Eva prima della caduta e fa risalire i suoi difetti alla caduta; e afferma, inoltre, che Dio
ha riconosciuto la grandezza della donna facendo nascere Cristo dal suo ventre. Sempre
nel Quattrocento iberico, Álvaro de Luna, nel Libro de las virtuosas y claras mujeres29
[1444], in cui presenta alla stregua di Boccaccio biografie di donne dell’Antico
Testamento, del mondo classico e dell’età cristiana, scrive una lode di Eva come prima
madre ricordandone il primitivo nome di virago e senza parlare della sua colpa. Eva, per
lui, è un essere creato da Dio in Paradiso senza alcun contatto con la terra, dunque un
ente spirituale, per di più dotato di molto ingegno (una posizione divergente da
Boccaccio che, pur riconoscendole i privilegi del luogo e della materia e pur lodandola
come santissima persona, insiste molto sulla colpa e sul rimorso di Eva). Dal canto suo
Martín de Córdoba, nel Jardín de nobles donzellas30 [1468 ca], fa risalire i difetti delle
donne ad Eva, ma interpreta la teoria figurale prospettata da Sant’Agostino e da San
Tommaso, insistendo sul ruolo assegnatole di compagna, anziché di dominatrice o di
serva (cosa possibile se fosse nata dalla testa o dai piedi dell’uomo) e introducendone
un simbolismo assai particolareggiato: Eva fu formata dalla costola del fianco destro
perché l’uomo doveva amare e onorare la moglie; la flessibilità della costola
adombrerebbe la debolezza di Eva e la forza di Maria, la sua natura ricurva e torta la
presenza del male e del bene nella donna, il suo risuonare il difetto della chiacchiera.
In conclusione, Eva e Maria non sempre sono prototipi femminili frontalmente
contrapposti, ma una sorta di volto di Giano prefigurato dallo sdoppiamento di Eva
prima e dopo la caduta, oppure intorbidato dalle sfumature con cui i vari interpreti
cercarono di giustificarne l’esistenza in rapporto ad Adamo. Di qui una linea di confine
frequentemente sfumata anche fra tradizione filogina e misogina.
2. La letteratura misogina e filogina medievale e preumanistica.
Ne fanno parte trattati sull’amore, trattati contro le nozze per la valorizzazione
del celibato ecclesiastico, trattati contro o in difesa delle donne, trattati politici sul modo
di governare, in cui si danno consigli alle principesse, trattati di educazione, dialoghidibattiti, racconti, biografie esemplari, raccolte di proverbi e massime. In generale
questa letteratura è pervasa dalla linea misogina di ascendenza classica e cristiana, che
presenta le donne solo come depositarie di tutti i difetti. Lo stesso termine mulier lo
significherebbe, perché questo appellativo sarebbe stato usato da Adamo per Eva solo
dopo la caduta nel peccato, mentre prima l’avrebbe chiamata con un appellativo
28
Francesc Eiximenis, Lo libre de les dones [1396], ed. a cura di Frank Naccarato, Curt Wittlin y
Antoni Comas, 2 tomi, Barcelona, Curial, 1981.
29
Álvaro de Luna, Libro de las virtuosas e claras mujeres el qual fizo é compuso el condestable
don Álvaro de Luna, [1444], ed. a cura di Marcelino Menéndez Pelayo, Madrid, Sociedad de Bibliófilos
Españoles, 1891.
30
Martín de Córdoba, Jardín de nobles donzellas [1468 ca], Fray Martín de Cordoba: A Critical
Edition and Study, a cura di Harriet Goldberg, Chapel Hill, North Carolina Studies in the Romance
Languages and Literatures, 1974.
23
maschile (virago). La donna, inferiore all’uomo nell’intelligenza e nella moralità perché
più di lui per natura incline alla lussuria e alla debolezza, si vede riconosciuta, come
unica forma di intelligenza minore, l’astuzia, utilizzata del resto per fini disonesti; di qui
la lunga serie di spose infedeli, suocere traditrici e donne astute presenti nei racconti
medievali. L’amore cortese, se da una parte è presentato come una forma di elevazione,
il che sarà un tema della letteratura filogina, dall’altra, nella letteratura misogina, sarà
presentato come malattia, passione frustrata e malsana che allontana l’uomo dalla
ragione e dalla retta via spirituale. Dalla letteratura misogina sarà giustificato solo
l’amore coniugale, per la necessità di canalizzare il desiderio carnale verso la
procreazione, con vari distinguo in relazione a quando e come il coito si possa
presentare come un peccato anche fra coniugi. E al di sopra e contro l’amore carnale
saranno celebrati il celibato e la castità e verginità sulle orme di Maria, degli apologisti
e dei padri della Chiesa.
2.1. Tra misoginia e filoginia: Andrea Capellano, Giovanni Boccaccio,
Francesco Petrarca.
Prevalenza della linea critica, ma apertura anche alla valorizzazione e alla equiparazione del genere
femminile col genere maschile fino al riconoscimento di alcuni diritti e doveri reciproci.
A questo proposito è interessante prendere in esame il De amore31 [1174 ca.] di
Andrea Capellano, uno dei testi di larghissima influenza in ambito cortese che presenta
come causa dell’erroneità dell’innamorarsi i difetti della donna: avara, invidiosa,
maldicente, ladra, schiava del ventre, cioè della gola, incapace di rispettare quello che
dice, incostante, ipocrita, disobbediente, ribelle, superba, vanagloriosa, bugiarda,
ubriacona, ciarlatana, incapace di conservare i segreti, lussuriosa, disposta a tutti i vizi,
anche alla pratica di arti vietate, divinatorie o magiche, e incapace di provare amore per
un uomo. L’opera, scritta intorno al 1174, è divisa in tre libri. Il primo e il secondo
trattano dell’arte dell’amore presentando un codice di comportamento desiderabile tra
gli amanti, il terzo condanna l’amore con argomenti misogini e contrasta con i primi
due. Sussistono problemi di interpretazione per questa disomogeneità e ambiguità, del
resto ricorrente. Si tratta di un pretesto per presentare tutti i topici misogini? O si tratta
di una palinodia, una inversione voluta di tutto quanto detto prima secondo una pratica
medievale che permetteva ad un autore di evitare di chiarire in modo definitivo il senso
dell’opera? o si tratta ancora di un intreccio insolubile come quello che affianca ad Eva
Maria nel prototipo della donna? Da rilevare inoltre che il testo riassume tutti i difetti
accreditati dalla linea misogina e ne aggiunge uno nuovo, quello della magia, cui forse
si legherà la caccia alle streghe fondata sull’associazione donna demonio, di matrice
biblica.
Questi difetti vengono riadditati nel Corbaccio32 di Boccaccio, redatto nel 1355,
molto influenzato dall’opera di Andrea Capellano. In questo testo il narratore,
intenzionato a suicidarsi per il rifiuto della nobildonna, viene visitato da uno spirito
inviato dalla vergine Maria che lo dissuade mostrandogli tutti i difetti delle donne, da
ricercare solo per soddisfare le naturali necessità sessuali e riproduttive. Due sono le
31
Andreas Capellanus, De amore [1174 ca], a cura di Graziano Ruffini, Milano, Guanda, 1980, e
trad. sp. De amore. Tratado sobre el amor, traduzione di Inés Creixell Vidal-Quadras, Barcelona,
Quaderns Crema, 1985, pp. 393-413.
32
Giovanni Boccaccio, Il corbaccio, ouuero laberinto d’amore [1365 ca] o [1355], (In Venezia,
nelle case di Alessandro Paganini, 1516), ed.consultata: Corbaccio, a cura di Giorgio Padoan, in Vittore
Branca (ed.), Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, vol. V, Tomo II, Milano, Mondadori, 1994, pp. 413614.
24
possibili interpretazioni del Corbaccio al riguardo: a) quella secondo cui sarebbe una
reazione tradizionalista e religiosa alla letteratura cortese, e quindi alla sacralizzazione
dell’erotismo e alla conseguente divinizzazione della dama; b) quella secondo cui
svolgerebbe una funzione terapeutica nei confronti dell’uomo per sottrarlo all’infermità
d’amore (fonte anche i Remedia amoris di Ovidio). Così pure nel De casibus virorum
illustrium [1355-1360], alla fine della storia di Sansone (I, 18),33 Boccaccio enumera i
vizi di una donna malvagia, intenta ad abbellirsi per nascondere i propri difetti.
L’abbellimento fisico è visto, infatti, come una forma di simulazione-dissimulazione,
ipocrisia, astuzia, vizi, come abbiamo già visto, tipicamente femminili. Quanto al De
mulieribus claris34 [1380 ca] o [1355-1360], pur nella sostanziale filoginia, si avverte la
presenza del misogino Giovenale per l’intreccio di virtù e vizi a volte in una stessa
figura femminile: così, tra gli esempi di donne lussuriose, Sempronia, di cui si rileva la
notevole cultura ed eloquenza, ed Eva, più che accusata, compatita per le pene patite.
Tuttavia nella conclusione le donne sono celebrate come meritevoli per virtù, cultura,
capacità profetiche, e come abili e inventrici nelle arti meccaniche del filare e del
tessere, abili anche nella guerra, astute, cosicché poche storie di uomini sono superiori a
quella delle donne famose. In effetti, Boccaccio offrì argomenti sia alla corrente
misogina che a quella filogina,35 un intreccio che ebbe larga influenza nella letteratura
europea.
Petrarca riprende il tema misogino e misogamo in alcuni dialoghi del De
remediis utriusque fortunae36 [1354 ca], nei quali la presentazione negativa della donna
è funzionale a consolare l’uomo addolorato dalla sua perdita. Ragione sarà la maestra
che consola e guida Dolore, abbattuto dalla morte della sua donna. Accanto alle solite
critiche alla natura femminile, e alla concezione della sua virtù come subordinazione al
pudore, attitudine a lei più peculiare e, insieme, norma severa, vi si ritrova anche
l’affermazione dell’obbligo reciproco di fedeltà nel matrimonio e della responsabilità
uguale e maggiore dell’uomo nel provocare la caduta della donna, precisamente perché
avrebbe dovuto esserle di guida:
Par debitum, equus amor, mutua coniugii fides est. Non excuso uxores: viros arguo, primamque
illius culpe partem tribuo. Persepe enim uxori dux atque exemplum lascivie vir fuit, et inde mali
processit initium, unde remedium debebatur, quamvis autem pudor femine proprius, viro certe
prudentia atque constantia sua esse debet. Itaque omnis in viro, quam in muliere, dementia animique
levitas, eo est fedior, quo viro debita magis est gravitas (II, xxi).
Uguale è il dovere, eguale l’amore, reciproca la fedeltà nel matrimonio. Non scuso le donne, ma
rimprovero gli uomini e attribuisco loro la maggior parte della colpa. Spesso infatti il marito è guida
ed esempio di disonestà alla moglie, e di lì viene il principio del male, di lì da dove doveva venire il
rimedio. Sebbene invero il pudore sia proprio della donna, la prudenza e costanza debbono essere
proprie del marito. Perciò questa pazzia e leggerezza dell’animo è più brutta nel marito che nella
moglie, tanto più quanto più gli è doverosa la gravità (II, xxi, traduzione nostra).
33
Giovanni Boccaccio, De casibus virorum illustrium [1355-1360], a cura di Pier Giorgio Ricci e
Vittorio Zaccaria, in Vittore Branca (ed.), Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, Vol. IX, Milano,
Mondadori, 1983.
34
Giovanni Boccaccio, De mulieribus claris [1380 ca] o [1355-1360], a cura di Vittorio Zaccaria,
in Vittore Branca (ed.), Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, vol. X, Milano, Mondadori, 1967 .
35
Mª Estela Maeso Fernández., Defensa y vituperio de las mujeres castellanas, «Nuevo Mundo
Mundos
Nuevos»,
8
(2008),
mis
en
ligne
le
6
février
2008,
http://nuevomundo.revues.org/document23692.html, p.2
36
Francesco Petrarca, De remediis utriusque fortunae [1354 ca], ed. bilingue Les remèdes aux deux
fortunes, De remediis utriusque fortune, vol. I, Texte et traduction, a cura di Christophe Carraud,
Grenoble, Éditions Jérôme Millon, 2002, 2 v.
25
Questo argomento si interseca con la linea filogina perché riconosce la parità
della donna con l’uomo nel dovere morale, e la vuole difendere, anche se per difenderla
la pone ancora sotto tutela: il maschio, più forte e prudente, la deve guidare e
proteggere. Un caso palese dunque dell’incrocio tra elementi filogini e misogini.
Ad attestare indirettamente la linea misogina presente nella poesia catalanooccitanica medievale, ricordiamo l’opera del catalano Pere Torroella, Coplas de las
calidades de las donas o las coplas de maldecir de mujeres,37 che, anche se scritta nel
corso del 1400, affonda le sue radici nella tradizione di Giovenale, presentando le donne
come malvage, sospettose, incapaci di tenere i segreti, bugiarde, instabili, lussuriose, e
depositarie di questi vizi non per cattiva educazione, ma per natura. Eppure Pere
Torroella fece a sua volta, come Andrea Capellano, una palinodia-apologia delle donne
celebrandone i meriti, il che lo colloca, rispetto alla questione femminile, in una
posizione di ambiguità.
2.2. Intellettuali e opere di linea decisamente filogina: l’opera anonima «Fiori
di virtù»[sec. XIV], «Le Livre de la Cité des Dames» [1405] di Christine de
Pizan.
L’intelligenza femminile e la sua mutilazione sociale, la violenza domestica, la falsa
coscienza degli uomini.
Tra le fonti della tradizione filogina medievale occorre tener presenti i Proverbi 9
della Bibbia e forse i libri apocrifi di Esdras 3 e 4. Punto di partenza delle opere filogine
sono spesso gli stessi attacchi rivolti alle donne da maldicenti come Boccaccio, nella
misura in cui vengono attribuiti a ragioni personali.
Alla corrente filogina appartiene l’opera anonima trecentesca, Fior di virtù,39
scritta probabilmente in volgare, e ampiamente diffusa in Europa, dove si contestano i
misogini che giustificano solo l’amore carnale per le donne, e si valorizzano, col
sostegno della citazione autorevole di Cicerone e di Platone, il diletto intellettuale e la
virtù d’amore. Si cita anche l’elogio di Salomone della buona moglie e si sostiene la
necessità per l’uomo della donna come quinto elemento vitale. Di essa si celebrano
inoltre il senno e la virtù con cui sa difendere il proprio onore, e le si riconosce infine
una grande intelligenza, superiore a quella dei maschi, che non si esplicita solo perché
ostacolata dalla mancanza di istruzione.
37
Coplas de las calidades de las donas o las coplas de maldecir de mujeres, a cura di Robert
Archer in «Las coplas “de las calidades de las donas” de Pere Torroella y la tradición lirica catalana»,
Boletín de la real Academia de Buenas Letras de Barcelona, 47, 1999-2000, pp. 405-423.
Christine de Pizán (Venezia, 1364- Poissy, 1430) segue all’età di 4 anni il padre, medico e
astrologo, a Parigi presso la corte di Francia, dove riceve per volontà del padre una educazione raffinata,
sfruttando l’accesso alla Biblioteca reale, nonostante le resistenze della madre che la vorrebbe educata
solo alle mansioni familiari. A quindici anni sposa un giovane nobile, Estienne du Castel, notaio del re, e
ne diviene vedova dopo dieci anni di felice matrimonio, trovandosi con tre figli e in difficoltà
economiche. Si dedica perciò in modo professionale alla scrittura, interessandosi molto, nell’ambito del
nascente umanesimo, alla questione femminile. Tra le sue numerose opere, oltre a Le Livre de la Cité des
Dames (1405), altre incentrate sull’amore o sulla morale, Cent Ballades, l’ Epistre au Dieu d’Amours, le
Debat Deux Amants, Enseignements Moraux, ma anche opere di carattere religioso come Heures de
Contemplacion sur la Passion de Nostre Seigneur e Ditie de Jehanne d´Arc, e storiche e su fatti d’arme e
di cavalleria.
39
Fior di virtù, [sec. XIV] in Fior di virtù historiato, ripr. facs. dell’ed. stampata in Firenze nel
1498, con nota bibliografica di Anita Mondolfo, Firenze, Electa, 1949.
26
Quest’ultimo punto, quanto mai innovativo, verrà ripreso da Christine de Pizan e
da altre voci femminili, come un mezzo per uscire dai presupposti teorici dogmatici
scendendo nelle cause concrete e storiche di un’inferiorità altrimenti congenita.
Di sicuro rilievo nell’ambito della corrente filogina è la figura e l’opera di
Christine de Pizan (1365-1430?), che si guadagnò da vivere come scrittrice dopo la
morte del padre e del marito, e che trattò la questione da un punto di vista femminile.
Ne La cité des dames [1404-1405],40 attraverso l’artificio della richiesta a Ragione se
Dio abbia permesso che la intelligenza femminile raggiunga le più elevate scienze,
Christine sostiene che la donna ha le stesse capacità intellettuali degli uomini, ma non
raggiunge i loro livelli di conoscenza perché costretta in casa ed esclusa dalla cultura.
Cristina domanda a Ragione se Dio volle mai onorare l’intelligenza femminile delle alte
scienze. Risposta di Ragione.
Udite queste cose, domandai alla dama, che parlava: «Dama, certamente Dio fece meraviglie con
la forza di quelle dame di cui raccontate. Ma spiegatemi ancora, vi prego, se Dio, che ha concesso
loro tante grazie, non ha mai voluto onorare il sesso femminile concedendo ad alcune donne la virtù,
una grande intelligenza e un profondo sapere, e se esse hanno un ingegno capace di questo. Desidero
molto saperlo, perché gli uomini affermano che le donne hanno scarse capacità intellettuali».
Risposta: «Figliola, per tutto quello che ti ho detto prima, puoi capire che è vero proprio il
contrario, e per spiegartelo con maggiore chiarezza, ti darò qualche esempio come prova. Te lo
ripeto, e non dubitare del contrario, che se ci fosse l’usanza di mandare le bambine a scuola e di
insegnare loro le scienze come si fa con i bambini, imparerebbero altrettanto bene e capirebbero le
sottigliezze di tutte le arti, cosí come essi fanno. E ogni tanto succede: come ti ho appena spiegato,
così come le donne hanno un corpo più delicato degli uomini, più debole e meno adatto a certi
compiti, esse hanno un’intelligenza più viva e più acuta là dove esse si applicano».
«Dama che dite? Vi prego, spiegatevi. Certamente gli uomini non accetterebbero mai una simile
affermazione se non venisse spiegata più chiaramente: direbbero che tutti sanno che gli uomini sono
più sapienti delle donne».
Risposta: «Lo sai perché le donne hanno un sapere limitato?»
«No, Dama, se non me lo dite».
«Senza dubbio esse non hanno l’esperienza di tante situazioni differenti, ma limitandosi alle
occupazioni domestiche, restano a casa, e non c’è niente di più stimolante per un essere dotato di
ragione che un’esperienza ricca e varia»
«Dama, se le donne sono in grado di imparare e di ragionare quanto gli uomini, perché non
imparano di più?»
Risposta: «Mia cara, come ti ho già detto è perché la società non ha bisogno che le donne si
occupino degli affari degli uomini. È abbastanza che svolgano i compiti ordinari loro affidati [...]»
(L.I, Cap. XXVII). 41
Anche Christine riprende quindi il tema filogino della intelligenza femminile
pari a quella maschile e aggiunge, come causa di subordinazione, accanto alla mancanza
di cultura anche quella della relegazione in casa, senza possibilità di conoscere il mondo
di fuori ed avere relazioni sociali ampie. Non solo, ma rileva inoltre la gravità della
violenza domestica. Le donne sono relegate in casa, a volte con carenza anche di mezzi
di nutrimento per sé e per i figlioli, mentre il marito spende nelle taverne e nei
postriboli, e spesso le picchia senza ragione.
Ah! Cara amica, quante donne ci sono che, a causa della crudeltà dei loro mariti, passano una
vita matrimoniale disgraziata, in più grave penitenza che se esse fossero schiave dei Saraceni? Dio!
Quante botte senza causa né ragione, quante infamie, oltraggi, offese, servitù e ingiurie devono
sopportare tante nobili e oneste donne, senza che nessuna di loro protesti. E quante sono quelle che,
con tanti figli, muoiono di fame e di miseria, mentre i loro mariti stanno in luoghi dissoluti o se la
40
Christine de Pizan, Le livre de la cité des dames [1405 ca], trad. italiana: La città delle dame, a
cura di Patrizia Caraffi, Edizione di Earl Jeffrey Richards, Milano, Trento, Luni Editrice, 1997.
41
Ivi, pp.151-153.
27
spassano in cittá e nelle taverne; per di più, quando i mariti rientrano, picchiano le povere donne, ed è
tutto quello che ricevono per cena. Non è forse vero, e non è questa la condizione che puoi osservare
tra le tue vicine? (L. II, cap. XIII)42
Contesta poi con l’esempio di Lucrezia l’argomento misogino delle donne
lussuriose e compiacentesi nel subire violenza, e invoca una punizione per i violentatori:
Contro quelli che dicono che alle donne piace essere violentate si danno diversi esempi, e,
primo tra tutti, quello di Lucrezia.
Allora io, Cristina, le dissi: «Dama, credo senz’altro a tutto quello che voi dite e sono certa che
vi sono molte donne belle, nobili e caste, che si sanno ben proteggere dalle trappole degli
ingannatori. Tuttavia mi irrita e mi rende triste che gli uomini dicano che le donne vogliono essere
stuprate e che a loro non dispiace essere violentate, anche quando si ribellano e urlano; non riesco a
credere che possano gradire una così grave villania».
Risposta: «Non dubitare, cara amica, le dame virtuose e oneste non traggono nessun piacere
dall’essere violentate, ma un dolore senza paragoni. E che sia vero, molte donne lo hanno dimostrato
con il loro esempio, come Lucrezia, la nobile romana [...] Si dice che, a causa dell’oltraggio
commesso contro Lucrezia, venne emanata una legge che condannava a morte chiunque violentasse
una donna; questa è una pena legittima, giusta e santa» (L. II, cap. XLIV).43
Nell’ottica di Christine, dunque, la violenza carnale è soprattutto colpa e
vergogna degli uomini che la praticano, mentre per tanta tradizione anche a lei
successiva, e non assente, come vedremo, nella tradizione di Cortegiano, la vergogna
ricade sulla donna che la subisce. Christine accusa poi gli uomini della stessa
volubilità e incostanza che loro imputano alle donne scusando per di più di tali vizi se
stessi (L. II, 47), rilievo critico quest’ultimo su cui Ariosto imbastirà la ironica storia di
Giocondo nell’Orlando Furioso, e che Della Casa confermerà, pur partendo da un’ottica
misogina. Christine ribalta inoltre l’accusa di avidità/avarizia della donna (L.II, 66),
evidenziando come essa piuttosto curi la casa e si preoccupi che il marito non sprechi il
proprio patrimonio disinteressandosi della conservazione dello status e dei figli. E
ritiene che la responsabilità morale sia della donna come dell’uomo, riproponendo la
posizione di Petrarca. Interessanti ci paiono, dalla prospettiva odierna, i rilievi già citati
sulla violenza domestica e sulla relegazione delle donne in casa, con conseguenze
negative nello sviluppo delle loro potenzialità, nonché la delegittimazione della violenza
carnale. Forse sono questi i punti in cui più si estrinseca la novità del trattato di Pizan,
legato alla esperienza diretta della scrittrice; e, se vogliamo, anche la concretezza del
punto di vista femminile, rivolto alla difesa di una dignità invisibile perché umiliata e
offesa alla radice.
Prima di lasciare questa straordinaria figura di scrittrice filogina vorremmo
ricordare ancora qualche sua altra osservazione degna di menzione: la valorizzazione
delle arti femminili relative all’alimentazione e alla tessitura e filatura (nei cataloghi)
(L.I, 10, 34, 35, 36), la stessa fiducia nel progresso,44 la critica al costume diffuso di
42
Ivi, p. 255.
Ivi, pp. 329-331.
44
Christine de Pizan afferma di divergere da Boccaccio nella considerazione del progresso: esso
non è corruttore in sé, la colpa è di chi se ne serve male: «Nonostante ciò alcuni autori, incluso Boccaccio
che racconta queste stesse cose, ritengono che il mondo era migliore quando si viveva solo di bacche e di
ghiande e si andava vestiti con le pelli degli animali, prima che fosse conosciuto tutto quello che ci
permette di vivere in maniera più confortevole. Tuttavia, con tutto il rispetto per lui e per tutti coloro che
sostengono che la scoperta di queste tecniche per il benessere e il nutrimento del corpo umano sia stata un
danno per l’umanità, io sostengo che quanto più le creature umane ricevono benefici, doni e grazie da
Dio, tanto più esse sono tenute a servirlo. Se si fa un cattivo uso dei beni che Dio ha accordato e donato
all’umanità, a beneficio degli uomini e delle donne e perché tutti ne facciano un uso misurato e
conveniente, ciò deriva dalla malvagità e perversione di coloro che se ne servono malamente, e non
43
28
considerare un danno una figlia femmina (si spende più per l’educazione e il
mantenimento dello status dei figli maschi che per la dote delle figlie femmine; queste
ultime frequentano e assistono i genitori vecchi molto più di quanto non facciano i
maschi, che più facilmente si allontanano) (L. II, 7), rilievi che ci mostrano ancora un
punto di vista femminile legato alla concretezza e all’utile e che ci sembrano più
importanti delle reinterpretazioni in chiave filogina di Eva (L. I, 9) o del contrappunto
alle solite accuse misogine quali la loquacità (L. I, 10), o dell’attribuzione di virtù
maschili alle donne o della valorizzazione, per quanto innovatrice, di specificità
femminili quali il pianto (L. I, 10) e la stessa debolezza ed esclusione da funzioni
importanti, presentate in forma deresponsabilizzata quasi come un vantaggio, perché ad
esempio la mancanza di forza libererebbe dal commettere crimini e sarebbe compensata
dalla maggior virtù nell’obbedienza a Dio (L. I, cap. 14) e l’essere escluse dall’attività
di giudici da eventuali rimorsi per sentenze sbagliate (L. I, cap.13).
Un orientamento questo verso la rassegnazione e l’obbedienza che si riscontra
anche nei consigli conclusivi dell’opera: alle donne si raccomandano la pratica delle
virtù, l’umiltà, la castità, la difesa dell’onore, l’evitare il «folle amore», e, nel
matrimonio, l’amare, il servire, il temperare, il sopportare i mariti, con il conseguente
beneficio di un credito spirituale.
E voi, care amiche che siete sposate, non sdegnatevi di essere tanto sottomesse ai vostri mariti,
poiché non è sempre meglio per una persona essere libera. Lo dimostra ciò che disse l’angelo di Dio
a Ezra. “Coloro, disse, che si affidarono alla loro libera volontà, caddero in peccato, disprezzarono
Nostro Signore e oltraggiarono i giusti: per questo perirono.” Quelle che hanno dei mariti pacifici,
buoni e saggi, da cui sono amate profondamente, lodino Dio per questo dono non piccolo, poiché non
potrebbe essere dato loro un bene migliore al mondo. Che siano attente nel servirli, amarli e tenerli
cari con cuore leale, come devono, vivendo in pace e pregando Dio che li protegga. Anche quelle che
hanno dei mariti né buoni, né cattivi devono lodare Dio, pensando che ve ne sono dei peggiori, e fare
tutti gli sforzi possibili per moderare i loro eccessi e vivere in pace, secondo le condizioni di ognuno.
E quelle che hanno mariti malvagi, felloni e crudeli facciano tutto il possibile per resistere e vincere
la loro fellonia e condurli, se possibile, a una vita ragionevole e tranquilla. E se quelli sono tanto
ostinati da non ottenere nulla, almeno le anime delle loro mogli acquisiranno grande merito nella
virtù della pazienza. E tutti le benediranno e saranno dalla loro parte. Così, mie dame, siate umili e
pazienti e la grazia di Dio crescerà in voi, e sarete lodate e vostro sarà il Regno dei Cieli. San
Gregorio dice che la pazienza è la porta del Paradiso e la via che conduce a Gesù Cristo (L. III, cap.
XIX).45
Un invito al servizio e alla pazienza, all’autocontrollo e alla promozione del
controllo altrui (doti queste due ultime che vedremo valorizzate in ambito pubblico da
Castiglione e in ambito privato, unitamente alle prime due, da Piccolomini) che rivela
una Christine disposta a mediare, nonostante l’impostazione agguerrita proiettata dalla
finzione di una città delle dame, che prospetta almeno una separazione temporanea delle
donne dagli uomini, perché possano prendere coscienza di sé e difendersi, e
dall’immagine di una Cristina che via via che parla con le tre donne allegoriche,
perché le cose in sé non siano eccellenti e vantaggiose, se utilizzate in maniera lecita. Gesù Cristo stesso
ce lo mostrò con la sua persona: egli usò il pane, il vino, il pesce, gli abiti colorati, le tele e tutto ciò di cui
aveva bisogno, e non l’avrebbe fatto se fosse meglio vivere di ghiande e bacche. Egli rese un grande
onore all’invenzione di Cerere, e cioè il pane, quando gli piacque dare agli uomini e alle donne il suo
degno corpo sotto forma di pane affinché se ne cibassero» (L. I, cap. 39), Ivi, pp. 187-189. Da notare
inoltre che sono citate invenzioni femminili, come si preciserà nel catalogo, il che torna di merito alle
donne, e che, due secoli più tardi, Moderata Fonte, farà parlare ampiamente le donne di proprietà degli
alimenti, dando così importanza alle loro attività specifiche.
45
Ivi, pp. 499-501.
29
Ragione, Rettitudine e Giustizia, acquisisce fiducia nel proprio sesso e si fa sempre più
dura nei confronti degli uomini sopraffattori e mentitori.
Allora io le dissi: «Ah! Dama, ora capisco più che mai, grazie al vostro racconto, l’enorme
ingratitudine e ignoranza di quegli uomini che sono tanto maldicenti nei confronti delle donne! Già
pensavo che dovesse essere sufficiente, perché gli uomini non sparlino delle donne, pensare al fatto
che tutti loro hanno avuto una madre e conoscere il bene evidente che le donne fanno abitualmente
agli uomini, veramente un’abbondanza di doni prodigati con generosità che essi hanno ricevuto e
ricevono dalle donne. Che tacciano! Che tacciano d’ora in avanti i chierici maldicenti, coloro che ne
hanno parlato e ne parlano con biasimo nei loro libri e nei loro poemi, e tutti i loro complici e
sostenitori. Abbassino gli occhi per la vergogna di aver osato mentire tanto nei loro libri, quando la
verità va contro le loro affermazioni, come si vede dalla nobile Carmenta, che per la sua grande
intelligenza fu per loro come una maestra, e questo non possono negarlo, da cui ricevettero la
conoscenza della scrittura latina, di cui vanno orgogliosi e onorati» (L. I, cap. 38)46
Questa compresenza di accusa e disponibilità alla mediazione la ritroveremo due
secoli più tardi anche in Moderata Fonte, molto influenzata da Christine de Pizan, e
costituisce, a nostro parere, anch’essa una delle caratteristiche del femminile che
convergono a determinare cause psicologiche e storiche, impulsi anarchici di ribellione
e prudenti valutazioni di opportunità e praticabilità.
3. Dall’analisi dei vizi e delle virtù ai precetti di comportamento: la precettistica
italiana fra fine Duecento e Trecento: da Egidio Romano a Francesco da Barberino.47
Obbedienza, onestà, pudore, temperanza, prudenza, operosità, silenzio o brevi parole a voce bassa.
Straordinaria diffusione ebbe in Italia ed in tutta Europa il trattato De regimine
principum48 [1280] di Egidio Romano, dove il tema femminile si aggancia a quello
dell’educazione dei principi nella misura in cui si consiglia che essi abbiano delle mogli
dotate sia di qualità esteriori sia di virtù interiori: da un lato un corpo bello, sano e
grande (da rilevare il valore dato alla statura che tornerà anche in alcuni trattati del
Rinascimento), dall’altro virtù quali la moderazione, la temperanza (che le rende buone
e caste), e l’operosità che le tiene lontane dall’ozio e quindi dai cattivi pensieri. Peraltro,
la mollezza femminile è per Egidio Romano segno di complessione difettosa, che a sua
volta comporta un difetto di ragione con la conseguente influenza negativa sul
comportamento morale. Di qui che per Egidio Romano l’eventuale consiglio sano di
una donna sia solo il frutto della grazia divina. Infine i principi come tutti gli uomini
non devono rivelare segreti alle donne perché queste sono deboli, vanagloriose e
disobbedienti e non li saprebbero conservare.
Ma nella produzione didattica italiana del Medioevo ebbero anche molta fama
due opere di Francesco da Barberino (1264-1348) di stampo ben diverso: i Documenti
46
Ivi, pp.183-184.
Francesco da Barberino (Barberino Val d’ Elsa (FI), 1264- Firenze, 1348), studiò le arti del trivio
e quadrivio a Firenze alla scuola di Brunetto Latini, dove fu condiscepolo di Dante, e successivamente
diritto a Bologna e visse prevalentemente a Firenze, ma anche a Padova e per qualche anno in Francia.
Esercitò la professione di notaio, ma fu anche scrittore e poeta. Scrisse trattati morali sul comportamento
separati per genere, i Documenti d’amore e Reggimento e costumi di donna, e anche un’opera di gusto
boccaccesco, Las doce monjas y los tres jovencitos.
48
Egidio Romano, De regimine principum libri tres, [1280 ca], rist. anast, Frankfurt am Main,
Minerva, 1968, e Juan García Castrojeriz, Glosa castellana al «Regimiento de principes» de Egidio
Romano [1340 ca], 3 tomi, a cura di Juan Beneyto Pérez, Madrid, Instituto de Estudios Politicos, 1947, II,
pp. 63-64, 86-87, 113-115, 117-119.
47
30
d’amore, rivolti all’educazione dell’uomo, e il Reggimento e costumi di donna,49 rivolto
all’educazione della donna, di cui offriremo qui una sintesi. Già nel proemio compare la
nota polemica nei confronti della prevalenza della precettistica diretta agli uomini:
anche le donne hanno diritto ad essere istruite sui costumi «ornati» (FB: 1), e si pregano
Onestà e Cortesía di cooperare con Industria ed Eloquenza in questo compito. Siamo di
fronte a virtù personificate che dall’universo maschile scendono verso quello femminile
per elevarlo.
Gli insegnamenti si distinguono per età, condizione di nubile, maritata, vedova o
suora, status sociale alto e medio, regina, nobile, mercantessa, o basso, cameriera, serva,
balia, popolana, e hanno a comun denominatore innanzitutto l’onestà, la prima virtù
educatrice chiamata in campo, e poi il pudore, la vergogna, la castità, la temperanza, la
buona fama, le virtù insomma tradizionalmente decantate nelle donne. Agli
insegnamenti si accompagnano esempi, racconti, citazioni d’autorità per convalidarli.
Risulta accattivante, al di là della normativa scontata, la rappresentazione di certi
costumi, riti e credenze dell’epoca, quali quello del matrimonio di corte, l’accudienza
delle balie ai neonati e le prerogative della balia, alcune credenze superstiziose, e varie
regole di buon senso quali il non andare a servizio di un padrone se si è giovani o il non
prendere a servizio, se donne maritate, donne belle e giovani: insomma un
riconoscimento dei pericoli legati alla natura e alla gerarchia sociale e l’assennatezza di
evitarli il più possibile. Tutti questi aspetti fanno di Francesco da Barberino un
educatore con una visione concreta della vita, non arcigno, semplicemente sensato, un
intellettuale non per niente apprezzato da Boccaccio col quale aveva in comune lo
spirito cortese-comunale-preumanistico. Più in particolare per la fanciulla sarà
d’obbligo la conservazione dell’innocenza, un atteggiamento pudico e vergognoso che
si esplicita anche nel prevalente silenzio e, qualora parli, nel parlare con temperanza e a
voce bassa, e, quando mangia, nel mangiare temperatamente, e, qualora canti, nel
cantare con voce bassa e atteggiamento rispettoso, e, qualora balli, nel ballare
onestamente,
Siano li suoi atti sempre vergognosi, però ch’a lei vergogna è grande virtude. E s’ella è
domandata o mandata a parlare, rispondi e parli temperatamente; e ’l suo parlare sia basso, colle sue
mani e l’altre membra ferme, ché ’l movimento e ’l mutar delle membra significa in fanciulla troppi
vezzi, e nella grande mutevole core. E sia nel suo mangiare ordinata e cortese, e bea poco, e quello
sia temperato, ché, como ella s’invezza, così vuol poi durare; e quanto che nell’uomo l’ebriare stia
male, sta nella donna troppo più villano. E quando siede a tavola, non giaccia né vi tegna le braccia
suso, però che questo è segno di grossezza; e, semmai parla poco, questo è quello luogo dove le
conviene allora men parlare [...]. E se avien talora le convenga cantare per detto del signore o della
madre o dalle sue compagne pregata un poco prima, d’una maniera bassa soavemente canti, ferma,
cortese e cogli occhi chinati, e stando volta a chi magior vi siede [...]. E s’egli avien che per simil
comando le convegna ballare, sanz’atto di vaghezza, onestamente balli; né già, como giollara, punto
studi in saltare, acciò che non si dica che ella sia di non fermo intelletto (FB: 10-11).
Tutte attività queste, fatta eccezione per il mangiare, ammesse, ma non
raccomandate. Ne sono spia i «talora» e «s’egli aviene che» e in genere il fatto che
l’azione non può essere spontanea, ma deve avvenire solo dietro comando o richiesta
insistente. Qualora poi impari a leggere e a scrivere, la fanciulla dovrà utilizzare queste
competenze per divenire più assennata e per essere una buona amministratrice,
49
Francesco da Barberino, Reggimento e costumi di donna (codici manoscritti, Barberiniano
Latino 4001 e Capponiano 50), edizione critica a cura di Giuseppe E. Sansone, Roma, Zauli Editore,
1995.
31
E parmi ch’a suo stato si convenga che ’n questo tempo imprenda legere e scrivere convenevolmente,
sicché, se convenisse lei donna rimanere di terra o di vassalli, sarà più conta a reggimento fare; ché
ben save’ che ’l senno accidentale, lo qual porrà poi conquistar legendo, aiuta il naturale in molte cose
(FB: 12)
Bisogna però fare attenzione ai cattivi maestri: meglio è darle una istitutrice, per
evidenti timori relativi alla eccessiva confidenza e all’eventuale appartarsi con un uomo,
Ma qui si noti che femina sia colei che ciò le ’nsegni, o tale persona che non sia suspetta, ch’egli
è grande cagione di molti mali
la troppa confidanza,
e questa etade ha tenera perdanza. (FB: 12)
Sul tema dell’istruzione si lascia comunque aperto il dubbio se questo sia un
bene o un male nella formazione morale. Alla donna inoltre, anche se di rango, compete
anche il sapere svolgere attività tipicamente casalinghe come il cucinare. Lo spagnolo
Juan Luis Vives riproporrà questi argomenti due secoli dopo, nel De institutione
feminae christianae.50 Non sfugga poi l’insistenza sulla temperanza che è anche
nell’onestà ed è implicita nell’idea del rispetto del limite, come aurea regola sociale, e
in particolar modo della donna, un tema questo fortemente sottolineato dal
Rinascimento. Per la fanciulla in età da marito, le regole si faranno più rigide, la
reclusione più grave al punto che il nostro educatore consiglia di non mandarle neanche
in chiesa e di far fare loro le pratiche religiose in casa. Naturalmente saranno da evitare
gli incontri con uomini e, qualora si diano, da evitare i colloqui, e, se a forza coinvolte
nel colloquio, le fanciulle in età da marito dovranno schermirsi, far finta di non capire,
insomma utilizzare tecniche di simulazione dissuasorie (tecniche che troveranno seguito
anche in Castiglione, all’interno però di relazioni mondane tra genere femminile e
maschile, non solo consentite, ma anche promosse)
[...] ch’ella si guardi di dimorare sola con alcuno uomo, di fuori da padre e fratelli, e fortemente
si guardi da quello ch’ella s’accorge che la guarda spesso; né mai con quello a riguardar dimori, né
anco mai dimostri ch’ella di ciò s’accorga; né fugga, s’ella il vede, inmantanente, ma, poco stante,
quasi nol vedesse, partasi como per altro n’ andasse. E s’egli avien pur ch’alcun le parlasse e
dimandase contro a suo onore, partasi dal parlare e mostri come che non l’abia inteso né poi attenda a
guardar verso lui, ché già parria ch’ella ratificasse ciò che detto gli avea (FB: 24).
Prioritaria per loro sarà la tutela della buona fama, quella buona fama che è lo
strumento fondamentale per la conquista del marito. Non sfugga che tanta severità nel
contenere gli impulsi naturali è mirata a consentire il raggiungimento di un utile sociale.
Si sta facendo sempre più strada una mentalità laica e utilitaristica, quale si confermerà
con la ricorrenza della medesima preoccupazione nel Rinascimento. Segue poi
l’indicazione puntigliosa del comportamento da tenersi una volta passata l’età del
matrimonio, o nel caso si riesca molto tardivamente ad avere un marito. E la pignoleria
precettistica, che presuppone tutto un costume rituale e una limitazione delle libertà,
arriva ad indicare i comportamenti che si debbono tenere il primo, il secondo, il terzo
giorno, fino al quindicesimo dopo il matrimonio, e il primo, il secondo e il terzo mese e
via via per tutta la durata del matrimonio, con una distinzione se si hanno o meno figli.
50
Juan Luis Vives, De institutione feminae christianae [1524-1528], trad. sp.: Instruction de la
mujer christiana donde se contiene como se ha de criar vna donzela [sic] hasta casarse y despues de
casada ... y si fuere biuda ..., agora nueuemente corregido y emendado y reduzido en ... castellano,
Alcalá de Henares, [s.n.], 1529, ed.moderna: Instrucción de la mujer cristiana, in Obras completas,
Madrid, Aguilar, 1947, rist. Valencia, Generalitat Valenciana, 1992.
32
La donna maritata dovrà giurare lealtà, amore e fedeltà al marito, volere da lui figli da
educare nella fede cristiana,
Tu giurerai leanza, amor e fede
al tuo marito, durante tra voi
la vita che vorrà donarvi Iddio.
Tuo disidero sarà di volere
di lui figliuoli e di farli poi servi
di quel signor per cui mo ti conservi (FB: 45).
tenere un atteggiamento pudico, vergognoso, parlare poco e con voce bassa, essere
prudente e temperante anche nel mangiare, un comportamento che non differisce in
sostanza da quello della nubile. La donna maritata dovrà utilizzare la «prudenza» per
conservarsi il marito, cui deve rapportarsi con amore e timore, come nei confronti di
Dio: eviterà quindi di circondarsi di compagne e cameriere belle o più giovani ed
educherà le donne che la circondano. Notiamo quindi consigli di accortezza e buon
senso accanto ad obblighi che sanciscono la posizione subordinata della donna nel
matrimonio: il marito viene paragonato a Dio, l’amore non prescinde dal timore, ma vi è
íntimamente congiunto. Di accortezza e prudenza la moglie darà prova anche con lo
scegliersi un confessore integerrimo e vecchio, per evitare tentazioni e raggiri (e qui
compare quella Chiesa corrotta che Dante condanna e su cui il Boccaccio ironizza e che
anche Machiavelli denuncerà). Dovrà aiutare il marito a evitare i rapporti sessuali
quando questi debba mantenere integre le forze per il combattimento o se è travagliato
da gravi pensieri; dovrà, infine, sopportare le ire del marito con umiltà e pazienza,
poniàn che per avenimento
ello s’adira con lei tal fiata.
E a cagione over sanza cagione,
sia soferente e piana e umil tutta,
e faccia portatura in questo caso
tal ch’ella possa poi esser laudata (FB: 83).
Di ugual tenore saranno, come vedremo, le raccomandazioni fatte da un padre di
famiglia alle figlie nell’opera anonima del sec. XV Castigos y dotrinas que un sabio
daba a sus hijas,51 peraltro ispirata alla novella di Griselda di Boccaccio prototipo della
virtù dell’obbedienza come massimo pregio della donna sposata,52 e simili saranno
quelle consigliate nel Cinquecento da Piccolomini. Dovrà inoltre indurre il marito alla
misericordia e alla benevolenza, il che adombra già quel ruolo di mediatrice sociale
ulteriormente sottolineato da Piccolomini stesso in ambito familiare e allargato da
Castiglione alle relazioni di corte:
ch’ella si segni quanto dece e puote;
che nelle execuzion delle sentenzie
51
Castigos y dotrinas que un sabio daba a sus hijas, in Dos obras didácticas y dos leyendas
sacadas de manuscritos de la Biblioteca de El Escorial, a cura di H. Knust, Madrid, Societad de
Bibliófilos Españoles, 1878, pp. 251-293.
52
Juan Cano Ballesta situa questo testo nella seconda metà del XV secolo. La novella
decameroniana (X, 10), probabilmente filtrata attraverso la versione latina di Petrarca nota come
Griseldis (Epistolae Seniles, XVIII, 3), vi risulta abbreviata, trasportata in un ambiente mondano e ridotta
a esempio di comportamento anche grazie al prevalere del discorso indiretto sul diretto (cfr. Juan Cano
Ballesta, Castigos y dotrinas que un sabio daba a sus hijas: un texto del siglo XV sobre educación
femenina, Actas del X Congreso de la Asociación Internacional de Hispanistas, Barcelona 21-26 de
agosto de 1989 coord. por Antonio Vilanova, vol. I, 1992, pp . 139-150).
33
induca esto marito a misericordia
e via benigna. (FB: 81)
che quando il truova commosso
ad ira o vendetta verso d’alcuno,
induca lui a temperar suo voglia
e a perdon, ch’a donna ciò convene (FB: 81).
Qualora poi sappia leggere, dovrà leggere solo libri religiosi e morali,
Che s’ella sa leger, si usi l’uficio
della donna primieramente
e, s’ella puote, l’uficio ancor tutto;
poi a diletto santi libri e buoni
usi di legere e imprendere sempre (FB: 87).
Altri precetti saranno dati alla vedova a seconda dell’età della vedovanza e della
presenza o meno di figli, e qualora si rimariti, ancora un consiglio di buon senso: non
fare paragoni che svalutino il secondo marito rispetto al primo. Quanto poi a quelle che
fanno voto di castità, il nostro precettore non crede nella saviezza di chi fa questa scelta
restando in casa e magari da maritata; per lui le motivazioni sono spesso diverse da
quelle religiose e comunque in questi casi il voto di castità è difficilmente rispettabile.
La donna che si fa suora in casa deve essere per lui monda dal desiderio carnale o per
vecchiezza o per dono di Dio, altrimenti rischia di peccare. Le letture poi dovranno
essere rigorosamente l’Ufficio e le vite di santi, e dovranno essere escluse quelle
novelle d’arme e d’amore che svegliano sogni proibiti ed eccitano i sensi. In convento
naturalmente le regole auree sono povertà, castità, obbedienza; preghiere, umiltà,
continenza e astinenza nel cibo per domare e tenere sotto controllo i desideri della
carne; una vita corale per esercitare un sodalizio-controllo collettivo. Quanto alla donna
eremita, qui viene individuato il pericolo costituito dall’ozio, secondo una linea di
pensiero già presente in Egidio Romano e ripresa nel Cinquecento dallo spagnolo Juan
Luis Vives. Vengono inoltre impartiti insegnamenti anche alle cameriere, alle balie, alle
serve, per la buona armonia della famiglia: la cameriera dovrà amare la padrona come
figlia e riverirla come madre, accudire alle cose della padrona, essere discreta e saggia,
non fare delazioni e non seminare discordia, essere essa stessa casta e netta. Le serve, se
giovani, dovranno evitare di andare a servizio da un signore senza moglie per tutelare il
loro onore, e non avere rapporti con un padrone ammogliato. Essere inoltre pulite e
corrette. Le balie poi dovranno curare attentamente la fasciatura del bambino, i denti, la
pelle, essere di buona complessione e salute, giovani e somiglianti alla madre. Se ne
preciserà la complessione fisica, la forma delle mammelle, la qualità del latte. Altre
donne di condizione umile, che svolgono attività al di fuori della casa, quali la barbiera,
la fornaia, la caciaiuola, la pollaiuola dovranno essere oneste, e le ostesse e le
albergatrici vendere le cose e non la propria persona come se fosse una derrata
alimentare. Quanto agli «addotrinamenti» e ornamenti delle donne, esse dovranno
seguire queste linee di comportamento: difendere la buona fama con la pratica della
virtù, adornarsi con misura e secondo lo status, accettare una vita priva di libertà
pericolose, curare la casa, essere prudenti (saggezza strettamente unita alla bellezza),
evitare insomma i difetti di gola, avarizia, ira, chiacchera vana, e situazioni che
potrebbero divenire imbarazzanti o pericolose, quali incontri con medici, pellegrini,
confessori, interessati molto più al corpo che all’anima, e, se medici, alla bellezza del
corpo piuttosto che alla sua salute. Ancora una volta sembra già di sentire molti degli
ammaestramenti che saranno impartiti da Alessandro Piccolomini nell’Instituzion
34
morale, seppure con un atteggiamento più idealistico e accademico. Quanto alle
consolazioni delle donne nelle avversità, qui l’orientamento è ancora tipicamente
medievale: le tribolazioni del corpo divengono «rimedi» per l’anima. Più innovativo
semmai è il riconoscimento che parzialmente rompe con la consegna del silenzio e in
parte però la riconferma: poiché qualche volta conviene che esse sappiano stare in
conversazione, in tal caso, si affronteranno le questioni d’amore, cortesia e gentilezza,
precisamente quegli argomenti che saranno trattati anche nel Cortegiano e su cui le
donne interverranno, dimostrando la loro capacità di interagire secondo le linee
proposte dal modello. Per Francesco da Barberino l’amore divino è una grazia che
scende dal creatore alla creatura che così a lui si congiunge, mentre l’amore in generale
è un «mezzo», uno strumento di avvicinamento tra due estremi, un legame che li tiene
uniti, e quello mondano lecito, un «mezzo» fra due che si corrispondono e tiene unite le
loro volontà, a differenza della passione illecita, caratterizzata da un furore disordinato.
Interessante è pure la concezione della cortesia come libera magnificenza/munificenza,
e quella della gentilezza come una disposizione d’animo virtuosa e pietosa, che, se
legata alla nascita, connota lo status sociale nobiliare (FB: 211-212). A questo proposito
non si può non riscontrare una linea di continuità fra queste teorie e la concezione
neoplatonica dell’amore nel Cortegiano dove acquisterà la funzione di supremo vincolo
sociale in quanto amore lecito e portatore di ordine, allo stesso modo che la nobiltà di
sangue vi apparirà ancora come elemento di supporto della gentilezza d’animo. Peraltro,
là dove Francesco da Barberino presenta mottetti e detti di donne e cavalieri (FB: 7 e
213) ricompaiono alcuni elementi chiave della diatriba tra filogini e misogini con alcune
svolte nuove. La donna difende la superiorità femminile perché creata dalla costola di
Adamo e nata in Paradiso anziché, come lui, dal fango e fuori dall’Eden; l’uomo fu
creato forte per sostenere i pesi, la donna delicata per possedere i frutti della fatica
dell’uomo; fu inoltre minore il difetto della donna ingannata dal potente Satana rispetto
a quello dell’uomo ingannato dalla debole donna, e la debolezza della donna non è
difetto perché ella non ha bisogno della forza per difendersi, in quanto sa vincere con
l’astuzia. Il cavaliere invece sostiene la linea misogina (la donna è causa di danno,
creata debole per essere dominata dall’uomo, ingannatrice), ma indubbiamente i suoi
argomenti sono quantitativamente minori. Si tratta però di una presunta sconfitta,
contenuta sul piano di una diatriba meramente teorica.
Sintetizzando, infatti, possiamo ritrovare nell’opera di Francesco da Barberino la
testimonianza di una realtà sociale e di una mentalità sostanzialmente contraria
all’emancipazione della donna: la sua alfabetizzazione, ad esempio, è ancora oggetto di
dubbio e comunque controllata negli strumenti in modo che non ci siano cadute morali,
e il pudore, l’onestà e la buona fama la fanno da padroni comportando anche la
consegna prevalente del silenzio. Affiora solo il diritto a un minimo di discorso sul tema
dell’amore, ed è su questo sfondo che meglio emerge la novità del Cortegiano, dove
questo diritto si dilaterà fino ad avere un ruolo centrale di promozione del discorso. Ma
in Francesco da Barberino, la dimensione della mondana vita di corte è appena sfiorata
laddove si presenta il dialogo tra nobildonna e cavaliere, e proprio relativamente
all’amore e alla tematica di genere. Prevale altrimenti l’ambito casalingo dove la
reclusione fisica si somma ai numerosi condizionamenti di ordine morale
comportamentale: la donna è come un’ombra, in funzione e al servizio del marito con la
prudenza e saggezza con cui governa l’economia domestica, con la sopportazione
paziente di soprusi e intemperanze del coniuge, con la moderazione e l’onestà. E dove
le condizioni sociali la obblighino a un lavoro che comporta relazioni col pubblico,
intendiamo le donne plebee, serve o artigiane o mercantesse, si impone comunque una
linea di moralità e castità. Tale linea sarà conservata anche da Castiglione che
35
presenterà la donna nell’ambiente pubblico e mondano della corte, legittimando a pieno
titolo la sua uscita dalle mura domestiche per farsi donna di palazzo. A sua volta,
nell’ambito domestico, Piccolomini tenterà un’attenuazione della clausura casalinga
consentendo qualche uscita in più, sempre però con misura e nei rispetti del lecito, e
conserverà molti dei connotati indicati da Francesco da Barberino quali l’onestà, la
pudicizia, la buona amministrazione della casa, la capacità di interagire positivamente
col marito, il binomio amore-timore nei confronti di esso e di Dio. Affiorano inoltre, nel
Reggimento e costumi di donna, le doti di mediazione femminili, ma nell’ambito privato
e ne manca ancora l’enfatizzazione così come di quelle della bellezza e grazia, aspetti
che invece andranno a definire la posizione rinascimentale, insieme alla
simulazione/dissimulazione che qui sembrano mancare o trovare solo indiretti e
frammentari accenni. Francesco da Barberino, infatti, come abbiamo già rilevato, si
muove in un ambiente comunale e partecipa di un clima culturale che lo avvicina
parimenti a Dante e a Boccaccio. Il luogo fisico e sociale di riferimento permane quello
della città, non è ancora quello della corte. E tracce medievali sono riconoscibili nel
sotteso richiamo del modello della vergine Maria, in relazione non solo alle qualità della
castità e del pudore, apprezzate anche dalla cultura pagana, ma anche della misericordia
e della sopportazione del dolore.
4. La letteratura misogina e filogina nella trattatistica spagnola.
Difetti tradizionali della donna: avidità, mancanza di senno e di misura, lussuria, vs qualità interiori:
pudore, moderazione, compassione, operosità, intelligenza, e qualità esteriori: bellezza, grazia.
L’utilizzo di argomenti misogini in chiave filogina. La superiorità femminile nella bontà e nelle doti
spirituali e sociali. L’azione perfezionatrice della donna sull’uomo
Nella trattatistica spagnola si intersecano opere di carattere misogino e filogino
con posizioni anche intrecciate e ambigue e opere rivolte, più che all’analisi di vizi e
virtù, alla precettistica, comunque implicanti prevalentemente una concezione della
donna come essere moralmente e intellettualmente inferiore all’uomo. Si tratta di opere
non sempre rivolte direttamente alle donne, ma che indirettamente le riguardano, perché
di natura giuridica o rivolte all’ammaestramento dei principi (e quindi anche delle
regine e principesse).
Nel libro Las sietes partidas53 di Alfonso el Sabio (1222-1284), la cui influenza
durerà vari secoli, si teorizza la distinzione di ruoli maschili e femminili: ad esempio la
donna non può essere avvocato perché questo è un compito dell’uomo e perché in un
esempio di avvocatura femminile la donna si è comportata in maniera tanto svergognata
da irritare i giudici e indurli a toglierle questo diritto. Riguardo poi all’uso sessuale della
moglie nel matrimonio si sostiene che nel rapporto fisico tra marito e moglie non si
pecca se è finalizzato a generare, o si fa su richiesta dell’altro, oppure vinti dal desiderio
della carne, peccato quest’ultimo solo veniale e giustificabile perché così si evita di
compiere adulterio. Il peccato mortale si ha invece se il marito, per suo piacere, fa della
moglie un uso sessuale eccessivo, come farebbe di prostitute «cuando se trabajase el
varón por su maldad, porque lo pueda más hacer, comiendo letuarios calientes o
haciendo otras cosas».54 Se alcune affermazioni suonano come accettazione illuminata
dell’impulso naturale e giustificate dal precetto cristiano dell’amore del prossimo, è
individuabile ancora una priorità del maschio nel sesso perché l’oggetto di cui si parla è
53
Las siete partidas del sabio rey don Alfonso el IX [1256-1263/1265], a cura di Gregorio López,
4 tomi, Barcelona, Antonio Bergnes, 1843-1844, vol.2, pp. 170-171, 933-934, 1007-1008; vol. 3, p. 382;
vol. 4, p.162.
54
Las siete partidas del sabio rey don Alfonso el IX, Partida IV, título 2, ley 9.
36
l’uso sessuale della moglie da parte del marito nel matrimonio, anche se poi nel
dettaglio si contemplano generalmente comportamenti di entrambi gli sposi, e perché,
quando si parla di peccato mortale, si fa riferimento a un comportamento di
sfruttamento sessuale della moglie da parte del marito, il che appare da una parte
contrastante con la tradizionale accusa di lussuria rivolta alle donne e dall’altra
consapevole di una condizione storica di dipendenza della donna dal maschio anche in
relazione al soddisfacimento dei bisogni sessuali. Ci pare che queste osservazioni
denuncino una attenzione alla concretezza e anticipino la cultura del successivo
Umanesimo. Anche il rilievo, riguardo alla modalità di presentarsi della donna,
dell’importanza del vestito onorato, ossia di un abbigliamento adatto al pudore e allo
status sociale, per essere trattata dall’uomo in modo conveniente e onesto, ritornerà
nella trattatistica cinquecentesca per il ruolo che vi ha l’apparenza, la forma esteriore
come proiezione della sostanza interiore.
Rivolto invece all’analisi di vizi e virtù, Francesc Eiximenis (1304-1409), nel
Libre de les dones55 [1396], mentre da una parte celebra le doti di Eva prima della
caduta, dall’altra enumera i difetti successivi ad essa: il peso delle mestruazioni che
mandano inoltre cattivo odore; la perdita di buona parte del senno e di conseguenza la
superficialità delle chiacchiere; l’avvicinamento agli animali (gatto, cane, asino);
l’avidità legata alla condizione di privazione e di bisogno in cui è caduta; l’astuzia come
strumento per sopperire alle molte carenze; la necessità di leggi per trattenerla dalle
cattive tendenze di natura. Giova osservare che, alla elencazione in chiave misogina dei
difetti femminili, però, si accompagna una tesi filogina secondo cui l’avidità e l’astuzia
sono vizi provocati dal bisogno di sopravvivenza, un difetto vistoso quale quello della
lussuria viene taciuto e sostituito dalla dote opposta della vergogna naturale; infine,
nella conclusione l’autore elenca numerose virtù, affermando che le donne non vanno
disprezzate perché sono per natura pietose, amorose, vergognose, graziose, consolatrici,
desiderose di maternità, e chiama Dio a primo testimone della loro grandezza da lui
implicitamente riconosciuta facendo nascere Cristo dal seno di Maria. L’autore
riconosce inoltre che la donna può superare i suoi difetti di natura. Tali difetti, che
implicano una sua minore dignità congenita rispetto al maschio, non sono né deformità
né bruttezza, ma carenza naturale, o piuttosto, potremmo dire, carenza divenuta naturale
dopo la colpa di Eva.
A differenza della posizione oscillante di Eixeminis, si muove decisamente sulla
linea dell’esemplarità positiva della donna per l’uomo Enrique de Villena che nel suo
Los doce trabajos de Hércules,56 scritto prima del 1417, propone un’allegoria della
perfezione femminile quale espressione di obbedienza e castità, esempio di eccellenza
nel comportamento morale. Se il sesso debole è capace di una vita casta ed esemplare,
secondo Villena gli uomini potrebbero e dovrebbero fare lo stesso. Qui il topos
maschilista tradizionale si capovolge: le donne diventano modelli per gli uomini, tanto
più meritevoli per virtù quanto per natura più deboli. La menomazione naturale di
tradizione misogina viene così riconosciuta per essere utilizzata in chiave opposta, come
strumento di valorizzazione ulteriore della superiorità morale femminile di tradizione
filogina.
Diego de Valera (1412-1488) si impegna, per parte sua, nella confutazione degli
argomenti misogini della debolezza, malvagità, lussuria delle donne nel suo Tratado en
55
Del Llibre de les dones di Francesc Ximenes esistono cinque manoscritti che contengono la
traduzione castigliana dell’originale catalano, di cui uno è: Francisco Ximenes, Libro de las donas,
Biblioteca Nacional, Madrid, ms. 12731.
56
Enrique de Villena, Los doze trabajos de Hércules [1417 ca], a cura di Margherita Morreale,
Madrid, Real Academia Española, 1958, pp.133-137.
37
defensa de las virtuosas mujeres57 [1441], rilevando che, se si deve ammettere la loro
inferiorità fisica e intellettuale naturale, tanto più ne vanno apprezzati gli sforzi per il
raggiungimento della virtù. Juan Rodríguez del Padrón nel Triunfo de las donas,58
scritto tra il 1438 e il 1445, censura a sua volta il Corbaccio di Boccaccio ed espone
cinquanta argomenti a favore della eccellenza femminile in ambito anche intellettuale e
in virtù come la castità e l’onore. Tra i meriti della donna acquista particolare rilevanza
quello di essere madre, del sostenere la maggiore fatica nella generazione e
dell’accudienza amorosa dei figli. Álvaro de Luna (1390-1453) nella Defensa de las
virtuosas mujeres59 [1444] giunge a coinvolgere nella colpa Adamo e riconosce in più
alle donne la dote dell’eloquenza, della capacità oratoria persuasiva di livello alto, il che
significa riconoscere loro prerogative di senno e prestigio proprie dei maschi e
sottintendervi anche una capacità di azione e mediazione positiva, liberandole dalla
taccia della chiacchiera pettegola tanto inutile quanto seminatrice di zizzania.
L’opera anonima Triste deleitación,60 posteriore al 1458, mantiene invece
ancora tracce misogine, ad esempio elementi satirici nei confronti della dispendiosità
delle donne, ma presenta anche elementi a difesa. Vi si svolge una conversazione tra la
Donzella e la Madrina, donne di età differenti, come succederà in altri dialoghi, ad
esempio La Raffaella di Piccolomini, dove la più anziana funge da guida alla più
giovane. La Madrina elenca alla Donzella che chiede chiarimenti, dieci argomenti
misogini, ma non dà controargomenti per tutti e sembra accettarne alcuni come la scelta
di Dio di incarnarsi in un uomo e di donare lo Spirito Santo agli Apostoli maschi. A
favore della donna v’è tuttavia la ripresa dell’argomento, già trattato da San Tommaso
d’Aquino, della creazione di Eva dal centro dell’uomo per sostenerne la parità fra i sessi
in amore, lealtà e dominio.
Accanto e in contrapposizione a questa linea, filogina o ibrida, si collocano altri
testi dichiaratamente misogini come L’Espill 61 (1459-1460) di Jaume Roig, un autore
morto in Valencia nel 1487 per il quale la buona sposa non esiste, l’uomo può domare
tutti eccetto la donna, colpevole della caduta di grandi città, refrattaria all’istruzione,
cattiva madre (anzi prolifica in aborti), incapace di educare i figli, causa di sodomia,
esalante effetti velenosi quando è mestruata, dedita alla stregoneria, e incapace di
autentica amicizia. Salvo ammettere alla fine, con un intento retorico a conferma della
regola, di aver conosciuto una unica eccezione. Una misoginia radicale pur presente
nelle Coplas fechas por Mosén Pedro Torroellas de las cualidades de las donas,
pubblicate prima del 1458, e chiaramente influenzate dalla tradizione provenzale e
catalano-occitanica.
Ma Pere Torroella, di fronte alle critiche che trovano anche espressione nel
poema filogino62 di Gómez Manrique, ammette che la sua misoginia è stata provocata
da una delusione personale e scrive un’opera in difesa delle donne, Razonamiento de
57
Diego de Valera, Tratado en defensa de las virtuosas mujeres [1441], a cura di María Angeles
Suz Ruiz, Madrid, El Archipiélago, 1983, pp. 49-60, 72, 77-78, 81.
58
Juan Rodríguez del Padrón, Triunfo de las donas, in Obras completas [1438-1445], a cura di
César Hernández Alonso, Madrid, Editora Nacional, 1982, pp. 211-258.
59
Álvaro de Luna, Libro de las virtuosas e claras mujeres, cit., pp. 18-20, 21-22, 57, 135-136,
224-226, 311-315, 360-361.
60
Triste deleytacion, novela de F.A.C., autor anonimo del siglo XV, [1458 ca], a cura di Regula
Rohland de Langbehn, Morón, Universidad de Morón, 1983, pp. 80-85.
61
Jaume Roig, L’Espill o Libre de les dones, a cura di Maria Aurelia Capmany, València,
Edicions 3i4, 1992 ; El «Espejo» de Jaume Roig, traduzione di Ramón Miquel y Planas, Barcelona,
Orbis, 1936.
62
Gomez Manrique, Respuesta al mal dicho de Mossén Pedro Torrella, catalano, «Quien bien
amando persigue» in Cancionero de Gómez Manrique, Biblioteca Nacional, Madrid, ms.7817, fogli 2326.
38
Pere Torroella en defensión de las donas contra maldizientes, por satisfacción de unas
colpas que en dezir mal de aquellas compuso.63 Lì riconosce che il luogo medio della
perfezione, secondo la teoria aristotelica, può essere raggiunto anche dalle donne, che la
morbidezza e la mitezza necessarie per la compassione, virtù tipicamente femminili
funzionali alla mediazione sociale e all’incivilimento, discendono dalla freddezza
tradizionalmente attribuita loro a fisiologico difetto, e che sono loro appannaggio
l’intelligenza e la virtù di cui è indizio la soavità della pelle. Dunque la freddezza, che
veniva considerata abitualmente un difetto, si trasforma per alcuni suoi effetti, e cioé la
mitezza/ compassione, in virtù fisica e poi morale, che avvalora il ruolo di mediatrice
sociale e civile della donna, poi essenziale nel Rinascimento. È un esempio ulteriore
della reversibilità di argomenti esibiti a sostegno di tesi opposte, che, come vedremo,
troverà un seguito diretto nel Cortegiano, proprio anche in relazione al difetto della
freddezza, trasformato in pregio.
In una linea prevalentemente misogina64 si inscrive invece Il Jardín de nobles
donzellas65 di Martín de Córdoba (fine del sec.XIV- 1476?), scritto intorno al 1468 e
dedicato a Isabella di Castiglia, un trattato su come debbono governare i principi e
quindi anche le donne qualora siano capi di Stato. Anche per Martín de Córdoba le
donne hanno difetti naturali ereditati da Eva, ma li possono superare con l’aiuto di Dio.
Devono coltivare le attitudini di un maschio ed evitare più che mai difetti tipici delle
donne, ad esempio l’essere pettegole o di poca costanza. Devono anche essere
consapevoli del fatto che Dio le ha create per servire il maschio e ha dato loro un
sentimento naturale di vergogna per trattenerle dal peccato perché esse seguono gli
appetiti carnali più dell’uomo. Tale impulso naturale di vergogna esercita nella donna la
funzione di freno al posto della ragione di cui essa è priva, a differenza del maschio,
poiché le donne sono più carne che spirito. Altro difetto: le donne agiscono sempre in
forma esagerata, esasperata, non conoscono il senso della misura, del resto legato al
controllo della ragione di cui mancano. Il lungo elenco di gravi carenze naturali (il
difetto di ragione e di senso della misura, la loro essenza carnale più che spirituale),
spiega la volontà divina di sottometterle agli uomini (più spirito che carne, dotati di
ragione e di senso della misura), convertendo così l’obbedienza nella maggiore delle
virtù femminili. E tuttavia il trattato non può inscriversi completamente nella linea
misogina perché non è finalizzato a deprecarle, bensì a definire la donna secondo le
autorità bibliche e teologiche per porre la principessa nella condizione di governare,
governando innanzitutto se stessa. In più prevede l’eccezione virtuosa, nella fattispecie
Isabella di Castiglia. A questa, inoltre, come alle altre donne nobili, è riservato il sapere,
da cui sono escluse le plebee. Per quanto si tratti di una concessione legata alla classe
sociale, è già significativo all’interno del genere riconoscere alle donne, per quanto solo
alle nobili, il diritto all’istruzione. Lo status in questo caso aiuta a superare le
limitazioni imposte al genere anche quando vengono attribuite alla natura. C’è inoltre
63
Razonamiento de Pere Toroella en defensión de las donas contra maldizientes, por satisfacción
de unas coplas que en dezir mal de aquellas compuso, a cura di Charles V. Aubrun, Le chansonnier
espagnol d’Herberay des Essarts (siècle XV), Burdeos, Féret, 1951, pp. 27-36 [p. 27], con correzioni di
trascrizione di Robert Archer.
64
Discorda parzialmente dalla nostra interpretazione Mª Estela Maeso Fernández, che, pur
riconoscendo in Fra Martín de Córdoba la condivisione della posizione patriarcale sulla donna, ne mette
in evidenza l’attribuzione della possibilità di vincere i difetti naturali, e l’elaborazione per Isabella di
Castiglia di un modello di sovrana al femminile, caratterizzata da una relazione coi sudditi simile a quella
di Maria coi fedeli. Ricorda anche come Fra Martín de Córdoba sia stato definito da alcuni «femminista
sereno» (in Mª Estela Maeso Fernández, Defensa y vituperio de las mujeres castellanas, cit., p.4).
65
Jardín de nobles donzellas, Fray Martín de Cordoba: A Critical Edition and Study, cit., pp.
147-149, 153-157, 188, 243-244, 245, 252, 282, 283.
39
una ragione ovvia: il diritto delle donne in certe monarchie alla successione al trono
comporta la necessità di istruirle, almeno nelle arti del governo. L’istruzione, che
potrebbe essere una causa importante dell’eccezione virtuosa, viene quindi vista
piuttosto come un effetto di questa e dello status sociale, anziché partecipata al genere
femminile in quanto tale per emanciparlo. Da rilevare inoltre come l’aiuto della grazia
divina alle donne si espliciti secondo Fra Martín di Córdoba nel dono dell’impulso di
vergogna, un impulso sostitutivo di quel controllo razionale che Dio ha voluto donare
solo agli uomini. Gli effetti sono simili, ma le ragioni diverse, e la donna resta in una
sfera inferiore, mossa come gli animali dall’impulso e dall’istinto, in questo caso istinto
di vergogna contro istinto di lussuria. Infatti, poiché la lussuria è il suo difetto naturale
ed è comunque una colpa, questa va trattenuta da un pudore che diventa vergogna per la
consapevolezza della tendenza peccaminosa cui si oppone.
Una voce di nuovo decisamente filogina è quella di Roís de Corella (¿1438?1497), nella cui opera, il Triunfo de las donas66, la Verità informa le donne che esse
sono più perfette degli uomini, ed elenca tutta una serie di argomentazioni in difesa
della tesi: gli scritti dei padri della Chiesa sono stati male interpretati, l’uomo e la donna
sono stati creati uguali, le donne sono più amate dal Signore, la malvagità si nota di più
in una donna precisamente perché le donne sono per natura più buone, le ragioni per cui
Dio volle essere uomo e non donna sono di tipo sociale: le convenzioni che
consentivano al Cristo in quanto uomo di parlare più facilmente con le moltitudini o di
sostenere la pena della croce, che non si addiceva al pudore femminile. Le donne,
quindi, non solo vengono difese, ma vengono anche poste in una posizione superiore
agli uomini rilevando al contempo le limitazioni sociali imposte alle loro doti naturali
E ancora il diffusissimo Cárcel de amor,67 pubblicato tra il 1483 e il 1492, di
Diego de San Pedro,68 riprende i temi dell’amore cortese elencando venti ragioni per cui
gli uomini devono essere riconoscenti alle donne: esse danno sottigliezza, sensibilità,
rafforzano il sentimento della giustizia, danno temperanza, fortezza, dotano l’uomo
delle tre virtù teologali, fede, speranza e carità, lo rendono più contemplativo, lo
migliorano con la sofferenza d’amore, lo rendono umile, danno buoni consigli, rendono
l’amante più generoso, pulito, educato, attento alle apparenze ed elegante, gli fanno
praticare di più la musica, lo rafforzano nella lotta, lo affinano nella grazia e nella
poesia, inoltre l’uomo nasce da donna. Di fatto le donne vengono celebrate come le
muse o creature dotate di grazia, dispensatrici esse stesse di grazie, non solo morali, ma
anche prettamente religiose, e inoltre sociali: l’educazione, la sensibilità artistica,
l’emulazione, e non ultima, la pulizia! Questa funzione di mediazione positiva della
donna nelle relazioni sociali, oltre che secondo la tradizione cortese, la ritroveremo in
Castiglione, lettore attento del libro di Diego de San Pedro.
Sempre nel quadro della letteratura filogina quattrocentesca spagnola vanno
ricordate due voci di donne, entrambe suore, Teresa de Cartagena e Isabel de Villena.
La prima, pur riconoscendo la sua ignoranza e debolezza, rivendica il dovuto
riconoscimento che le donne meritano in quanto creature di Dio, perché un’opera divina
non può essere difettosa. Nell’Admiraçión Operum Dei69 essa rivela inoltre di aver
66
Joan Rois de Corella, Obra profana [¿1438?-1497], a cura di Jordí Carbonell, Valencia, Tres i
Quatre, 1983, pp. 71-80, traduzione parziale di Marisa Martínez e Robert Archer.
67
Diego de San Pedro, Cárcel de amor [1483-1492], a cura di José Francisco Ruiz Casanova,
Madrid, Cátedra, 1999, pp. 135-140.
68
Diego de San Pedro (¿1437-1498?), poeta e narratore spagnolo del Prerinascimento, forse di
origine giudaica, fu al servizio del maestro di Calatrava, Pedro Girón e poi a capo del castello di Peñafiel
e quindi uditore del re e del suo consiglio.
69
Teresa de Cartagena, Admiraçión Operum Dey (Arboleda de los enfermos / Admiraçión Operum
Dey), [1450 ca] ed. a cura di Lewis Joseph Hutton, Madrid, 1967.
40
composto un’altra opera, Arboleda de los enfermos [1450], che per la fama incontrata si
suppose scritta da un uomo, presupponendo un’incapacità naturale femminile che, a
giudizio di Teresa de Cartagena, è solo frutto della prevaricazione sociale, cioè
dell’esclusione delle donne dalla cultura. La seconda autrice compose una Vita Christi70
[1497] per rafforzare le religiose attraverso l’identificazione con personaggi femminili
del Nuovo Testamento, e forse come risposta polemica all’opera misogina L’Espill
[1460] di Jaume Roig. Ne risultò una calda difesa della superiorità femminile e
l’attribuzione di un ruolo importante alle donne che accompagnarono Cristo. Non può
sfuggire la rilevanza del fatto che le due protofemministe fossero suore, e quindi più
facilmente acculturate delle donne laiche, ma educate a un costume di umiltà e
obbedienza con cui contrasta il loro orgoglio di genere, tuttavia a sua volta
cristianamente autorizzato dalla difesa dei deboli e degli oppressi.
Il costume di umiltà e di obbedienza, congiunto a quello del lavoro è peraltro un
topos ricorrente nella precettistica spagnola. Significativa a tale proposito l’opera
anonima già citata della seconda metà del XV secolo, Castigos y dotrinas que un sabio
daba a sus hijas,71 che riporta l’insegnamento di un padre alle figlie perché siano buone
mogli: dovranno obbedire al marito anche se questi compie azioni malvage, come
dimostra l’apologo introduttivo, avere doti di sopportazione, gentilezza, allegria, qualità
con cui si può trasformare un marito cattivo in un buon marito. Dovranno essere oneste,
trattenersi in casa, evitare gli spettacoli e i luoghi di ritrovo, soprattutto in assenza del
marito; non dovranno ascoltare o pronunciare parole volgari e oscene; non dovranno
appartarsi con uomini, anche se parenti, padre, fratello, per non incorrere in effettiva
colpa e per non fomentare maldicenze. Dovranno essere buone amministratrici della
casa. Questi insegnamenti, tra cui non ultimo quello dell’attenzione all’opinione
pubblica, li ritroveremo in buona parte in Juan Luis Vives –di cui ci occuperemo subitoe nell’Instituzion morale di Piccolomini, la cui Raffaella, invece, intonerà il controcanto
della ribellione femminile che si difende dietro la simulazione.72
Juan Luis Vives73 nel De institutione feminae christianae,74 composto tra il 1524
e il 1528 per la principessa Maria, figlia di Caterina d’Aragona, prende in esame
l’educazione della principessa e in generale della donna a partire dalla infanzia. La
70
Isabel de Villena, Vita Christi [1497], ed. a cura di Rosanna Cantavella i Lluisa Parra, Barcelona,
1987.
71
Castigos y dotrinas que un sabio daba a sus hijas, cit., pp. 260-266, 276-277, 278-279.
La simulazione diviene generalmente nella letteratura rinascimentale la grande arte che copre la
trasgressione, non però per tutti gli intellettuali. Chi ancora difende l’integrità della sostanza, e in questo
recupera posizioni medievali, è Castiglione che tuttavia compie al solito un’opera di mediazione: la virtù
interiore deve accompagnarsi a un’accorta e credibile virtù esteriore per non incorrere nel discredito
dell’opinione pubblica, e avvalersi della discrezione, farsi essa stessa discrezione. Accanto al rapporto
con Dio, e forse prima ancora, per l’intellettuale rinascimentale è fondamentale nella realizzazione della
persona il rapporto che si instaura con la società e il suo benestare, il suo consenso e buon giudizio.
73
Juan Luis Vives, (Valencia, 1492- Brujas, 1540) fu umanista, filosofo e pedagogo.
Apparteneneva a una ricca famiglia ebrea che si convertì al cristianesimo per ragioni di opportunità, ma
continuò di fatto a praticare la religione giudaica, finché non fu scoperta dalla Inquisizione che condannò
al rogo vari componenti della famiglia. Vives, prima che gli eventi precipitassero, fu mandato a studiare a
Parigi dove si addottorò e poi si stabilì a Bruges, nel Belgio, dove apprese della condanna a morte del
padre. Il timore della persecuzione lo spinse in Inghilterra, dove fu eletto lettore del Collegio del Corpus
Christi e divenne contemporanemaente cancelliere di Enrico VIII. Fu amico di Tommaso Moro e della
regina Caterina che gli affidò l’educazione della figlia, Maria Tudor, nella lingua latina. Il suo tentativo,
prima di evitare il divorzio del re, poi di convincere la regina Caterina ad accettarlo, gli alienò le simpatie
dell’uno e dell’altra, e così Vives lasciò l’Inghilterra, per tornare a Bruges, sotto la protezione di Carlo V.
Importante tra le sue opere pedagogiche, morali, filosofiche, anche il Tradado del socorro a los pobres,
mirato a organizzare un servizio di assistenza sociale.
74
Juan Luis Vives, De institutione feminae christianae [1524-1528], cit.
72
41
donna va istruita fin da bambina nella virtù per la salvezza dell’anima e nel governo
della casa. È bene che impari a filare, lavorare e cucire («hilar, labrar, coser»), anche se
principessa. E pure a cucinare. È bene che sappia leggere: dovrà però leggere solo testi
moralmente educativi. Non deve invece imparare a suonare o ascoltare la musica,
ritenuta una forma di corruzione. Infatti, nel Cinquecento si assiste a un atteggiamento
ambivalente nei confronti della musica e del suo utilizzo nell’educazione, e, se la pratica
musicale sarà consentita in ambiente cortigiano anche alle donne, permarranno tuttavia
delle riserve.75 Ma qui interessa notare che anche Vives, dunque, come Egidio Romano,
dà importanza al lavoro, un lavoro peraltro tipicamente femminile di accudienza e
amministrazione della casa, sia come modo per evitare un ozio pericoloso sia come
competenza necessaria anche per impartire ordini alla servitù e sorvegliarne i lavori. Di
rilievo anche l’educazione alla lettura, certamente una forma di emancipazione, anche
se con testi controllati e censurati. La valorizzazione del lavoro e di una moderata
cultura la ritroveremo anche nell’Instituzion morale di Piccolomini (ispiratosi
palesemente all’opera di Vives) e nella trattatistica comportamentale successiva. Ma
ricordiamo che sul tema dell’istruzione femminile si erano già pronunciati nel Trecento
l’anonimo autore del Fior di virtù e Christine de Pizan in relazione al riconoscimento
dell’intelligenza femminile, limitata nel suo sviluppo dalla mancanza di istruzione, per
lungo tempo prerogativa pressoché solo maschile.
Nel suo prologo alla versione castigliana del trattato di Vives,76 Juan Justiniano
sottolinea la scansione precettistica delle donne in relazione all’età e allo status di
nubili, maritate o vedove (una tipologia di larga vita poi nei trattati italiani), e la novità
delle idee di Vives sull’educazione femminile, accusando gli scrittori misogini di avere
solo criticato le donne senza preoccuparsi di aiutarle con una adeguata istruzione.
Di fatto assumono importanza nel Cinquecento i trattati sull’educazione
femminile, nelle diverse età e condizioni, come evidenzia Daniela Frigo, attenta alle
motivazioni sociali di questo fenomeno,77 un’opinione condivisa da Adriana
Chemello,78 che a proposito dell’evoluzione subita dal modello del Cortegiano in
direzione precettistica, osserva:
75
Per approfondimenti sul tema rimandiamo all’interessante saggio di María José Vega, Poesía y
música en el Quinientos: la fantasía aristocratica, in “Res publica litterarum”, Instituto Lucio Anneo
Séneca, Barcelona, Francisco Lisi Bereterbide, 2006 (consultato online: http://docubib.uc3m.es/). Sulla
concezione della musica è bene ricordare che, accanto a una valorizzazione di questa come moderatrice di
passioni e procuratrice di onesto riposo dell’anima e del corpo, una musica insomma con funzione
elevatrice, formatrice e confortatrice, valido strumento di educazione dell’uomo nobile, c’è nella
tradizione una sua svalutazione come vanità lasciva, arte per le donne e delle donne, effeminatrice,
funzionale alla seduzione amorosa, pratica delle donne dai costumi liberi. Il collegamento tra i due topoi
antitetici pare essere la valorizzazione della musica come strumento che promuove il piacere delle dame e
il piacere amoroso. La musica, in quanto forma di seduzione, non conviene alle dame oneste, e la sua
eventuale pratica si restringe all’ambito privato. Il Bembo che pure ne ammette la pratica per le donne
nell’ambito della corte, come passatempo conviviale per le classi istruite, ne rifiuta l’apprendimento alla
figlia, segno questo del contrasto che vivono gli stessi intellettuali rinascimentali tra l’ideologia amorosa
platonica e il concreto del loro vivere all’interno di una tradizione moralista maschilista, nonché tra lo
spazio pubblico più liberale della corte e lo spazio più angusto e severo della famiglia.
76
Juan Justiniano, Prólogo a Libro llamado instrucción de la mujer cristiana...,Valencia, Jorge
Castilla, 1528.
77
Daniela Frigo, Dal caos all’ordine: sulla questione del “prender moglie” nella trattatistica del
sedicesimo secolo, cit., pp. 57-94.
78
Adriana Chemello, La donna, il modello, l’immaginario: Moderata Fonte e Lucrezia Marinella,
in Marina Zancan (ed.), Nel cerchio della luna. Figure di donna in alcuni testi del XVI secolo, cit, pp. 95170.
42
La prima parte del secolo (in cui si inscrive il Cortegiano) aveva codificato la «nobiltà et
eccellenza» delle donne con serrate argomentazioni logico-filosofiche ed un vastissimo repertorio di
exempla che contribuiva a fissare i comportamenti entro uno spettro di prevedibilità già normate. Nei
decenni successivi, esauritasi la fase del «formar con parole», si era passati ad «instituire» le donne,
diversificandole secondo il loro stato (vergine, maritata, vedova). La fine del secolo, quando ormai i
trattati sulla donna sono ridotti ad esercitazioni di maniera, conosce un rigurgito di tendenze
misogine che acquista particolare forza e colore in area padana (AC: 102-103).
I trattati di cui parla la Chemello sono infatti ispirati da motivazioni socioculturali di difesa della famiglia e dell’onore familiare, una questione particolarmente
curata in Spagna dai re cattolici, che avevano condotto una politica di valorizzazione
della famiglia e del ruolo al suo interno del pater familias. L’educazione della donna da
parte maschile, in questo contesto, era funzionale a farle condividere coscientemente un
ruolo subalterno all’interno del nucleo famigliare, cooptandola con il riconoscimento
della sua importanza. Era anch’essa uno strumento di controllo sociale.
Il topico dell’obbedienza sopravviverà a lungo in Spagna, anche oltre la soglia
del Cortegiano. Basti pensare al celeberrimo Reloy de príncipes79 [1539] di Antonio de
Guevara (1480-1545), un trattato destinato ad educare sia i principi sia uomini e donne
di diversa condizione, che pur sostenendo l’uguaglianza, libertà e centralità femminili
nella generazione e conservazione della vita e della specie, messa in pericolo dagli
uomini con la violenza e le guerre, impone alla donna l’obbligo dell’obbedienza e della
sopportazione anche rispetto a mariti difficili per la responsabilità dell’averli accettati
come tali.
5. Il vizio d’origine della letteratura filogina.
In sostanza, la letteratura filogina celebra nella donna doti come la castità, la
pudicizia, il senso di vergogna che vince la naturale lussuria, l’assennatezza, la
compassione, la grazia del corpo e dello spirito che la fa dispensatrice di grazie, la
temperanza, il timor di Dio, la capacità di essere una buona e operosa amministratrice,
l’obbedienza; un insieme di fattori che ne fa insomma il perno della società, recitando
un controcanto rispetto ai difetti additati dai misogini: lussuria, mancanza di
intelligenza, intemperanza, avidità, ribellione e superbia, oziosità, ecc., e aggiungendovi
anche alcune significative annotazioni sulle prevaricazioni sociali che la donna subisce.
L’excursus sulla letteratura filogina si può concludere osservando anche come in essa
sia frequente la difesa della donna sulla base della presenza di caratteri maschili e della
negazione di quelli tipicamente femminili, il che può essere il frutto di un’ottica di
potere condivisa e concorrenziale. Del resto non dimentichiamo che una fase del
femminismo contemporaneo è stata caratterizzata dall’assunzione e condivisione del
modello maschile. Anche la verginità viene considerata come una virtù in quanto
condizione che rende la donna simile all’uomo perché la induce a negare la sessualità e
quindi l’imperfezione legata al suo sesso, ossia la lussuria, ed è un segno di forza al
punto che San Girolamo afferma che la donna, qualora voglia servire più Cristo che il
mondo, cesserà di essere donna e si chiamerà uomo. Anche la compassione e la pace,
riconosciute alla donna in misura superiore agli uomini, comportano sempre un
confronto con gli uomini e il riconoscimento di queste virtù anche a loro. Forse solo la
grazia è la virtù tipicamente femminile rilevata fra quelle elencate con una parziale
connotazione di potere (mentre all’opposto sta l’obbedienza), una virtù esteriore e
interiore che, opponendosi alla rozzezza maschile, incivilisce, il che spiega la sua
79
Fray Antonio de Guevara, Relox de príncipes, a cura di Emilio Blanco, Madrid, ABL
Editor/Conferencia de Ministros Provinciales de España, 1994, pp. 422, 423-424, 432, 434-437.
43
centralità nel Cortegiano e in generale nel Rinascimento, dove acquisterà una
connotazione prevalentemente laica e non più ascetico-cristiana. Questa dote femminile
diverrà concorrenziale con l’intelligenza maschile che legifera, nella buona gestione
della società. La letteratura misogina poteva invece contare su vizi attribuiti unicamente
alle donne, che, se vanno imputati al maschio, lo connotano, appunto, femminilmente,
squalificandolo per questo. E da non dimenticare che la celebrazione, nella letteratura
filogina, di virtù femminili funzionali agli uomini come l’obbedienza (s’intende agli
uomini e a Dio), e come la capacità di esercitare nei confronti degli uomini un’azione
virtuosa, di sviluppo e miglioramento delle loro capacità, secondo la tradizione
dell’amor cortese, rivela per un verso l’accettazione del ruolo subordinato e strumentale
della donna che viene lodata in funzione della sua utilità per l’uomo. La letteratura
filogina, insomma, non sa emanciparsi dalla interazione/dipendenza dalla letteratura
misogina, come la sua protetta non sa liberarsi dalla compagnia e predominio maschile.
Confuta e ribalta le accuse, ma in genere non ha una voce autonoma.
Più innovative e suscettibili di positivi sviluppi emancipatori, perché più
circostanziate storicamente e meno astratte, ci sembrano le critiche di Christine de Pizan
a una condizione sociale sfavorevole, quale la reclusione e la mancanza di
acculturazione, e il dovere spesso subire la brutalità aggressiva dell’uomo; cosí pure il
rilievo dato alle convenzioni sociali da Roís de Corrella, il che, unito al riconoscimento
delle virtù sociali della donna, costituisce implicitamente un grave atto d’accusa alla
società che maltratta chi di essa è particolarmente benemerita.
6. «Della eccellenza e dignità delle donne» [1525] di Galeazzo Flavio Capra,80 un
trattato in lode e onore delle donne, di tre anni anteriore al «Cortegiano».
Virtù teologali e cardinali, bellezza, misura e discrezione, in funzione dell’essere e del benessere
dell’umanità. Ma pervivenza del topico medievale della virtù della pazienza. La fisicità tra eros e pudore.
L’ampliamento delle argomentazioni filogine anche nella reinterpretazione della vicenda di Adamo
ed Eva e della scelta di genere del Cristo.
Su una linea più decisamente filogina di Francesco da Barberino si muove due
secoli dopo, già in pieno Rinascimento, Galeazzo Flavio Capra nel breve trattato in 15
capitoli Della eccellenza e dignità delle donne,81 [1525] dove, più che dare precetti alle
donne, si sforza semplicemente di difenderne la perfezione confutando gli argomenti
misogini. Anzi, dalla posizione più radicalmente filogina si può arguire che derivi la
mancanza di precetti per le donne che evidentemente, per il nostro autore, non ne hanno
bisogno; al contrario gli uomini sono chiamati a rivedere i loro pregiudizi e a
riconoscere il merito dell’altro sesso. Ai precetti di Francesco da Barberino, vicino
peraltro nella festevolezza e nella vivacità dell’argomentazione, non dimentica del
modello boccaccesco, Capra sostituisce il tentativo di proporre piuttosto un modello,
pur attraverso la tradizionale lode delle donne. L’attenzione al modello più che al
precetto avvicina inoltre questa opera al Cortegiano, unitamente alla sopravvivenza di
echi misogini sotto la veste filogina, e alla valorizzazione di aspetti analoghi quali la
discrezione, la misura, l’onorabilità sociale, la bellezza, l’accenno al tema dell’amor
platonico, presentato però in chiave maggiormente erotica. Capra nella dedica assume
Galeazzo Flavio Capella (Milano, 1487- Milano, 1537) fu segretario di Francesco II Sforza, e
compose opere storiche sulla storia contemporanea di Milano, in relazione al duca Francesco II, un
trattato di antropologia, oltre all’opera filogina Della Eccellenza et dignità delle donne (1525).
81
Galeazzo Flavio Capella, Della eccellenza e dignità delle donne Galeazzo Flavio Capella
(Roma, Francesco Minizio Calvo, 1525), ed. moderna a cura di Maria Luisa Doglio, Roma, Bulzoni
2001.
44
l’intento dichiarato di difendere le donne per compiacere sia loro che gli innamorati.
L’obiettivo del ‘compiacimento’ del pubblico femminile e di quello maschile più
attratto dalle grazie e più succube del femminile crea, a dire il vero, il sospetto che
Capra stia producendosi in un gioco tra letterario e utilitaristico, senza convinzioni
ideologiche che motivino intenti di effettiva emancipazione. Tuttavia il nostro autore
espleta l’incarico che si è autonomamente assunto con la tenacia e capziosità di un
causidico, anche se non con stretta consequenzialità. Nel proemio polemizza
immediatamente con i misogini, rilevandone l’inaffidabilità con la tradizionale accusa
delle radici autobiografiche della misoginia: la pena di un amore rifiutato o perduto.
L’argomentazione a difesa delle donne è preceduta da un breve riepilogo, che qui
riportiamo, degli argomenti utilizzati abitualmente a loro detrimento dai misogini,
secondo i quali la donna-materia anelerebbe all’uomo-forma per perfezionarsi, ma
sarebbe portatrice nel congiungimento di imperfezione per l’uomo che per questo la
odierebbe (argomentazione questa che ritroveremo in bocca all’interlocutore misogino
del Cortegiano, il signor Gasparo); la minore dignità naturale della femmina
giustificherebbe la sua subordinazione in ambito sociale e storico; di fronte alla nobiltà
dell’uomo, creato ad immagine di Dio, prenderebbe rilievo ancor più negativo la colpa
di Eva; la scelta del Cristo, poi, di essere uomo e non femmina, sarebbe finalizzata a
fare conoscere all’umanità la differenza fra l’uno e l’altro sesso e la subalternità
femminile; inoltre il genere femminile patirebbe di gravi difetti per natura come le
mestruazioni,
li menstrui e le altre bruttezze e immondizie che dai loro corpi escono (CD: II).
Di questi argomenti alcuni come quelli inerenti ad Eva e al Cristo, saranno
direttamente confutati, altri invece, come quello dell’imperfezione nel congiungimento,
solo indirettamente, attraverso la valorizzazione della posizione supina della donna, e
altri nemmeno totalmente: se la donna verrà investita di una maggiore dignità naturale,
ciò non impedirà che la si lasci in una condizione di subordinazione, pur se addolcita
dalla virtù della pazienza e prudenza, e da quella protezione maschile che potremmo
considerare il volto gentile della tirannide.
La difesa si sviluppa soprattutto attraverso un’elencazione a tutto tondo delle
qualità delle donne, la cui superiorità sul maschile viene suffragata con la ripresa di
argomenti e modalità proprie della tradizione, quali l’inversione di un difetto in virtù (la
complessione fredda determinerebbe la prudenza, quel controllo che sfugge agli uomini,
portati alla passione e all’ira dalla natura più calda) e l’utilizzo dei cataloghi degli
exempla, o con motivazioni tra il curioso e lo specioso: ad esempio la loro superiorità
nel possesso delle tre virtù teologali sarebbe dimostrata dalla più intensa frequentazione
delle Chiese, dall’assenza del riprovevole costume del bestemmiare, e addirittura dalla
maggior perizia nelle arti magiche che presupporrebbero fede nella potenza della parola
e arte soprannaturali (CD: III). Così pure la loro eccellenza nelle virtù cardinali sarebbe
illustrata da un senso della giustizia strettamente unito a una liberalità illuminata,
rinvenibile nella loro maggior disponibilità all’elemosina e carità pubblica. E infine un
altro elemento che ci pare innovativo: l’aver fatto appello alla statistica e alla
grammatica e concordanza di genere della lingua, e non alla consueta etimologia, per
ribadirne la superiorità, dimenticando di fatto le cause sociali e strettamente linguistiche
che piuttosto determinano tali fenomeni: la libertà maschile e l’utilizzo del genere
maschile in forma totalizzante per menzionare l’intero genere umano. Capra sostiene
infatti che la superiorità femminile sarebbe suffragata dai dati statistici comprovanti che
i delinquenti sono soprattutto maschi e dalla connotazione linguistica dell’uso specifico
del maschile da parte del «filosofo», ossia di Aristotele, per indicare che l’uomo diviene
45
il peggiore degli esseri se non rispetta le leggi (CD: IV). Debolezza e lussuria femminile
vengono inoltre implicitamente contestate collegando al maggior senso della giustizia la
maggiore fortezza contro la tentazione, quella che la tradizione misogina aveva insieme
legittimato e delegittimato chiamandola ‘impulso di vergogna’. La relegazione nella
casa-famiglia, anziché essere oggetto di lamentazione come nella tradizione filogina,
critica nei confronti di questo ruolo imposto dalla società patriarcale, offre anch’essa
occasione per una rivalutazione della donna, autorizzandone quindi la persistenza:
secondo Capra, la virtù della prudenza femminile si manifesta indubbiamente nella
saggia amministrazione della casa, connotata altresì da ordine e pulizia, e nella cura dei
figli, sia nell’abbigliamento che nell’educazione. Quasi comica a questo proposito la
rappresentazione al negativo delle case non amministrate dalle donne, assomigliate a
porcili:
le corti e palazzi solamente da uomini non governati ma dissipati paiono tanti porcili, sì sono
affumicati e pieni d’ogni tempo de’ monti di letame (CD: VI).
La gestione della casa da parte della moglie inoltre, per Galeazzo Flavio, attento
alla suscettibilità maschile, non toglie nulla all’autorità del marito, costituisce solo un
valido aiuto, un alleggerimento delle fatiche. L’osservazione del ruolo della donna in
famiglia, a nostro parere, ne comporta la valorizzazione nei termini di una compagna
utile e piacevole per l’uomo, ma sempre subordinata, e di cui al solito si evidenziano gli
effetti positivi sul maschio. Alle ricadute negative sulla donna saranno molto più attente
le scrittrici che assumeranno un punto di vista femminile e non maschile, o almeno non
solo maschile, seguendo l’esempio di Christine de Pizan. La moglie discreta dunque è
per Capra fonte di felicità, conforto, e quasi eco che si assimila al marito per fargli da
specchio e consolarlo:
e ultra ciò qual maggior consolazione, qual maggior felicità può avere l’uomo che una discreta
moglie? Con la quale, quando ritorna la sera a casa, communicando le sollicitudini e le cure che lo
premono, gli pare di via maggiore peso che dire non si puote allegerirsi, avendo chi de le sue
calamità con seco egualmente si doglia e de le felicità chi se goda ancora più di lui. E se per aventura
si ritrovano alcuni che dicono essergli aviso, quando la sera tornano da le loro moglie, tornare como
Sisifo al sasso infernale, questo più tosto ne denota la malvagità loro che de le femine, imperò perché
bacciano l’altrui, la loro moglie è forza che gli puti, como di questo parlaremo più ampiamente ne la
temperanza (CD: VI).
A valori già tipicamente rinascimentali quali la discrezione, tanto decantata
nella donna anche nel Cortegiano, si associano qui comportamenti apprezzati di
relazione e partecipazione che anticipano il modello di donna sposata di Piccolomini e
di donna eco e specchio diffusa nella trattatistica di tutto il Cinquecento, peraltro già
presente nella tradizione. Originale ci sembra l’annotazione secondo cui la maggiore
maturità di comportamento della donna è dimostrata dalle stesse leggi che la liberano da
una condizione di tutela prima degli uomini, perché abitualmente l’ambito giuridico non
è assunto dai filogini come campo d’indagine o, se rilevato, lo è per criticare una norma,
scritta o non scritta, di sopraffazione.
Meritamente adunque devesi ne la donna aver fede, conciosia che e di prudenza e di iustizia
(como è detto sopra) l’uomo trapassi. La quale cosa assai apertamente ci dimostrano le leggi, quali la
82
Consigli di sopportazione, gentilezza, allegria nei confronti del marito dava alle figlie anche il
padre nell’opera anonima del sec. XV nota col nome di Castigos y dotrinas que un sabio daba a sus hijas,
e prima ancora, nel Trecento, aveva posto l’accento sul modello della moglie paziente Francesco da
Barberino, oltre che Boccaccio con la sua Griselda.
46
donna in manco età absolveno da la tutela che non fanno gli uomini, perché più tosto per loro
prudenza sanno regolare le cose sue; e questo parmi sì gran testimonio de la eccellenza del femineo
sesso, essendo iscritto per tanti imperatori e consuli romani e altri uomini illustri che già le leggi
fecero, che estimo esser una rustica pertinacia più oltra desiderarne. Ne la prudenza si serrano
accorteza, desio, agevolezza de imparare, intelletto, ragione e discrezione o vero circuspezione
(CD:VI).
Capra mostra poi l’intreccio di elementi misogini e filogini, anch’esso proprio
della tradizione, laddove riconosce che le donne sono più inclini per natura alla lussuria,
ma, grazie alla temperanza, sanno però contenersi ed essere fedeli a un solo uomo,
comportamenti questi pressoché ignorati dagli uomini e addirittura criticati come forma
di sciocca rinuncia a un piacere naturale, e socialmente consentito però ai soli uomini. Il
discorso dunque, dopo un inizio ambiguo, sembrerebbe declinarsi in senso strettamente
filogino, con la denuncia della sperequazione del giudizio sociale che quasi non
condanna l’adulterio maschile, mentre colpisce con un gravissimo discredito la donna
che se ne sia macchiata, se non ponesse tra le concause della temperanza femminile il
senso di vergogna collegato alla centralità dell’onorabilità sociale (CD: VII) e non
presentasse come forma apprezzabile della temperanza anche la pazienza, la
sopportazione sia della lunga assenza del marito che delle sue ire. Una dote femminile
che di fatto riesce utile al maschio, ma più che mai sancisce la dipendenza della donna,
facendogliela accettare in maniera rassegnata, e che è già stata sottolineata nei Castigos
y dotrinas que un sabio daba a sus hijas e sarà apprezzata poi anche da Piccolomini
nell’Instituzion morale. Innovativo inoltre, ma ancora ancorato alla visione medievale
dell’obbligo del pudore per la donna, del resto ribadito nella cultura rinascimentale, ci
sembra il rilievo, frutto di attenzione agli aspetti naturali della conformazione del corpo,
sulla pudicizia delle donne di cui costituirebbe una prefigurazione tra pedagogica e
impositiva la posizione naturalmente nascosta degli attributi sessuali, mentre riutilizzato
anche nel Cortegiano sarà, a dimostrazione della pudicizia femminile, il rifiuto subito
da molti innamorati nelle loro richieste di corrispondenza amorosa (C: III, 50). Del resto
Capra mostra un atteggiamento più disinibito e libero che Castiglione in relazione al
corpo e all’erotismo; ne è una riprova l’aver fatto menzione della posizione supina della
donna nell’amplesso, anche se per elevarla maggiormente a Dio e quindi ancora
secondo una linea medievaleggiante, in quanto col viso rivolto verso il cielo, mentre
l’uomo nel coito sarebbe rivolto verso il basso, a terra, come le bestie.
Per ragion dil luoco dicevano ancora l’uomo essere più degno, perciò che la donna è sottoposta e
l’uomo sta sopra in luoco più nobile. Ma chi con diritto occhio riguarda, conoscerà che la donna negli
ultimi diletti d’amore sta in luoco più nobile giacendo supina e con gli occhi al cielo, a guisa che
debbono far gli animali dotati di ragione e l’uomo stassi come fanno le bestie col volto e con gli
occhi verso la terra [...] (CD: XIV).
Tuttavia Capra preannuncia, a ridosso del Cortegiano, non solo la valorizzazione
della discrezione e dell’onorabilità sociale, e, come vedremo in seguito, della bellezza
con accenni al neoplatonismo, ma anche la distinzione tra il comportamento più libero
consentito alla donna di palazzo e quello ritenuto accettabile per la donna in famiglia e
fuori dell’ambiente di palazzo, anche se Castiglione tenderà a rendere più armonica e
sfumata l’indole della perfetta gentildonna di corte (C: III, 5). Il ruolo di intrattenitrici
rivestito nella vita di corte (CD: VII), su cui ruoterà nel Cortegiano la riqualificazione
della donna, viene riconosciuto anche da Galeazzo Flavio, secondo cui la
«piacevolezza» nel ridere e nel parlare delle donne di palazzo non può essere argomento
di loro discredito, perché circoscritta nei limiti dell’onesto e inerente alla loro funzione
nella corte (CD: VII).
47
Sul tema misogino della inclinazione naturale alla lussuria si innesta un’ulteriore
celebrazione filogina: la magnanimità femminile sarebbe dimostrata dalla stessa
continenza che l’autore insieme apprezza e lamenta, con una vivace battuta velatamente
autoironica, consona alla leggerezza e amenità dello stile dell’intero trattatello,
Dirò ora de la magnanimità, la quale ne le femine tanta si ritrova che quantunche sia in loro,
come ho già detto, naturalmente più desiderio de’ carnali congiungimenti, non per tanto non s’è udito
ancora mai che alcuna per atutare la voglia sua richiedesse l’uomo de sì fatta bataglia, anzi sempre
con animo eccelso e troppo generoso sostengono de esser non una volta ma mille e mille pregate, e
Dio volesse ancora che non indarno, perché leve parerìa la fatica de porgere tanti prieghi se una volta
almanco fossero exauditi, né solamente circa li notturni combattimenti consiste la loro magnanimità
(CD: VIII);
Naturalmente la magnanimità si coglie anche in atti di eroismo di cui l’autore
riporta svariati esempi, un eroismo tanto più apprezzabile quanto più debole per natura è
il soggetto femminile che ne dà prova. Interessanti anche le osservazioni in relazione
alla «dilezione e amore» (CD: IX) delle donne: sulla base dell’autorità aristotelica,
Capra sottolinea la centralità naturale dell’amore dei figli, ma vi aggiunge la superiorità
dell’amore per i mariti, subordinando l’impulso naturale a una elezione, o meglio, a un
dovere sociale, con un virtuosismo dialettico che mira a enfatizzare l’eccellenza di una
virtù che si qualifica come civile nella sua stessa antinaturalità. Rileva anche nelle
donne, come qualità positiva, una maggior disponibilità all’amore, anzi alla fantasia
d’amore, per la privazione imposta loro, nella clausura casalinga, di tante attività e
passatempi consentiti invece agli uomini, il che adombra l’idea di una specializzazione
nell’ambito a loro più consono pur presente in Castiglione:
Quanto eziandio a l’amore che per bellezze o laudevoli costumi o proprie virtù i giovenili cori
invesca, credesi per molti autori le donne vincere, imperò che essendo ne le ombrose case nutrite
ociose e quasi in solitudine, cose tutte aconcie a secondare li piaceri d’amore e toltigli mille altri
studi agli uomini concessi di ucellare, cacciare, giostrare, armegiare, li cui piaceri hanno forza ogni
fiamma amorosa estinguere, che gli resta altro se non con pensieri continui nutrire il foco che le
consummma? (CD: IX)
Giova ricordare, a questo proposito, che la letteratura misogina invece aveva temuto
moltissimo le fantasie amorose delle donne, e per evitarle voleva che esse fossero
costantemente impegnate nel lavoro.
Quanto alla intelligenza e alla dottrina, in consonanza con la tradizione filogina
si citano numerosi esempi di donne pari o superiori agli uomini, come la poetessa Saffo,
e si ribadisce che, se nel numero le donne sono inferiori, ciò avviene solo perché per
costume sociale non sono proiettate verso gli studi (CD: X). A sostegno di questa tesi
— già difesa, come abbiamo visto, da Pizan — si aggiunge inoltre l’assegnazione della
sapienza al genere femminile nella mitologia greca: Atena, dea della sapienza, le Muse
«excitatrici degli elevati ingegni» (CD: X). Anche la mollezza tipicamente femminile,
secondo la tradizionale rivalutazione della corrente filogina, da difetto viene trasformata
in virtù e diviene segno di migliore ingegno.
Capra, nello sforzo di celebrare in toto la donna, chiama in campo anche i beni
riservatile dalla fortuna (CD: XI) a riprova dell’eccellenza del suo sesso: Adamo nacque
in Siria, Eva invece nel Paradiso terrestre; l’unicorno, animale molto gagliardo e
crudele, accetta di essere cavalcato e ammansito solo da una donna vergine; i paralitici
traggono giovamento dal calore delle donne; interi continenti come l’Asia e l’Europa
hanno nomi femminili; la terra stessa è detta madre universale. La sorte dunque
ribadisce una priorità naturale. L’argomento, ripreso più tardi nel cap. XIII, offre ancora
curiosi e interessanti spunti sull’eccellenza delle donne: una preminenza naturale nella
48
procreazione rispetto al maschio, anticipata dall’attenzione già rivolta alle maggiori
fatiche della donna nella generazione e nell’allevamento dei figli da Juan Rodríguez del
Padrón:
Perché li figliuoli son communi e se l’uno di dua gli ha più de l’altro parte, la donna veramente
è quella che gli ha nel suo ventre portati, dil proprio latte nidriti, con tanta fatica e solicitudine
allevati (CD: XIII).
il che è tutt’altro che di poca importanza perché contesta implicitamente la priorità
aristotelica dell’uomo che darebbe forma e spirito e riconosce invece la centralità della
donna, per il fatto stesso che offre la materia per la generazione e la nutrizione dei figli.
Ancora un’attenzione e una rivalutazione del corpo e della fisicità che contraddistingue
Capra, e ne fa una componente significativa della rivalutazione della donna. Su questa
linea si innesta anche il riconoscimento della preminenza femminile nella salute,
consistente in una vita regolata, propria più delle donne che degli uomini,
Perché la sanità consiste in gran parte nel regolato vivere, il che è ne la nostra voluntà, e perché
più modestamente e con migliore regola viveno le donne, più rade volte infermano (CD: XIII),
e la rivalutazione delle mestruazioni non più giudicate un difetto, ma un pregio e un
dono della natura, in quanto funzionali a purificare il corpo, e segno di nettezza e
delicatezza,
appresso li menstrui e le spesse purgazioni le reguardano da molte infermità in cui li uomini
spesse fiate incappansi (CD:XIII).
Alle donne Capra riconosce persino una forza fisica, dimostrata nell’antichità
dalle Amazzoni, ma poi venuta meno per mancanza di esercizio, e ciò per una
provvidenza quasi della Natura, costretta a togliere a metà del genere umano l’uso delle
armi, utilizzate non più per il bene, come nell’età dell’oro, ma, nella presente età
decaduta del ferro, solo per le offese e la devastazione. Funambolica ci pare la
giustificazione provvidenziale e storica della debolezza del corpo delle donne, condotta
con un’argomentazione della cui fragilità lo stesso autore sembra essere consapevole, se
premette che delle forze fisiche le donne non hanno di fatto necessità, in quanto possono
valersi delle superiori forze dell’intelletto. Del resto l’ipotesi di Capra che la Natura,
necessitata a togliere a metà del genere umano l’uso delle armi, abbia scelto come
soggetto di questa privazione il genere femminile, la dice lunga sulla permanenza anche
ideologica dell’attribuzione del potere agli uomini, un potere che si connota in primo
luogo come esercizio della forza e solo in secondo luogo come esercizio dell’intelletto.
Prettamente rinascimentale risulta la valorizzazione della bellezza corporea,
appannaggio peculiare delle donne,
Il medesmo ancora tra l’altre ragioni per questa si prova che le più volte la bontà de l’ingegno
dimostrasi per la bellezza corporale, quale come diremo nei seguenti capitoli, specialmente regna ne
le donne. (CD: X)
e la coniugazione della bellezza esteriore a quella interiore che si inscrive nella linea
sviluppata dal Cortegiano e da altri trattati. Per dimostrare che la bellezza è attributo
femminile per eccellenza, Capra si avvale di un dettagliato confronto tra la bellezza
delle donne e dell’uomo, in cui le donne trionfano per proporzione, misura, umidità che
ne conserva meglio la vitalità e freschezza, mentre gli uomini sono barbuti e ispidi, né
traggono vantaggio estetico dalla loro maggiore grandezza e altezza, anche se, per
49
tutelarsi, hanno immaginato due tipi di bellezza, uno per gli uomini e un altro per le
donne, in cui ci è lecito rilevare la marca del potere per gli uomini (la bellezza della
«maestà»), e quella del piacere per le donne («un’attrazione piena di desiderio»), un
piacere di cui certamente sono promotrici e di cui si passa sotto silenzio se siano
partecipi. Tale diversificazione della ‘bellezza’ maschile (che quasi degenera in
bruttezza) da quella femminile non trova riscontro in Castiglione che associerà alla
virilità maschile bellezza e grazia femminili.
Per la qual cosa, non possendo di beltà con le donne contrastare, avemosi imaginato due specie
di bellezza, ne l’una de le quali sia una dignità e maiestà e quasi una riverenza e questa abbiamolasi a
noi attribuita, ne l’altra sia una venustà, una attrazione piena di desiderio, piena d’amore e questa è
propria e peculiare de le donne. (CD:XII)
Capra prosegue la sua celebrazione con un’elencazione minuta delle bellezze
delle donne secondo un catalogo che da Mathieu de Vendôme, Brunetto Latini e Guido
delle Colonne arriverà fino ad Ariosto, e senza esimersi dal citare anche le parti più
propriamente sessuali in un’atmosfera piena di seduzione:
[...] in ogni cosa siamo inferiori, cominciando dagli occhi, quale in molte si veggiono a guisa de
doe fiammeggianti stelle, anzi de dua vivi soli diffondere intorno a sé la sua luce [...]. Che dirò io dil
spacioso fronte? E de l’arguti cigli? Dil profilato naso? De la vermiglia bocca? De le candide perle
ordinatamente rinchiuse entro il bel corallo? Dil bifido mento da niuno pelo attorniato? Del vivido
colore sparso per tutto il volto? Che de la bianca gola? Che de le molli fila d’oro che e su pel bianco
avorio sparse e in dolce nodo raccolte non possono se non sommamente a’ riguardanti agradare? Che
dirò dei rotondi pomi? [...] Pensa quello deve essere de le occulte parti, alle quali con tanto amore e
desiderio la natura non ne spingerebbe se non fussero al tutto dilettevoli e al loro obietto bellissime,
perché l’amore non è altro che una cupidità di fruire la bellezza, come diffiniscono tutti i filosofi e
massimamente l’amoroso Platone. (CD: XII)
Né può passare inosservato il fatto che l’autore suffraghi ulteriormente la tesi
della maggiore perfezione femminile con l’argomento che gli artisti per rappresentare la
bellezza hanno preso a modello il corpo di una donna. Il modello di bellezza proposto
riecheggia pienamente il canone tradizionale e prelude a Firenzuola, anche con il
riferimento al pittore Zeusi che creò un canone estetico imitando le parti più belle di
cinque giovani donne di Crotone. Evidente poi la tesi neoplatonica esplicitamente
enunciata:
l’amore non è altro che una cupidità di fruire la bellezza, come diffiniscono tutti i filosofi e
massimamente l’amoroso Platone. (CD: XII)
un’idea che nel caso di Castiglione verrà ulteriormente stilizzata evitando ogni
descriptio puellae, per incrementarne l’astrazione ideale. Ma quell’ ‘amoroso’ riferito a
Platone a noi suona come una nota quasi maliziosa, l’insinuazione di una istanza
erotica, in conformità con una rappresentazione della bellezza più schiettamente
caratterizzata dalla fisicità. Infine Capra sottolinea la necessità che il genere umano ha
delle donne non solo per l’essere, ma anche per il benessere, se vogliamo esprimerci
con le parole di Castiglione che svilupperà piú ampiamente questo concetto:
Lasciamo stare la impietà quale è grandissima a biasimare quelle per cui abbiamo l’essere, quelle
che ne conservano e multiplicano la sumiglianza de nui stessi, quelle senza le quali il vivere nostro
fora una solitudine, una perpetua tristezza, anzi una continua morte (CD: XIV).
L’autore, prima di concludere, si inoltra in altre confutazioni di topoi misogini:
le donne in chiesa portano il velo non perché immonde e brutte, ma per non suscitare in
50
un luogo sacro desideri impudichi; anche se desiderano l’uomo per perfezionarsi, hanno
già un loro grado di perfezione; la stessa posizione che esse occupano nell’amplesso,
come già abbiamo ricordato, ne comprova la superiorità rispetto agli uomini. E riprende
la plurisecolare tematica sacra in chiave filogina: la colpa di Adamo fu più grave di
quella di Eva, più inesperta perché più giovane, in quanto creata dopo di lui; il Cristo
poi avrebbe comprovato la maggiore gravità della colpa di Adamo scegliendo il genere
maschile per espiarla e perché tale sesso era da lui giudicato il più umile. La posizione
filogina dell’autore è ulteriormente evidenziata dal suo rivolgere l’opera anche a un
pubblico femminile, pur se ne è rinvenibile una attenuazione nell’affermazione che le
donne meritano /hanno bisogno della difesa degli uomini conquistati dalle loro grazie.
Questi sono li argomenti, queste sono le ragioni sopra dette con le quali gli uomini si persuadeno
vincere la schermaglia; e certo dubito, per essere le donne ne le corporali forze alquanto inferiori,
non la perdessero, se le loro mercè non seguitassero degli amici che in ogni loro bisogna, in ogni
periglio fossero apparechiati e pronti a prendere l’arme per loro difesa, non temendo li continui
soffiamenti de la invidia, né li crudi morsi de li detrattori (CD: XV).
Le armi di cui si parla, a buon diritto, ci paiono anche quelle metaforiche
dell’eloquenza. Vedremo come anche nel Cortegiano i ragionamenti filogini saranno
prevalentemente prodotti da interlocutori maschili. Lo stesso autore, che ha
sperimentato l’innamoramento e difende questa esperienza, vuole con il suo breve
trattato testimoniare la gratitudine verso la moglie e celebrarla all’interno di una lode
generale delle donne per non offenderne il pudore.
Anche in queste ultime affermazioni, possiamo cogliere tra le righe la
permanenza di obblighi limitanti per le donne, che non derivano dalla loro eccellenza
virtuosa maggiore libertà di comportamento e che abbisognano della solidarietà
maschile. Anzi, come abbiamo notato prima, nonostante la valorizzazione del corpo e
dell’intelletto femminile, se ne ribadisce la subordinazione al maschio nella importanza
morale e civile assegnata alla sopportazione dei soprusi maschili e nella valorizzazione
della dimensione familiare. Dell’eccezione delle donne di palazzo cui si accorda
maggiore libertà sempre nei limiti del decoro e dell’onorabilità, si parla, ma
brevemente.
Nonostante la proclamata filoginia, è possibile quindi rinvenire anche in Capra,
che pubblica la propria opera solo tre anni prima del Cortegiano, una ibridazione
filogina misogina. Accanto alle anticipazioni di Castiglione, quali il ruolo importante
delle donne per il benessere dell’uomo e la libertà consentita nell’intrattenimento, ma
sotto la tutela e il controllo dell’onestà, perdurano componenti misogine anche di
estrazione medievale dalla figura della moglie paziente, alla riesumazione delle virtù
teologali ai rilievi sulla fisicità che rimandano a pudore e spiritualità di matrice
cristiana, alla attenzione alla maternità femminile, giocata però in chiave filogina,
mentre altri palesano una prevalenza dell’interesse estetico-erotico più chiaramente
rinascimentale. Né si evidenzia la femminilizzazione dell’uomo operata da Castiglione.
Capra insomma, nonostante certe affermazioni abbastanza singolari, permane su un
piano più tradizionale e affastella gli argomenti piuttosto che selezionarli ed enuclearli
in maniera coesa in relazione a una nuova ipotesi di civiltà. Certamente Capra patisce
della mancanza di contestualizzazione nell’ambiente elitario e di potere della corte in
cui invece Castiglione calerà il proprio modello ideale, e pecca di minore concretezza,
complessità e coerenza, anche se vi è ravvisabile un ambiente di rimando più privato e
cittadino. Le stesse argomentazioni di Capra si muovono su un piano meno colto, e si
potrebbe dire per certi versi più pettegolo, rispetto a quelle accademiche, di alto
confronto intellettuale e con un uditorio di alto prestigio sia femminile che maschile, sia
51
di cultura che di potere, che contraddistingueranno il Cortegiano. È inoltre ravvisabile
in Galeazzo Flavio Capra un punto di vista maschile, che nel difendere le donne non
omette l’interesse degli uomini e non perviene a critiche severe nei loro confronti, a
differenza delle scrittrici filogine più attente ai concreti bisogni femminili e più aspre
nei confronti degli uomini, anche se a volte in forme mediate e ambigue. Ci riferiamo
non solo a Christine de Pizan, ma a Moderata Fonte e Lucrezia Marinella, autrici attive
in periodo ormai controriformistico e di cui ci occuperemo più avanti.
6.1. Tavola di confronto sintetico tra Capra e Castiglione.
Capra
Castiglione
Recupero diatriba tra misogini e filogini:
Recupero diatriba tra misogini e filogini:
rivalutazione della freddezza della natura femminile rivalutazione della freddezza della natura femminile
perché più vicina di quella calda maschile alla
perché genera prudenza e autocontrollo.
perfezione della temperata.
-La temperanza si esplicita nella virtù mediatrice
-La temperanza si esplicita nella virtù della
all’interno dell’intrattenimento.
pazienza, importante nella relazione di coppia nel
matrimonio (perdurante eco misogina sotto specie
filogina con lunga vita dal Medioevo a Piccolomini,
Dolce, Guazzo).
-La mollezza comporta maggiore intelligenza.
-La mollezza comporta intelligenza.
-Virtù cardinali e teologali.
-Virtù cardinali.
Contestati inoltre i topoi misogini relativi alle
mestruazioni, alla lussuria femminile, contenuta
invece dal senso di vergogna (secondo una linea
che implicitamente la riconosce come attitudine, ma
la nega per un costume acquisito)
Utilizzo di argomenti grammaticali e giuridici pro
donne.
Centralità femminile nella procreazione, e quindi
rivalutazione del corpo.
Metaforizzazione della procreazione nella
promozione dei discorsi.
Rivalutazione del corpo nella bellezza esteriore e
negli esercizi della musica, danza, canto.
L’amore maggiore per i mariti che per i figli.
L’amore per i mariti.
La necessità delle donne per l’essere e il benessere
dell’uomo.
La necessità delle donne per l’essere e il benessere
dell’uomo.
L’antica forza delle donne, trasformata in debolezza La differenza fisica funzionale alla complementarità
delle funzioni e al benessere sociale.
con una finalità positiva per la societá.
Bellezza femminile maggiore e quasi bruttezza
maschile: la bellezza di maestà-potere degli uomini
contrapposta a quella erotica delle donne.
Manca la femminilizzazione dell’uomo.
La diversità maschile investita dalla bellezza e
grazia femminile. La femminilizzazione dell’uomo.
La cooperazione nel matrimonio, utilità per gli
uomini e non danno.
La cooperazione nell’intrattenimento e nella
virtuosa coppia platonica.
52
Modalità più divulgativa e osservazioni curiose.
Argomentazioni filosofiche complesse.
Distingue tra modalità della donna di palazzo e
della moglie. Tiene presenti entrambi gli aspetti.
Accenna a una coniugazione tra i due ruoli, ma si
interessa solo alla donna di palazzo e
all’intrattenimento.
Rappresentazione analitica della bellezza e più
evidente attenzione alla fisicità e al piacere erotico.
Rappresentazione sintetica della bellezza e
mediazione tra corporeità concreta e idea della
bellezza, tra ethos ed eros.
L’eros è presente in forme più mascherate e
metaforizzate dalla normazione estetica e
relazionale.
Ma anche descrizione della fisicità femminile (il
luogo del sesso) con l’intento pedagogico di
sottolinearne il dovere naturale del pudore.
E rivalutazione, in chiave spirituale, della posizione
supina abituale alla donna nell’amplesso.
Quindi anche aspetti fisici recuperati ancora in
un’ottica medievale.
Recupero del mito adamitico :
superiorità di Eva perché creata nel paradiso
terrestre e perché più grave la colpa di Adamo,
scelta del Cristo di assumere il sesso maschile per
dimostrarne la maggiore colpevolezza nella
trasgressione del divieto divino.
Accenni all’opposizione Eva –Maria.
Critica ai soprusi maschili: il diverso peso della
colpa dell’adulterio, l’impedimento
all’acculturazione femminile.
Critica ai soprusi maschili: il diverso peso della
colpa dell’adulterio, l’impedimento
all’acculturazione femminile.
Superiorità e debolezza femminile: il perdurante
bisogno della difesa dei cavalieri maschi.
Superiorità e debolezza femminile: il perdurante
bisogno della difesa dei cavalieri maschi.
Ambiente cittadino,
Ambiente cortese.
Permanenza di aspetti medievali (accenno alle virtù Spiccata adesione ai valori rinascimentali laici e
teologali, attenzione a una rivalutazione fisica della all’ambiente fisico e politico che li ha portati alla
donna che riporta a simbologie di castità e massima perfezione, la corte.
spiritualità), accanto a rinascimentali (il fascino
estetico-erotico della bellezza).
53
54
PARTE II
IL MODELLO DELLA PERFETTA DONNA DI PALAZZO NEL CORTEGIANO DI
BALDESAR CASTIGLIONE
Sezione I - Il “cortigiano” Castiglione. L’esperienza del femminile.
Sezione II - La rappresentazione della donna nel percorso di stesura del
Cortegiano.
Sezione III - Il femminile nel Cortegiano: la sua relazione col maschile.
Sezione IV - La comunicazione.
55
7. Premessa.
Come già annunciato nella premessa generale, abbiamo cercato di approfondire
la concezione della donna di Castiglione, e più precisamente della perfetta donna di
palazzo, cogliendone le relazioni con l’esperienza di vita, lo sviluppo ideologico nel
lungo processo di composizione e revisione del trattato, la concezione del maschile, in
rapporto al quale si delineano e definiscono la concezione e le funzioni della donna, la
comunicazione, perché l’emancipazione della donna, pur nei limiti in cui si dà, viene
motivata dal suo ruolo di mediatrice e facilitatrice della comunicazione. Ecco perché
questa contestualizzazione ha necessariamente assunto uno spazio ampio nella nostra
trattazione.
Aggiungiamo che il tema della comunicazione, per il ruolo che vi svolge la
donna e perché assunto fondamentale dell’opera, che trova anche uno svolgimento in
epigoni di tutto rilievo quali Della Casa e Guazzo, data l’importanza del codice di
comportamento per l’integrazione nella società aristocratica, ha avuto un ampliamento
anche in rapporto alla finalità del trattato, alla scelta del genere, della lingua, del
dedicatario. Questa ultima parte, che avremmo potuto allegare come appendice,
abbiamo preferito lasciarla all’interno della continuità del discorso, per sottolineare
quell’armonia di contenuti e di stile, di ideologia e di linguaggio che caratterizza
Castiglione facendone una figura quanto mai esemplare dell’equilibrio rinascimentale,
che peraltro contraddistingue anche il suo pensiero sul femminile, connotato dalla
mediazione fra le due correnti filogina e misogina, tra la spinta ideale e le necessità
sociali, tra istanza di rinnovamento e forza della tradizione.
56
Parte II, Sezione I
8. Il “cortigiano” Castiglione. L’esperienza del femminile.
8.1. La relazione tra vita e ideologia.
Testimonianze dirette ed indirette della esperienza del femminile. L’epistolario e le trasposizioni
letterarie.
Per approfondire il tema della concezione femminile di Castiglione ci sembra
opportuno dare una breve occhiata anche ai rapporti concreti e diretti con l’elemento
femminile avuti nella vita, attraverso le testimonianze biografiche e quelle
autobiografiche rilasciate alle lettere, nonché attraverso testimonianze indirette
costituite dai testi letterari minori. Il “cortigiano” Castiglione83 è figlio di una
83
B. Castiglione nacque a Casatico, vicino a Mantova il 6 dicembre 1478, da Cristoforo
Castiglione e Aloisia Gonzaga. Ebbe una ottima educazione umanistica: studiò a Milano le lettere latine
presso Giorgio Merla, le lettere greche presso Demetrio Calcondile e più tardi i classici latini e italiani
sotto la guida di Filippo Beroaldo il Vecchio. Cicerone soprattutto sarà un modello molto importante sia
per il trattato che per argomenti specifici al suo interno, come quello delle facezie, un modello comunque
propositivo e non impositivo. Venne accolto per la nobiltà del casato e l’apprezzata indole come
cortigiano alla corte di Milano, al servizio del duca Ludovico Sforza, dove si distinse nel cavalcare e nel
maneggio delle armi, acquistando con la sua abilità e grazia la stima e la benevolenza di tutta la corte. La
morte improvvisa del padre per una ferita contratta nella battaglia del Taro e la rovina dello Sforza lo
ricondussero a Mantova, dove venne accolto amorevolmente dal marchese Francesco Gonzaga, al seguito
del quale, durante la sua discesa verso Napoli come alleato dei Francesi, partecipò nel 1503 alla battaglia
del Garigliano. Lo seguì poi a Roma per l’elezione del papa Giulio II, e qui incontrò il duca Guidubaldo
da Montefeltro, nelle cui grazie e al cui servizio entrò nel 1504, inizialmente come comandante militare,
per le proprie doti e per la mediazione di un cugino e della stessa duchessa Elisabetta, sua parente. Si
stabilì così alla corte di Urbino, legata a Mantova e protetta dal papa Giulio II, dove fu accolto con molta
stima e benevolenza dalla Duchessa ed Emilia Pio e potè dedicarsi con tranquillità agli studi e godere sia
del supporto della grande e preziosa biblioteca voluta dal Duca Federico, sia della compagnia «di tanti
cavalieri letteratissimi». Dopo una visita alla corte degli Estensi, a Ferrara, andò a Roma, al seguito del
Duca Guidubaldo, insignito del titolo di Gonfaloniere e Capitan generale della Chiesa. Alla corte romana
ebbe la possibilità di «stringere amicizia co’ valentuomini, che ci fiorivano, e prendere molta pratica della
Corte e de’ grandi affari». Per il rinvio della sua partenza come ambasciatore presso la corte del re Arrigo
VII d’Inghilterra, potè partecipare ad Urbino al Carnevale del 1506 con l’egloga Tirsi, recitata in
compagnia di Cesare Gonzaga. Successivamente fu inviato per affari d’importanza anche presso il re di
Francia, in marcia verso Milano. Nel 1508, alla morte di Guidubaldo, fu mandato a Gubbio per
controllare la città, poi si trattenne ad Urbino presso il nuovo Duca, Francesco Maria della Rovere.
Sfumata un’ipotesi di matrimonio con una figlia di Piero de’Medici, militò con coraggio nella guerra
promossa da Giulio II contro i Veneziani per recuperare le città della Romagna. Ammalatosi per le fatiche
sostenute in quella campagna, venne assistito con molta amorevolezza dalla Duchessa e da Emilia Pio.
Per ricompensarlo dei meriti militari, il Duca lo gratificò con la concessione del titolo di Conte e di un
castello nello Stato di Pesaro. Alla morte di Giulio II, Castiglione venne mandato a Roma come persona
di fiducia per curare gli interessi del Duca presso il Sacro Collegio dei Cardinali e il nuovo pontefice,
Leone X, amico di Castiglione e «famigliare della Casa d’Urbino». Terminato questo incarico, dopo un
breve ritorno alla corte di Urbino, fu definitivamente inviato a Roma con la carica di ambasciatore, dove
potè godere della frequentazione di eccellenti artisti e letterati, alcuni dei quali già incontrati alla corte di
Urbino. Il marchese Francesco Gonzaga, per un certo periodo a torto mal disposto verso di lui, si
ricredette e lo invitò alla corte di Mantova, con il pretesto di dargli moglie. Nel 1516 si celebrarono così
con feste alla corte di Mantova le nozze di Castiglione con Ippolita, figlia del conte Guido Torello e di
Francesca di Giovanni Bentivoglio, già signore di Bologna. Nel 1518 inviò a Pietro Bembo, per una
revisione ed un parere, il libro del Cortegiano. Venne poi nominato dal nuovo duca Federico Gonzaga
suo ambasciatore ordinario presso il Pontefice. In quel periodo ebbe due gravi lutti: la morte della moglie
per parto e dell’amico Raffaello Sanzio. Nel 1521 prese gli ordini minori. Richiamato a Mantova,
combattè con valore contro i Francesi. Reinviato a Roma nel 1523, alla elezione di Clemente VII, fu
richiesto da questi come suo Nunzio presso la corte dell’imperatore Carlo V a Madrid, dove fu accolto
57
nobildonna, Aloisia Gonzaga, parente dei Gonzaga, «della linea de’ Marchesi di
Mantova, Dama di gran senno e di maravigliosa accortezza», come ci riferisce Serassi,84
e sposo di una nobildonna, Ippolita,85 figlia del conte Guido Torello e di Francesca di
Giovanni Bentivoglio, già signore di Bologna, «donzella bellissima, e di gentilissime
maniere», nonché frequentatore della corte e quindi della duchessa di Urbino, Elisabetta
Gonzaga,86 e di altre nobildonne-dame di palazzo come Emilia Pio, oltre che di
nobildonne intellettuali come Vittoria Colonna. Esperisce dunque un mondo femminile
in cui la donna è innanzitutto una nobildonna e gentildonna, giova sottolinearlo, che
nulla ha a che vedere con le donne plebee, e gode sicuramente di una forma di
educazione e di possibilità di relazione mondana di alto livello, ma assume contorni
diversificati se colta nel ruolo specifico di amministratrice della casa, o di sposa e
madre, o se vista nel ruolo pubblico e mondano di dama di palazzo, e inoltre in una
funzione socio-culturale e quasi politica particolarmente elevata come nel caso della
duchessa di Urbino e, parzialmente, della stessa Vittoria Colonna. Mentre nella
trasposizione letteraria la madre e la moglie non hanno una identificazione diretta, ma
solo, o quasi solo, indiretta, a livello cioè di influenza sull’ideologia, la duchessa ed
con molto onore e stima. Nel 1527 il sacco di Roma e la prigionia del Pontefice, voluti dall’imperatore,
oltre che addolorarlo moltissimo di per sé, gli crearono pena anche per la sfiducia del Pontefice che lo
incolpò di non averlo avvisato in tempo. Castiglione riuscì a giustificarsi, ma, forse in seguito anche a
questo dispiacere, cominciò ad essere infermo di salute. Morì a Toledo all’età di 50 anni, nel 1529,
onorato sia dall’Imperatore che dal Pontefice. È evidente dalla vita di Castiglione quanto della sua
esperienza abbia contribuito alla costruzione del modello di cortigiano, nonostante egli neghi nella
dedicatoria un rispecchiamento diretto: dalla nascita nobile alla formazione umanistica, dall’abilità nelle
armi alla grazia che gli conquista il favore dei principi, dagli incarichi militari all’attività diplomatica e
politica nelle corti italiane e straniere (Milano, Mantova, Urbino, Roma, Londra, Madrid) dove frequentò
un ambiente colto e internazionale, stimato anche come letterato e intenditore di lettere e arte. Godette
della fiducia dei suoi principi, e forse si ammalò quando credette di averla persa. La stessa decisione di
dare alle stampe la sua opera nell’aprile del 1527. al di là del pericolo contingente di furto e
manipolazioni, può testimoniare anche la volontà di presentare e difendere, attraverso il modello ideale, la
propria stessa immagine di cortigiano in un momento di difficoltà, quale quello dei difficili rapporti di
Carlo V, presso cui era nunzio apostolico, e del papa Clemente VII, che subirà poco dopo il sacco di
Roma. Come la Colonna e Bembo anche Quondam rileva la vicinanza di Castiglione al suo modello tanto
da affermare che «il testimonial più autorevole della nuova forma del moderno gentiluomo è proprio
l’autore del Libro del Cortegiano, il conte Baldassar Castiglione, indicato col suo titolo nobiliare sin dal
frontespizio della princeps, e celebrato nell’epigrafe di Bembo come prototipo del cavaliere, che non solo
ha fatto alta prova della sua “virtù militare” e delle sue capacità politiche e diplomatiche (prima al
servizio dei signori di Urbino e di Mantova alle corti d’Inghilterra e di Roma, poi al servizio del sovrano
pontefice Clemente VII, presso l’imperatore Carlo V), ma soprattutto ha dimostrato di essere «plurimis
bonis artibus ornatus», cioè di avere conquistato il «supremo ornamento» delle lettere, sia latine e greche
che volgari» (A. Quondam, «Questo povero Cortegiano», cit., pp. 318-319).
84
Le citazioni, relative alla vita di Castiglione, che non hanno riferimenti diversi sono tratte da
Pierantonio Serassi, Vita del conte Baldessar Castiglione, allegata all’edizione del Libro del Cortegiano,
Comino, Padova 1766.
85
Castiglione sposa Ippolita nel 1516, dopo che è sfumata l’ipotesi di un suo matrimonio con una
figlia di Piero de’Medici, che gli ha preferito un partito migliore. La giovine moglie gli morrà pochi anni
dopo, di parto della sua terzogenita.
86
L’accoglienza di Castiglione alla corte di Urbino è ottima e ottima l’impressione che Castiglione
ne riceve e che avrà modo di comprovare al punto da decidere di farne nel Cortegiano il modello della
corte ideale. Lo affascinano in particolare la Duchessa ed Emilia Pio che saranno poi nell’opera le
lodatissime promotrici dei ragionamenti dei cortigiani. Quell’incontro ci è così riferito da Serassi: «A’ 6.
di settembre il Castiglione giunse per la prima volta a Urbino, ove è difficile il descrivere le accoglienze,
che gli furon fatte dalla Duchessa Lisabetta sua parente, e da Madama Emilia Pia, le quali erano già
consapevoli delle nobili qualità di Baldessare, e della sua molta letteratura. Egli ancora restò sì fattamente
preso dalla beltà, dalla virtù, e gentilezza singolare di quelle due principesse; che in tutto il tempo di sua
vita non rifinò mai di amarle, di onorarle, e di renderle coll’aurea sua penna immortali». (P. Serassi, Vita
del conte Baldessar Castiglione, cit., p. XI)
58
Emilia Pio vi giocano un ruolo importantissimo, proprio perché il Cortegiano vuole
essere una “pittura” della corte di Urbino. Il rapporto difficile con la Colonna, a sua
volta, è testimoniato sia nella dedicatoria dell’opera, che nell’epistolario, e non sembra
trovare proiezione nel modello femminile del Cortegiano: troppo colta, la Colonna, per
essere una dama di palazzo di piacevole compagnia, troppo ambiziosa e potente per
essere in tutto affidabile. Il prototipo sia della madre sia dell’amata che si coniuga
armoniosamente nella figura della duchessa, nell’immagine della Colonna si deforma
per la presupposizione di un tradimento su cui avremo modo di ritornare.
8.2. La madre riverita: amministratrice e mediatrice.
Il ritratto della madre di Castiglione ci giunge indiretto, attraverso il frequente
carteggio motivato da devozione filiale e da interessi pratici: il nostro “cortigiano”, nelle
molteplici funzioni di comandante militare, diplomatico, letterato e intrattenitore nella
corte, si rivolge frequentemente a lei, per informarla dei dettagli del suo servizio
cortigiano, chiedendole anche atti di mediazione e aiuti pratici (compreso inoltre l’invio
di denari, per sostenere le spese che il decoro della mondana vita di corte comporta).87
La madre è la nobildonna che amministra la casa, i beni della famiglia
Castiglione in sua assenza, e riveste il ruolo tradizionale di curatrice della famiglia e dei
beni della famiglia. Con lei c’è un po’ il rapporto che si ha con un amministratore, e una
complicità filiale rispettosa, ma sufficientemente distanziata, diciamo, asciutta nei toni,
come era costume all’epoca. La madre si presenta come una mediatrice, pratica forse
piuttosto che sentimentale, ma certamente è un’ancora di sicurezza per Castiglione.
L’affetto per la madre si coglie più nelle forme indirette del carteggio costante e
dell’informazione di tutto ciò che concerne Castiglione, il quale, da figlio oggetto di
attenzione e protezione, informa costantemente la madre su salute, bisogni, esperienze,
interessi, e si affida a lei anche per il matrimonio, che in espressioni di preoccupazione
87
Citiamo a mo’ di esempio la lettera da Cesena del 7 luglio 1504, dove Castiglione informa la
madre dei suoi spostamenti, della grazia del duca, di un incidente al piede, mentre le chiede alcuni servizi,
con particolare attenzione all’eleganza dell’abbigliamento: «Se prima havessi hauto messo, prima harei
scritto a la M. Vostra perché sono certo che la desidera sapere di me. Cussì gli facio intendere come zobia
passata, che fu a quatro del presente, gionsi qui a Cesena a disnare: sano, per la Dio gratia, e basai la
mano del Sig.r Duca, el qual mi fece molte e molte carecie, e trovai M. Cesare e ’l Co. Ludovico
sanissimi e di bona voglia. La sera, andando al mio alogiamento, me interviene un poco de sinistro: che la
mula mia per desgratia mi cadde adosso, in modo che mi mossi un poco un pede. Ma non è stato tropo
gran male, che è stato raconcio diligentemente. E cussì per mia disgratia sono restato in letto, e adesso in
letto scrivo. Di questo la M.V. intenderà diffusamente da Benedetto, portator di questa, come per la Dio
gratia non ho più male. Di novo qui non havemo niente, se non che speramo presto haver la Rocca de
Furlì. E perché presto fa< r>imo la mostra, io vorei pur fini<re> qu<ell>e poche cosette che mi mancano.
Per tanto vorei che la M. Vostra facesse sollicitare maestro Bernardino armarolo, per quella mia celata, e
non havendo lui hauto veluto per fornirla, prego quella che voglia sub<ito> fargelo dare, e s<i>a negro.
E perché ‘l mi è forza anchor havere una lanza: (maestro Raphaello depintore ha la mia bella ne le mani)
prego la M. vostra che voglia fare che subito el la dora. Vorei che la fosse tutta dorata e brunita, cussì,
senza divisa alcuna: poi al fondo, e cussì appresso el ferro, che la avesse de la franza de seda, bella come
paresse a la M.ª V.». E, sempre vertenti sulle ristrettezze finanziarie, la lettera da Forlì del 24 agosto 1504
in cui rivolge alla madre la richiesta di effettuare un pagamento già ritardato, e la lettera da Roma del 30
novembre 1520, in cui le chiede l’invio di una somma e si preoccupa del pagamento dei creditori. Ma
anche lettere che testimoniano gli impegni politico-militari (quella da Urbino, dell’aprile 1508,
sull’incarico di controllare la città di Gubbio) o il riconoscimento di capacità diplomatiche (quella da
Roma del 3 marzo 1505, sull’eventualità di un suo invio come ambasciatore del duca in Ighilterra). O
lettere di richiesta di mediazione nei rapporti interpersonali (quella da Roma del 28 dicembre 1520, di
richiesta di sollecitazione all’amico Alfonso Ariosto per la restituzione del manoscritto del Cortegiano) e
di cura non solo dei beni della famiglia, ma anche della famiglia stessa, in particolare della moglie e dei
figli.
59
per lo stato di salute o le condizioni di vita della madre.88 Ma la tenerezza filiale
emerge più propriamente, e sempre in modo indiretto (enfatizzata dalla paternità
solitaria per la prematura vedovanza), laddove Castiglione si preoccupa che la madrenonna accudisca e baci i suoi figli appena divenuti orfani della mamma. Così infatti
Castiglione si accomiata dalla madre nella lettera da Roma del 30 novembre 1520:
«Altro non mi occorre a dire, se non che a Vostra Signoria mi racomando, et a tutti li
nostri, e baso li nostri puttini»; e nella lettera da Roma del 12 dicembre 1520 «Piacemi
che Camillo stia bene, e sforzaromi menarli un cavallino. Vostra Signoria lo faccia pur
assuefare andar a scola, e lo basi per me, insieme con le puttine». Una dimensione di
vita femminile, quella della madre e della nonna, di cui non si fa sostanzialmente parola
in relazione alla donna di palazzo, la cui educazione e funzione si incentra tutta sulle
relazioni mondane di corte. Semmai lì la funzione materna si trasfigura in atti surrogati
di protezione e benevolenza da parte della duchessa e di Emilia Pio o si simbolizza in
forme di mediazione socioculturale.
Il rapporto con la madre ci appare sostanzialmente equilibrato e sereno. A nostro
parere, l’equilibrio che permea l’attività come l’ideologia di Castiglione non è forse solo
il frutto dell’educazione nobiliare ed umanistica, ma nasce in questo corretto rapporto
con la madre, in cui dimostra fiducia, cui si relaziona con sincerità, aprendo il proprio
cuore, e che è per lui un costante referente, un termine importante di comunicazione,
confronto e conforto. E, non dimentichiamolo, di figura femminile si tratta.
8.3. La moglie amata.
Una breve e intensa esperienza di amore all’interno di un matrimonio convenzionale.
Che Castiglione nel Cortegiano sostenga la coniugabilità di amore cortese e
matrimonio, non sorprende, se si pensa alla sua esperienza di amore coniugale, fatta di
passione e insieme di tenerezza paterna, in un rapporto di coppia che prelude nei fatti,
88
Josè Guidi evidenzia la devozione filiale di Castiglione nella fitta corrispondenza con la madre,
in particolare negli anni in cui la vendetta del marchese di Mantova gli impedirà di fare ritorno nelle sue
terre. La madre espleta la funzione di amministratrice dei beni della famiglia, una funzione enfatizzata
dalla vedovanza, da una parte, e dalla lontananza del figlio maggiore, dall’altra, nonché di mediatrice
presso il Gonzaga per le sue relazioni di parentela, e di guida nella gestione delle ipotesi matrimoniali
secondo le convenzioni dell’epoca. «Mais au-delà de ce lien affectif particulièrement puissant [...] on
voit aussi se dessiner, en la personne d’Aloysa Gonzaga, un tout autre personnage: celui de la femme de
tête, de l’intendante avisée, sur laquelle retombe, du fait de son veuvage, et de la proscription qui frappe
son fils aîné, la lourde charge de la gestion du patrimoine familial. [...] Passée sous silence dans le traité,
où il n’est que fort peu question des vertus domestiques, pareille dimension- qui faisait au demeurant
partie, à l’époque féodale, des attributions traditionellement dévolues à la femme aristocratique- est sans
cesse présente dans la correspondance. D’autant qu’Aloysa Gonzaga doit faire face à tout moment aux
continuelles requêtes d’argent de ce fils aîné sans cesse confronté à des graves problèmes financiers».
«Il n’est pas surprenant que [...] il s’en tienne à une conception matrimoniale essentiellement utilitaire, et
en tout point conforme, au demeurant, au bon usage de sa caste, et de son temps. Ce constant souci de ne
rien précipiter, et de ne prendre de décision qu’en toute connaissance de cause et après en avoir
longuement délibéré, est particulièrement sensible dans sa correspondance avec sa mère, qui nous permet
de suivre dans le détail des tractations nuptiales destinées à se prolonger pendant plus de dix années. Le
mariage, dans le liens duquel il n’est guère pressé au demeurant de s’engager, n’est en aucun cas pour lui
affaire de sentiment, mais de calcul avisé. Rien ne peut, de toute manière, être décidé sans l’approbation
de sa mère, sinon même du conseil de famille convoqué à cet effet; et compte tenu de ses liens avec la
famille régnante de Mantoue, ainsi que des fonctions qu’il occupe à la cour d’Urbin, rien ne se fait non
plus sans l’aval de ces souverains qui ont aussi droit de regard dans ce domaine». (José Guidi, De
l’amour courtois à l’amour sacré: La condition de la femme dans l’oeuvre de B. Castiglione, cit., pp. 980, p.13 e p.16)
60
almeno parzialmente, alle teorizzazioni di Piccolomini sul marito con funzione di guida
autorevole, ma disponibile e affabile nei confronti della moglie, pur con quella misura
che gli consenta di non mettere a repentaglio la sua autorità. Ne è una prova la lettera
datata Roma, 28 giugno 1519, in cui Castiglione, se da una parte si mostra desideroso di
compiacere la moglie dandole il consenso al viaggio a Modena, e quindi utilizzando la
sua autorità di marito in una forma illuminata e tollerante, dall’altra ribadisce la priorità
della famiglia acquisita con un richiamo che sta a mezzo tra la richiesta di memoria
d’amore e quella di memoria d’onore.
Relegendo le vostre littere, ho trovata quella parte ove me dite che voressive andare a Modena a
stare qualche dì, e benché io mi racordo havere resposto sopra di questo a Ma. nostra Matre, non mi
racordo haver scritto a voi. Però vi dico ch’io sono contento che andate ove vi piace, ma che abbiate
bona compagnia, e con patto che non vi lassate tanto trasportare da li piaceri de la vostra Anna che
non teniate memoria de noi altri: che a dire el vero non serebbe honesto.[...] A voi mi racomando
quanto più posso. Amatime.
El vostro Consorte che vi ama e più.
Le convenzioni sono rivitalizzate da un sentimento profondo e sincero, ma non
sono modificate. Il marito, per le questioni relative alla famiglia e alla stessa coniuge, si
confronta con l’autorevole madre prima che con la moglie, e richiama quest’ultima,
seppur con delicatezza scherzosa, all’onestà nei sentimenti come nei comportamenti.
Nella lettera datata Roma, 31 Agosto 1519, è un Castiglione innamorato quello che si
giustifica per l’indugio nello scrivere alla moglie, accusandola a sua volta di un
comportamento simile. La schermaglia amorosa procede con l’appello a un mediatore
che renda testimonianza all’altro del profondo amore nutrito per il coniuge, per giungere
poi ad un’offerta concreta di trasferimento a Roma, non però eccessivamente
caldeggiata e ben presto elusa dalla rêverie sulla prossima visita a casa di Castiglione,
una fantasticheria in cui la sensualità evocata dal ritrovare la moglie nel letto si contiene
comunque nelle forme del dialogo e del sogno, in linea col pudore e la reticenza che
trattiene Castiglione da qualsiasi riferimento esplicito a questo. La sua ritualizzazione
del corpo finirà infatti col reprimere e nascondere molti aspetti della sua natura.
Se voi stesti, consorte mia cara, dieceotto giorni che non havestive mie littere: io in quel tempo
non steti mai quattro hore che non pensasse di voi. Dippoi so pur che havete hauto spesso mie littere,
che ho riffatto li danni: ma voi non fate già così, che non me scrivete se non quando non sapete che
far altro. Vero è che questa ultima vostra littera è assai ben lunga, lodato sia Dio, ma ve rimettete
ch’io mi faccia dire al Co. Ludovico quanto voi mi amate. Serebbe bono ch’io volesse che voi anchor
vi facesti dire al Papa quanto io amo voi: che certo tutta Roma lo sa, di sorte che ognuno mi dice
ch’io sto disperato e di mala voglia, perché non sono con voi; et io non ge lo niego, ma vorrebbono
ch’io mandassi a Mantua a torvi, e condurvi qui a Roma. Pensate voi se gli volete venire, et
avisatimelo. Avisatime senza burla se volete ch’io vi porti qualche cosa che vi piaccia; non restarò
già io di portarvi. Ma harei caro di sapere quello che vi piace, perch’io serò lì una mattina, che non ve
ne acorgerete, e troveròvi in letto: e voi mi vorrete poi dare ad intendere che la notte vi serete sognata
di me, ma non serà vero niente. Io non posso per anchor dirvi el dì della mia partita, ma spero che ‘l
serà presto. Fra tanto racordative di me, et amatime, ch’io di voi sempre mi racordo e vi amo
assaissimo, e più che non dico, e me vi racordo con tutto el core.
El vostro Consorte più che suo.
Ma nella lettera si respira comunque un’atmosfera d’amore sincera, e non ancora
eccessivamente ritualizzata e letterarizzata. A dire il vero Castiglione non ha mancato di
dare una veste letteraria anche alla moglie secondo il modello virtuoso della moglie
innamorata e fedele, nell’Elegia qua fingit Hippolyten suam ad se ipsum scribentem, in
61
cui immagina che essa, lontana dal marito, pronunci insieme al figlio, il piccolo
Camillo, davanti all’immagine del padre dipinta da Raffaello, parole d’amore e di pena
per questa separazione,89 parole confermate di fatto da Ippolita in una lettera scritta al
marito in occasione della morte del pittore.
Lo Scarpati si interroga intorno alla possibilità che questa esperienza felice di
matrimonio, negli anni della seconda redazione del Cortegiano, abbia influito nella sua
rivalorizzazione della donna e noi incliniamo a confermare la sua ipotesi, sottolineando
però anche l’importanza avutavi dalla madre, dalla duchessa specialmente, da Emilia
Pio e da altre nobildonne.
I fili che legano la realtà biografica con un’opera letteraria non sono mai diretti e rettilinei, come
un secolo fa si pensava; ma l’interpretazione del terzo libro del Cortegiano non può essere intrapresa
senza ricordare che l’autore era passato attraverso l’esperienza di un matrimonio felice. Colui che
pone fine nel 1524 al manoscritto ora Laurenziano del trattato è uomo che ha alle spalle una vicenda
di eventi amari e luminosi, che è diplomatico e uomo di cultura ed ora uomo di chiesa, ma è anche,
tra i tanti aristocratici celibi o celibatari che lo circondano nel palazzo di Urbino, l’unico che
accettasse e vivesse brevemente, proprio negli anni cruciali della seconda redazione dell’opera,
nell’istituzione matrimoniale accanto a una donna giovane e nobile. Non potrà risalire anche a questa
sorgente l’impegno risoluto che percorre il terzo libro del Cortegiano di riscattare l’immagine della
donna dalla damnatio che l’accompagna in una larga sezione della pubblicistica ecclesiastica e laica,
dal Corbaccio al De Amore dell’Alberti? 90
8.4. La Duchessa Elisabetta Gonzaga ed Emilia Pio: oggetto di devozione tra
cortese e cortigiana.
Se nelle lettere scritte alla moglie, improntate da affetto sincero, e prive di
sbavature, insomma di una straordinaria serietà, pur nell’intenso coinvolgimento
emotivo, il codice dell’amore cortese s’innesta su un sentimento profondo e
istituzionalizzato, esce dall’ambiente di corte per vivere all’interno della casa-famiglia,
s’invera e si depriva di tutto un’armamentario convenzionale, connotandosi in modo
sostanzialmente più classico che cortese, esso si conserva invece pienamente, con le sue
ibridazioni petrarchesche, nei sonetti e nelle canzoni d’amore91 e nello stesso Tirsi, sia
per la destinataria, socialmente superiore e inattingibile, sia per la differenza di genere:
se le lettere infatti rispondono a un intento di diretta e pratica comunicazione, il
canzoniere d’amore e l’ecloga pastorale comportano necessariamente una
trasfigurazione secondo la convenzione letteraria.
89
Nell’elegia Castiglione immagina che la moglie lo inviti a pregare il papa perché conceda a lui il
ritorno a Mantova o permetta a lei di abitare a Roma, e si presenti come una nave senza pilota in un mare
tempestoso, priva di guida e protezione, e desiderosa di vivergli accanto e morire con lui. «Tu modo et
illius numen veneratus adora,/ pronaque sacratis oscula da pedibus/ Cumque tua attuleris supplex vota,
adice nostra, / atque meo largas nomine funde preces./ Aut iubeat te iam properare ad moenia Mantus,
aut me Romanas tecum habitare domos. / Namque ego sum sine te veluti spoliata magistro/ cymba,
procellosi quam rapit unda maris./ Et data cum tibi sim utroque orba puella parente, / solus tu mihi vir,
solus uterque parens./ Nunc nimis ingrata est vita haec mihi, namque ego tantum/ tecum vivere amem,
tecum obeamque libens». L’anafora del tecum e del solus vi scandisce un affetto che Castiglione presenta
come totalizzante ed esclusivo in una finzione letteraria convenzionale cui tuttavia la moglie si offre
come modello esemplare.
90
Claudio Scarpati, Osservazioni sul terzo libro del «Cortegiano», in «Aevum», 3, 1992, p. 520.
91
L’identificazione di un libro di rime per Elisabetta, proposta da A. Beffa Negrini, Elogi historici
di alcuni personaggi della famiglia Castiglione, Mantova, F. Osanna, 1606, p. 415, è stata confermata da
V. Cian , Nel mondo di Baldassarre Castiglione, ASL,n.s.,7 (1942), pp.20-21, e ID., Un illustre nunzio ,
pp. 52-57. Ne fanno parte quattro sonetti (Se al veder nel mio volto or fiamma ardente; Quando fia mai
ch’io vi riveggia o oda; Molti gravi sospiri in debil core; Amor, s’altro non son ch’esser mi soglio) e due
canzoni (Mentre fu nel mio cor nascosto il foco; Amor, poiché ‘l pensier per cui sovente).
62
Sebbene l’immagine letteraria della Duchessa e di Emilia Pio sia la prevalente,
conviene comunque premettere a una breve disamina delle opere minori citate e al più
dettagliato esame che faremo nel percorso sul Cortegiano, un veloce excursus su alcune
lettere, in cui già emergono, in forma diretta e autentica, da un lato la stima e la
benevolenza, la grazia di cui Castiglione gode da parte della Signora Duchessa e di
Emilia Pio, dall’altro la sua vera e propria devozione nei loro confronti. Castiglione
malato ha ricevuto attenzioni più che materne e fraterne dalla Duchessa e da Emilia Pio,
per cui chiede alla madre di ringraziarle infinitamente,
Parrebbemi conveniente che la Magnificenza V. rendesse infinite grazie alla Sig. Duchessa delle
infinite dimostrazioni, che S. Ecc. nella mia malattia ha fatte, che certo sono state assai; e ‘l
medesimo alla Signora Emilia; che s’io le fossi stato figliuolo o fratello, non haria potuto farne tante:
che li voti fatti per me non saranno satisfatti di quì a parecchi dì. (Lettera alla madre del 19 novembre
1509)
E riceve dimostrazioni continue di benevolenza che ritiene superiori ai suoi
meriti, facendo professione di modestia quale si conviene a un «cortigiano»:
La S. ra Duchessa mi ha fatto e fa continue molte carezze,92 più ch’io non merto (Lettera alla
madre, datata Urbino, 26 ottobre 1504)
Si impegna per ottemperare al meglio alle richieste della Duchessa (lettera da
Roma del 24 luglio 1519 e del 17 agosto 1519) ed è pronto a servire umilmente in suo
nome gli stessi che la servono (lettera da Roma del 15 gennaio 1521).
E alla sua mediazione, saggezza e benevolenza fa appello, palesandole
apertamente le proprie difficoltà:
Ho voluto che V. Ex.tia lo sappia, perché col suo prudentissimo iudicio la consideri se ben fosse
far più una cosa che l’altra, con lo Ill.mo S.r D.ca suo fratello. (2 settembre 1519).
Delle speranze di qua io le ho tanto tenue e senza spirito che non potrebbono esser più. Sto tutto
pieno di fastidio, perché mi pare portare grandissima fatica e travaglio, e parmi in<darn>o, che se
pur servissi, non mi dolería. Suplico V. Ex.tia che mi comandi lei qualche cosa ch’io habbia a far
qui, o mi comandi che mi parta de qui. Ritrovomi anchor senza denari, però la suplico a comettere
ciò che gli piace. A quella baso le mani, et in bona gratia mi racomando (lettera da Roma del 12
agosto 1519)
Con la Duchessa dunque, già tratteggiata secondo un positivo modello
femminile che ha radici anche nel culto mariano, Castiglione intrattiene un rapporto di
servizio in cui la distanza istituzionale è temperata da uno stato di grazia che dà adito
anche a forme di familiarità, sempre comunque contenute nei termini del rispetto e
92
Anche se l’espressione «acareciare» «fare carezze» non ci deve trarre in inganno perché
utilizzata in generale per indicare un rapporto cortese, di stima e benevolenza, diciamo di grazia, ricevuta
sia da diverse donne illustri, che da uomini illustri, e quindi il diffuso stato di grazia di cui Castiglione
gode, questo non toglie nulla alla particolare benevolenza e interessamento mostratigli dalla Duchessa.
A riprova dell’uso diffuso dell’espressione menzionata la citiamo nelle seguenti lettere: Urbino, 1
Novembre 1504, «La S.ra Duchessa e M.a Emilia se racomandano a la M.V. e stanno benissimo: e M.a
Zenevra, la quale ogni dì mi fa mille carezze»; Ferrara, 17 novembre 1504. «Io son stato qui ad udir la
Matre Sor Laura per parte de la S.ra Duchessa mia: la quale me ha acarezato assai, et a la M.V. infinite
volte se racomanda»; Ferrara, 9 dicembre 1504, «Io mi parto assai accarezzato da questi Ill.mi: dal R.mo
mio non dico, ma anchor da tutti gli altri, e maxime da la Ill.ma S.ra che mi ha onorato et acareciato
assaissimo, più che non merito. El medesmo tutte queste altre donne, e cortegiane e non cortegiane».
63
avvalorate da una disposizione sentimentale che troverà modo di legittimarsi
dissimulandosi nelle forme letterarie del canzoniere e dell’encomio cortigiano attraverso
l’ecloga pastorale e il dialogo. Il rapporto di subordinazione cortigiana, cui la tradizione
cortese presta supporto, si avverte comunque in tutte le modalità ed espressioni con cui
Castiglione si rivolge a o accenna o apertamente parla della Duchessa, mentre la
gerarchia si capovolge nel rapporto con la moglie, per quanto la superiore autorità del
marito non degeneri in autoritarismo, sia per la condizione di innamorato sia per
l’innato civismo.
Così dunque nelle canzoni e nei sonetti ispirati dall’affetto e dalla devozione per
la Duchessa Elisabetta Gonzaga, ed esemplati sul modello petrarchesco, ci sembrano
indicativi alcuni versi della canzone, Amor, poiché ‘l pensier per cui sovente, in cui la
freddezza di «madonna» dopo lo svelamento dell’amore, denunciata secondo le
convenzioni letterarie come crudeltà, potrebbe invece adombrare le costrizioni sociali, il
pudore di una donna sposata e gerarchicamente superiore, del resto a più riprese ribadito
per la duchessa nel Cortegiano,
Mentre fu nel mio cor nascosto il foco,
e gli accesi desiri
fûr insieme co’ miei dolci sospiri
chiusi del petto in più secreto loco,
vidi più volte di madonna il volto
di pietade coverto non che tinto,
sicché di tal mercé contento giva.
Poiché palese il mio martir dipinto
le fu, negli occhi e nella fronte accolto,
per testimon della mia fiamma viva,
la vidi del mio ben sempre più schiva
e vaga del mio male:
così, crudel amor, m’hai giunto a tale,
ch’io corro a morte, ed ella il cura poco. (II, vv. 1-14)
o nel sonetto Amor s’altri non son ch’esser mi soglia l’attenzione alla sola bella mano,
di ascendenza petrarchesca, può anche suggerire una dipendenza da convenzioni sociali
e da ruoli istituzionali,
Amor, s’altro non son ch’esser mi soglia,
come saprò con atto umile e piano
chieder mercede all’onorata mano,
che solo a sè bramar sempre m’invoglia
[...]
deh, perché almen non fai fede a costei
del gran piacer, che in me sì spesso nasce,
sol dalla bella man che’l cor mi lega?
Nell’un caso e nell’altro comunque il modello petrarchesco offre la possibilità di un
gioco in cui il mascheramento può convivere con lo svelamento consentendo una tutela
istituzionale a un’eventuale autenticità trasgressiva.
Nel Tirsi il rapporto amoroso si mimetizza nell’encomio cortigiano e la
celebrazione della duchessa si accompagna a quella di tutta la corte. Questa ecloga
pastorale, composta nel 1506, e recitata insieme a Cesare Gonzaga in occasione del
Carnevale, riflette di fatto la situazione della corte di Urbino nel periodo in cui
Castiglione situa i ragionamenti del Cortegiano e costituisce un preludio al dialogo
nella idealizzazione dei principi, delle dame di palazzo e dei cortigiani. La corte che nel
64
dialogo verrà proposta come scena reale (sebbene comunque idealizzata), qui viene
presentata nella trasfigurazione pastorale, con connotati e accenti di gratitudine
comunque simili. Tale convenzione letteraria, anche se proprio di arte si tratta, favorisce
quel raccordo con la natura che si pretende per un mondo in cui la cultura delle forme
chiede di essere identificata come seconda natura. Si tratta insomma di una seconda
natura che si traveste da prima. Il dotto si fa pastore, l’artificio naturalezza, la
complessità semplicità, in un’autorappresentazione sublimante che vuole fare della
corte un istituto al contempo civile ed edenico, ossia naturalmente perfetto, perfetto per
natura e quindi sottratto alla contingenza del tempo e dell’ideologia.
La Duchessa e le dame di palazzo vengono presentate rispettivamente come la
dea e le ninfe che vivono in modo naturale in un ambiente naturale. La regalità vi è
contraddistinta non da ornamenti preziosi, ma da una sorta di simbiosi con la natura, e
da un candore, al contempo segno di bellezza esteriore ed interiore.
Ché spesso intorno al vago e bel Metauro
va questa dea con le sue ninfe errando,
leggiadre sì, che dal mar indo al mauro
non è chi possa gir lor pareggiando;
non ornate di gemme, d’ostro o d’auro,
ché tai pompe da lor son poste in bando:
candide tutte, e sol per ornamento
portan ghirlande e dan le trecce al vento. (XXXIV)
Tra le ninfe si distingue una «dolce e pia», Emilia Pio per l’appunto, che
accompagna sempre la duchessa-dea e seduce e domina sol col «dolce parlar», ovvero
con l’affabilità del conversare, prefigurando il ruolo che avrà poi nel Cortegiano.
Una fra tutte lor v’è dolce e pia,
ch’accanto della dea sempre si vede:
questa non porta mai seco arme in caccia,
sol col dolce parlar le fiere allaccia. (XXXV vv. 5-8)
La Duchessa è una dea portatrice di fecondità, vita, serenità, gioia. È fidata,
assennata, prudente, benevola, onorata, «pura e candida colomba», umile, allo stesso
modo che nel Cortegiano apparirà casta, assennata, prudente, equilibrata, benevola,
capace di suscitare amore in tutta la corte, schiva delle lodi, e naturalmente
famosissima.
Fra così dolce ed amoroso coro
Stassi la dea che tutte l’altre avanza.
Florido fa il terren, dov’ella il tocchi,
e tien sereno il ciel sol co’ begli occhi.(XXXVI, vv.5-8)
Par che la terra e il fiume e il bosco rida,
ove il suo santo piede il passo piglia,
e l’aria intorno il suo bel nome grida,
ov’ella volge l’onorate ciglia.
A questa ognuno i suoi pensier affida
E sempre ha ben chi seco si consiglia:
tanto è prudente ed ha in sé tanto amore,
portando sempre in fronte il sacro onore.(XXXVII)
Le lode di costei son tanto chiare,
che lor uopo non è di roca tromba,
né bastante son io la fama alzare
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di questa pura e candida colomba.
Così son l’opre sue divine e rare,
che i boschi il sanno e l’aria ne rimbomba.
Né sol coi modi suoi gli uomini paca,
ché ancor le fiere orrende amica e placa.(XXXVIII)
[...]
Fra questa lieta ed onorata gente
vive la dea che tu cercando vai,
e, se non ch’ella il vieta e nol consente,
gli onor divini aría dal mondo ormai.(XXXXVI vv.1-4)
La lode, se ricalca testi classici, ad esempio l’inno a Venere di Lucrezio laddove
si celebra la dea come portatrice di fecondità, serenità e gioia, vi aggiunge anche valori
morali, quali quello dell’assennatezza, della benevolenza, dell’umiltà e dell’onore che
veicolano il testo attraverso la tradizione cristiana verso gli obblighi socioculturali del
tempo dello scrittore.
Intorno alla dea-duchessa prende vita tutta la corte: non solo le dame di palazzo,
ma anche lo stesso duca Guidubaldo, in un ruolo quasi secondario rispetto al suo, vuoi
per le imposizioni del genere pastorale, vuoi per il ruolo esercitato dalla duchessa nelle
riunioni serali: «un buon pastore, il qual governa/ i campi e le contrade sante» ( L vv.78), la cui fama è altissima, e tuttavia inferiore al vero, «dotto», «saggio», «clemente ove
si puote e giusto a’ rei, / splendido, e il nostro ben procura e vuole.» (LI vv.3-4). E
naturalmente tutti i cortigiani, in primis Castiglione stesso nelle vesti del pastore Tirsi,
che, giunto di lontano per conoscere «la dea che tanto oggi si noma» (XX v.6) e
condotto lì, nel luogo più prestigioso per la musica e il canto («sol qui la zampogna/
tiene il suo vero ed onorato nido» XXII vv. 3-4), da una fama inferiore alla verità («La
fama di lontan così mi accese » XXI v. 1; «E tu ben mostro m’hai senza menzogna, /
l’effetto assai maggior che non è il grido» XXII vv. 5-6), ringrazia il dio Pan per il
godimento che ne prova («ché d’esser giunto qui troppo ne godo» XX, v. 8). Il pastore,
ovvero l’aspirante cortigiano sarà presentato alla dea-duchessa da un cortigiano, nelle
vesti del pastore Dameta, già introdotto nella corte e fiero del proprio ruolo, ossia del
pregio del servire: «E tu, Dameta mio, che degne imprese/ fai sempre, e tai pastori onori
ed ami,/ a Tirsi ben sarai fido compagno, / che sai come il servire è gran guadagno»
(XXXI vv.5-8). Come Tirsi sono presenti alla corte pastori-cortigiani provenienti da
quei luoghi, ma anche da lontano: uno dal «seno d’Adria, [...] tra tutti gli altri assai
famoso e degno», Bembo, di cui si cita la canzone dedicata alla duchessa, Alma cortese;
un altro dal Mincio, Ludovico da Canossa, di cui si menziona l’incipit di un capitolo,
Dolce e amaro destin, che mi sospinse; uno dall’Etruria, il Magnifico Giuliano de’
Medici, di cui si cita il sonetto, Se fusse il passo mio così veloce. Presso di lei si trovano
inoltre un «pastore antico» e saggio, il cortigiano anziano Morello da Ortona, e un
«giovinetto pastor», messer Roberto da Bari, di cui si menziona, Io son sforzato, amor,
a dir or cose/ a te di poco onore, a me noiose. La lode e la fama della Duchessa si
correlano dunque a quelle di tutta la corte, in un rapporto biunivoco in cui le une
generano le altre. Di qui la concezione del servizio cortigiano come di un onore, e la
rassegna degli amici cortigiani e della loro produzione letteraria.93
93
Per quanto riguarda la corte di Urbino giova ricordare la celebrazione che ne fecero anche Ficino
e Sadoleto e la «funzione Elisabetta» di cui parla Motta. Per Marsilio Ficino, nella Lettera Laudes seculi
nostri, si tratta quasi di una nuova età dell’oro, per la congiunzione di saggezza ed eloquenza, prudenza e
capacità militari, in alcuni ingegni come Federico da Montefeltro e il figlio Guidubaldo. Jacopo Sadoleto,
più tardi segretario dei brevi papali sotto Leone X, nel dialogo Hortensius celebra per parte sua la corte di
Urbino come onore d’Italia e sede delle Muse. C’è poi una ricca produzione poetica e prosastica in lode o
66
In conclusione ci sembra evidente che la duchessa abbia avuto un’influenza
importante nella formazione di Castiglione, orientandolo fortemente verso una
valorizzazione del genere femminile, anche se secondo la tradizione: la figura reale di
Elisabetta, per quanto trasfigurata dalla convenzione letteraria e cortigiana, ha offerto di
fatto concreti appigli per una connotazione altamente positiva, come accreditano le
testimonianze biografiche e autobiografiche affidate alle lettere. Non dimentichiamo tra
l’altro che la corte è insieme luogo di realizzazione e di formazione e che alla corte di
Urbino si è indubbiamente svolto per Castiglione un percorso di educazione
sentimentale, di iniziazione ai riti galanti della società aristocratica, come ci conferma
Guidi,94 sotto lo stimolo, la protezione e la guida, per l’appunto, della Signora
Duchessa.
8. 5. Una gentildonna di indubbia e dubbia stima: Vittoria Colonna.
Se la relazione con la Duchessa gioca tutta a favore del genere femminile, non
altrettanto si può dire per quella con Vittoria Colonna, gentildonna stimata per la cultura
e riverita anche per la potenza, ma colpevole nei confronti di Castiglione di slealtà.
È a tutti nota la vicenda della pubblicazione del Cortegiano, tra le cui ragioni
viene addotto anche il comportamento stesso della Colonna95 che ha favorito una
in dedica della signora duchessa e anche di Emilia Pio, che coinvolge a volte tutta la corte, secondo un
canone cortese-cortigiano, in cui si cimenta lo stesso Bembo e da cui Castiglione prende le mosse per
superarla nel suo Dialogo.
94
«En même temps que ces tractations matrimoniales, quoique se déroulant, idéalement, dans une
tout autre dimension, s’effectuait l’éducation sentimentale de Castiglione, sur laquelle sa production
poétique nous ouvre quelques aperçus probants. Un témoignage fort important est constitué par l’églogue
Thyrsis, qu’ il est de surcroît possible de dater avec précision. En ce protocole d’accueil et de
présentation, se déployant simultanément sur plusieurs plans, et qui finit par trouver, dans le culte rendu à
la déesse d’un univers pastoral soigneusement hiérarchisé, où la cour peut se voir en tout point réflétée, sa
dimension la plus achevée, il est aisé de déchiffrer tout un itinéraire qui prend valeur d’initiation à un
ensemble de rites galants dûment entérinés par les représentants d’une société éminemment
aristocratique». (José Guidi, De l’amour courtois à l’amour sacré, …cit., p.19)
95
Castiglione aveva inviato in visione alla Colonna il manoscritto del Cortegiano, secondo la
prassi consueta dei letterati umanisti di sottoporre al gruppo di sodales il testo inedito prima della stampa,
per trarne giudizi, suggerimenti, rilievi, censure. A Castiglione però capita di assistere poi alla riluttanza
nella restituzione da parte di diversi amici intellettuali cortigiani, compreso Alfonso Ariosto, che
incalzerà per ottenerla, chiedendo la mediazione della madre. Quondam annota le caratteristiche di questo
costume, il suo vincolo con le lunghe gestazioni testuali, il nome dei destinatari privilegiati del
manoscritto di Castiglione: «Il Libro del Cortegiano è atteso, in particolare, negli ambienti sia letterari
che cortigiani, anche perché da tempo tutti sanno che Castiglione sta scrivendo un’opera fortemente
innovativa, e molti cercano di leggerla in anteprima, in versioni ancora provvisorie e manoscritte,
incontrando talvolta la compiacente disponibilità dell’autore, sempre attento ai giudizi e ai consigli di
lettori autorevoli e riservati. Niente di eccezionale, in realtà, perché queste sono le pratiche di rapporto
interpersonale che connotano da sempre la sodalitas degli umanisti, anche di questa generazione che ha
subito l’impatto con il libro tipografico e continua a rivendicare il suo diritto a gestazioni testuali
lunghissime, a scambi di libri manoscritti per letture in anteprima, a raccolta di pareri e di censure. Solo
tra qualche anno la scrittura acquisterà consapevolezza competitiva nei confronti della velocità del libro a
stampa: ma sarà la stagione di Pietro Aretino e del trionfo editoriale della nuova letteratura volgare e dei
suoi nuovi titoli (e dei suoi nuovi lettori), che celebra il suo trionfo nella Libraria di Antonfrancesco Doni
(in prima edizione nel 1550). L’elenco di questi destinatari privilegiati di manoscritti, o variamente
coinvolti nella storia testuale del Cortegiano (comunque attestati dai documenti) è davvero cospicuo, per
quantità e qualità: Iacopo Sadoleto, Pietro Bembo, Ippolito d’Este, Alfonso Ariosto, Marco Antonio
Flaminio, Mario Equicola, Matteo Bandello, Vittoria Colonna, Giovanni Battista Ramusio, Ludovico
Canossa. Un gruppo di autorevoli protagonisti dell’esperienza culturale e della scena istituzionale e
politica di primo Cinquecento [...]» in Amedeo Quondam, «Questo povero Cortegiano». Castiglione, Il
Libro, la Storia, Bulzoni, Roma, 2000, p. 55.
67
circolazione rischiosa del manoscritto, ancora mancante della veste finale,96 con
pericolo di plagi, violazioni, pubblicazioni arbitrarie.97 Castiglione si lamenta
esplicitamente del tradimento della fiducia accordatale nella Dedicatoria, pur
temperando la critica con lodi.
Ritrovandomi adunque in Ispagna, ed essendo d’Italia avvisato, che la signora Vittoria dalla
Colonna, marchesa di Pescara, alla quale io già feci copia del libro, contra la promessa sua ne avea
fatto trascrivere una gran parte, non potei non sentirne qualche fastidio, dubitandomi di molti
inconvenienti, che in simili casi possono occorrere; nientedimeno mi confidai che l’ingegno e
prudenzia di quella Signora (la virtù della quale io sempre ho tenuto in venerazione come cosa
divina) bastasse a rimediare che pregiudicio alcuno non mi venisse dall’aver obedito a’ suoi
comandamenti. In ultimo seppi, che quella parte del libro si ritrovava in Napoli in mano di molti; e,
come sono gli omini sempre cupidi di novità, parea che quelli tali tentassero di farla imprimere.
Ond’io, spaventato da questo periculo, determinaimi di riveder subito nel libro quel poco che mi
comportava il tempo, con intenzione di publicarlo; estimando men male lassarlo veder poco castigato
per mia mano, che molto lacerato per man d’altri. (Dedicatoria)
Le attribuisce infatti ingegno, prudenza, virtù divina, cui afferma di essersi
sempre rapportato con un atteggiamento di «venerazione», in una relazione verticale,
connotata dal duplice rispetto e servizio gerarchico e di genere («obedito a’ suoi
comandamenti»), e rafforzata da un’evidente stima per le sue doti intellettuali.
Un’attenuazione di facciata che non convince Quondam,98 per il quale la brutta
immagine della Colonna nella Dedicatoria del Cortegiano costituisce quasi un venir
meno del gentiluomo Castiglione al codice cortese assegnato da lui stesso al cortigiano,
ma si giustifica in parte come occasione per parlare dell’iter di gestazione dell’opera e
della sua consegna alle stampe.99 Il che ci permette di ritrovare nella Colonna
l’immagine di una donna che, in quanto causa di irritazione e di pena, destabilizza quasi
l’uomo, lo allontana dai corretti comportamenti ed è tutt’altro che causa di benessere
per esso come si vuole invece per la perfetta dama di palazzo.
96
A questo proposito Quondam ipotizza che i timori di Castiglione fossero ulteriormente giustificati
dal fatto che la copia manoscritta data alla Colonna riportasse la seconda redazione, poi ampiamente
rivista nella terza: «Nel risentimento di Castiglione, che proprio nella dedica troverà la sua clamorosa,
pubblica, dichiarazione, non può non esserci qualcosa d’altro, e di urgente: gli inconvenienti, anzi il
periculo che la copia nelle mani di Vittoria Colonna avrebbe potuto produrre, autorizzano l’ipotesi che
questo manoscritto presentasse il vecchio Libro del Cortegiano, quello della sua seconda redazione, cioè
nella forma assunta dopo la revisione del 1520-21. Il periculo, insomma, è che potesse essere stampata
un’edizione di un libro che non esisteva ormai più, nelle intenzioni e nella fatica del suo autore» in
Amedeo Quondam, «Questo povero Cortegiano», cit., p. 71.
97
«Gli abusi e le violazioni della proprietà letteraria e le contraffazioni erano nel ‘500 assai più
frequenti e, per chi le commetteva, meno pericolose che ai nostri giorni, nonostante i molti decreti e i
privilegi del pontefice, dell’imperatore e delle repubbliche, quella di Venezia compresa. Anche il Tolomei
si lagnava della «ingordigia degli stampatori», perché essi, scriveva, «non prima s’allarga cosa alcuna o
bella o sozza ch’ella sia, allettati da ogni picciol guadagno, la pongono in istampa: onde spesso a i maestri
de l’opere, che non l’havevan forse né emendate né finite, segue danno e vergogna». E soggiungeva:
«Certamente è cosa malfatta e degna di essere corretta, che si stampino l’opere altrui senza il
consentimento, e spesso contro il voler di loro autori» (Lettere, ed. Vinegia, Giolito, 1551, c. 3r.)» in
Baldesar Castiglione, Il Cortegiano del conte Baldesar Castiglione annotato e illustrato da Vittorio Cian,
a cura di Vittorio Cian, , Firenze, Sansoni 1910, p. 2 Nota 25.
98
A. Quondam, «Questo povero Cortegiano», cit., pp. 72-73.
99
In effetti è ipotizzabile, tra le motivazioni non dette della pubblicazione, anche l’urgenza di
dimostrare attraverso l’opera la propria lealtà di cortigiano onesto nel momento di difficoltà nei rapporti
col papa Clemente VII. In questo caso la Colonna potrebbe, pur nella sua indubbia mancanza, divenire
una sorta di capro espiatorio-giustificatorio, il che non tornerebbe a lode di Castiglione.
68
Una reazione forse egualmente aspra, ma coperta e tutelata dal gioco di
simulazione consentito dalla figura dell’ironia, ci sembra rintracciabile nella lettera del
21 settembre 1527, in cui Castiglione, dopo aver lamentato il furto dell’opera e la sua
perdita di novità, e aver fatto anche professione di umiltà sul suo valore al punto da
ammettere di essere stato tentato di lasciare questo suo figliolo «come abortivo ]...]
nella strada a beneficio di natura» e da aver poi deciso di darla alle stampe per pressione
di altri, così conclude:
Ma se Vostra Signoria pensasse che questo havesse havuto forza de intepidire punto il desiderio
che io tengo di servirla, errarebbe di giudicio, cosa che forse in sua vita mai più non ha fatta. Anzi
restole io con maggior obligo, perché la necessità di farlo tosto imprimere mi ha levato fatica di
aggiongervi molte cose che io havevo già ordinate nell’animo, le quali non potevano essere se non di
poco momento come le altre, e così sarà diminuito fatica al lettore e all’autore biasimo. Siché né a
Vostra Signoria né a me accade ripentire né emendare, ma a me tocca basciarle le mani et in sua
grazia sempre raccomandarmi.
Se è vero che il guasto prodottosi nei rapporti con la Colonna non può, per
ragioni cronologiche, avere avuto effettiva influenza sulla considerazione della donna
all’interno del dialogo, è pur vero che tale immagine, all’interno della Dedicatoria,
contrasta moralmente e affettivamente con quella della Duchessa, e getta, nel preludio
dell’opera, un’ombra obliqua sul genere femminile, un’ombra che all’interno del
dialogo sarà presente in forme più sottese in ambiguità ideologiche che evidenzieremo.
Ma all’interno di questo contrastato rapporto ci preme evidenziare anche remore
legate allo statuto di donna intellettuale della Colonna.100 Una donna fortemente
acculturata, quasi in gara col genere maschile in questo ambito, punto di riferimento
critico per lo stesso Castiglione che le manda il manoscritto per riceverne pareri e avere
idea delle reazioni di un pubblico femminile, propone un modello di parità intellettuale
femminile che l’autore, forse anche inconsapevolmente, rifiuta, come si dimostra nel
Cortegiano, dove, al di là degli assunti teorici filogini, l’arte della dialettica e il sapere
alto restano una prerogativa tutta maschile, e per la dama di palazzo si richiede solo una
cultura molto più elementare, un «avere notizia di..» per potere di fatto permettere al
cortigiano un rispecchiamento narcisistico. L’intellettuale cortigiano chiede un
allargamento del pubblico anche al genere femminile, ma è restìo ad accettarlo nel ruolo
di produttore comprimario. Certo che la valutazione della Colonna sull’opera rivela una
sensibilità e uno spirito critico acuti:
[...] io non ho visto mai né credo vedere altra opera in prosa meglio o simile, né forse meritamente
seconda a questa, perché oltra el bellissimo soggetto et novo, la excellenzia del stile è tale che con una
suavità non mai sentita vi conduce in uno amenissimo et fruttifero colle, salendo sempre senza farve
accorger mai di non esser pur nel piano dove entrasti; et è la via sì ben culta et ornata, che
difficilmente può discernersi chi habbia più faticato in abbellirla, o la natura o l’arte. Lasciamo stare le
meravigliose arguzie, le profonde sentenzie, che ci rilucono non meno che gemme legate in sì poco
100
«Vittoria Colonna (1492-1547), figura ideale della perfetta gentildonna rinascimentale per
dignità di vita e di animo, celebratrice in vita e in morte del marito Ferrante d’Avalos, marchese di
Pescara; amata e cantata da Michelangelo; al centro di un circolo di nobili spiriti inclini, a un certo
momento, verso una riforma severa della fede, e vicina ai riformatori italiani, quali il Valdés, Bernardino
Ochino, il Carnesecchi, Renata di Francia; autrice di rime amorose e religiose, nelle quali alla nobiltà di
sentimento non corrisponde una rielaborazione personale dei moduli correnti», (Giuseppe Petronio,
L’attività letteraria in Italia, Firenze, Palumbo, 1982, p. 237). Con la Colonna, come rileva Cian,
«Castiglione ebbe frequenti e cordiali rapporti di amicizia, di negozi politici e di lettere» (V. Cian, Il
Cortegiano del conte Baldesar Castiglione annotato e illustrato da Vittorio Cian, cit., p. 2, nota 15)
69
oro, che solo li serve per necessaria compagnia, senza togliere pur una minima parte de la lor luce; né
credo che altre possin trovarse tali, né meno artefice migliorar l’incasto.
Ma che dirò io de la proprietà de le parole, che veramente dimostrano questa chiareza di possere
usare altro che ‘l toscano? È stata ventura sia venuta sì tardi, perché la fama di chi la ha sì strettamente
observata sia fin qui vissa, et quel che più ho notato è che dove usa altra parola, sono così da lassar le
toscane, che par più per seguir queste meglio che per fugire quelle, l’habbi fatto. Le facezie et burle
son tanto accomodate et ben dette, che anche siano morti molti di quelli che le dissero, non ho potuto
lassare di non tenerli invidia grandissima. Ma di quella parte che più me piace et obliga, che è le forsi
debite laude che date alla continenzia e virtù de le donne, determino tacere. Ma non tacerò già quello
che più admirazione mi ha causato, che è che a me pare che chi scrive latino habbi una differenzia con
li altri autori, simile ad uno artefice che lavora di oro a quelli che lavorano di rame, ché per semplice
opera che faccia, la excellentia de la materia luce tanto che la dimostra bella; ma la opera di rame con
grande ingegno et sottil modo non può farsi tale che in la comparazione non perda molto; ed il novo
vostro vulgare porta una maestà con seco sì rara, che non deve cedere a niuna opera latina.
[...] Che abbia ben formato un perfetto cortigiano non me ne meraviglio, ché con solo tenere uno
specchio denanzi et considerare le interne ed externe parti sue, posseva descriverlo qual lo ha
descritto; ma essendo la maggior difficultà che habbiamo conoscer noi stessi, dico che più difficile li è
stato formar sé che un altro, sì che o per l’uno o per l’altro che sia, merita tanta laude che me ne
rimetto al signor Datario, il qual solo giudico bastevole che per me la dia. (Lettera del 20 settembre
1524, in risposta, insieme elogiativa e dilatoria, alla richiesta di restituzione del manoscritto)
Del Cortegiano la Colonna fornisce una lettura entusiasta, che entra anche nel
merito della questione della lingua e delle scelte linguistiche e stilistiche operate, un
campo questo per addetti ai lavori, e con una reticenza che suona piuttosto come
preterizione mostra di apprezzare particolarmente la valorizzazione del genere
femminile per gli attributi di continenza e virtù, al punto da sentirsi, in quanto donna,
“obbligata” nei confronti dell’autore. L’avverbio dubitativo «forsi», riferito a «debite
laudi», ci sembra un retorico attestato di modestia piuttosto che l’espressione di un vero
e proprio dubbio sulle virtù delle donne. Quanto poi al giudizio che propone il perfetto
cortigiano come lo specchio dell’autore, esso vuole essere elogiativo sia della
performance cortigiana di Castiglione che della sua capacità di introspezione e di resa
letteraria.101
Di tale elogio Castiglione ringraziava la Colonna in una lettera del 21 di marzo
1525, in cui si complimentava anche per i successi del marito, Ferdinando Francesco
d’Avalos (1490-1525), marchese di Pescara e valente condottiero di Carlo V, e in cui
contraccambiava le lodi, alludendo però ancora, in maniera reticente, alla sua
richiesta.102
[...] però sonomi pur tornato allo scrivere, confidatomi che vostra Signoria debba vedere quello
ch’ io ho nell’animo, ancorché le parole non lo esprimano. Ché se avendo vostra signoria avuto
101
Lo scrittore rifiuterà nella Dedicatoria tale giudizio per modestia, sostenendo l’inadeguatezza del
reale all’ideale, ma non lo negherà del tutto perché confermerà che la competenza derivata dalla sua
attività come le idealità sono alla base dell’opera.
102
In questa lettera Barberis ha voluto cogliere l’intenzione di rammentare in modo indiretto alla
Colonna la promessa di restituzione del manoscritto e un tentativo di lusingarla con una sorta di dedica
privata. Barberis ha legato la preoccupazione di restituzione del manoscritto a motivazioni politiche, a
riferimenti, presenti nella redazione in mano della Colonna, ad aspetti politici che avrebbero potuto
metterlo in difficoltà con l’imperatore Carlo V, presso il quale oltretutto la nobildonna godeva di alta
considerazione. Tra l’altro va notato che nell’ultima redazione Castiglione risolve il problema
dell’identità dell’ottimo principe, come annota Quondam, lasciandola assolutamente generica e
assumibile indipendentemente dalla grandezza e potenza del principato, e ponendo in primo piano
l’identità del cortigiano da cui l’ottimo principe sarà degno di essere servito: «Vegnamo adunque ormai a
dar principio a quello che è nostro presuposto, e, se possibil è, formiamo un Cortegian tale che quel
principe che sarà degno d’esser da lui servito, ancor che poco stato avesse, si possa però chiamar
grandissimo signore». (C: I, 1), in Baldessar Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di Walter
Barberis, Torino, Einaudi, 1998, Introduzione, pp. VII-XVIII.
70
desiderio che qualcuno scrivesse il Cortegiano, senza ch’ella me lo dicesse o pur accennasse, l’animo
mio, come presago e proporzionato in qualche parte a servirla così, come essa a comandarmi, lo
intese e conobbe e fu obbedientissimo a questo suo tacito comandamento, non si può se non pensare
che l’animo suo medesimamente debba intendere quello ch’io penso e non dico, e tanto più
chiaramente quanto che quelli sublimi spiriti dell’ingegno suo divino penetrano più che alcun altro
intendimento umano alla cognizione d’ogni cosa, ancor alli altri incognita. Però della satisfazione
ch’io sento del contento suo e della famosa gloria del Signor suo consorte, il quale trionfa di due
tanto eccellenti Vittorie, e della servitù mia verso lei le supplico a dimandarne a se stessa e a se stessa
crederlo, perché son certo che a se stessa non mentirà di quello che non solamente essa, ma tutto il
mondo vede trasparere nell’animo mio, come in cristallo purissimo. Così resto baciandole le mani e
raccomandandomele umilmente in buona grazia.
Una posizione difficile, insomma, quella di Castiglione nei confronti della
Colonna, perché nobildonna potente che può indebolire anziché rafforzare il suo stato di
grazia presso i principi, il che spiega lo sforzo di conservare sempre forme rispettose ed
elogiative che attenuino le insinuazioni o affermazioni critiche. A lei forse Castiglione
si era rivolto, oltre che per verificare l’impressione di lettura in un pubblico femminile
acculturato e averne adeguati suggerimenti, anche per ottenere favori, diciamo
protezione all’opera. Si era però sentito tradito dalla sua arbitraria diffusione dell’opera
manoscritta, quasi un padre che si veda un figlio rapito, o un rischio di aborto a causa di
una figura femminile matrigna. In effetti la Colonna sembra incarnare, per il
comportamento avuto, una figura femminile negativa, sostanzialmente disonesta, anche
se non nei termini legati alla castità, ma all’agire relazionale. Ma si tratta comunque di
un’immagine contingente, attenuata dalla stima precedente e dalla conservazione di vari
attestati di merito, nonostante l’attrito.
In conclusione, nel quadro delle dirette esperienze del femminile che abbiamo
tracciato, ci sembra che Castiglione abbia fruito in generale, fatta eccezione parziale per
Vittoria Colonna, di esempi fortemente positivi, sia in relazione all’ambito più
strettamente familiare che in relazione all’ambito cortigiano, per cui possiamo
concludere che le esperienze di vita hanno contribuito ad orientarlo verso un
atteggiamento prevalentemente filogino.
71
Parte II. Sezione II.
9. La rappresentazione della donna nel percorso di stesura del Cortegiano.
9.1. Impostazione della trattazione e contributi critici.
Per meglio fotografare le caratteristiche della donna nel Cortegiano e
identificare al riguardo il chiarirsi progressivo dell’ideologia e degli obiettivi di
Castiglione, ci è parso opportuno passare in rassegna il percorso di costruzione del testo
e le varianti macroscopiche intercorse fra le diverse redazioni,103 concentrandoci sulla
parte del dialogo specificamente destinata alla definizione dei tratti della donna, poi
identificata e contestualizzata come dama di palazzo, e avvalendoci in primis del
contributo fondamentale di Ghinassi104 e poi di Quondam,105 della Carella,106 di
Scarpati,107 di Motta,108 e di Guidi.109
Pur nella rinuncia ad una disamina circostanziata delle diverse stesure di tutto il
libro in relazione all’assunto, intendiamo tuttavia non tralasciare un altro proficuo
confronto fra le medesime, quale ci viene suggerito da Motta, in relazione alla prima
rappresentazione che si fa della signora duchessa e della sua luogotenente e dama di
palazzo per eccellenza, Emilia Pio, nel contesto della corte, che è lo spazio in cui si dà
la ragion d’essere della presenza, dell’agire, e infine della costruzione del modello
ideale della donna di palazzo.
9.2. La lettera al Frisia in onore delle donne (1508).
Il breve scritto acefalo Lettera al Frisia in onore delle donne, databile, più che
nel periodo intercorso tra la prima e la seconda stesura del Cortegiano, in un’epoca
anteriore alla prima, e collegabile ai brevi trattati in lode e difesa delle donne, frequenti
tra il Quattrocento e Cinquecento, è interessante non solo perché costituisce la prima
testimonianza letteraria compiuta del pensiero di Castiglione relativamente alle donne,
ma anche perché, secondo l’interpretazione di Ghinassi, potrebbe costituire forse il
primo nucleo dell’opera,110 di cui poi sarebbe divenuto elemento secondario, e
103
Secondo U. Motta, a una primissima stesura autografa databile intorno al 1508-1513 seguì una
prima stesura tra il 1513 e il 1516, testimoniata dai codici B’ B’’ e C’; una seconda stesura tra il 1518 e
il 1521, testimoniata dai codici C’’ D’ e D’’ e una terza stesura tra il 1524 eil 1528, testimoniata da L’ L’’
e Ad (l’edizione Aldina del 1528) ( Uberto Motta, Castiglione e il mito di Urbino. Studi sull’elaborazione
del « Cortegiano», Milano, Vita e Pensiero, 2003)
104
Gino Ghinassi, Fasi dell’elaborazione del «Cortegiano», Firenze, Sansoni, 1967, pp.155-196
(Estr.da: Studi di filología italiana: bollettino dell’Accademia della Crusca,1967, vol. 25) e La seconda
redazione del «Cortegiano» di Baldassarre Castiglione, edizione critica per cura di Gino Ghinassi,
Firenze, Sansoni,1968.
105
Amedeo Quondam, «Questo povero Cortegiano», cit.
106
Angela Carella, Il libro del cortegiano di Baldassarre Castiglione, in Letteratura italiana,
Einaudi, Le opere, vol.I: Dalle origini al Cinquecento, Torino, Einaudi, 1992, pp.1089-1126
107
Claudio Scarpati, Osservazioni sul terzo libro del «Cortegiano», cit.
108
Uberto Motta, Castiglione e il mito di Urbino. Studi sull’elaborazione del « Cortegiano», cit.
109
José Guidi, De l’amour courtois à l’amour sacré, cit., p. 70.
110
Materiali utili sulle virtù delle donne e sull’amore sono stati ritrovati in un taccuino autografo di
Castiglione, datato 1508, da Guido La Rocca (Guido La Rocca, Un taccuino autografo per il
“Cortegiano”, «Italia medievale e umanistica», XXIII (1980), pp. 341-373). Quondam ritiene che questo
ritrovamento confermi la seguente congettura di Ghinassi: «Sorge il sospetto che il quarto libro [della
prima redazione], incentrato sul tema della donna e dell’amore, preesistesse in qualche forma, o almeno
esistesse parallelamente agli altri tre, dedicati specificamente alla figura e all’educazione del cortigiano»,
in G. Ghinassi, Fasi dell’elaborazione del «Cortegiano», cit., p. 190.
72
testimoniare con questo una fase di maturazione, di passaggio, dai galanti svaghi
cortigiani della giovinezza a una più complessa problematica etica e sociale mirata a
definire e garantire la funzione pubblica del cortigiano in ambito etico, civile e
politico.111 D’altra parte, la precisazione successiva dell’assunto di fondo, ossia il
modello del cortigiano nella vita di corte e nelle relazioni di istitutore e consigliere del
principe, comporterà poi una ridefinizione del nucleo tematico originario, non più una
difesa generica delle donne, ma la modellizzazione della dama di palazzo (l’alter ego
del cortigiano, e, si badi bene, condicio sine qua non dello stesso produrre ragionamenti
dei cortigiani nell’ambito eletto della corte e dell’educazione alla grazia, virtù massima
che assorbirà mediocritas e sprezzatura) e l’inserimento e la trattazione sempre più
ampia dell’amore spirituale platonico, necessario alla sublimazione del cortigiano, con
un conseguente ridimensionamento e attenuazione dell’attenzione, pur nell’ambito di un
intendimento normativo migliorativo, all’amore cortese e galante, tipico dei rapporti
sociali della vita di corte.
A una disamina un poco più attenta ci accorgiamo che la Lettera al Frisia in
onore delle donne, oltre a presentare il nucleo filogino originario, contiene passi che
saranno ripresi pressoché identici nella seconda redazione e nella vulgata, come quello
relativo alla decadenza contemporanea degli uomini (2 III, 80; 3 III, 46) e alle tecniche
di assedio degli innamorati (2 III, 84; 3 III, 50). L’opera, nella sua brevità, ci offre
innanzitutto come argomento di valorizzazione della donna la continenza, proprio per la
rilevanza che nella tradizione misogina aveva avuto l’accusa del vizio opposto
dell’incontinenza. E la virtù della continenza, intimamente unita a quella della costanza,
è tale da rendere le donne quasi rocche inaccessibili agli assalti galanti, minacciosi o
corruttori degli innamorati. La riprovazione va tutta rivolta agli uomini (la cui malvagità
offre peraltro lo spunto a una deprecazione della situazione etico-sociale
contemporanea) e alle loro tattiche di seduzione, mentre alle donne «simplicette
columbe» va ammirazione, almeno alle molte che resistono «invictissime e castissime»,
e pietà e non vituperio alle poche che cadono «Parti [...] che quella meschina, che con
tante insidie et arti e lusinghe è stata presa, non meriti compassione e quello perdono
che spesso alli omicidi, latri e sacrilegi si concede?».112 Deprecabile anche la
diffamazione che estende alla generalità delle donne la colpa, oltretutto quasi
giustificabile, di poche.
Vorai tu che questo sia così detestabel vizio e tanto enorme che, per trovarsene alcune che in
questo incorr[eno], debba bastar a far che ‘l sexo de le donne sia sprezzato in tutto, non avendo
respetto che molte se ne trovino, come di sopra t’ho detto, invictissime e castissime, le quali oltra le
altre nobilissime virtuti sono a li continui stimuli adamantine e salde ne la sua infinita constanzia più
che li fermi scogli a le onde dil mare? (B. Castiglione, Lettera al Frisia).113
E inoltre la necessità delle donne viene sostenuta non solo in base alla loro
partecipazione alla procreazione, qui non ancora argomentata nei principi aristotelici di
materia e forma discussi e contestati nel dialogo, e ben presenti sia nella seconda che
nella terza redazione, ma anche alla moralità, per la prudenza che le connota e che ne fa
le conservatrici della casa e della famiglia.
Ché oltra la necessità de la compagnia de le donne per lo essere, ancor al vivere morale è
necessaria: ché, secondo Aristotele, come l’omo per fortezza è più pugnace e bellicoso, la donna è
111
cfr. G. Ghinassi, Fasi dell’elaborazione del «Cortegiano», cit., pp.189-190
B. Castiglione, Lettera al Frisia, in G. Ghinassi, Fasi dell’elaborazione del «Cortegiano», cit.,
Appendice, p.195.
113
Ivi, p. 195.
112
73
più cauta, l’omo acquista fori, la donna conserva e sedulmente governa la casa tutta e li figlioli, et a
lei conviensi questa cura. (B. Castiglione, Lettera al Frisia)114
Se queste note non distinguono Castiglione dalla tradizione filogina che sarà
abbondantemente recuperata nel Cortegiano, pur all’interno di uno sviluppo dialogico
che consente una più ampia articolazione degli elementi del contendere rispetto al
genere della lettera, e più si confà alla funzione principe del comunicare, assunto
precipuo della corte, altre anticipano più da vicino l’impostazione elogiativa della
donna, legata alla sua partecipazione a pieno titolo alla vita aristocratica di corte, e sono
quelle relative alla grazia e alla gravità della colpa della diffamazione presso l’opinione
pubblica, che nella civiltà di corte riveste un ruolo predominante.
Anche se ancora non si parla esplicitamente né di corte né di dama di palazzo, la
concezione delle donne come ornamento e splendore del vivere sociale in quanto causa
di grazia e dispensatrici di grazia, per ottenere la quale si compiono azioni a loro volta
connotate da grazia, non solo anticipa le formulazioni più specifiche della seconda e
dell’ultima stesura nel merito,115 ma evidenzia anche la qualità che sarà fondamentale
per il cortigiano in entrambe le condizioni di soggetto attivo e passivo, attivo in quanto
autore di azioni connotate da grazia, passivo in quanto ricettore di grazia, di
benevolenza a causa delle prime, e questo, nell’ambito generale della società cortigiana,
non solo da parte dei suoi pari e delle sue pari, ma anche e soprattutto da parte del
principe e della principessa, insomma, dei detentori effettivi del potere.
Quanto poi universalmente adornino el viver umano e quanto splendor diano le donne al mondo,
facil cosa è da comprendere, ché de tutte le actioni che in sé hanno legiadria o grazia alcuna, quasi
sempre principal causa sono le donne; e quelli meglio le oprano, che de piacer ad esse si studiano (B.
Castiglione, Lettera al Frisia)116
La qualità della grazia, che qui è ancora solo implicitamente attribuita alle donne
e deriva da esse la presentazione a mezzo tra l’ornamento («adornino») e la
magnificenza («splendor»), ma viene già orientata prevalentemente verso la seconda
dagli esempi della grandezza in battaglia degli Spagnoli e dei Troiani combattenti sotto
lo sguardo delle loro donne (esempi che peraltro saranno conservati nella seconda
redazione (2, III, 93) e nella stesura definitiva dell’opera, salvo l’inversione dell’ordine
delle sequenze e la premessa più circostanziata dell’innamoramento che libera dalla
viltà e motiva a far cose grandi per rendersi amabili (3 III,51)), si connoterà poi nel
114
Ivi, p. 191
Riportiamo nel merito i passi analoghi della seconda e terza redazione: «E di tutti gli altri
essercizii graziosi e che pìacciono al mondo a chi s’ha de attribuir la causa se alle donne no? Chi studia
di danzare e ballare leggiadramente per altro che per compiacere a donne? Chi intende nella dolcezza
della musica per altra causa che per questa? Chi a comporre versi, almen nella lingua volgare, se non per
esprimere quegli affetti che dalle donne sono causati?» (2 ,III, 85); «Non vedete voi che di tutti gli
esercizi graziosi e che piaceno al mondo a niun altro s’ha da attribuire la causa, se alle donne no? Chi
studia di danzare e ballar leggiadramente per altro, che per compiacere a donne? Chi intende nella
dolcezza della musica per altra causa, che per questa? Chi a compor versi, almen nella lingua vulgare, se
non per esprimere quegli affetti che dalle donne son causati?» (3, III, 52). E aggiungiamo sul tema della
grazia questo passo della terza redazione: «Il Cortegiano, adunque, oltre alla nobiltà, voglio che sia in
questa parte fortunato, e abbia da natura non solamente l’ingegno e bella forma di persona e di volto, ma
una certa grazia e come si dice, un sangue, che lo faccia al primo aspetto, a chiunque lo vede, grato ed
amabile, e sia questo un ornamento che componga e compagni tutte le operazioni sue, e prometta nella
fronte quel tale esser degno del commercio e grazia d’ogni gran signore» (3, I, 14).
116
B. Castiglione, Lettera al Frisia, in G. Ghinassi, Fasi dell’elaborazione del «Cortegiano», cit.,
Appendice, p.191.
115
74
Cortegiano, e in maniera progressiva nel percorso delle stesure,117 maggiormente nei
termini della magnificenza: sarà infatti il mezzo per operare cose grandi (non per niente
compito del cortigiano nell’ambito politico sarà il saper dire la verità al principe in
modo diplomatico, ossia in modo aggraziato, in modo da persuadere senza urtare alcuna
suscettibilità, nel riconoscimento di una subalternità che non può essere superata, ma
solo sublimata nella dimensione etica della verità e in quella relazionale della prudenza
e abilità persuasiva fondata sull’eloquenza e sull’introspezione e discrezione
psicologica) e si confermerà sempre più come virtù etico-sociale oltre che estetica;
vedrà insomma la sua natura estetica investita della connotazione etico-sociale, non
diversamente da quanto succederá alla Bellezza neoplatonicamente identificata con la
Bontà. Tale tema, nella Lettera al Frisia, è ancora assente e sarà poi sviluppato non solo
in relazione all’alto statuto riconosciuto al cortigiano, ma anche per le esperienze
autobiografiche che porteranno Castiglione ad avvicinarsi a una più severa e spirituale
concezione dell’amore: l’acquisizione dello stato ecclesiastico e la necessità di
appoggiare la Chiesa in difficoltà, come ci ricorda Ghinassi secondo cui «proprio in
questo periodo Castiglione s’accingeva a legare decisamente la sua attività e la sua
carriera diplomatica alle sorti della Chiesa, e le esigenze difensive della Chiesa
divenivano sempre più urgenti anche dal lato spirituale».118
Che la volontà di acquisire grazia presso la donna comporti poi grazia in tutte le
attività della vita sociale e persino l’ottima riuscita nella produzione artistica, già ce lo
anticipa la Lettera al Frisia e un notevole sviluppo avrà poi nel trattato.
Insomma da tal causa nascono tutte le grazie, la delicatura de richi e pomposi vestimenti, vage
foggie de abiliature, soni, canti, balli, concerti di musica, versi, rime. Non ti pensi se in poco prezio
fossero state le donne, de quanti nobilissimi poemi nui seressimo stati privi? (B. Castiglione, Lettera
al Frisia)119
Le stesse esemplificazioni di Salomone e Petrarca, poi riprese in ordine inverso
nell’ultima stesura con minime varianti formali (3 III, 52) e nella seconda con
ampliamento di citazioni a scrittori contemporanei (2 III, 85), sottolineano il forte
legame che esiste tra questo nucleo primigenio e il Cortegiano nella sua forma
definitiva. Anzi su questo punto la vulgata è più simile della seconda redazione al passo
della Lettera al Frisia. Ci sembra poi che quanto viene detto sul poema di Salomone in
relazione all’adombramento dell’amor del divino sotto la specie dell’amore delle donne,
possa quasi configurarsi come un germe precursore di quello che sarà nel trattato il
discorso neoplatonico.
Vedi che Salamone, volendo scrivere misticamente cose altissime e divine, per coprirle de un
grazioso velo, finse ne la sua cantica un ardentissimo dialogo de una donna e de uno amante,
parendoli non poter trovar cosa più conveniente e simile a le cose divine che l’amor verso le donne: e
però da questo prese il subietto. (B. Castiglione, Lettera al Frisia)120
Quanto alla forte rilevanza dell’onorabilità sociale, leit-motiv del Cortegiano, la
rileviamo già nella Lettera al Frisia quando si denuncia la gravità della minaccia della
117
Vedi quanto rilevato dallo Scarpati a proposito dell’abbandono del registro cavalleresco di
facciata e in direzione di un registro epico più alto, e riportato nel capitolo che segue.
118
G. Ghinassi, Fasi dell’elaborazione del «Cortegiano», cit., p.181.
119
B. Castiglione, Lettera al Frisia, in G. Ghinassi, Fasi dell’elaborazione del «Cortegiano», cit.,
Appendice, p.192.
120
Ivi, p.192.
75
diffamazione, mirata a strappare la concessione dell’amore, in un passo sostanzialmente
conservato nelle redazioni successive (2 III, 84; 3 III, 50).
E molti se trovano che, vedendo le blandizie et amorosi allectamenti non giovarli, se convertono
alle minaccie, dicendo volerle publicare per quelle che non sono a li loro mariti o fratelli o patri, e così
li poneno el timor de la infamia e de la morte. (B. Castiglione, Lettera al Frisia)121
È proprio il «publicare», il rendere pubblico, e, insieme, ciò che si rende
pubblico, la prassi vincente sul privato in una società in cui, il trattato lo chiarirà, il
giudizio e l’accoglienza degli altri sono fondamentali per l’essere, e l’apparenza quindi,
ossia il modo in cui si appare agli altri e se ne determina il giudizio, gioca più che la
sostanza. In questo ambito va riconosciuto a Castiglione il merito di avere cercato nel
Cortegiano di indirizzare verso una coniugazione virtuosa della sostanza con
l’apparenza e viceversa, verso una sostanza che si traduce anche in apparenza e si
sostanzia di essa senza perdere nulla di sé. In altre parole, ci sembra che Castiglione
abbia tentato una trasformazione-idealizzazione virtuosa del concreto rapporto sociale
tra sostanza ed apparenza, passando dalla tensione ostile di due contrari alla convivenza
pacifica di due complementari in cui l’apparenza si sottopone a regole estetico-etiche
che ne fanno una componente coerente della sostanza e la sostanza per parte sua
l’assume come parte irrinunciabile di sé.
Compito del cortigiano sarà quindi il difendere le donne «preggiate» dalla
diffamazione, non solo con la parola o con lo scritto, ma anche e ancor più con le armi.
Nella conclusione della Lettera al Frisia, dopo l’invito a una palinodia rivolto al
misogino Frisia e la perorazione a favore delle donne,
Rivolgi adonche la lingua e le parole tue in contrario di quello che sei consueto, facendo una nova
palinodia, che non solamente tu et ogni altro gentil spirito ragionevolmente è tenuto laudare, reverire
et observar le donne, come quelle che sono adornamento del mondo e necessarie a l’esser nostro e
causa d’ogni contentezza e bene che in questa vita aver potiamo e fonti onde derivano tutti quelli dolci
pensieri che fiorir fanno talor gli animi nostri, [...] (B.Castiglione, Lettera al Frisia)122
si fa parola precisa del gentiluomo e delle donne «preggiate» e si ritagliano all’interno
della generica condizione maschile e femminile i tipi umani, socialmente e
culturalmente connotati, su cui si concentrerà il Cortegiano, ossia il cortigiano abile
nelle armi e virtuoso in quanto erede del cavaliere feudale nella sua forza e nelle sue
idealità e colto e competente nella letteratura e nelle relazioni sociali in quanto erede del
letterato umanista e operante nel contesto delle corti, e, congiuntamente a lui, la donna
di palazzo, egualmente dotata di virtù e pregiata/ apprezzata per status ed educazione
propria di esso.
[...] ma ogni gentilomo che prosume di cavalleria parmi che sia tenuto, ogni volta che si trova
presente ove sia chi de qualche preggiata donna dica male, diffenderla non solamente con le parole,
ma ancor con l’arme bisognando. (B.Castiglione, Lettera al Frisia)123
La Lettera al Frisia sembra già avere in nuce anche questo sviluppo futuro124 cui
presta ulteriore sostegno il riferimento autobiografico di Castiglione alla propria
condizione di cortigiano:
121
Ivi, p.194.
Ivi, pp. 195-196.
123
Ivi, pp. 195-196.
124
Quondam, attento ricognitore di tutte le parti della Lettera al Frisia recuperate nelle successive
redazioni del Cortegiano, diverge dalla nostra interpretazione perché ritiene il passo soprariportato
122
76
E piacesse a Dio che una volta a me occor<res>se in tal caso satisfar a me stesso, ché forsi più
chiaramente dimostrerei il merito de le donne con l’arme che or dimostrar non ho saputo con la penna.
(B.Castiglione, Lettera al Frisia)125
Tali riferimenti scompariranno nella successione delle stesure, via via che si farà più
chiaro a Castiglione l’intento universalistico dell’opera.
Quanto alla posizione iniziale di Castiglione nei confronti della donna, giova
sottolineare in questo passo la distinzione operata fra donne «preggiate» e non
«preggiate», una distinzione che comporta una diversità degli obblighi del cortigiano
nei confronti della donna in relazione alla sua virtù e al suo status, e che limita
fortemente l’affermazione precedente sull’obbligo generale del riverire le donne e
implicitamente di assisterle e proteggerle. Una distinzione che ricomparirà anche nella
stesura finale del Cortegiano126 e che autorizza l’individuazione di un’ambiguità e di un
limite nella filoginia di Castiglione fin dal primo scritto sulle donne. Tale limite tuttavia
non attenua che leggermente l’impianto dichiaratamente filogino della Lettera al Frisia,
tanto filogino che gli artefici malvagi della seduzione sono qui soltanto gli uomini, e
attività che saranno consentite nel Cortegiano alle donne per l’intrattenimento e una
seduzione che si contiene nel piacere di questa e non deve giungere alla consumazione
dell’atto, pena la rottura dell’equilibrio relazionale, qui appaiono praticate, e per di più
con secondi fini, solo dagli uomini, anche se non si può escludere che implicitamente se
ne supponga una competenza anche nelle donne.
Da le qual cose, benché d’esse siano principal cagione, spesso ricevono grandissimo danno; ché
questi canti, soni, balli, giochi, rime, versi e ciò che di [sopra] avemo detto, sono tutte validissime e
quasi irreparabil arme, che li omini usano per debellare [la] continenzia de le donne; [...](B.
Castiglione, Lettera al Frisia)
Vero è che precedentemente nella Lettera si riconosce la grazia che
nell’abbigliamento come nella pratica del canto, musica, danza, e poesia viene agli
uomini dal desiderio di nobilitarsi agli occhi delle donne, ma questo valore che appare
indiscusso nell’ultima stesura del Cortegiano (3 III, 52), qui sembra oscurarsi
nell’accusa successiva dell’uso illegittimo, disonesto, oltreche conservare in questo una
testimone ancora della tipologia culturale del cavaliere, e separa nettamente il cortigiano dal cavaliere,
mentre a noi il passo pare già chiaramente orientato verso il nuovo modello e ci sembra che il cortigiano
non rinnneghi, ma incorpori il suo antenato cavaliere. Infatti lo commenta così: «Un gesto antico di
cortese cavalleria, ancora la tipologia culturale del cavaliere e della sua dama: da questo guerriero pronto
a difendere con le sue armi l’onore e il merito delle donne deve ancora nascere il gentiluomo letterato. E
quando nascerà, avrà provveduto a cancellare con cura ogni traccia residuale dei suoi archetipi, delle sue
remote origini compiutamente negate dopo essere state proclamate sino alla seconda redazione, quando
si esaltava ogni «atto valloroso fatto da un cavaliero peramor di donna»(SR III 127) » in A. Quondam,
«Questo povero Cortegiano», cit. , p. 277.
125
B. Castiglione, Lettera al Frisia, in G. Ghinassi, Fasi dell’elaborazione del «Cortegiano», cit.,
Appendice, p.196.
126
L’interlocutore sostenitore della linea filogina, il Magnifico, giustifica il trascendere degli
uomini di fronte alle donne giudicate disoneste, definendolo meritato: «[...] ed hanno lor pochissimo
riguardo, e par loro che da esse con que’ modi siano invitati a passar piú avanti, e spesso poi scorrono a
termini che dan loro meritamente infamia e da ultimo le estimano cosí poco, che non curano il lor
commercio, anzi le hanno in fastidio[...] e se non sono impudiche con quei risi dissoluti, con la loquacità,
insolenzia e tai costumi scurili fanno segno d’essere» (3 III, 5).
127
B. Castiglione, Lettera al Frisia, in G. Ghinassi, Fasi dell’elaborazione del «Cortegiano», cit.,
Appendice, p.193.
77
traccia dell’antico anatema medievale, permanente anche nel costume familiare di
alcuni cortigiani che scindono la mentalità aperta nel pubblico da quella chiusa nel
privato (Ci riferiamo a Pietro Bembo che vieta alla figlia lo studio e la pratica della
musica).128
Aggiungasi a questo la denuncia di scrittori che hanno educato gli uomini
all’arte della seduzione.
Ma io non potria mai ridir la millesima parte de le insidie e de le arti che adoprano li omini per
indur le donne alle lor voglie, che sono infinite; et oltra che la natura da sé ce insegna, sonsi ancor
trovati omini ingeniosissimi, che hanno scritto e composto libri per insegnar come in questo se
abbiano da inganar le donne, come diffusamente tu sai che ha scritto Ovidio De Arte. (B. Castiglione,
Lettera al Frisia)
Insomma un mondo maschile piuttosto negativo che si rigenera solo nel
riconoscimento del merito delle donne e nell’azione mirata a proteggerle, dalla
resipiscenza della palinodia all’azione difensiva del gentiluomo con l’arma metaforica
dell’eloquenza e con quella reale del cavaliere.
Nel Cortegiano le posizioni si equilibreranno di più e, al di là dei requisiti
riconosciuti ad uomini e donne e più specificatamente al cortigiano e alla donna di
palazzo dalle argomentazioni pro e contro le donne presenti nella disputa del Libro terzo
della vulgata, sarà giocoforza cogliere il ruolo prioritario del cortigiano nella
formulazione dei discorsi e nella funzione di istitutore-consigliere del principe,
insomma nell’ambito della produzione intellettuale e della azione politica, mentre non si
potrà non riconoscere alle donne un ruolo necessario, quali comprimarie o figure
larvatamente subalterne, nella loro funzione di consentire il benessere degli uomini e di
promuovere la formazione dei discorsi e di svolgere opera di mediazione.
Tale equilibrio appare cercato attraverso una velata ambiguità in una
complementarità di ruoli che rende difficile e precaria una loro sistemazione
gerarchizzata e in una proporzione di parti in cui l’espansione orizzontale che dà
maggior spazio all’uomo-cortigiano conflige con quella verticale, che pone in cima
all’opera, ossia alla sua conclusione, la trattazione dell’amor platonico di cui è veicolo
sublimante la donna, un veicolo che però non può forse sublimare se stesso. Con questa
domanda senza risposta, cioè se la donna possa nutrire o no un amor platonico, si chiude
infatti il trattato, lasciando aperta la questione e sottolineata la impossibilità o la
mancanza di volontà di addivenire a una conclusione certa, forse per la consapevolezza
della variazione dei costumi e dei parametri e la concezione del dialogo come strumento
di confronto di opinioni con cui ci si avvicina a possibili verità e a possibili intese senza
pretendere il convincimento, la persuasione e la sconfitta-liberazione dell’avversario.
9.3. La trattazione specifica del tema femminile e amoroso nelle diverse
redazioni del «Cortegiano»
Nella prima redazione, alla fine del terzo libro, si apre una polemica tra
Bernardo Bibbiena e Ottaviano Fregoso (assente ancora Gaspare Pallavicino) sul valore
delle donne, definite da Fregoso «animali imperfettissimi e non capaci di fare alcuna
128
Per questo rimandiamo alla nota in calce a Luis Vives, in relazione al suo divieto alle donne di
praticare la musica, e alle osservazione sull’atteggiamento ambivalente diffuso nel Cinquecento nonché
all’interessante saggio di María José Vega, Poesía y música en el Quinientos: la fantasía aristocratica,
cit. (Parte I, 4.2.)
129
B. Castiglione, Lettera al Frisia, in G. Ghinassi, Fasi dell’elaborazione del «Cortegiano», cit.,
Appendice, pp.195-196.
78
virtuosa operazione», e continua poi in tutto il quarto e ultimo libro tra Fregoso e
Camillo Paleotto, scelto dalle donne come loro difensore, prendendo ulteriore spunto
dalla questione del loro eventuale diritto al rispetto e «riverenzia» da parte del
cortigiano. Questo dato ci induce a pensare che, sebbene non fosse stato ancora
enucleato con chiarezza e determinazione il tema della donna di palazzo, su cui si
concentrerà la disputa nell’ultima stesura, ossia nella vulgata, fosse già presente in
germe la volontà, se non di circoscrivere il tema a questo ambito, obiettivo del resto non
realizzato pienamente nemmeno nella vulgata, di cominciare ad accennarlo, perché
appare evidente che le donne con cui si relaziona il cortegiano sono innanzitutto donne
di palazzo, e di loro si parla. Non dimentichiamo che già nella Lettera al Frisia si
concludeva la difesa generica delle donne con l’invito al gentiluomo a difendere le
donne «pregiate», ossia con un accenno alla determinazione del maschile e del
femminile nell’ambito della corte. È quindi lecito ritrovare in questi dati una linea di
tendenza e di maturazione progressiva del progetto «cortigiano» di Castiglione che via
via orienta e precisa le considerazioni tradizionali sulla donna verso l’assunto di base.
Non per niente, come nota Ghinassi, «le argomentazioni portate corrispondono in larga
parte a quelle utilizzate nel terzo libro definitivo per descrivere la donna di palazzo»,130
e non importa se alcune si sono perdute nel processo di elaborazione e la materia è stata
riorganizzata, anzi la progressiva selezione e organizzazione della materia, comunque in
buona parte conservata, documenta ulteriormente come un materiale prima
complessivamente tradizionale sia stato precisato alla luce della progressiva
identificazione del fine e, in ultima istanza, come Castiglione conservi buona parte della
tradizione.
Pressoché ignorato o solo appena accennato il tema dell’amore platonico, che
occupa la seconda parte del quarto libro nella redazione definitiva, tema peraltro del
tutto assente anche nella Lettera al Frisia,131 si potrebbe ipotizzare non solo perché
ancora da chiarire definitivamente l’assunto dell’alta funzione etico-politica del
cortigiano quale istitutore–consigliere del principe, che pure manca nella prima
redazione e costituisce invece la prima parte del libro quarto dell’ultima redazione, ma
anche perché tema sostanzialmente nuovo, contemporaneo, legato alla diffusione del
neoplatonismo di matrice ficiniana e recentemente riproposto negli Asolani di Bembo.
La scena conclusiva del libro quarto della prima redazione vertente sul processo
cui sottoporre Fregoso per la calunnia delle donne, rimanda inoltre all’ambiente cortese
e galante della corte, non ancora del tutto sublimato, e sappiamo che la trattazione
dell’amore in chiave galante sarà ridotta successivamente e conservata in uno spazio
molto limitato del libro terzo nella redazione definitiva.
Nel libro terzo e ultimo della seconda redazione, dopo l’inserto sulle virtù
politiche del cortigiano, riprende la disputa sulle donne in cui si confrontano come
difensore ancora Camillo Paleotto e come detrattore Niccolò Frisio, cui Ottaviano
Fregoso ha lasciato l’incarico, in quanto chiamato dal duca, affidandolo a Gaspare
Pallavicino in qualità di suo tutore. Nella seconda redazione si sviluppano alcuni motivi
come l’amore spirituale, e la mole del terzo e ultimo libro si fa eccessivamente ampia e
complessa, il che spiega come nell’ultima redazione Castiglione separi la disputa sulle
donne dalla trattazione del tema politico e dell’amore spirituale, assegnando alla prima
il terzo libro, agli ultimi il terzo e il quarto. Particolarmente importante poi la
ridefinizione dell’assunto principe sulla donna, come circoscritto alla «donna di
130
G. Ghinassi, Fasi dell’elaborazione del «Cortegiano», cit., p.159.
A meno che non sia autorizzata un’interpretazione dell’amore mistico di Salomone per Dio sotto
specie di amore per la donna, come una prefigurazione ante litteram e inconsapevole dell’amor platonico.
(Ivi, p.192)
131
79
palazzo», solo affiorato nelle ultime pagine della prima e seconda redazione. Una
rielaborazione, l’ultima, che, secondo Ghinassi, muta il tono di tutta l’opera.132
A un confronto dettagliato fra le tre redazioni, per il quale rimandiamo alla
trattazione articolata di Ghinassi,133 compaiono evidenti somiglianze nelle tre stesure
nello svolgimento del tema della dignità femminile e degli exempla, mentre la terza si
allontana quando s’incentra sull’amore nella donna di palazzo, e le prime due trattano
invece il tema del matrimonio solo accennato nella terza.
Nella prima e seconda redazione sul tema della fedeltà della donna bella
s’innesta il tema della bellezza, e su questo la seconda redazione si allontana dalla prima
(anche se la presenza di una lacuna nella più antica stesura non consente un sicuro
confronto), sviluppando il tema dell’amore spirituale in forme che già preludono alla
sua trattazione nel libro quarto della redazione definitiva. Se il concetto ficiniano della
bontà come centro e della bellezza come circolo da cui discende l’indissolubilità di
bellezza e bontà viene già enucleato nella prima redazione, nella seconda la trattazione
dell’argomento, prima svolta dal Paleotto con motivazioni prevalentemente
mitografiche-erudite (come quella della distinzione tra una Venere celeste e una Venere
terrena, giustificatrice della differenza fra i due tipi d’amore, lo spirituale e il volgarecarnale), assume toni più chiaramente filosofici nell’intervento di Bembo, che tuttavia
non riesce a trascinare l’uditorio che chiederà di tornare a discutere di un amore terreno
e prediligerà Ovidio rispetto a Platone. A questo punto prima e seconda redazione
tornano a concordare e proseguono sulle cause che rendono pubblici gli amori e nella
scena conclusiva della commedia del processo contro i calunniatori delle donne. A detta
di Ghinassi134 poi, la crescita della tematica neoplatonica nella seconda stesura
evidenzia una frattura ideologica, parzialmente assorbita nell’ultima, tra l’esperienza
galante e cortigiana della giovinezza incentrata sull’amore e di cui è specchio la prima
redazione del trattato, che lo inquadra a tutti gli effetti nell’ambito della trattatistica
cortigiana,135 e lo sviluppo dell’esperienza sociale e politica che induce Castiglione agli
inserti della tematica politica e dell’amor platonico. Di questa frattura resta segno nella
vulgata per la differente impostazione della trattazione della tematica amorosa nel terzo
e quarto libro, in quanto in quello si tratta dell’amor cortese e galante secondo radici
ovidiane, come chiarisce Loos,136 in questo dell’amore spirituale e platonico che, come
sostiene Ghinassi, costituisce il culmine dell’esperienza mondana del cortigiano, e si
132
Ivi, p.160.
Ivi, pp. 162-176.
134
«La cornice esterna e le civetterie cortigiane non giungono comunque a nascondere la frattura
esistente fin dall’atto di nascita nella sostanza stessa del Cortegiano [...] Occupato nei primi libri a
disegnare la figura del cortigiano sulla falsariga dell’oratore ciceroniano, il Castiglione devia infatti [...]
nel libro finale su un tema che doveva essere anche per lui di viva attualità, e lo dibatte con tale impegno
e con tale indipendenza dal contesto precedente, da legittimare addirittura la domanda se non stia per caso
usufruendo di materiale precostituito ad altro fine. La sostanza del trattato resta così bipartita, tra i primi
libri e l’ultimo, quasi senza punti di raccordo reciproco» (Ivi, p.174)
135
«All’origine il Cortegiano appare ancora assai vicino alla trattatistica cortigiana in voga tra il
Quattrocento e il Cinquecento. Ciò è particolarmente chiaro nel libro conclusivo: la lunga discussione
sulla donna e sull’amore riecheggia, talora in forma di singolare affinità, motivi e argomenti diffusi
nell’ambiente letterario mantovano e ferrarese della giovinezza del Castiglione, dal De laudibus mulierum
del Gogio alla Defensione delle donne di Agostino Strozzi, al Perigynaecon dell’Equicola. Dall’ultimo
libro, che ne rappresenta come l’apice, l’atmosfera cortigiana si diffonde su tutta l’opera, manifestandosi
[...] nella inquadratura esterna del trattato, arieggiante con evidenza gli schemi formali delle Corti
d’amore: si ricordino, per esempio, le questioni poste preliminarmente, in specie le questioni amorose,
assai più numerose in 1 e in 2 che in 3; e si tenga presente che in 1 le conversazioni sono ancora dirette da
una «regina» e che il dibattito è concluso in 1 e in 2 con gli Arrests d’amour [...] » (Ivi, pp. 173-174)
136
Erich Loos, B. Castiglione «Libro del Cortegiano», Studien zur Tugendauffassung des
Cinquecento, Frankfurt am Main 1955.
133
80
inscrive non solo nella stessa formazione umanistica di Castiglione, ma anche nel suo
forte avvicinamento alla Chiesa per il suo status finale di ecclesiastico e di diplomatico
al servizio di questa.137 Sull’importanza dei referenti biografici nella determinazione di
questa svolta concorda anche la Carella che menziona come già determinanti gli
incarichi politici e diplomatici di maggiore responsabilità assunti da Castiglione al
servizio del duca di Mantova, Federico Gonzaga.138
Se vogliamo esaminare più nel dettaglio il percorso dell’argomentazione sulla
bellezza nei brani della prima e seconda redazione del Cortegiano, vedremo che nel
Libro IV della prima stesura ci si concentra innanzitutto sul mito di Elena che il
difensore delle donne, Camillo Paleotto, utilizza per dimostrare la superiorità della
bellezza, in quanto nella contesa fra le tre dee il dono di Elena di Troia risulta vincente
su tutti gli altri e, se non si può non ammettere che la guerra sia portatrice di danni,
secondo la confutazione di Fregoso, tuttavia è a favore della bellezza il riconoscerla
come movente di processi di così grande portata (1 IV,.52).
Segue poi il riferimento diretto, se pur breve, alla concezione neoplatonica della
bellezza
Ma lassando le favole, dicesi che in Dio è la bontà come centro e la bellezza come circulo; e
perché non pò essere circulo senza centro, non pò essere bellezza senza bontà. Dicesi ancor che la
bellezza si è la superficie de la bontà; e veramente è un raggio de divinitate, el quale benché dia tanta
grazia alli corpi e resulti dalla proporzione de’ membri e da una certa iocunda concordia de colori
distinti et aiutati dai lumi e da le umbre e da una ordinata distanzia e termini de linee, nientedimeno è
cosa incorporea. Ma sì come el sole, el qualle illumina ogni cosa, se percote in un vaso d’oro terso e
polito o vero in una gioia fina, ivi per la repercussione dimostra i raggi suoi bellissimi e splendenti
molto più che percotendo in un legno o in terra, così questo divino raggio, benché universalmente si
spanda sopra tutte le cose create, quando trova un volto ben misurato e atto a ricevere el suo lume,
molto meglio in quello se dimostra et a sé lo fa simile, che non in un brutto, el quale per la deformità
sua non è atto a ricevere quel splendore divino di belleza. Però li brutti per il più sonno ancor mali e
li belli boni, perché derivando quella bellezza da Dio, forza è che abbia seco parte di bontà. (1 IV,
53)
Dalla presentazione ficiniana di Dio come unione indissolubile di bontà e
bellezza discende che atta a riflettere il suo divino raggio e ad essere particolarmente
investita della sua bontà sia appunto la bellezza. La dimostrazione si avvale del sapere
geometrico, matematico, e fisico, delle proporzioni e dell’armonia e sfumatura dei
colori, e assume dalle diverse discipline del sapere e dell’arte quanto serve alla
definizione delle categorie del bello cui fanno riferimento le parole–chiave di grazia,
proporzione, misura, concordia e ordine, parametri questi che resteranno fondamentali
nella cultura di Castiglione come in tutta la civiltà rinascimentale, e che rivelano già nel
Cortegiano della prima stesura il loro radicamento nell’autore (1 IV, 53). Un
radicamento che si coglie anche nella conservazione sostanziale del passo nell’ultima
redazione, pur all’interno di un’articolazione più ampia e filosofica e più attenta alle
componenti spirituali.139
137
G. Ghinassi, Fasi dell’elaborazione del «Cortegiano», cit., p.176 e 181.
A.Carella, Il libro del cortegiano di Baldassarre Castiglione, cit., p.1110.
139
«[...] da Dio nasce la bellezza ed è come circulo, di cui la bontà è il centro; e però come non po
essere circulo senza centro, non po esser bellezza senza bontà; onde rare volte mala anima abita bel corpo
e perciò la bellezza estrinseca è vero segno della bontà intrinseca e nei corpi è impressa quella grazia più
e meno, quasi per un carattere dell’anima, per il quale essa estrinsecamente è conosciuta, come negli
alberi, ne’ quali la bellezza de’ fiori fa testimonio della bontà dei frutti» (3 IV, 57). «la bellezza [...] è un
flusso della bontà divina, il quale, benché si spanda sopra tutte le cose create, come il lume del sole, pur
quando trova un volto ben misurato e composto con una certa gioconda concordia di colori distinti ed
aiutati dai lumi e dall’ ombre e da una ordinata distanzia e termini di linee, vi s’infonde e si dimostra
138
81
Nel prosieguo dell’argomentazione vengono toccati i seguenti punti: la bellezza
come «supremo ornamento» di tutto il creato, causa del legame amoroso fra gli esseri
viventi, un amore che «dà gusto di beatitudine et è bono principio di ogni contentezza»,
che è principio vitale dei processi naturali, sociali e civili.
[...] è gran causa di quel dolce legame, che tien uniti di concordia li omini e li animali e quanto
noi vedemo; ché è amore meritamente lodato tanto et adorato al mondo, perché ci dà gusto di
beatitudine et è bono principio d’ogni contentezza: ché dona alla terra i frutti, al mare la tranquillità, al
cielo quel lume vitale, alli animali securissimo riposo, patre de’ piaceri, de le grazie, de l’amicizia, de
la mansuetudine, e benivolenzia, de tutte le delicie e de quelli dolci desiderii, che tanto alli animi
umani son cari, inimico de la rustica ferità e de la ignavia, guida sicurissima e fidata nel faticoso
camino di questa vita e fonte d’ogni bene, onor de li omini e de li Dei. (1 IV, 54)
Non possiamo non rilevare che la definizione di amore sembra accamparsi
specificatamente dentro la sfera etica e civile e assumere una connotazione già qui
fortemente sublimante, su una linea che dall’amor cortese conduce a quello platonico, e
in una forma che anticipa abbastanza da vicino, ma senza le premesse più
dichiaratamente filosofiche, la celebrazione di Amore nella ultima redazione.140
Si aggiunge che la «bellezza estrinseca» è segno della «bontà intrinseca»,
chiamando a sostegno la scienza fisiognomica, e che è una qualità donata maggiormente
alle donne che agli uomini (1 IV, 54) per poter meglio commuovere gli animi di questi
ultimi, più duri ed aspri di quelli delle donne (1 IV, 55), un’affermazione questa in cui è
dato scorgere già l’ambiguità ricorrente nel Cortegiano, per cui, se si riconosce una
superiorità alle donne, la si attenua poi giustificandola in funzione del benessere
maschile. Segue poi una rassegna delle varie forme di bellezza, la descrizione degli
occhi messaggeri d’amore e la discussione sulla segretezza d’amore in termini simili ai
capitoli finali della terza redazione ( 3 IV, 59 e 66-67).
Nei passi della seconda redazione riportati da Ghinassi (2 III, 112-120), il tema
spirituale dell’amor platonico assume maggior spessore per bocca di Bembo: a
differenza dell’amore volgare, l’amore della bellezza celeste, della quale nella bellezza
concreta femminile non c’è che un’ombra, si esprime in forma contemplativa, riceve lo
stimolo dal senso della vista, ma va oltre, percorrendo un’ascesi insieme razionale e
bellissimo» (3 IV, 52). «E quel subietto ove riluce, adorna e illumina d’ una grazia e splendor mirabile, a
guisa di raggio di sole che percuota in un bel vaso d’oro terso e variato di preziose gemme, onde
piacevolmente tira a sé gli occhi umani e per quelli penetrando s’imprime nell’anima, e con una nova
soavità tutta la commove e diletta, ed accendendola, da lei desiderar si fa» (3 IV, 52). «E dir si po che ‘l
bono e ‘l bello a qualche modo siano una medesima cosa, e massimamente nei corpi umani, della bellezza
de’ quali la più propinqua causa estimo io che sia la bellezza dell’anima, che come partecipe di quella
vera bellezza divina, illustra e fa bello ciò che ella tocca, e specialmente se quel corpo ov’ ella abita non è
di così vil materia che ella non possa imprimergli la sua qualità »(3 IV, 59). «[...] prima considerar che ‘l
corpo, ove quella bellezza risplende, non è il fonte ond’ ella nasce, anzi, che la bellezza, per esser cosa
incorporea e, come avemo detto, un raggio divino, perde molto della sua dignità trovandosi congiunta con
quel subietto vile e corruttibile; perché tanto più è perfetta quanto men di lui partecipa, e da quello in tutto
separata è perfettissima» (3 IV, 62).
140
«Qual sarà adunque, o Amor santissimo, lingua mortal che degnamente laudar ti possa? Tu,
bellissimo, bonissimo, sapientissimo, dalla unione della bellezza e bontà e sapienzia divina derivi, e in
quella stai, e a quella per quella come in circulo ritorni. Tu dolcissimo vinculo del mondo, mezzo tra le
cose celesti e le terrene, con benigno temperamento inclini le virtù superne al governo delle inferiori, e
rivolgendo le menti de’ mortali al suo principio, con quello le congiungi. Tu di concordia unisci gli
elementi, movi la natura a produrre, e ciò che nasce alla succession della vita. Tu le cose separate aduni,
alle imperfette dai la perfezione, alle dissimili la similitudine, alle inimiche l’amicizia, alla terra i frutti, al
mar la tranquillità, al cielo il lume vitale. Tu padre sei de’ veri piaceri, delle grazie, della pace, della
mansuetudine e benivolenzia, inimico della rustica ferità, della ignavia, in somma principio e fine d’ ogni
bene» (3 IV, 70).
82
spirituale. Una spiegazione che procede con dovizia di particolari avvalendosi di
richiami ad aspetti fisiologici (gli spiriti, il sangue, gli occhi, i meati inteneriti dal
calore), psicologici (la sazietà che segue al raggiungimento del fine), e filosofici (il
desiderio della bellezza non si può soddisfare col tatto; il senso che consente una
comprensione almeno parziale della bellezza «è la vista, imagine veramente dello
intelletto, perché ci dà cognizione di più cose che alcun delli altri sensi.») e che si
affinerà ulteriormente nell’ultima redazione sia in termini di profondità che di ampiezza
e coesione (la svalutazione del corpo, la gerarchia dei sensi, l’educazione della donna
bella, le tappe del percorso di ascesi fino all’autocontemplazione da parte dell’anima di
sé e infine della bellezza divina).
Contributi interessanti sul processo di stratificazione del testo in merito al nostro
assunto e sull’interpretazione che ne può essere autorizzata ci vengono anche dalla
Carella che ritiene che il tema femminile nelle due prime redazioni sia strutturato «su
quel «frammento d’abbozzo» autografo in latino che Guido La Rocca ha ritrovato nella
Collezione Volta di Autografi dell’Archivio di Stato di Mantova – e valutato come «il
vero germe grafico di tutta la celebre opera»141– e su quell’opuscoletto apologetico
contro il Frisio che è la Difesa delle donne».142 Nella terza redazione si precisa, secondo
la Carella, il tema, considerato assente nelle due precedenti stesure (ma noi ne abbiamo
rilevato le velate anticipazioni), «della perfetta donna di palazzo come preliminare alla
corretta impostazione della disputa [...] (e) si prospetta un ideale di perfezione muliebre
raffinato e aristocratico».143 Proprio l’obiettivo di dar forma a questo modello comporta,
a nostro avviso, che il recupero, nella terza redazione, di argomentazioni preesistenti
avvenga in una ottica nuova e che la disputa si concluda più a favore del Magnifico, e
sia più ampiamente trattato il tema dell’amor platonico.
Viene ricordata la sostanziale corrispondenza del discorso filosofico sul
femminile nel rapporto col maschile tra i capitoli XLVII-LIII del libro III della seconda
redazione e i capitoli XII-XVIII della vulgata; della sequenza degli exempla tra i
capitoli LIV-XCI della seconda redazione, pur senza una totale coincidenza, e i capitoli
XIX-L della vulgata; e l’assenza nella seconda redazione della tematica amorosa
mondana e galante trattata nei capitoli LII-LXXVII della vulgata. La progressiva
valorizzazione della donna, nella sua identificazione con la donna di palazzo, si
evidenzia per la Carella anche nel fatto che il «gioco» del «formar con parole» la donna
di palazzo nella ultima redazione viene introdotto nell’ambito dello scenario di
esaltazione della Corte d’Urbino, presentato nella dedica e mancante nella seconda
redazione. Il che fa della donna di palazzo un elemento importante per la grandezza
della corte e contribuisce nel contempo a nobilitarla (p.1108). Quanto all’amore, anche
la Carella, come Ghinassi e Loos, evidenzia la differenza fra la trattazione che se ne fa
nel III libro della vulgata, dove ci si attiene ai connotati di un amore cortese e mondano,
di un intrattenimento galante, e la trattazione filosofica neoplatonica che se ne dà,
tramite Bembo, nel IV libro della vulgata, dove, secondo la critica, si scandisce
un’ascesi mistica non solo a livello dell’argomentazione teorica, ma anche attraverso le
stesse reazioni di altissimo coinvolgimento passionale del relatore e dell’uditorio.
Inoltre, il rilievo della Carella sulla progressione, da una parte, dell’orientamento
filogino perché con esso si chiude la controversia sulle donne del libro III della vulgata,
a differenza della mancanza di soluzione della seconda redazione, e sulla sua
limitazione, dall’altra, per la scelta di lasciare irrisolta nel dialogo la questione
141
Si tratta del manoscritto A del fascicolo 292. Cfr. G. La Rocca, Un taccuino autografo per il
«Cortegiano», cit., pp. 341-373; la citazione è a p. 348.
142
A. Carella, Il libro del Cortegiano di Baldassarre Castiglione, cit., p.1093.
143
Ivi, p.1107.
83
concernente la capacità eventuale delle donne di nutrire un amore divino, conferma il
nostro giudizio sui limiti della filoginia di Castiglione: il nostro autore infatti tenta un
avvicinamento progressivo ai diritti della donna, ma non riesce a risolvere un’ambiguità
sostanziale, di farlo assumendo in modo definitivo la piena emancipazione della donna,
per cui sposta semplicemente in avanti i termini dell’incertezza.
Ci suggerisce ancora qualche interessante spunto sull’evoluzione del tema
femminile e dell’amore, attraverso il confronto fra la seconda e l’ultima redazione e
l’attenzione a dati biografici, Claudio Scarpati,144 un altro studioso attento del III libro
del Cortegiano, che coglie con singolare finezza nella comunicazione il nucleo
ispiratore di tutta l’opera e ne segue l’identificazione progressiva nelle diverse parti del
trattato.145 Interessante innanzitutto l’ipotesi che la maturazione della linea filogina di
Castiglione sia anche il frutto dell’esperienza felice del matrimonio con donna
Ippolita.146 È da condividere inoltre l’osservazione di Scarpati secondo cui
l’anticipazione nella vulgata delle storie tragiche di Camma e Filippa (poi sostituita da
quella moderna di Argentina), poste nella seconda redazione alla fine degli esempi
antichi e moderni, è finalizzata a dare maggior rilievo alla dignità della donna, capace di
un amore tanto intenso da perdere per esso la vita; intenzione quest’ultima dimostrata
anche dal fatto che il dittico tragico di Camma e Argentina viene inserito dove è stato
espunto, nella seconda parte del capitolo 60 della seconda redazione, «un passo bassomimetico». Castiglione insomma conduce qui una revisione del testo in funzione del
raggiungimento di un livello alto che esclude «toni e modi di commedia»,147 una linea
peraltro, secondo Scarpati, perseguita in generale nel passaggio dalla seconda redazione
alla vulgata, perché vengono espunte dalla seconda redazione espressioni giudicate
troppo leggere, e concernenti la funzione ornamentale della donna o richiamanti i tratti
di una letteratura mezzana, ispirata al modello boccacciano, che, ancora molto presente
nella seconda redazione, è superato poi dall’intenzione più propositiva che descrittiva
della terza redazione.
Inoltre la sostituzione di un passo caratterizzato dal registro cavalleresco di
giostre e tornei, in cui, secondo il nostro parere, il coraggio si esibisce soprattutto nella
dimensione dello spettacolo, con quello epico della guerra di Troia e della riconquista
spagnola, anticipato rispetto alla posizione occupata nella seconda redazione (2 III, 93),
e la conservazione di tre elementi, la danza, la musica, la poesia, pertinenti alla
formazione cortigiana più che cortese, comprovano, secondo Scarpati, il percorso di
allontanamento dalla professione delle armi (anche se lo sfondo epico le conserva
grandezza, e, noi aggiungiamo, lo giustifica nell’azione profondamente motivata e
rischiosa e non solo esibita), verso una qualifica del cortigiano come più strettamente
relazionale e diplomatica, e quindi legata alle virtù sociali cortesi-cortigiane e al sapere
e alla eloquenza piuttosto che all’abilità física e al coraggio guerriero, una qualifica che
si chiarirà e nobiliterà particolarmente nel libro IV della vulgata, nell’assegnare al
cortigiano il ruolo di istitutore–consigliere del principe. All’interno del medesimo passo
Scarpati coglie poi il senso di un’operazione culturale antiarcadia nella soppressione
144
Claudio Scarpati, Osservazioni sul terzo libro del «Cortegiano», cit., pp.519-537.
La comunicazione sarebbe l’assunto informatore sia dell’educazione del cortigiano che della
cortigiana chiamati a una vita pubblica e a interagire col loro gruppo sociale secondo regole condivise, e
naturalmente col principe nella forma della comunicazione diplomatica, peraltro fondamentale anche
nelle altre relazioni sociali, e lo stesso amore platonico si presenterebbe come una forma di
comunicazione con l’assoluto. Funzionali alla comunicazione sarebbero tutti i valori riscontrabili in
questa società, dalla grazia alla sprezzatura.
146
Vedi citazione riportata nel paragrafo relativo al rapporto di Castiglione con la moglie. (7.3) (C.
Scarpati, Osservazioni sul terzo libro del Cortegiano, cit., p.520)
147
Ivi, p. 529.
145
84
della citazione di Sannazaro e di Tebaldeo in direzione di un consenso con la posizione
bembesca degli Asolani; inoltre la concentrazione su Petrarca come soggetto sufficiente
a riabilitare la poesia amorosa consente, secondo il critico, l’abolizione di tanti nomi di
intellettuali cortigiani, forse prima citati con l’intenzione di creare un canone di letterati
contemporanei.148 Motiverebbe tale eliminazione anche la volontà di universalizzare
l’opera liberandola dalle marche del contingente. Tali rilievi critici, anche se non
sembrano concernere direttamente e strettamente il tema femminile, lo coinvolgono
comunque nell’economia complessiva dell’opera e ci è sembrato perciò pertinente e
utile menzionarli.
Anche lo spostamento ad altro contesto nella vulgata (3 IV, 4) del passo della
seconda redazione in cui Gaspare Pallavicino evidenzia i danni del seme di pazzia
dell’amore nei giovani, in quanto portati da questo ad attività imbelli e a vanità (2 III,
87), è significativo, secondo Scarpati, perché l’argomento non è più trattato da un
detrattore, ma da Ottaviano che trasforma la condanna in denuncia di un rischio,
giustificando i modi cortigiani all’interno dell’alta funzione politica assegnata al
cortigiano. «Il ‘fiore’ della ‘cortigiania’, così commenta Scarpati, non può essere
assolutizzato, ma posto al servizio del ‘frutto’ che deve produrre, quello di porre l’uomo
di cultura come suggeritore di saggezza di fianco all’uomo di governo».149 L’amore
quindi resta un valore fondamentale per l’acquisizione della saggezza, per la
sublimazione morale e intellettuale innanzitutto del cortigiano e, data la sua alta
funzione politica, indirettamente per lo stesso principe e la società tutta. E non per
niente il trattato si concluderà proprio concentrandosi sulla tematica dell’amore, di un
amore che nella pratica cortigiana trova solo uno stimolo per innalzarsi verso la
contemplazione della bellezza e bontà divina: si passa così dall’educazione del principe
ad opera del cortigiano all’elevazione del cortigiano ad opera dell’amore, per una
giustificazione filosofico-religiosa del suo ruolo.
Sulle differenze tra la seconda e la terza redazione possiamo aggiungere anche le
annotazioni riassuntive di Motta che giudica il terzo e ultimo libro della seconda
redazione come un miscuglio disordinato di temi cavallereschi la cui disposizione è la
seguente:
Capp. 1-3, proemio; capp. 4-43, i rapporti tra il cortigiano e il principe; capp. 44-128, la
´battaglia` sulle donne (in tre arcate: le argomentazioni sull’imperfezione e incontinenza femminile,
contrapposte non solo alle voci dei poeti ma anche agli esempi antichi e moderni di donne prudenti; il
tema della bellezza; l’analisi della fenomenologia amorosa, terrena e divina, per mostrare ‘come deve
amare l’uomo di corte’); cap. 129, conclusione.150
Nella terza redazione, invece, una volta separati il terzo libro relativo al tema
femminile e il quarto, concentrato sulla institutio principis e sull’amor platonico,
all’interno del terzo libro risultano rilevanti, secondo Motta, la soppressione della
trattazione dettagliata sull’insegnamento ad amare impartito al cortigiano (3 D’’ III, 9294), la eliminazione degli eccessi della disputa sulle donne, la celebrazione della dignità
della donna di palazzo cui si assegna una modalità di vita analoga a quella maschile, e
insomma l’abbandono della prospettiva della disputa per quella della educazione (3 III,
148
Nella terza redazione non sono più citati nomi di cortigiani, ma si accenna solo a nobili ingegni
della corte d’Urbino: «Non vi nomino i chiari ingegni che sono ora al mondo, e qui presenti, che ogni dí
parturiscono qualche nobil frutto, e pur pigliano subietto solamente dalle bellezze e virtù delle donne»
.(C: III, 52)
149
C. Scarpati, Osservazioni sul terzo libro del Cortegiano, cit., p. 535 e pp. 531-535
150
Uberto Motta, Castiglione e il mito di Urbino. Studi sull’elaborazione del « Cortegiano, cit.,
p.11.
85
4-11; 52-60) e modellizzazione con recupero degli exempla (3 III, 19-51), nonché la
risistemazione del tema dell’amore a corte (3 III, 61-75); e nel quarto libro si coglie
l’apice del processo di sublimazione complessiva della cortigiania poiché vi si esplicita
il fine più alto del cortigiano e vi si celebra l’amor platonico come strumento
fondamentale dell’elevazione intellettuale e spirituale del cortigiano.
Un confronto minuzioso tra le diverse stesure, compresa la Lettera al Frisia è
stato condotto da Quondam in «Questo povero Cortegiano», Castiglione, il Libro, la
Storia, con attenzione alle modificazioni delle macro e microstrutture, dei montaggi,
alle minime trasformazioni semantiche. Riutilizziamo una differenza testuale rilevata da
Quondam per una nostra annotazione: si tratta della seguente battuta presente nella
seconda redazione: «Anzi -rispose el signor Ottaviano- molto più sono al proposito che
‘l parlar di donne, che non hanno una convenienza al mundo con le condizioni che avere
deve el corteggiano» che viene così trasformata nella terza stesura: «Anzi -disse il
signor Gasparo- e questo e molte altre cose son più al proposito ch’el formar questa
donna di palazzo, atteso che le medesime regule che son date per lo cortegiano, servono
anchor alla donna, perché così deve ella haver rispetto ai tempi et lochi et osservar, per
quanto importa la sua imbecillità, tutti quegli altri modi di che tanto s’è ragionato, come
il cortigiano» (Ad III 4).151 A noi sembra il segno di un processo di riconoscimento in
nuce delle doti delle donne di palazzo, perché, seppure si nega loro il diritto a un
discorso proprio e separato, si ammette che hanno convenienza con la cortigianía, il che
rientrerebbe appieno in quel processo di chiarificazione dell’assunto donna come donna
di palazzo. Quondam rileva inoltre, come elementi di differenziazione tra la seconda e
la terza redazione, il riordino organico e coerente degli exempla e il superamento della
battaglia /lite, riecheggiante nelle forme e nel lessico i modi della tradizione cortese, per
un passaggio verso la disputa più propriamente cortigiana.
Decisiva, nella ristrutturazione del nuovo terzo libro, è la riscrittura radicale, anzi la
cancellazione, di quella battaglia /lite sulla donna che costituiva l’elemento di continuità strutturale e
argomentativa del vecchio terzo libro: per diretta conseguenza, ora, della ritrovata centralità
prospettica della donna di palazzo.
Di questa cancellazione è vistoso emblema la stessa scomparsa dal lessico del Libro del
Cortegiano delle due parole: tutt’e otto le occorrenze di battaglia ( in questo contesto, ovviamente),
nonché tutt’ e cinque quelle di lite, che scandivano e connotavano la sequenza dialogica del terzo
libro di SR sono infatti eliminate dal testo definitivo.152
Infine ci permettiamo di dire una parola più nostra, evidenziando che dalla
lettura integrale del Libro terzo della seconda redazione si evince, oltre alla mescolanza
delle tematiche del femminile, del politico e dell’amore platonico, una maggiore
presenza di battute salaci e piccanti nei confronti delle donne. Se la prima battuta della
seconda redazione riportata trova un perfetto riscontro nella terza stesura, la seconda ci
sembra compaia solo nella seconda redazione.153
1º) Ma quello che più piaceria alle donne per far gli figliuoli ben disposti e belli, secondo me
saria quella comunità che di esse vuole Platone nella sua Republica e di quel modo. ( 2 III, 29)154
151
A. Quondam, «Questo povero cortigiano», cit., p.172.
Ivi, p. 175.
153
Incide probabilmente su questo anche lo sviluppo che ivi ha il tema del matrimonio cui è
collegata.
154
Battuta che peraltro è pienamente accetta nell’ambiente, perché la signora Emilia reagisce
ridendo: «Allor la signora madonna Emilia ridendo: «Non è ne’ patti[...] che siate dui a dir mal delle
donne» (2 III, 29)
152
86
1º) Rispose il signor Gaspar: Quello che più piacería alle donne per far i figlioli ben disposti e
belli, secondo me, saría quella comunitá che d’esse vol Platone nella sua Republica, e di quel modo.Allora la signora Emilia ridendo, Non è ne’patti, disse, che ritorniate a dir mal delle donne.- ( 3 IV,
30)
2º) «Voi ve ne ingannate», rispose il Frisio «ché se ‘l divorzio far si potesse, vorriano le donne
ogni dì mutar cibo, e non solamente non temeriano, ma bramariano questo così fatto gastigo, e
cercariano con offender gli mariti dargli continuamente causa del divorzio». (2 III, 93)
Così pure, a nostro parere, viene dato uno spazio leggermente maggiore nella
seconda redazione alle forme convenzionali della relazione cortigiana rispetto ai
contenuti dei discorsi, e a un formulario ancora spiccatamente cortese in rapporto alla
disputa tra i cortigiani, come se si trattasse di un duello fra cavalieri, formulario che del
resto ritroviamo anche nella terza redazione, ma, come dicevamo, un poco più
contenuto. E su questo ci sembra di concordare con l’osservazione prima citata di
Quondam.
«Voi sète molto bravo» rispose ridendo messer Cammillo «ma forse vi mancheranno le parole,
quando più ne arete bisogno». «Alle mani» disse il Frisio. (2 III, 43)
Allor el Frisio, voltatosi a messer Cammillo e quasi con faccia di voler combattere: «A noi
tocca» disse «la battaglia; venite adunque animosamente al campo ch’io vi aspetto» (2 III, 43)
Da poi che così ebbe detto la signora madonna Emilia, suggiunse la signora Duchessa: «Orsù
veggiam questa battaglia». Rispose el Frisio: «Da me non manca». Allora messer Cammillo: «Io
sono» disse «il difenditore». «Difendete adunque» rispose el Frisio [...] (2 , III, 44)
Allor, Non vi verrà fatto, rispose la signora Emilia; che, poiché avete veduto messer Bernardo
stanco del lungo ragionare, avete cominciato a dir tanto mal delle donne, con opinione di non avere
chi vi contradica; ma noi metteremo in campo un cavalier più fresco, che combatterà con voi, acciò
che l’error vostro non sia cosí lungamente impunito.- Cosí, rivoltandosi al Magnifico Juliano [...] ( 3
II,97)
La nomenclatura antica, gli eccessi più piccanti che galanti, il vuoto interloquire
saranno poi espunti o contenuti nella redazione definitiva in vista del raggiungimento di
un habitus insieme più civile, morigerato e moderno, secondo i criteri della misura,
dell’equilibrio e del decoro, oltre che di un fluire dialogico.
Rispetto alla redazione finale gli interventi di Emilia Pio sono più numerosi
all’inizio e alla fine, mentre si conservano eguali nel corso della disputa l’infastidito
intervento antifilosofico (2 III, 52; 3 III, 17), il battibecco sui frati (2 III, 55; 3 III, 20), e
quello con l’Aretino sull’amore (2 III, 101,102,103; 3 III, 61,62,63). Emilia Pio dunque
è già pienamente caratterizzata. Anche la duchessa è già calata nel ruolo di mediatrice
tra il potere maschile e la sua natura femminile, ma il primo sembra prevalere sul
secondo: vedi il suo offrirsi come giudice (2 III, 4), la perorazione a favore della
clemenza come forma più alta di giustizia (2 III, 128), la scelta democratica, anche se in
chiave pilatesca, di demandare il giudizio al pubblico (2 III, 129). Nella redazione
finale, a nostro parere, i due aspetti sono meglio collegati e il primo contiene in modo
più equilibrato il secondo. Si rilevano anche interventi minimi di dame di palazzo meno
importanti come Margherita Gonzaga e Constanza Fregosa.
Quanto alla enucleazione del tema della donna di palazzo, esso compare solo
nell’ultima parte e resta ancora in nuce, perché della donna di palazzo non vengono
indicate le qualità specifiche dell’intrattenimento che saranno, appunto, il principale
elemento differenziale, come vedremo, rispetto alla rappresentazione delle qualità e dei
87
diritti della donna nella tradizione filogina e il maggior punto di rottura rispetto alla
tradizione misogina.
Soggionse il Magnifico Iuliano: «Molto meglio sarà, secondo che si è raggionato in generale che
condizioni debba aver il corteggiano perfetto, così formare una donna di palazzo perfetta, a cui non
manchi cosa alcuna; perché invero estimo che esse abbiano così bisogno di ammaestramento come
gli uomini; et essendo tanto difficile e forsi tanto laudevole trovar una donna perfetta corteggiana
quanto un uomo, non serà men bello imaginarsi questo e raggionare di quel modo che ha fatto il
conte Ludovico e messer Federico del corteggiano». (2 III, 124)
Dunque il tema della donna di palazzo viene introdotto in dipendenza dal tema
del cortigiano, e il Magnifico intende crearne un modello pedagogico e parenetico
connotato da qualità spiccatamente femminili come la tenerezza molle e delicata, la
dolcezza, la compostezza. La donna di palazzo dovrà saper suscitare rispetto e stima,
sapere che cosa le dà grazia, visti i tipi diversi di bellezza, ed essere discreta e rifuggire
dall’affettazione, anche se queste ultime due doti non sono indicate dal Magnifico, ma
da messer Federico che ritiene inutile parlare della donna di palazzo, in quanto essa
deve soggiacere alle stesse regole del cortigiano. Ma gli accenni finiscono qui e del
ruolo centrale dell’intrattenimento, come dicevamo, non si parla ancora. Si lascia solo
intendere che la valorizzazione della donna poggerà sulla valorizzazione dello specifico
femminile. Anche questo sarà un aspetto sviluppato nell’ultima stesura, al punto da
invadere anche l’universo maschile coinvolgendolo in un processo di
femminilizzazione.
In conclusione, a nostro parere, il percorso di confronto tra le diverse redazioni
mette in luce come buona parte del testo sul tema femminile venga sostanzialmente
conservato, negli argomenti a favore come nelle ambiguità, fin dalla prima redazione,
anzi fin dalla Lettera al Frisia, anche se in forma rimaneggiata con ampliamenti, tagli e
montaggi diversi in seguito al suo riorientamento sul tema cortigiano, via via
qualificato, nobilitato e universalizzato. Si potrebbe dire che la trattazione del tema
femminile e quindi anche della bellezza e dell’amore si è sviluppata ed evoluta in
consonanza con lo sviluppo e la maturazione del modello di cortigiano, nella
rappresentazione complessiva di una ideale società cortigiana, quale è quella prefigurata
dal ritratto di pittura della corte di Urbino. In consonanza con questo, l’introduzione del
tema platonico, solo accennato nella prima redazione, e successivamente il suo sviluppo
nella seconda e la sua dislocazione all’apice del trattato nella terza ed ultima sembra
esserne il segno più evidente.
Per contestualizzare meglio la stratificazione progressiva del testo in relazione al
tema della donna e dell’amore all’interno della modificazione e chiarificazione del
disegno complessivo dell’opera, giova ricordare le puntualizzazioni in merito a
quest’ultimo formulate da Motta. Secondo il critico, l’universalizzazione del modello
comporta la rielaborazione dell’esperienza personale alla corte di Urbino che nella
prima redazione veniva riproposta nell’ottica del racconto nostalgico dell’esperienza
passata e della propria attività di cortigiano, e la sua elevazione ad exemplum, a
conservazione della cultura rinascimentale elaborata nelle corti italiane e a riscatto sul
piano culturale e civile dell’Italia decaduta politicamente e militarmente, come già
aveva rilevato Quondam.155 L’intendimento costruttivo poi di proporre un modello
155
«dare una forma italiana (perché consapevolmente migliore rispetto a tutte le altre) a questa
Europa che pure la soggioga, risarcire sul piano della cultura l’irrimediabile servitù política e
istituzionale» ( in Quondam, «Questo povero cortigiano», cit., p. 387); osservazione questa che poggia
sul presupposto individuato da Motta della virtù come variabile indipendente rispetto alla «potentia»
effettuale (U. Motta, Castiglione e il mito di Urbino, cit., p. 16).
88
virtuoso induceva Castiglione a evitare la linea prevalente della letteratura di denuncia
critica della corruzione morale e intellettuale dominante nelle corti, e, prioritariamente,
la valorizzazione del modello umano del cortigiano, storicamente contestualizzato nel
mondo contemporaneo, spingeva Castiglione a difendere le novità sulla base di
un’ideologia che, se valorizzava l’antico, non disconosceva l’importanza e la
attendibilità del nuovo, data la consapevolezza della relatività dei costumi e delle
ideologie nel tempo come nello spazio.156
Castiglione dimostra la crescente determinazione a trasformare nel Libro una esperienza storica
concreta (la corte di Urbino) in una dimensione modellizzante, in grado di trasmettere informazioni
valide ovunque, nel tempo. Con la consapevolezza che il mondo stava cambiando (tra Roma, Parigi e
Madrid), lo scrittore intuì la necessità di salvaguardare i valori dell’originaria esperienza culturale
che era maturata nel sistema delle corti italiane (tra Ferrara e Mantova, Milano e Urbino), e , affinché
non andassero perduti, egli innestò sul «ritratto di pittura» della corte feltresca (il primo Cortegiano:
triste racconto di una stagione passata e cronaca delle sue performances mondane) una enunciazione
organica e forte delle competenze etiche e culturali del moderno gentiluomo, riconoscibili in tutta
Europa. Baldassarre sapeva di avere alle spalle una almeno secolare letteratura incline a rimarcare la
corruzione, la degenerazione morale e intellettuale imperanti nelle corti; tuttavia, compresa la futilità
di compiangere l’inevitabile, come gli occorse di rimarcare nel proemio del definitivo secondo libro,
decise di adottare una strategia propositiva, incardinata sui valori della grazia e della sprezzatura. Di
stesura in stesura la corte di uno dei più piccoli e instabili stati italiani, sfumandone i contorni
caratterizzanti, diventava exemplum verosimile e emblema universale dell’umana perfezione.157
Naturalmente quanto concerne la novità del modello umano e la sua
valorizzazione finisce col proiettarsi dal maschile sul femminile, con l’assumere il
femminile all’interno di una dimensione più mondana, privilegiata e nobilitata, anche
se senza fargli perdere mai del tutto la sua funzionalità alla piena realizzazione del
modello maschile. Con questo si ribadisce che l’emancipazione del femminile si
sviluppa in conseguenza della modificazione del modello maschile, non lo determina,
ma ne è determinato, sebbene nel concreto sia chiamato a contribuire alla realizzazione
di quest’ultimo, e ancora una volta sotto la linea filogina si coglie il consueto peccato
d’origine dell’ incapacità di proporre il femminile come variabile indipendente rispetto
al maschile nelle doti e nelle funzioni, nonché la persistenza di una subalternità che
nell’impianto teorico svela le incidenze culturali e sociali.
Il nostro giudizio limitativo rispetto alla posizione filogina di Castiglione è però
meno perentorio di quello di Guidi nel saggio De l’amour courtois à l’amour sacré
dove conduce un’attenta disamina sulla condizione della donna nel Castiglione, nel
processo di stratificazione del testo e con attenzione alle variazioni del contesto storicobiografico. La morte del papa Leone X segna la fine di un’epoca di epicureismo e
mecenatismo papale e si cominciano a profilare i tempi più severi della Controriforma.
Castiglione, fin dall’inizio più morigerato del modello boccaccesco, se sembra
comprendere nella seconda redazione, senza tuttavia ammetterlo, l’opportunità del
divorzio, diviene nella ultima redazione sostenitore deciso del matrimonio, al punto da
negare anche l’adulterio concesso dall’amor cortese.
De même que, sur le point de l’adultère, le propos de Julien de Médicis est d’une parfaite netteté:
interdiction est faite aux femmes mariées – en contradiction formelle avec le premier principe de
156
«Non è senza motivo che il primo Cortegiano cominciasse sradicando dal campo della
mutabilità e varietà ogni accezione negativa: l’intento, come si noterà, rimase attivo lungo l’esteso arco
elaborativo del testo, per essere ripreso e scandito come leit-motiv in più di una porzione della vulgata.
Per esso transitava la legittimazione degli abiti (sociali, etici e culturali) dei moderni, fra cui, appunto, la
nuova arte della cortigiania», (Ivi, p. 43)
157
Ivi, pp.15-16.
89
l’amour courtois- de participer à un jeu galant qui ne peut manquer de ternir leur réputation. Et, en
dépit des protestations que cette prescription ne manque pas de soulever, le meneur de jeu se montre
intraitable en la matière, allant de surcroît jusqu’à imposer aux non mariées de réserver leurs faveurs
à des prétendants susceptibles de convoler en justes noces avec elles. De telles restrictions -absentes
lors des précédentes rédactions- témoignent d’un sensible renforcement du noeud matrimonial, sinon
dans l’idéologie de cour tout entière, du moins dans la vision que nous en offre pour sa part
Castiglione. L’argument religieux -auquel avait eu recours en la matière un Leon Battista Albertin’est certes pas invoqué, mais il n’est pas impossible de voir se profiler, en ce jeu d’interdictions
nettement signifiées, les premiers signes d’un nouveau rigorisme, lui-même lié au double
renforcement des contraintes aristocratiques et cléricales qui commencant à peser sur la société du
Courtisan.158
Le deboli correzioni a questo interdetto riguardano la possibilità di donare
l’anima all’innamorato, senza però dichiararlo apertamente. Il tentativo di superare le
contraddizioni si espliciterà nella dottrina neoplatonica, anch’essa però non esente da
ambiguità. Lo stesso spazio pubblico concesso alla donna prevede una quantità di
limitazioni e cautele che ne imbrigliano la libertà come nel privato.
Attitudine tipica di Castiglione sarebbe, secondo Guidi, l’essere diviso tra un
immobilismo sociale cui è profondamente attaccato e velleità di riforma cui non sa
portare che risposte evasive o dilatorie.159
La dame de cour devient peu à peu ce témoin rituel et muet qui préside certes, à la conversation,
et en ordonne, en denière instance, le déroulement, mais de façon purement formelle, et en ne prenant
part que fort rarement à la discussion. Sa marge de liberté, tout compte fait, semble bien s’ être
encore réduite. Tou au plus peut-on noter, dans la second rédaction, et en raison de la nouvelle visée,
profondément modifiée, de l’auteur du traité, un certain élargissement des perspectives: des
représentantes des autres couches sociales commencent à faire leur entrée –fort timidement toutefois,
et en fonction le plus souvent de faire-valoir - dans les préoccupations de la haute société
aristocratique, tandis que toute possibilité de s’affranchir des liens du mariage n’est pas ecartée. Ce
ne seront là toutefois que velléités non suivies d’effet, ainsi que la dernière rédaction peut le
confirmer. Le jeu de cour s’est de plus en plus nettement codifié, comme en témoigne l’ensemble de
prescriptions fort contraignantes auxquelles la dame de cour doit se soumettre. Et se possibilités
d’émancipation ont encore diminué: nulle liberté ne lui est plus concédée en dehors des liens du
mariage, et ces liens eux-mêmes se sont ancore renforcés, dans une perspective moraliste plus
prononcée. Le propos néo-platonicien viendra à point nommé éluder les contradictions ainsi
suscitées entre rigueur matrimoniale et jeu amoureux, sans bien entendu les résoudre. Nulle mesure
concrete visant à remédier à la situation d’infériorité juridique et culturelle de la femme, pourtant à
maintes reprises soulignée, ne se trouve véritablement proposée, sinon sous la forme d’un idéale
éducatif fort abstrait. Tel est le «féminisme» de Castiglione, qui n’est d’ailleurs pas sans rencontrer,
dans le milieu de cour lui-même, une vive résistance, ainsi que le débat acharné mené sur ce point
peut en témoigner: un discours humaniste témoignant certes d’une appréciation nouvelle des choses,
mais en grande partie figé, et ne se souciant guère d’inscrire ses conclusions dans la réalité; de sorte
que le propos finit par déboucher sur une philosophie évasive, conferant certes de façon toute
immatérielle à la femme une nouvelle dignité, mais laissant son statut juridique et social
rigoureusement inchangé. Plus que les convictions intimes de Castiglione ont au demeurant sans
doute pesé, dans les remaniements successifs qui sont venus affecter son oeuvre des motifs
d’opportunité: la réévaluation de la condition féminine, idéalement postulée, aura cédé le pas en
definitive aux nécessités de la défense d’une caste aristocratique de plus en plus étroitement refermée
sur elle-même, et dont la religiosité, pour des raisons qui sont loin d’être désintéressées, s’est
accentuée. Sous le dehors brillants du monde courtisan, les signes sont déjà décelables d’un nouveau
rigorisme moral que les mutations politiques et sociales qui sont en train de se réaliser vont bientôt
précipiter.160
158
José Guidi, De l’amour courtois à l’amour sacré, cit., p. 70.
«Attitude typique, là encore, de Castiglione, sans cesse partagé entre un immobilisme social
auquel il est profondément attaché et des velléités de réforme auxquelles il ne sait apporter que des
réponses évasives ou dilatoires.» in José Guidi, De l’amour courtois à l’amour sacré, cit., p. 59.
160
Ivi, pp. 79-80.
159
90
Le concessioni filogine sono per questo studioso enunciazioni di principio,
buone intenzioni astratte, che non trovano un riscontro nella realtà e che sono inibite
dalle stesse norme che le regolamentano. Certe aperture della seconda redazione
scompaiono poi nella redazione definitiva in concomitanza con il maggiore rigorismo
dei tempi. L’emancipazione della donna, per quanto limitata, resta, secondo Guidi, una
enunciazione velleitaria.
Noi, pur concordando nel riscontro di un atteggiamento ‘sessuofobico’ di
facciata, sulla cui perentorietà nutriamo tuttavia delle riserve, e della normativa
limitante, nonché sull’ambiguità di fondo, propendiamo per dare un maggiore peso, di
quanto non faccia Guidi, alle aperture ‘liberali’ di Castiglione.
9.4. La presentazione iniziale della Duchessa e di Emilia Pio nel contesto della
corte nella stratificazione progressiva del testo.
Come già abbiamo accennato, ci sembra opportuno non tralasciare un altro
proficuo confronto fra le diverse stesure, quale ci viene suggerito da Motta, in relazione
alla prima rappresentazione che si fa della signora duchessa e della sua luogotenente e
dama di palazzo per eccellenza, Emilia Pio, nel contesto della corte, lo spazio
privilegiato in cui si dà la ragion d’essere della presenza, dell’agire, e infine della
costruzione del modello ideale della donna di palazzo. Motta, dopo aver riportato la
prima stesura e annotato le varianti successive,161 rileva come la diversificazione
riguardi non tanto i termini dell’elogio della Signora duchessa, già chiari fin dall’inizio
anche per il ruolo altissimo di conduzione dei giochi serali in assenza del marito malato,
ma piuttosto l’inserimento, successivo alla prima redazione, della dama di palazzo,
Emilia Pio (inserimento certamente legato al profilarsi dell’orientamento che focalizza
l’attenzione sulle donne all’interno della corte), e il rapporto tra il prestigio della prima
e quello della seconda, a lei quasi associata per lo status familiare, la collaborazione,162
e per l’esperienza dolorosa della prematura vedovanza e oggetto anch’essa, insieme alla
duchessa, delle frequenti lodi dei cortigiani, tra cui spiccano Bembo, Achillini e lo
stesso Castiglione, anche con l’ecloga Tirsi.163 Per cui, proprio nel percorso delle
diverse fasi interne alla seconda redazione, si nota nella prima l’assenza della menzione
di Emilia Pio, nella seconda una celebrazione ampia e dettagliata della stessa e nella
terza un suo ridimensionamento, con una riduzione dello spazio a lei riservato e delle
lodi.
Dove anchor continuamente [>sempre] ritrovavassi la signora madonna Emilia Pia, la quale, per
essere dotata di così vivo ingegno e iudicio, come sapete, tanto discretamente ogni suo costume, atti,
parole di gratiosa maniera adornava, che se tutti li homini e donne di quella compagnia, sì come
161
U. Motta, Castiglione e il mito di Urbino, cit., pp.127-134.
In una lettera scritta presumibilmente da Urbino alla madre, datata il 19 novembre del 1509,
riportata da Serassi in Il libro del Cortegiano del conte Baldessar Castiglione colla vita di lui scritta dal
Sig. Abate Pierantonio Serassi, cit., a pag. XV, Castiglione le chiederà di ringraziare insieme la duchessa
ed Emilia Pio per averlo assistito amorevolmente in occasione di un’infermità: « Parrebbemi conveniente
che la Magnificenza V. rendesse infinite grazie alla Sig. Duchessa delle infinite dimostrazioni, che S.Ecc.
nella mia malattia ha fatte, che certo sono state assai; e ‘l medesimo alla Signora Emilia; che s’io le fossi
stato figliuolo o fratello, non haria potuto farne tante: che li voti fatti per me non saranno satisfatti di quì a
parecchi dì.»
163
Castiglione, Tirsi, XXXV vv.5-8: «Una fra tutte lor vi è dolce e pia,/ che a canto de la dea
sempre si vede:/questa non porta mai seco arme in cacia, / sol col dolce parlar le fiere allacia » in U.
Motta, Castiglione e il mito di Urbino, cit., p.133.
162
91
erano de virtù singularissimi, fossero stati di niun prezzo, solo per la presentia e consortio de la
signora madonna Emilia sariano potuto essere illustrati. E da lei sola [cancellato] ricevere gratia,
gentillezza, modestia, piacevolezza, senno, valore e ogni virtù. Quivi adonque li soavi ragionamenti e
l’honeste facetie si sentivano. [seconda fase: Vat. Lat. 8204, f. 17r-v, stadio ȕ ( prodotto
dall’aggiunta del f.18, recante una integrazione inserita nel testo per mezzo di opportuno segno di
richiamo: B’’, 1515) = Vat.lat. 8205,f. 9v, stadio Į (C’, 1515-’16)]
Dove anchor sempre ritrovavasi la signora madonna Emilia Pia, la quale, per essere dotata de
così vivo ingegno e iudicio, come sapete, parea la maestra de tutti, e che ognuno da lei pigliasse
senno e vallore. Quivi adonque gli soavi ragionamenti e le honeste facetie si udivano. [terza fase :
Vat. Lat. 8205, f.9v. stadio ȕ (prodotto da correzioni disposte nell’interlinea: C’’, 1518-’20)]
Non per niente è stato subito espunto quel «sola» che avrebbe negato queste
virtù alla duchessa e la quasi divina capacità di creare la virtù, attribuita a Emilia Pio nel
primo passo riportato, si è ridotta nel secondo alla dimensione umana
dell’insegnamento, con una trasformazione che si conserva invariata anche nella
vulgata. C’è da dire che Castiglione dovette porsi il problema del rispetto del rapporto
gerarchico, di evitare di trascendere cioè nella celebrazione della dama di palazzo, come
del resto del cortigiano, la gerarchia del potere. Come la dama di palazzo, per quanto
nobilitata, e nobilitata dalla stessa duchessa, doveva permanere in un gradino inferiore,
altrettanto il cortigiano, per quanto nobilitato nel ruolo di istitutore-consigliere del
principe, doveva restare ad esso subalterno. E anche questa attenzione fu riposta da
Castiglione nella revisione del Cortegiano. L’entusiasmo per quel modello umano, ossia
per il cortigiano ideale, non poteva allontanarlo dalla realtà al punto da sovvertirne la
logica di potere e pregiudicarne per l’impostazione eccessivamente utopistica qualsiasi
operatività formativa, né va dimenticato che il tentativo di Castiglione di nobilitare
indirettamente se stesso non poteva nemmeno esporlo troppo ad un’eventuale
malevolenza di principi infastiditi da tanta presunzione, per quanto mitigata dalle
continue lodi ai rappresentanti del potere.
Converrà quindi passare in rassegna le lodi della signora duchessa, per coglierne
la superiorità, anche attraverso un breve confronto fra le stesure.
I 4, prima redazione
Vat. Lat.8204, ff.17r-20v; Vat.lat.8205, ff.9v-11r, stadio Į
Quivi adonque li soavi ragionamenti e l’honeste ] facetie si sentivano, quivi ad ognuno nel viso
dipinta si vedea una ioconda ilarità, talmente che quella casa di certo dir si potea il proprio albergo
della allegria. Né mai credo che in altro loco si gustasse quanta sia la infinita dolcezza che da una
amata e cara compagnia deriva come qui si fece per un tempo; il quale, havendo havuto io anchora
gratia di dispensare in così nobile e degno comertio, reputo veramente che fosse il fiore della vita
mia. E a quella soave [cancellato] memoria mi penserei fare somma ingiuria se più ardissi sperar una
minima scintilla di appiacere che a quegli fosse simele; ché, lasciando quanto honore e grandezza
[cancellato] fosse a ciascuno di noi servire a tal signore, come quello che già di sopra ho detto, parea
che a tutti nascesse nell’animo una fontana di contentezza ogni volta che a conspetto della signora
Duchessa si riducevamo. Questa era una catena che tutti tenea uniti, che mai non [> né mai] fu
concordia de voluntati né [>o] amor cordiale tra fratelli maggior di quello che tra tutti noi [canc.] era,
per il che mai una minima parola despiacevole non fu udita. Il medesimo era tra le donne, con le
quali si havea liberissimo e honestissimo adito, che a ciascuno era lecito parlare, sedere, scherzare e
ridere con chi gli parea; ma tanta era la reverenza che si portava al volere della signora Duchessa che
la mede(si)ma libertà era grandissimo freno. Né tra noi [canc.] era alcuno che non estimasse per il
maggior piacere che al mondo haver potesse il compiacere a lei, e la maggior pena il despiacerle; per
la qual cosa quivi honestissimi costumi erano con grandissima libertà congionti, et erano gli giochi e
risi al suo aspetto conditi, oltre gli argutissimi sali, di una gratiosa e grave maestà; ché quella
modestia e grandezza, che tutti gli atti e le parole e i gesti componea della signora Duchessa,
motteggiando e ridendo ne’ giochi e facetie sempre [cancellato], facea che anchora da chi mai più
veduta non l’ havesse, fosse per grandissima signora conosciuta. E così ne gli circostanti
emanando[> imprimendosi] parea che tutti alla qualità e forma di lei temperasse, onde ciascun questo
92
stile imitar si sforzava, né era chi non ponesse ogni studio per mostrare d’ essere degno di così nobile
compagnia, alla presenza di tanta e così vertuosa signora: le ottime condizioni della quale io per hora
non intendo narrare, non essendo mio proposto, e per essere assai nota al mondo, e molto più ch’ io
non potrei né con lingua né con penna esprimere. E quelle che forsi seriano state alquanto nascose la
fortuna, come admiratrice de così rare vertuti, ha voluto con molte aversità e stimoli de desgratie
scoprire; ché se la sorte non [le] fosse stata tanto contraria in farle perdere [> torle] il stato e le
facultati e gli propii suoi, quali deveano debitamente aiutarla, non l’havessero inimichevolmente
oppressa nelle calamità sue [> e farla opprimere inimichevolmente da quelli che sublevarla
doveano], non si seria conosciuta la prudenza, la grandezza di quell’animo immutabile e
constantissimo a tante procelle di fortuna, che non parea che in muliebre e tenero petto, e in
compagnia di così delicata bellezza, potessero essere queste vertuti, le quali non solo nelle donne, ma
nelli severi huomini sono rarissime.
Ci pare opportuno tralasciare le varianti della seconda stesura, perché minime e
pressoché ininfluenti, e confrontare direttamente la prima redazione con la terza e, per
far cogliere meglio le trasformazioni, riportare innanzitutto il testo della prima stesura,
ponendo tra parentesi quadra e in carattere corsivo quanto nella terza viene espunto; tra
parentesi graffa invece le parti del testo trasformate nella forma, ma non nella sostanza;
e fare seguire poi, per maggiore chiarezza sulle varianti anche minime ortografiche e
lessicali, il testo integrale della terza stesura.
I 4, prima redazione
Quivi adonque li soavi ragionamenti e l’honeste ] facetie si sentivano, quivi ad ognuno nel viso
dipinta si vedea una ioconda ilarità, talmente che quella casa di certo dir si potea il proprio albergo
della allegria. Né mai credo che in altro loco si gustasse quanta sia la infinita dolcezza che da una
amata e cara compagnia deriva come qui si fece per un tempo; [il quale, havendo havuto io anchora
gratia di dispensare in così nobile e degno comertio, reputo veramente che fosse il fiore della vita
mia. E a quella soave [cancellato] memoria mi penserei fare somma ingiuria se più ardissi sperar
una minima scintilla di appiacere che a quegli fosse simele]; ché, lasciando quanto honore e
grandezza [cancellato] fosse a ciascuno di noi servire a tal signore, come quello che già di sopra ho
detto, [parea che] a tutti nascesse nell’animo una fontana di contentezza ogni volta che a conspetto
della signora Duchessa si riducevamo. Questa era una catena che tutti tenea uniti, che mai non [> né
mai] fu concordia de voluntati né [>o] amor cordiale tra fratelli maggior di quello che tra tutti noi
[canc.] era, [per il che mai una minima parola despiacevole non fu udita]. Il medesimo era tra le
donne, con le quali si havea liberissimo e honestissimo adito, che a ciascuno era lecito parlare,
sedere, scherzare e ridere con chi gli parea; ma tanta era la reverenza che si portava al volere della
signora Duchessa che la mede(si)ma libertà era grandissimo freno. Né [tra noi [canc.]] era alcuno che
non estimasse per il maggior piacere che al mondo haver potesse il compiacere a lei, e la maggior
pena il despiacerle; per la qual cosa quivi honestissimi costumi erano con grandissima libertà
congionti, et erano gli giochi e risi al suo aspetto conditi, oltre gli argutissimi sali, di una gratiosa e
grave maestà; ché quella modestia e grandezza, che tutti gli atti e le parole e i gesti componea della
signora Duchessa, motteggiando e ridendo [ne’ giochi e facetie sempre [cancellato]], facea che
anchora da chi mai più veduta non l’ havesse, fosse per grandissima signora conosciuta. E così ne gli
circostanti emanando[> imprimendosi] parea che tutti alla qualità e forma di lei temperasse, onde
ciascun questo stile imitar si sforzava, {né era chi non ponesse ogni studio per mostrare d’ essere
degno di così nobile compagnia, alla presenza di tanta e così vertuosa signora}: le ottime condizioni
della quale io per hora non intendo narrare, non essendo mio proposto, e per essere assai nota al
mondo, e molto più ch’ io non potrei né con lingua né con penna esprimere. E quelle che forsi
seriano state alquanto nascose la fortuna, come admiratrice de così rare vertuti, ha voluto con molte
aversità e stimoli de desgratie scoprire; [ché se la sorte non [le] fosse stata tanto contraria in farle
perdere [> torle] il stato e le facultati e gli propii suoi, quali deveano debitamente aiutarla, non
l’havessero inimichevolmente oppressa nelle calamità sue [> e farla opprimere inimichevolmente da
quelli che sublevarla doveano]], {non si seria conosciuta la prudenza, la grandezza di quell’animo
immutabile e constantissimo a tante procelle di fortuna, che non parea che in muliebre e tenero petto,
e in compagnia di così delicata bellezza, potessero essere queste vertuti, le quali non solo nelle
donne, ma nelli severi huomini sono rarissime.}*
*{}=parte del testo trasformata nella forma ma non nella sostanza.
I 4, terza redazione
93
Quivi adunque i suavi ragionamenti e l’oneste facetie s’udivano, e nel viso di ciascuno dipinta si
vedeva una gioconda ilarità, talmente che quella casa certo dir si potea il proprio albergo della
allegria; né mai credo che in altro loco si gustasse quanta sia la dolcezza che da una amata e cara
compagnia deriva, come quivi si fece un tempo; ché, lassando quanto onore fusse a ciascun di noi
servir a tal signore come quello che già di sopra ho detto, a tutti nascea nell’animo una summa
contentezza ogni volta che al conspetto della signora Duchessa ci riducevamo; e parea che questa
fusse una catena che tutti in amor tenesse uniti, talmente che mai non fu concordia di voluntà o
amore cordiale tra fratelli maggior di quello che quivi tra tutti era. Il medesimo era tra le donne, con
le quali si aveva liberissimo ed onestissimo commercio; ché a ciascuno era licito parlare, sedere,
scherzare e ridere con chi gli parea; ma tanta era la reverenzia che si portava al voler della signora
Duchessa che la medesima libertà era grandissimo freno; né era alcuno che non estimasse per lo
maggior piacere che al mondo aver potesse il compiacer a lei, e la maggior pena il dispiacerle. Per la
qual cosa quivi onestissimi costumi erano con grandissima libertà congiunti, ed erano i giochi e i risi
al suo conspetto conditi, oltre agli argutissimi sali, d’ una graziosa e grave maestà; ché quella
modestia e grandezza, che tutti gli atti e le parole e i gesti componeva della signora Duchessa,
motteggiando e ridendo, facea che ancor da chi mai più veduta non l’ avesse, fosse per grandissima
signora conosciuta. E così nei circustanti imprimendosi, parea che tutti alla qualità e forma di lei
temperasse, onde ciascuno questo stile imitare si sforzava, pigliando quasi una norma di bei costumi
dalla presenzia d’una tanta e cosí virtuosa signora: le ottime condizioni della quale io per ora non
intendo narrare, non essendo mio proposito, e per essere assai note al mondo, e molto più ch’ io non
potrei né con lingua né con penna esprimere; e quelle che forse saríano state alquanto nascoste, la
fortuna, come ammiratrice di cosí rare virtù, ha voluto con molte avversità e stimuli di disgrazie
scoprire, per far testimonio che nel tenero petto d’una donna in compagnia di singular bellezza
possono stare la prudenzia e la fortezza d’animo, e tutte quelle virtù che ancor ne’ severi omini sono
rarissime
Al di là delle ragioni strettamente linguistiche e ritmico-stilistiche delle varianti,
ci interessa porre attenzione a trasformazioni sostanziali, quali l’abbandono dei
particolari più nettamente autobiografici, dal «noi» già cancellato nella prima stesura,
anche se sintatticamente permanente in varie parti del testo, al taglio delle parti
sottoriportate «il quale, havendo havuto io anchora gratia di dispensare in così nobile e
degno comertio, reputo veramente che fosse il fiore della vita mia. E a quella soave
[cancellato] memoria mi penserei fare somma ingiuria se più ardissi sperar una
minima scintilla di appiacere che a quegli fosse simele» e « ché se la sorte non [le]
fosse stata tanto contraria in farle perdere [> torle] il stato e le facultati e gli propii
suoi, quali deveano debitamente aiutarla, non l’havessero inimichevolmente oppressa
nelle calamità sue [> e farla opprimere inimichevolmente da quelli che sublevarla
doveano», della prima per l’eccessivo sbilanciamento sulla propria intimità, della
seconda per l’invadenza eccessiva nella privacy della Duchessa. La soppressione invece
di «per il che mai una minima parola despiacevole non fu udita» sembra rispondere
solo al desiderio di evitare ridondanze. Sulla eliminazione dei particolari autobiografici
giova ricordare che questo risponde in generale nella revisione del Cortegiano a un
intento di universalizzazione del modello, liberato dal contingente dell’esperienza
personale, ed ha anche l’effetto di elevare Castiglione al di sopra del gusto tipico di tanti
rimatori cortigiani.
E ancor di più, nel confronto fra le stesure, intendiamo porre l’accento sulla
maggiore sobrietà e incisività delle formulazioni, su passaggi lessicali che accentuano
l’intensità della lode, quale quello che va dall’«emanare» all’«imprimersi»,
focalizzando la sicurezza dell’effetto salvifico piuttosto che la causa, e sottolineando di
conseguenza maggiormente l’eccellenza di quest’ultima, o quello che sostituisce a
«fontana di contentezza» «summa contentezza», accentuando con la denotatività
dell’aggettivo superlativo il concetto prima suggerito attraverso la connotazione
metaforica, o la sostituzione di «adito» con «commerzio», dove, all’idea dell’entrare in
contatto, si sostituisce quello dello scambio reciproco, della comunicazione
94
interpersonale partecipata, o l’attribuzione del «parere» alla causa (la «catena») e della
certezza all’effetto («a tutti nascea nell’animo una summa contentezza ogni volta che a
conspetto della signora Duchessa ci riducevamo; e parea che questa fosse una catena
che tutti in amor tenesse uniti»), con un rovesciamento, rispetto alla prima stesura
(«[parea che] a tutti nascesse nell’animo una fontana di contentezza ogni volta che a
conspetto della signora Duchessa si riducevamo. Questa era una catena che tutti tenea
uniti»), che definerei scientifico, mirato ad accentuare appunto la sicurezza dell’effetto e
a garantire attraverso questo la eccellenza e benemerenza della causa. Un processo
questo del resto già rilevato nel primo esempio citato, e significativo di una mentalità
induttiva empirica, tant’è che nella stessa modellizzazione del tipo umano ideale si
sottolinea a più riprese che, per quanto possa sembrare astratto, esso poggia su esempi
concreti, e ciò che si chiede è un miglioramento quantitativo degli esempi concreti,
tramite un perfezionamento qualitativo sicuramente possibile.
Inoltre, nel confronto tra le stesure, ci pare importante sottolineare, nelle parti
pienamente conservate e quindi radicate nell’ideologia del nostro autore sin dall’inizio,
l’eccellenza della lode alla duchessa nella congiunzione ossimorica ripetuta. Citiamo
l’associazione-identificazione di «libertà» con «freno», la congiunzione di «onestissimi
costumi» con «grandissima libertà», di «modestia» con «grandezza». L’ossimoro in
verità, con la sua coniugazione e convivenza degli opposti, ci sembra un’altra faccia
della medaglia della mediocritas, di quel giusto mezzo in cui si estrinseca l’ideale
equilibrio e che è esclusione degli estremi e insieme loro avvicinamento al centro in
modo da farli convivere, senza minarne la qualità, senza spegnerne la natura. La divina
virtù della duchessa poi promana e si imprime nei cortigiani, plasmandoli attraverso un
processo di illuminazione che comporta una istintiva e immediata imitazione. Questo è
effettivamente il modo di operare della divinità, della sua grazia illuminante, e lo
possiamo riscontrare sia nella concezione neoplatonica della bellezza, che in quella
cristiana, quale ci attesta Dante nella Divina Commedia, dove l’ultima parte del
percorso si configura come ascesi mistica, in cui l’illuminazione di Dio provoca
processi di imitazione sublimante (e in Castiglione si potrebbe scorgere anche un germe
della valorizzazione filosofico-religiosa del canone artistico umanistico-rinascimentale
dell’imitazione). E dove, tra l’altro, la stessa eccellenza della Madonna viene celebrata
in chiave di coniugazione ossimorica di opposti sul piano naturale, ma non
soprannaturale. Il conformarsi poi della volontà e del comportamento dei cortigiani a
quello della duchessa, con un effetto di amorosa fratellanza di gruppo, ancora una volta
ci riporta alla religiosità dantesca, e certo non possiamo non ricordare la concordia dei
beati fra loro per la concordia con la volontà divina (Paradiso, C. III). Così pure la
«summa contentezza» e la «catena d’amor» ci riconducono alla beatitudine celeste. E,
infine, anche il riconoscimento del limite della propria parola e scrittura nella
celebrazione della duchessa ha sicuramente un antecedente in Dante, anche se è formula
abbastanza ricorrente nella letteratura. Siamo insomma di fronte a una corte laica
sublimata in quanto plasmata su quella divina, perché ad essa ci riconducono tutti i
riferimenti culturali sopracitati. Il raggio illuminante della duchessa si potenzia
riflettendosi sugli illuminati cortigiani che le reinviano quella luce come in un gioco
circolare di specchi in cui si rinvia la luce al centro e la si diffonde anche a latere. Qui è
infatti il reciproco rispecchiamento che ha una funzione ulteriormente sublimante e
gratificante, ed esso si esprime e connota nell’armonia dei comportamenti e nel
riconoscimento nel proprio come nell’altrui comportamento del pieno e perfetto rispetto
dei codici condivisi. Abbiamo detto che la corte laica è divinizzata, ma precisiamo che
comunque di corte laica si tratta, e ne sono spia una riverenza e una volontà di
compiacere che trasferiscono in termini virtuosi e religiosi una subalternità socio-
95
politica, l’assunzione di costumi «bei», e implicitamente buoni, ma non dichiarati
direttamente tali, e comunque frutto di un’associazione di onestà con libertà; e il
godimento di una gioia data dai giochi, dalle arguzie, dai motteggi, e il fatto che la
stessa Duchessa è ammirabile per la modestia e grandezza che la connotano anche nel
motteggio e nel riso. Nella corte si respira insomma un piacere laico di conversazione e
intrattenimento talmente intenso da potersi associare al divino, ma non connotato dai
contenuti tradizionali di questo. E i rapporti al suo interno, per quanto cordiali, non
mentiscono le gerarchie terrene.
Riprendendo poi il tema delle lodi della duchessa, vogliamo rilevare anche
l’ultima nell’ordine dell’elencazione, ma di pari o maggior grado delle altre, e
relazionata al superamento della divisione di genere. Si celebra infatti nella duchessa la
congiunzione del meglio delle virtù maschili, come la prudenza e la forza d’animo, con
le virtù femminili della delicatezza e «singular» bellezza. La chiave della lode è sempre
ossimorica: l’armonia sociale è il frutto della coniugazione degli opposti in campo
comportamentale, della libertà col freno e l’onestà, della modestia con la grandezza,
delle virtù convenzionalmente maschili con le virtù convenzionalmente femminili, e si
dà se si realizza negli individui nel contesto della vita associata, delle relazioni
pubbliche, prima che nella vita privata o indipendentemente dalla vita privata.
L’armonia non tocca la sfera dell’economico né la sfera del politico dove le differenze e
separazioni permangono, ma si realizza nel campo etico-estetico dei comportamenti
individuali nella vita associata, e in primis in chi, avendo il potere politico, è il modello
di riferimento. Non per niente il referente menzionato è non solo la condivisione
pubblica, ma il giudizio dell’opinione pubblica. In tal senso va l’affermazione finale di
Castiglione che attribuisce all’azione persecutoria della fortuna nei confronti della
duchessa un fine provvidenziale che non è quello di rafforzare nella virtù, ma quello di
«scoprire», di «far testimonio», insomma di rendere noto all’opinione pubblica il valore
individuale e ingigantirlo nella «bona opinione», nella buona fama.
Quanto poi al problema del rispetto della gradazione gerarchica nell’intensità
della lode alla duchessa e a Emilia Pio, ci sembra che, per quanto le lodi della duchessa
siano elevatissime, si possa condividere la preoccupazione di Castiglione rispetto
all’eccesso della lode riservata in un primo tempo a Emilia Pio che l’avrebbe posta
quasi al centro di un’altra corte o di una corte minore, magari più laica perché senza le
connotazioni sacrali della maestà della duchessa, e con una matrice più cortese-feudale
per la sua qualità di vassalla. Il che avrebbe creato ulteriori problemi, accanto a quello
già citato della inadeguatezza rispetto ai parametri e valori gerarchici, perché avrebbe
attivato all’interno della corte nuclei differenti e potenzialmente competitivi. Si può
piuttosto legittimare, ma ciò comporta una gradazione, una organizzazione scalare in cui
la duchessa è la portavoce del duca, Emilia Pio lo è della duchessa, cosa che in effetti si
riscontra nel trattato,164 e tutta la corte, ossia i cortigiani e le cortigiane, sono portavoci
dei loro centri ispiratori in un’organizzazione circolare in cui l’esempio, o, se vogliamo,
il raggio incidente, si riflette e si amplifica nella riflessione reciproca. Le alte qualità
della duchessa come della sua corte sono infatti sottolineate da questo virtuoso afflato
comune che promana dalla duchessa e investe i cortigiani in un pieno sodalizio verticale
e orizzontale, e dalla ricorrenza di parole-chiave come onestà, libertà, contentezza.
Certo la duchessa costituisce un exemplum superiore di perfezione femminile,
investita com’è di connotazioni quasi sacrali derivantile da una virtù individuale cui si
accompagna il valore del potere, per quanto non se ne faccia menzione diretta, però non
164
La duchessa, all’inizio del gioco, nomina Emilia Pio sua luogotenente: «- Allor la signora
Duchessa, ridendo, Acciò, disse, che ognuno v’abbia ad obedire, vi faccio mia locotenente, e vi do tutta la
mia autorità-» (C: I, 6)
96
esula dai valori auspicati da Castiglione per il suo modello di donna di palazzo, e questo
ce lo dice non solo la lode, poi espunta, a Emilia Pio, ma tutta l’elaborazione teorica
dell’ideale dama di palazzo, investita di tutte le virtù e naturalmente anche della
mediocritas, e chiamata anch’essa a promuovere in positivo relazioni sociali connotate
da civiltà e decoro. La donna di palazzo è insomma una proiezione in scala ridotta della
duchessa, mentre la duchessa ne è una proiezione in scala ingigantita e nello stesso
tempo contenuta all’interno della maestà sacrale del potere.
Va poi ricordato che, se nel trattato questa è la prima presentazione della
duchessa, essa non costituisce tuttavia la prima occasione d’incontro, perché anche nella
lettera dedicatoria a De Silva se ne fa menzione, e in termini di rimpianto, riverenza, e
obbligazione di riconoscenza,
Ma quello che senza lacrime raccontar non si devria è che la signora Duchessa essa ancor è
morta; e se l’animo mio si turba per la perdita di tanti amici e signori mei, che m’hanno lasciato in
questa vita come in una solitudine piena d’affanni, ragion è che molto più acerbamente senta il dolore
della morte della signora Duchessa che di tutti gli altri, perché essa molto più che tutti gli altri valeva
ed io ad essa molto più che a tutti gli altri era tenuto. Per non tardare adunque a pagar quello, che io
debbo alla memoria di cosí eccellente Signora e degli altri che più non vivono, indutto ancora dal
periculo del libro, hollo fatto imprimere e publicare tale qual dalla brevità del tempo m’è stato
concesso. (Dedicatoria, I)
nonché di inadeguatezza non solo della propria scrittura alla piena celebrazione delle
sue virtù, ma addirittura del proprio intelletto alla loro comprensione (un topos peraltro
ricorrente nella poesia stilnovistica e in Dante).
E come ch’io mi sia sforzato di dimostrar con ragionamenti le proprietà e condizioni di quelli
che vi sono nominati, confesso non avere, non che espresso, ma né anco accennato le virtù della
signora Duchessa; perché non solo il mio stile non è sufficiente ad esprimerle, ma pur l’intelletto ad
imaginarle; e se circa questo o altra cosa degna di riprensione (come ben so che nel libro molte non
mancano) sarò ripreso, non contradirò alla verità.(Dedicatoria, I)
Una celebrazione, quella della duchessa, rinvenibile anche, come già abbiamo
rilevato, nella corrispondenza epistolare di Castiglione e in alcune sue opere minori
come un canzoniere d’amore e l’ecloga pastorale Tirsi, in cui, accanto alla reverenza
gerarchica, è dato cogliere un afflato d’amore nel quale è difficile distinguere il
convenzionale di maniera dal coinvolgimento sincero. Del resto liriche in lode o opere
dedicate alla duchessa, e anche ad Emilia Pio, erano frequenti nella produzione
cortigiana, in primis quelle di Bembo già ricordato, e rispondevano certamente a un
canone che aveva le sue radici nella civiltà cortese e trovava la sua naturale
prosecuzione in quella cortigiana. Secondo Motta, «´la funzione Elisabetta` era stata
attivata e codificata prima che Castiglione principiasse a scrivere, e intorno a essa,
dentro e fuori Urbino, aveva cominciato a circolare un corpus non esiguo»,165 sicché la
sua immagine si avvicina all’ideale femminile elaborato nel testo per la mitezza,
riservatezza e forza conservate nella sua difficile esistenza. Tuttavia Castiglione nel
Cortegiano, in relazione all’elogio della duchessa, supera la produzione cortigiana in
versi, la propria come l’altrui, non solo per la qualità specifica del discorso, ma anche e
soprattutto per avere assunto la magnificazione della duchessa all’interno di un trattato
che insieme dipinge e teorizza, idealizzandola, la realtà sociale della corte di cui la
duchessa è perno. Il Tirsi si presenta solo come un’anticipazione di questa
magnificazione ancora limitato dai convenzionalismi del genere pastorale.
165
U. Motta, Castiglione e il mito di Urbino, cit., p. 138.
97
L’ampia trattazione che abbiamo riservato alla duchessa, si giustifica, a nostro
parere, col ruolo centrale che la sua figura ha nel trattato in quanto femmina e detentrice
del potere, il che, se può da una parte farci pensare a lei come a un’eccezione rispetto
allo status convenzionale femminile, dall’altro rappresenta un paradigma ideale del
massimo grado di emancipazione cui può aspirare la donna. A mezzo tra la donna che
vive in famiglia nettamente subordinata al potere maschile e la donna-principessa che
condivide il potere in quanto figura sostitutiva di un legittimo detentore maschile,
parzialmente assente per motivazioni contingenti, sta la donna di palazzo del cui
equilibrio e della cui emancipazione la principessa è insieme modello e garante, ma che
a sua volta proietta sulla grave maestà principesca una maggiore cordialità e libertà di
modi. Accanto alla modestia e grandezza della duchessa, pur nella partecipazione al
motteggio e al riso, il cui comportamento si riflette, anche se con le componenti
invertite nell’ordine e nel peso, nella graziosa e grave maestà con cui i cortigiani
accompagnano e temperano le arguzie e i divertimenti, sta la donna di palazzo
impersonata dalla signora Emilia Pio, dotata di «vivo ingegno e giudicio», e più vivace
e libera della duchessa nei comportamenti, ma tale che «pareva [...] che ogniuno da lei
pigliasse senno e valore».
98
Parte II. Sezione III.
10. Il femminile nel «Cortegiano»: la sua relazione col maschile.
Come abbiamo visto nel precedente capitolo, nel percorso di stesura del
Cortegiano si viene chiarendo progressivamente l’assunto che nel dialogo si intende
trattare della donna in quanto donna di palazzo, si ritaglia per la sua modellizzazione
una sezione specifica dell’opera, il terzo libro, recuperando e modificando in parte a
favore della donna i termini della disputa tradizionale tra filogini e misogini, si abbrevia
la trattazione dell’amore nei termini cortesi per ampliare e approfondire, in una
specifica sezione, la seconda parte del libro quarto a conclusione ed apice dell’opera, la
trattazione dell’amor platonico, si accoglie via via l’idea che si tratti, in un dialogo
vertente sul cortigiano, anche in maniera specifica, della donna di palazzo, (idea
totalmente rifiutata da un interlocutore misogino nella seconda stesura per
disconoscimento di qualsiasi relazione con la cortigianía,166 ancora osteggiata da altro
interlocutore misogino nella terza stesura, ma con l’attenuazione del riconoscimento
della sua convenienza all’argomento, anche se senza titolo a un discorso separato,167 e
ivi difesa dagli interlocutori filogini e dalle interlocutrici prestigiose, la Duchessa ed
Emilia Pio).
La modificazione che investe la trattazione della donna va di pari passo con il
precisarsi delle stesse caratteristiche del cortigiano che da cavaliere connotato
soprattutto dalla professione delle armi viene via via caratterizzandosi sempre più in una
dimensione umanistico-diplomatica, di pedagogo-consigliere-collaboratore del principe,
la cui vita si snoda sempre più nel contesto mondano della corte e delle corti, e sempre
meno nei campi di battaglia. Il potere legato alle armi si attenua via via, mentre cresce
quello legato alla parola, e quindi al pensiero sviluppato dalla cultura, e cresce anche il
ruolo della corte come centro del potere e delle relazioni mondane, microcosmo di
riferimento per tutta la nobiltà e per quei soggetti sociali che aspirino a questo status.
Non per niente nel Cortegiano non si assumono ad argomento le azioni dei cavalieri in
battaglie e duelli, ma i ragionamenti che si tengono a corte da parte di gentiluomini
cortigiani per modellizzare un perfetto cortigiano, e, se nella disputa specifica sulla
gerarchia delle competenze guerriere o umanistiche sembra si assegni ancora la palma
alle prime, si dà poi molto maggior spazio nella trattazione alle competenze culturali e
al rapporto di servizio al principe in termini pedagogico-diplomatici, nonché all’attività
di intrattenimento a corte. In questa nuova dimensione del cavaliere-gentiluomo, e in
codesta attenuazione del valore della forza fisica, primo elemento di discredito per la
donna per natura più debole dell’uomo, a favore dell’intelligenza e cultura cui anche la
donna può aspirare, nonché in una caratterizzazione della società di corte sempre più
marcatamente orientata verso il piacere, pur in forme apparentemente civilissime e
sublimate, insomma estetiche, è giocoforza che il ruolo occupato da quest’ultima nella
tradizione cortese assuma una valenza maggiore e influenzi con le proprie modalità
anche il modo d’essere tipicamente maschile. Il suo presiedere e favorire i riti mondani
166
Il signor Ottaviano, nella seconda stesura, rifiuta con queste parole la trattazione del tema della
donna: «Anzi-rispose el signor Ottaviano-molto più sono al proposito che ‘l parlar di donne, che non
hanno una convenienza al mundo con le condizioni che avere deve el corteggiano».
167
Nella terza stesura invece il signor Gasparo, pur rifiutando un discorso specifico per le donne,
ne riconosce la relazione con la cortigianìa «Anzi -disse il signor Gasparo- e questo e molte altre cose
son più al proposito ch’el formar questa donna di palazzo, atteso che le medesime regule che son date per
lo cortegiano, servono anchor alla donna, perché così deve ella haver rispetto ai tempi et lochi et osservar,
per quanto importa la sua imbecillità, tutti quegli altri modi di che tanto s’è ragionato, come il cortigiano»
(Ad III 4)
99
e la stessa produzione culturale si incentiva in una situazione in cui il prestigio maschile
si esprime e potenzia soprattutto nella vita di corte e nell’intrattenimento basato sulla
parola e su competenze artistiche in senso lato. La centralità rivestita dalla duchessa
nella promozione dei ragionamenti di fatti ci sembra rispondere non solo a una
circostanza contingente, la sostituzione del marito malato, ma alla stessa tradizione
cortese. E, se la popolazione maschile a corte si fa più numerosa e stabile, e il palazzo
ducale di Urbino, ricordiamolo, è una città in forma di palazzo,168 anche le dame vi
affluiscono, per quanto in misura minore,169 e sono un importante elemento di
interazione per i cortigiani, e, qualora lo si voglia limitare soprattutto a una forma di
rispecchiamento narcisistico, comunque uno stimolo a prodursi al meglio e sicuramente
un veicolo di piacere. Proprio per favorire questa interazione, oltre che per una generale
spinta di matrice umanistica all’incivilimento, si promuove un’emancipazione culturale
della dama di palazzo, pur contenuta a un livello più basso di quella maschile, e una
168
Il fatto che il palazzo della corte di Urbino sia presentato come città in forma di palazzo evoca
anche la centralità socio-politico-culturale acquisita dalla corte in sostituzione della città. La scelta poi
della corte di Urbino come corte ideale ne favorisce l’estrapolazione da contesti territoriali
evidenziandone la natura di microcosmo con caratteri sovramunicipali e sovranazionali. A questo
proposito citiamo le interessanti osservazioni di Mazzacurati, attento al ruolo e alle differenze, rimarcate
dallo stesso Castiglione, tra le vecchie corti municipali e le nuove, e alla loro importanza come centro di
riferimento degli intellettuali, sotto la protezione o alle dipendenze del principe con funzioni
amministrative-culturali sempre più evidenti, al punto da indurre il critico a evitare il termine di
mecenatismo come equivoco: «Il tempo nuovo delle corti appariva, dunque, al suo principale protagonista
intellettuale, tempo di fratture (rispetto a precedenti ordini) e insieme di accumulazioni orizzontali, di
tensioni multiple, dove la fondazione di nuove gerarchie e la legittimazione delle vecchie è affidata al
vaglio monopolistico di quella che ( se mi si sopporta il paradosso) può essere definita come una
policentrica «aristocrazia di massa», coniugabile attraverso l’intero spazio nazionale (nel senso e nei
limiti in cui anche allora si poteva parlare di una nazione italiana), tra corti e «città nobili». […] Il tempo
nuovo comincia a profilarsi anche come distanza della Corte-simbolo dalla piazza cittadina e dai cortili di
castello o di palazzo urbano, nell’impossibilità di coniugare stabilità di dominio e fissità di radici, di
esercitare potere circoscritto in spazi conclusi, senza collegarsi incessantemente col raggio ravvicinato e
rischioso della conflittualità europea. Sempre più il patrimonio, feudale o mercantile, si conserva altrove,
attraverso lo spostamento dei soggetti e la disseminazione dei benefici, lungo il vasto circuito delle corti e
della vita ecclesiastica; e sempre più le nuove funzioni intellettuali fuggono o si ritraggono dalle
turbolenze della tarda vita municipale, per ritrovare stabilità proprio nel movimento, nel gran vortice di
vite in viaggio che il sistema delle corti tuttavia protegge dalla battaglia delle fazioni, dalla crisi dei poteri
locali, dalla clausura culturale che si abbatteva sul mondo sempre più separato delle autonomie. Si
instaura, sulla scia di aurei precedenti, un auto esilio intellettuale che di nuovo ( rispetto a modelli come
quello dantesco o quello petrarchesco) ha ormai la piena visibilità di un mercato, cioè di un campo di
contrattazioni e di competizioni che trova il proprio teatro dominante nella vita di corte.[…] E’ certo a
partire da questa condizione che si può spiegare, al di là degli archetipi che la sostengono, il feroce ritratto
dei vecchi cortigiani e la apologia delle nuove corti che apre il Libro II (capp.1-4); più in particolare, il
celebre passo in cui la distanza dal passato è già misurata proprio in termini di «querelle des ançiens et
des modernes», come conflittualità tra grandezze superiori e come confronto parallelo di ingegni e di
forme […] Ma questi «antichi» non sono poi tanto lontani: tutta la perorazione di Castiglione recinge non
solo il tempo […], ma la forma di questa corte arcaica di appena trenta o quarant’anni prima, che viveva
come una chiusa famiglia di provincia, contro la quale si erge il modello di corte nato nella crisi
«metropolitana» di fine secolo, fitta di transiti e di aggregazioni imprevedibili e tanto priva di luogo da
prendere a simbolo proprio un non-luogo, senza retroterra urbano, senza caratteri forti di territorio, quasi
senza passato, visto che ( dopo il breve elogio degli antichi Montefeltro) la storia comincia con Federico»
( Giancarlo Mazzacurati, Il rinascimento dei moderni. La crisi culturale del XVI secolo e la negazione
delle origini, Bologna, Il Mulino, 1985, pp.176-180).
169
«E l’ordine d’essi era tale, che, subito giunti alla presenzia della signora Duchessa, ognuno si
ponea a sedere a piacer suo, o come la sorte portava, in cerchio; ed erano sedendo divisi un omo ed una
donna, fin che donne v’erano, ché quasi sempre il numero degli omini era molto maggiore» (C: I, 6). Una
riprova, questa testimonianza, di come la corte, in quanto centro di potere, sia il luogo privilegiato della
presenza maschile, anche se le donne vi vengono ammesse, anzi richieste, in una funzione però tra
interattiva e coreografica.
100
femminilizzazione dell’uomo, nella ricerca della grazia, nell’attenzione alle apparenze
esteriori e nella pratica di attività quali la musica e la danza, un tempo quasi precluse al
cavaliere, e attribuite più propriamente al femminile, ma con forti limitazioni nella loro
concreta effettuazione. L’omogeneità e l’armonia ed equilibrio di comportamenti che
pretende il microcosmo della corte, favoriscono da una parte la trasversalità di parametri
etico-estetici, quali misura, mediocritas, discrezione, grazia, sprezzatura, dall’altra una
complementarità di mansioni che a volte si attenua fino all’identificazione (la
promozione dei discorsi femminile e la produzione dei discorsi maschile, il comune
ruolo di intrattenimento), a volte si esalta in un circolo virtuoso in cui il
perfezionamento avviene in maniera reciproca (vedi l’amor platonico). Tuttavia resta
chiaramente escluso per la dama di palazzo quel ruolo politico cui aspira e che avoca
solo a se stesso il cortigiano, anche se nella forma mediata che gli è imposta dalla sua
condizione di servitore del principe.
Proprio per quanto sopra detto, ci sembra opportuno rimarcare le caratteristiche
che sono assegnate alla donna di palazzo, paragonandole a quelle accreditate al
cortigiano, per cogliere fino a che punto la dama di palazzo nasce in sua funzione e
permane come sua funzione o se invece acquista una propria autonomia, e per vedere
fino a che punto la valorizzazione e l’emancipazione della dama di palazzo trascinano
seco quelle della donna in generale, e quali sono invece i tabù che rimangono o che si
rafforzano (in apparenza quello del sesso e della sessualità per le donne).
Quanto allo spazio riservato nel dialogo alla trattazione della modellizzazione
del perfetto cortigiano e della perfetta donna di palazzo, dobbiamo rilevare che a livello
orizzontale prevale certamente il referente maschile, la cui priorità potrebbe essere posta
però parzialmente in forse dal percorso verticale che assegna alla donna la trattazione di
uno degli ultimi libri, e indirettamente le dà spazio nell’ultimo con l’amor platonico, da
lei promosso, ma, come vedremo, in funzione maschile, per cui alla fin fine ci sembra
che debba essere privilegiata l’ipotesi che il Cortegiano abbia per referente privilegiato
il modello umano maschile, come del resto indica il titolo.
I settori che andremo ad esaminare sono da una parte il discorso teorico sulle
mansioni della dama di palazzo e del cortigiano, i termini specifici in cui viene
riproposta la disputa tradizionale tra filogini e misogini, nonché quanto in questo senso
affiori dalle battute degli interlocutori e dagli esempi riportati in particolare nella
sezione relativa alle facezie, e nei cataloghi del terzo libro, e le proiezioni sul ruolo della
donna e dell’uomo della dottrina dell’amor platonico, dall’altra i comportamenti nella
diegesi del femminile nella sua interazione col maschile.
A parte e preliminarmente sia per la gerarchia di potere che per la funzione
modellizzante nei confronti del cortigiano e della dama di palazzo esamineremo le
caratteristiche del Duca e della Duchessa, termini centrali del nostro discorso anche
perché rettori e mecenati di quella corte in cui prende senso e ha la sua ragion d’essere il
servizio cortigiano.
Abbiamo preferito un percorso per temi a un percorso che seguisse l’intreccio
del dialogo, sia per focalizzarli meglio sia per la natura labirintica del dialogo
rinascimentale, anche se questa scelta ostacola la percezione analitica dell’intreccio e un
incontro diretto con l’opera, forse troppo tacciabile di costituirne una sorta di parafrasi.
10.1. Una menzione preliminare: la corte di Urbino nei suoi rappresentanti
principali, i duchi Federico e Guidubaldo e soprattutto la duchessa Elisabetta. La
funzione esemplare delle figure di potere per i cortigiani e le donne di palazzo.
Virtù politiche e militari e di intellettuale-mecenate nei duchi. Lo slittamento, col passaggio da
Federico a Guidubaldo, dalle virtù militari a quelle di conduzione della vita di corte.
101
La Duchessa come figura sostitutiva del marito nella gestione serale della vita di corte. Effetti virtuosi
di una carenza contingente. La direzione dell’intrattenimento e l’omologazione dei comportamenti dei
cortigiani per amore-riverenza della duchessa. Il suo ruolo di educatrice.
Il duca e la duchessa come realizzazione virtuosa dei modelli di cortigiano e di donna di palazzo, con
la differenziazione del potere e per la differenziazione del potere.
Poiché il modello umano maschile e femminile è ritagliato all’interno della corte
rinascimentale, è opportuno non limitarsi a trattare dello specifico del cortigiano e della
donna di palazzo, ma approfondire anche i connotati del principe e della principessa,
ovverossia del duca e della duchessa, in quanto mecenati dei cortigiani e da questi
magnificati, in una relazione di necessità e utilità reciproca, e in quanto la
valorizzazione del ruolo del cortigiano si estrinseca nella forma più alta nella sua
funzione pedagogico-politica di istitutore e consigliere del principe per farne l’optimus
princeps, capace di, e impegnato a, tutelare il bene dei sudditi, mentre per la donna,
ancora sostanzialmente emarginata dal potere politico, si esplicita nel favorire la
comunicazione sociale, ruolo che istituzionalmente, anche per cause contingenti, nella
corte di Urbino spetta alla duchessa. Anzi, data la celebrazione, in apertura dell’opera,
della corte e dei suoi organi di potere, ossia del duca e della duchessa, e l’omologazione
dei comportamenti all’interno della corte, in senso verticale e, di conseguenza,
orizzontale, preferiamo esaminare le connotazioni del duca e della duchessa prima di
quelle del cortigiano e della donna di palazzo, seguendo così l’intreccio e la gerarchia
socio-politica nella direzione che va dall’alto verso il basso, perché in tal senso va
l’esemplarità dei comportamenti da una parte e l’imitazione dei comportamenti
dall’altra, anche se il ruolo di istitutore del principe assegnato al cortigiano prospetta in
un certo modo il rischio di incrinatura di questo ordine. Vedremo, infatti, che le
connotazioni del maschile e del femminile sono in generale condivise da principi e
cortigiani, con la differenza che i primi sono presentati come esemplari perfetti, in una
società cortigiana in cui l’adulazione verso i principi è doverosa e scontata, anche se
non possiamo disconoscere l’onestà e l’idealità profonda di Castiglione.
Nell’esame dei comportamenti e attributi del duca e della duchessa non
distingueremo un livello teorico da uno pratico, a differenza di quanto faremo per
cortigiano e donna di palazzo, innanzitutto perché non viene inizialmente proposta una
teorizzazione e modellizzazione, fatta eccezione per quella, alla fine del trattato,
dell’optimus princeps in dipendenza dalla funzione educatrice del cortigiano, e in
secondo luogo perché nel loro concreto agire pratico già si scorge la perfezione ideale.
Nel corso del dialogo, mentre la figura del duca resterà in ombra, poiché assente, per
malattia, dai ragionamenti, si vedrà agire, in quanto promotrice istituzionale dei
ragionamenti, la duchessa, ma in forme in genere molto consone alla presentazione
iniziale, di un modello di perfezione, in cui la realizzazione concreta incarna
perfettamente l’ideale.
Nel cap. II del Libro primo Castiglione, dopo la presentazione dell’assunto del
trattato e la precisazione che vi si riportano e ricordano alcuni ragionamenti tenuti da
«omini singularissimi»170 alla corte di Urbino, in sua assenza e a lui riferiti fedelmente
poi da fonte autorevole, con l’intento di rendere noto «quello che abbiano giudicato e
creduto di questa materia omini degni di somma laude, ed al cui giudizio in ogni cosa
prestar si potea indubitata fede» (C: I, 1), presenta il dominio dei Signori di Montefeltro
come la principale causa della «felicità» di Urbino. Il duca Federico, definito «lume
d’Italia», viene lodato per la prudenza, l’umanità, la giustizia, l’animo invitto, la
170
Vale la pena di sottolineare, come altre volte nel corso del nostro lavoro, che i «ragionamenti» li
tengono gli uomini, non le donne. Di queste ultime non si fa menzione in qualità di produttrici dei
ragionamenti. Ne saranno solo promotrici.
102
disciplina militare, le vittorie militari che lo rendono degno di essere paragonato agli
antichi, la costruzione del palazzo ducale, «secondo la opinione di molti, il più bello che
in tutta Italia si ritrovi», fornito di ogni cosa conveniente, al punto che «una città in
forma di palazzo esser pareva»171, perché conteneva arredi di lusso, statue antiche,
pitture singolari, strumenti musicali di ogni tipo, una straordinaria biblioteca di libri rari
in lingua greca, latina, ed ebraica, dal duca considerata «la suprema eccellenzia del suo
magno palazzo».
Il duca Federico dunque viene presentato come dotato delle virtù d’animo, della
liberalità di matrice cortese, di quella virilità e competenza militare che ne fanno un
grande condottiero, e come estremamente interessato alla cultura, al bello, alle arti e
all’antico, insomma come un principe mecenate, la cui munificenza è indirizzata
soprattutto alla protezione-promozione della cultura e degli intellettuali cortigiani. Il suo
mecenatismo si estrinseca sia nel contenuto del palazzo che nella costruzione del
«magno palazzo», necessario spazio per lo svolgimento della vita di corte.
Il figlio Guidubaldo, successo al duca Federico all’età di dieci anni, viene
presentato, con la sola sfumatura del verbo «parere», come depositario di tutte le virtù
paterne «parve che di tutte le virtù paterne fusse erede» e dotato di «maravigliosa
indole» al punto da determinare il giudizio che il maggior merito del padre Federico
fosse l’aver generato tale figliuolo, ma fu perseguitato dalla fortuna, «invidiosa di tanta
virtù», al punto da vedersi minato nel fisico dalla podagra «per cui restò un dei più belli
e disposti corpi del mondo deformato e guasto nella sua verde età» e da non ottenere
che raramente successi «benché in esso fusse il consiglio sapientissimo e l’animo
invittissimo». Tale persecuzione della fortuna offrì tuttavia al duca Guidubaldo la
possibilità di palesare il suo «vigor d’animo»; di tale persecuzione infatti
fanno testimonio molte e diverse sue calamità, la quali esso con tanto vigor d’animo sempre
tolerò, che mai la virtù dalla fortuna non fu superata; anzi, sprezzando con l’animo valoroso le
procelle di quella, e nella infermità come sano e nelle avversità come fortunatissimo, vivea con
summa dignità ed estimazione appresso ognuno; di modo che, avvenga che cosí fusse del corpo
infermo, militò con onorevolissime condizioni a servizio dei serenissimi re di Napoli Alfonso e
Ferrando minore; appresso con papa Alessandro VI, coi signori Veneziani e Fiorentini. Essendo poi
asceso al pontificato Julio II, fu fatto Capitan della Chiesa; (C: I, 3)
Il duca curò inoltre molto la vita di corte, circondandosi di nobilissimi e
valorosissimi gentiluomini, e compiacendosi della conversazione con quelli, fu
dottissimo e affabile e piacevole, esperto dell’arte e delle regole della cavalleria, ne
curò la esecuzione e rappresentazione in giostre e tornei, e instaurò nella sua corte un
circolo virtuoso di promozione verso il meglio dei comportamenti e delle abilità dei
cortigiani.
Nel qual tempo, seguendo il suo consueto stile, sopra ogni altra cosa procurava che la casa sua
fusse di nobilissimi e valorosi gentilomini piena, coi quali molto familiarmente viveva, godendosi
della conversazione di quelli: nella qual cosa non era minor il piacer che esso ad altrui dava, che
quello che d’altrui riceveva, per esser dottissimo nell’una e nell’altra lingua, ed aver insieme con la
affabilità e piacevolezza congiunta ancor la cognizione d’infinite cose: ed, oltre a ciò, tanto la
171
Secondo U. Motta, «'la città in forma di palazzo,' nel ritratto di Castiglione aveva per
emblematici equivalenti le misure di Ercole e del cavallo troiano, sicché la grandezza dell’edificio
diventava il simbolo della qualità dei suoi ospiti» (in Uberto Motta, Castiglione e il mito di Urbino, cit.,
p. 244)
172
Quondam evidenzia l’esemplarità assegnata al duca Guidubaldo come interprete con ‘stile’ della
moderna conversazione, «affabile e piacevole, ma anche umanisticamente e classicisticamente dotta [...].
Lo stile di un imperator moderno gentiluomo» (Amedeo Quondam, La conversazione. Un modello
italiano, cit., p. 164)
103
grandezza dell’animo suo lo stimulava, che, ancor che esso non potesse con la persona esercitar
l’opere della cavalleria, come avea già fatto, pur si pigliava grandissimo piacer di vederle in altrui; e
con le parole, or correggendo or laudando ciascuno secondo i meriti, chiaramente dimostrava quanto
giudicio circa quelle avesse; onde nelle giostre, nei torniamenti, nel cavalcare, nel maneggiare tutte le
sorti d’arme, medesimamente nelle feste, nei giochi, nelle musiche, in somma in tutti gli esercizii
convenienti a nobili cavalieri, ognuno si sforzava di mostrarsi tale, che meritasse esser giudicato
degno di cosí nobile commercio. (C: I, 3)
Come ben si vede, Castiglione cerca in tutte le maniere di attenuare i difetti del
duca, attribuendogli una natura fisica eccellente, rovinata dall’invidia della fortuna, e
qualità morali altrettanto eccellenti che la stessa persecuzione della fortuna gli ha
consentito di dimostrare. Pur in tanto impedimento e catena di insuccessi, Castiglione si
sforza di mantenergli la gloria militare, sublimata da quel voler praticare l’arte militare,
nonostante l’infermità fisica, e soprattutto gli riconosce il merito di essere stato non solo
un principe mecenate, ma anche un intellettuale particolarmente colto, che, come i suoi
cortigiani, ha partecipato ai ragionamenti con l’affabilità e piacevolezza che devono
contraddistinguere tutti i partecipanti alla conversazione all’interno della corte, uomini e
donne, sovraordinati e subordinati, principi e cortigiani; e, inoltre, di aver promosso un
miglioramento nei suoi stessi cortigiani, desiderosi di essere considerati degni di servire
un tal principe e quindi di «bona opinione». Una «bona opinione» che è frutto del
mostrarsi, dell’apparire, e che è spesso in Castiglione apparenza di sostanza, o
miglioramento della sostanza in un circolo virtuoso che si nota anche quando si
sottolinea la stima che il duca si è meritato agendo e mostrandosi «nella infermità come
sano e nelle avversità come fortunatissimo», in una dissimulazione/simulazione che
affonda le sue radici in un’altissima dignità.
Dunque il duca Guidubaldo condivide col padre Federico le virtù d’animo, e, se
non gli è stato pari nei successi militari, è tuttavia stato capace di onorevoli prestazioni
militari, da apprezzare ancor di più, data la sua condizione di malato, e ha promosso a
corte «le opere della cavalleria». Se il padre è stato meritevole soprattutto per aver
preparato l’ambiente fisico della corte, il «magno palazzo», il duca Guidubaldo lo è per
aver popolato la corte di nobilissimi ingegni ed avervi condotto ragionamenti insieme a
quelli, grazie alla sua cultura e ai suoi modi. Gli si riconosce insomma in questo senso
una operatività maggiore del padre. I due duchi, a nostro parere, sono concretizzazioni
di uno stesso modello umano fatto di grandezza d’animo, virtù cavalleresca e virtù
umanistica, ma in Guidubaldo, anche se lo si attribuisce a fattori contingenti, la seconda
tende a prevalere sulla prima, come già stava avvenendo nel modello di cortigiano,
secondo quanto anche le dispute su preminenza militare o culturale attestavano e
sebbene fosse ancora diffusa l’idea della preminenza militare nelle qualità del
cortigiano. Inoltre nelle connotazioni di Guidubaldo emerge quella competenza
culturale e dialettica che viene accreditata tradizionalmente, e anche da Castiglione, solo
o soprattutto alla natura maschile, e che si coglie nel duca come nei cortigiani,
rimanendone invece escluse le donne, duchessa o donne di palazzo, acculturate solo
tanto da poter seguire i ragionamenti, ma non in grado di produrli, pubblico
prevalentemente ricettore e solo superficialmente interattivo, anche se istituzionalizzato
come promotore.
Quanto alla duchessa, il suo ruolo di promotrice istituzionale dei ragionamenti
viene qui legato ad una situazione contingente. Il duca, infatti, presiede alle sole attività
del giorno perché, data la sua infermità, deve ritirarsi presto la notte, lasciando alla
duchessa Elisabetta Gonzaga l’incarico di presiedere agli intrattenimenti serali della
corte. Quest’ultima, insieme alla sua luogotenente, la dama di palazzo Emilia Pio, li
promuove e ne é l’arbitro, ma il loro sviluppo spetta sempre ai soggetti maschili. Mentre
104
rimandiamo, per una lettura analitica del passo, alla trattazione fattane nel capitolo
sopra la presentazione della donna nella stratificazione del testo, ricordiamo che la
duchessa, dotata di somma virtù, evidenziata attraverso la congiunzione ossimorica
degli opposti sia nelle qualità che negli effetti (citiamo «modestia e grandezza»,
«graziosa e grave maestà», «liberissimo ed onestissimo commercio», «la medesima
libertà era grandissimo freno», «onestissimi costumi erano con grandissima libertà
congiunti»), come in una corte divina, infonde e imprime i propri comportamenti a
cortigiani e dame di palazzo, creando una gioia e un piacere diffuso e un sodalizio
d’amore nel gruppo che ha reso omogeneo a sé.
[...] né mai credo che in altro loco si gustasse quanta sia la dolcezza che da una amata e cara
compagnia deriva, come quivi si fece un tempo; [...] a tutti nascea nell’animo una summa
contentezza ogni volta che al conspetto della signora Duchessa ci riducevamo; e parea che questa
fusse una catena che tutti iin amor tenesse uniti, talmente che mai non fu concordia di voluntà o
amore cordiale tra fratelli maggior di quello, che quivi tra tutti era. Il medesimo era tra le donne, con
le quali si aveva liberissimo ed onestissimo commercio; ché a ciascuno era licito parlare, sedere,
scherzare e ridere con chi gli parea: ma tanta era la reverenzia che si portava al voler della signora
Duchessa, che la medesima libertà era grandissimo freno; né era alcuno che non estimasse per lo
maggior piacere che al mondo aver potesse il compiacere a lei, e la maggior pena il dispiacerle. Per
la qual cosa, quivi onestissimi costumi erano con grandissima libertà congiunti, ed erano i giochi e i
risi al suo conspetto conditi, oltre agli argutissimi sali, d’una graziosa e grave maestà; ché quella
modestia e grandezza che tutti gli atti e le parole e i gesti componeva della signora Duchessa,
motteggiando e ridendo [...] E cosí nei circustanti imprimendosi, parea che tutti alla qualità e forma
di lei temperasse; onde ciascuno questo stile imitare si sforzava, pigliando quasi una norma di bei
costumi dalla presenzia d’una tanta e cosí virtuosa signora (C: I, 4)
Il suo ruolo, come si conviene a una madre, non è quello di istruire, ché qui non
si parla di partecipazione ai ragionamenti nel senso di una loro costruzione, né di cultura
della duchessa, ma di educare a comportamenti corretti e perfetti nelle relazioni sociali
sotto il profilo etico-estetico, a comportamenti caratterizzati da un’onestà sposata a
libertà, da una modestia congiunta a grandezza, da un autocontrollo biunivocamente
legato alla libertà per l’interiorizzato e profondo rispetto per l’autorità che la concede. È
insomma la prima soglia dell’educazione, quella che la società, come ci attesterà anche
lo stesso Piccolomini, affida alla madre, alla sua amorevolezza e al suo esempio, mentre
l’istruzione, la trasmissione del sapere è compito del padre. La corte, infatti, prende
dalla duchessa «norma di bei costumi»,173 e le si rapporta con reverenza e amore, al
punto che gioisce, se la compiace, e soffre, se le dispiace.
173
Sulla austerità di costumi della corte di Urbino esprime dubbi Cian, sia evidenziando nella
stessa insistenza di Castiglione su questo aspetto un dato di preoccupazione, sia sulla base di altre
testimonianze (i Motti del Bembo, la redazione primitiva del Cortegiano, più libera nelle parole e nei
concetti). Ammette però che la presenza della Duchessa e di Emilia Pio, impedisse volgarità, ma non
immoralità mascherate sotto forme civili e raffinate. «Non dobbiamo però credere che quella Corte fosse
sostanzialmente diversa dalle altre di quel tempo, o avesse un carattere di austerità morale che, attese le
condizioni generali degli spiriti, sarebbe stata allora impossibile. Certo, la presenza della Duchessa e della
signora Emilia, e la importanza che ne conseguiva, maggiore che in qualsiasi altra Corte italiana
contemporanea, dell’elemento femminino veramente e squisitamente signorile, servivano ad escludere
ogni crudezza e volgarità di parole e di atti. Ma ciò non toglieva che, sebbene rivestita di forme raffinate,
l’immoralità non esistesse anche nella società aulica d’Urbino. E di ciò possiamo trovare documenti,
meglio che nel Cortegiano, nei Motti del Bembo, nei carteggi, in molta parte inediti, di quel tempo, dai
quali ricaviamo un’immagine meno gradevole, ma certo più fedele, delle condizioni morali della Corte
urbinate. Anzi, ciò che è più notevole, lo stesso C. in una redazione primitiva del suo libro, aveva
adoperato una libertà, talvolta perfino una licenziosità di parola e di concetto tale, da fare un singolar
contrasto con la quasi costante correttezza della redazione definitiva. Segno cotesto, che egli sentì poi il
bisogno di assoggettare la materia tratta dalla realtà storica ad un processo trasformativo, che, senza
falsarla, la idealizzasse ai fini suoi morali ed artistici, come idealizzava dalla esperienza reale il suo tipo
105
Inoltre la duchessa, come le dame di palazzo, espleta una funzione materna
anche nel promuovere il parto dei discorsi, sebbene per certi versi inverta il ruolo
naturale, quasi femminilizzando gli uomini. Di questa funzione procreatrice possiamo
ritenere indicatori il fatto che gli intrattenimenti si tengono la notte nelle stanze della
duchessa, come sottolinea la Zancan,174 e il fatto che la duchessa coniuga in sé, in una
sorta di ermafroditismo, il maschile e il femminile, a causa del suo potere, anche se
resta comunque una figura sostitutiva e temporanea nella gestione del potere che di
diritto e di fatto pertiene al duca, alla figura maschile, il che è dimostrato anche dalla
limitazione dei suoi interventi alla sfera relazionale dell’intrattenimento, e dalla sua
esclusione da quella più propriamente politica.
È suggestiva al riguardo l’interpretazione in chiave freudiana proposta dalla
Finucci, secondo cui l’assenza temporanea della figura di potere maschile, il duca
malato, e la sua sostituzione con la figura femminile della duchessa, produce effetti nel
sodalizio di gruppo e nell’amore fraterno all’interno di esso, anche nei confronti delle
donne considerate sorelle.175 E di questa fraternità troviamo traccia anche nello stesso
testo del Cortegiano, laddove la concordia tra i cortigiani viene paragonata a quella tra
fratelli, «talmente che mai non fu concordia di voluntà o amore cordiale tra fratelli
maggior di quello, che quivi tra tutti era» (C: I, 4).
Per quanto riguarda poi la esclusione dalla costruzione della cultura, se non nel
ruolo di promotrici e pubblico, sia della duchessa che delle donne di palazzo, si possono
ancora aggiungere le seguenti note. Se da una parte la duchessa, coadiuvata dalle donne
di palazzo, ha un ruolo inferiore, rispetto al duca e ai cortigiani, perché promuove solo
le relazioni mondane, mirate a magnificare la stessa corte, con lo scambio culturale e
l’atmosfera propiziatrice di carattere amoroso-cortese, ma ha, come le donne di palazzo,
un sapere più ridotto dei soggetti maschili e di cui qui non si fa parola, dall’altra è
quella che istituzionalmente consente relazioni e ragionamenti, e, in quanto figura di
potere, pur se sostitutiva, esalta questo ruolo simbolico-fisiologico delle donne. Il duca
che anch’esso promuove i ragionamenti durante il giorno, vi partecipa però anche
direttamente in quanto soggetto maschile dotato di cultura, e in più promuove quegli
esercizi d’arme e di cavalleria che ancora si confanno ad una corte e che pertengono al
maschile sia del duca che dei cortigiani. Il che di nuovo ci induce a relegare la funzione
formatrice delle donne in una dimensione subalterna rispetto a quella maschile. È vero
del cortigiano». (Vittorio Cian, Il Cortegiano del conte Baldesar Castiglione annotato e illustrato da
Vittorio Cian, cit., Nota 26 a L. I, 4, p. 20)
174
Riferiamo a questo proposito alcune interpretazioni interessanti della Zancan, secondo la quale
il produrre ragionamenti da parte degli uomini alla presenza e per la presenza di donne e per di più nello
spazio interno e privato del femminile renderebbe ancora più trasparente la metafora dell’atto generativo.
Cosí pure la disposizione in cerchio con l’alternanza uomo-donna. La Duchessa poi sarebbe una creatura
in cui il femminile si sublima nel maschile, perché riveste una posizione di potere maschile anche se in
via sostitutiva, e perché, promuovendo la generazione di ragionamenti la sera nei suoi spazi privati,
sublima la propria sessualità nel sapere in quanto sposa di un marito impotente, e quindi casta al più alto
livello. (in Marina Zancan, La donna nel Cortegiano di B Castiglione. Le funzioni del femminile
nell’immagine di corte, cit.)
175
I cortigiani, secondo la Finucci, in quanto figli metaforici del principe, avrebbero bisogno, per
elaborare un proprio ideale collettivo, dell’assenza fisica del padre e insieme della sua presenza
psicologica: l’assenza temporanea infatti garantisce l’uguaglianza tra fratelli, l’assenza totale innesca
invece la competizione per sostituirlo nel ruolo di capo e distrugge l’uguaglianza e la cooperazione tra
fratelli. L’uguaglianza dei fratelli cortigiani impedisce che uno di loro possa assumere il comando nella
discussione, il che comporta l’assegnazione di questo ruolo ad una donna non libidicamente coinvolta. Il
gruppo, per avere una identità comune, deve essere indifferente alla differenza sessuale, perciò le donne,
nella diegesi, sono considerate sorelle. La deeroticizzazione della duchessa, non oggetto di desiderio
nemmeno per il marito, libera poi dal pericolo del desiderio della madre. (in Valeria Finucci,
L’educazione dei fratelli: legge del padre e sua riscrittura nel libro del «Cortegiano», cit.)
106
però anche che la natura serale degli intrattenimenti, che avvengono sotto la
giurisdizione della duchessa, fatta di soli ragionamenti, musiche e danze, insomma di
arti che nulla hanno a che vedere col militare, ci può anche permettere di riconoscere
soprattutto al femminile il merito di quella comunicazione «cortese» che esalta la
società di corte, consentendole il piacere di un godimento intellettuale e amoroso
amplificato dalla relazione aristocratica ed estetica, naturalmente nel rispetto dei canoni
rinascimentali. Ci spinge a ipotizzare questa valutazione anche il fatto che Castiglione
riserva, alla descrizione dell’intrattenimento gestito dalla duchessa, molto più spazio
che a quello gestito dal duca, non solo perché macroscopicamente il trattato riferisce
giochi avvenuti sotto l’egida della consorte, ma anche perché nei capitoli iniziali, il
terzo e il quarto del primo libro, in cui ci vengono presentati qualità e funzioni
rispettivamente del duca e della duchessa, la descrizione delle modalità
dell’intrattenimento è riservata soprattutto a quello gestito da lei, e lì inoltre si sottolinea
un comportamento della corte che, avendo come referente primario la duchessa, assunta
a modello che si vuole compiacere, ne sviluppa comportamenti eminentemente sociali e
interattivi di gruppo, mentre nell’intrattenimento gestito dal duca si parla solo del suo
ruolo interattivo di intellettuale alla pari dei cortigiani e del suo ruolo promozionale di
una relazione mirata a compiacerlo che si esaurisce nel rapporto individuale del
cortigiano col principe, piuttosto che svilupparsi poi in una relazione di gruppo.176 Una
differenziazione questa che affonda le sue radici probabilmente anche nell’attribuzione
alla donna dello stimolo all’amore che unisce, all’uomo dell’intelletto che crea
competizione e divide, secondo una convenzione culturale plurisecolare.
Nell’espletamento di questa funzione, di veicolo amoroso di relazioni sociali e di
promozione dei discorsi, c’è una strettissima relazione tra la duchessa e le donne di
palazzo, anche se essa è esercitata a livelli diversi e con modalità diverse, più libere
quelle delle donna di palazzo, più contenute dalla maestà del potere quelle della
duchessa.
Se poi qui il ruolo di primaria importanza della duchessa è consentito dalla
malattia del marito, possiamo comunque ipotizzare che la figura della donna,
principessa o dama di corte, sia stata fondamentale nell’espletamento di questa funzione
anche nelle altre corti, o in sostituzione del principe assente o nel ruolo di comprimaria
e coadiutrice, anche per la generazione di quegli stimoli amorosi che, secondo la
tradizione cortese, sociale e letteraria, è funzione femminile e motiva i soggetti maschili
a migliorarsi. Certamente comunque la situazione di fatto della corte di Urbino è
riuscita funzionale all’intento di Castiglione di innalzare il ruolo della donna e di
distinguere un suo specifico ruolo da quello maschile.
Concludiamo l’esame delle caratteristiche e delle funzioni del duca e della
duchessa ribadendo quanto già anticipato in premessa, ovverossia che non vi
distinguiamo un livello teorico e uno pratico, perché non se ne propone una
modellizzazione teorica, ma se ne offre piuttosto un esempio pratico di perfezione
modellizzante. Se una modellizzazione ci sarà alla fine del trattato per l’optimus
princeps, essa dettaglierà maggiormente, ma si inscriverà comunque in una modalità
176
Il sentimento che prova il cortigiano nel servizio al signore è quello dell’onore, alla presenza
della duchessa è, invece, gioia. Al solito i termini-chiave differenzianti maschile e femminile sono
ambizione/potere e amore/piacere «[…] ché, lassando quanto onore fusse a ciascun di noi servir a tal
signore come quello che già di sopra ho detto, a tutti nascea nell’animo una summa contentezza ogni
volta che al conspetto della signora Duchessa ci riducevamo» (C: I, 4) Anche l’uso del termine «servire»
per il solo rapporto col duca circoscrive la gerarchia di potere al maschile; nei confronti del femminile
invece il rapporto è di amore, sublimato nella reverenza.
107
d’essere di «ottimo signore»177 riconosciuta a Guidubaldo e agli altri duchi d’Urbino da
Castiglione nella presentazione iniziale. L’azione pratica svolta poi dalla duchessa, nel
suo ruolo istituzionale di promotrice dei giochi e discorsi nel corso di tutto il trattato, si
realizza in forme molto consone alla presentazione iniziale, di un modello di perfezione
in cui la realizzazione concreta incarna perfettamente l’ideale. Per cui riteniamo che non
ci sia distinzione tra un piano e l’altro, in quanto nei rappresentanti del potere, secondo
il costume “adulatorio” dei cortigiani, il reale può più facilmente coincidere con
l’ideale, determinando nei sudditi l’effetto di un’imitazione virtuosa.
Per dovere di sintesi e di collegamento ribadiamo che il duca, come il cortigiano,
è contraddistinto dalle virtù militari e intellettuali, dalla cultura che è potere e dal potere
che si definisce anche come cultura, gestisce la politica e trova nel cortigiano un valido
supporto di servizio-guida nella dimensione etico-politica; la duchessa, come le donne
di palazzo, promuove le relazioni sociali, educa a comportamenti civili, esercitando una
funzione di esempio e insieme di controllo, crea solidarietà nel gruppo piuttosto che
competizione perché agisce soprattutto ispirando amore. Cortigiano e dama di palazzo
acquisiscono comportamenti etico-estetici omologhi alle figure di potere che vogliono
compiacere e che per questo imitano. Le qualità morali e cortesi, la grazia, la
sprezzatura, la mancanza di affettazione, la moderazione, l’affabilità, la capacità di
relazionarsi in maniera corretta, rispettosa e gradevole, ossia aggraziata e diplomatica,
sono doti comuni che superano le differenze di genere e di gerarchia. Resta solo un
dubbio e un rischio nella relazione tra il cortigiano subalterno, ma guida del principe, e
il principe superiore, seppur guidato dal cortigiano-istitutore; a questo, però, nel trattato
si tenta una risposta che ristabilisce la gerarchia: le virtù politiche si potenziano
traducendosi in atto, ossia gestendo il potere, e questa è una prerogativa del principe e
non del cortigiano. Ciò che di fatto differenzia il cortigiano e la donna di palazzo dal
duca e dalla duchessa è la subalternità o l’esclusione dal potere. La loro indubbia
dignità, e stiamo parlando del modello, non giunge alla maestà-gravità che
contraddistingue il duca e, in particolare, la duchessa, in quanto rappresentanti del
potere. Per il resto, le figure sono molto simili. Come sopra abbiamo rilevato, li
differenzia anche il fatto che il perfetto cortigiano e la perfetta donna di palazzo sono
modelli di cui gli esemplari concreti sono incerti e da ricercarsi, il duca e la duchessa
sono invece modelli concreti in cui l’ideale si è incarnato. E anche questa
differenziazione deriva dalla mancanza o dal possesso del potere, perché è
indubbiamente il frutto della «lode» che il servizio del cortigiano implica.
Dopo queste precisazioni sulle corrispondenze e omogeneità delle componenti
della corte, pur in scala gerarchica e di perfezione e perfettibilità, ci sembra opportuno
inserire una tavola riepilogativa di confronto.
177
«Ma tra le maggior felicità che se le possono attribuire, questa credo che sia la principale, che
da gran tempo in qua [la città di Urbino] sempre è stata dominata da ottimi Signori» (C: I, 2)
108
10.1.1. Tavola di confronto fra le caratteristiche e le funzioni del duca e della duchessa
e quelle del cortigiano e della donna di palazzo.
Duca.
Cortigiano.
Duchessa.
Donna di palazzo.
Virtù morali
comuni.
Virtù cardinali e
cortesi.
Virtù sociali eticoestetiche.
Virtù cardinali e
cortesi.
Virtù sociali eticoestetiche
Virtù cardinali e
cortesi.
Virtù sociali eticoestetiche
Virtù cardinali e
cortesi.
Virtù sociali eticoestetiche
Virtù e
competenze
comuni e
specifiche.
Virtù militare e
capacità politiche
nella gestione del
potere.
Virtù militare e
soprattutto
diplomatica.
Bellezza e castità, virtù Bellezza e castità, virtù
sociali di relazione e di sociali di relazione e
diplomatiche.
gestione del potere in
subordine.
Maestà del potere. --------
Produzione del
sapere e dei valori
e istituzioni
sociali.
Forze attivanti e
caratterizzanti i
rapporti sociali.
Modalità
relazionale.
L’evoluzione
della civiltà di
corte a favore
Produzione del
sapere e dei valori
e istituzioni
sociali.
Maestà del potere.
----------
Controllo sociale
(in forma subalterna).
Controllo sociale
(in forma subalterna).
Educazione di tutti.
Educazione dei maschi.
Mediazione e
promozione.
Mediazione e
promozione.
Attività militare,
politica, culturale
alta-umanistica.
Promozione
intrattenimento,
conversazione
acculturata e
piacevole.
Attività militare,
politica, culturale
alta-umanistica.
Intrattenimento,
conversazione
acculturata e
piacevole.
Guida / promuove
intrattenimento.
Limitati gli interventi
nella conversazione.
Guida/ promuove
intrattenimento.
Limitati gli interventi
nella conversazione.
Grazia-ragioneCultura alta.
Grazia-ragioneCultura alta.
Grazia-bellezza-amore.
Desiderio di
acculturazione per
cultura minore della
maschile.
Grazia-bellezza-amore.
Desiderio di
acculturazione per
cultura minore della
maschile.
Potere.
Servizio.
Potere (minore del
maschile).
Servizio (meno
evidente del maschile).
Affabilità
piacevole.
Grazia.
Affabilità
piacevole.
Grazia.
Affabilità piacevole.
Grazia.
Affabilità piacevole.
Grazia.
Maestà (del
potere).
(maestà nel
comportamento
per imitazione).
Gravità,
Maestà (del potere).
(maestà nel
comportamento per
imitazione).
Dalle virtù militari Dalle virtù militari La corte come spazio
che, rispetto a quello
del cavaliere a
a quelle di corte.
militare, concede
quelle militari –
Da Federico a
La corte come spazio
che, rispetto a quello
militare, concede
109
delle doti
relazionali.
Guidubaldo.
diplomatiche e
cortesi del
cortigiano.
maggiore importanza
alla donna, mediatrice
relazionale e veicolo di
piacere.
Funzioni
differenziate
legate al potere.
Gestione del
potere, mecenate.
Servizio
cortigiano.
Gestione
Servizio cortigiano.
dell’intrattenimento in
funzione sostitutiva del
potere maschile.
Aiuto nella gestione
dell’intrattenimento.
Aiuto indiretto
nella gestione del
potere, attività di
istitutoreconsigliere.
Obiettivi
comuni.
La grandezza della
corte.
La «bona
opinione».
La grandezza della La grandezza della
corte.
corte.
La «bona opinione».
La «bona
opinione».
maggiore importanza
alla donna, mediatrice
relazionale e veicolo di
piacere.
La grandezza della
corte.
La «bona opinione».
110
10.2. Tavola di confronto fra virtù e funzioni del cortigiano e della donna di
palazzo.
Anticipiamo questa tavola perché lo riteniamo utile in quanto presenta in modo
pìù dettagliato le qualità e funzioni del cortigiano e della donna di palazzo, indicate
nella precedente tavola in maniera sintetica in relazione al confronto tra duca e
cortigiano e duchessa e donna di palazzo, e costituisce una buona guida alla
ricognizione più analitica di questi aspetti all’interno dell’intera opera.
Virtù e funzioni.
Cortigiano.
Donna di palazzo.
Virtù del corpo.
Virilità. Vigore fisico.
Competenza e azione guerresca.
Esercizi bellici e sportivi.
Tenerezza molle e delicata.
Grazia.
Maggiore grazia e origine della
grazia.
Bellezza.
Maggiore bellezza.
Esercizio arti femminili
dell’intrattenimento: musica,
canto, danza.
Esercizio arti femminili
dell’intrattenimento: musica,
canto, danza.
Competenza teorico-pratica
maggiore nella musica.
Sensibilità nella musica.
Competenza pratica nella danza.
Femminilizzazione, non
effeminatezza.
Virtù dell’animo.
Prudenza, temperanza, forza
d’animo, costanza, onestà,
continenza-castità come
comportamento raccomandato.
Prudenza, temperanza, forza
d’animo, costanza, onestà,
continenza-castità come obbligo.
Virtù d’animo e di sangue.
Nobiltà.
Nobiltà.
Virtù relazionali.
Discrezione, moderazionemediocritas, affabilità piacevole,
rispetto, convenienza, grazia,
sprezzatura.
Discrezione, moderazionemediocritas, affabilità piacevole,
rispetto, convenienza, grazia,
sprezzatura.
Obiettivo comune.
La «bona opinione», la buona
fama presso l’opinione pubblica.
La «bona opinione», la buona
fama presso l’opinione pubblica.
Fattori, strumenti di realizzazione L’operare in maniera lodevole.
dell’obiettivo.
Ambito guerresco-politicoculturale.
La simulazione e la
dissimulazione.
La grazia conquistatrice di graziafavore.
L’operare in maniera lodevole.
Ambito sessuale: castità e
continenza.
La simulazione e la
dissimulazione.
La grazia conquistatrice di graziafavore.
111
L’opinione pubblica
(centrale, nel determinarla,
l’opinione della corte, in relazione
alla onestà-castità).
Il controllo sociale patito.
L’opinione pubblica
(centrale, nel determinarla,
l’opinione del principe in
relazione al servizio).
L’autocontrollo.
Moderazione, discrezione, grazia, Moderazione, discrezione, grazia,
sprezzatura, ossia mancanza di
sprezzatura, ossia mancanza di
affettazione. Pudore e continenza.
affettazione.
Il controllo sociale agito
Il controllo dell’onestà-castità
femminile, tramite l’educazione
della donna alla virtù.
Il contenimento di comportamenti
eccedenti la norma della misura e
convenienza. Azione di
mediazione e incivilimento
a livello fattuale. Anche per il
La determinazione dei valori
rispetto dovuto alla castità e
discriminanti. Azione di
incivilimento a livello teorico e di onestà femminile.
potere.
Il modello di comportamenti
onesti.
Gli effetti virtuosi nella società
provocati dall’educazione del
principe alla virtù.
La promozione di comportamenti
magnanimi e di eccellenza
virtuosa e artistica.
Sapere in modo approfondito,
conoscenza e dominio strumenti
musicali, letterari, artistici (vedi
le questioni letterarie e artistiche
trattate solo in relazione alla
modellizzazione del perfetto
cortigiano).
Sapere in forma elementare:
«avere notizia e cognizione di».
Sapere speculare alle necessità
maschili: conoscenza elementare
degli argomenti di competenza e
interesse maschile.
Sapere filosofico e dialettico.
Esclusione dal sapere filosoficodialettico e disinteresse per
questo.
Perciò esclusione condivisa.
Sapere politico per esperienza e
ruolo.
Esclusione dal sapere e dal ruolo
politico.
Sapere amoroso-cortese per
esperienza e cultura.
Sapere amoroso –cortese per
esperienza.
La reciprocità funzionale al
miglioramento.
Istruzione ed educazione della
donna alla virtù.
Educazione dell’uomo a
comportamenti corretti e utili per
conquistare il favore della donna.
Amore.
Esperienza dell’amor cortese.
Amante e servizio d’amore
Esperienza dell’amor cortese.
Amata.
Esperienza sublimante dell’amor
platonico.
Promozione, tramite la bellezza,
dell’ esperienza dell’amor
platonico nell’uomo, ma forse
esclusione dall’esperienza
dell’ascesi mistica.
Cultura.
112
La reciprocità virtuosa.
Educazione della donna alla virtù. Sprone dell’uomo alla virtù
tramite la bellezza suscitatrice
dell’amor cortese e platonico.
Donne funzionali non solo
all’essere, ma anche al benessere
dell’uomo e promotrici di grandi
azioni.
Il controllo e la penalizzazione
della sessualità.
La castità «consustanziale»
nell’amor platonico.
Amore intellettuale –
contemplativo ed esclusione
dell’amor volgare.
L’obbligo di castità esteso
all’amor cortese per le donne.
L’intrattenimento nella forma
della conversazione.
La produzione dei discorsi.
La parola filosofica e dialettica,
impregnata di sapere.
La parola acculturante e
pedagogica.
La parola politica e pedagogica
nella relazione col principe.
La parola pedagogica
sull’intrattenimento d’amore e
sull’amore cortese delle donne,
platonico degli uomini.
La promozione del discorso.
La conversazione piacevole.
Il discorso faceto. Competenza
teorica e pratica.
Il discorso faceto.
Competenza pratica.
La modalità comportamentale
nella conversazione: una «civil
conversazione».
L’affabilità piacevole. La
discrezione e la misura, la grazia
e la sprezzatura.
L’affabilità piacevole. La
discrezione e la misura, la grazia
e la sprezzatura.
La conversazione acculturante e
«piacevole».
La parola parca nel perdurante
silenzio
I brevi interventi di indirizzo,
difesa, censura.
La mediazione.
La competenza nel discorso
sull’amore (rivolto ai cortigiani
per un fine di utilità pratica: come
conquistarsi l’amore delle donne).
Il doveroso controllo in relazione Il doveroso controllo in relazione
alla convenienza e al destinatario. alla convenienza e al destinatario.
Il rispetto della propria dignità e
della donna.
Il rispetto della propria dignità.
La promozione della dignità
altrui.
La corte promotrice di libertà nel
«servizio» e nel controllo e
nobilitazione dei comportamenti
secondo valori omologhi.
Per il cortigiano.
Per la donna di palazzo.
Funzioni.
Politica, militare, culturaleacculturante, etica-estetica
Etica - estetica – edonistica
113
Attività.
Attività nella diegesi.
Attività militare e diplomatica.
Pedagogico-politica.
Culturale e formatrice anche a
livello etico.
Promozione di comportamenti
civili e magnanimi. Fonte di
piacere.
Mediazione-Interposizione.
Intrattenimento.
Intrattenimento.
Ruolo centrale nella costruzione
dei discorsi.
Ruolo istituzionale della
promozione dei discorsi, legato
alla funzione fisiologica della
maternità (ma anche all’essere
veicolo di piacere e amore).
Prevalenza netta nel ruolo di
interlocutori attivi.
Ma pubblico prevalentemente con
ruolo passivo, ricettivo.
Come vediamo, la donna di palazzo viene equiparata al cortigiano nella
fruizione dello spazio libero e insieme controllato della corte, ne diviene promotrice di
comportamenti virtuosi e fonte di piacere e grazia, è elemento chiave
dell’intrattenimento e della conversazione, il suo antico ruolo familiare resta
assolutamente in ombra, mentre se ne conserva la dote e l’obbligo dell’onestà e
continenza, estendendolo anche all’amor cortese e platonico, e valorizzandolo al punto
da farne una forma di autocontrollo che le permette l’esercizio di un importante ruolo di
coadiuvatrice nell’incivilimento. La sua acculturazione avviene in forma limitata e
funzionale all’uomo, e la sua bellezza-grazia che provoca il desiderio di compiacerla
(ossia il desiderio di lei sublimato nel desiderio di compiacerla) ha effetti virtuosi nella
produzione di azioni magnanime e nella crescita spirituale dell’uomo. Resta esclusa
comunque dal potere politico e in buona parte dal potere rappresentato dalla cultura.
L’uomo conserva il potere politico e culturale, l’effettivo controllo sociale nella
determinazione dei valori discriminanti, mentre la donna non ne è che l’applicatricetrasmettitrice. E naturalmente all’uomo pertiene il potere militare, legato alle sue doti
fisiche e al suo statuto stesso di detentore del potere. Così come l’esperienza
intellettuale più alta, quella della contemplazione della idea della bellezza, tramite
l’amor platonico; quella bellezza che è per gli intellettuali del Rinascimento il principio
primo, assorbente in sé la stessa bontà. Si assiste anche a una reciprocità di azione
virtuosa, nello spazio nobilitante e omogeneizzante della corte, in relazione a uno
scambio educativo e promozionale e a valori e modalità comportamentali condivise
quali la mediocritas e la discrezione, la sprezzatura e la grazia, e all’obiettivo comune
della conservazione e promozione della «bona opinione» di sé, come carta di credito
che assicura benefici economici e di status, e conseguente soddisfazione psicologica e
autocredito. Di rilievo la centralità assunta in questo contesto dalle virtù relazionali
sopraindicate, perché la civiltà di corte privilegia l’interazione sociale nello spazio
pubblico della corte, relegando in secondo piano il privato. Il processo di
femminilizzazione dell’uomo è funzionale a dargli la grazia, le virtù e la competenza
del femminile senza intaccare la sua integrità maschile. Non degenera
nell’effeminatezza e ne aumenta il potere. Naturalmente stiamo parlando di modelli di
perfezione, garantiti in qualche modo dalla perfezione attribuita da Castiglione alla
corte reale di Urbino. Ma non mancano ripetutamente attacchi polemici contro gli
atteggiamenti scorretti e degenerati di cortigiani, donne di palazzo, e principi, che ci
aprono gli occhi su una realtà diffusa, per quanto vi sia l’intenzione di migliorarla e di
evidenziarne tutte le potenzialità positive.
114
10.3. La trattazione della virtù della donna di palazzo nel contesto della
rinnovata celebrazione della corte d’Urbino.
La nobilitazione della donna di palazzo in quanto componente di una corte, e nobilissima corte. La sua
partecipazione alla vita pubblica. Il suo ruolo in termini freudiani.
Il libro terzo si apre, non a caso per le implicazioni che questo ha nella
valorizzazione della donna di palazzo, con la rinnovata celebrazione, nel proemio, della
grandezza della corte d’Urbino, la cui superiorità in tutto rispetto alle altre corti d’Italia
è certificata dalla superiorità nell’ambito dei giochi-ragionamenti. La misura del piede
di Ercole sarebbe l’equivalente del valore dei giochi, e la grandezza dell’intero corpo di
Ercole risponderebbe a quella della corte d’Urbino nell’insieme delle attività che vi
sono condotte.
Voi adunque, messer Alfonso mio, per la medesima ragione, da questa piccol parte di tutto ‘l
corpo potete chiaramente conoscer quanto la Corte d’Urbino fusse a tutte l’altre della Italia superiore,
considerando quanto i giochi, li quali son ritrovati per recreare gli animi affaticati dalle faccende più
ardue, fussero a quelli che s’usano nell’altre corti della Italia superiori. E se queste eran tali,
imaginate quali erano poi l’altre operazion virtuose, ov’eran gli animi intenti e totalmente dediti; ( C:
III, 1)
Castiglione, dopo aver rinnovato la professione di veridicità nella sua
rappresentazione della corte di Urbino facendo leva sulle testimonianze che può
addurre, riesplicita la sua intenzione di conservare la memoria di tanta virtù e la
speranza che il pubblico la sappia apprezzare, nonostante l’inadeguatezza della
trattazione che lamenta, come gli interlocutori del dialogo, e che evidentemente, in
quanto espressione di modestia, è una prassi della relazione civile e mira a conquistare
la grazia del pubblico dei signori e dei cortigiani. Lo stesso rinnovato appello al
pubblico in cui si associano i «nobili cavalieri e le valorose dame» e la riproposizione
della corte come luogo di virtù, degno della grandezza degli antichi, si possono
considerare finalizzati a riconoscere alla donna la sua assunzione a pieno titolo nel
virtuoso mondo della corte, e la sua nobilitazione in quanto donna di palazzo. Nel
contesto di questa celebrazione, come afferma la Carella,178 prende importanza la
trattazione della virtù della donna di palazzo, perché una delle ragioni della
valorizzazione della donna è proprio la sua partecipazione alla vita di corte che,
richiedendone la presenza, la nobilita, in quanto non può assumere in sé una
componente che la degradi. Su questa valutazione concorda la Zancan che considera
l’essere virtuosa in assoluto della donna di palazzo come strumentale all’inserimento
nell’immagine di valore della corte. La corte, infatti, si presenta come una totalità di
potere che assume in sé il diverso come complementare e lo assimila a sé. Mentre lo
nobilita, lo espone però al rischio di perdita di un’identità autonoma, e questo suona
come un elemento di dubbio sulla validità del supposto processo di valorizzazione della
donna.
178
«Nel III libro della vulgata, il «gioco» del «formar con parole» la donna di palazzo viene
introdotto nel nuovo scenario d’esaltazione della Corte di Urbino messo a punto nella dedica (assente
nella seconda redazione, dove è già quello che nella vulgata sarà il proemio al IV libro), costituendo un
ulteriore elemento fortemente probatorio lo stato d’eccellenza della Corte stessa. È perciò naturale che
non solo si dichiari l’assoluta pertinenza di questo «gioco» particolare al «gioco» generale, ma che si
ribadisca la sua fondamentale importanza per la buona riuscita di tutta l’impresa. Lo dice a chiare lettere
Cesare Gonzaga [...] » in Angela Carella, Il libro del cortegiano di Baldassarre Castiglione, cit., p. 1108.
115
[...] poiché infatti il trattato, nel suo insieme, traccia l’immagine della corte, la donna, mentre
nella realtà del discorso è una tessera preziosa di tale ritratto, nell’immagine complessiva perde i
contorni del proprio essere; non esiste cioè in sé, ma il suo valore è detto per segnare un tratto
essenziale di bellezza e di grazia nell’immagine di valore della corte stessa. E l’immagine è unica,
indistinta, come unico è il soggetto che partecipa al potere. (MZ: 53)
Non dimentichiamoci che in altro contesto culturale, ossia nell’antica Grecia, le
etere, compagne appunto dell’uomo, avevano libertà di intrattenersi nei luoghi pubblici
con quello, ad esempio nei banchetti, e sapevano intrattenerlo con le arti della musica,
della danza, della parola, perché erano dotte. Potevano anche avere rapporti sessuali, e
godevano di stima e considerazione. Nella corte cinquecentesca viene recuperato
indubbiamente il ruolo delle etere, anche se amputato però della libertà sessuale, per lo
meno in pubblico e per quel che pubblicamente si sostiene. Il Magnifico giungerà infatti
a morigerare l’amor cortese, privandolo del diritto all’adulterio. Del resto la
interpretazione in chiave freudiana della Finucci179 ci dice che le donne nel contesto
della corte devono essere nel ruolo di sorelle per conservare l’omogeneità del gruppo.
Secondo la studiosa, il gruppo dei cortigiani, servi del principe e suoi figli metaforici, si
avvale, come abbiamo già detto, dell’assenza temporanea del padre, il duca malato, per
elaborare un proprio ideale collettivo e, per elaborare un’identità comune, ha necessità
di oltrepassare la differenza sessuale. Poiché il circuito della libido deve essere
omosociale, la donna non vi è oggetto sessuale. Infatti le donne, nella diegesi, cioè nel
circolo delle conversanti, non sono oggetto di desiderio, ma sorelle; conservano però
queste caratteristiche nella mimesi. Se convergiamo con la Finucci nel riconoscere la
possibile azione di queste ragioni profonde e la concordanza di queste con la teorizzata
morigeratezza del modello femminile, non possiamo non ritrovare in tutto il Cortegiano
una linea frizzante di attenzione alla donna, vuoi in chiave misogina, vuoi in chiave
filogina, e un bisogno sostanziale del suo consenso, che dimostra la presenza di una
disposizione eterosessuale nel cortigiano, salvaguardata nelle giuste forme dalla
morigeratezza femminile. D’altra parte, come rileva la stessa Finucci, il cortigiano
abbisogna di questa tendenza etrosessuale per salvaguardare la propria mascolinità,
messa in forse dalla sua funzione femminile di servizio nei confronti del principe e dalla
nuova modalità comportamentale, investita anche di attributi femminili.
10.4. Le premesse e il contraddittorio che precede la modellizzazione della
perfetta donna di palazzo.
La tutela dell’onore delle donne. L’investitura del Magnifico. L’imperfezione, l’«imbecillità» e il
silenzio femminile. La difficoltà di reggere il confronto col modello maschile.
Giova, prima di scendere nel dettaglio della trattazione del modello di donna di
palazzo, ricordare brevemente l’occasione che lo genera, ossia la volontà di tutelare
l’onore delle donne, e le difficoltà frapposte, a testimonianza della tradizionale e
ampiamente condivisa subalternità della donna che la pone in una condizione di tutela o
di emarginazione, come comprovano anche il silenzio delle dirette interessate invitate
vanamente a prendere la parola su di sé e apparentemente capaci solo di un linguaggio
gestuale, oltre alle spie di remore misogine nello stesso Magnifico, il gentiluomo
filogino per eccellenza, investito del compito della modellizzazione della perfetta donna
di palazzo e della più generale difesa delle donne.
179
Valeria Finucci, L’educazione dei fratelli: legge del padre e sua riscrittura nel libro del
«Cortegiano», cit.
116
Nel finale del libro II si prepara, in risposta alla sottile vena misogina che percorre le
facezie e alla esplicita provocazione delle battute misogine del Signor Gasparo e Ottaviano, la
difesa delle donne con la trattazione delle doti della donna di palazzo, individuate poi
peculiarmente in relazione alla funzione pubblica dell’intrattenimento. La polemica si sviluppa
a partire dall’invito rivolto dal filogino, signor Bernardo, a non mettere a repentaglio con
facezie, motti e burle l’onestà delle donne, e presenta da una parte l’obiezione del misogino,
signor Gasparo, che rivendica per gli uomini una parità di diritti al rispetto da parte delle donne
e una abolizione dei privilegi riservati alle donne in virtù della loro debolezza ( C: II, 90, 91),
dall’altra l’accusa dei filogini alle prevaricazioni maschili legate alla doppia morale sulla
continenza (C: II, 90); da una parte una riasserzione di matrice misogina, per bocca di Ottaviano
Fregoso, della liceità e necessità del freno della continenza per le donne «animali
imperfettissimi», a tutela della legittimità della discendenza (C: II, 91), insieme alla
svalutazione della donna–materia che concede l’animo a chi ne possiede il corpo, anche con
l’inganno, per bocca del signor Gasparo (C: II, 95), e dall’altra la riprovazione del filogino,
messer Bernardo, che pretende che non s’ingannino le donne e che il gentiluomo rivolga
un’amore sincero alla nobildonna e si adoperi, «non per acquistarne principalmente il corpo, ma
per vincere la rocca di quell’animo», e giudica, con una precisazione aggiuntiva pro cortigiana,
assolutamente sincero un amore rivolto da una nobildonna gerarchicamente superiore a un
inferiore (C: II, 94). Alla polemica inoltre partecipano le donne con una iniziale reazione
scherzosa perché, provocate a prendere la parola in propria difesa, accennano a voler picchiare
il misogino (C: II, 96) che ne approfitta subito per contestare loro la mancanza di argomenti per
un confronto civile (C: II, 97); e in seguito con la decisione di un confronto civile, assunta da
Emilia Pio e suffragata dalla duchessa, di valersi della protezione di un cavaliere per affermare i
diritti del proprio sesso (C: II, 97). Viene così insignito di questo onere e onore il Magnifico
Juliano, chiamato, secondo il linguaggio militaresco di ascendenza cortese-cavalleresca e spia
della tradizione di costume conservata nella corte cinquecentesca, a entrare in campo come
«cavaliere più fresco», rispetto a messer Bernardo, che «combatterà» con il signor Gasparo poco
prima definito «grandissimo guerriero» (C: II 96), e a dimostrare di non aver acquistato
falsamente la fama di «protettor delle donne» (C: II, 97). Ci troviamo insomma di fronte
all’equivalente di un torneo, di uno spettacolo di bravura militare, trasferita nel campo della
dialettica, ma, come il primo, puro gioco, prova in cui ci si esibisce senza mettere a repentaglio
una ideologia radicata, ma solo un’immagine di sé. La passione ci sembra investire non tanto il
merito delle idee, quanto l’abilità con cui le si difende, in consonanza con una civiltà che
privilegia la forma rispetto ai contenuti e riesce tuttavia a farne un veicolo sostanziale di civiltà
relazionale, e quindi un’opportunità di civiltà tout court.
Il Magnifico, dunque, esplicita la sua intenzione di formare «una Donna di Palazzo con
tutte le perfezioni appartenenti a donna cosí come essi hanno formato il Cortegiano con tutte le
perfezioni appartenenti ad omo» e ritiene che la «virtù» del soggetto trattato possa ovviare a un
eventuale limite dell’eloquenza di chi lo tratta, perché «le donne sono così virtuose come gli
omini», affermazione cui la signora Emilia aggiunge di rincalzo il riconoscimento di una
superiorità femminile: « Anzi molto più; e che cosí sia, vedete che la virtù è femina, e ’l vizio
maschio» (C: II, 98). Seguono le consuete professioni di inadeguatezza, mirate al
conseguimento della benevolenza del pubblico, cui si accompagna la richiesta di aiuto
nell’espletamento del compito, attraverso la partecipazione al dialogo, inteso come confronto
dialettico costruttivo. A queste la signora Duchessa risponde ribadendo l’incarico e la sua
posizione a favore delle donne perché auspica una vittoria del Magnifico sui misogini. Ma nello
stesso tempo si presenta non esente da un pregiudizio maschilista, perché non vuole più che si
tratti e perfezioni ulteriormente il cortigiano, in quanto teme che la donna già vittima di un
giudizio/pregiudizio d’inferiorità non possa poi reggere il paragone con un cortigiano
iperperfetto.
- Io spero, rispose la signora Duchessa, che ‘l vostro ragionamento sarà tale, che poco vi si potrà
contradire. Sicché, mettete pur l’animo a questo sol pensiero, e formateci una tal donna, che questi
nostri avversarii si vergognino a dir ch’ella non sia pari di virtù al Cortegiano: del quale ben sarà che
117
messer Federico non ragioni più, ché pur troppo l’ha adornato, avendogli massimamente da esser
dato paragone d’una donna.- (C: II, 100)
Al progetto del Magnifico si oppone il misogino, signor Gasparo, che ritiene sufficiente
per le donne di palazzo un’estensione speculare ridotta delle doti attribuite al cortigiano e
contenuta nei limiti della loro «imbecillità». Anche il misogino Frigio ribadisce l’inutilità del
discorso sulle donne e la necessità di non mescolare la trattazione dei due generi, ma trova
un’opportuna contestazione nell’affermazione del Gonzaga che instaura un confronto
giustificatorio, ma a nostro parere imperfetto, tra la necessità della presenza delle donne a
corte come causa di «ornamento, splendore e allegria» e la legittimità del discorso sulle donne,
pena l’insuccesso della stessa trattazione del cortigiano, perché le donne sono, secondo lui, le
promotrici dei ragionamenti come in generale delle «opere leggiadre di cavalleria», in quanto
soggetto che si vuole compiacere, e insieme le necessarie coautrici per la perfezione dei
ragionamenti, mediante la grazia che vi calano.
-Voi siete in grande errore, rispose messer Cesar Gonzaga; perché come corte alcuna, per grande
che ella sia, non po aver ornamento o splendore in sé, né allegria senza donne, né Cortegiano alcun
essere aggraziato, piacevole o ardito, né far mai opera leggiadra di cavalleria, se non mosso dalla
pratica e dall’amore e piacer di donne: cosí ancora il ragionar del Cortegiano è sempre
imperfettissimo, se le donne, interponendovisi, non danno lor parte di quella grazia, con la quale
fanno perfetta ed adornano la Cortegianía.-(C: III, 3)
Sia la Carella181 che la Zancan182 concordano nel rilevare la nobilitazione che ne viene
alla donna da questo riconoscimento della sua necessità per la realizzazione della «Cortegianía».
E la Zancan in particolare sottolinea l’importanza dell’«interporsi», come segno di profonda
integrazione fra il femminile e il maschile, mentre a noi suona ancora soprattutto come termine
indicante la funzione di mediazione, di intermediazione.
La modellizzazione della perfetta donna di palazzo operata dal Magnifico presenta però,
a detta del suo stesso autore, il neo della mancanza di riscontro del modello ideale nella realtà,
peraltro associato a più riprese anche al modello di cortigiano, cosa che Castiglione in parte
riconosce, difendendosi con l’intento parenetico del modello verso il conseguimento di una
maggiore perfezione, ovvero di una diminuzione dell’imperfezione. Il Magnifico lamenterà a
più riprese questa mancanza, e vi aggiungerà anche l’inadeguatezza del comportamento delle
donne che, pur potendolo fare, non lo aiutano nel discorso sul loro essere, il che implica il
180
Non si tratta infatti di eliminare la presenza delle donne, ma il discorso sulle donne. Solo nel
primo caso verrebbe meno quella presenza che dà grazia e perfezione ai ragionamenti dei cortigiani e al
ragionamento sul cortigiano. A meno che il passaggio implicito sia il seguente: il non compiacere le
donne nella loro richiesta di un ragionamento sulla donna di palazzo, toglierebbe la loro grazia, il loro
favore, ai cortigiani e farebbe fallire di conseguenza anche il ragionamento sul cortigiano. Questa però
potrebbe essere un’interpretazione semplicistica, ancorata al livello della diegesi. Molto probabilmente il
Gonzaga allude, come suggerisce la Zancan, al fatto che, essendo le donne necessarie per la realizzazione
dell’ideale della cortigianía, anche del loro ruolo si deve parlare quando si tratta del modello di
cortigiano, pena una parcellizzazione causa di deformazione e imperfezione.
181
«È perciò naturale che non solo si dichiari l’assoluta pertinenza di questo «gioco» particolare al
«gioco» generale, ma che si ribadisca la sua fondamentale importanza per la buona riuscita di tutta
l’impresa. Lo dice a chiare lettere Cesare Gonzaga [...]» in Angela Carella, Il libro del cortegiano di
Baldassarre Castiglione, cit., p. 1108.
182
«La risposta di Gonzaga è funzionale ad affermare che il ragionamento sulla donna di corte, non
solo è pertinente al gioco complessivo, ma di più, è di esso elemento fondamentale: nominate come
acquisite la funzione del femminile a corte e la funzione delle donne nell’intertenere, Gonzaga sposta
infatti il discorso alla funzione del femminile nel ragionamento prodotto e all’interno dell’immagine
complessiva di cortegianía che ne deriva. Ragionamento e immagine non possono che essere imperfette,
se in essi non si inter-pongono le donne (l’immagine delle donne): l’operazione, detta con segno forte
(interponendovisi), non è semplice assunzione, bensí profonda integrazione tra femminile e maschile,
attraverso cui all’immagine della cortegianía deve derivare quella grazia che sola può renderla perfetta e
onorata» in Marina Zancan, La donna nel Cortegiano di B Castiglione. Le funzioni del femminile
nell’immagine di corte, cit., p. 43.
118
riconoscimento positivo alle donne di una facoltà in potenza che però ha il limite di non tradursi
in atto e soggiace quindi a un giudizio di imperfezione.
[...] e certo molto minor fatica mi saría formar una Signora che meritasse esser regina del mondo,
che una perfetta Cortegiana: perché di questa non so io da che pigliarne lo esempio; (C: III, 4)
[...] dirò di questa Donna eccellente come io la vorrei; e formata ch’io l’’averò a modo mio, non
potendo poi averne altra, terrolla come mia a guisa di Pigmalione. (C: III, 4)
[...] ma se queste donne, che pur lo san fare, non mi aiutano ad acconciarla, io dubito che non
solamente il Signor Gasparo e’l Frigio, ma tutti quest’altri signori aranno giusta causa di dirne male.
(C: III, 2)
Tale affermazione suggerisce un’ulteriore ambiguità del filogino Magnifico, e con lui, si
suppone, di Castiglione, perché, mentre si ammette che le donne potrebbero parlare su di sé, si
evidenzia che non lo fanno o si lascia intendere che forse non sarebbero capaci di farlo con
successo. D’altra parte, se ancora le donne si fanno scudo di un cavalier servente che le difenda,
attestando in questo, unitamente, superiorità, perché comandano sfruttando il loro buon diritto al
servizio d’amore, e inferiorità, perché non sanno fare da sé, il timore di inadeguatezza del
Magnifico suggerisce in questo caso anche l’incipiente coscienza di un’in-attitudine di genere a
farsi interprete delle esigenze dell’altro per mancanza di esperienza psicologica diretta. Ma non
si tratta che di un sospetto in nuce, messo a tacere dalla successiva modellizzazione, cui
contribuiscono attivamente solo soggetti maschili.183
Inoltre il limite avvertito e denunciato dal Magnifico riguarda anche la sua capacità di
coniare la donna di palazzo secondo un modello che regga il confronto con quello del
cortigiano, un dubbio che passa però dalla quasi certezza dell’inferiorità a un «forse» che
autorizza la speranza della riuscita, pur solo all’interno della dignità di un paragone col modello
maschile, non in una forma autonoma.
[...] Però, mentre che ella sia pur in qualche opinion di bellezza, forse sarà meglio tenerla
occulta, e veder quello che avanza a messer Federico a dir del Cortegiano, che senza dubio è molto
più bello che non po esser la mia Donna.- (C: III, 2)
In questo modo sarà ella ornata di boni costumi, e gli esercizii del corpo convenienti a donna farà
con suprema grazia, e i ragionamenti suoi saranno copiosi, e pieni di prudenzia, onestà e
piacevolezza, e cosí saría essa non solamente amata, ma reverita da tutto ‘l mondo e forse degna
d’esser agguagliata a questo gran Cortegiano, cosí delle condizioni dell’animo come di quelle del
corpo.- (C: II, 6)
In conclusione ci sembra di rintracciare nelle affermazioni del filogino Magnifico spie
di un perdurante dubbio sulla legittimazione a pieno titolo delle donne, pur all’interno di un
discorso di complessiva magnificazione della donna di palazzo. E i limiti rintracciabili nella
183
A questo proposito la Zancan formula i seguenti rilievi: «il testo [...] rappresenta dinamicamente
dispiegato in ragionamenti (in parte contrapposti) ciò che la cultura (gli «omini singularissimi» della corte
di Urbino) sa della donna. Ma, in continuazione, il testo allude anche al fatto che si sa che anche le donne
sanno: questo è implicito nella provocazione al discorso (solo chi sa è in condizioni di poter parlare o
scrivere); ed è esplicitamente riconosciuto dal Magnifico, all’inizio del discorso diretto sulla donna di
palazzo, quando, accingendosi ad «acconciarla» (operazione relativa al formar con parole), dice: «Ma se
queste donne, che pur lo san fare, non m’aiutano...» (L.3º, Cap.II), dove l’inciso, non più provocazione al
silenzio, essendosi già riaffermato chi parla, è funzionale invece a dire, a riconoscere, che le donne hanno
conoscenza di sé; al punto che non si può non ipotizzare che esse, oggetto di discorso, possano anche
intendere rappresentarsi da sé, come soggetto. La provocazione a prendere la parola, infatti, se è
funzionale a dire che le parole delle donne sono materialità e producono disordine e a riaffermare, quindi,
l’unicità del discorso, denota anche che di ri-affermazione si tratta: una affermazione detta con forza,
proprio perché non scontata, che maschera almeno una contraddizione reale, se non una contrapposizione
di potere» (Ivi, pp. 28-29).
119
filoginia del Magnifico potrebbero essere il segno della mediazione e delle remore presenti nello
stesso Castiglione, tanto è vero che ci sarebbe da chiedersi fino a che punto il Magnifico riesca a
fare un’operazione diversa da quella caldeggiata dal misogino Gasparo,184 perché nella sostanza
molto di quanto pertiene al cortigiano appare traslato alla donna nei limiti della sua debolezza,
pur con la differenza di credito derivata dall’averne voluto esplicitamente trattare. I parametri
comportamentali sono simili, ma in certi campi, come quello della cultura e della politica, la
donna resta in una condizione di subalternità o di esclusione.
10. 5. La specificità del femminile e la complementarità col maschile.
Differenze e somiglianze tra donna di palazzo e cortigiano.
La «tenerezza molle e delicata» femminile e la virilità guerriera maschile. Le virtù d’animo e
relazionali: la grazia, la mancanza di affettazione, la nobiltà. La bellezza, l’onestà, la tutela della buona
fama.
A difesa della donna, il Magnifico, allontanandosi da quella linea filogina che
pretende di emancipare la donna con l’accreditarle tutte le virtù maschili, sostiene una
specificità del femminile che lo differenzia dal maschile, con l’apparente intenzione
però di porlo rispetto a questo non su un piano di subalternità, ma di complementarità,
assicurandone la pari necessità e il pari valore.
E perché il signor Gaspar ha detto, che le medesime regule che son date per lo Cortegiano,
servono ancor alla Donna: io son di diversa opinione; ché, benché alcune qualità siano communi, e
cosí necessarie all’omo come alla donna, son poi alcun’altre che più si convengono alla donna che
all’omo, ed alcune convenienti all’omo, dalle quali essa deve in tutto esser aliena. Il medesimo dico
degli esercizii del corpo; ma sopra tutto parmi che nei modi, maniere, parole, gesti, portamenti suoi,
debba la donna essere molto dissimile dall’omo; perché come ad esso conviene mostrar una certa
virilità soda e ferma, cosí alla donna sta ben aver una tenerezza molle e delicata, con maniera in ogni
suo movimento di dolcezza feminile, che nell’andare e stare e dir ciò che si voglia sempre la faccia
parer donna, senza similitudine alcuna d’omo. (C: III, 4)
La donna dunque si connota per una «tenerezza molle e delicata» e una
«dolcezza» che si contrappongono alla «virilità soda e ferma dell’uomo», doti che, se da
una parte evidenziano un potere erotico e relazionale, dall’altro denunciano una carenza
di quella ‘forza’ che è alla base del potere istituzionale.
Non deve inoltre sfuggire che in questa differenziazione si afferma tra le righe
che gli uomini possono anche assumere qualità più convenienti alla donna («son poi
alcun’altre che più si convengono alla donna che all’omo»), mentre la donna deve
restare esclusa da alcune convenienti solo all’uomo («ed alcune convenienti all’omo,
dalle quali essa deve in tutto esser aliena»). Vi potremmo leggere quindi
l’autorizzazione ad una parziale femminilizzazione dell’uomo, operata effettivamente
da Castiglione, e il rifiuto di un processo contrario per la donna inerente all’acquisizione
di quella virilità (o di quella fermezza che ne costituisce la traslazione nel carattere) cui
si demanda il potere.
La Zancan sfuma il concetto di parità rilevando che nel Cortegiano si riconosce
«una parità di valore all’interno di una dis-parità di potere»,185 giudizio che nel
complesso possiamo condividere. Infatti lo sforzo di portare la donna su un piano di
184
«Anzi, disse il signor Gasparo, e questo e molte altre cose son più al proposito, che ‘l formar
questa Donna di Palazzo; atteso che le medesime regule che son date per lo Cortegiano, servono ancora
alla Donna; perché così deve ella aver rispetto ai tempi e i lochi, ed osservar, per quanto comporta la sua
imbecillità, tutti quegli altri modi di che tanto s’è ragionato, come il Cortegiano» (C: III, 3)
185
Marina Zancan, La donna nel Cortegiano di B Castiglione. Le funzioni del femminile
nell’immagine di corte, cit., p.41.
120
parità, distinguendone i compiti, ci sembra destinato a franare, perché, nella misura in
cui non le si riconosce quella forza fisica che è stata la prima matrice del potere, e non
le si riconoscerà nemmeno nei fatti quella forza intellettuale che ne é la seconda, il
potere in mani maschili resta il solo legittimato. Non per niente il cortigiano, che pur
dovrà adottare linee femminili nei suoi comportamenti, non rinuncerà al mestiere delle
armi e terrà per sé la potenza intellettuale costruttrice dei discorsi, e della visione
filosofica del mondo come delle istituzioni politiche e sociali e della regolamentazione
giuridica. Spetterà proprio al misogino Unico Aretino, nel suo contraddittorio col
Magnifico, una battuta di rimpianto della forza delle Amazzoni che lottavano nude con
gli uomini (C: III, 7), per quanto lí non ci sia certo rammarico per un potere perduto,
quanto una piccante allusione sessuale, che vuole riportare la donna ad una funzione
«materiale» subordinata.
Ad una differenza di genere che viene rimarcata, e che del resto ritroviamo
anche nei passi in cui si condanna l’effeminatezza degli uomini, soprattutto se
evidenziata dall’affettazione, il Magnifico accompagna però una parità di virtù d’animo
e di comportamenti sociali, innanzitutto caratterizzati dalla grazia, dal rifiuto
dell’affettazione e dalla nobiltà, s’intende, d’animo e di sangue.
Aggiungendo adunque questa avvertenzia alle regule che questi signori hanno insegnato al
Cortegiano, penso ben che di molte di quelle ella debba poterci servire, ed ornarsi d’ottime condizioni,
come dice il signor Gaspar; perché molte virtù dell’animo estimo io che siano alla donna necessarie
cosí come all’omo; medesimamente la nobilità, il fuggire l’affettazione, l’essere aggraziata di natura
in tutte l’operazion sue, l’esser di boni costumi, ingeniosa, prudente, non superba, non invidiosa, non
maledica, non vana, non contenziosa, non inetta, sapersi guadagnar e conservar la grazia della sua
Signora e di tutti gli altri, far bene ed aggraziatamente gli esercizii che si convengono alle donne. (C:
III, 4)
Ed alla donna riconosce il maggior peso che nella sua valorizzazione ha
l’attributo della bellezza (si potrebbe supporre maliziosamente -da un punto di vista
femminista- che la ragione risieda nel fatto che la donna resta sostanzialmente la prima
fonte di piacere per l’uomo per legge di natura, mentre per motivi socio-culturali le
manca il prestigio alternativo dato dai pregi intellettuali e dal potere, ma non possiamo
disconoscere che in un’ottica maschile questo costituisca comunque il riconoscimento
di un valore significativo estetico-erotico e di un potere effettivo: quello della
seduzione), e della buona fama, legata a quel dovere prioritario di castità-onestà che la
controlla e riguarda lei di fatto e non gli uomini, autori e sostenitori a questo proposito
di una doppia morale, funzionale da una parte alla tutela della legittimità della
discendenza, e dall’altra alla realizzazione dei loro piaceri. Una tutela della fama di
onestà, si badi bene, oculatissima per la donna che non deve dare adito a maldicenze,
evitando non solo il comportamento scorretto, ma anche il sospetto di quest’ultimo; un
condizionamento assoluto, quindi, sotto pretesto della debolezza dei suoi strumenti di
difesa.
Parmi ben che in lei sia poi più necessaria la bellezza che nel Cortegiano, perché in vero molto
manca a quella donna cui manca la bellezza. Deve ancor esser più circunspetta ed aver più riguardo di
non dar occasione che di sé si dica male, e anco di sospizione, perché la donna non ha tante vie da
difendersi dalle false calunnie, come ha l’omo. (C: III, 4)
In conclusione, ci pare che il riconoscimento di virtù trasversali ai due generi,
quali le virtù etiche e sociali della grazia, sprezzatura e nobiltà, e addirittura di una
preminenza femminile nella qualità della bellezza, per quanto potente fattore di
seduzione e principio di valore fondamentale nel Rinascimento per l’assorbimento
dell’etico nell’estetico, non siano tuttavia sufficienti a farci ritenere la donna su un
121
piano di parità con l’uomo, per l’esclusione dalle qualità maschili conferenti il potere (la
specificità femminile della ‘molle delicatezza’ è causa da una parte di valorizzazione,
dall’altra di inferiorità e subordinazione) e per il maggior condizionamento sociale che
si estrinseca non solo nel controllo della castità, ma della fama di castità, al punto da
considerare già come grave pregiudizio il solo sospetto della trasgressione.
Se ripercorriamo ora, per un più diretto confronto, le qualità attribuite al
cortigiano, vedremo valorizzate in lui la nobiltà di sangue e di sentire, il valore e il
coraggio guerresco, l’onore e la buona fama, l’ingegno, e, accanto a queste, anche la
bellezza e la grazia, doti squisitamente femminili riconosciutegli in modo innovativo, e
un comportamento civile ed aggraziato all’interno della corte di cui sembra debitore al
femminile sia per le doti muliebri che gli sono state partecipate, sia per l’opera di
mediazione e promozione espletata direttamente dall’elemento femminile, ma, in
primis, la finalità cui tutte concorrono, ossia il servizio cortigiano, la relazione col
signore, aspetto su cui invece non si insiste per la donna di palazzo, proprio perché essa
resta emarginata dai rapporti di potere (si accenna solo al suo dovere di acquistare e
conservare la grazia della Signora, «sapersi guadagnar e conservar la grazia della sua
Signora e di tutti gli altri» C: III, 4). E in genere uno sviluppo più articolato delle
tematiche, in quanto il cortigiano resta il soggetto privilegiato del dialogo. Non sfuggirà
il fatto che la donna di palazzo è stata plasmata sul suo modello, con la differenza di una
specificità femminile di natura e di condizionamento sociale: la molle delicatezza che la
esalta e la imbriglia, e l’obbligo della castità che la concerne in maniera pressoché
esclusiva ed ossessiva. E che la femminilizzazione degli uomini, nella dovuta misura
come forma di grazia, si auspica, mentre si rifiuta qualsiasi ipotesi di mascolinizzazione
della donna. Con questo non vogliamo delegittimare il percorso di Castiglione:
riconoscere una specificità femminile di pari valore a quella maschile è un’ipotesi
ragionevole, supportata da una verità di natura, ma, perché la donna effettivamente si
emancipi, bisogna spazzare via pregiudizi e sperequazioni istituzionali e sociali, darle
insomma l’accesso a un pari potere ricostruendo i parametri dell’identità di valore
dell’uomo, in quanto specie, in maniera indifferenziata rispetto al genere, e assorbendo
all’interno di questi come necessariamente compensative e cooperanti le diverse
attitudini naturali, senza gerarchizzarle o liberandole dalle tradizionali gerarchie di
potere: una strada difficile in cui Castiglione resta alle prime tappe, il che comunque, in
relazione ai tempi, gli va riconosciuto come un merito.
Nella dedica proemiale del primo libro all’amico Alfonso Ariosto, Castiglione così
chiarisce i termini dell’assunto:
Voi adunque mi richiedete ch’io scriva, qual sia al parer mio la forma di Cortegianía più
conveniente a gentilomo che viva in corte de’principi, per la quale egli possa e sappia perfettamente
loro servir in ogni cosa ragionevole, acquistandone da essi grazia, e dagli altri laude; in somma, di
che sorte debba esser colui, che meriti chiamarsi perfetto Cortegiano, tanto che cosa alcuna non gli
manchi. (C: I, 1)
La focalizzazione della relazione virtuosa del cortigiano nei confronti del principe, già
qui evidenziata nel servizio onesto («sappia perfettamente loro servir in ogni cosa ragionevole»)
e nell’effetto di grazia, ossia favore del principe, e di buona fama che l’onorabilità del
comportamento ha per il cortigiano, viene poi colta anche nelle conseguenze di buona fama per
il principe, dopo una veloce precisazione delle difficoltà dell’impresa assunta, per la varietà
sincronica e diacronica dei costumi di corte e la relatività legata all’uso, uno dei parametri
abituali che modernizza rispetto all’antico il pur classicista Castiglione.
122
Vegniamo adunque ormai a dar principio a quello che è nostro presuposto, e, se possibil è,
formiamo un Cortegiano tale, che quel principe che sarà degno d’essere da lui servito, ancor che
poco stato avesse, si possa però chiamare grandissimo signore.(C: I, 1)
Il circolo virtuoso sopraddetto, come ben si può notare, si instaura solo sulla base di
dignità e onorabilità dei due poli: anche il principe deve saper chiedere solo cose ragionevoli ed
essere degno del servizio del cortigiano. Nella stretta relazione virtuosa del cortigiano col
principe, esemplata in particolare nel libro IV, sta per Castiglione la fondamentale
giustificazione della cortigianía.
Al cortigiano ideale sono attribuite le seguenti qualità: la nobiltà di sentire e
possibilmente di sangue, perché la nobiltà di stirpe è stimolo ad un operare degno degli antenati
e fa avvertire più intensamente il timore di un’infamia che macchierebbe una tradizione
esistente di buona fama, e perché questo titolo costituisce una buona carta di presentazione nella
società prevalentemente aristocratica; in più l’ingegno, la bellezza e la grazia, altri strumenti per
conquistarsi il favore del principe e di conseguenza della pubblica opinione, che si forma
innanzitutto nella corte di cui perno, autorevole e imitato, è il principe.
Il Cortegiano adunque, oltre alla nobiltà, voglio che sia in questa parte fortunato, ed abbia da
natura non solamente lo ingegno, e bella forma di persona e di volto, ma una certa grazia, e come si
dice, un sangue, che lo faccia al primo aspetto a chiunque lo vede grato ed amabile, e sia questo un
ornamento che componga e compagni tutte le operazioni sue, e prometta nella fronte quel tale esser
degno del commercio e grazia d’ogni gran signore.- (C: I, 14)
Tra le competenze e le attività che spettano al cortegiano, come primaria, viene ribadita
quella delle armi, «la principale e vera profession del Cortegiano debba essere quella dell’arme»
(C: I, 17) in consonanza con le origini cavalleresche del servizio al signore.186 Il peso della
codardia sulla fama dell’uomo viene ritenuto di pari gravità a quello dell’impudicizia per
l’onore di una donna, una macchia indelebile perché tocca la sostanza profonda del suo essere,
in quanto intacca la sua funzione primaria. Il vero ardimento comunque prescinde dall’esistenza
di un pubblico testimone che possa magnificarlo, anche se non lo rifiuta; risponde innanzitutto
alla coscienza dell’individuo, e in questo dobbiamo dare atto a Castiglione di permanere
nell’alveo di una normativa etica intima che limita la pur riconosciuta importanza
dell’apparenza e dell’opinione pubblica.
Ma quelli che ancor quando pensano non dover esser d’alcuno né mirati, né veduti, né
conosciuti, mostrano ardire, e non lassan passar cosa, per minima ch’ella sia, che possa loro esser
carico, hanno quella virtù d’animo che noi ricerchiamo nel nostro Cortegiano.(C: I, 17).
186
Antonio Alvarez-Ossorio Alvariño così precisa le cause del passaggio da cavaliere a cortigiano
e le differenze e somiglianze tra l’uno e l’altro. Tra i secoli XI e XV modello della nobiltà era il cavaliere,
con connotati soprattutto militari. Il decadimento del prestigio della cavalleria anche come ordine militare
superato dalla fanteria, provoca la valorizzazione di incarichi di governo, diplomatici, domestici alla
corte. Questo si ha prima in Italia, poi nelle corti europee ancora itineranti e maggiormente legate alla
retorica militare dell’ordine della cavalleria. Il cavaliere è caratterizzato dalle virtù guerresche,
dall’ambito d’azione esterno e dalla devozione cristiana. Il cortigiano è invece connotato dall’ambito
d’azione interno, la corte, e dalle arti politiche dell’osservazione, dissimulazione/simulazione, dall’arte
della conversazione che risultano preminenti, nonostante la conservazione degli antichi attributi della
nobiltà, il cavallo e la spada. Simili nei due modelli sono l’appartenenza alla nobiltà, la pratica della
liberalità, la nobiltà dei costumi, premessa nel cavaliere alla raffinatezza del cortigiano. Il critico
aggiunge inoltre che Castiglione ha legittimato la metamorfosi della nobiltà da combattente a cortigiana,
conservandole un ruolo privilegiato e ricreando un universo armonico in cui la bontà virtuosa è premiata
con la preminenza materiale, sociale e politica. (in Antonio Alvarez-Ossorio Antoriño, Corte y cortesanos
en la monarquía de España, in Educare il corpo, educare la parola nella trattatistica del Rinascimento,
cit., pp. 297-365)
123
La natura di guerriero del cortigiano va però esibita nei giusti contesti e non nelle
relazioni sociali di corte dove genererebbe il ridicolo, come si rileva in relazione a un aneddoto
che riporta il motteggio derisorio di una dama:
Qual è adunque il mestier vostro?- rispose con mal viso: Il combattere; - allora la donna subito:
Crederei, disse, che or che non siate alla guerra né in termine di combattere, fusse bona cosa che vi
faceste molto ben untare, ed insieme con tutti i vostri arnesi di battaglia riporre in un armario, finché
bisognasse, per non ruginire più di quello che siate; -e cosí, con molte risa de’ circustanti, scornato
lassollo nella sua sciocca presunzione. (C: I, 17)
Insomma il cortigiano dovrà sapere comportarsi in maniera diversa e adatta alle
circostanze, sarà fiero e duro nel campo di battaglia, ma umano e modesto in corte, ed eviterà
quella presunzione e ostentazione che gli alienerebbero le simpatie del gruppo.
Quanto all’aspetto fisico ed al portamento dovrà sì essere aggraziato, ma evitare
qualsiasi atteggiamento effeminato e soprattutto affettazione in questo senso. Castiglione, che
accetta e propone una certa femminilizzazione dell’uomo (ne valorizza infatti in modo
innovativo la bellezza e la grazia, doti tradizionalmente tipicamente femminili), è bene attento al
discrimine, a conservare comunque all’uomo la connotazione virile, ed è durissimo verso coloro
che, con una femminilizzazione esagerata, minano e screditano quel giusto equilibrio tra
tradizionali attributi maschili e acquisizione parziale di attributi femminili che Castiglione
ritiene fattore di civiltà, e che appaiono invece nella deformazione esagerata come esempi e
fattore di corruzione e degenerazione.
Ché senza dubbio veggiamo, il vostro aspetto esser gratissimo e piacere ad ognuno, avvenga che
i lineamenti d’esso non siano molto delicati; ma tien del virile, e pur è grazioso; e trovasi questa
qualità in molte e diverse forme di volti. E di tal sorte voglio io che sia lo aspetto del nostro
Cortegiano, non cosí molle e feminile come si sforzano d’aver molti, che non solamente si crespano i
capegli e spelano le ciglia, ma si strisciano con tutti que’ modi che si faccian le più lascive e
disoneste femine del mondo; e pare che nello andare, nello stare, ed in ogni altro lor atto siano tanto
teneri e languidi, che le membra siano per staccarsi loro l’uno dall’altro; e pronunziano quelle parole
cosí afflitte, che in quel punto par che lo spirito loro finisca: e quanto più si trovano con omini di
grado, tanto più usano tai termini. Questi, poi che la natura, come essi mostrano desiderare di parere
ed essere, non gli ha fatti femine, dovrebbono non come bone femine esser estimati, ma, come
publiche meretrici, non solamente delle corti de’ gran signori, ma del consorzio degli omini nobili
esser cacciati. (C: I, 19)
L’acquisizione del femminile da parte maschile, dunque, se contenuta nella
giusta misura, perfeziona il genere maschile, incivilendo il tradizionale detentore del
potere, che peraltro continua però ad escludere il sesso femminile dalle proprie
prerogative. Ma su questo tema, che potremmo definire una sorta di ermafroditismo in
funzione di una maggiore autonomia maschile con pregiudizio forse della donna cui si
tolgono ambiti di monopolio prestigioso, ritorneremo.
10. 6. Il compito specifico della donna di palazzo: l’intrattenimento.
La legittimazione di un ruolo pubblico. La conservazione delle virtù tradizionali, ma il superamento
del ruolo esclusivo di buona madre di famiglia. L’affabilità piacevole. La conversazione onesta e
discreta. Il controllo sociale attivo e passivo. Cooperazione e distinzione di compiti nell’intrattenimento.
Lo spartiacque che distingue la donna di palazzo dalla immagine tradizionale
della donna, è il suo ruolo pubblico, caratterizzato dall’attività dell’intrattenimento,187
187
Quondam riconosce che la valorizzazione della donna nel Cortegiano è legata alla importanza
datavi all’intrattenimento, e in particolare alla conversazione, in cui la donna ha un ruolo necessario,
anche se ancora complementare: «L’impatto innovativo, anzi fondativo, del libro di Castiglione si
124
inerente innanzitutto alla conversazione piacevole («ragionamenti grati e onesti») e
individuato come suo compito primario e specifico, e corrispettivo di quello
dell’esercizio delle armi per il cortigiano, che tuttavia condivide con la donna tale
funzione.188
evidenzia ancora meglio in questa sua sezione: anche se da tempo nella cultura umanistica (anche per
diretta mutuazione di modelli classici) è in corso la difesa e la celebrazione delle virtù femminili, da
Giovanni Boccaccio a Galeazzo Flavio Capra (ma non in Pontano), e se da più tempo ancora la donna è al
centro di tutta la poesia lirica delle nuove lingue letterarie europee, nel Cortegiano, oltre a quanto viene
esplicitamente verbalizzato dai dialoghi, fa testo la stessa situazione performativa: nella conversazione
moderna la parte della donna è necessaria e qualificante. La «donna di Palazzo» (come scrive Castiglione
per evitare quella forma femminile, «cortigiana», troppo compromessa negli usi contemporanei, dove
equivale a «puttana»), ovvero la gentildonna. Nell’atto stesso della sua fondazione volgare questa
tradizione discorsiva deve necessariamente fare i conti con la donna in conversazione, per affrancarla dai
consolidati paradigmi che ne predicano ancora con irriducibile oltranza l’imperfezione (e questa
posizione sarà direttamente sceneggiata nel terzo libro del Cortegiano), o la relegano a tradizionali e
separate funzioni riproduttive o domestiche, ma anche per marcare ancora più nettamente la discontinuità
rispetto ai modelli cortesi o vetero-cortigiani» (Amedeo Quondam, La Conversazione. Un modello
italiano, cit., pp. 171-172); «Una presenza produttiva: in assoluto, perché la donna rende la conversazione
di per sé bella, splendida e allegra; e in modo relativo, perché la donna agisce sui comportamenti del
cortigiano: motiva e finalizza i suoi comportamenti in pace e in guerra, e le sue stesse prestazioni
culturali; nelle armi e nelle lettere, dunque. Che poi la funzione di questa «donna di Palazzo» sia ancora
propriamente di complemento e mai di protagonista autonoma (come poi nell’esperienza sei-settecentesca
della conversazione in Europa), è un dato funzionalmente necessario: è questo infatti il primo passo
perché la donna possa diventare regina a tutti gli effetti delle performances conversative, e non nei
termini simbolici rappresentati in Urbino, con la «regina» delle serate (Elisabetta Gonzaga) e la sua
«luogotenente» (Emilia Pio). (Ivi, p. 173)
188
L’intrattenimento, che nello spazio dell’ozio aristocratico di corte trova una funzione primaria,
ha un precedente importante nella gestione del tempo della «onesta» e lieta brigata del Decameron, in un
Boccaccio, che, memore della vita alla corte napoletana, trasferisce questa modalità in ambiente
comunale, all’interno però di un evento d’eccezione, la peste, chiamata a giustificare questa istanza di vita
con una coabitazione e frequentazione di maschi e femmine, caratterizzata dal piacevole (novelle, danze,
musiche, canti) e da contenersi tuttavia sempre all’interno dell’onesto, ma con una preoccupazione della
buona fama, complessivamente minore, per quanto controversa, da parte delle protagoniste, di quanto si
rilevi negli insegnamenti alle donne impartiti nel Cortegiano, in cui la tutela della buona fama dell’onestà
sembra essere a volte più importante della stessa onestà, sebbene Castiglione ne tenti una coniugazione
virtuosa. (Tale preoccupazione è però condivisa da Boccaccio che omette i nomi reali delle sette fancille
perché la licenziosità di certi temi non provochi loro cattiva fama: «Li nomi delle quali io in propria
forma racconterei, se giusta cagione da dirlo non mi togliesse, la quale è questa: che io non voglio che per
le raccontate cose da loro, che seguono, e per l'ascoltate nel tempo avvenire alcuna di loro possa prender
vergogna, essendo oggi alquanto ristrette le leggi al piacere che allora, per le cagioni di sopra mostrate,
erano non che alla loro età ma a troppo più matura larghissime; né ancora dar materia agl'invidiosi, presti
a mordere ogni laudevole vita, di diminuire in niuno atto l'onestà delle valorose donne con isconci
parlari», Decameron, Introduzione alla prima giornata). L’importanza assegnata all’onestà è comprovata
dal fatto che Pampinea giustifica la sua proposta di ritiro in campagna, col motivo non solo di tutelare la
salute, ma soprattutto di evitare di cadere in costumi disonesti come molte, nell’incombenza della morte,
fanno abbandonandosi ad ogni licenza: «fuggendo come la morte i disonesti essempli degli altri
onestamente a' nostri luoghi in contado, de' quali a ciascuna di noi è gran copia, ce ne andassimo a stare,
e quivi quella festa, quella allegrezza, quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcuno atto il
segno della ragione, prendessimo» (Ivi, corsivo nostro). Essa sfuma poco dopo, nell’osservazione
aggiuntiva di Elissa, nella preoccupazione della fama dell’onestà che ribadisce quella presente
nell’osservazione di taglio misogino di Filomena, sulla necessità della presenza maschile per ovviare ai
difetti delle donne: «Ma Filomena, la quale discretissima era, disse:– Donne, quantunque ciò che ragiona
Pampinea sia ottimamente detto, non è per ciò così da correre a farlo, come mostra che voi vogliate fare.
Ricordivi che noi siamo tutte femine, e non ce n'ha niuna sì fanciulla, che non possa ben conoscere come
le femine sien ragionate insieme e senza la provedenza d'alcuno uomo si sappiano regolare. Noi siamo
mobili, riottose, sospettose, pusillanime e paurose: per le quali cose io dubito forte, se noi alcuna altra
guida non prendiamo che la nostra, che questa compagnia non si dissolva troppo più tosto e con meno
onor di noi che non ci bisognerebbe: e per ciò è buono a provederci avanti che cominciamo.– Disse
125
Ma perché il conte Ludovico ha esplicato molto minutamente la principal professione del
Cortegiano, ed ha voluto ch’ella sia quella dell’arme; parmi ancor conveniente dir, secondo il mio
giudicio, qual sia quella della Donna di palazzo. [...] a quella che vive in corte parmi convenirsi sopra
ogni altra cosa una certa affabilità piacevole, per la qual sappia gentilmente intertenere ogni sorte
d’uomo con ragionamenti grati ed onesti, ed accomodati al tempo e loco, ed alla qualità di quella
persona con cui parlerà, accompagnando coi costumi placidi e modesti, e con quella onestà che
sempre ha da componer tutte le sue azioni, una pronta vivacità d’ingegno, donde si mostri aliena
allora Elissa:–Veramente gli uomini sono delle femine capo e senza l'ordine loro rade volte riesce alcuna
nostra opera a laudevole fine: ma come possiam noi aver questi uomini? Ciascuna di noi sa che de' suoi
son la maggior parte morti, e gli altri che vivi rimasi sono chi qua e chi là in diverse brigate, senza saper
noi dove, vanno fuggendo quello che noi cerchiamo di fuggire: e il prender gli strani non saria
convenevole; per che, se alla nostra salute vogliamo andar dietro, trovare si convien modo di sì fattamente
ordinarci, che, dove per diletto e per riposo andiamo, noia e scandalo non ne segua.–» (Ivi, corsivo
nostro). Ma, davanti alle nuove remore espresse da Neifile, Filomena rivede la propria posizione,
sposando quella di Pampinea, che cioè sia importante l’onestà e non la fama dell’onestà, con il
riconoscimento di un peso maggiore alla propria coscienza rispetto a quello dell’opinione pubblica:
«Neifile allora, tutta nel viso divenuta per vergogna vermiglia per ciò che l'una era di quelle che dall'un
de' giovani era amata, disse:–Pampinea, per Dio, guarda ciò che tu dichi. Io conoscoassai apertamente
niuna altra cosa che tutta buona dir potersi di qualunque s'è l'uno di costoro, e credogli a troppo maggior
cosa che questa non è sofficienti; e similmente avviso loro buona compagnia e onesta dover tenere non
che a noi ma a molto più belle e più care che noi non siamo. Ma, per ciò che assai manifesta cosa è loro
essere d'alcune che qui ne sono innamorati, temo che infamia e riprensione, senza nostra colpa o di loro,
non ce ne segua se gli meniamo.– Disse allora Filomena:–Questo non monta niente; là dove io
onestamente viva né mi rimorda d'alcuna cosa la coscienza, parli chi vuole in contrario: Idio e la verità
l'arme per me prenderanno. Ora, fossero essi pur già disposti a venire, ché veramente, come Pampinea
disse, potremmo dire la fortuna essere alla nostra andata favoreggiante» (Ivi, corsivo nostro). Degno di
nota inoltre il fatto che il pubblico cui si rivolge il Decameron è squisitamente quello femminile, ritenuto
più bisognoso di educazione e sostegno, e distinto come formato da quelle che amano, non da quelle che
accudiscono ai lavori casalinghi, una distinzione che prefigura quella operata nel Cortegiano tra donna di
palazzo, al centro di relazioni mondane caratterizzate dalla componente della seduzione e dell’amore, pur
contenuta nei limiti dell’onestà, e donna legata al ruolo più strettamente familiare, sebbene Castiglione
fuggevolmente affermi che intende riservare alla prima anche le qualità della seconda («Adunque, acciò
che in parte per me s'amendi il peccato della fortuna, la quale dove meno era di forza, sì come noi nelle
dilicate donne veggiamo, quivi più avara fu di sostegno, in soccorso e rifugio di quelle che amano, per ciò
che all'altre è assai l'ago e 'l fuso e l'arcolaio, intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o
istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani
nel pistelenzioso tempo della passata mortalità fatta, e alcune canzonette dalle predette donne cantate al
lor diletto. Nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d'amore e altri fortunati avvenimenti si vederanno
così ne' moderni tempi avvenuti come negli antichi; delle quali le già dette donne, che queste leggeranno,
parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in quanto
potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare: le quali cose senza
passamento di noia non credo che possano intervenire. Il che se avviene, che voglia Idio che così sia, a
Amore ne rendano grazie, il quale liberandomi da' suoi legami m'ha conceduto il potere attendere a' lor
piaceri», Proemio al Decameron). Anche nel Cortegiano, se il pubblico cui si rivolge l’opera, è, per
esplicita menzione al suo interno, maschile e femminile insieme («Così noi desideramo che tutti quelli,
nelle cui mani verrà questa nostra fatica, se pur mai sarà di tanto favor degna che da nobili cavalieri e
valorose donne meriti esser veduta, presumano e per fermo tengano, la Corte d’Urbino esser stata molto
più eccellente ed ornata d’omini singulari, che noi non potemo scrivendo esprimere», C: III, 1), esso,
nella diegesi, in quanto caratterizzato come pubblico silente (che si vuole educare e della cui conferma si
ha narcisisticamente bisogno), è soprattutto femminile, il che ci consente di osservare un’ulteriore
consonanza. E l’opera di Boccaccio si propone di riuscire insieme piacevole e utile al pubblico, così come
all’interno del Decameron lo è, soprattutto nei termini del diletto, la conversazione tra i giovani, e così
come Castiglione vuole la piacevole conversazione/intrattenimento all’interno della corte cinquecentesca.
A margine ci sembra di poter notare nel Decameron, rispetto al Cortegiano, una centralità maggiore della
donna sia nella diegesi (e per la prevalenza numerica delle protagoniste femminili, cui si associano
uomini innamorati, e quindi impegnati nel servizio d’amore, e per i ruoli rivestiti nelle novelle), sia
perché, permanendo la tradizione vetero-cortese, vi si apprezza anche la sessualità e il piacere della
donna.
126
d’ogni grosseria; ma con tal maniera di bontà che si faccia estimar non men pudica, prudente ed
umana, che piacevole, arguta e discreta: e però le bisogna tener una certa mediocrità difficile; e quasi
composta di cose contrarie, e giugner a certi termini, appunto, ma non passargli.(C: III, 5)
«Affabilità piacevole», gentilezza, grazia, discrezione, onestà, modestia, tutela
della buona fama, sono le componenti auspicate per una buona realizzazione di questa
funzione, una «mediocrità difficile» tra doti etiche e doti relazionali «non men pudica,
prudente ed umana, che piacevole, arguta e discreta». E tale «affabilità piacevole»
inerente alla funzione dell’intrattenimento assume per la Donna di Palazzo una
importanza maggiore («sopra ogni altra cosa») delle virtù tradizionali, pur condivise e
conservate: le virtù morali comuni col cortigiano e le virtù, convenzionalmente
attribuite alla donna, di accudienza al marito, ai figli, ai beni della casa, ossia di buona
madre di famiglia. Queste infatti si danno per scontate, il che consente di passarle quasi
sotto silenzio.189
Lassando adunque quelle virtù dell’animo che le hanno da esser communi col Cortegiano, come
la prudenzia, la magnanimità, la continenzia, e molte altre; e medesimamente quelle condizioni che si
convengono a tutte le donne, come l’esser bona e discreta, il saper governare le facultà del marito e la
casa sua e i figlioli quando è maritata, e tutte quelle parti che si richieggono a una bona madre di
famiglia: dico che a quella che vive in corte parmi conveniente sopra ogni altra cosa una certa
affabilità piacevole [...] (C: III, 5)
Con questa impostazione del tema il Magnifico evidenzia nel ruolo della donna
nell’intrattenimento la promozione dell’incontro relazionale tramite la disponibilità
aggraziata e la piacevolezza e, soddisfacendo pienamente l’auspicio di Emilia Pio, che
temeva che l’interlocutore relegasse la donna di palazzo nell’attività tradizionale del
filare e del cucinare (C: II, 99), ne sancisce la funzione pubblica edonisticomoralizzatrice, l’uscita dal privato della casa-famiglia e il diritto alla frequentazione
della società mondana, però con un’attenzione peculiare che le deriva dalla tradizionale
subalternità, l’attenzione alla buona opinione, per cui dovrà evitare atteggiamenti troppo
liberi che provocherebbero nel maschio comportamenti licenziosi che le darebbero
«meritamente infamia», e fare uno scudo della «gravità temperata di sapere e bontà»
«contra la insolenzia e bestialità dei presuntuosi», perché le donne che pur non siano
impudiche, «con quei risi dissoluti, con la loquacità, insolenzia, e tai costumi scurili,
fanno segno d’essere» (C: III, 4). Il dovere della tutela della buona fama, e per essa di
comportamenti che vengano giudicati onesti, è tale che l’eventuale apparenza di
disonestà viene ritenuta giustificazione sufficiente per un giudizio d’infamia, e
addirittura per l’adozione verso le donne di comportamenti infamanti. Affermazioni
189
Si tratta invero di un’accorta operazione di mediazione di Castiglione: all’immagine tradizionale
della donna di collega quella nuova che in parte la modifica ( il diritto-dovere delle relazioni mondane), in
parte la conserva (le mansioni riproduttive e di accudienza alla casa nel privato), sotto l’egida
complessiva, omologante e determinante, dell’onestà-castità. A questo proposito Quondam rileva la
volontà di Castiglione di preservare l’armonia con la tradizione, presentando i nuovi compiti in termini
aggiuntivi e non sostitutivi e tanto meno eversivi: «Castiglione vuole essere molto preciso: la sua
impegnativa e innovativa promozione della funzione e del ruolo della «donna di Palazzo» intende restare
nell’ambito di quanto tradizionalmente è prescritto come costitutivo e proprio del genere, anche in termini
di bellezza fisica e di portamento del corpo (la sua «molle delicatura» in III 2.51 = III 8). E per questa
ragione prospetta alla «donna di Palazzo», formata dai dialoghi del III libro, compiti aggiuntivi rispetto a
quella che rimane «la sua prima professione», cioè il «governo della casa, de i figlioli et della famiglia».
(Amedeo Quondam, La Conversazione. Un modello italiano, cit., p. 172) Vedremo come la coniugazione
tra i due aspetti si estrinsecherà a un livello più alto in forma metaforica, attraverso il ruolo procreatore
assegnato alle donne come promotrici di discorsi, partoriti però dai maschi, in quanto prodotto
intellettuale e non materiale.
127
come questa ci dicono che l’antico vincolo reclusivo non si è spezzato e che
semplicemente, nell’autorizzare la donna alla frequentazione di uno spazio pubblico, si
è trasferito il controllo dal piano della concreta segregazione fisica a quello
dell’opinione pubblica. Anzi alla donna viene demandato, per il peso del controllo
sociale sulla sua onestà, l’obbligo di un autocontrollo severo e nello stesso tempo di un
controllo di chi si relaziona con lei, che finisce col farne una promotrice di
autocontrollo, una mediatrice di civiltà, di comportamenti cortesi e onesti. Tali norme
tuttavia non inibiscono la funzione naturale della donna di dare piacere (l’«affabilità
piacevole» resta una dote fondamentale da calibrare con quella morale), e, senza
rinnegarne completamente l’incipiente emancipazione, anzi avvalorandone il credito,
hanno anche il merito di attenuare lo spessore eversivo, sottolineato polemicamente dal
misogino,190 dell’impostazione del discorso del Magnifico: liberata dalla clausura
domestica, la donna resta comunque fortemente condizionata,191 e chiamata a dar prova
di un difficile equilibrio tra apertura e pudore, con l’aiuto della «sprezzatura», per non
minare da una parte la piacevolezza delle relazioni mondane, di cui essa è perno,
dall’altra la sua fama di onestà.192
Non deve adunque questa Donna, per volersi far estimar bona ed onesta, esser tanto ritrosa e
mostrar tanto d’aborrire e le compagnie e i ragionamenti ancor un poco lascivi, che ritrovandovisi se
ne levi; perché facilmente si porìa pensar ch’ella fingesse d’esser tanto austera per nascondere di sé
quello ch’ella dubitasse ch’altri potesse risapere; e i costumi così selvatichi son sempre odiosi. Non
deve tampoco, per mostrar d’essere libera e piacevole, dir parole disoneste, né usar una certa
dimestichezza intemperata e senza freno, e modi da far credere di sé quello che forse non è; ma
ritrovandosi a tai ragionamenti, deve ascoltargli con un poco di rossore e vergogna. (C: III, 5)
La donna di palazzo, inoltre, per potere intrattenere gentilmente l’interlocutore
nella conversazione, deve conoscerne la condizione sociale, gli interessi e il
temperamento, essere informata in molti campi («abbia notizia di molte cose» C: III, 6),
sapere selezionare gli argomenti adatti, evitare una prolissità noiosa, non mescolare
argomenti gravi e facezie, essere modesta, evitare l’affettazione; deve insomma saper
operare con discrezione, prudenza, equilibrio. Una riprova questa che la funzione
dell’intrattenimento promuove un processo di educazione ed emancipazione della
donna, anche se, come abbiamo rilevato, i condizionamenti sociali permangono
fortemente.
190
«Però vorrei che ci dichiariste un poco meglio […] di che modo ella debba intertenere, e quai
sian queste molte cose di che voi dite che le si conviene aver notizia; e se la prudenzia, la magnanimità, la
continenzia, e quelle molte altre virtù che avete detto, intendete che abbian ad aiutarla solamente circa il
governo della casa, dei figlioli e della famiglia; il che però voi non volete che sia la sua prima
professione: o veramente allo intertenere, e far aggraziatamente questi esercizii del corpo; e per vostra fé
guardate a non mettere queste povere virtù a così vile officio, che abbiano da vergognarsene» (C: III, 6).
191
Conviene a questo proposito ricordare le osservazioni di Guidi, molto critico sull’ipotesi di un
Castiglione effettivamente favorevole all’emancipazione della donna, già citate nel capitolo La
trattazione specifica del tema femminile e amoroso nelle diverse redazioni del «Cortegiano». (José Guidi,
De l’amour courtois à l’amour sacré, cit., p. 59,70, 79-80).
192
Così commenta questo consiglio Quondam: «Si tratta, insomma di una mediocritas difficile e
contraddittoria da osservare nelle pratiche proprie dell’intrattenimento affabile e piacevole della «donna
di Palazzo»: perché alle difficoltà di sempre nel governo di sé secondo convenienza, si aggiungono quelle
dell’honestà secondo genere, insidiata dai galanti giochi della seduzione. Oltre ai rischi canonici
conseguenti dalla loquacità delle donne, che può essere temperata e governata, perché la sua
conversazione (nelle singole parole come nei ragionamenti) sia affabile e piacevole, solo tramite una
piena padronanza delle arti del discorso e da una più complessiva acculturazione» (Amedeo Quondam, La
Conversazione.., cit., pp.175-176)
128
i ragionamenti soi saranno copiosi e pieni di prudenzia, onestà e piacevolezza; e cosí sarà essa
non solamente amata, ma reverita da tutto il mondo e forse degna d’essere agguagliata a questo gran
cortegiano, cosí delle condizioni dell’animo come di quelle del corpo (C: III, 6).
Le virtù dell’intrattenimento sono dunque un bello, sapiente e piacevole
conversare, con la consapevolezza del proprio limite, la modestia per l’appunto che si
sposa al canone /virtù della misura, e dell’identità dell’interlocutore, in modo da
rivolgersi a lui con il dovuto rispetto. Ricordiamo come siano prioritari nel
Rinascimento il rispetto della gerarchia sociale e la ricerca del consenso sociale,
conformandosi al gruppo, evitando di opporsi col proprio individualismo al gruppo, un
comportamento caldamente consigliato, decenni più tardi, anche da Monsignor
Giovanni della Casa nel Galateo.
Piacevolezza, prudenza, onestà sono le tre parole chiave che governano la
conversazione della donna e, facendone riconoscere il merito, promuovono su di lei un
giudizio di valore simile a quello sul cortigiano. Ma il confronto con la sfumatura
dubitativa («forse degna di essere agguagliata a questo gran cortigiano» C: III, 6)
penalizza la donna, perché il primo termine di paragone resta comunque sempre l’uomo
e non è nemmeno scontato che essa possa raggiungere un livello pari a lui. D’altra parte
si inscrive perfettamente nella linea filogina l’aver riconosciuto alle donne la cultura e
l’arte della parola, contrapposte alla chiacchiera vana, alla mancanza di senno e
all’ignoranza, o all’obbligo del silenzio, della tradizione misogina, nonché l’averle
chiamate al ruolo di mediatrici sociali fuori dalla sfera privata, fuori dall’ambito
claustrofobico della famiglia. Anche qui tuttavia dobbiamo rilevare, all’interno di un
impegno di valorizzazione del femminile, spie di permanenti remore misogine.
Così pure la funzione dell’intrattenimento, apparentemente mirata a dare valore
alla donna, non è prerogativa esclusivamente femminile, né di fatto prioritariamente
femminile, nonostante a parole lo si affermi. L’intrattenimento, nella forma della
conversazione (altre precisazioni dovremo introdurre a proposito della musica e danza),
è attività riservata anche al cortigiano e le modalità di porsi in esso sono trasversali al
genere, mentre sono diversificate sostanzialmente le funzioni: la promozione dei
discorsi è femminile, la produzione dei discorsi è maschile, e, per quanto le attività
siano complementari, la seconda ci appare più significativa. Senza contare che la
conversazione col principe piacevole e ‘illuminata’ pertiene esclusivamente al
cortigiano. Se grazia, misura, discrezione sono comportamenti caldeggiati per l’uno e
l’altro genere, troveremo tuttavia nella conversazione una maggiore libertà dell’uomo e
un suo ruolo di primo attore, una minore libertà della donna e un suo ruolo gregario di
aiutante e pubblico. Non per niente nel primo passo citato si ribadisce ripetutamente
l’importanza per la donna dell’onestà e del pudore, aspetto quest’ultimo su cui non si
insiste per l’uomo, e che costituisce un freno inibitore ulteriore rispetto a quello previsto
dalla regola della moderazione. Dunque, nonostante la premessa di una centralità della
donna nel ruolo dell’intrattenimento sottolineata dal paragone che pone questa sua
funzione alla pari di quella delle armi per il cortigiano, e indirettamente anche dal fatto
che su questa base si presuppone una parificazione con il cortigiano, proprio perchè le si
assegna un ruolo specifico nella corte, assistiamo poi a una attenuazione di tale
importanza per le ragioni precedentemente enunciate.193
193
Ci sembra che Quondam, pur rilevando l’importanza della categoria dell’onestà per il femminile
e la funzione di complemento della donna di palazzo, non abbia poi sviluppato in modo esaustivo le
implicazioni di queste osservazioni, finendo peraltro col riconoscere una parità di opportunità all’interno
di un’integrazione (peraltro omologa e non precisata nei termini distintivi come fa invece la Zancan) che
non ci trova d’accordo. «La competenza conversativa della «donna di Palazzo» si integra, con esplicite
pari opportunità, alla stessa serie delle altre competenze, attive e passive, nonché alla serie delle virtù, che
129
Da una disamina più attenta dei consigli dati al cortigiano su questo argomento
risulterà la fondatezza delle nostre osservazioni. Al solito inoltre la teoria sulla
conversazione faceta, sarà il prodotto di ragionamenti maschili, impegnati a tratteggiare
le caratteristiche del cortigiano, e la donna vi eserciterà soprattutto il ruolo di pubblico,
oltre che di argomento delle facezie. Il che ne ribadisce il carattere secondario.
Tuttavia, se si va oltre la lettera del discorso, è lecito ipotizzare che la funzione
centrale riservata alla donna nell’intrattenimento sia in realtà determinata da quanto non
viene detto esplicitamente, ma solo accennato attraverso la ‘piacevolezza’, ossia dalla
sua capacità di seduzione, dal fascino della sua presenza e dalla sua interazione in forme
virtuosamente estetiche. Inoltre l’uso della parola ‘intertenimento’, più frequente di
quello di ‘conversazione’, quando ci si rivolge a donne, come rileva Quondam194 nella
sua ricerca linguistica, sta ad assorbire soprattutto per loro in questo campo anche gli
‘esercizi del corpo’ della danza e della musica, che ne esaltano la capacità di seduzione
e non vanno tanto intesi come una sopravvivenza del pregiudizio aristotelico della
donna-materia, quanto piuttosto, ancora una volta, come una valorizzazione del fascino
e della seduzione della bellezza fisica. Lo stesso paragone del compito primario
dell’intrattenimento assegnato alla donna con quello delle armi attribuito al cortigiano
rimanda alla primitiva differenziazione fisica della ‘tenerezza molle e delicata’ per l’una
e della ‘virilità’ per l’altro, ossia alle differenziate matrici di ‘potere’, l’eros per l’una, la
forza per l’altro. Un’assegnazione di centralità sulla base della bellezza e del piacere
che noi non intendiamo screditare secondo un pregiudizio femminista, mentre rileviamo
sotto un altro rispetto le resistenze all’emancipazione della donna nell’ambito
relazionale-culturale, nonostante le aperture.
Per facilitare il confronto ripercorriamo le caratteristiche attribuite al cortigiano
nell’intrattenimento. Il cortigiano ha necessità, per conquistare la grazia della corte in tutte le
sue componenti, di competenza nella conversazione piacevole e deve utilizzare la discrezione
per adattarsi alle caratteristiche dei diversi destinatari:
Ma in somma non bastaranno ancor tutte queste condizioni del nostro Cortegiano per acquistar
quella universal grazia de’ signori, cavalieri e donne, se non arà insieme una gentil e amabile
maniera nel conversare cotidiano: e di questo credo veramente che sia difficile dar regula alcuna,
per le infinite e varie cose che occorrono nel conversare, essendo che tra tutti gli omini del mondo
non si trovano dui, che siano d’animo totalmente simili. Però chi ha da accommodarsi nel
conversare con tanti, bisogna che si guidi col suo giudicio proprio, e, conoscendo le differenzie
dell’uno e dell’altro, ogni dì muti stile e modo, secondo la natura di quelli con chi a conversar si
mette. (C. II, 17)
E in primo luogo deve curare la conversazione col signore, evitando l’adulazione, la
presunzione, la molestia, la litigiosità, la chiacchiera vana, comportandosi invece con modestia
e rispetto e riverenza come «si conviene al servitor verso il signor» (C: II, 18)
danno forma e connotazione alla moderna identità del cortigiano» (Ivi, p. 173). Secondo noi ci troviamo
di fronte a un’immagine al femminile, complessivamente omologa, di quella del Cortegiano, ma riduttiva
e con differenziazioni limitanti, quali quello del freno dell’onestà-castità e della pressoché sola
promozione dei discorsi o loro riproduzione, per cui non ci sentiamo di condividere il giudizio di «pari
opportunità», a meno che esse non rientrino nei limiti di un’integrazione effettivamente complementare e
gerarchicamente inferiore.
194
« […] nel terzo libro Castiglione non usi soltanto l’impegnativo termine di «conversazione», ma
anche quello correlato, ma di livello inferiore, di «intertenimento». E questo è già fattore di connotazione
distintiva e subordinata del ruolo e della funzione che la «donna di Palazzo» pur tuttavia conserva, anche
nell’impianto promozionale che il Cortegiano persegue» (Ivi, p.175)
130
Io estimo che la conversazione, alla quale dee principalmente attendere il Cortegiano con ogni
studio per farla grata, sia quella che averà col suo principe; e benché questo nome di conversare
importi una certa parità che pare che non possa cader tra ‘l signore e ‘l servitore, pur noi per ora la
chiameremo così. (C: II, 18)
La conversazione piacevole del cortigiano dovrà inoltre evitare l’affettazione ed essere
morigerata «in presenzia d’onorate donne» (C: II, 36) (il che lascia supporre una maggiore
licenziosità in presenza di soli uomini o di donne non onorate), e osservare la discrezione, e «nel
modo di vivere e nel conversare, governarsi sempre con una certa onesta mediocrità, che nel
vero è grandissimo e fermissimo scudo contro la invidia» (C: II, 41), e soprattutto saper dilettare
con discorsi adatti agli uditori e con il rispetto della regola della misura,
Ma troppo lungo e faticoso saria voler discorrere tutti i vizii che possono occorrere nel modo del
conversare: però per quello ch’io desidero nel Cortegiano basti dire, oltre alle cose già dette, ch’el
sia tale, che mai non gli manchin ragionamenti boni, e commodati a quelli co’ quali parla, e sappia
con una certa dolcezza recrear gli animi degli auditori, e con motti piacevoli e facezie discretamente
indurgli a festa e riso, di sorte che, senza venir mai a fastidio o pur a saziare, continuamente diletti
(C: II, 41).
Anche e soprattutto per il cortigiano dunque si pone l’accento sul piacere (un piacere
della produzione intellettuale, «motti piacevoli», ci sembra, più sottolineata di quella della
disposizione relazionale, l’«affabilità piacevole», enfatizzata invece per la donna di palazzo) che
deve informare la conversazione mondana, la quale però non può prescindere, per consentirlo
effettivamente, dal rispetto di regole, diciamo, di civile convivenza, tanto che Guazzo definirà
«civil conversazione» la conversazione affabile, piacevole e utile. E tali norme, come abbiamo
visto, investono anche la conversazione femminile, in una forma più rigorosa in relazione
all’onestà, per la maggiore debolezza di questo soggetto sociale.
La conversazione195 è quindi il fulcro relazionale della vita di corte e compito, pur con
varianti di funzioni, competenze e gradazioni, sia del cortigiano che della donna di palazzo.
Eleganza, discrezione, convenienza, rispetto, moderazione, sono le necessarie modalità in cui
formulare e attuare motti, facezie, burle cui si aggiunge il dovere di rispetto verso le donne, che
riguarda i cortigiani, mentre alle donne si impone il dovere di rispetto di se stesse, ossia della
fama di onestà, a ribadire il fatto che il controllo sociale su queste si introietta in forme di
autocontrollo sia femminile che maschile.
195
Ricordiamo che il termine «conversazione» va inteso anche in senso lato, come frequentazione
mondana e che ne fanno parte sia la conversazione verbale vera e propria che i diletti della musica, danza
e anche dei giochi delle carte, dei dadi, degli scacchi, argomento che nel Cortegiano viene sfiorato, con
una valutazione in merito ad un uso disinteressato e all’impegno richiesto (C: II, 31)
131
Segue il discorso tecnico sulle facezie,196 inframezzato da esempi probanti che
La trattazione, in cui teoria e prassi si intersecano armoniosamente perché le facezie sono
presentate all’interno di una conversazione faceta, affronta preliminarmente il nodo della matrice, ossia se
l’abilità nelle facezie sia da attribuirsi piuttosto a predisposizione naturale o all’arte, e mentre sembra che
ci si inclini verso la prima, si finisce col riconoscere che l’arte gioca un ruolo importante nel motteggio
del cortigiano, in consonanza con il suo modello integrale di comportamento, quello di un’arte
dissimulata che lo fa parere naturale. Segue l’indicazione delle ragioni che promuovono la conversazione
piacevole, ossia il bisogno di ricreazione dell’uomo, in quanto «animale risibile», distinto dagli altri
essere viventi dalla capacità di ridere (C: II,45), e dell’origine del riso, attribuita a una «certa deformità».
Il cortigiano, comunque, dovrà evitare atteggiamenti da buffone o motteggi contro gli infelici o che
possano offendere persone potenti e creare inimicizie pericolose, mantenendo una condizione di
onorabilità e di grazia (C: II, 46). I medesimi «lochi» possono essere utilizzati per derivarne sentenze
gravi, di biasimo o di lode, o motti che suscitino il riso (C: II, 47). Secondo il Bibiena, inoltre, si
distinguono non due, ma tre tipi di facezie:« [...] secondo me, di tre maniere se ne trovano, avvenga che
messer Federico solamente di due abbia fatto menzione; cioè di quella urbana e piacevol narrazion
continuata, che consiste nell’effetto d’una cosa; e della subita ed arguta prontezza che consiste in un detto
solo. Però noi ve ne giungeremo la terza sorte, che chiamano burle, nelle quali intervengono le narrazioni
lunghe, e i detti brevi, ed ancor qualche operazione» (C: II, 48). Il cortigiano dovrà valorizzare il
contenuto delle novelle facete con modalità eleganti e con una espressività e gestualità icastica (C: II, 49).
E se imiterà in maniera caricaturale, dovrà sempre fare attenzione a mantenere il rispetto, insomma essere
prudente, inoltre evitare parole sporche e gesti disonesti, né torcere il viso o la persona eccessivamente,
ma conservare sempre la dignità di gentiluomo (C:II, 50). Per suscitare il riso si potranno presentare con
buona grazia difetti altrui di piccolo rilievo (C: II, 51) o esempi di affettazione smodata, perché, se le
affettazioni mediocri danno fastidio, quelle fuor di misura generano il riso (C:II, 54). Nei motti, ossia
nelle facezie consistenti in un detto solo, il cortigiano dovrà evitare ancora gli atteggiamenti da buffone e
qualsiasi malignità e velenosità (C: II, 57). Insomma si insiste ripetutamente sul tema della dignità che
comporta «bona opinione» e un buon rapporto con tutti i membri del gruppo, liberando sia dal pericolo
dell’emarginazione creata della disistima, sia da quello dell’inimicizia. Si distinguono poi i motti ambigui
e quelli che colpiscono in quanto vanno contro l’aspettativa (C: II, 58) e si consiglia di evitare di cadere
in sottigliezze eccessive o di ferire (C: II, 59). Ulteriore perizia nel motteggiare consiste nell’assumere la
parola ambigua nel senso letterale e utilizzarla contro il motteggiatore (C: II, 60). Un’altra forma di
facezia è il «bischizzo» che consiste nel mutare o aumentare o togliere una lettera o una sillaba. Faceto è
pure riprendere versi e detti conosciuti modificandoli (C:II, 61). Anche l’interpretazione dei nomi dà la
possibilità di battute facete. Altra forma di motteggio è il riprendere una parola assegnandole un fine
diverso, o assumere le parole, la frase, ma non il significato dato dall’interlocutore (C: II, 63), o mostrare
di comprendere il significato, ma interpretarlo in altro modo. Sono naturalmente funzionali alle facezie
anche le figure retoriche e i modi del parlare che hanno grazia (C: II, 64, 65), inoltre «si morde ancora
spesso facetamente con una certa gravità senza indur riso» (C: II, 66). Il perbenismo diffuso richiede
altresí che si evitino motti empi o espressioni oscene in presenza di gentildonne. Si continua ancora la
rassegna delle diverse tipologie di motti e facezie: quelli che nascono dal dire cose inverosimili (C: II,
71), quelle che nascono dalla dissimulazione (C: II, 72), quelle caratterizzate dall’ironia, confacentesi
soprattutto ad uomini molto importanti (C: II, 73), quelle in cui «con oneste parole si nomina una cosa
viziosa» (C: II, 74); e inoltre i motti coi quali si ricava dall’interlocutore il senso che questi non vorrebbe
(C: II, 75), o si ribalta sull’interlocutore l’allusione mordace ricevuta (C: II, 76). Piacevoli pure i motti
derivanti dall’interpretazione giocosa di un’affermazione. Suscitano il riso anche le cose discrepanti o
quelle che sembrano consentanee (C: II, 79) o l’ammissione di qualcosa che s’intende poi in maniera
diversa (C: II, 80) o l’equivocare i significati (C: II, 81), o l’accusarsi di qualche errore con buona grazia
(C: II, 82), o la risposta contraria ai desideri dell’interlocutore data con lentezza e creazione di suspense
da persona d’autorità (C: II, 82). Il riso nasce dalla parola (facezia) o dall’atto (burla) contrario
all’aspettazione. Si fa riferimento a Boccaccio come a una miniera di burle, anche fatte da donne.
Naturalmente anche nelle burle il cortigiano dovrà astenersi dalla scurrilità e dall’offendere le donne,
soprattutto in materia di onestà (C II, 89). Castiglione, per bocca del Bibiena, così sintetizza i
comportamenti che il cortigiano deve tenere quando motteggia: «Avendo dunque il Cortegiano nel
motteggiare e dir piacevolezze rispetto al tempo, alle persone, al grado suo, e di non essere in ciò troppo
frequente (ché in vero dà fastidio, tutto il giorno, in tutti i ragionamenti, e senza proposito, star sempre su
questo), potrà esser chiamato faceto; guardando ancor di non esser tanto acerbo e mordace, che si faccia
conoscer per maligno, pungendo senza causa ovver con odio manifesto; ovver persone troppo potenti che
è imprudenzia; ovvero troppo misere, che è crudeltà; ovvero troppo scelerate, che è vanità; ovver dicendo
cose che offendan quelli che esso non vorría offendere, che è ignoranzia [...] E tra questi tali son quelli,
132
rallegrano l’uditorio. Come già abbiamo anticipato, la trattazione teorica dell’argomento
all’interno della modellizzazione del perfetto cortigiano la dice lunga sulla sua priorità, e sul
fatto che della donna si tratta in questo campo in buona parte per proiezione ridotta e sintetica,
precisandone tuttavia alcune specificità (la piacevolezza, l’onestà e il pudore). L’intervento
filogino del Magnifico non si discosta insomma molto dalla proposta del misogino, di
considerare proprio della donna quanto è proprio del cortigiano, ma nei limiti della sua
‘imbecillità’ che potrebbe identificarsi anche con quella ‘debolezza sessuale’, o meglio
inclinazione alla lussuria, che impone il freno della castità, con tutte le conseguenze che ne
derivano (una linea etica che convive, contrastando ma anche conciliandosi, con quella erotica).
Le dà sì visibilità con una trattazione specifica, e con il riconoscimento di un ruolo pubblico, ma
gliela toglie anche quando la pone per intero nel cono d’ombra proiettato dal cortigiano.
10.7. Gli esercizi del corpo della donna di palazzo: la danza, il canto, la musica
Le norme: decoro, pudore, sprezzatura. Il connubio virtuoso della musica col femminile,
come forma di piacere nell’intrattenimento
Alla specificità fisica femminile della molle delicatezza e a quella maschile della
forza si accompagnano attività diversificate in consonanza con le attitudini naturali: agli
uomini spettano gli esercizi pertinenti ad attività guerresche quali l’armeggiare, il
cavalcare, il lottare,197 alle donne di palazzo le attività funzionali ad un piacevole
intrattenimento, e quindi, oltre al conversare, il danzare, il cantare, il suonare,198 il
che per dire una parola argutamente, non guardan di maculare l’onor d’una nobil donna; il che è
malissima cosa e degna di gravissimo castigo, perché in questo caso le donne sono nel numero dei miseri,
e però non meritano in ciò essere mordute, ché non hanno arme da difendersi. Ma, oltre a questi rispetti,
bisogna che colui che ha da esser piacevole e faceto, sia formato d’una certa natura atta a tutte le sorti di
piacevolezze, ed a quelle accomodi i costumi, i gesti e’l volto; il quale quant’è più grave e severo e saldo,
tanto più fa le cose che son dette parer salse ed argute» (C: II, 83). Dunque, ancora una volta discrezione,
moderazione, prudenza, cautela, grazia e soprattutto rispetto per la donna come si conviene nel servizio
cortese, e qui circoscritto alla nobildonna, che in quanto donna fa parte di una categoria di genere debole
e non ha strumenti per difendersi. In conclusione un galateo di rispetto per gli altri e di rispetto e tutela
anche di se stessi, in una civiltà garbata e piacevole di modi che procede dal soggetto verso gli altri, per
riflettersi sullo stesso attraverso il principio di reciprocità.
197
Nel libro primo si elencano gli esercizi virili del cortigiano: questi dovrà avere un corpo di
misura equilibrata, adatto all’esercizio della pratica guerriera e quindi essere abile nel maneggio di tutti i
tipi d’arme (C: I, 20), saper lottare e cavalcare con destrezza, riuscire al meglio nelle diverse abilità di
carattere nazionale ed extranazionale, saper giostrare come gli Italiani, torneare come i Francesi, giocare a
canne come gli Spagnoli (C: I, 21). E praticare altri esercizi virili come la caccia, il nuoto, il salto, la
corsa, il gioco della palla, evitando invece quelli che lo abbasserebbero al ruolo di giocoliere quali il
volteggiare in terra o camminare sulla corda (C: I, 22) E mentre si danno questi consigli, si ribadisce
frequentemente l’importanza della grazia e della buona opinione.
198
Un riscontro dell’intrattenimento a corte, fatto di piacevoli ragionamenti, giochi, canti, danze,
musiche, conviti si ha negli Asolani [1505] di Bembo. Nel castello di Asolo, nel quadro delle feste per le
nozze di una damigella di corte promosse dalla Regina di Cipro, tre giovani nobili e colti si intrattengono,
all’interno di un giardino stilizzato come un locus amoenus, in ragionamenti sull’amore con tre dame,
legate da parentela e abitualmente frequentate, sposate e con i mariti temporaneamente assenti, « con tre
di loro belle e vaghe giovani e di gentili costumi ornate, perciò che prossimani eran loro per sangue, e
lunga dimestichezza con esse e co’ lor mariti aveano, i quai tutti e tre di que’ dì a Vinegia tornati erano
per loro bisogne, più spesso e più sicuramente si davano che con altre, volentieri sempre in sollazzevoli
ragionamenti dolci e oneste dimore traendo» (L. I, 2) (lo abbiamo annotato perché questa scelta di Bembo
ci sembra evidenziare da una parte un dato sociale, la maggiore libertà delle donne sposate rispetto alle
nubili, purché si tratti di frequentazione di persone note, anche ai mariti; dall’altra un espediente
funzionale alla stessa libertà dei ragionamenti e alla creazione di un’atmosfera più intrigante). Anche qui,
come poi nel Cortegiano, le donne partecipano alla conversazione con poche osservazioni, mentre lo
sviluppo degli argomenti è di pertinenza maschile. Si trovano inoltre interessanti menzioni della pratica
femminile del canto e della musica e anche qui si associa alla dama che canta «non senza rossore» la
133
sapersi abbigliare in modo da accrescere la bellezza, beninteso sempre con misura e
decoro. La donna di palazzo non solo deve evitare gli esercizi virili, energici e rudi,
appropriati all’uomo, ma deve svolgere con riguardo e molle delicatezza anche quelli
tipicamente femminili come la danza, il canto, la musica: non deve danzare con
movimenti gagliardi o sforzati, non deve cantare con artifizio, non deve suonare
tamburi, pifferi o trombe che nasconderebbero la dote della «soave mansuetudine».
Inoltre deve danzare o suonare solo se richiesta con insistenza e farlo con una certa
timidezza e «nobile vergogna».
[...] ma voglio che quegli ancora che son convenienti a donna faccia con riguardo, e con quella
molle delicatura che avemo detto convenirsele; e però nel danzar non vorrei vederla usar movimenti
troppo gagliardi e sforzati, né meno nel cantar o sonar quelle diminuzioni forti e replicate, che
mostrano più arte che dolcezza, medesimamente gli instrumenti di musica che ella usa, secondo me,
debbono essere conformi a questa intenzione. Imaginatevi come disgraziata cosa saria veder una
donna sonare tamburri, piffari o trombe, o altri tali instrumenti; e questo perché la loro asprezza
nasconde e leva quella soave mansuetudine, che tanto adorna ogni atto che faccia la donna. Però
quando ella viene a danzar o a far musica di che sorte si sia, debe indurvisi con lassarsene alquanto
pregare e con una certa timidità, che mostri quella nobile vergogna che è contraria alla imprudenzia
(C: III, 8).
Potremmo osservare che in queste limitazioni le posizioni di Castiglione
riecheggiano quelle di Francesco da Barberino e che una traccia dell’antico anatema
misogino emerge nell’affermazione che la donna di palazzo deve suonare e danzare solo
se richiesta con insistenza e farlo con una certa timidezza e nobile vergogna. Tuttavia
musica, danza e cura del corpo, considerati dalla letteratura misogina come strumenti di
seduzione per la perdizione e la schiavizzazione del maschio, diventano per Castiglione
valori, in quanto funzionali all’intrattenimento, sempre che siano accompagnati da
pudore e decoro. Si vedrà come nel dialogo dello Specchio d’amore di
Gottifredi[1547], di linea realistica o comico-realistica, la danza venga invece
apertamente valorizzata come un modo di seduzione avanzata, un modo per toccarsi e
mostrarsi anche nelle parti proibite. Un «incontro» di sensi per Gottifredi, che però
«nobile vergogna», ovverossia quel pudore che ne esalta la nobiltà: « [...] due vaghe fanciulle, per mano
tenendosi con lieto sembiante al capo delle tavole, là dove la Reina sedea, venute, riverentemente la
salutarono, e poi che l’ebbero salutata, amendue levatesi, la maggiore, un bellissimo liuto che nell’una
mano teneva al petto recandosi e assai maestrevolmente toccandolo, dopo alquanto spazio col piacevole
suono di quello la soave voce di lei accordando e dolcissimamente cantando, così disse: [...] Detta dalla
giovane cantatrice questa canzone, la minore, dopo un brieve corso di suono della sua compagna che nelle
prime note già ritornava, al tenor di quelle altresì come ella la lingua dolcemente isnodando, in questa
guisa le rispose: [...] Poi che le due fanciulle ebber fornite di cantare le lor canzoni, alle quali udire
ciascuno chetissimo e attentissimo era stato, volendo esse partire per dar forse agli altri sollazzi luogo, la
Reina, fatta chiamare una sua damigiella, la quale bellissima sopra modo e per giudicio d’ogniun che la
vide più d’assai che altra che in quelle nozze v’avesse, sempre quando ella separatamente mangiava di
darle bere la serviva, le impose che alle canzoni delle fanciulle alcuna n’aggiugnesse delle sue. Perché
ella, presa una sua viuola di maraviglioso suono, tuttavia non senza rossore veggendosi in così palese
luogo dover cantare, il che fare non era usata, questa canzonetta cantò con tanta piacevolezza e con
maniere così nuove di melodia, che alla dolce fiamma, che le sue note ne’ cuori degli ascoltanti
lasciarono, quelle delle due fanciulle furono spenti e freddi carboni: [...]» (L. I, 3) A margine rileviamo
che nel Cortegiano si ha la teorizzazione dei comportamenti da tenere nel canto e nella musica, ma non
una loro rappresentazione concreta, mentre la si ha invece per la danza ordinata dalla duchessa alle due
gentildonne alla fine dei ragionamenti della prima giornata. (Pietro Bembo, Gli Asolani di messer Pietro
Bembo (in Venetia : nelle case d'Aldo Romano, 1505 del mese di marzo), ed. consultata: Prose e rime di
Pietro Bembo, a cura di Carlo Dionisotti, Torino, Utet, 1966)
199
Bartolomeo Gottifredi, Specchio d’amore, [1547], in Prose di Giovanni della Casa e altri
trattatisti cinquecenteschi del comportamento, a cura di Arnaldo Di Benedetto, Torino, UTET, 1970
(Classici Italiani, collezione diretta da Mario Fubini, Classici Utet), pp. 577-631.
134
nell’ambito eletto e formale della corte non è ammesso, se non nella forma rarefatta di
incontro di sensibilità, e deve avvenire sotto l’egida della modestia e del pudore, in altre
parole sotto la tutela della buona opinione che sancisce la conservazione dell’onore.
Vorremmo ricordare che queste doti femminili, nella società di corte, vanno a
caratterizzare anche il cortigiano, in relazione al quale si parla in modo più articolato di
competenze musicali, e al quale comunque si richiede la misura, la discrezione e la
«sprezzatura» nella loro pratica, e il rifiuto di quell’affettazione che ne
pregiudicherebbe la «bona opinione», facendolo ritenere un effeminato, una
«sprezzatura» sulla cui rilevanza per l’accettazione sociale insiste Lorenzetti, autore
di un interessantissimo saggio sul rapporto tra musica e identità nobiliare nel
Cinquecento di cui coglie la promozione nel Cortegiano sia per l’elemento maschile che
per l’elemento femminile.
L’importanza della competenza musicale per il cortigiano si lega alla
considerazione della musica come strumento di piacere e di elevazione secondo quanto
attesta lo stesso mito di Orfeo e, come suggerisce Lorenzetti, Castiglione supera la
dicotomia secolare che la vuole fonte di somma virtù o causa di degenerazione come
arte effeminata e lasciva, evidenziandone la funzione educativa veicolata attraverso il
godimento che la fa apprezzare nell’intrattenimento di corte. L’elogio della musica
viene supportato dall’autorità dei filosofi, dalla considerazione della sua sacralità e
dell’armonia musicale delle sfere celesti e quindi del macrocosmo, della sua capacità di
200
Lorenzetti osserva che Castiglione, pur assegnando al nobile la competenza nella musica sia
teorica che pratica, ne vuole dissimulata quella pratica perché eviti la taccia di ‘professionista’ che lo
abbasserebbe al rango di persona che pratica un mestiere, esercita arti meccaniche, mentre è fondamentale
per lui evidenziare la sua condizione di uomo libero, certificata soprattutto dalla cultura letteraria e
teorica. Il cortigiano dunque nella pratica musicale sarà un dilettante ‘virtuoso’, con un’abilità
straordinaria che deve parere frutto di un’attitudine naturale e non di studio. Ciò risulterà funzionale alla
sua rappresentatività sociale, alla promozione della propria immagine pubblica, all’acquisizione di grazia
presso il principe e la corte. (Stefano Lorenzetti, Musica e identità nobiliare nell’Italia del Rinascimento,
cit., p. 72 e pp. 77-83)
201
«L’istituzione di un cortigiano colto, cioè in definitiva, di una nuova immagine della nobiltà,
non è un’operazione indolore. Se, a proposito delle lettere, il Castiglione ha dovuto difendersi dall’ostilità
dei «Franzesi», adesso, parlando della musica, deve respingere le argomentazioni di coloro che la
considerano un’arte effeminata e lasciva. Ambedue le obiezioni erano ampiamente presenti nel dibattito
pedagogico del secolo precedente: la disputa sulla dignità delle armi e delle lettere aveva infuocato
lungamente gli animi, mentre, per quel che riguarda la musica, la secolare dicotomia che la vedeva ad un
tempo, fonte di somma virtù e di infinita degenerazione- dicotomia espressa nella forma più radicale e
priva di mediazione nell’opera platonica, attraverso l’opposizione tra una musica come sophia e una
musica come degradata prassi quotidiana- rivive nella polemica umanistica che contrappone alla mitica
virtù della musica degli antichi la corruzione della musica dei moderni: all’osservazione che la pratica
musicale non convenga all’uomo, bensì soltanto ad «alcuni che hanno similitudine d’omini» il
Castiglione, aderendo ad una tradizione retorica stratificatasi nei secoli, risponde con un ampio elogio
della musica in cui narra le gesta di eroi, legislatori, filosofi che hanno apprezzato quest’arte e l’hanno
praticata personalmente» (Ivi, pp. 73-74); «Dopo un accenno iniziale alla natura intrinsecamente musicale
dell’universo, tutta la laus si concentra sulla riverberazione dell’armonia cosmica a livello individuale. È
il rapporto macrocosmo-microcosmo che viene indagato dalla lunga teoria dei personaggi famosi che
forniscono dei prestigiosi esempi degli effetti della musica sull’animo. Come in una sorta di ideale
anticlimax, verso la fine, dopo che le auctoritates citate hanno sufficientemente fondato le
argomentazioni del conte Ludovico, il Castiglione demitizza la sua storia arrivando ad affermare che la
musica influenza ciascun uomo, di qualsivoglia ceto, condizione sociale, età. Questa attenzione agli
effetti della musica e alla esplicitazione del nesso analogico macrocosmo-microcosmo rappresentano il
tratto saliente della riscrittura rinascimentale del genere della laus musicae. Essa non comporta perdita di
consapevolezza alcuna circa la natura musicale dell’armonia cosmica, poiché non vi può essere musica
humana senza musica mundana, bensì denota uno spiccato interesse per l’operatività terrena del concetto
di armonia» (Ivi, p. 76)
135
vivificare le virtù e mitigare gli animi e naturalmente da esempi probanti. Essa inoltre
ha come destinatario privilegiato nelle corti il pubblico femminile più sensibile per la
sua delicatezza all’armonia e dolcezza musicale, e la musica è un’arte con cui lo si
compiace e lo si seduce: «[...] perché, se ben pensiamo, niuno riposo di fatiche e
medicina d’animi infermi ritrovar si po più onesta e laudevole nell’ozio che questa; e
massimamente nelle corti, dove, oltre al refrigerio de’fastidii che ad ognuno la musica
presta, molte cose si fanno per satisfar alle donne, gli animi delle quali, teneri e molli,
facilmente sono dall’armonia penetrati e di dolcezza ripieni. Però non è maraviglia se
nei tempi antichi e ne’ presenti sempre esse state sono a’ musici inclinate, ed hanno
avuto questo per grandissimo cibo d’animo» (C: I, 47). Una motivazione, quella del
compiacere le donne, che Cesare Gonzaga ribadirà a proposito dell’apprendimento da
parte del cortigiano sia della musica che della danza: «Chi studia di danzare e ballar
leggiadramente per altro, che per compiacere a donne? Chi intende nella dolcezza della
musica per altra causa che per questa?» (C: III, 52). Ne deduciamo quindi la centralità
nella musica a corte della figura femminile sia in un ruolo attivo che passivo, una
posizione di rilievo legata al fatto che entrambi i soggetti, musica e donne, sono
importanti veicoli di piacere e di amore, tanto è vero che queste attività ed esperienze
sono riservate, secondo la tradizione cortese, ai cortigiani giovani e i vecchi ne sono
202
«Non dite, rispose il Conte; perch’io v’entrarò in un gran pelago di laude della musica; e
ricordarò quanto sempre appresso gli antichi sia stata celebrata e tenuta per cosa sacra, e sia stato
opinione di sapientissimi filosofi, il mondo esser composto di musica, e i cieli nel moversi far armonia, e
l’anima nostra pur con la medesima ragione esser formata, e però destarsi e quasi vivificar le sue virtù per
la musica. […] E ricordomi avere già inteso, che Platone ed Aristotele vogliono che l’om bene instituito
sia ancor musico; e con infinite ragioni mostrano, la forza della musica in noi essere grandissima, e per
molte cause, che or saria lungo a dir, doversi necessariamente imparar da puerizia; non tanto per quella
superficial melodia che si sente, ma per esser sufficiente ad indur in noi un novo abito bono, ed un
costume tendente alla virtù, il qual fa l’animo più capace di felicità, secondo che lo esercizio corporale fa
il corpo più gagliardo; e non solamente non nocere alle cose civili e della guerra, ma loro giovar
sommamente. […] Però non vogliate voi privar il nostro Cortegiano della musica, la qual non solamente
gli animi umani indolcisce, ma spesso le fiere fa diventare mansuete; e chi non la gusta, si po tener certo
che abbia gli spiriti discordanti l’un dall’altro» (C: I, 47)
203
L’educazione della donna alla musica trova sostenitori quando la si destini alla vita di corte
(Castiglione, Annibale Guasco nell’itinerario formativo predisposto per la figlia, dal canto all’esecuzione
strumentale (Ragionamento ad Lavinia sua figliola della maniera di governarsi in corte, Torino, l’herede
del Bevilacqua, 1586), e resistenze, quando la si destini alla vita domestica. Maffeo Vegio, ad esempio,
nell’Umanesimo ripropone l’esclusione della donna dall’educazione musicale, (De educatione liberorum,
1433) mentre Ludovico Dolce nel Rinascimento assume una posizione neutrale ( Dialogo dell’Institution
delle donne, 1560). Tomaso Campanella all’inizio del Seicento affida provocatoriamente la pratica della
musica alle sole donne proprio perché non le stima e ritiene di dovere trattenere il maschio da un’attività
degradante in quanto effeminatrice ( La città del sole, 1602) (Stefano Lorenzetti, Musica e identità
nobiliare nell’Italia del Rinascimento, cit., pp.121-125 e 183).
204
Sul collegamento dell’esercizio della musica alla tematica amorosa e sull’effetto di seduzione
del binomio donna-musica, per quanto temperato e mascherato dal vincolo della castità, insiste
Lorenzetti, che lo coglie nelle pagine di Castiglione, Francesco da Barberino, Federico Luigini da Udine,
Bembo, e nella stessa pubblicità che tale attività dà alla bellezza, consentendone l’esplicazione delle virtù
fecondatrici. Un veicolo dunque valido sia per l’amor cortese che per l’amor platonico. (Ivi, pp. 125-136).
Se nell’ambito della corte, il ritratto che viene fatto della donna che la pratica può conciliare le due
funzioni, la sublimatrice e la seduttrice, resta però confermata una possibile scissione tra la sua pratica
onesta da parte della gentildonna, e la sua pratica disonesta, anche se ammantata di virtù di facciata, ad
opera della cortigiana di cui è ricorrente il ritratto discinto mentre canta in pubblico, con una
differenziazione di giudizio motivato dagli esiti morali che coinvolge insieme la donna e la musica, di cui
frequentemente la donna inoltre è assunta ad allegoria o a termine analogico. (Ivi, pp. 139-153)
205
«L’amor cortese elegge a proprio segno distintivo l’idea stessa della gioventù. E’ attraverso
l’opera del joven che esso si trasmette e si diffonde. […] Ugualmente la musica appartiene alla gioventù
136
esclusi, pena il ridicolo (dalla pratica della musica però, si badi bene, e non dalle
competenze teoriche, né dall’ascolto). Quanto alla danza, l’unico esempio concreto che
se ne dà nel cortigiano è quello della danza ricreatrice, informata a «estrema grazia» e
datrice di «singular piacere», delle due nobildonne per ordine della duchessa, alla fine
della prima giornata. Di essa si indicano le modalità attuative per il cortigiano
(conservazione di dignità temperata da leggiadria in pubblico, sempre in modo
conveniente a gentiluomo, maggiore libertà in privato (C: II 11)) e si dice
laconicamente che vale quanto anticipato per la musica, liquidando un po’ in fretta
questa arte, adatta alle donne e ai giovani, (C: II, 14) e se ne riprende la trattazione nel
libro terzo, quando si individuano velocemente le modalità in cui deve essere praticata
dalle donne, sempre a similitudine di quanto si consiglia per la musica (C: III, 8). La
centralità riservata al femminile in queste attività la si coglie anche nella puntata
polemica del misogino che vuole riservare la musica, in quanto attività vana e
indebolitrice degli animi, alle donne e agli uomini che, vicini per sensibilità e fragilità
alle donne, non sono da considerare uomini: «Allor, il signor Gaspar, La musica penso,
disse, che insieme con molte altre vanità sia alle donne conveniente sì, e forse ad alcuni
che hanno similitudine d’omini, ma non a quelli che veramente sono; i quali non deono
con delizie effeminare gli animi, ed indurgli in tal modo a temere la morte» (C: I, 47) e
laddove si raccomanda al cortigiano di praticare la musica «in una domestica e cara
compagnia» e soprattutto in presenza di donne «perché quegli aspetti indolciscono gli
animi di chi ode, e più i fanno penetrabili dalla suavità della musica e ancor svegliano i
spiriti di chi li fa» (C: II, 13), affermazione da cui si deduce che le donne favoriscono
con la loro presenza la stessa ricezione e produzione musicale, oltre che essere i soggetti
più sensibili alla sua seduzione. La stretta relazione tra femminile e musica, dovuta alla
comune natura di dare piacere e intrattenere, si ravviva così in un circolo virtuoso di
copotenziamento di sensibilità e di suggestione e seduzione amorosa. E non per niente
le parole dell’amata e l’amata stessa saranno assimilate all’armonia musicale nella
trattazione della relazione tra gli amanti platonici («e godasi [...] medesimamente con
l’audito la suavità della voce, il concento delle parole, l’armonia della musica (se
musica è la donna amata)», C: IV, 62)
Naturalmente anche queste forme di intrattenimento sono sottoposte a norme,
essenziali per la loro stessa riuscita. Le donne vi sono sottoposte a vincoli
comportamentali simili a quelli maschili, quanto al decoro, alla convenienza, alla
modestia, che solo nelle donne però, con il solito ritornello, si ascrive a timidezza e
vergogna, ossia a pudore, mentre nel cortigiano sembra essere solo una forma di
sprezzatura o di riserbo legato alla necessità di distinguersi in quanto uomo libero da
un professionista. Vi mantengono tuttavia un ruolo primario come attrici, ispiratrici,
pubblico, anche per la centralità della corporeità, dato peculiarmente femminile che
sia in senso anagrafico che in senso etico. Essa contribuisce al successo di una duplice suasio: la
seduzione amorosa ed il convincimento morale» (Ivi, pp. 34-35)
206
«[…] e questo poco tempo che ci avanza si dispensi in qualche altro piacer, senza ambizione.Così confermando ognuno, impose la signora Duchessa a madonna Margherita e madonna Costanza
Fregosa, che danzassero. Onde subito Barletta, musico piacevolissimo e danzator eccellente, che sempre
tutta la corte teneva in festa, cominciò a sonare suoi strumenti; ed esse, presesi per mano, ed avendo
prima danzato una bassa, ballarono una roegarze con estrema grazia, e singular piacere di chi le vide [..]»
(C. I, 56)
207
«Venga adunque il Cortegiano a far musica come a cosa per passar tempo, e quasi sforzato, e
non in presenzia di gente ignobile né di gran moltitudine; e benché sappia ed intenda ciò che fa, in questo
ancor voglio che dissimuli il studio e la fatica che è necessaria in tutte le cose che si hanno a far bene, e
mostri estimar poco in se stesso questa condizione, ma, col farla eccellentemente, la faccia estimar assai
dagli altri » ( C: II, 12).
137
dalla condanna aristotelica transita a una rivalorizzazione in termini di bellezza,
seduzione e sensibilità. Questa infatti ci sembra l’interpretazione più legittima, anche se
permane un’ambiguità nel fatto che queste due attività sembrano rivestire per
Castiglione un’importanza minore della conversazione di parola. Egli infatti riserva ad
esse una trattazione più breve che a quella, forse perché, si suppone, pur impegnandosi a
valorizzarle anche per il cortigiano –soprattutto la competenza musicale-, le considera
di fatto gerarchicamente meno importanti di altre (armi e formazione umanistica) per la
realizzazione della sua funzione.
L’avere però ritenute queste attività proprie anche del cortigiano, purché sempre
sotto l’egida della grazia, contribuisce a valorizzarle. Quanto si irradia dal femminile sul
maschile e ne viene assunto, date le prerogative di potere e prestigio maschile, non può
non esserne valorizzato e riverberarsi positivamente anche sulla donna (e d’altra parte il
maschile che lo recepisce potrebbe trovarsi in difficoltà nell’armonizzare le nuove doti
con le tradizionali, e rischiare di esserne sminuito, tant’è vero che nel dialogo c’è
l’opposizione dei misogini al processo di femminilizzazione). Perciò attenuiamo il
dubbio precedentemente espresso sulla femminilizzazione dell’uomo come processo di
ermafroditismo che mentre lo potenzia, rischia di espropriarne la donna o di creare
almeno una sorta di condominio nei campi tradizionalmente di pertinenza femminile, ed
evidenziamo che non si possono tuttavia disconoscere gli effetti di avvicinamento
psicologico e comportamentale cooperanti all’emancipazione della donna. D’altra parte
il processo presenta caratteri di reciprocità, se non nell’ambito del potere e della forza
fisica, prerogative solo maschili, almeno nel campo culturale, cui la donna accede, pur
in modo subordinato.
Inoltre la stessa decadenza nobiliare, per la perdita di funzioni militari e di
governo nel periodo in cui si afferma l’assolutismo monarchico e si fa evidente l’ascesa
della borghesia, produrrà un’amplificazione dei tempi dell’otium, concentrato sul
piacere promosso dall’incontro sociale (la conversazione) e funzionale all’incivilimento,
e finirà con l’accordare progressivamente maggiore importanza alle attività considerate
da Castiglione prevalentemente ornamentali, tra cui la musica.209
10.8. La cura del corpo e l’abbigliamento: la costruzione dell’immagine di sé:
sommo artificio-somma naturalezza. Il ruolo della grazia, sprezzatura, discrezione nel
raggiungimento della buona fama.
208
Il nostro giudizio non viene inficiato dal fatto che Castiglione ha nobilitato la competenza della
musica per il cortigiano: «Avete a sapere ch’ io non mi contento del Cortegiano s’egli non è ancor musico
e se, oltre allo intendere ed esser sicuro a libro, non sa di varii instromenti; perché, se ben pensiamo,
niuno riposo de fatiche e medicina d’animi infermi ritrovar si po più onesta e laudevole nell’ozio che
questa; e massimamente nelle corti […]» (C: I, 47) al punto da far rilevare a Lorenzetti che «se la prima
virtù del nuovo cortigiano è quella d’essere uomo di lettere, oltreché d’armi, la seconda è, senz’altro,
quella di essere musico» (Stefano Lorenzetti, Musica e identità nobiliare nell’Italia del Rinascimento,
cit., p. 72), perché essa è comunque secondaria rispetto alle prime due.
209
Secondo Lorenzetti «quella distinzione portante che il Castiglione aveva instaurato tra materie
di fondamento, concretamente operative, e materie di ornamento, da esercitarsi per il «mantenimento
della vita, il sostenimento dell’esistenza», pare perdere di spessore. […] Il loro [dei nobili] tempo vissuto
coincide interamente con il tempo dell’ozio, lungo il quale si incanala l’inarrestabile flusso della vita. Il
fondamento dell’esistenza, e conseguentemente anche dell’educazione, diviene sempre più il continuo
ornamento di essa. Come per Aristotele era il tempo dell’ozio a contraddistinguere l’individuo libero, così
per la grande nobiltà è il tempo dell’ozio, costellato da continui piaceri, a scandire il trascorrere
quotidiano. Il piacere è un elemento fortemente caratterizzante il processo di civilizzazione di questa
società. Esso connota la neutralizzazione della dimensione pulsionale e il suo incanalamento in forme
socialmente compatibili» (Stefano Lorenzetti, Musica e identità nobiliare nell’Italia del Rinascimento,
cit., pp. 109-114)
138
In questa società in cui è importante per il successo sia la visibilità che
l’apparenza, e i parametri estetici di armonia, equilibrio, coerenza, convenienza,
proporzioni, convergono insieme verso la perfezione dell’unum classico, come
realizzazione dell’ideale supremo di bellezza, molto importante è anche la cura del
corpo e dell’abbigliamento. L’arte sia del trucco che dell’eleganza vi è accettata, ma
essa deve conformarsi a natura, nascondere la propria matrice artificiosa. Nella
realizzazione di questa norma si intrecciano i canoni etico-estetici della simulazionedissimulazione, della grazia, della sprezzatura.
Quanto al trucco, si condanna l’esagerazione/affettazione e si accettano
interventi misurati e tali da non essere riconoscibili o si privilegia direttamente la
naturalezza:
Non v’accorgete voi, quanto più di grazia tenga una donna, la qual, se pur si acconcia, lo fa così
parcamente e così poco, che chi la vede sta in dubbio s’ella è concia o no; che un’altra, empiastrata
tanto, che paia aversi posto alla faccia una maschera, e non osi ridere per non farsela crepare, né si
muti mai di colore se non quando la mattina si veste; e poi tutto il remanente del giorno stia come
statua di legno immobile, comparendo solamente a lume di torze, come mostrano i cauti mercatanti i
lor panni in loco oscuro? Quanto più poi di tutte piace una, dico, non brutta, che si conosca
chiaramente non aver cosa alcuna in su la faccia, benché non sia né così bianca né così rossa, ma
col suo color nativo pallidetta, e talor per vergogna o per altro accidente tinta d’un ingenuo rossore,
coi capelli a caso inornati e mal composti, e coi gesti semplici e naturali, senza mostrar industria nè
studio d’esser bella? (C: I, 40)
E nei comportamenti femminili si apprezza la seduzione che proviene dal
mostrare casualmente e con noncuranza parti nascoste come le mani e i piedi (C: I, 40).
La cura della bellezza con la necessaria seduzione che ne consegue viene legittimata,
purché rispetti la norma estetico-relazionale della sprezzatura e della misura, e una
naturalezza, vera o frutto di un’arte che si nasconda e si presenti come natura. La
condanna etica cristiano-medievale della cura del corpo e della seduzione è
abbandonata, sebbene non si tralasci nella modellizzazione la norma imperativa
dell’onestà e della cura della fama dell’onestà («[...] e con una certa timidità, che mostri
quella nobile vergogna che è contraria della imprudenzia. Deve ancor accomodar gli
abiti a questa intenzione e vestirsi di sorte, che non paia vana e leggiera» C: III, 8). Da
un rifiuto preliminare e totalizzante quale quello medievale, si passa a una concessione
che tutela e rafforza l’esteticità, mentre demanda ad altre forme di controllo la moralità.
La donna infatti dovrà porre innanzitutto molta attenzione a dare di sé un’immagine di
persona onesta e prudente, anche se si ammette per lei una cura della bellezza maggiore
che per gli uomini, proprio perchè la bellezza fisica, ovvero la grazia, è l’attributo
principale della donna, quello che la valorizza particolarmente nelle relazioni sociali, e
da cui scaturisce sia l’amor cortese che l’amor platonico. E d’altra parte, se il fulcro
estetico ed erotico di questa società cortese resta la donna, bellezza, grazia ed eleganza
vi diventano parametri di valore anche per l’uomo, proprio perché favoriscono le
relazioni sociali.
Per l’abbigliamento valgono le medesime regole che per il trucco: la donna di
palazzo dovrà abbigliarsi in modo adatto al temperamento e alle dimensioni fisiche,
nascondendo però l’artifizio; «aiutarsi con gli abiti, ma dissimulatamente più che sia
possibile», scegliendoli o per sottolineare la bellezza secondo un criterio di conformità o
per attenuare i difetti tramite una compensazione che li dissimuli. La bellezza dunque è
tanto importante che se ne autorizza anche un’enfatizzazione, rischiando quasi una
deviazione rispetto al canone della misura.
139
Ma perché alle donne è licito e debito aver più cura della bellezza che agli omini, e diverse sorti
sono di bellezza; deve questa donna aver giudicio di conoscer quai sono quegli abiti che le
accrescon grazia, e più accommodati a quelli esercizii ch’ella intende di fare in quel punto, e di
quelli servirsi: e conoscendo in sé una bellezza vaga ed allegra, deve aiutarla coi movimenti, con le
parole e con gli abiti, che tutti tendano allo allegro; così come un’altra, che si senta aver maniera
mansueta e grave, deve ancor accompagnarla coi modi di quella sorte, per accrescer quello che è
dono della natura. Così essendo un poco più grassa o più magra del ragionevole, o bianca o bruna,
aiutarsi con gli abiti, ma dissimulatamente più che sia possibile; e tenendosi delicata e polita,
mostrar sempre di non mettervi studio o diligenzia alcuna. ( C: III, 8)
Questa attenzione alla bellezza esteriore, anche se trova nel neoplatonismo una
giustificazione etica, perché la si considera come proiezione della bellezza interiore,
sembra comunque motivata da una prevalenza del canone estetico, o almeno da una
simbiosi in cui l’estetico assorbe in sé l’etico e può anche tacerlo, lasciando alla
reiterata norma sociale dell’onestà il compito di far sì che la bellezza esteriore combaci
con comportamenti eticamente e socialmente corretti. Alcuni decenni più tardi, in quella
filiazione diretta, ma sottilmente ribelle del Cortegiano che è la Civil Conversazione di
Guazzo, la bellezza della donna sarà invece prevalentemente interiore.
Pure il cortigiano dovrà curare l’immagine che dà di sé anche nell’abbigliamento,
addirittura in quello in armi, per colpire l’attenzione del pubblico soprattutto femminile,
particolarmente attento all’apparenza estetica (il femminile qui non viene sminuito come
superficiale, ma apprezzato, perchè attento a quella estetica che è parametro di valore
fondamentale nella società dell’epoca e perché stimolo per questa ragione a comportamenti e
forme aggraziate). La grazia e la cura della buona opinione lo devono accompagnare sempre sia
negli esercizi di ascendenza femminile, sia negli esercizi più propriamente maschili, il che è
fortemente innovativo: anche la pratica delle armi va fatta con grazia perché è importante
l’immagine che si dà di sé nel teatro della corte attraverso tornei e giostre e la professione delle
armi tende a diventare sempre più una prova di abilità e uno spettacolo di parata.
E se poi si ritroverà armeggiare nei spettaculi publici, giostrando, torneando o giocando a canne,
o facendo qualsivoglia altro esercizio della persona; ricordandosi il loco ove si trova, ed in presenzia
di cui, procurerà esser nell’arme non meno attilato e leggiadro che sicuro, e pascer gli occhi dei
spettatori di tutte le cose che gli parrà che possano aggiungergli grazia; e porrà cura d’aver cavallo
con vaghi guarnimenti, abiti ben intesi, motti appropriati, ed invenzioni ingeniose, che a sé tirino gli
occhi de’ circustanti, come calamita il ferro. Non sarà mai degli ultimi che compariscano a
mostrarsi, sapendo che i populi, e massimamente le donne, mirano con molto maggior attenzione i
primi che gli ultimi; (C: II, 8)
Ci sembra significativo che la prima immagine che ci viene offerta dell’abbigliamento
del cortigiano sia quella di cavaliere in armi, ma da parata, perché quel ruolo, seppur
teoricamente difeso come primario, sta sempre più indebolendosi, e perché questo consente un
innesto più facile del femminile nella forma della grazia estetica. La levitas femminile forse, più
che intaccare la virilità, va a riempire un vuoto che si è creato per ragioni storiche e a
supportarla incivilendola.
Pure il cortigiano, come la dama di palazzo, dovrà scegliere abiti che lo valorizzino, ma
più in termini di immagine complessiva che di bellezza fisica, e inoltre per il maschile si
precisano anche i parametri del gusto, della dignità di status e del conformismo al gruppo
sociale e alla consuetudine, oltre che auspicare costumi italiani e non esterofili, toccando quindi
l’ambito politico. Tale differenza di attenzioni si inscrive nella tradizionale diversità degli
attributi di genere: la donna, strumento di piacere; l’uomo, animale sociale e politico,
depositario anche di una maggiore libertà.
[...] però ben sarà dir degli abiti del nostro Cortegiano; i quali io estimo che, pur che non siano
for della consuetudine, né contrarii alla professione, possano per lo resto tutti star bene, purché
140
satisfacciano a chi gli porta [...] aggiugnendovi ancor, che debba fra sé stesso deliberar ciò che vol
parere, e di quella sorte che desidera esser estimato, della medesima vestirsi, e far che gli abiti lo
aiutino ad esser tenuto per tale ancor da quelli che non l’odono parlare, né veggono far operazione
alcuna . ( C: II 27)
Chi si veste alla franzese, chi alla spagnola, chi vol parere Tedesco; né ci mancano ancor di
quelli che si vestono alla foggia de’ Turchi; [...] Io in vero non saprei dar regula determinata circa il
vestire, se non che l’om s’accommodasse alla consuetudine dei più; e poiché, come voi dite, questa
consuetudine è tanto varia, e che gl’Italiani tanto son vaghi d’abigliarsi alle altrui fogge, credo che
ad ognuno sia licito vestirsi a modo suo. Ma io non so per qual fato intervenga che la Italia non
abbia, come soleva avere, abito che sia conosciuto per italiano; che, benché lo aver posto in usanzia
questi novi faccia parer quelli primi goffissimi, pur quelli forse erano segno di libertà, come questi
son stati augurio di servitù; il qual ormai parmi assai chiaramente adempiuto. ( C: II, 26)
La cura dell’opinione di sé prevede anche la massima attenzione ad evitare un
abbigliamento effeminato. La femminilizzazione viene vissuta come un’opportunità in più per il
maschio, ma anche come un pericolo, per cui costantemente se ne pretende il controllo e si
mette in guardia dall’effeminatezza, così come dall’affettazione ed esagerazione di cui essa è
una forma e da cui il Rinascimento rifugge anche per il suo paradigma di equilibrio e
compostezza.
Ma per dir ciò che mi par d’importanzia nel vestire, voglio che ‘l nostro Cortegiano in tutto
l’abito sia pulito e delicato, ed abbia una certa conformità di modesta attilatura, ma non però di
maniera femminile o vana, né più in una cosa che nell’altra, come molti ne vedemo, che pongon
tanto studio nella capigliara, che si scordano il resto; ( C. II 27)
Dunque la buona fama è il frutto innanzitutto di una ricerca personale, che si estrinseca
anche nella costruzione dell’immagine esteriore fisica, viene tutelata dalla discrezione210 e viene
fortemente incentivata se ad accreditarla c’è il potere e il prestigio del principe (C: II, 33) o una
rete di amicizie o frequentazioni qualificate (C: II, 29-30). Al successo, come già abbiamo detto,
contribuisce fortemente la grazia che, oltre che dote naturale, può essere migliorata tramite
l’educazione ed ha come regola universale il rifiuto dell’affettazione, la sprezzatura che
nasconde l’arte e fa apparire gli atteggiamenti come naturali, la «sprezzata disinvoltura».
Ma avendo io già più volte pensato meco onde nasca questa grazia, lassando quegli che dalle
stelle l’hanno, trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose
umane che si facciano o dicano più che alcuna altra: e ciò è fuggir quanto più si po, e come un
asperrimo e periculoso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una
certa sprezzatura che nasconda l’arte, e dimostri, ciò che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi
senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia [...] Però si po dir quella esser vera arte,
che non appare esser arte; (C: I, 26)
Una sprezzatura di non facile conseguimento, se si rileva che anch’essa rischia di cadere
nell’affettazione della sprezzatura, e di negarsi in questo modo (C: I; 27). Del resto l’etica
dell’equilibrio e della giusta misura non prospetta in genere comportamenti facili. Ulteriore
virtù della sprezzatura è poi il far credere che si possa fare meglio se ci si impegna nell’attività
in cui si sembra riuscire spontaneamente e con facilità grazie ad essa. Insomma la dote della
210
La discrezione è la virtù che consente di avere una piena consapevolezza delle proprie azioni,
nell’oggetto, nelle motivazioni, nei fini e nei mezzi, nel rispetto del proprio status e ruolo, e di intervenire
nei momenti e luoghi opportuni dopo aver valutato l’interlocutore, è la discrezione guicciardiniana
chiamata a valutare non solo le componenti esterne con cui s’incontra o scontra l’azione, ma innanzitutto
quelle interne: « Appresso, consideri ben cosa è quella che egli fa o dice, e ‘l loco dove la fa, in presenzia
di cui, a che tempo, la causa perché la fa, la età sua, la professione, il fine dove tende, e i mezzi che a
quello condur lo possono; e così con queste avvertenzie s’accomodi discretamente a tutto quello che fare
o dir vole». (C: II, 7)
141
sprezzatura genererebbe un surplus di credito nella buona opinione211 e costituirebbe anch’essa
un validissimo supporto nella costruzione della propria immagine.
Un’altra mediazione difficile è quella proposta tra la virtù della modestia e il legittimo
orgoglio di sé: da una parte «una certa onesta mediocrità» (C: II, 41), è consigliata come scudo
potentissimo contro l’invidia, un male frequente nelle corti, dall’altra si autorizza una pubblicità
positiva di sé, una valorizzazione pubblica delle azioni che meritano lode, perché l’onore cui
aspira il cortigiano unifica i due piani della rispondenza ai dettami della coscienza e del
riconoscimento dell’opinione pubblica.
[...] perché invero è ben conveniente valersi delle cose ben fatte. Ed io estimo, che siccome è male
cercar gloria falsa e di quello che non si merita, cosí sia ancor male defraudar se stesso del debito
onore, e non cercarne quella laude, che sola è vero premio delle virtuose fatiche. (C: II, 8)
Più accessibile appare la mediazione tra norma sociale e libertà individuale, per la
distinzione dei due campi d’azione, il pubblico per la prima, il privato per la seconda: si
autorizza infatti nel privato un’attenuazione del rispetto di alcune norme stabilite per la vita in
società: ad esempio si consente al cortigiano vecchio di praticare nel privato la danza, il canto,
la musica, per lui disdicevoli in pubblico (di fatto si tratta di una concessione che aiuta il
rispetto della norma, e che comunque si limita a certi ambiti: ad esempio la tutela della
segretezza non giustificherebbe affatto l’adulterio per Castiglione).
Comunque l’immagine pubblica che il cortigiano deve costruirsi è assolutamente
aristocratica nei valori e nei modi per rimarcarne al meglio lo status reale o accreditare quello
auspicato:212 continuamente si ripete che il cortigiano deve evidenziare nelle sue scelte il
211
Sul rapporto dialettico tra grazia e misura come norme dell’estetica e quindi dell’apparenza e
società e «bona opinione» è intervenuto Gagliardi. La grazia è, secondo il critico, una misura di relazione,
conformata alla misura d’uso di chi ha già grazia, secondo la norma dell’uso sociale. «La grazia non è che
l’idealizzazione della legge del mondo attraverso la normalizzazione dell’autorità di chi ha già
conquistato il plauso del mondo avendone assunto la rappresentanza e la rappresentazione» (Antonio
Gagliardi, La misura e la grazia. Sul «Libro del Cortegiano», Tirrenia Stampatori, Torino, 1989, p. 82).
In una società, in cui predominano il parametro estetico e la cultura dell’immagine e dell’apparenza, e in
cui la visibilità dell’osservanza dei codici e l’osservanza dei codici vengono unificate, il valore del
comportamento individuale deve trovare un riconoscimento nel riscontro sociale e anche la grazia si
realizza in maniera relativa, «in relazione alla misura altrui, all’altrui riconoscimento» (Ivi, p. 83).
212
L’importanza della costruzione dell’immagine pubblica rimanda in altri termini a quella del
‘parere’, all’origine della quale sta la natura della corte come misura del valore, e il bisogno di
riconoscimento nel rispecchiamento nel gruppo omogeneo a sé, come ci suggerisce Barberi Squarotti,
secondo cui il parere è garanzia insieme sociale e individuale, è accettazione nel gruppo e insieme
riconoscimento di sé, presa di consapevolezza del proprio valore: «La corte è la misura del Valore, di
ogni Valore. Proprio per questo ciò che vi avviene e vi si compie risponde al principio del
rispecchiamento della corte in se stessa con la conseguente trasformazione degli uomini di corte in
Narcisi allo specchio che si interrogano sulle proprie virtù, sulle proprie conoscenze, sulle proprie abilità.
Tutto ciò che sanno o fanno i cortigiani è in rapporto con lo spazio della corte. [...] Ciò che conta, di
conseguenza, è la vita di relazione, vale a dire il giudizio che del comportamento, delle azioni, della
cultura dell’uomo di corte possono dare gli altri cortigiani, che in lui si specchiano, proprio per
riconoscervi le proprie virtù e i propri difetti. L’apparire ha una funzione fondamentale, poiché, senza,
l’essere resterebbe non conosciuto, non attuato in quel mondo di rapporti che è la corte, e lo specchio
rimanderebbe un’immagine vuota, e il gioco di Federico Fregoso non potrebbe essere fatto. Il gioco è,
come è naturale, estremamente serio: quello di guardare in uno specchio che rimanda l’immagine della
perfezione del luogo deputato al sublime dell’esperienza etica e intellettuale che è la corte, la propria
immagine, quindi, ma esaltata quanto più è proponibile. [...] In realtà non è possibile altro gioco che
quello di specchiarsi nello specchio della propria condizione come esemplare e suprema, per i cortigiani
presenti a Urbino nell’eccezionale occasione del 1507, al fine di riconoscere l’eccellenza della propria
condizione e di offrire la figura della perfezione cortigiana al mondo, un modello di vita e di esperienza,
ma anche una proposta politica, che pone la corte come il luogo nuovo di incontro, di conversazione, di
esercizio dei valori e della virtù, di deposito, anzi, dei valori, così come essa è lo spazio del potere
politico e il cortigiano vi appare l’incarnazione moderna dell’intellettuale in quanto impegnato
nell’azione, in contatto con il potere, sia pure nel modo che il trattato espone, non, cioè, come colui che
142
distacco o l’indifferenza nei confronti della moltitudine, non cercare il successo presso questa,
né tantomeno porsi in lizza con questa (C: II, 10). A questa netta separazione socio-politica
verticale, che condivide con la donna di palazzo, si accompagna per il cortigiano, grazie alla
civiltà delle corti, il godimento di una identità di classe aristocratica sovramunicipale e
sovranazionale,213 cui fa da supporto anche la competenza nelle lingue moderne (francese,
spagnolo) necessaria nell’ambiente internazionale della corte.214 E non a caso di questi aspetti
politico-culturali, per le donne non si parla. Mentre al cortigiano conviene la conoscenza delle
lingue classiche e delle lingue moderne, per le donne è sufficiente quella della lingua volgare
propria. Sarà semmai il cortigiano a provvedere a fare da mediatore culturale anche sotto questo
profilo. Per il resto anche alla donna di palazzo compete un’immagine aristocratica che coniughi
ai modi della grazia e sprezzatura, e a una ‘infarinatura’ culturale a largo spettro, che gliene
consenta una ‘simulatio’, quella modestia e onestà che deve contraddistinguere il suo genere.
10.9. La cultura della donna di palazzo.
L’emancipazione culturale per la funzione dell’intrattenimento. La conservazione di una condizione
culturale subalterna.
Altra dote e prerogativa importantissima che viene riconosciuta dal Magnifico
alla donna di palazzo è la preparazione culturale, che la tradizione misogina aveva
negato alla donna, data la sua debolezza intellettuale, alibi in realtà di una debolezza
sociale. È proprio la modificazione di status e di ruolo della donna all’interno della corte
a consentirle questa emancipazione, un’acculturazione tuttavia in dipendenza dalle
esigenze del cortigiano, e subalterna alla sua cultura perché ad essa simile e inferiore.
La preparazione culturale è consentita e attribuita alla donna, perché basilare per
l’esercizio del conversare, aspetto principale dell’intrattenimento. La donna di palazzo
deve avere una preparazione culturale simile a quella del cortigiano e sapere esprimere
pareri sugli esercizi tipicamente virili che pure non pratica. Sapere inoltre di lettere,
musica, pittura. Saper danzare, festeggiare, conversare e motteggiare sempre con
modestia e discrezione («discreta modestia»), onestà («dar bona opinione di sé»), grazia
determina la politica e si fa mediatore delle leggi di essa presso il principe, ma come colui che fornisce al
principe l’immagine della perfezione morale e intellettuale dell’uomo, che, per il Castiglione, coincide
con la perfezione della politica» (Giorgio Barberi Squarotti, L’onore in corte, Franco Angeli, Milano,
1986, pp. 42-43). Il cortigiano è attento alla rappresentazione che dà di sé, al consenso che genera, sia
come uomo d’armi che come intellettuale. Via via la sua attività di uomo d’armi si caratterizza sempre
più come spettacolo, in giostre e tornei. Come intellettuale, riveste un ruolo di medietà, non è l’eccelso
artista o umanista, ma ha competenze in ogni campo. È per il Barbéri Squarotti «l’uomo delle relazioni e
dello spettacolo, l’uomo dello specchio», «il dilettante abile ed esperto, così come è l’uomo capace di
arguzia e di danzare e di vestire appropriatamente, con sobria e discreta eleganza, e di narrare storie e di
cantare e di suonare, il tutto con misura e medietà, senza eccesso di impegno e senza, soprattutto, un
interesse specifico, che finirebbe nell’esagerazione e nell’ostentazione». (Ivi, p. 51)
213
Infatti continuamente si confrontano costumi di corte italiani, spagnoli, francesi, il che
testimonia l’internazionalità del mondo della corte. E, come ci ricorda Mazzacurati, era prassi dei
cortigiani lo spostarsi di corte in corte, o l’avere comunque contatti con corti diverse per gli incarichi
affidati loro dai principi. (Giancarlo Mazzacurati, Il rinascimento dei moderni, cit., p. 178)
214
Il cortigiano, abituato a vivere e operare in un contesto internazionale, dovrà conoscere le lingue
moderne, il francese e lo spagnolo, per i frequenti scambi con ‘nobili cavalieri’ delle corti spagnola e
francese, magnificate per la potenza e liberalità dei principi :«Il medesimo intervien del saper diverse
lingue; il che io laudo molto nel Cortegiano, e massimamente la spagnola e la francese: perché il
commerzio dell’una e dell’altra nazione è molto frequente in Italia, e con noi sono queste due più
conformi che alcuna dell’altre; e que’ dui principi, per esser potentissimi nella guerra e splendidissimi
nella pace, sempre hanno la corte piena di nobili cavalieri, che per tutto ‘l mondo si spargono; ed a noi
pur bisogna conversar con loro». (C: II, 37)
143
(«graziatissima»), senso della convenienza, e innanzitutto in relazione al proprio status,
s’intende, di donna («convenienti a lei»).
E perché il signor Gasparo domanda ancor quai siano queste molte cose di che ella deve aver
notizia, e di che modo intertenere, e se le virtù deono servire a questo intertenimento, dico che voglio
che ella abbia cognizion di ciò che questi signori hanno voluto che sappia il Cortegiano; e di quelli
esercizii che avemo detto che a lei non si convengono, voglio che ella n’abbia almen quel giudicio
che possono aver delle cose coloro che non le oprano; e questo per saper laudare ed apprezzar i
cavalieri più e meno, secondo i meriti. E per replicar in parte in poche parole quello che già s’è detto,
voglio che questa donna abbia notizie di lettere, di musica, di pittura e sappia danzar e festeggiare;
accompagnando con quella discreta modestia e col dar bona opinion di sé le altre avvertenzie che son
state insegnate al Cortegiano. E così sarà nel conversare, nel ridere, nel giocare, nel motteggiare, in
somma in ogni cosa graziatissima; ed intertenerà accommodatamente, e con motti e facezie
convenienti a lei ogni persona che le occorrerà; (C: III, 9)
Le si assegna dunque una cultura pressoché enciclopedica, ma sostanzialmente,
a nostro parere, elementare («aver notizia», «abbia cognizion di», «abbia notizie di»,
«abbia almen quel giudicio»),215 e dello stesso taglio di quella maschile («ciò che questi
signori hanno voluto che sappia il Cortegiano»),216 e il motivo di tale assegnazione, è
detto chiaramente anche dagli argomenti del canone di istruzione, non è effettivamente
il riconoscimento di una sua dignità intellettuale, e il diritto all’accesso a una cultura
secondo i suoi specifici interessi, ma il bisogno di farne una compagna interattiva del
cortigiano in grado di rispecchiarne e potenziarne qualità e interessi, ancora una volta
dunque una funzione del maschile e in chiave prevalentemente narcisistica, cosicché
continua anche in questa forma il suo ruolo di oggetto di piacere («e questo per saper
laudare ed apprezzare i cavalieri più e meno, secondo i meriti»). Significativamente il
sapere, come competenza più alta, anzi come insieme di conoscenza teorica
approfondita e di competenza pratica, le viene riconosciuto solo in merito al danzare e
al festeggiare («sappia danzare e festeggiare»), insomma a discipline tipicamente
muliebri non implicanti fondamenti teorici complessi, e anch’esse veicolate ad obiettivi
di piacere, innanzitutto maschile. Elogio, apprezzamento e festeggiamento concorrono
sostanzialmente a compiacere quel soggetto.
215
Può confligere con la nostra interpretazione il fatto che, in altro contesto, a proposito delle
conoscenze umanistiche del cortigiano, e precisamente della lingua latina e greca, Castiglione usi
l’espressione «aver cognizione di», che in quel contesto non sembra poter aver valore sminuente, ma
essere solo sinonimica rispetto a un sapere fondato. Se così fosse, la nostra interpretazione andrebbe
corretta e la volontà di emancipazione della donna in Castiglione ne risulterebbe rafforzata. Ma, a nostra
difesa, osserviamo che nella diegesi le donne non intervengono con un proprio sapere, se non sul tema
dell’amor cortese, e per il resto si limitano a brevi battute o a funzioni di arbitro, mentre i cortigiani
esplicano sulla scena del testo continuamente e protagonisticamente il loro sapere, nella forma
dell’erudizione e della cultura e nell’abilità dialettica. E l’impressione che ne ricaviamo è quella di un
bagaglio culturale limitato, bisognoso dell’illuminazione dei cortigiani, o per lo meno di timore
nell’esibirlo di fronte a interlocutori particolarmente preparati. Cosicché l’eventuale volontà di
Castiglione di promuovere un acculturamento femminile, quasi pari al maschile (ma ci pare che retorica e
filosofia restino comunque escluse o assunte implicitamente all’interno di una formula molto generica)
sarebbe a questo punto progettuale e promozionale e non risponderebbe alle competenze della donna di
palazzo dell’epoca, nemmeno a quelle dell’idealizzata Emilia Pio.
216
Ci si potrebbe obiettare che l’offerta della cultura maschile alle donne, non è una piccola
concessione, perché il sapere era prevalentemente maschile, ma a noi sembra che la finalità della
concessione, ad usum viri, ne sminuisca comunque molto il valore.
144
Inoltre perdura il richiamo ossessivo alle qualità dell’onestà,217 nella forma
dell’appello alla modestia e alla tutela della buona fama, e alla conservazione delle virtù
d’animo (continenza, magnanimità, temperanza, fortezza d’animo, prudenza),
considerate in maniera anticonvenzionale sufficientemente importanti anche per
l’intrattenimento («benché anche a questo possono servire»), e comunque necessarie a
quell’abito di virtù e di buona fama che è la condicio sine qua non per essere una vera
gentildonna («quanto per essere virtuosa, ed acciò che queste virtù la faccian tale che
meriti essere onorata») e che va coniugato con le qualità dell’intrattenimento.
E benché la continenzia, la magnanimità, la temperanzia, la fortezza d’animo, la prudenzia e le
altre virtù paia che non importino allo intertenere, io voglio che di tutte sia ornata, non tanto per lo
intertenere, benché però ancor a questo posson servire, quanto per essere virtuosa, ed acciò che
queste virtù la faccian tale che meriti essere onorata, e che ogni sua operazion sia di di quelle
composta. (C: III, 9)
Si avverte in questa precisazione il timore legato al perdurante iato tra lo statuto
della donna in famiglia e della donna in corte e il bisogno di rassicurare sull’ortodossia
dell’operazione di emancipazione della donna, in quanto essa non ne pregiudica le
qualità morali.
Insieme a queste doti, poiché il fine è sempre quello di coadiuvare il
protagonismo del cortigiano nella vita di corte, si raccomandano comportamenti
omologhi al codice cortese e rinascimentale («accompagnando con quella discreta
modestia e col dar bona opinion di sé le altre avvertenzie che son state insegnate al
Cortegiano»).
In effetti, accanto alla reiterata valorizzazione delle virtù tradizionali di
modestia, onestà, prudenza, continenza, giudicate utili per se stesse («per essere
virtuosa»), secondo una linea etica, e utili per il buon giudizio sociale («ed acciò che
queste virtù la faccian tale che meriti esser onorata») secondo una linea aristocraticorinascimentale (non dimentichiamo a questo proposito di rilevare la centralità del
parametro della convenienza),218 si riconosce alla donna di palazzo l’importanza di una
preparazione culturale, necessaria perché sia soggetto attivo di dialogo e intrattenimento
in un ambiente aristocratico, colto e raffinato, anche se, come abbiamo osservato, in
tono minore e speculare. Un riscontro di questa situazione di emancipazione in
persistente dipendenza (insieme all’attestazione indiretta di una moda incipiente) si avrà
nello Specchio d’amore di Gottifredi quando alla donna si chiede di saper leggere e far
rime o prose di lettere sull’esempio di Petrarca e di Boccaccio per potere intrattenere
più complete relazioni amorose, e, se non ne è in grado, mostrare, far vista di sapere,
copiando testi già scritti da altri innamorati imitatori. Nello Specchio d’amore, però, c’è
un’intenzione parodica nei confronti del Cortegiano e la donna non è altrettanto nobile,
217
La preoccupazione per l’onestà femminile appare condivisa anche da Bembo, che negli Asolani
fa dire a Gismondo: «E in fine ama di lei quello che oggi poco s’ama nel mondo, mercé del vizio che ogni
buon costume ha discacciato, l’onestà dico, sommo e spezialissimo tesoro di ciascuna savia, la qual
sempre ci dee esser cara, e tanto più maggiormente, quanto più care ci sono le donne amate da noi» (L. II,
15)
218
Il parametro della convenienza, qui riferito all’agire secondo lo statuto femminile, sarà ribadito
frequentemente nel Cortegiano, in relazione ai soggetti agenti, ai destinatari, ai luoghi e ai tempi, agli
argomenti, allo stesso inerire delle parti al tutto, in quanto considerato strumento importante per costruire
l’ideale armonia rinascimentale. E la convenienza, anche se sarà prevalentemente quella dell’innesto
armonioso della parte col tutto, nell’ambito fisico come sociale, culturale ed estetico, toccherà
indirettamente anche la sfera dell’utile, in quanto naturale conseguenza dell’inserimento armonioso
dell’individuo nel corpo sociale, della stessa pace sociale che ne consegue, di un conformismo e
tradizionalismo condiviso, nei principi come nelle relazioni e gerarchie.
145
ed ha come educatrice una mezzana, per cui il suo sapere, ancora circoscritto alla
tematica amorosa, si riduce a una pura simulazione, a una scimiottatura del sapere
conforme al classicismo bembiano, motivato da un fine estraneo e strettamente
utilitaristico. La parodia tuttavia evidenzia, esasperandolo, un aspetto già presente nel
Cortegiano: fino a che punto anche il sapere della donna di palazzo, per quanto
afferente a più ambiti rispetto a quello solo amoroso richiesto (con un’operazione
regressiva) alla donna nella parodia, non è che una parvenza di sapere, nell’interesse del
cortigiano, e funzionale alla promozione di un’atmosfera ‘amorosa stuzzicante e
vivacizzante’, sebbene contenuta nei limiti del lecito? Inoltre la donna di palazzo trae
dall’acculturazione anche un utile personale, la garanzia insomma di poter vivere a corte
con un discreto credito, un vantaggio ‘economico e di immagine’ che quasi sfugge in
Castiglione, in quanto mascherato dalla facciata emancipatrice, e che invece viene
apertamente denunciato nella parodia al punto che si ipotizza anche un uso simulato e
astuto della cultura per questo fine.
La valenza emancipatrice dell’ipotesi di Castiglione viene messa in evidenza per
contrasto anche dalle resistenze del misogino che provoca il Magnifico sulla
conseguenza implicita nell’acculturazione della donna, unita al riconoscimento delle
virtù dell’animo, ossia quella di accedere al potere politico, argomento che questi
sostanzialmente elude, forse proprio per garantirla contenendola. Ma sul tema
dell’esclusione delle donne dalla sfera politica ritorneremo più avanti.
L’accesso della donna alla cultura, nella forma subordinata e complementare
anzidetta, risulta ancor più evidente se si passa in rassegna, come ora faremo, quanto in
quest’ambito si riconosce al cortigiano, e si nota che lo sviluppo teorico e approfondito
di questioni inerenti la funzione di cortigiano, come armi e lettere, lingua, arti, principio
d’imitazione, avviene nell’ambito della sua modellizzazione e per bocca di cortigiani
che ripropongono sulla scena del testo il dibattito culturale dell’epoca. Per le donne
niente di tutto questo, solo un accenno a un aver notizia di ciò di cui il cortigiano ha
invece una conoscenza e competenza approfondita, tanto che persino la questione
femminile vi è assunta secondo il sapere, l’interesse e la voce del cortigiano. E così pure
il tema dell’amore, su cui alla donna sarà permesso un breve intervento, contenuto nel
quadro della tradizione cortese, mentre ai cortigiani saranno riservate sia l’innovazione
che la normazione dell’amor cortese, e la trattazione filosofico-ascetica dell’amor
platonico.219
219
Anche Bembo, come Castiglione, pur se i soggetti acculturati più prestigiosi sono sempre i
maschi, prende posizione a favore di un’acculturazione femminile, per favorirne anche, ma non solo, la
interazione come pubblico, sia nel tradizionale campo amoroso (di amore si parla infatti nel dialogo a
donne «intendenti»: «Assai era alle intendenti donne piaciuta questa canzone», (L. II, 7) secondo una
reminiscenza dantesca, «Donne ch’avete intelletto d’amore»), sia in relazione ad argomenti di valenza
formativa alta, riconducibili comunque in genere anch’essi all’amore, perché se ne parla nel proemio al
terzo libro dove si tratta dell’amor platonico («Quantunque io stimo che saranno molti, che mi
biasimeranno in ciò, che io alla parte di queste investigazioni le donne chiami, alle quali più s’acconvenga
negli uffici delle donne dimorarsi, che andare di queste cose cercando. De’ quali tuttavia non mi cale.
Perciò che se essi non niegano che alle donne l’animo altresì come agli uomini sia dato, non so io perché
più ad esse che a noi si disdica il cercare che cosa egli sia, che si debba per lui fuggire, che seguitare; e
sono queste tra le meno aperte quistioni, e quelle per aventura, d’intorno alle quali, sì come a perni tutte le
scienze si volgono, segni e berzagli d’ogni opera e pensamento. Che se esse tuttavolta a quegli uffici, che
diranno que’ tali esser di donna, le loro convenevoli dimore non togliendo, negli studi delle lettere e in
queste cognizioni de’ loro ozii ognialtra parte consumeranno, quello che alquanti uomini di ciò ragionino
non è da curare, perciò che il mondo in loro loda ne ragionerà quando che sia», L. III, 1). In queste parole
di Bembo però sembra coglibile una più sincera preoccupazione che in Castiglione per un’acculturazione
delle donne funzionale al loro stesso interesse formativo. Una riprova del riconoscimento alle donne da
parte di Bembo di una certa attitudine alle lettere lo si ha nel passo in cui Gismondo, dopo aver
sottolineato la seduzione esercitata dal binomio donne - musica, canto, poesia (aspetto che abbiamo
146
Dopo l’indicazione della funzione primaria di combattente, degli esercizi del corpo, e
della grazia e sprezzatura come regole universali di comportamento del cortigiano, si passa a
definire le regole del parlare, dello scrivere e del sapere, entrando in un campo più decisamente
umanistico e moderno, con l’assunzione delle dispute dell’epoca all’interno del dialogo, in vista
di determinare la normativa. Insomma entriamo nel campo più specifico della cultura che
caratterizza il cortigiano del Quattrocento e Cinquecento e lo distingue dal cavaliere medievale.
Il cortigiano dovrà essere naturalmente aggraziato nel parlare ed evitare l’affettazione
(C: I, 28). Quanto alla lingua da usare si confrontano la tesi bembesca del toscano antico
secondo i modelli di Petrarca e di Boccaccio e quella di Castiglione di una lingua dell’uso di
vari luoghi d’Italia (una disputa ripresa da Castiglione nella dedicatoria, C: I, 29-30). Sulla base
dello stesso esempio degli antichi si sottolinea l’evoluzione naturale della lingua e il diritto ad
usare la lingua dell’ uso vivo, evitando gli arcaismi (C: I, 32-33). E si giunge addirittura ad
ipotizzare non solo il superamento dei municipalismi, ma anche del nazionalismo linguistico, in
una proiezione nella lingua della dimensione internazionale del cortigiano gentiluomo.
Io vorrei che’l nostro Cortegiano parlasse e scrivesse di tal maniera; e non solamente pigliasse
parole splendide ed eleganti d’ogni parte d’Italia, ma ancor lauderei che talor usasse alcuni di quelli
termini e franzesi e spagnoli, che già sono dalla consuetudine nostra accettati. (C: I, 34)
Si autorizzano anche interventi personali di risemantizzazione e di costruzione di
neologismi (C: I, 34). Si chiarisce che cosa s’intenda per consuetudine circoscrivendola nell’uso
dei dotti.
La bona consuetudine adunque del parlare credo io che nasca dagli omini che hanno ingegno, e
che con la dottrina ed esperienzia s’hanno guadagnato il bon giudicio, e con quello concorrono e
consentono ad accettare le parole che lor paiono bone, le quali si conoscono per un certo giudicio
naturale, e non per arte o regula alcuna.(C: I, 35)
Nel parlare poi bisogna prestare attenzione all’intonazione della voce e alla gestualità
(ancora con un anatema contro l’effeminatezza: la voce non deve essere «troppo sottile e molle
come di femina»), e naturalmente ai concetti espressi, poiché imprescindibile per essere
apprezzati è il sapere.
Quello adunque che principalmente importa ed è necessario al Cortegiano per parlare e scrivere
bene, estimo io che sia il sapere [...] E questo cosí dico dello scrivere come del parlare: al qual però si
evidenziato nel capitolo sulla musica), ammette per le stesse una produzione di quest’ultima, comunque
in scala notevolmente minore di quanto si riconosca la competenza letteraria agli uomini, di cui è
peculiare prerogativa: « O chi è quello, nel cui rozzo petto in tanto ogni favilluzza d’amoroso pensiero
spenta sia, che egli non conosca quanto sia caro e dilettevole agli amanti talora recitare alcun loro verso
alle lor donne ascoltanti, e talora esse recitanti ascoltare? [...] O pure con quanta soavità ci soglia gli
spiriti ricercare un vago canto delle nostre donne, e quello massimamente, che è col suono d’alcun soave
strumento accompagnato, tocco dalle loro dilicate e musice mani? Con quanta poi, oltre a questa, se
aviene che elle cantino alcuna delle nostre canzoni o per aventura delle loro? Che quantunque degli
uomini quasi proprie sieno le lettere e la poesia, non è egli perciò che, sì come Amore nelle nostre menti
soggiornando con la regola degli occhi vostri c’insegna le più volte quest’arte, così ancora ne’ vostri
giovani petti entrato, egli alle volte, qualche rima non ne tragga e qualche verso: i quali tanto più cari si
dimostrano a noi, quanto più rari si ritrovano in voi» (L. II, 25). A proposito dell’acculturazione
femminile, così annota Dionisotti: «Il Bembo tocca qui la questione, molto dibattuta in quei giorni e poi
per tutto il Cinquecento, se la donna fosse o no inferiore all’uomo, e in ispecie se fosse o no atta a una
educazione letteraria, quale quella dell’uomo. Ne tocca brevemente e, dove accenna agli avversari, con
una punta d’impazienza (de’ quali tuttavia non mi cale). Come la cornice e la sostanza stessa degli
Asolani dimostrano, la questione era essenziale. In essa Bembo e Ariosto e Castiglione e tutto, si può dire,
il Cinquecento si accordano, di contro all’antifemminismo prevalente nella cultura umanistica» (Carlo
Dionisotti, Prose e rime di Pietro Bembo, Torino, Utet, 1960, Nota 20 a Libro III, 1, p. 458).
147
richiedono alcune cose che non son necessarie nello scrivere; come la voce bona, non troppo sottile o
molle come di femina, né ancor tanto austera ed orrida che abbia del rustico, ma sonora, chiara, suave
e ben composta, con la pronunzia espedita, e coi modi e gesti convenienti; li quali, al parer mio,
consistono in certi movimenti di tutto ‘l corpo, non affettati né violenti, ma temperati con un volto
accomodato, e con un mover d’occhi che dia grazia e s’accordi con le parole, e più che si po
significhi ancor coi gesti la intenzione ed affetto di colui che parla. Ma tutte queste cose sarían vane e
di poco momento, se le sentenzie espresse dalle parole non fussero belle, ingeniose, acute, eleganti e
gravi secondo ‘l bisogno.- (C: I, 33)
Anche nella voce come nella gestualità valgono i parametri universali della
compostezza, temperanza, convenienza, armonia, e gli argomenti dovranno essere anch’essi vari
e convenienti al momento, pure piacevoli,
Né io voglio che egli parli sempre in gravità, ma di cose piacevoli, di giochi, di motti e di burle,
secondo il tempo; del tutto però sensatamente e con prontezza e copia non confusa; né mostri in parte
alcuna vanità o sciocchezza puerile. (C. I, 34)
perché anche per il cortigiano è molto importante l’attività dell’intrattenimento in cui esercita
una funzione primaria coi contenuti del suo sapere e con la sua verve dialettica ed espressiva,
mentre le donne vi rivestono quella di promotrici, mediatrici, ‘interattrici coreografiche’ della
conversazione. La funzione maschile resta prioritaria nella corte, sono i maschi che di fatto
svolgono gli argomenti di cui le donne fanno richiesta e sono quasi solo attente spettatrici o
partecipi con poche battute. Non per niente i cortigiani menzionati inizialmente sono tutti
maschi, e sono loro i nobilissimi ingegni dai cui ragionamenti si deriva diletto, oltre che essere
di numero molto maggiore (C: I, 6), mentre le dame di palazzo, tranne pochissime, restano
invece senza nome.
[...] consuetudine di tutti i gentilomini della casa era ridursi subito dopo cena alla signora
Duchessa; dove, tra l’altre piacevoli feste e musiche e danze che continuamente si usavano, talor si
proponeano belle questioni, talor si faceano alcuni giochi ingeniosi ad arbitrio or d’uno or d’un altro,
nei quali sotto vari velami spesso scoprivano i circunstanti allegoricamente i pensier sui a chi più loro
piaceva. Qualche volta nasceano altre disputazioni di diverse materie, ovvero si mordea con pronti
detti; spesso si faceano imprese, come oggidí chiamiamo: dove, di tali ragionamenti maraviglioso
piacere si pigliava, per esser, come ho detto, piena la casa di nobilissimi ingegni; tra i quali come
sapete, erano celeberrimi il signor Ottaviano Fregoso, messer Federico suo fratello, il Magnifico
Iuliano de’ Medici, messer Pietro Bembo, messer Cesar Gonzaga, il conte Ludovico da Canossa, il
signor Gaspar Pallavicino, il signor Ludovico Pio, il signor Morello da Ortona, Pietro da Napoli,
messer Roberto da Bari, ed infiniti altri nobilissimi cavalieri: oltra che molti ve n’erano, i quali,
avvenga che per ordinario non stessino quivi fermamente, pur la maggior parte del tempo vi
dispensavano; come messer Bernardo Bibiena, l’Unico Aretino, Joan Cristoforo Romano, Pietro
Monte, Terprando, messer Nicolò Frisio; di modo che sempre poeti, musici, e d’ogni sorte omini
piacevoli, e li più eccellenti in ogni facultà che in Italia si trovassino, vi concorrevano. (C: I, 5)
All’assunzione all’interno del dialogo dei termini della disputa sulla lingua segue quella
concernente il principio classicistico dell’imitazione, di un modello o di più modelli, tesi
quest’ultima cui inclina Castiglione ritenendo che l’eccellenza si possa raggiungere con stili
diversi e che l’imitazione forzata penalizzi gli ingegni anziché svilupparli (C: I, 37).
Un intermezzo polemico contro l’affettazione, colta non a caso in particolare nei
comportamenti femminili, offre l’occasione per parlare delle virtù dell’animo cui si ritiene
faccia da forte supporto la formazione umanistica. Anche qui, come per la donna di palazzo, la
trattazione della cultura chiama in campo il sostrato etico, secondo il canone del vir bonus
dicendi peritus, ma diversa è la relazione instaurata tra loro. Quando si tratta della donna, la
formazione culturale si giustappone semplicemente alle virtù e non le informa (anche perché
gliela si offre in una maniera superficiale), mentre nel cortigiano ne diviene animatrice e
potenziatrice.
148
Diremo in poche parole, attendendo al nostro proposito, bastar che egli sia, come si dice, omo da
bene ed intiero; ché in questo si comprende la prudenzia, bontà, fortezza e temperanza d’animo, e
tutte l’altre condizioni che a così onorato nome si convengono. Ed io estimo, quel solo esser vero
filosofo morale, che vol essere bono; (C: I, 41)
Ma, oltre alla bontà, il vero e principal ornamento dell’animo in ciascuno penso io che siano le
lettere:(C: I, 42)
E s’io parlassi con essi o con altri che fusseno d’opinion contraria alla mia, mi sforzarei mostrar
loro, quanto le lettere, le quali veramente da Dio son state agli omini concedute per un supremo
dono, siano utili e necessarie alla vita e dignità nostra; né mi mancheriano esempii di tanti eccellenti
capitani antichi, i quali tutti giunsero l’ornamento delle lettere alla virtù dell’arme. ( C: I, 43)
Il qual voglio che nelle lettere sia più che mediocremente erudito, almeno in quegli studii che
chiamano d’umanità; e non solamente nella lingua latina, ma ancor della greca abbia cognizione, per
le molte e varie cose che in quella divinamente scritte sono. Sia versato nei poeti, e non meno negli
oratori ed istorici, ed ancor esercitato nel scriver versi e prosa, massimamente in questa nostra lingua
vulgare; ché, oltre al contento che egli stesso pigliarà, per questo mezzo non gli mancheran mai
piacevoli intertenimenti con donne, le quali per ordinario amano tali cose.(C: I, 44)
Infatti le lettere sono considerate, «oltre alla bontà, il vero e principal ornamento
dell’animo», e quindi poste su un piano di parità, con una sfumatura quasi di preminenza («vero
e principal») e il campo comune di cooperazione è sempre l’animo. Il termine ‘ornamento’, in
quanto riferito sia alla bontà che alle lettere, va assunto non in un significato estetico accessorio,
ma come una componente etica-estetica essenziale e avvalorante, che si coniuga come utile e
necessaria al valore delle armi per la realizzazione piena della dignità della persona e della
felicità della vita.
La formazione umanistica, infatti, da perseguire in forma piena attraverso la conoscenza
delle lingue classiche per avere la garanzia di un accesso diretto al sapere degli antichi, e
supportata anche dalla conoscenza e competenza della lingua e letteratura volgare, offre
strumenti di realizzazione non solo spirituale (suggeriti dall’indicazione del piacere che il
cortigiano proverà), ma anche relazionale (gli intrattenimenti con donne, e inoltre, aggiungiamo,
coi pari e col principe). Si ribadisce con questo la funzionalità della formazione umanistica alla
conversazione di corte, e, indirettamente, la necessità del volgare per poter essere inteso dalle
donne, per le quali non si parla di istruzione nelle lingue classiche e di formazione umanistica
approfondita, né di produzione artistica, ma solo di capacità ricettiva e valutativa.
La valorizzazione delle lettere offre lo spunto alla polemica con l’orientamento dei
Francesi che apprezzano solo le armi come qualità del cortigiano, (C: I, 42) e pensano
addirittura «che le lettere nuocciano all’ arme» (C: I, 43), e viene riconfermata anche
dall’osservazione che esse conservano il ricordo della gloria che è stimolo alla guerra ed
educano ad amarla, e quindi sono un importante supporto al valore militare. La possibile
confutazione di tale tesi con l’esempio della decadenza degli Italiani che possiedono la cultura,
220
L’uso dell’espressione «abbia cognizione», in relazione alla competenza sulle lingue classiche
che si richiede al cortigiano, come abbiamo evidenziato in una nota precedente, ci provoca una
perplessità, un dubbio in relazione all’interpretazione che della stessa espressione abbiamo dato per la
cultura delle donne. Lì infatti l’abbiamo intesa nei termini di un’acculturazione riduttiva e superficiale, ed
effettivamente molti aspetti del sapere della donna concorrono a questa interpretazione, mentre non ci
pare autorizzata la stessa interpretazione in questo contesto, a meno che non si parli di un cortigianogentiluomo di cui si accetta una media cultura, abbandonando quello spessore così compiutamente
umanista che caratterizza ancora il cortigiano Castiglione e tanti ingegni dell’epoca. Questo aspetto sarà
semmai più evidente successivamente, ad esempio nel gentiluomo patrizio di Guazzo.
221
Sulla conservazione in Francia dell’ideale del cavaliere si consiglia il breve saggio di J Balsamo,
Montaigne, le style (du) cavalier et ses modèles italiens, in cui si afferma che per Montaigne l’ideale
francese del cavaliere è quello di un bell’uomo a cavallo, dalla parola semplice e sublime, e vi si
conferma il permanere del prestigio degli usi aristocratici e militari, in J.Balsamo, Montaigne, le style
(du) cavalier et ses modèles italiens, in Educare il corpo, educare la parola nella trattatistica del
Rinascimento, cit., pp. 205-217)
149
ma hanno perduto il valore militare viene rintuzzata con l’attribuzione del declino alla colpa di
alcuni, e l’argomento viene solo sfiorato, perché è contrario all’interesse italiano pubblicizzare
un difetto (C: I, 43). Ricordiamo che nel Cortegiano si ritrovano in vari punti amari riferimenti
alla decadenza italiana in campo militare e politico, ma che è intenzione di Castiglione e degli
altri intellettuali del Rinascimento italiano difendere la superiorità italiana nella cultura, e il
Cortegiano ha proprio l’obiettivo di magnificare la civiltà delle corti italiane.
Il problema del rapporto tra professione delle armi e ornamento delle lettere non si
risolve tuttavia con questa coniugazione virtuosa perché appare necessario stabilire comunque
una priorità ed essa viene attribuita dal conte di Canossa, l’interlocutore che tanto ha celebrato
le lettere, proprio alle armi, suscitando l’appassionata contestazione del Bembo, che denuncia la
paradossalità di quella tesi. In effetti il conte tenta di uscire dal circolo vizioso con la strategia
dell’occultamento, della simulazione, e dell’autopersuasione. Il cortigiano, preparato in modo
simile a un intellettuale umanista, dovrà essere modesto nell’esternazione della cultura, senza
lasciarsi ingannare dall’adulazione (C: I, 44), e dichiarare di ritenere e ritenere effettivamente
come sua principale professione quella delle armi.
[Il Conte] –[…] Anzi, per non errar, se ben conosce le laudi che date gli sono esser vere, non le
consenta cosí apertamente, né cosí senza contraddizione le confermi; ma piuttosto modestamente
quasi le nieghi, mostrando sempre e tenendo in effetti per sua principal professione l’arme, e l’altre
bone condizioni tutte per ornamento di quelle.-(C: I, 44)
[Il Bembo]- Io, non so, Conte, come voi vogliate che questo Cortegiano, essendo litterato, e con
tante altre virtuose qualità, tenga ogni cosa per ornamento dell’arme, e non l’arme e ‘l resto per
ornamento delle lettere; le quali, senza altra compagnia, tanto son di dignità all’arme superiori,
quanto l’animo al corpo, per appartenere propriamente la operazion d’esse all’animo, così come
quella delle arme al corpo.- (C: I, 45)
L’affermazione del conte a noi sembra evidenziare la difficoltà di equilibrare, nel
cavaliere cortigiano, l’antico col nuovo. In effetti lo spazio dato agli aspetti culturali
dell’intrattenimento e alle dispute culturali è nel dialogo molto maggiore di quello riservato alle
armi, e sembra implicitamente suggerire una superiorità della cultura. L’ostinarsi a valorizzare
esplicitamente le armi, come prima fonte di dignità, si prospetta più come una convenzione di
difesa del maschile e della tradizione cortigiana antica che come un riconoscimento della nuova
realtà e del suo orientamento futuro. O semplicemente denuncia un compromesso ambiguo,
piuttosto che un equilibrio certo.
222
Quondam commenta così il sogno italiano di conquistare con la cultura il vincitore barbaro e di
affermare il principio della cultura come variabile indipendente dal potere: «L’invenzione [della
conversazione classicistica come forma del vivere] è da umanisti anche per un’altra ragione, tanto più
profonda nella sua originaria connotazione perché sa di poter funzionare sulla scia di quella archetipica
invenzione del senso profondo della storia antica riassunta dall’apologo della «Graecia capta ferum
victorem cepit». E non tanto perché dai tempi di Petrarca i Moderni sognano di poter essere in tutto come
gli Antichi, ma perché tra Quattrocento e Cinquecento il gioco delle parti tra «la Grecia soggiogata» e il
«barbaro vincitore» è, in Italia, sotto gli occhi di tutti, e fa sognare chi di modelli antichi quotidianamente
vive: poter conquistare con la propria cultura il potente vincitore. Il famoso verso di Orazio (ancora lui)
diventa fondamentale perché fornisce una gratificante interpretazione generale (e strutturale) della storia
in corso, del suo senso primario, in grado di costituirsi come bandiera identitaria per generazioni di
letterati italiani. La sintetizzo così: i valori culturali possono, e debbono, essere considerati come una
variabile del tutto indipendente dai rapporti di forza tra i poteri (politici, economici, militari), al punto che
i vinti sul campo di battaglia (gli italiani, appunto: come i greci allora; rispetto ai francesi e poi agli
spagnoli: come i romani allora) possono trasformarsi in vincitori, e proprio sul campo della cultura, cioè
dei suoi modelli e delle sue pratiche, nella comunicazione estetica ed etica (l’arte e i comportamenti: le
virtù). È insomma tutta un’altra storia, quella che pertiene all’economia del bello e del buono: una storia
autonoma» (Amedeo Quondam, La conversazione. Un modello italiano, cit., pp. XIV-XV)
223
Sulla fusione dell’ideale cavalleresco e di quello umanista ci piace ricordare le parole di
Orlando ad Agricane durante la tregua del duello nell’ Orlando innamorato di Boiardo. Orlando
riconosce che le armi sono la prima fonte d’onore del cavaliere, ma aggiunge che la cultura lo adorna e gli
150
E’ interessante a questo proposito notare il parallelismo tra il problema della convivenza
e della relazione gerarchica della professione delle armi e dell’ornamento delle lettere per il
cortigiano e quello delle attività tradizionali e dell’intrattenimento per la donna. La funzione
femminile di intrattenimento è posta chiaramente in primo piano con l’equiparazione a quella
maschile delle armi, ma, mentre l’aver posto all’apice della gerarchia delle funzioni maschili
dell’uomo libero-cavaliere-cortigiano le armi è rispettosa della tradizione, la priorizzazione
dell’intrattenimento per la donna è trasgressiva. Castiglione però fa in questo un’operazione
accorta e doppia: difende il primato delle armi a parole, ma lo sconfessa nei fatti valorizzando di
più le lettere, difende il primato dell’intrattenimento per la donna di palazzo e sembra liberarla
dalla relegazione nel privato, ma la sottopone ai condizionamenti tradizionali relativi alla castità
-onestà, inasprendoli quasi. Castiglione dunque sembra utilizzare la strategia della simulazione
per effettuare un’opera di mediazione che tenta sia che si presenti come conservatore, sia che si
presenti come innovatore, spesso invertendo la tendenza esplicita con quella implicita. Quali
motivazioni poi ritrovare per la scelta apparentemente conservatrice fatta per il cortigiano e
apparentemente innovatrice fatta per la donna riesce difficile. L’ipotesi più probabile è che
questa fosse la scelta più praticabile nell’ambiente di corte, frequentato da cortigiani-umanisti
con mansioni diplomatiche, burocratiche e militari (lo stesso Castiglione ebbe numerosi
incarichi militari), e da donne di palazzo impegnate nelle relazioni mondane imposte dalla vita
di corte. Ribadire la priorità delle armi per gli uni, era valorizzarne la discendenza dal cavaliere
e quindi la nobiltà, e insieme il potere nella sua forma archetipa, riconoscere la pratica delle
relazioni mondane alle altre era una necessità imposta dalla stessa ragion d’essere della corte.
In aggiunta alle competenze sopraindicate si richiede al cortigiano quella delle arti più
propriamente estetiche: il cortigiano dovrà intendersi non solo di lettere e saper scrivere in versi
e in prosa, ma anche di musica e sapere suonare diversi strumenti.
[...] perché, se ben pensiamo, niuno riposo di fatiche e medicina d’animi infermi ritrovar si po
più onesta e laudevole nell’ozio che questa; e massimamente nelle corti, dove, oltre al refrigerio
de’fastidii che ad ognuno la musica presta, molte cose si fanno per satisfar alle donne, gli animi delle
quali, teneri e molli, facilmente sono dall’armonia penetrati e di dolcezza ripieni. Però non è
maraviglia se nei tempi antichi e ne’ presenti sempre esse state sono a’ musici inclinate, ed hanno
avuto questo per grandissimo cibo d’animo (C: I, 47).
La musica è infatti un importante forma di intrattenimento nelle corti, funzionale anche
a compiacere e sedurre le donne, che non va considerata negativamente come causa di
effeminatezza, ma apprezzata come strumento di piacere e di elevazione. Come la musica, il
canto che serve a rallegrare e ad acquietare gli animi.
Il cortigiano dovrà anche saper disegnare ed avere cognizione dell’arte del dipingere,
per poter comprendere e giudicare l’opera d’arte e per poterne trarre anche un utile in guerra
riproducendo la conformazione dei luoghi (C: I, 49). Si richiamano poi i termini della disputa
sulla superiorità della statuaria o della pittura nella imitazione della natura. Si valorizza la
tridimensionalità della prima e il gioco di luci e ombre della seconda fino ad assegnarle il
primato: alla pittura va il merito della conoscenza e fruizione maggiore della bellezza di una
donna (C: I, 50-51-52). Ed è significativo che la palma estetica venga assegnata attraverso la
mediazione metaforica del femminile, depositario della bellezza per eccellenza e latore del
piacere per eccellenza.
La richiesta di competenza anche nelle arti è il frutto non solo della centralità
dell’estetica, nella formazione rinascimentale, ma anche della funzione di intrattenimento, di
conversazione, assegnata al cortigiano. In essa bisogna avere gli argomenti, essere competenti
nei campi più accreditati e prestigiosi del sapere, liberale, etico ed estetico, senza scendere però
ad ambiti inferiori, ad esempio quelli concernenti le arti meccaniche. C’è anche qui una
selezione. Certo delle qualità dei cibi e della cucina, uno degli argomenti del dialogo tra le
consente di comprendere di più il mondo e Dio: «Rispose Orlando:- Io tiro teco a un segno,/ che l’arme
son de l’omo il primo onore;/ ma non già che il saper faccia men degno, / anzi lo adorna come un prato il
fiore; / ed ê simile a un bove, a un sasso, a un legno,/ che non pensa allo eterno Creatore; /né ben se può
pensar, senza dottrina,/ la summa maiestate alta e divina» (Orlando Innamorato, C. XVIII, ottava 44)
151
donne nell’opera di Moderata Fonte, qui non si fa parola. Le ‘arti minori’, riservate alle donne o
alla plebe, non fanno parte né del bagaglio culturale né degli interessi del cortigiano.
Naturalmente, anche le donne di palazzo devono ‘aver notizia’ di lettere, di musica, di pittura.
Di competenze femminili legate alle tradizionali attività femminili non si parla, eccezion fatta
per l’amore, perno dell’etica cortese trasversale ai due generi. Si lasciano da parte, come si è
lasciata da parte, dandola per scontata e conservata, l’immagine tradizionale del femminile. Il
sapere tradizionale delle donne non interessa agli uomini, cui le donne di palazzo devono fare
da specchio. La questione di genere sì, per la sua pregnanza sociale e perché ramificata in molti
saperi, filosofico, giuridico, estetico, di pertinenza del maschile.
10.10. Un’assenza: l’esclusione della donna di palazzo dalla sfera del politico.
Il silenzio sull’argomento nella sua modellizzazione. L’eccezione delle regine e della duchessa.
L’utilizzo della grazia femminile per il conseguimento del ruolo, indirettamente politico, di pedagogoconsigliere del principe da parte del cortigiano. Una dote femminile per una condizione di ‘servizio’
femminile.
Ci piace riprendere le fila del discorso dall’osservazione polemica e provocatoria
del Signor Gasparo: se le donne hanno la virtù della cultura, continenza, magnanimità,
temperanza, perché non attribuire loro compiti di governo e di guida militare?224
Ma il Magnifico si schermisce eludendo il problema con il rifiutarlo per la
natura del suo assunto, la modellizzazione della perfetta donna di palazzo, non di una
regina con compiti di governo, e alludendo semplicemente alla possibilità di un tale
ruolo per le donne sulla base dell’autorità di Platone. La modalità pretestuosa del rifiuto
ci sembra indicativa di una difficoltà a riconoscere effettivamente alla donna questo
ruolo, da lei rivestito solo occasionalmente nella concretezza storica. La duchessa
rappresenta insieme un’eccezione e una conferma della regola: gestisce il potere solo in
veste sostitutiva del marito che ne è il legittimo detentore, e col compito di guidare
l’intrattenimento, non con mansioni vere e proprie di governo e tanto meno militari.
Non insistiamo sull’argomento perché lo abbiamo già toccato in vari punti, ne
riassumiamo solo brevemente le coordinate critiche: l’eccellenza della duchessa viene
sottolineata attraverso la coniugazione ossimorica e la sua ‘sacralizzazione’; essa unisce
in sé in una sorta di ermafroditismo componenti maschili e di potere («grandezza»,
«grave maestà», «prudenzia e fortezza d’animo») e componenti femminili («modestia»,
«graziosa», «singular bellezza»); con la sua presenza dà piacere e suscita reverenza e
amore, espleta una sorta di ruolo materno nell’educazione di base e nella promozione
dei discorsi, favorisce l’armonia sociale e la crescita civile, in un ambito etico-estetico,
non strettamente politico, perché promuove relazioni sociali connotate da civiltà e
decoro, e un rapporto di fratellanza; è, secondo un’interpretazione in chiave freudiana,
deeroticizzata, in quanto sposa di un marito impotente, e non può essere oggetto del
desiderio e quindi libera i figli metaforici, i cortigiani, dal pericolo del desiderio della
madre, favorendo un’atmosfera serena; costituisce un’eccezione rispetto allo status
convenzionale femminile, e rappresenta un paradigma ideale del massimo grado di
224
«Maravigliomi pur, disse allora ridendo il signor Gaspar, che poiché date alle donne e le lettere
e la continenzia e la magnanimità e la temperanzia, che non vogliate ancor che esse governino le città, e
faccian le leggi, e conducano gli eserciti; e gli omini si stiano in cucina o a filare.- Rispose il Magnifico,
pur ridendo: Forse che questo ancora non sarebbe male; -poi soggiunse: Non sapete voi che Platone, il
quale invero non era molto amico delle donne, dà loro la custodia della città; e tutti gli altri officii,
marziali dà agli omini? Non credete voi che molte se ne trovassero, che saprebbono cosí ben governar le
città e gli eserciti, come si faccian gli omini? Ma io non ho lor dati questi officii, perché formo una Donna
di Palazzo, non una Regina». (C: III, 10)
152
emancipazione cui può aspirare la donna. E l’impressione è che la dimensione
veramente politica le risulti comunque vietata.
Allo stesso modo gli esempi riportati nei cataloghi di regine, principesse,
duchesse che hanno dato esempio di virtù singolare, alcune anche nell’esercizio del
governo e del comando militare, riguardano in genere casi limite o vedove facenti
funzione (Amalasunta, Teodolinda), un’impressione che si cerca di correggere e
mascherare con lo stesso ampio numero delle menzionate. Tra l’altro la loro citazione
avviene nell’ambito della dimostrazione delle singolari virtù delle donne, sia
aristocratiche che, per quanto ricordate in numero minore, plebee: e quindi
l’intendimento non è quello di esaltarne le virtù politiche nello specifico. La loro
menzione è indiretta, l’argomento di per sé dunque non è significativo, se non come
componente virtuosa o ulteriormente virtuosa.
Inoltre c’è da dire che in alcune figure di spicco il femminile viene investito
della maestà e saggezza maschile, in genere senza perdere l’attributo della grazia, e il
modello per le cristiane, è sostanzialmente la Vergine Maria,225 perché alla saggezza si
associa anche la benevolenza. Nello stesso ritratto della duchessa abbiamo visto
l’incidenza dell’amore, e una tecnica di elogio riecheggiante la celebrazione della
Vergine Maria in Dante. Dunque, una modalità leggermente diversa da quella maschile
di gestire il governo, su cui incide la stessa differente maniera dei sudditi di rapportarsi
a una figura di potere maschile o femminile. Ma il tentativo di coniugazione del potere
con l’amore riguarderà peraltro anche il maschile, un’altra sfaccettatura in cui è lecito
cogliere la femminilizzazione del maschile. L’esaltazione poi delle qualità positive della
donna che detiene il potere, potrebbe essere ascritta alla stessa educazione che il potere
consente e richiede o all’immagine prestigiosa che ne deriva.
Esemplare, accanto a quello della duchessa, è il ritratto di Isabella di Castiglia
della quale, dice Castiglione, «non è stato a’tempi nostri al mondo più chiaro esempio di
vera bontà, di grandezza d’animo, di prudenzia, di religione, d’onestà, di cortesia, di
liberalità, insomma d’ogni virtù» (C: III, 35), di cui celebra, oltre alle conquiste militari,
la «divina maniera di governare» (C: III, 35), e di cui ricorda l’unione del «rigor della
giustizia con la mansuetudine della clemenzia e la liberalità» (C: III, 35), con la
conseguenza di generare nei popoli «una somma reverenzia, composta di amore e
timore» (C: III, 35).226 Ma tra le righe Castiglione aggiunge che della divina maniera di
governare fu causa il suo ottimo intuito nella scelta dei ministri, il che suona come una
diminuzione di valore. La grandezza di Isabella sarebbe dunque in buona parte dovuta
agli esimi collaboratori maschi («e di questo in gran parte fu causa il meraviglioso
225
Ci sostiene in questa tesi Mª Estela Maeso Fernández, che, trattando de Il Jardín de nobles
donzellasٝ di Martín de Córdoba, dedicato alla regina Isabella di Castiglia, vi coglie un modello di
sovrana al femminile, caratterizzato da una relazione coi sudditi simile a quella di Maria coi fedeli (in Mª
Estela Maeso Fernández, Defensa y vituperio de las mujeres castellanas, cit., p.4).
226
Nei riguardi di Isabella di Castiglia, si parla più specificatamente di virtù di governo che nei
riguardi della Duchessa e nella relazione dei sudditi verso Isabella all’amore si associa il timore, perché
Isabella di Castiglia è storicamente figura più significativamente regale e di potere (quindi con
componenti maschili che comportano il timore nei soggetti) rispetto alla Duchessa, cui ci si rapporta
invece con una reverenza, frutto solo di stima ed amore. Differenze sottili che si intravvedono anche nella
modalità simile, ma non identica, dell’obbedienza immediata a entrambe. Di Isabella di Castiglia si dice:
«Oltre a ciò, affermano tutti quelli che la conobbero, essere stato in lei tanto divina maniera di governare,
che parea quasi che solamente la voluntà sua bastasse, perché senza altro strepito ognuno facesse quello
che doveva fare; tal che appena osavano gli omini in casa sua propria e segretamente far cosa che
pensassino che a lei avesse da dispiacere» (C: III, 35); della Duchessa: «ma tanta era la reverenzia che si
portava al voler della signora Duchessa, che la medesima libertà era grandissimo freno; né era alcuno che
non estimasse per lo maggior piacere che al mondo aver potesse il compiacer a lei, e la maggior pena il
dispiacerle» ( C: I, 4)
153
giudicio ch’ella ebbe in conoscere ed eleggere i ministri atti a quelli officii nei quali
intendeva d’adoperargli» C: III, 35).227 Questo ribadisce da una parte i limiti in cui si
concede la realizzazione dell’utopia filogina di piena acquisizione del maschile da parte
del femminile (e non dimentichiamoci che Castiglione per emancipare, ma solo
limitatamente, la donna, fa l’operazione contraria, ossia femminilizza il maschile) e
dall’altra ci spinge a collegarci al ruolo ‘politico’ cui aspira il cortigiano, quello di
essere consigliere del principe, e possibilmente anche di istruirlo alla virtù, assumendo
un compito che nasce pedagogico per invadere poi anche il campo politico (ricordiamo
Seneca, precettore e consigliere di Nerone). Certo si tratta di una gestione della politica
in via subordinata (servitore-consigliere), ma l’aspirazione ad essere pedagogo
consentirebbe quasi un ribaltamento dei ruoli perché il servizio sarebbe prestato nel
ruolo di guida.
La donna di palazzo, invece, a mezzo tra la donna casa-famiglia e regine e
principesse, condivide con la prima in toto l’esclusione dalla politica. Vedremo come
Piccolomini richiederà alla donna sposata di non interessarsi nemmeno di questi
argomenti di pertinenza del solo marito. Come dicevamo, il politico non viene
pretestuosamente menzionato nella modellizzazione della donna di palazzo, mentre se
ne tratta molto ampiamente per il cortigiano, al punto da dedicargli, dopo
un’anticipazione nel Libro II (capp. 18-24), tutta la prima metà del Libro IV. Ciò
perché il più alto fine della cortigianìa consiste nella funzione d’istitutore e consigliere
del principe che il cortigiano si assegna, con l’obiettivo ideale di una ricaduta benefica
sulle modalità di governo e quindi sulla condizione dei subordinati. Significativamente,
mentre si tratta questo argomento le donne perdono ulteriormente peso nella
conversazione e negli esempi proprio perché sostanzialmente escluse da questa funzione
e in generale dalla gestione del potere. Una centralità speculare, ma senza liberarsi dal
coprimato e dalla guida maschile, le donne la otterranno quando si tratterrà della
competenza nell’amor cortese. Al solito, agli uomini il campo della politica e del potere,
alle donne quello dell’amore e del piacere.
Ma riesce interessante a questo proposito rilevare che Castiglione opera una
mediazione del maschile e femminile anche in questo ambito, afferendo al maschile
quanto prima era del femminile e rifiutando il processo contrario. L’amore del cavaliere
per la principessa diviene l’amore del cortigiano per il principe. Il suo ‘interessato’
servizio si sublima in una rapporto d’amore, che lo maschera e onora. Quel rapporto di
vassallaggio al signore che aveva trovato la sua traslazione e sublimazione nell’amor
cortese, si spoglia di quella metonimia per ritornare a significare il suo primo movente,
con chiarezza da una parte, perché del signore si parla in termini diretti, con finzione e
simulazione dall’altra, perché lo si vuole un rapporto d’amore disinteressato.228
227
Ci sembra che la nostra osservazione sia fondata, sebbene sia innegabile che chi governa non
può espletare direttamente tutte le mansioni e ha bisogno di collaboratori, per cui comunque in lui va
apprezzata come dote politica anche la loro intelligente selezione. Infatti la necessità di collaboratori
riguarda anche i governanti maschi, ma questi ultimi appaiono un poco più autonomi, non crediamo per
una deformazione da tradizione maschilista, e il fatto che comunque si parli di ministri, e non di ministre,
ci riconduce ancora alla supremazia del maschile nell’ambito politico e amministrativo.
228
L’argomento viene sviluppato nell’anticipazione della trattazione del tema politico fatta nel libro
II (capp. 18-24), e che qui riportiamo nei presupposti e nelle linee fondamentali relative alle relazioni del
cortigiano col principe, fondate sull’amore e non sull’interesse, al codice distintivo della «virtuosa
cortesia», al problema della conciliazione della libertà col servizio di corte. Il cortigiano, definito nel suo
rapporto di servizio col principe, viene invitato a compiacere sempre il principe per amore, e, grazie alle
motivazioni amorose e non interessate della sua lode, lo si distingue e lo si libera dalla taccia di adulatore.
Si osserva anche che la conversazione implica di per sé una condizione di parità tra gli interlocutori, ma si
autorizza l’uso di questo nome per la relazione tra il cortigiano e il principe, attestando in questo
l’intenzione di legittimare l’aspirazione del cortigiano ad un’alta considerazione da parte del principe,
154
Inoltre la grazia, qualità di matrice femminile, paradossalmente serve al
cortigiano, insieme ad altre doti muliebri, per ottenere quella grazia, ossia favore del
principe, che lo fa emergere alla corte e acquisire quel ruolo politico che è negato alle
ossia l’ambizione ad una condizione sociale più elevata (« Io estimo che la conversazione, alla quale dee
principalmente attendere il Cortegiano con ogni studio per farla grata, sia quella che averà col suo
principe; e benché questo nome di conversare importi una certa parità, che pare che non possa cader tra ‘l
signore e ‘l servitore, pur noi per ora la chiameremo cosí. Voglio adunque che ‘l Cortegiano, oltre lo aver
fatto ed ogni dí far conoscere ad ognuno, sé esser di quel valore che già avemo detto, si volti con tutti i
pensieri e forze dell’animo suo ad amare e quasi adorare il principe a chi serve, sopra ogni altra cosa; e le
voglie sue e costumi e modi tutti indirizzi a compiacerlo.-», C: II, 18; «[....] Inanzi al principe non starà
mai di mala voglia né malinconico, né cosí taciturno [...] non sarà maledico [...] Non usarà prosonzion
sciocca, [...] non sarà inavvertito, [...] non sarà ostinato e contenzioso, [...] non sarà cianciatore, vano e
bugiardo, vantatore né adulatore inetto, ma modesto e ritenuto, usando sempre, e massimamente in
publico, quella reverenzia e rispetto che si conviene al servitor verso il signor », C:II, 18). Il servizio
d’amor cortese alla dama, proiezione di un rapporto di vassallaggio nei confronti del signore, qui si
esplicita nella menzione diretta del movente-destinatario originario, e sublima come forma di amore
l’accettazione della dipendenza. Quanto alle strutture ideologiche regolanti la società cortigiana, Antonio
Alvarez-Ossorio Antoriño ne rileva due: a) il codice del servizio-mercede, ossia del servizio in cambio di
benefici; b) la «lógica del medrar», ossia di migliorare nell’ambito economico e nella reputazione (
Antonio Alvarez-Ossorio Antoriño, Corte y cortesanos en la monarquìa de España, cit.). La ricerca del
favore del superiore, dell’entrare nella sua grazia, costituisce, infatti, il nucleo fondamentale del modo di
essere cortigiano nella realtà e della letteratura prodotta alla corte. Per ottenere il favore del signore è
necessario distinguersi dagli altri gruppi e sudditi e seguire, e prima elaborare, un codice di
comportamento distintivo, in cui hanno importanza i principi della ‘virtuosa cortesia’, nel parlare e
nell’operare, principi che si apprendono alla corte dove i signori onorati cercano di mandare i figli perché
vi si formino. Questo fa parte anche dell’esperienza diretta di Castiglione, formatosi nell’ambiente della
corte mantovana e milanese, e certamente è nelle sue intenzioni pedagogiche. Nel dialogo, infatti, si
sottolinea che la relazione tra cortigiano e principe dovrà essere caratterizzata da onestà e generosità: il
cortigiano non chiederà nulla per sé, ma potrà intervenire, sempre in modi estremamente corretti, per
aiutare altri (C: II, 18). Si opera anche una distinzione tra i comportamenti che il cortigiano deve tenere in
pubblico e in privato nelle relazioni col signore: «Ma se ‘l Cortegiano, consueto di trattar cose importanti,
si ritrova poi secretamente in camera, dee vestirsi un’altra persona, e differir le cose severe ad altro loco e
tempo, ed attendere a ragionamenti piacevoli e grati al signor suo per non impedirgli quel riposo
d’animo» (C: II, 19). E si invita ad utilizzare la «sprezzatura» sia quando si conseguono i favori, sia
quando vengono negati, con una puntata polemica nei confronti del favore dato dai principi ai presuntuosi
e un’occhiata anche a quanto succede nelle corti spagnole e francesi. E della ‘virtuosa cortesia’ fa parte
anche l’adattarsi ai costumi delle nazioni presso le quali il cortigiano, abituato a frequentazioni
internazionali, si trova: «Ma sia il Cortegiano, quando gli vien in proposito, facondo, e nei discorsi de’
stati prudente e savio, ed abbia tanto giudicio, che sappia accomodarsi ai costumi delle nazioni ove si
ritrova; poi nelle cose più basse sia piacevole, e ragioni ben d’ogni cosa; ma sopra tutto tenda sempre al
bene: non invidioso, non maldicente; né mai s’induca a cercar grazia o favor per la via viziosa, né per
mezzo di mala sorte» (C: II 22). Ci si interroga inoltre sui limiti dell’obbedienza al signore: il cortigiano è
tenuto anche a fare azioni contrarie alla propria coscienza che gli siano ordinate dal principe? La risposta
è negativa perché il cortigiano deve tutelare il proprio onore e quello del principe. La conservazione della
dignità etica del cortigiano è funzionale alla salvaguardia di quella stessa del principe, per cui la
«disobbedienza», eventuale e contingente, al principe si porrebbe in questo caso come una forma
superiore di obbedienza agli interessi veri del principe, e il cortigiano non verrebbe meno, con questa, ai
suoi obblighi di servizio. Si anticipa qui il ruolo di istitutore-consigliere del principe, assegnato al
cortigiano, con le problematiche relative alla collisione tra la gerarchia dei ruoli prefigurata e la gerarchia
socio-politica reale, perché si pone l’operato del principe sotto la tutela del cortigiano. Qualora poi il
principe si dimostri del tutto malvagio e vizioso, il cortigiano deve interrompere il rapporto e lasciare il
servizio, anche se questa scelta non è facile (C: II, 22-23). Così pure ci si interroga se sia autorizzato un
intervento col proprio criterio in una situazione in cui si è chiamati ad operare secondo la volontà del
principe. E qui si invita ad una estrema cautela e discrezione. Insomma si apre il problema della libertà
del cortigiano nel servizio del signore. Sul piano etico, il cortigiano resta libero, e obbligato solo alla
norma etica, e si cerca di coniugare la sua libertà etica con il dovere del servizio al signore, dimostrando
come la scelta etica torni di vantaggio allo stesso signore. Nell’ambito operativo al cortigiano si concede
una minima libertà d’iniziativa, finalizzata al meglio, e molto cauta perché lo può gravemente
pregiudicare.
155
donne. Ci troviamo dunque di fronte ad una dote plagiata dal femminile e utilizzata per
una funzione da cui si esclude il femminile. Ma il paradosso si può risolvere pensando
che il cortigiano è autorizzato a questo compito per una competenza politico-culturale
che manca alla donna per lunga tradizione, in quanto esclusa dalla gestione del poterecultura.
Nel IV libro il discorso politico si innesta tra l’altro in un clima in cui perdura
ancora la conflittualità e la competizione di genere. Al Magnifico che evidenzia i torti
del signor Ottaviano nell’aver riconosciuto al cortigiano, per esaltarlo al di sopra della
donna di palazzo, quasi una superiorità rispetto al principe,229 questi risponde
provocatoriamente rimproverandogli implicitamente di non aver dotato la sua donna di
palazzo di queste competenze, ma già nel modo in cui ne parla denuncia che la sua
proposta-ipotesi è solo il frutto dello scontro dialettico e che sostanzialmente non vi
crede.
Rise il signor Ottaviano, e disse: Signor Magnifico, più laude della Donna di Palazzo sarebbe lo
esaltarla tanto ch’ella fusse pari al Cortegiano che abbassar il Cortegiano tanto che ‘l sia pari alla
Donna di Palazzo; che già non saría proibito alla donna ancora instituir la sua Signora, e tender con
essa a quel fine della Cortegianía ch’io ho detto convenirsi al Cortegian col suo principe; ma voi
cercate più di biasimare il Cortegiano, che di laudar la Donna di Palazzo: però a me ancor sarà lecito
tener la ragione del Cortegiano. (C: IV, 45)
Usa infatti la litote «non saría proibito» al posto dell’affermazione perentoria
che caratterizza la funzione politica del cortigiano il quale deve «instituire» il principe;
non usa l’indicativo, che sanziona un dato di fatto, ma il condizionale «saría», che
prospetta solo un’eventualità, e riferisce il servizio «politico» o piuttosto
«pseudopolitico» della donna di palazzo solo alla sua Signora, «non saría proibito alla
donna ancora instituir la sua Signora», ossia a una donna che ha ben un limitato potere,
benché esistano eccezioni, ma sempre con molti limiti, come già si è rilevato per la
duchessa di Urbino. Parla inoltre del fine come di un tendere al fine, che ‘si conviene’
invece certamente al cortigiano, e per di più di un «tender con essa», da cui si prospetta
una collaborazione tra donna di palazzo e duchessa, che da una parte declassa forse la
duchessa mentre eleva la donna di palazzo, riproponendo le problematiche del binomio
cortigiano-principe, dall’altra insiste sull’unicum integrato della corte, sanzionando
comunque una divisione di genere, in cui il cortigiano coopera col principe, e la donna
di palazzo con la principessa, ma sempre in un ambito subalterno.
D’altra parte, lo stesso schermirsi del filogino nel riconoscere un ruolo politico
alle donne di palazzo autorizza il sospetto che anche i presunti filogini, quando si
trovano nel concreto davanti al rischio di dover entrare in competizione con le donne,
nell’ambito della considerazione, del lavoro, insomma del potere, cerchino di
circoscrivere le loro enunciazioni teoriche.
L’esclusione del femminile, quindi, è chiara. Anche l’interloquire delle donne è
scarsissimo, come dicevamo, sebbene questa assenza sia in parte attenuata dal
comportamento di pubblico molto attento (C:IV, 36). E la ribadiscono la pressoché
229
«[...] Disse ridendo il Magnifico Juliano: Signora, io son tanto nemico degli inganni, che m’è
forza contradir al signor Ottaviano, il qual per esser, come io dubito, congiurato secretamente col signor
Gaspar contra le donne, è incorso in dui errori, secondo me, grandissimi: dei quali l’uno è, che per
preporre questo Cortegiano alla Donna di Palazzo, e farlo eccedere quei termini a che essa po giungere,
l’ha preposto ancor al principe, il che è inconvenientissimo; l’altro che gli ha dato un tal fine, che sempre
è difficile e talor impossibile che lo conseguisca, e quando pur lo consegue, non si deve nominar per
Cortegiano-» (C: IV, 44)
156
totale assenza di esempi femminili o riferimenti al femminile e le brevi note misogine
che ritornano.
Ma la più eclatante dimostrazione che il femminile sia escluso dal politico è
proprio il fatto che di questo ruolo non si tratti, e non ne tratti il Magnifico, il cavaliere
protettore delle donne di palazzo, e l’osservazione del signor Ottaviano sulla mancanza
di questa sezione nella modellizzazione della donna di palazzo serve proprio a
evidenziare questa assenza.
Chiarito definitivamente questo aspetto, di diretta pertinenza alla nostra tesi,
riteniamo comunque opportuno passare brevemente in rassegna i comportamenti
consigliati al cortigiano nella relazione col principe (perché il fine della cortigianìa pare
essere propio quello di educare e consigliare il principe facendone l’optimus princeps
per il bene dei sudditi), riprendendo quanto già abbiamo anticipato nella nota sulla
trattazione di tale tematica nel libro II, per vederne lo sviluppo nel libro IV,
relativamente ai problemi della conciliazione della libertà e verità con il servizio, della
lode e compiacenza del signore evitando la falsità dell’adulazione, del rapporto
equilibrato tra cortigiano e principe in cui la grandezza del ruolo del cortigiano non
deve sopravanzare quella del principe, dell’età del cortigiano, del senso che vi hanno le
qualità e competenze femminili, giustificate dal relatore in quanto strumento per
l’acquisizione di quel favore che consente di dire la verità, ossia della grazia considerata
virtù sociale transitiva, attiva e passiva, poiché, come abbiamo detto, genera
circolarmente se stessa.
Nelle modalità di comportamento proposte al cortigiano troveremo anche
comportamenti femminili tradizionali di ‘servizio’ e non per niente alcuni di questi,
quali il senso del dovere di coppia, la dipendenza integrale, l’amare, il sopportare,
l’essere malleabile e versatile, il parlare in modo diplomatico, il rallegrare, saranno
recuperati da Piccolomini per il suo modello di moglie-eco ed educatrice invisibile.
Insomma, siamo di fronte anche in Castiglione a un’emblematica relazione di coppia,
dove l’elemento socialmente e giuridicamente più debole si metaforizza al femminile.
Ma qui lo sforzo di Castiglione di accreditare comunque un’autonomia del cortigiano e
dargli una maggiore dignità, perché resta e perché resti sempre la guida (mentre la
donna è soprattutto guidata dal marito, sebbene con la possibilità di instaurare una
virtuosa reciprocità), la incontriamo ad ogni pié sospinto.
Dunque compito prioritario del cortigiano è il sapersi guadagnare la benevolenza dei
signori per poter parlare loro con libertà e non tacere la verità. Si enuncia all’inizio del IV libro
il binomio servizio-libertà, ipotizzando che queste condizioni opposte possano convivere ed
essere del cortigiano che si sia conquistato la grazia del signore. Tale binomio rappresenta il
tentativo del cortigiano-gentiluomo Castiglione di conferire dignità allo status suo e dei suoi
pari, una dignità che si sostanzia anche della connotazione del servizio come amore del
cortigiano per il principe e del rifiuto di atti egoistici e disonesti, tra cui la falsità delle
adulazioni. Si distingue tra compiacenza, che nasce da amore e cerca la verità, e adulazione,
originata da interessi egoistici e poggiante sulla falsità. Inutile dire che tuttavia le lodi «sincere»
di Castiglione o dei cortigiani «gentiluomini» ai duchi d’Urbino a noi suonano eccessive e
adulatorie, e adulatorie perché eccessive, ma si tratta di una sensibilità diversa, e dovremmo
cercare di attenerci alla motivazione della lode onesta, data da Castiglione, ossia originata da un
rapporto di amore e di stima. Stranamente in questa civiltà della misura, non c’è misura nella
lode ai principi, anzi l’amore e la stima pretendono di esprimersi in termini assoluti, ma, senza
fare della facile ironia, è doveroso pensare che gli intellettuali dell’epoca non avessero
alternative valide a questo status di servizio. Certo, era lecito abbandonare il servizio di un
cattivo signore, sperando però in un altro signore, e purtroppo il servizio rischiava di
157
trasformarsi in servitù. L’incontro con principi moderati e liberali quindi poteva giustamente
essere celebrato con ampie lodi.
Il fin adunque del perfetto Cortegiano, del quale insino a qui non s’è parlato, estimo io che sia il
guadagnarsi, per mezzo delle condizioni attribuitegli da questi signori, talmente la benevolenzia e
l’animo di quel principe a cui serve, che possa dirgli e sempre gli dica la verità d’ogni cosa che ad
esso convenga sapere, senza timor o periculo di dispiacergli; e conoscendo la mente di quello
inclinata a far cosa non conveniente, ardisca di contradirgli, e col gentil modo valersi della grazia
acquistata con le sue bone qualità per rimoverlo da ogni intenzion viziosa, ed indurlo al cammin della
virtù; e cosí avendo il Cortegiano in sé la bontà, come gli hanno attribuita questi signori,
accompagnata con la prontezza d’ingegno e piacevolezza, e con la prudenzia e notizia di lettere e di
tante altre cose: saprà in ogni proposito destramente far vedere al suo principe, quanto onore ed utile
nasca a lui ed alli suoi dalla giustizia, dalla liberalità, dalla magnanimità, dalla mansuetudine, e
dall’altre virtù che si convengono a bon principe; e, per contrario, quanta infamia e danno proceda
dai vizii oppositi a queste. Però io estimo che come la musica, le feste, i giochi e l’altre condizioni
piacevoli son quasi il fiore, cosí lo indurre o aiutare il suo principe al bene, e spaventarlo dal male,
sia il vero frutto della Cortegianía. E perché la laude del ben far consiste precipuamente in due cose,
delle quai l’una è lo eleggersi un fine dove tenda la intenzion nostra, che sia veramente bono, l’altra
il saper ritrovar mezzi opportuni ed atti per condursi a questo bon fine designato: certo è che l’animo
di colui, che pensa di far che ‘l suo principe non sia d’alcuno ingannato, né ascolti gli adulatori, né i
maledici e bugiardi, e conosca il bene e ‘l male, ed all’uno porti amore, all’altro odio, tende ad ottimo
fine.(C: IV, 5)
Il cortigiano, dunque, se entrato nelle grazie del signore, potrà e dovrà dirgli sempre la
verità senza timore o pericolo di rappresaglie, pensiamo noi, ma l’autore dice di «dispiacergli»,
puntando sull’effetto emotivo nel principe dell’atto del cortigiano e solo alludendo alle
conseguenze che gliene potrebbero derivare. E il contraddire il principe, doveroso se necessario,
è un ardimento e richiede un modo «gentile», diplomatico, lo scudo difensivo di una relazione
di grazia e di favore già instaurata. La medesima consentirà anche al cortigiano l’assunzione di
una funzione di guida del principe verso la virtù.230 Condicio sine qua non di questa funzione è
quindi la grazia del cortigiano che gli conquista la grazia del signore.
230
Bárberi Squarotti sottolinea che il cortigiano non è un politico, né un organizzatore del consenso
dei sudditi al principe. Il suo ruolo è morale in quanto educatore del principe alla virtù; egli è un
mediatore tra il principe e l’esercizio del potere perché insegna al principe a gestire la propria autorità
secondo virtù. La centralità del ruolo di formatore morale del cortigiano si lega al fatto che Castiglione, a
differenza di Machiavelli, sostiene ancora il primato della morale sulla politica. «Il piano di giudizio per il
principe così come per il cortigiano è quello morale. L’intellettuale in corte non vale, in ultima analisi,
tanto per l’abilità nel comporre un sonetto o nel danzare o nell’intendersi di musica o di arti figurative o
nel giocare, quanto, al contrario, per l’equilibrio morale che tutte le sue capacità dimostrano (e anche per
quell’amore che la dimostrazione di tali capacità rivela nei confronti del principe). Anche il Castiglione,
insomma, si può dire che mostri una concezione della morale totalmente distaccata dalla politica: ma per
il primato della morale, nell’esperienza intellettuale del cortigiano, sulla politica, a cui il cortigiano resta
estraneo [...]» (Giorgio Bàrberi Squarotti, Il «Cortegiano» come trattato politico, in Id., L’onore in corte.
Dal Castiglione al Tasso, cit., p. 59). «La cultura è un mezzo, non un fine; e deve servire a far governare
meglio il principe (meglio, naturalmente, in senso etico, che, però, per il Castiglione significa anche il
vantaggio di un buon governo politico). Il cortigiano, come intellettuale, la deve possedere, ma per
farsene lo strumento di una strategia pedagogica [...]. In realtà, è colui che, solo, è in grado di condurre e
inclinare il signore alle virtù, reputate assolutamente necessarie al principe per governare. Ma, in
sostanza, la condizione del principe moderno quale sovrano assoluto impone all’intellettuale la parte non
gloriosa dell’astuto consigliere ed educatore, che si nasconde dietro dottrina e poesia e musica e danza e
arguzia al fine di conquistare l’animo del principe e fare in modo da inclinarlo alla virtù e da fargli
fuggire i vizi. L’etica del Castiglione ha, infatti, un carattere assoluto, decisamente metapolitico: essa
propone la superiorità della virtù e il danno del vizio come dati certissimi, indubitabili, che interessano
ugualmente la sfera privata e quella pubblica, e la stessa esemplificazione delle storie, che il cortigiano
deve conoscere bene, non serve ad altro che alla funzione moralizzatrice dell’animo come delle azioni
politiche del principe.» (Ivi, pp. 68-69). «Il cortigiano, come intellettuale, diviene il moralizzatore della
vita del principe, indipendentemente da ogni interesse per la gestione dello Stato, per la realtà della
politica, per le azioni reali del principe di fronte ai problemi politici: il cortigiano è l’intellettuale che ha
158
All’indicazione dei comportamenti virtuosi si accompagna la riprovazione di quelli
viziosi: si polemizza contro gli adulatori che fomentano nei principi la ignoranza e la
presunzione, il rifiuto della ragione e della giustizia, l’erronea credenza di essere detentori di un
potere assoluto (C: IV, 6, 7). Si additano gli effetti gravissimi dell’ignoranza dell’arte di
governare da parte dei signori e si sottolinea la differenza dagli antichi, non esenti da difetti, ma
intesi a superarli affidandosi alla guida di uomini saggi (C: IV, 8). In un contesto cosí corrotto
sarà preziosa, dunque, l’azione del cortigiano il quale dovrà «acquistarsi la benevolenza» del
signore, «adescarlo» quasi, per potergli parlare liberamente, però «senza essere molesto». Le
espressioni riportate, con le precisazioni e le sfumature alluse, suggeriscono la difficoltà del
compito: il cortigiano onesto compie quasi un atto disonesto con l’adescare, giustificato tuttavia
dal fine onesto. La libertà di parlare presuppone però i limiti dell’accettazione e disponibilità del
destinatario-principe, cui non bisogna riuscire molesti. E per evitarlo si suppone che bisogni
essere molto diplomatici e fare intelligente uso della discrezione e di molte altre qualità, tra cui,
lo ripetiamo, la grazia, attiva e passiva.
[...] il Cortegiano, per mezzo di quelle gentil qualità che date gli hanno il conte Ludovico e
messer Federico, po facilmente e deve procurar d’acquistarsi la benivolenzia, ed adescar tanto
l’animo del suo principe, che si faccia adito libero e sicuro di parlargli d’ogni cosa senza esser
molesto; e se egli sarà tale come s’è detto, con poca fatica gli verrà fatto, e cosí potrà aprirgli sempre
la verità di tutte le cose con destrezza; oltra di questo, a poco a poco infondergli nell’animo la bontà,
ed insegnargli la continenzia, la fortezza, la giustizia, la temperanzia, facendogli gustar quanta
dolcezza sia coperta da quella poca amaritudine, che al primo aspetto s’offerisce a chi contrasta ai
vizii; li quali sempre sono dannosi, dispiacevoli, ed accompagnati dalla infamia e biasimo cosí come
le virtù sono utili, giocunde e piene di laude; ed a queste eccitarlo con l’esempio dei celebrati
capitani e d’altri omini eccellenti, ai quali gli antichi usavano di far statue di bronzo e di marmo; e
talor d’oro, e collocarle ne’ lochi publici, cosi per onor di quegli, come per lo stimulo degli altri, che
per una onesta invidia avessero da sforzarsi di giungere essi ancor a quella gloria. (C: IV, 9)
La «destrezza» virtuosa apre all’insegnamento della virtù che avverrà a poco a poco,
con rispetto e per gradi e comporterà via via un piacere coniugato con l’utile e la buona fama.
Per quanto l’inclinazione virtuosa sia data da natura, la virtù può essere potenziata da un buon
maestro (C: IV, 11, 12, 13), il che salvaguarda la funzione del cortigiano, che la promuoverà
avvalendosi degli esempi degli antichi e anche di arti dilettevoli quali la musica per
l’importanza rivestita nell’educazione da momenti di distensione e divertimento attraverso cui
veicolare lo stesso costume virtuoso. Il cortigiano, dunque, sarà come il medico lucreziano e
farà assumere la medicina del sapere con la dolcezza dello svago; la sua funzione sarà
importantissima, visto il potere del principe sui sudditi (C: IV, 10). Le virtù che l’insegnamento
del cortigiano produrrà nel principe (C: IV, 18) sono temperanza,231 giustizia, magnanimità e
prudenza cui si collegano in «felice catena» «la liberalità, la magnificenzia,232 la cupidità di
rinunciato totalmente alla politica, pur vivendo accanto al principe, ma cerca di conservare la superiorità
morale attraverso l’esercizio delle capacità intellettuali (come la musica, la poesia, ecc.), non già per
imporla al principe, cosa non più possibile in una situazione di esercizio assoluto e illimitato del potere da
parte del principe stesso, ma per riuscire a salvare quella morale che col potere assoluto sembra non più
compatibile» (Ivi, p. 69). Ci sembra tuttavia che la funzione educatrice e moralizzatrice accordata al
cortigiano nei confronti del principe ne sancisca una ricaduta politica, tanto più che, come osserva lo
stesso Bàrberi Squarotti, Castiglione non separa la politica dalla morale e sostiene la priorità della morale
sulla politica.
231
Si precisa la differenza fra continenza, intesa come la forza che lotta contro l’incontinenza, e
temperanza, ritenuta l’acquisizione di un abito che impedisce all’incontinenza di fare sentire i propri
impulsi (C: IV, 15).
232
Delle virtù sociali aveva trattato, prima di Castiglione, anche Pontano ne I libri delle virtù
sociali, (in Giovanni Pontano, I libri delle virtù sociali, a cura di Francesco Tateo, Roma, Bulzoni, 1999),
(cinque operette filosofiche, De liberalitate, De beneficentia, De magnificentia, De splendore, De
conviventia, la cui prima stesura risale a un periodo anteriore al 1493 e che furono pubblicate per la prima
volta nel 1498 a Napoli), richiamando quelle attribuite ai nobili come la liberalità e la magnificenza e
contemperandole secondo lo spirito umanistico con la misura. Tateo, nella sua introduzione all’opera di
159
Pontano, individua i principi dell’etica cortese, conservati dall’autore, quali la distinzione fra nobile e
ignobile, ripresa poi da Guazzo, una distinzione che, pur tendendo a farsi etico-spirituale, non perde la sua
origine sociale, anche per l’ampiezza di facoltà che richiedono le virtù quali la magnificenza, lo
splendore, la convivialità, la liberalità. Gravissime pecche del nobile sarebbero la meschinità e l’avarizia.
La liberalità invece è una virtù che, secondo Pontano, deve tenere una via mediana, relativa sia al dare
che al prendere, e deve avere a suo fondamento un guadagno onesto ed essere disinteressata, secondo la
linea della spiritualità cristiana. Alla base del pensiero dell’umanista Pontano si trova l’Etica Nicomachea
di Aristotele, con la sua definizione di liberalità come giusto mezzo fra l’avarizia e la prodigalità, e con il
fine benefico e la regola della convenienza alla persona e circostanza in cui si dà. Pontano però estrapola
dall’opera aristotelica le trattazioni più direttamente pertinenti all’uso dei beni materiali e integra la
liberalità, relativa all’uso del danaro, con la beneficenza che consiste in opere di bene, non basate sul
denaro, come consigli, favori, cortesie, e la magnificenza con lo splendore –eleganza, e con la conviventia
della convivialità. Nel De sermone, tratterrà poi della conversazione e del piacere delle relazioni sociali.
Pontano, per quanto insista sull’universalità del principio morale e sulla priorità dell’educazione, riferisce
la connotazione di nobiltà a una condizione sociale, fatta di ascendenza di sangue nobiliare, ricchezza
economica, partecipazione alla gestione del governo. I fini di Pontano sarebbero, secondo Tateo, due:
riconfermare la dignità del nobile, impedendone l’avvilimento; inserirlo, «con le sue capacità economiche
e la sua potenza, in una moderna società, in cui il rispetto del prossimo e la consapevolezza delle proprie
responsabilità impongano in ogni atto la moderazione, fino all’accoglimento di alcune oculate norme del
mondo borghese. E in questo senso vanno intesi anche tutti gli insegnamenti rivolti a far sì che il principe
impieghi non a caso il suo denaro, ma in modo da guadagnarsi quella gratitudine e quella preminenza che
sono il necessario sostegno del suo dominio» (Ivi, p. 17). Già in Pontano inoltre l’etica si sposta verso
l’estetica: il principio etico della virtù fine a se stessa si traduce in quello della bellezza e ammirazione
che contribuisce a motivare e giustificare l’opera del principe. Così si esprime Pontano a proposito della
liberalità come giusto mezzo: «[...] Quibus e rebus plane efficitur, ut liberalitas virtus sit, tum quia
mediocritas est, tum quia ab honesti vi naturaque minime recedit. Nam mediocritatem eam esse extrema
etiam ipsa declarant, siquidem liberalis ipse, cuius proprie liberalitas est, dandis utendisque pecuniis ita
est affectus, ut quod inter parum nimiumque collocatur medium semper retineat: neque enim aut in
exuperantiam dando prolabitur, aut in angustum deficiendo contrahitur. Quod si extrema sunt vitia,
medius profecto habitus mediocritas et, quia medicoritas, ut virtus etiam sit necesse est». (Trad. Da queste
considerazioni deriva il concetto della liberalità come virtù, sia perché essa consiste in una giusta misura,
sia perché non si allontana affatto dalla qualità dell’onesto. Proprio gli eccessi, infatti rivelano il suo
carattere di giusta misura, se è vero che l’uomo liberale, quello che propriamente possiede la liberalità,
nel dare e impiegare il danaro si dispone sempre a mantenere il giusto mezzo, ossia quel punto che si
trova fra il troppo e il troppo poco, e non si lascia andare all’eccesso nel dare, come non si riduce alla
grettezza nel limitare le spese. E se i punti estremi costituiscono dei vizi, certamente il comportamento
che è a mezza strada fra i due costituisce la giusta misura ed anche necessariamentte, proprio perché
giusta misura, una virtù) (Ivi, pp. 46-47). E in questo modo differenzia liberalità e magnificenza, in
relazione cioè all’intensità e grandezza della spesa: «Magnificentiae nomen ipsum, qualis ea sit, declarare
nobis potest, et in quo etiam a liberalitate differat. Nam, cum a magnis faciendis nomen sit inditum, in
magnis ea versari sumptibus par est; neque enim tenui impensa fieri magna possunt. Quocirca materiam
ipsam, in qua versatur, habet cum liberalitate communem neque enim nisi e pecunia sumptus fiunt. Ac
tametsi fortitudo quoque magna ex se praestat atque efficit, aliis tamen versatur in rebus; fortis enim
obeundis periculis magna facit, ac magnificus magnis faciendis sumptibus magnus evadit». (Trad. Il
nome stesso di magnificenza ci può chiarire la sua natura ed anche la differenza fra essa e la liberalità.
Difatti, giacché il nome che le è stato attribuito deriva dall’espressione “fare grandi cose”, è logico che
essa consista nelle grandi spese. Con una piccola spesa non si possono far grandi cose. Perciò essa ha in
comune con la liberalità la materia stessa che tratta, in quanto le spese non si fanno se non con il danaro e,
sebbene anche la fortezza esegua e realizzi cose grandi, tuttavia si muove in tutt’altro campo: l’uomo
forte fa cose grandi affrontando i pericoli, mentre l’uomo magnifico riesce grande con il fare grandi
spese) (Ivi, pp. 166-167). Pontano pone poi in stretta relazione la magnificenza con lo splendore,
attribuendo alla prima il campo pubblico, alla seconda il campo privato: «Non inepte autem
magnificentiae splendor statim subiungitur, quod et ipse in magnis versatur sumptibus et habet pecuniam
communem quidem cum illa materiam. Sed magnificentia ipsa sumpsit nomen a magnitudine,
versaturque in aedificiis, spectaculis, muneribus. At splendor, quod in ornamentis domesticis, in cultu
corporis, in supelectile, in apparatu rerum diversarum praelucet, inde nomen a splendendo duxit; atque, ut
magnificentia a magnis faciendis, sic virtus haec a splendidis traxit vocabulum. Quin etiam magnificentia
in publicis operibus et iis, quae diutius permansura sint, magis versatur, cum splendor privata potius
curet, nec momentanea quaedam ac minora negligat». (Trad. Non è ingiustificato poi collegare
160
onore, la mansuetudine, la piacevolezza, la affabilità e molte altre». L’educazione impartita dal
cortigiano comincerà dalla consuetudine, dalla pratica diretta e concreta di comportamenti
corretti, poi si avvarrà dell’insegnamento razionale che li motiva (C: IV, 29).
Si pone anche la questione dell’età del cortigiano e si apre all’ipotesi di un cortigiano
maturo, anziano, esperto, adatto per l’esperienza ad esercitare il ruolo di guida (C: IV, 44).
Si richiamano inoltre i sudditi alle loro responsabilità: per la convivenza civile sono
necessari in tutti i componenti della comunità il rispetto della «giustizia e vergogna» (C: IV,
11).
Si passano in rassegna quindi le forme di governo, proponendo la mediazione di un
principato con un governo partecipato,233 e si apre ad un atteggiamento pragmatico nel criterio
strettamente lo splendore alla magnificenza, poiché anch’esso consiste in grandi spese ed ha con essa la
materia in comune, ossia il danaro. Ma la magnificenza deriva il suo nome dal concetto di grandezza e
riguarda l’edilizia, gli spettacoli, i doni, mentre lo splendore riguarda ciò che risplende particolarmente
nell’ornamento della casa, nella cura della persona, nella suppellettile, nell’allestimento di cose varie: così
la virtù relativa ha tratto il nome dalle “splendide “ cose che fa. Inoltre la magnificenza si rivela di più
nelle opere pubbliche ed in quelle che sono destinate ad una vita più lunga, mentre lo splendore si
interessa piuttosto di cose private e non trascura una cosa se è di breve durata o più piccola) (Ivi, pp. 224225). Quanto ai conviti, riaffermata la giusta misura che esclude l’evitarli per spilorceria e il trascorrere
dall’uno all’altro per ghiottoneria e voracità, Pontano elenca le diverse specie di conviti in relazione alla
finalità, quali il godimento di una compagnia piacevole, la dimostrazione di grandezza, il rendimento di
onori, per concludere con l’invito ad una scelta oculata dei convitati che eviti uomini indegni che
genererebbero discredito (Guazzo, per parte sua, nella Civil Conversazione, proporrà l’esempio di una
civil conversazione nell’ambito di un convito in una casa patrizia, e una distinzione fra conviti
apprezzabili e conviti criticabili): «Convivia igitur, in quibus convivalitas versatur, alia convivendi gratia
atque inter paucos cum quadam familiaritate ac victus suavitate fiunt, alia tum ut multorum simul gratia
comparetur, ut cum populo epulum paratur, tum ut civili consuetudini satisfiat, ut cum in nuptiis cognati
familiaresque ac noti adhibentur ad coenam. Nonnumquam etiam instituuntur convivia, ut splendori
tantum ipsi fiat satis, qualia sunt regum ac principum convivia in hortis ac locis amoenioribus; aliquando
ut hoc honoris atque hospitalitatis genere tum alios, tum peregre advenientes prosequamur [...]» (Trad.
Fra i conviti, dove si esercita questa virtù, alcuni si fanno per trovarsi insieme, ed in pochi, con una certa
familiarità e piacevolezza nel consumare il vitto, altri o per ottenere la gratitudine di molte persone
insieme, come quando si allestisce un banchetto per la popolazione, o per ottemperare ad una
consuetudine cittadina, come quando alle nozze si invitano parenti, amici, e conoscenti, Qualche volta,
pure, si allestiscono conviti soltanto per soddisfare un’esigenza di splendore, come avviene per i conviti
dei re e dei principi, nei giardini e nei luoghi ameni, altre volte per onorare con questa specie di onoranze
ospitali che viene da lontano) (Ivi, pp. 252-255). Dopo Pontano, anche Castiglione, Della Casa e Guazzo
deprecheranno l’avarizia, e faranno appello alla misura. Ma in particolare Castiglione e Guazzo
tratteranno della liberalità del signore che non deve trascendere in prodigalità, e faranno di queste doti
anche un attributo essenziale e privilegiato del principe o della classe alta che ne giustificherà anche in
parte il ruolo di preminenza sociale. Se il cortigiano, pur precettore e consigliere del principe, e quindi
virtuoso, resterà un gradino inferiore al principe perché privo dei mezzi per esercitare certe virtù (quali la
liberalità, la magnificenza) che si potenziano appunto con l’esercizio, il gentiluomo di Guazzo troverà
nella schiera dei nobili, di cui fa parte, varie gradazioni, dai seminobili, ai nobili, ai nobilissimi, e i
nobilissimi saranno coloro che coniugheranno virtù di sangue, di animo e di mezzi economici per
esercitare la liberalità. D’altra parte, in una società che non rinuncia alle disuguaglianze, diviene fattore di
merito la disponibilità ad aiutare il prossimo anche nella sola forma del beneficio economico, e gli
intellettuali organici a questa società, e di fatto in condizione di «servizio», non fanno altro che
legittimarla e invocare la liberalità pretendendo di rafforzarne la pratica con l’insistenza sulla
presentazione di un atteggiamento volontario come di una regola di costume.
233
Secondo il signor Ottaviano il principato è la miglior forma di governo, perché il regno del buon
principe rispetta i criteri di natura che vuole un capo all’interno dei corpi fisici come delle comunità
animali e umane, e il criterio divino perché un Dio unico governa il mondo (C: IV, 19). Bembo, invece, in
nome della libertà concessa da Dio come supremo dono, preferisce il regime repubblicano. Le forme di
governo partecipato delle repubbliche salvaguardano infatti la libertà e diminuiscono la possibilità di
errore. (C: IV, 20). Il signor Ottaviano propone quindi una mediazione: senza nulla togliere al potere
assoluto del principe, sarebbe positivo che questi chiamasse a collaborare nel governo un consiglio di
nobili e un consiglio popolare. Pur nell’ambito di un atteggiamento paternalistico si fa strada la
preoccupazione che il potere assoluto di uno non dia le migliori garanzie, e ci si rivolge alla illuminata
161
di valutazione delle diverse modalità di governo: sono funzionali quelle che perseguono
l’obiettivo, adattandosi ai comportamenti dei sudditi.234 Il principe ha comunque, per
Castiglione che propone una visione utopica del potere contrapposta a quella di Machiavelli, il
dovere di curare il bene dei sudditi, impostare con essi un legame d’amore, rispettare la
religione,235 essere liberale. Il criterio della mediocrità poi si espande come paradigma totalitario
ad investire tutti i campi: da quello etico ed estetico a quello economico e politico. Si afferma
infatti che, poiché i vizi stanno all’estremità e la virtù nel mezzo, ossia nella «mediocrità», i
principi dovranno cercare di raggiungerla evitando anche gli eccessi delle buone attitudini
perché l’eccesso trasforma la virtù in vizio (C: IV, 50). Si apprezza anche la «mediocrità»
economica come garanzia di stabilità e tranquillità sociale e di sicurezza del principe, e la
«mediocrità » sociale, ossia la classe media, supporto all’establishement, mentre i pericoli di
destabilizzazione vengono dalle classi estreme, dai molto ricchi e dai molto poveri (C: IV, 33).
L’illustrazione dei comportamenti che principe e cortigiano devono tenere comporta,
come già abbiamo rilevato, la riprovazione della tirannide, causa di sedizioni, e la
valorizzazione di un rapporto di amore che leghi reciprocamente principe e sudditi e di cui è
strumento la liberalità del principe. Chi parla è un cortigiano, e il cortigiano, per quanto
dignitoso e rispettato, è sempre persona «al servizio di», in uno stato temporaneo di servitù,
anche se di eletta servitù, e giustamente aspira ad un principe-padrone liberale, che sappia
donare secondo i meriti e in modo maggiore di quanto si debba in relazione ai meriti, e si
preoccupa anche che il padrone non sperperi le sue ricchezze con la conseguenza di non poter
poi più ricompensare chi l’ha servito. E inoltre vorrebbe il rispetto della propria dignità di
beneficato per cui al principe chiede di donare con grazia e segretezza. Ricordiamo come su
disponibilità del principe perché i sudditi abbiano una voce in capitolo, anche se selezionata e solo
consultiva. E non è infondato intravedere nel consiglio dei nobili proposto un consiglio di cortigiani,
mediatori tra il principe e i rappresentanti della città operosa, e la gratificante utopia di una società
armoniosa unita intorno al principe («Rispose il signor Ottaviano: Molte altre cose, Signora,
gl’insegnarei, pur ch’io le sapessi; e tra l’altre, che dei suoi sudditi eleggesse un numero di gentilomini e
dei più nobili e savii, coi quali consultasse ogni cosa, e loro desse autorità e libera licenzia, che del tutto
senza riguardo dir gli potessero il parer loro; e con essi tenesse tal maniera, che tutti s’accorgessero che
d’ogni cosa saper volesse la verità, ed avesse in odio ogni bugia; ed oltre a questo consiglio de’nobili,
ricordarei che fussero eletti tra’l populo altri di minor grado, dei quali si facesse un consiglio populare,
che comunicasse col consiglio de’nobili le occorrenzie della città appartenenti al publico ed al privato: ed
in tal modo si facesse del principe, come del capo, e dei nobili e dei populari, come di membri, un corpo
solo unico insieme, il governo del quale nascesse principalmente dal principe, nientedimeno partecipasse
ancora degli altri; o cosí aría questo stato forma di tre governi boni, che è il Regno, Ottimati e ‘l Populo»
C: IV, 31).
234
La vera libertà presuppone dei limiti e non va confusa con la licenza. Due poi sono i modi di
comandare, uno ««imperioso e violento», valido nei confronti degli uomini che obbediscono ciecamente
agli impulsi, l’altro «più mite e placido» da utilizzare nei confronti dei «discreti e virtuosi» (C: IV, 21,
22).
235
Il principe «bono e savio», formato dal cortigiano, sarà uguale a un semidio, anzi simile a Dio
(C: IV, 22). Compiti del principe sono la protezione e cura dei sudditi e la guida di questi verso la virtù
con la forza dell’esempio e dell’autorità. Il sapere e il seguire la legge di ragione sono necessari per
svolgere bene l’ufficio di governante (C: IV, 23), poiché il potere, in chi lo detenga da vizioso, provoca
un potenziamento dei difetti e la rovina dei sudditi. Inoltre, mentre il tiranno è odiato e teme sempre per la
sua vita, il buon principe è amato e vive libero e sicuro (C: IV, 24). Tra i compiti del principe rivestono
particolare importanza la creazione di istituzioni e la legislazione mirate a consentire ai popoli una vita
pacifica; troppo spesso si cura invece la conduzione del popolo in guerra e non lo si sa fare in tempo di
pace, quando è importante tutelare l’onestà (C: IV, 27, 28). Il buon principe dovrà inoltre tutelare i sudditi
dalle cattive consuetudini (C: IV, 34), e controllare i suoi ministri e non dare loro pieni poteri, e limitare il
lusso dei sudditi (C: IV, 41). E dovrà amministrare e fare amministrare saggiamente la giustizia e
rispettare la religione: «Direi come dalla giustizia ancora dipende quella pietà verso Iddio, che è debita a
tutti, e massimamente ai principi, li quali debbon amarlo sopra ogni altra cosa, ed a lui come al vero fine
indrizzar tutte le sue azioni; e, come dicea Senofonte, onorarlo ed amarlo sempre, ma molto più quando
sono in prosperità, per aver poi più ragionevolmente confidenzia di domandargli grazia quando sono in
qualche avversità: perché impossibil è governare bene né se stesso né altrui senza aiuto di Dio [...] Non
lasserei ancora di ricordare al principe che fusse veramente religioso, non superstizioso [...]» ( C: IV, 32).
162
questo rapporto di servizio in cambio di mercede insista Antonio Alvarez-Ossorio Alvariño,236
che indica, come strutture ideologiche regolanti il funzionamento della società cortigiana, il
codice del servizio-mercede, ossia del servizio in cambio di benefici, e la «lógica del medrar»,
ossia di migliorare nell’ambito economico e nella reputazione.
[...] ed in alcune altre una ragionevole inequalità, come nell’esser liberale, nel remunerare, nel
distribuir gli onori e dignità secondo la inequalità dei meriti, li quali sempre debbono non avanzare,
ma essere avanzati dalle remunerazioni; e che in tal modo sarebbe nonché amato ma quasi adorato
dai sudditi; [...] (C: IV, 33)
[...] cosí quegli che donano non son tutti liberali; perché la virtù non noce mai ad alcuno, e molti
sono che robbano per donare, e cosí son liberali della robba d’altri; alcuni dànno a cui non debbono,
e lassano in calamità e miseria quegli a’ quali sono obligati; altri dànno con una certa mala grazia e
quasi dispetto, tal che si conosce che lo fan per forza; altri non solamente non son secreti, ma
chiamano i testimoni e quasi fanno bandire le sue liberalità; altri pazzamente vuotano in un tratto
quel fonte della liberalità, tanto che poi non si po usar più.[...] (C: IV, 39)
Le velleità di ascesa sociale del cortigiano, dunque, si rilevano nell’aspirazione alla
grazia del principe e al beneficio, come nella timida proposta di un governo partecipato a
soggetti sociali importanti e nella richiesta di affidamento dell’amministrazione della giustizia
ad uomini savi. E soprattutto nell’aspirazione al ruolo di guida-consigliere del principe verso cui
converge il suo statuto di umanista-pedagogo e insieme anche di esperto delle relazioni politicodiplomatiche a corte. Questa aspirazione apre la questione spinosa del rischio che il cortigiano
educatore sia posto in una posizione gerarchicamente superiore al principe. La si risolve però,
sottolineando che la pratica della virtù è quella che la potenzia, e che il cortigiano è sprovvisto
dei mezzi per praticare le virtù politiche, quali la liberalità, giustizia, magnanimità, che invece
possiede il principe, per cui il più virtuoso non può che essere il principe. La questione è molto
importante perché tocca i rapporti di potere all’interno della società cortigiana, e, mentre palesa
l’interesse egoistico e narcisistico del cortigiano, pur ammantato delle motivazioni più nobili e
altruistiche, ne denuncia tutta l’utopia e insieme la pericolosità in questo gioco ambiguo in cui il
servo si pone in una posizione di guida e il padrone è posto nella posizione del guidato, in una
inversione effettivamente precaria sia nell’ambito teorico che nel concreto del potere sociale e
politico.
[...] disse ridendo il Magnifico Juliano: Signora, io son tanto nemico degl’inganni, che m’è forza
contradir al signor Ottaviano il qual [...] è incorso in due errori [...] dei quali l’uno è che per preporre
questo Cortegiano alla Donna di Palazzo, e farlo eccedere quei termini a che essa po giungere, l’ha
preposto ancor al principe, il che è inconvenientissimo. [...] Dir non potete signor Ottaviano, che
sempre la causa per la quale lo effetto è tale come egli è, non sia più tale che non è quello effetto;
però bisogna che ‘l Cortegiano, per la instituzion del quale il principe ha da esser di tanta eccellenzia,
sia più eccellente che quel principe; ed in questo modo sarà ancora di più dignità che ‘l principe
istesso: il che è inconvenientissimo. (C: IV, 44)
E perché, come già avemo detto, tali si fanno gli abiti in noi quali sono le nostre operazioni, e
nell’operar consiste la virtù, non è impossibil né maraviglia che ‘l Cortegiano indirizzi il principe a
molte virtù, come la giustizia, la liberalità, la magnanimità, le operazion delle quali esso per la
grandezza sua facilmente po mettere in uso e farne abito; il che non po il Cortegiano, per non aver
modo d’operarle; e cosí il principe, indutto alla virtù dal Cortegiano, po divenir più virtuoso che ‘l
Cortegiano.[parla il signor Ottaviano]( C: IV, 46)
Per bocca del Magnifico si pone inoltre la questione se questo istitutore debba
effettivamente chiamarsi cortigiano, perché per essere tale deve avere esperienza e quindi essere
tendenzialmente vecchio, e sarebbe per lui impossibile o disdicevole la pratica di varie attività
guerresche o «muliebri» assegnate al cortigiano. Ma Ottaviano pretende che l’assenza di tali
attività non pregiudichi al cortigiano vecchio, che le ha praticate in gioventù, il suo status di
236
Antonio Alvarez-Ossorio Alvariño, Corte y Cortesanos en la monarquía de España, cit., p. 303.
163
cortigiano, e comunque ritiene ininfluente l’utilizzo del nome di cortigiano per indicare
l’istitutore del principe e aggira il problema proponendo la dicitura «che ‘l divenir institutor del
principe fusse il fin del Cortegiano» e adducendo gli esempi di Aristotele e Platone, che, senza
il nome di cortigiani, «fecero l’opere della Cortegianía, ed attesero a questo fine, l’un con
Alessandro Magno, l’altro col re di Sicilia» (C: IV, 46, 47).
La questione del nome, in realtà, non è senza importanza, perché è tutto un ceto sociale
dell’epoca che si vuole sublimare in questo modo. Che cosa sarebbe il cortigiano se ad altri
venisse riservato il ruolo di istitutore del principe? Quanto si allontanerebbe dalla vetta della
piramide sociale?
L’esempio di Platone che si tolse dal servizio del tiranno Dioniso, in quanto lo giudicò
irrimediabilmente corrotto, dovrebbe poi essere di modello ai cortigiani, chiamati a lasciare il
servizio di un principe malvagio, e a perseguire soprattutto onestà e dignità etica (C: IV, 47).
Ma già nel secondo libro si era evidenziata la difficoltà di questa scelta, il bisogno del servizio
per sopravvivere, vivere ed emergere nell’ambito sociale di formazione, realizzazione,
valorizzazione, ossia nella società di corte, con tutti i compromessi che questo comportava.
Infatti tra i comportamenti auspicati da Castiglione in tale società non dimentichiamo la
simulazione e il compiacere il signore. Se è vero che Castiglione li legittima sul piano di
comportamenti ideali, per cui la simulazione viene «sostanzializzata» e il compiacer il principe
non prescinde da, anzi richiede, libertà di parola e verità, e poggia su un disinteressato rapporto
d’amore, non possiamo ignorare le implicazioni negative che queste parole ci evocano e che
esistevano nella società d’allora, ossia l’inganno della simulazione e adulazione, il consenso
dettato dalla paura e dall’interesse, l’azione disonesta. Ma Castiglione, in questa come in altre
problematiche, ricerca equilibri sottili, tenta coniugazioni quasi impossibili nell’intento di
legittimare un modello cortigiano pieno di dignità etica e sociale. In questo senso va anche la
differenziazione conclusiva del cortigiano-istitutore perfetto, impersonato da Aristotele, dal
cortigiano-istitutore imperfetto rappresentato da Callistene, una differenza costituita dal
possesso o dall’assenza di diplomazia, l’arte di cui effettivamente il cortigiano si deve valere nei
rapporti col principe, l’arte che peraltro esercita di fatto nell’epoca in qualità di ambasciatore del
suo principe presso altri principi, oltre che, si capisce, nei confronti del proprio principe, per
rispetto dovuto, per convenienza e per opportunismo.
[...] e di queste cose in Alessandro fu autore Aristotele, usando i modi di bon Cortegiano: il che
non seppe far Callistene, ancorché Aristotele glielo mostrasse; che, per voler esser puro filosofo, e
cosí austero ministro della nuda verità, senza mescolarvi la Cortegianía, perdé la vita e non giovò,
anzi diede infamia ad Alessandro (C: IV, 47).
Questa annotazione ci riporta non solo alle arti della diplomazia, ma, per dirla in
termini castiglioneschi, a quella grazia di modi che conquista la grazia del signore,
quella grazia che si sostanzia anche di modalità del femminile, anzi ne è originata, e
paradossalmente, come già abbiamo notato, viene utilizzata dal maschile come
strumento preliminare, attraverso la conquista della grazia del principe, per consentire e
autorizzare quel ruolo pedagogico-politico che pretende e legittima solo per sé.
In effetti si potrebbe pensare che la condizione di dipendenza del cortigiano
chieda una sorta di seduzione, adescamento, parola peraltro usata dallo stesso
Castiglione, per conquistare il principe. Questo, per quanto necessitato da una
condizione di subordinazione tipicamente muliebre, concorre tuttavia alla
valorizzazione di qualità muliebri.
Insomma le relazioni sociali, sia in ambito genericamente mondano che in
ambito più propriamente sociopolitico sono favorite da virtù femminili e su queste si
innestano poi, per un’ ulteriore valorizzazione, quelle tipicamente maschili della cultura
(e delle stesse armi). Il femminile dunque, escluso nella sua concretezza di genere dalla
politica, vi compare e prende piede in maniera obliqua, simbolico-metonimica,
164
attraverso alcuni attributi suoi peculiari, ma gestiti dall’uomo e potenziati da virtù
tipicamente maschili.
Non dimentichiamo tuttavia che la femminilizzazione, ossia l’adozione di
comportamenti e la pratica di arti per consuetudine femminili che Castiglione in forma
misurata propone, e che utilizza anche nell’ambito politico, costituisce un problema per
l’accettazione di parte del mondo maschile. Sull’argomento della femminilizzazione
siamo già ritornati più volte con osservazioni anche parzialmente divergenti. Di fatto si
tratta dell’operazione più complessa e innovativa fatta da Castiglione: il fare assumere
all’uomo caratteristiche femminili senza squalificarlo (un problema ricorrente nella
diatriba tra filogini, a questo favorevoli, pur con il discrimine dell’effeminatezza, e
misogini a questo contrari in quanto operazione che mette a repentaglio l’integrità degli
attributi maschili della virilità e del potere), mentre nella linea filogina tradizionale era
la donna che, per emanciparsi, doveva acquisire caratteristiche maschili (una linea
evidente ancora negli esempi dei cataloghi). Si tratta sostanzialmente di un’aporia
paradossale perché sposa la forza della virilità (e implicitamente la violenza delle armi e
del potere) alla grazia femminile come forma di civilizzazione relazionale; paradossale,
ma non troppo, perché nel concreto della situazione storica il cortigiano, come
l’istituzione delle corti, sta vivendo questa forma di passaggio, un passaggio che finisce
col lasciare in ombra il punto di partenza e l’enfatizzare il nuovo punto d’arrivo, anche
se Castiglione insiste teoricamente sul primato della professione delle armi e sulla
proposta di un’equilibrata mediazione. Tra l’altro lo stesso valore classico della
bellezza, fondante nel Rinascimento, pretende un’estetica anche della virilità e delle
armi. Pensiamo alla bellezza coniugata con la forza maschile delle statue di Prassitele e
all’ideale eroico omerico. Ma in Castiglione certe modalità ritualizzate, certa attenzione
all’esteriorità, insieme ad una sostanziale condizione di servizio, spostano il cortigiano
su una linea ancor più femminile, dove la debolezza si maschera di bellezza e di valore.
Di qui la nostra oscillazione tra il considerarlo un ermafroditismo maschile che
penalizza la donna, invadendo il suo campo e quasi espropriandola, o che
semplicemente avvicina e avvalora la donna, attraverso la condivisione di suoi specifici
attributi e di psicologia e di comportamenti, o che rischia di indebolire il maschio,
spostando sull’asse di una tollerante civiltà l’intollerante potere.
10.11. Un’altra assenza: la donna di palazzo vecchia.
L’assenza della donna di palazzo vecchia vs presenza discussa, ma infine confermata del cortigiano
vecchio.
Il contributo del femminile nella iniziale marginalizzazione e nel successivo recupero del ruolo del
cortigiano vecchio.
Mentre a più riprese si parla del cortigiano vecchio, non si fa mai parola della
donna di palazzo vecchia, sottraendola al dato dell’età e ingessandola nella forma della
bellezza giovanile. Di fatto questo si giustifica in quanto mancano alla donna connotati
di potere, l’unica cosa che veramente la valorizza è la bellezza e il suo essere oggetto di
piacere,237 ragion per cui non esiste più da vecchia, diventa assolutamente invisibile e
passata sotto silenzio.
237
Il rifiuto della donna vecchia, in quanto priva della bellezza, lo si coglie anche nelle battute che
intercorrono tra Sabinetta e Gismondo negli Asolani: «- [...] Perciò che dimmi tu, Gismondo, qua’ donne
volete voi che sien di danno alla vostra vita: le giovani o le vecchie? Certo delle giovani secondo il tuo
argomentare non potrai dire, se non che elle vi giovino; con ciò sia cosa che Giovani e Giovano quella
medesima somiglianza hanno in verso di sé, che tu delle Donne e del Danno dicesti. Il che se tu mi doni, a
noi basta egli cotesto assai: le vecchie poi sian tue. - Sien pure di Perottino, - rispose tutto ridente
165
Inoltre c’è da rilevare che nelle preoccupazioni per il cortigiano vecchio agisce
come emarginatore il dato muliebre e dell’amore, un’esperienza di amor cortese da cui
il vecchio è escluso, ma che gli viene però di nuovo riconosciuta nella forma dell’amor
platonico.
Ci sembra anzi che nel Cortegiano la posizione sul cortigiano vecchio, da
inizialmente marginalizzante si faccia poi più tollerante e lo reinserisca a pieno titolo
nella corte, sia come istitutore del principe, sia come partecipe di doti e attività muliebri
(la grazia e l’intrattenimento), sia come soggetto quasi privilegiato dell’amor platonico.
Certo il termine vecchio non va assunto, Castiglione lo precisa, nel senso di cortigiano
vecchio decrepito, ma di cortigiano maturo. Insomma il cortigiano maschio finisce col
salvaguardare il suo buon diritto a permanere a corte a tutte le età, e, se la vecchiezza gli
toglie, o attenua in parte, la partecipazione a certe forme piacevoli della conversazione
di corte (la danza, il canto, la pratica della musica), non lo emargina però del tutto.
Conserva infatti il diritto ad accompagnare «la gravità degli anni con una certa
temperata e faceta piacevolezza» (C: II, 15) (Ricordiamoci sulla scena del testo il
cortigiano Morello, il quale tra l’altro fa battute frizzanti sul sesso,238 partecipando di
fatto alla conversazione in una forma più vivace e lata di quanto forse non lo autorizzi il
discorso teorico sul vecchio. Una discrepanza tra la teoria e la pratica che si coglie
Gismondo – la cui tiepidezza e le piagnevoli querele, poi che le somiglianze hanno a valere, assai sono
alla fredda e ramarichevole vecchiezza conformi. A me rimangano le giovani, co’ cuori delle quali, lieti e
festevoli e di calde speranze pieni, s’avenne sempre il mio, e ora s’aviene più che giamai, e certo sono che
elle mi giovino, sì come tu di’-» (L. II, 4). Se è vero che esso si inserisce in quella che pare una critica
generale alla vecchiezza, non si può negare che il rifiuto riguardi alla lettera in particolare le vecchie. La
giovinezza, qui valorizzata dai giovani, per la sua permeabilità al piacere sensuale, in quanto sua origine e
sua fruitrice, sarà poi oggetto di critica, per la stessa ragione, nella trattazione dell’eremita che celebrerà
invece nella vecchiezza, sulle orme di Cicerone, quell’assopimento dei sensi che favorisce la
contemplazione e il distacco dai piaceri terreni: «Ché miglior parte della vita nostra è per certo quella,
figliuolo, in cui la parte di noi migliore, che è l’animo, dal servaggio degli appetiti liberata, regge la men
buona temperatamente, che è il corpo, e la ragione guida il senso, il quale dal caldo della giovanezza
portato non l’ascolta, qua e là dove esso vuole scapestratamente traboccando» (L. III, 16). Poiché
l’insegnamento è rivolto a Lavinello, ci sembra plausibile che si sottintenda il soggetto maschile. Il
protagonista positivo della vecchiezza sarebbe il vecchio, come del resto lo è l’eccezione negativa, ossia
il vecchio che ancora insegue il piacere giovanile, « A’ quali se la vecchiezza non toglie questi disii, quale
più misera disconvenevolezza può essere che la vecchia età di fanciulle voglie contaminare, e nelle
membra tremanti e deboli affettare i giovenili pensieri?». Quando si parla di sesso in forma attiva, sia che
lo si celebri, sia che lo si critichi, o quando si parla di elevazione spirituale, si riafferma la centralità
maschile. Una presentazione simile della vecchiaia maschile si ritrova nel Cortegiano, in positivo: « [...]
dico che ‘l contrario interviene a quelli che sono nella età più matura; ché se questi tali, quando già
l’anima non è tanto oppressa dal peso corporeo, e quando il fervor naturale comincia ad intepidirsi,
s’accendono della bellezza e verso quella volgono il desiderio guidato da razional elezione, non restano
ingannati, e posseggono perfettamente la bellezza: e però dal possederla nasce lor sempre bene; perché la
bellezza è bona, e conseguentemente il vero amor di quella è bonissimo e santissimo, e sempre produce
effetti boni nell’animo di quelli, che col fren della ragion correggono la nequizia del senso; il che molto
più facilmente i vecchi far possono che i giovani» (C: IV, 53); e in negativo «Ma se ancor, poi che son
vecchi, nel freddo core conservano il foco degli appetiti, e sottopongon la ragion gagliarda al senso
debile, non si po dir quanto siano da biasimare; ché, come insensati, meritano con perpetua infamia esser
connumerati tra gli animali irrazionali, perché i pensieri e i modi dell’amor sensuale son troppo
disconvenienti all’età matura» (C: IV, 54).
238
«Quivi il signor Morello, Il generar, disse, la bellezza nella bellezza con effetto, sarebbe il
generar un bel figliolo in una bella donna; ed a me parerìa molto più chiaro segno ch’ella amasse l’amante
compiacendol di questo, che di quella affabilità che voi dite» (C: IV,63), una battuta piccante, in
contestazione dell’amor platonico, che si inserisce nella tradizione sensuale cortese sentita più
prosaicamente come il vero veicolo del piacere. E ancora: «io espettava pur che voi faceste questa vostra
donna un poco più cortese e liberale verso il Cortegiano, che non ha fatto il signor Magnifico la sua» (C:
IV, 63), a lamentare la somiglianza tra la donna coniata dal Bembo e quella modellata dal Magnifico,
entrambe sublimate in una castità che le rende poco cortesi.
166
anche nella limitata partecipazione femminile, e che significativamente rivela il
perdurare di una supremazia dell’esistente rispetto al discorso teorico innovatore. Inoltre
il cortigiano-vecchio, nonostante la difficoltà ad integrarne le doti con quelle muliebri,
ha ancora un ruolo sufficientemente prestigioso, che finirà tra l’altro con l’essergli
riaccreditato anche a livello teorico, mentre la donna, nonostante la parziale
emancipazione teorica, è ancora piuttosto condizionata nella prassi, come vedremo
analizzando il comportamento femminile nella diegesi).
Altra relazione da instaurare col femminile è il fatto che l’emancipazione del
femminile incrina la gerarchia patriarcale e questa iniziale marginalizzazione dei vecchi,
poi corretta, potrebbe anche essere il segno di una valorizzazione del femminile non
solo sostanzialmente incerta, ma poi anche ridimensionata in senso conservatore.
La svalutazione dei vecchi si lega inizialmente ad un’occasione polemica: la
contestazione dei loro rilievi critici sulle corti nuove,239 che induce Castiglione ad attribuirla,
lamentandola, ad un atteggiamento psicologico motivato da una condizione fisiologica di
esclusione: l’indebolimento e la marginalizzazione dalla vita, propria della vecchiaia, induce a
celebrare la giovinezza, e, con una traslazione metonimica, quanto la caratterizzava a livello di
valori, ambiente, esperienze.240
L’assegnazione poi di attività aggraziate e muliebri al cortigiano, come la danza, ma
anche la pratica della musica, il canto, lo stesso amore, assegnate dalla tradizione cortese alla
gioventù, come già abbiamo rilevato sulla scia delle osservazioni di Lorenzetti, pone il
problema dell’emarginazione del cortigiano vecchio, cui si riconosce la possibilità di praticarle
solo nel privato, pena il ridicolo. (C: II, 13-14)
Alla vecchiaia si riconosce tuttavia un ruolo pubblico legato a quello tradizionale della
saggezza derivata dall’esperienza, ma con un’autorevolezza suffragata dalle nuove modalità di
grazia e civiltà che si pretendono per il cortigiano. Nel vecchio infatti sarà ancora apprezzata la
disponibilità a dare sensati consigli grazie all’esperienza, ma sempre in modo civile e senza
presunzione (C: II, 15). Sulla conservazione di questa dote si innesterà il ruolo, ad esso
riconosciuto, della qualità di istitutore consigliere del principe, ma con modalità, per l’appunto,
aggraziate e diplomatiche. Ribadiamo tuttavia che l’accezione di vecchio nel Cortegiano finisce
con lo sfumarsi in quella di uomo maturo, rinnegando la decrepitezza, con l’avvicinarsi
insomma a quella preziosa età virile che è ritenuta l’età migliore per il cortigiano perché, oltre
ad essere apprezzabile per la sua rinascimentale qualità di «aurea via di mezzo», concilia in sé le
doti fisiche necessarie per consentire la performance di bravo guerriero e di valido amante, e un
239
Castiglione, nei primi quattro capitoli del secondo libro, pur riconoscendo i difetti delle corti
contemporanee, rigetta il giudizio perentorio dei vecchi che lodano solo le corti del passato. Per lui le
corti attuali non sono degne di minor lodi di quelle del passato, ed è giusto seguire la regola della
consuetudine, che per Castiglione non è tanto la tradizione diacronica, quanto la condivisione sincronica
di atteggiamenti e costumi: «[...] perché questi costumi, oltra che sian commodi ed utili, son dalla
consuetudine introdotti, ed universalmente piacciono, [...] Però sia licito ancor a noi seguitar la
consuetudine dei nostri tempi, senza esser calunniati da questi vecchi, [...]» (C: II, 3).
240
Castiglione ritiene il giudizio critico dei vecchi sul presente un errore di valutazione legato a
ragioni fisiologico-psicologiche, con infondata esternalizzazione delle cause del disagio: «Per esser
adunque l’animo senile subietto disproporzionato a molti piaceri, gustar non gli po; e come ai febricitanti,
quando dai vapori corrotti hanno il palato guasto, paiono tutti i vini amarissimi, benché preziosi e delicati
siano: così ai vecchi per la loro indisposizione alla qual però non manca il desiderio, paion i piaceri
insipidi e freddi, e molto differenti da quelli che già provati aver si ricordano, benché i piaceri in sé siano
i medesimi: però sentendosene privi, si dolgono e biasmano il tempo presente come malo, non
discernendo che quella mutazione da sé e non dal tempo procede; e per contrario, recandosi a memoria i
passati piaceri, si arrecano ancor il tempo nel quale avuti gli hanno, e però lo laudano come bono, perché
pare che seco porti un odore di quello che in essi sentìano quando era presente; perchè in effetto gli animi
nostri hanno in odio tutte le cose che sono state compagne de’ nostri dispiaceri, ed amano quelle che sono
state compagne dei piaceri». ( C: II, 1)
167
percorso di formazione tale da rendere il cortigiano sufficientemente saggio ed autorizzarlo al
ruolo di guida.
Ma di tutte le età la virile è più temperata, che già ha lassato le parti male della gioventù, ed
ancor non è pervenuta a quelle della vecchiezza. Questi adunque, posti quasi nelle estremità, bisogna
che con la ragion sappiano correggere i vizii che la natura porge. Però deono i vecchi guardarsi dal
molto laudar se stessi, e dall’altre cose viziose che avemo detto esser loro proprie e valersi di quella
prudenzia e cognizion che per lungo uso avranno acquistata, ed esser quasi oraculi a cui ognun vada
per consiglio, ed aver grazia in dir quelle cose che sanno, accommodatamente ai propositi,
acompagnando la gravità degli anni con una certa temperata e faceta piacevolezza. In questo modo
saranno boni Cortegiani, ed interterrannosi bene con omini e con donne, ed in ogni tempo saranno
gratissimi, senza cantare o danzare; e quando occorrerà il bisogno, mostreranno il valor loro nelle
cose d’importanzia. (C: II, 15)
La questione della problematica comportata dall’attribuzione di doti e attività femminili
è a più riprese affrontata nel Cortegiano sia in relazione al loro effetto di valorizzazione o
discredito dell’ habitus tipicamente maschile, sia in relazione al cortigiano vecchio. Ricordiamo
a questo proposito nel Libro IV l’affermazione, per bocca del misogino signor Gasparo, che i
modi femminili non sono necessari al cortigiano che espleta la funzione di istitutore, o il dubbio
del Magnifico, che ritiene ridicola la pratica di queste attività nel cortigiano vecchio, e teme che
l’averle riconosciute come componenti fondamentali nel modello teorico possa poi pregiudicare
al cortigiano vecchio l’accesso al ruolo d’ istitutore, o la conservazione del suo stesso status; o
l’ipotizzare, in questo caso ancora per la voce del signor Gasparo, che Aristotele e Platone, già
vecchi, non praticassero arti femminili come la danza (ma il signor Ottaviano sosterrà che la
conoscenza che questi avevano di tutto lo scibile e della cortigianía costituisce sufficiente prova
della pratica di questa arte in tutte le sue componenti).
Tuttavia la polemica si risolve col riconoscimento del buon diritto del cortigianovecchio al ruolo di istitutore del principe, per aprire però una nuova questione (come farne un
depositario altissimo di virtù se gli manca l’esperienza d’amore?) che si risolve, come già
abbiamo anticipato, considerandolo adatto, più del giovane, all’esperienza sublimante dell’amor
platonico.241
Assistiamo così alla seguente operazione alchimistica: il vecchio, privo della
bellezza, e della possibilità di un amore carnale, vede valorizzato sia il suo dirittodovere alla piacevole conversazione, sia la sua attitudine contemplativa e le sue
mansioni di guida, in un rigurgito della mentalità maschilista patriarcale, timorosa che
le doti femminili, acquisite dai maschi, finiscano col potenziarne le depositarie prime e
antiche.
Concludiamo la nostra disamina rimarcando i seguenti aspetti e le seguenti
relazioni con lo statuto femminile. Ci troviamo di fronte a un Castiglione, e per esso a
una società rinascimentale che, a differenza dei maestri classici, mostra una tendenza,
poi sostanzialmente ritrattata, a limitare lo spazio e l’autorità accordata ai vecchi.
Questo ci appare il frutto, non solo e non tanto della volontà di proiettare nel giudizio
sulle età dell’uomo quello sulle età storiche dell’umanità, e salvaguardare i diritti dei
241
La questione relativa alla capacità del cortigiano vecchio di partecipare dell’esperienza dell’amor
platonico, prende le mosse dall’osservazione del misogino, il signor Gasparo, che si chiede come si possa
conciliare l’attività di istitutore del principe che presuppone un cortigiano esperto, vecchio, con
l’innamoramento, che è elemento di valorizzazione del cortigiano, e che nel vecchio viene spesso
giudicato ridicolo (C: IV, 49). L’intervento del Bembo che difende la saggia modalità d’amare del
cortigiano vecchio sancisce il buon diritto del cortigiano vecchio-maturo (si precisa che non si parla del
vecchio decrepito) ad istituire il principe e a nutrire l’amor platonico che lo sublima e perfeziona e lo
rende tanto virtuoso da poter esser guida di virtù del principe. Se ne ribadisce cosí la funzione di guida
per saggezza di sentire come di pensiero per l’esperienza (C: IV, 50-51).
168
moderni rispetto a quelli degli antichi, nella incipiente querelle sulla superiorità dei
moderni o degli antichi, ma anche, e piuttosto, di un processo di valorizzazione della
bellezza e dell’amore e di parziale femminilizzazione dell’uomo che tende a escludere il
vecchio in quanto brutto e impotente,242 e salvaguarda solo, impegnandolo a certi
comportamenti pena il rischio di marginalizzazione, chi, vecchio, è apprezzabile ancora
per status e per esperienza, cultura, conservazione della capacità di relazionarsi
positivamente con gli altri, ossia di modi aggraziati e piacevoli. Non a caso si ammette
ancora un cortigiano vecchio, ma nell’opera non si parla di nessuna donna di palazzo
vecchia. Se la bellezza, infatti, è il principale e quasi unico canone di valorizzazione
della donna, la sua perdita è causa della sua esclusione dalle relazioni pubbliche. La
prudenza, poi, e la «cognizion che per lungo uso avranno acquistata» (C: II, 15) che
possono rendere i vecchi ancora apprezzati in società, se vi conservano modi gradevoli
e aggraziati, mancano per statuto (misogino, si badi bene, di fatto accolto da
Castiglione, e ne è spia il suo silenzio sulle donne anziane, nonostante la teorizzazione
filogina che assegna loro prudenza e acculturazione) alle donne, che perciò non possono
trovare una difesa, in quei modi, alla perdita del loro valore principale, ossia della
bellezza. E del resto questa società valorizza soprattutto l’estetica e assorbe l’etica
dentro l’estetica. A nostro parere, quella «bellezza» relativa che si potrebbe riconoscere
ai vecchi come frutto della loro dimensione interiore di saggezza ed equilibrio, qui
appare piuttosto sfocata, perché vincolata all’obbedienza a certe modalità
comportamentali, e certamente in subordine a quella bellezza che è bellezza esteriore e
vigore naturale, pertiene innanzitutto ai giovani e all’età virile, e salvaguarda
l’anagraficamente vecchio, se e in quanto riesca ancora a conservarla. Di questa nostra
osservazione ci sembra una riprova il brano sottoriportato in cui, mentre si propone un
contemperamento delle differenti attitudini dei giovani e dei vecchi per contenerne i
rispettivi difetti, in ottemperanza al criterio della mediocritas che valorizza l’età virile in
quanto intermedia, si auspica per il vecchio una «vecchiezza verde e viva», che, per
quanto si dica determinata dal vigor d’animo, e quindi da una virtù interiore conservata,
rimanda con tutte le sue connotazioni, «verde» «viva» «vigor», a qualità naturali che
sono proprie della giovinezza.
Cosí adunque come in un giovane la gioventù riposata e matura è molto laudevole, perché par
che la leggerezza, che é vizio peculiar di quella età, sia temperata e corretta, cosí in un vecchio è da
estimare assai la vecchiezza verde e viva, perché pare che’l vigor dell’animo sia tanto, che riscaldi e
dia forza a quella debile e fredda età, e la mantenga in quello stato mediocre, che è la miglior parte
della vita nostra. (C: II, 16)
A questa parziale destabilizzazione della società patriarcale che si coglie nella
limitazione dell’autorità del vecchio, di cui ci si preoccupa tuttavia di conservare un
ruolo, contribuisce certamente, a nostro parere, non solo la valorizzazione prioritaria
della bellezza-grazia, dell’amore, e la parziale femminilizzazione dell’uomo, ma anche
il processo di incipiente emancipazione della donna che questa comporta (un effetto
possibile del processo di reciproca conoscenza e accettazione attivato dalla mescolanza
e mediazione di attributi e comportamenti). La donna dunque, anche se non riesce a
scalzare la struttura maschilista, e a farsi riconoscere il diritto a vivere ogni età in modo,
242
È però vero che il vecchio viene considerato più atto del giovane all’amor platonico, che è
l’esperienza più alta del cortigiano. Questo, di fatto, ribadisce il valore dell’ipotesi da noi formulata
perché tenta di surrogare con un valore di civiltà la perdita di quel vigore naturale che abbiamo definito
impotenza. Ed è anche il segno di un superamento della tradizione cortese, originata da una civiltà ancora
molto legata al prestigio del cavaliere in armi, ora appannato.
169
se non egualmente prestigioso, almeno sufficientemente dignitoso, comincia tuttavia a
incrinarla.
Ci sembra, come abbiamo anticipato, che proprio la presa d’atto di questo
pericolo abbia comportato una restituzione di autorità e funzione al cortigiano vecchio
(guida del principe e partecipe dell’esperienza dell’amor platonico), insomma una
ritrattazione che ne legittima pienamente la permanenza nella corte, anzi un posto a
corte vitalizio. Una preoccupazione da rischio di licenziamento senza pensionamento, o
di pensionamento senza retribuzione, ci verrebbe da pensare con un sorriso, e forse non
saremmo lontani dal vero. Naturalmente tale preoccupazione non emerge per le donne,
tanto più che di donne di palazzo vecchie non si parla. Come abbiamo già detto, la
donna ha soprattutto l’attributo della bellezza, e ruoli a questo conseguenti, per cui una
volta perdutolo con la vecchiaia, si dà per scontato che per lei non ci sia più posto nella
corte, ossia nella vita pubblica. E sul suo destino in questa età cala il silenzio. Non solo,
ma il Cortegiano si chiude proprio con la celebrazione della bellezza della donna, dote,
come dicevamo, di gioventù, fruibile dal cortigiano maschio e vecchio, nella modalità
contemplativa e sublimante dell’amor platonico, e da cui la donna viene
sostanzialmente esclusa, come genere fruitore, e la donna vecchia, anche come soggetto
promotore. Il discorso su questo problema ci sembra dunque improntato alla difesa
dell’autorità patriarcale e quindi maschile e a contenere l’emancipazione delle donne,
sebbene riteniamo plausibile l’opposta e benigna ipotesi che della donna vecchia non si
parli proprio per sottolineare il dato della bellezza nelle donne, sottraendolo ai danni del
tempo, un’ipotesi quest’ultima più consona alla linea di valorizzazione estetico-erotica
del femminile oltre che all’immaginario della tradizione letteraria, ma che in questo
caso ci convince meno di una analisi critica di matrice femminista.
10.12. L’amor cortese e l’amor platonico: una presenza femminile importante,
ma fino a che punto?
10.12.1. L’amor cortese.
La conservazione degli effetti virtuosi di miglioramento e incivilimento, e la sua moralizzazione e
normazione per la donna, autorizzata alle relazioni mondane.
In calce alla diatriba tra filogini e misogini e al catalogo degli esempi viene
inserita un’ulteriore valorizzazione della donna, considerata necessaria non solo
all’essere, ma anche al benessere dell’uomo, nei termini sviluppati da Castiglione della
bellezza, grazia, piacevolezza, intrattenimento, e secondo le matrici cortesi, chiaramente
esplicitate, del piacere amoroso, del conforto, dell’elevazione, della promozione eroica
e dell’ispirazione poetica.
Così infatti si esprime il filogino Messer Cesare Gonzaga, aggiungendo queste
ultime alla necessità primaria della donna per l’uomo (la procreazione della
discendenza, ma anche l’accudienza alla casa-famiglia) :
- Non voglio già parlar della utilità che ha il mondo dalle donne, oltre al generar i figlioli, perché
a bastanza s’è dimostrato quanto esse siano necessarie non solamente all’esser ma ancor al ben esser
nostro (C: III, 40).
-Chi non sa che senza le donne sentir non si po contento o satisfazione alcuna in tutta questa
nostra vita, la quale senza esse saria rustica e priva di ogni dolcezza e più aspera che quella
dell’alpestre fiere? Chi non sa che le donne sole levano de’ nostri cori tutti li vili e bassi pensieri, gli
affanni, le miserie e quelle turbide tristezze che così spesso loro sono compagne? E se vorremo ben
considerar il vero, conosceremo ancora che, circa la cognizion delle cose grandi, non desviano gli
ingegni, anzi gli svegliano; ed alla guerra fanno gli uomini senza paura ed arditi sopra modo. E certo
170
impossibil è che nel cor d’omo, nel qual sia entrato una volta fiamma d’amore, regni mai più viltà;
perché chi ama desidera sempre farsi amabile più che po, e teme sempre non gli intervenga qualche
vergogna che lo possa far estimar poco da chi esso desidera esser estimato assai; né cura d’andare
mille volte il giorno alla morte, per mostrar d’esser degno di quell’amore; (C: III, 51)
Si ribadiscono dunque le componenti dell’amor cortese: amore fonte di gioia,
amore che ingentilisce e nobilita i cuori, amore che spinge il cavaliere alla prodezza.243
243
Il miglioramento dell’uomo provocato da amore, secondo i canoni dell’amor cortese, è celebrato
anche da Gismondo negli Asolani: «Mirabile cosa è ad estimare gli occulti raggi di questo primo disio,
quali essi sono. Perciò che non solamente ogni vena empiono di soavissimo caldo e tutta l’anima
ingombrano di dolcezza, ma ancora gli spiriti raccendendo, che senza Amore si stanno a guisa di lumi
spenti, di materiali e grosse forme ci recano ad essere uomini aveduti e gentili. Con ciò sia cosa che per
piacere alle nostre donne e per la loro grazia e il loro amore acquistare, quelle parti che più lodarsi negli
altri giovani sentiamo, sovente cerchiamo d’avere noi, acciò che per loro più riguardevoli tra gli altri
uomini e più pregiati divenuti, più altresì alle nostre donne gradiamo. Onde in poco spazio tutte le prime
rustichezze lasciate e di dì in dì e d’ora in ora più di gentili costumi apprendendo, quale si dà
all’armeggiare, quale a usar magnificenze si dispone, quale ne’ servigi delle corti a gran re e a gran
signori si fa caro, quale a cittadinesca vita s’adordina, nelle onorate bisogne della sua patria e in cortesie il
tempo che gli è dato ispendendo, e quale agli studi delle lettere volto il pensiero, o le istorie degli antichi
leggendo, se stesso con gli altrui essempi fa migliore e diviene simile a loro o, nell’ampissimo campo
della filosofia mettendosi, e in dottrina e in bontà come albero da primavera cresce di giorno in giorno, o
pure nel vago prato entra della poesia e quivi, ora in una maniera, ora in un’altra, cantando tesse alla sua
donna care girlande di dolcissimi e soavissimi fiori. Quale poi, di più abondevole ingegno sentendosi o da
più amore sollecitato, di diversi costumi s’anderà ornando: d’arme, di lettere, di cortesie e d’altre parti
insieme tutte lodate e pregiate; onde egli quasi un celeste arco, di mille colori vestito, vaghissimo si
dimostrerà a’ riguardanti. In questa maniera ciascun per sé, mentre d’esser cari ad una sola donna
s’ingegnano, si fanno da tutti gli uomini per valorosi tenere e per da molto» (Pietro Bembo, Gli Asolani,
L. II, 31). Ricordiamo a questo proposito che nell’opera di Bembo si confrontano sul tema dell’amore
terreno il detrattore Perinotto e il celebratore Gismondo, cui segue la celebrazione dell’amore platonico e
celeste fatta da Lavinello e dall’eremita. Detrattore e celebratore di amore sono negli Asolani
l’equivalente di misogini e filogini nel Cortegiano. Anzi nella celebrazione della bellezza femminile, da
parte di Gismondo, l’interlocutore fortunato in amore, si ha un taglio descrittivo, anche sensuale, secondo
il canone, che non sarà presente nel morigerato Castiglione, tendente ad omettere i dati fisici e
naturalmente quelli più direttamente sensuali, per spostare fascino e onorata sociabilità su una modalità
comportamentale e relazionale: «Egli la mira intentamente et rimira con infingevole occhio, et per tutte le
sue fattezze discorrendo, con vaghezza solo da gli amanti conosciuta, ora risguarda la bella treccia, più
simile ad oro che ad altro, la quale sì come sono le vostre (né vi sia grave che io delle belle donne
ragionando tolga l'essempio in questa et nelle altre parti da voi) la quale, dico, lungo il soave giogo della
testa, dalle radici ugualmente partendosi et nel sommo segnandolo con diritta scriminatura, per le
deretane parti s'avolge in più cerchi, ma dinanzi, giù per le tempie, di qua e di là in due pendevoli
ciocchette scendendo et dolcemente ondeggianti per le gote, mobili ad ogni vegnente aura, pare a vedere
un nuovo miracolo di pura ambra, palpitante in fresca falda di neve. Ora scorge la serena fronte con
allegro spatio dante segno di sicura onestà; e le ciglia d'ebano piane et tranquille, sotto le quali vede
lampeggiar due occhi neri e ampi e pieni di bella gravità, con naturale dolcezza mescolata, scintillanti
come due stelle ne' lor vaghi e vezzosi giri, il dì che primieramente mirò in loro e la sua ventura mille
volte seco stesso benedicendo. Vede dopo questi le morbide guancie, la loro tenerezza et bianchezza con
quella del latte appreso rassomigliando, se non in quanto alle volte contendono con la colorita freschezza
delle matutine rose. Né lascia di veder la sopposta bocca, di picciolo spatio contenta, con due rubinetti
vivi e dolci, aventi forza di raccendere disiderio di basciargli in qualunque più fosse freddo et svogliato.
Oltre a cciò quella parte del candidissimo petto riguardando e lodando, che alla vista è palese, l'altra che
sta ricoperta loda molto più ancora maggiormente, con acuto sguardo mirandola et giudicandola: mercé
del vestimento cortese, il quale non toglie perciò sempre a' riguardanti la vaghezza de' dolci pomi che,
resistenti al morbido drappo, soglion bene spesso della lor forma dar fede, mal grado dell'usanza che gli
nasconde» (Ivi, L. II, 22). Nel Cortegiano si parla invece solo di sfuggita degli occhi nel capitolo 66 del
Libro III, all’interno della trattazione dell’amor cortese, in una linea che tende allo spirituale: «Però ben
dir si po, che gli occhi siano guida in amore, massimamente se sono graziosi e soavi; neri di quella chiara
e dolce nerezza, ovvero azzurri; allegri e ridenti, cosi grati e pentranti nel mirar, come alcuni, nei quali
par che quelle vie che danno esito ai spiriti siano tanto profonde, che per esse si vegga insino al core» (C:
III, 66) e si accenna molto velocemente a qualche aspetto sensuale laddove, polemizzando con
171
E sono queste le premesse alle virtù dell’intrattenimento della donna di palazzo e del
cortigiano stesso. La presenza delle donne a corte veicola il piacere e promuove il
miglioramento maschile, e, per compiacere la donna, i nuovi cortigiani (e questa,
insieme alla coniugazione con il sapere umanistico, è la novità sostanziale rispetto
all’immagine degli antenati solo cavalieri) praticano anche «esercizi graziosi», non per
niente definiti come piacevoli per la società di corte («che piaceno al mondo»), quali
l’apprendere a danzare, a suonare, addirittura a compor versi, almeno in lingua volgare,
precisazione questa legata all’intendimento comunicativo strumentale del poeta con la
donna non più in grado di intendere il latino.
Non vedete voi che di tutti gli esercizii graziosi e che piaceno al mondo a niun altro s’ha da
attribuire la causa, se alle donne no? Chi studia di danzare e ballar leggiadramente per altro, che per
compiacere a donne? Chi intende nella dolcezza della musica per altra causa, che per questa? Chi a
compor versi, almen nella lingua vulgare, se non per esprimere quegli affetti che dalle donne son
causati? (C: III, 52)
Le donne sono inoltre meritevoli perché ispiratrici con la loro bellezza di poemi
e poesie bellissime di cui altrimenti l’umanità sarebbe priva.244 Si cita il Canzoniere del
Petrarca, poesia eccellente in lingua volgare, frutto dell’amore per madonna Laura. Lo
stesso Salomone si è servito di un’allegoria di amore per la donna per cantare il suo
misticismo religioso nel Cantico dei cantici. Ha quindi giudicato l’amore per la donna
come il più adatto ad adombrare le cose divine (C: III, 52).
Gli uomini, dunque, come abbiamo già ripetutamente rilevato, si
femminilizzano, ‘aggraziandosi’ attraverso le arti della danza e della musica,
conquistando cioè quella grazia che rende graditi e amabili e che è dote tipicamente
femminile che Castiglione vuole adorni anche il cortigiano; essi, per riuscire a
«compiacere» la donna, devono ‘comunicare’ con lei, ossia mediare, avvicinarsi a lei,
imparando le sue arti e utilizzando nella poesia d’amore la sua lingua, il volgare, si noti
l’affettazione femminile, si invitano le donne ad usare la sprezzatura, qualora vogliano mostrare denti,
mani, piedi (C: I, 40). Ma si tratta di una teorizzazione fredda, che non ha il calore sensuale della
descrizione di Gismondo. Come Bembo, così pure Ariosto, sembra molto più interessato alla
rappresentazione sensuale del corpo, sottraendolo alla ritualizzazione e omissione cui lo sottopone
Castiglione: ricordiamo la descrizione delle bellezze di Olimpia nel Furioso, canto XI, 67-71, ed. 1932,
dove si insiste sulla bellezza delle parti abitualmente coperte, mammelle, fianchi, anche, ventre: « -67- Le
bellezze d'Olympia eran di quelle,/ Che son piu rare, e non la fronte sola/ Gliocchi, e le guancie, e le
chiome havea belle/ La bocca, il naso, gli homeri, e la gola:/ Ma discendendo giu da le mammelle/ Le
parti che solea coprir la stola:/ Fur di tanta escellentia ch'anteporse/ A quante n'havea il mondo potean
forse.// -68- Vinceano di candor le nievi intatte,/ Et eran piu ch'avorio a toccar molli:/ Le poppe ritondette
parean latte/ Che fuor de i giunchi allhora allhora tolli/ Spatio fra lor tal discendea: qual fatte/ Esser
veggian fra piccolini colli/ L'ombrosevalli: in sua stagione amene/ Che'lverno habbia di nieve allhora
piene// -69- I rilevati fianchi e le belle anche/ E netto piu che specchio il ventre piano/ Pareano fatti: e
quelle coscie bianche/ Da Phidia atorno, o da piu dotta mano:/ Di quelle parti debbovi dir anche/ Che pur
celare ella bramava in vano?/ Diro in somma ch'in lei dal capo al piede/ Quant'esser puo belta tutta si
vede». A margine ricordiamo il rilievo di Segre sul fatto che l’ottava 71, col riferimento a Zeusi, avrebbe
come fonte il Cortegiano (C: I, 53). Ma per noi si tratta di una convergenza di particolari che non muta la
sostanzialità delle differenze.
244
Ricordiamo che già Ovidio, che aveva influenzato Petrarca e il petrarchismo, aveva affrontato
nell’Ars amandi il tema del rapporto tra bellezza e poesia e sostenuto anche che la bellezza della donna
era il frutto della stessa poesia che la cantava. La poesia, dunque, se nasce da bellezza, è essa stessa
creatrice di bellezza, non solo perché arte della poesia, ma perché esalta e prolunga l’esistenza della
bellezza femminile, concedendole quello status di perfezione-eternità che nel platonismo è proprio
dell’idea della bellezza. Il che finirebbe col ricondurci ancora a una centralità maschile, in quanto la
poesia eternatrice, ispirata dalla bellezza della donna, è però un prodotto ancora squisitamente maschile.
Castiglione tuttavia fa esplicita menzione solo della bellezza come ispiratrice di poesia.
172
bene, la lingua madre, quasi in ottemperanza al ruolo centrale della donna nella
generazione (e questo non è da interpretarsi come un abbassamento, perché viene
abbandonato il latino, la lingua della cultura alta, ma come un innalzamento, sia perché
amplia la sfera relazionale a livello di soggetti e di argomenti,245 sia perché così si può
produrre perfetta poesia d’amore, sull’indiscusso modello del Petrarca del Canzoniere).
Tale bisogno li pone anche in una sorta di dipendenza e li costringe a un
compromesso (il consentire alla donna l’accesso alle relazioni pubbliche e a un minimo
di cultura), ma l’effetto finale è la loro piena e compiaciuta realizzazione, e il
femminile, anche nella sua emancipazione, è sempre funzionale al piacere maschile.
Insomma la donna è importante, ma ancora una volta inferiore al maschio e ad esso
strumentale. Tuttavia è innegabile che la priorizzazione del fine di compiacimento e
comunicazione del cortigiano con la donna di palazzo, con le conseguenze che questo
comporta, è segno di una rivalutazione della donna. Lo stabilire infatti per l’uomo la
necessità di rapportarsi alla donna, anche in forme più alte e complesse di quelle
strettamente naturali e sessuali (sebbene, a nostro parere, queste agiscano nel
sottofondo, e siano solo apparentemente taciute), e quantunque con un intendimento
utilitaristico e non altruistico, favorisce un avvicinamento alla donna e alla psicologia
femminile stessa, oltre che indirettamente una sua valorizzazione, non solo per
l’emancipazione conseguente al suo amplificato ruolo di termine interattivo di
confronto, ma anche per la condivisione di alcuni suoi attributi. Inoltre il Rinascimento,
come attesta particolarmente Castiglione, si propone come cultura del dialogo e della
mediazione, e questo si riscontra anche parzialmente nel rapporto di genere. Poiché
qualsiasi mediazione comporta un riconoscimento di valore della parte antagonista e
una commistione, un avvicinarsi dei poli opposti, che acquisiscono reciprocamente,
anche se in misura inferiore, doti e funzioni tradizionalmente attribuite all’altro, la
donna può condividere, anche se solo parzialmente, gli spazi di potere del dialogo, nella
forma di sua promotrice, l’uomo acquisisce quella bellezza-grazia e amabilità femminile
che da una parte le arti della danza e musica promuovono e la poesia d’amore esalta, e
dall’altra gli concilia il favore, la buona disposizione, la «bona opinione» nelle relazioni
sociali.
Inoltre, il processo di incivilimento in cui si iscrive la dialettica dell’amor
cortese, qui sottolineato attraverso l’uso del termine ‘benessere’, nella corte
rinascimentale si incentiva in questa ulteriore forma di mediazione che vede la donna, o
l’attribuzione di peculiarità femminili al maschio, investiti di una funzione incivilitrice.
In questo percorso si inserisce a pieno titolo anche la traslazione del piacere
sessuale, nella forma più naturale e diretta, ad altre forme di tipo relazionale e
acculturate, e la relegazione del piacere sessuale vero e proprio al rapporto
matrimoniale, grazie alla coniugazione, operata dal Magnifico, tra amore e matrimonio.
Questo obbedisce ad un’istanza di armonia e pace sociale, perché toglie la trasgressione
e la sua stessa necessità/opportunità sociale quale l’aveva considerata l’etica dell’amor
cortese, purché praticata nella segretezza (insomma una modalità di soddisfacimento
degli impulsi libidici che ne consentiva tuttavia e per questo stesso il contenimento
nell’alveo formale e parvente del matrimonio), e valorizza il matrimonio come istituto
sociale, non più solo di mera opportunità economica, di prestigio, e di procreazione di
una legittima discendenza, ma anche come unione promossa da sentimenti. Incivilisce
insomma ulteriormente consentendo e contenendo gli impulsi libidici, non per forza di
legge, ma per libera elezione preliminare consona a tali impulsi, dentro lo stesso
matrimonio. La donna di palazzo deve infatti orientare il suo amore verso un soggetto
245
Ricordiamo che Castiglione è a favore dell’uso di una lingua volgare ampiamente comunicativa.
173
che ne possa divenire il legittimo sposo. Qualora si deroghi a ciò, non è concessa altro
che un’unione spirituale. Questa operazione di fatto si propone come un tentativo di
coniugare natura (l’amore) e civiltà (l’istituzione matrimoniale) allo stesso modo in cui
si propone un’arte che sappia entrare in simbiosi con la natura al punto da essere
percepita come natura e non come arte, in ottemperanza alla teoria classica dell’unum et
simplex. Inoltre, il fatto che tendiamo a percepirla come orientata a un ottundimento del
piacere, per l’influenza della tradizione cortese che avvilisce il matrimonio sotto questo
aspetto, e per i reiterati richiami di Castiglione all’onestà, castità e pudore, potrebbe
essere fuorviante, e risultare attendibile al contrario l’ipotesi di un’ intenzionalità
dell’autore di introdurre il ‘piacere’ anche nel matrimonio.
Quanto al diritto di parola e alla competenza sugli argomenti, nell’ambito
dell’amor cortese, si riconosce una maggiore rilevanza alla donna, ma, sebbene questa,
provocata, intervenga con cognizione di causa, le norme relative ai comportamenti che
la donna deve tenere nei discorsi e anche nelle relazioni amorose di corte, e in generale
l’educazione ad amare, sono impartite da un cortigiano maschio, il che ancora una volta
sancisce la superiorità maschile nell’ambito normativo-giuridico e di potere.
Procediamo ora ad una disamina più articolata del tessuto del dialogo
sull’argomento, per legittimare le osservazioni critiche e approfondirle con ulteriori
rilievi.
Notiamo innanzitutto la coniugazione tra amore e matrimonio, assolutamente
innovatrice rispetto alla tradizione cortese, e per questo generatrice di molte obiezioni
nel pubblico cortigiano maschile, si badi bene, e non femminile, perché le donne, lo si
suppone, devono osservare certamente la discrezione, o forse piuttosto il silenzio,
quando si parli in termini espliciti di sessualità trasgressiva, ovvero di adulterio
(ricordiamo che la trattazione dell’amor cortese da parte di Emilia Pio non riguarda
questo argomento). E inoltre la codificazione, da parte maschile, dei comportamenti
discreti ed onesti che la donna deve tenere.
Conclusa la dimostrazione in generale delle qualità e virtù della donna con la
perorazione sui magnifici effetti della virtù d’amore della donna sull’uomo nel campo
guerresco, artistico e anche mondano e galante, si passa all’indicazione dettagliata dei
comportamenti che la donna di palazzo deve tenere nei discorsi intorno all’amore, oltre che
nelle relazioni d’amore. In questa parte del dialogo si inserisce già la precettistica. Su richiesta
di messer Federico,
Però vorrei sapere come debba questa donna circa tal proposito intertenersi discretamente e
come rispondere a chi l’ama veramente e come a chi ne fa dimostrazion falsa; e se dee dissimular
d’intendere, o corrispondere, o rifiutare, e come governarsi, (C: III, 53)
il Magnifico dà indicazioni sul comportamento che la donna di palazzo deve tenere nei
«ragionamenti d’amore», date per scontate le virtù dell’«ingegno, sapere, giudicio, desterità
[destrezza, abilità di relazione], modestia e tant’altre virtù» (C: III, 53). Per il Magnifico la
decisione di corrispondere in amore o no spetta solo alla donna. Data la difficoltà di dare
indicazioni per riconoscere chi simula, vista l’astuzia raggiunta dagli uomini nell’arte della
simulazione, ci si limita ai seguenti suggerimenti: a) non credere immediatamente alle parole
d’amore; b) dare una risposta che palesi dispiacere se gli uomini mancano di rispetto; c)
mostrare di non intendere, attribuendo altro significato alle parole; d) se questo non è possibile,
fingere che si tratti di una burla, e abbassare i propri meriti. La donna sarà cosí ritenuta discreta.
La discrezione, di guicciardiniana memoria, (peraltro già anticipata da Francesco da
Barberino nel Trecento all’interno di una normativa più severa e nell’accezione di modestia
piuttosto che di modestia congiunta a valutazione critica), diventa la virtù che difende dalla
simulazione, insieme vizio e dote per la società del Rinascimento, ma in questo punto presentata
174
come un vizio e per di più attribuita agli uomini anziché alle donne come era proprio della
tradizione misogina. D’altra parte però negli stessi comportamenti discreti raccomandati alle
donne è possibile rinvenire ancora la stessa arte della simulazione/dissimulazione. Il che ne
riprova l’ambivalenza a livello etico-sociale.
[...] se [il gentiluomo innamorato] ancora sarà discreto ed usarà termini modesti e parole d’amore
copertamente, con quel gentil modo che io credo che faria il Cortegiano formato da questi signori, la
donna mostrerà non l’intendere e tirarà le parole ad altro significato, cercando sempre modestamente,
con quello ingegno e prudenzia che già s’è detto convenirsele, uscir di quel proposito. Se ancor il
ragionamento sarà tale, ch’ ella non possa simular di non intendere, pigliarà il tutto come per burla,
mostrando di conoscere che ciò se le dica più presto per onorarla che perché così sia, estenuando i
meriti suoi ed attribuendo a cortesia di quel gentilomo le laudi che esso le darà; ed in tal modo si farà
tener per discreta, e sarà più sicura dagl’ inganni (C: III, 55).
Messer Federico teme però che la discrezione suggerita comporti il rischio di rendere le
donne scettiche e di aggravarne la crudeltà, elemento questo della tradizione misogina. Ma il
Magnifico precisa di aver parlato di chi intrattiene con ragionamenti amorosi, non di chi ama
che spesso parla molto poco. Le donne devono essere caute, pensando che mostrar d’amare è
molto più lecito socialmente agli uomini che alle donne,
[...] né altro dir saprei, se non che la donna sia ben cauta, e sempre abbia a memoria che con
molto minor periculo posson gli omini mostrar d’amare che le donne (C: III, 55)
Un consiglio di cautela, dunque, che ancora una volta sottolinea la limitazione della
libertà femminile, una subalternità sociale che si accompagna al maggior bisogno
dell’onorabilità sociale.246
246
Anche Ariosto nel Canto X, 4-9, del Furioso, ED. 1532, consiglia cautela alle donne, ma nella
scelta dell’amante, non tanto nel mostrar d’amare, e non vieta affatto la concessione di sé, anzi la
consiglia:« -4- Se Bireno amò lei: come ella amato/ Bireno havea: se fu si a lei fedele/ Come ella a lui: se
mai non ha voltato/ Ad altra via che a seguir lei le vele:/ O pur s'a tanta servitù fu ingrato:/ A tanta fede, e
a tanto amor crudele,/ Io vi vo dire e far di maraviglia/ Stringer le labra & inarcar le ciglia,//-5- E poi che
nota l'impieta vi fia/ Che di tanta bonta fu a lei mercede,/ Donna alcuna di voi mai più non sia/ Ch'a
parole d'Amante habbia a' dar fede/ L'Amante per haver quel che desia,/ Senza guardar che Dio tutto ode
e vede:/ Aviluppa promesse e giuramenti/ Che tutti spargon poi per l'aria i venti.// -6- I giuramenti e le
promesse vanno/ Da i venti in aria disipate e sparse:/ Tosto che tratta questi amanti s'hanno/ L'avida sete
che gli accese & arse:/ Siate a prieghi & a pianti che vi fanno/ Per questo esempio a credere piu scarse,/
Bene e felice quel Donne mie care/ Ch'essere accorto all'altrui spese impare.// -7- Guardatevi da questi
che sul fiore/ De lor begli anni il viso han si polito:/ Che presto nasce in loro e presto muore/ Quasi un
foco di paglia ogni appetito,/ Come segue la lepre il cacciatore/ Al freddo, al caldo, alla montagna, al lito/
Ne più l'estima poi che presa vede/ E sol dietro a chi fugge affretta il piede.//-8- Cosi san questi gioveni:
che tanto/ Che vi mostrate lor dure e proterve:/ V'amano, e riveriscono con quanto/ Studio de far che
fedelmente serve,/ Ma non si tosto si potra dar vanto/ De la vittoria: che di donne serve/ Vi dorrete esser
fatte, e da voi tolto/ Vedrete il falso amore e altrove volto.// -9- Non vi vieto per questo (c'havrei torto)/
Che vi lasciate amar: che senza amante/ Sareste come inculta vite in horto/ Che non ha palo ove s'appogi
o piante,/ Sol la prima lanugine vi eshorto/ Tutta a fuggir: volubile e inconstante:/ E corre i frutti non
acerbi e duri,/ Ma che non sien perho troppo maturi» (ed. a cura di C. Segre e N. Muñiz). Questo canto,
sul disgraziato amore di Olimpia per Bireno, non c’era né in 1516 né in 1521, e potrebbe essere stato
aggiunto dopo la lettura del Cortegiano, ma certo orienta in altra direzione il consiglio di cautela, che qui,
come dicevamo, investe propriamente la scelta dell’amante, e non investe l’intera sfera dei
comportamenti pubblici, vietando per di piú la concessione di sé anche nel privato, come fa, per bocca del
Magnifico, Castiglione. Peraltro il consiglio ad evitare gli amanti giovani, volubili e inaffidabili, lo
ritroveremo anche nella Raffaella e nello Specchio d’amore. Nelle note al testo dell’edizione citata sono
riportati interessanti riferimenti alle fonti classiche che qui citiamo: «Iam iam nulla viro iuranti femina
credat, Nulla viri speret sermones esse fideles; Quis dum aliquid cupiens animus praegestit apisci, Nil
metuunt iurare, nihil promittere parcunt: Sed simulac cupidae mentis satiata libidost, Dicta nihil
meminere, nihil periuria curant», Catulo, LXIV 143-148; a propósito de las promesas de Teseo, «quae
175
Nell’ambito di questa morigeratezza di costumi, che nel Cortegiano si vuole non solo
formale, ma anche sostanziale, senza nulla togliere a un «intertenimento» onesto e piacevole, si
corregge l’amor cortese, tradendone le origini e coniugandolo col matrimonio o imponendogli
di rispettarlo, e si delegittima qualsiasi giustificazione dell’adulterio.247 Per il Magnifico infatti
possono amare solo le donne non maritate, rivolgendo tale amore, si badi bene, a uomini coi
quali sia possibile il matrimonio, e ciò, si dice, nell’interesse psicologico della donna, che
altrimenti sarebbe angustiata dal rimorso e dalla paura di macchiare la fama d’onestà «che tanto
l’importa», mentre si tace sul deterrente sociale che è il principale movente di tale consiglio
[...] dico ben che lo amar come voi ora intendete estimo che convenga solamente alle donne non
maritate; perché quando questo amore non po terminare in matrimonio, è forza che la donna n’abbia
sempre quel remorso e stimulo che s’ha delle cose illicite, e si metta a periculo di macular quella
fama d’onestà che tanto l’ importa – (C: III, 56)
L’austerità del comportamento proposto dal Magnifico, che aveva già suscitato
precedentemente la replica del signor Gasparo secondo cui una restrizione di tal genere risultava
pericolosa perché suscettibile di far venir meno l’amore del cortigiano e di conseguenza il
servizio d’amore,248 viene criticata anche da messer Federico che autorizza l’adulterio come
cuncta aerii discerpunt irrita venti», id. 142; cfr. también Tibulo, I 4, 21-22: «nec iurare time: Veneris
periuria venti Inrita per terras et freta summa ferunt»; «Iuvenilis ardor impetu primo furit, Languescit
idem facile nec durat diu In Venere turpi, ceu levis flammae vapor», Séneca, Octavia, 189-191;
«“Leporem venator ut alta In nive sectetur, positum sic tangere nolit” Cantat et apponit: “meus est amor
huic similis: nam Transvolat in medio posita et fugientia captat” », Horacio, Sat. I, II 105-106;«Ut vidua
in nudo vitis quae nascitur arvo Numquam se extollit, numquam mitem educat uvam... At si forte eademst
ulmo coniuncta marito, Multi illam agricolae, multi coluere bubulci: Sic virgo dum intacta manet, dum
inculta senescit», Catulo, LXII 49-56; y Ovidio, Met. XIV 665-666». Oltre a richiami ad autori italiani e
spagnoli contemporanei, che ne indicano i modelli e le persistenze: «Las consideraciones sobre la
correspondencia debida al amor de la mujer leal, fueron utilizadas por Espinosa como exordio del canto
XIV en la Segunda parte de Orlando (Chevalier)»; «eleggete amante né vecchio d'età né troppo
giovinetto» (Alberti, Ecatonfilea). Los versos ariostescos serán recordados así por Lope de Vega: «en los
diálogos de Guazo hallarás que las mujeres ignorantes aman el cuerpo y las discretas el alma. Y el
Ariosto en un canto de su Orlando las aconseja que quieran hombres de edad, como no sean ‘troppo
maturi’» (La Dorotea, p. 289).
247
Guidi pone in relazione la rivalorizzazione del legame coniugale (che ritrova nell’accenno non
discusso al divieto del divorzio, nonostante l’evidenza di matrimoni mal riusciti, e nella demonizzazione
dell’adulterio, C: III, 56) con un nuovo rigorismo collegabile a un’involuzione aristocratica e
all’affermarsi di istanze clericali, anche per il rafforzamento dei legami di Castiglione con la curia
romana, che spiegherebbe il passaggio ad un orientamento più conservatore rispetto a quello tenuto
sull’argomento nella seconda redazione del Cortegiano. Inoltre presenta la coniugazione tra amor cortese
e matrimonio in chiave di privazione di diritti e di piacere, un’ipotesi quest’ultima che secondo noi può
essere rivista se la guardiamo come inserimento del piacere cortese all’interno del legame matrimoniale.
(José Guidi, De l’amour courtois à l’amour sacré : La condition de la femme dans l’oeuvre de B.
Castiglione, cit., pp.70-71 e 79-80)
248
Maria de Las Nieves Muñiz Muñiz ha rilevato, a proposito di questo passo («Atteso che se ‘l
cortegiano non fosse redamato, non è già credibile che continuasse in amare lei e così le mancheriano
molte grazie, e massimamente quella servitù e reverenzia, con la quale asservono e quasi adorano gli
amanti la virtù delle donne amate», C: III, 56), nella traduzione di Boscán, in seguito al riferimento del
pronome personale, non alla donna, ma all’uomo -sottolineando così la perdita degli effetti virtuosi del
servizio d’amore per l’uomo e non di quelli piacevoli per la donna, come è invece nell’originale-,
l’operazione di risemantizzazione attuata da Boscán nella sua traduzione del Cortegiano per renderne
meno duro l’impatto innovativo rispetto alla tradizione cortese-cavalleresca, ancora ben condivisa dal
pubblico spagnolo. E ne ha colto una riprova nella traduzione del divieto del Magnifico dell’amor cortese
alle donne maritate, con un possibilista «forse» e con il riconoscimento della forza della passione. Così
interpreta infatti l’inciso ipotetico aggiunto da Boscán nella traduzione, a sfumare il divieto del
Magnifico, e a mediare il nuovo dettato con la tradizione: «Come a dire: ‘non è cosa da risolvere in teoria,
ma da lasciare a ciascuna donna secondo le forze sue, visto che la passione è incontenibile nei due sessi’
(no se puede ordenar ni medir en los hombres ni en la mujeres); col che il divieto si attenua in un
possibilista «forse» («quizá no será lícito sino a las que están por casar»), limitando l’equiparazione
176
forma di conforto ai matrimoni imposti o mal riusciti in una società in cui non è ammesso il
divorzio. Il Magnifico ammette allora un amore delle maritate per una persona diversa dal
marito, ma privo di unione carnale e di un’evidenza tale da incorrere nella riprovazione sociale:
voglio che ella niuna altra cosa allo amante conceda eccetto che l’animo; né mai gli faccia
dimostrazion alcuna certa d’amore (C: III, 56).
In questa ottica morigerata il Magnifico continua a porre limiti aggiungendo a quelli
etici quelli di status sociale, e ci è lecito pensare che probabilmente siano i secondi le cause dei
primi. La donna di palazzo non maritata deve amare una persona con cui possa sposarsi e non
lasciarsi indurre a nessun atto disonesto né generare opinione di donna superficiale e facile:
coi meriti e virtuosi costumi suoi, con la venustà, con la grazia induca nell’animo di chi la vede
quello amor vero che si deve a tutte le cose amabili, e quel rispetto che leva sempre la speranza di chi
pensa a cosa disonesta (C: III, 57).
Ancora dunque la virtù della discrezione, che qui è valutazione delle prospettive di matrimonio,
il pudore e la modestia, la difesa dell’onorabilità sociale.
L’eccessiva austerità in amore del modello prospettato dal Magnifico produrrebbe però,
secondo messer Roberto da Bari, la conseguenza della solitudine della donna, del venir meno
della relazione sociale basata sull’innamoramento. Si tratterrebbe di una linea anticortese,
perché, se da una parte si vuole sublimare l’ambiente di corte a livello etico, dall’altro si
spegnerebbe il concreto delle sue relazioni e del suo essere.
Conviene osservare a questo punto la complessa e conflittuale coabitazione nel
Rinascimento di istanze cortesi di origine feudale, recuperate dal platonismo, e di istanze
aristocratico-borghesi di valorizzazione dell’istituzione familiare e della rispettabilità. Il libero
Rinascimento, nella linea etico-idealistica, rischia di presentarsi in relazione all’amore, anche
cortese, meno libero del Medioevo. Da una parte meno libero, perché non consente nel privato e
uomo-donna al piano della passione medievalmente concepita come creaturale propensione a «cadere» »
(María de las Nieves Muñiz Muñiz, “Il libro del Cortegiano” tradotto da Boscán: Nota su un lapsus
maschile pro femminile, «Quaderns d’Italià», 6, 2001, 101-108, p. 104). E inoltre ha evidenziato
l’operazione di Boscán di aggiramento, attraverso il topos dell’assenza, di due diverse trasgressioni del
codice: la legittimazione giuridica del piacere e l’estetica della morale, in relazione alla divergenza di
pareri tra Gasparo che propone semplicemente una maggiore razionalità nella resa della donna, in nome
di una giustizia proporzionale, e il Magnifico che ammette solo un amore contemplativo e platonico (C:
III, 57), per giungere alla conclusione che: «L’amore cortese si sovrappose così a quello cortigiano
facendo emergere in controluce una tesi oscillante fra condizione creaturale e sublimazione stilnovistica,
la prima nella prospettiva dei due sessi, la seconda in quella maschile. Nell’un caso e nell’altro spariva la
reciprocità del rapporto amoroso e la mediazione dialogica fra gli opposti. L’esemplificazione si potrebbe
allargare ad altri casi e ad altri temi, ma questi campioni varranno forse a mostrare come Boscán non
fosse riuscito ad assimilare appieno l’erotica dell’ethos che andava tramandando. Un ideale riassunto da
Castiglione nella figura femminile della modestia temperata (III § 57), e sulla cui difficoltà si era
soffermato all’inizio del Terzo libro: «e però le bisogna tener una certa mediocrità difficile e quasi
composta di cose contrarie, e giunger a certi termini a punto, ma non passargli» ( III § 5). La difficoltà
non risiedeva, quindi, soltanto nell’esecuzione del modello da parte delle donne, ma anche nella sua
comprensione da parte degli uomini chiamati a completarne l’opera. Tale il valore del dialogo
rinascimentale quale indispensabile forma di arbitraggio tra gli opposti. Lo scambio amoroso ne era la
quintessenza» (Ivi, pp. 105-106). Risulta evidente che queste osservazioni critiche, mentre evidenziano la
difficoltà e insieme l’intenzione del traduttore di mediare con la cultura dominante del suo pubblico,
danno un notevole rilievo alle innovazioni di Castiglione nell’ambito della conciliazione tra morale e
Eros. D’altra parte il passo del Cortegiano sopra riportato, su cui si incentra la nota critica della Muñiz,
ha richiamato la nostra attenzione anche su un altro aspetto: la presentazione della donna come soggetto
che trae piacere dal servizio d’amore maschile, un piacere comunque narcisistico che nasce da servizio,
reverenza e adorazione, e che già omette quello più propriamente e letteralmente sessuale, che
ricorrentemente viene negato alla donna. Un riscontro che non incrina il nostro ricorrente giudizio sul
fatto che la donna viene costantemente presentata come organo del piacere maschile e che a lei viene
negato il piacere del proprio corpo, se non nella forma del compiacimento narcisistico.
177
nell’adulterio la pienezza della gioia d’amore, e non consente nemmeno, stante l’affermazione
del Magnifico, l’adulterio, come consentiva la società feudale medievale, purché tutelato dalla
segretezza, dall’altra più libero perché consente che nel pubblico si dia spazio anche ad aspetti
del privato, purché però sotto la tutela della discrezione che ingloba la segretezza. La segretezza
medievale, necessaria per la severa punizione della trasgressione della norma, se resa pubblica,
nella società più tollerante del Rinascimento viene sostituita dalla misura della discrezione che
tutela la rispettabilità a tutto campo. La donna in questa società deve avere un comportamento
egualmente rispettabile col marito, con l’amante, col corteggiatore. La rigida separazione
medievale tra privato e pubblico, tra la gioia d’amore consentita nel privato e la severità del
potere dominante nel pubblico, viene meno nel Rinascimento dove si crea un mondo fuso e
confuso in cui il pubblico recupera spazi del privato, dilata da una parte la sua tolleranza, e
dall’altra inibisce la libertà del privato.
Una prova della conflittualità sovramenzionata è data dalle reazioni critiche dei
cortigiani all’ipotesi «anticortese» del Magnifico che per parte sua cercherà di limitarne le
implicazioni negative precisando che la donna di palazzo deve togliere la speranza solo delle
cose disoneste, e il cortigiano, cosí nobile come si auspica, non potrà non apprezzarla.
L’austerità che propone è moderata e funzionale a trovare l’anima gemella, un’unione di due
figure affini d’animo e cultura (C: III, 59). Siamo dunque sempre nell’ambito dell’elevazione
consentita dalla moderazione.
Osserviamo poi che il consenso dato dalla Duchessa al Magnifico mostra un
compromesso tra condivisione delle convenzioni maschiliste e istanza di emancipazione
femminile, rimanda alle ambiguità della reinterpretazione dell’amor cortese e anticipa
quelle del platonismo sull’interdipendenza/ dipendenza del femminile dal maschile, un
rapporto che, sotto un’apparenza di complementarità, ne sottende una permanente
subordinazione.
La Signora Duchessa, interpretando l’orientamento delle donne di palazzo, dà il proprio
autorevole ed esplicito consenso all’argomentazione filogina e moralistica del Magnifico:
[...] invero estimo che la donna di palazzo da lui formata possa star al paragon del Cortegiano, ed
ancor con qualche vantaggio; perché le ha insegnato ad amare, il che non han fatto questi signori al
suo Cortegiano (C: III, 60).
Il potere in vesti femminili si schiera, dunque, a favore delle donne, ma, a nostro parere,
conservando, forse incoscientemente, molte convenzioni di una società ancora fortemente
maschilista. Un merito del Magnifico sarebbe l’aver insegnato alla donna ad amare, e un pregio
del modello di donna di palazzo l’aver ricevuto questo insegnamento, a differenza del modello
di cortigiano, ancora carente di questa formazione. E l’amore nella società cortese-cortigiana é
fattore nobilitante. L’educazione della donna all’amore presupporrebbe, però, una sua
inadeguatezza a nutrirlo in modo spontaneo, o a nutrirlo nelle dovute forme in modo spontaneo,
ma ciò sembra qui supporsi anche per il maschio, perché si lamenta che non sia stato educato in
questo campo, per cui risulta difficile ritenerlo di per sé indice di inferiorità femminile. Potrebbe
invece essere segno probante di quest’ultima l’assegnazione dell’educazione femminile, anche
in campo amoroso, al maschio perché continuerebbe a porre la donna sotto tutela maschile. La
precettistica spicciola dei comportamenti in amore, affidata all’uomo, ribalterebbe poi un
aspetto dell’amor cortese in cui era la donna a suscitare amore e quindi a insegnare ad amare nel
senso più alto, a meno che non si voglia considerare la donna come promotrice di un
innalzamento che avviene però per virtù interiore del maschio, e riconoscere al maschio,
depositario di questa esperienza, il buon diritto alla sua traduzione in precettistica, quando si
dia questa esigenza. Difficile però autorizzare questa puntualizzazione coi testi della
letteratura cortese. Nell’un caso e nell’altro ci troveremmo comunque di fronte a un rigurgito
178
misogino sotto veste filogina, perché il privilegio dell’educazione della donna avviene sotto la
guida e l’egida del maschio. Questa, una possibile interpretazione, suffragata anche
dall’intervento faceto dell’Unico Aretino che coglie questo aspetto sotteso e lo amplifica con la
parodia:249 è ben fatto insegnare alle donne ad amare o meglio a saper scegliere l’amante perché
spesso non lo sanno fare: non ricompensano i fedeli servitori e optano per uomini sciocchi e
vili. Il cortigiano invece sa amare e gli si deve insegnare a farsi amare. Si tratta sempre di un
insegnamento ad amare, ma motivato dal fine di conseguire il successo con le donne, con uno
spostamento dell’interesse dal piano spirituale a quello sensuale, visti i i doppi sensi e le
allusioni continue in tale direzione di codesto interlocutore.
Se la richiesta dell’Aretino troverà una risposta da parte di Emilia Pio sul piano
dell’amor cortese, quella implicita nell’osservazione della duchessa sulla carenza
dell’insegnamento d’amore nella modellizzazione del cortigiano, «il che non han fatto questi
signori al suo cortegiano», sarà soddisfatta da Bembo con l’insegnamento dell’amor platonico al
cortigiano nella parte conclusiva del trattato. Inoltre la stessa lode iperbolica dell’Unico Aretino
alla duchessa sottende già un accenno all’amor platonico: è infatti la divina bellezza di lei,
congiunta alle sue virtù morali, che gli ha insegnato l’amore nella forma dell’adorazione, ossia
di una contemplazione ammirata e riconoscente, non contaminata dalla sessualità. Si potrebbe
dire quindi che il passo nel suo complesso palesi una convivenza, ideologica come pratica, tra le
due modalità d’amore, e suggerisca anche l’intenzione di uno spostamento di valore dall’amor
cortese, peraltro già sublimato, verso l’amor platonico, presentato poi nel trattato come
l’esperienza più alta e sublimante nella formazione del cortigiano.
[...] il che degli omini non è necessario, che pur troppo per sé stessi lo sanno: ed io ne posso
esser bon testimonio; perché lo amare a me non fu mai insegnato, se non dalla divina bellezza e
divinissimi costumi d’una Signora, talmente che nell’arbitrio mio non è stato il non adorarla, nonché
ch’io in ciò abbia avuto bisogno d’arte o maestro alcuno; e credo che ‘l medesimo intervenga a tutti
quelli che amano veramente: però piuttosto si converría insegnar al Cortegiano il farsi amare, che
lo amare.- (C: III, 60)
Le affermazioni del misogino sul fatto che chi ama veramente non ha bisogno di
maestro, gettano inoltre una luce obliqua sul valore dell’insegnamento ad amare offerto alla
donna. Forse che le si insegna ad amare perché lei è incapace di amare veramente, o di amare
nei dovuti modi? Siamo di nuovo di fronte a una donna fredda, crudele, simulatrice, o
lussuriosa, adescatrice, o semplicemente difettosa, incapace, insomma negativamente
connotata? Certo sta parlando un interlocutore misogino, e questa non ci sembra né la posizione
del filogino Magnifico né quella di Castiglione, tanto più che l’insegnamento ad amare è
previsto anche per il cortigiano, seppure in una forma più alta, ma è indizio del sopravvivere
dello stereotipo.
Vorremmo ora tornare all’osservazione iniziale della signora duchessa che, secondo noi,
autorizza anche un’altra interpretazione, non esente tuttavia da ambiguità e fragilità. È possibile
infatti ipotizzare una condivisione totale dell’argomentazione filogina e l’intenzione della
signora Duchessa (e di Castiglione anche se limitatamente al momento in cui se ne fa parola nel
discorso, perché più tardi anche il cortigiano riceverà questa educazione con l’amor platonico)
di rilevare effettivamente una superiorità della donna di palazzo rispetto al cortigiano, se si
valorizza l’educazione ad amare in sé, in chi la recepisce, indipendentemente da chi la attua: la
donna di palazzo è stata educata ad amare, il cortigiano ancora no, anche se le parole
dell’Aretino danno per scontata questa capacità nel cortigiano che dunque non avrebbe bisogno
di educazione, se non nel ruolo di soggetto passivo (non deve essere educato ad amare, ma a
farsi amare). L’amore è la forma più alta di spiritualizzazione, idealizzazione, armonia, e, come
il dialogo, consente il massimo dell’interazione e della complementarità. L’educazione della
249
Ricordiamo che nel contesto della civiltà di corte, ciò che suonerebbe trasgressivo se detto in
forma letterale e seria, diviene accettabile nella forma metaforizzata e coperta della battuta faceta, della
parodia, dell’ironia, e che la battuta dell’Aretino serve a dare voce a un bisogno sottaciuto e costituisce
una mediazione liberatoria, se vogliamo ragionare in termini elementarmente freudiani.
179
donna a questo e il fatto che si parli dell’amor cortese alla fine del terzo libro, prima di
introdurre il tema dell’amore platonico con cui l’opera si conclude, potrebbe essere indice della
volontà di Castiglione di porre l’istanza femminile all’apice di una progressione idealizzante.
D’altra parte, però, l’amor platonico è un’esperienza concessa con sicurezza ai soli cortigiani
per formarli nel massimo grado di perfezione, e, se valorizza la donna come proiezione della
perfezione dell’idea di bellezza e fonte di elevazione per l’uomo, mettendone in rilievo sempre
la funzione verso l’uomo, non esce dal circolo vizioso della interdipendenza/dipendenza
femminile e non consente alla donna di assumere una propria autonomia. Non solo, ma la stessa
donna che con la sua bellezza suscita l’amor platonico deve essere migliorata dall’educazione
impartita dall’uomo ed è lecito ipotizzarla esclusa dall’amor platonico che essa stessa provoca.
L’educazione ad amare, impartita dall’uomo alla donna, e nel terzo libro ancora su un piano di
relazioni cortesi, nel quarto viene sostituita da un’accennata educazione morale-globale, il cui
valido effetto è però lecito mettere in discussione, se serve solo all’uomo, ma non educa la
donna al punto che possa anch’ella condividere l’esperienza dell’amore più elevato. Il circolo
dunque ci sembra virtuoso in maniera solo apparente o parziale, per la permanente ambiguità
filogina-misogina che Castiglione condivide con la stessa radice teorica del neoplatonismo.250
Quanto alla partecipazione della donna di palazzo al dialogo sull’amore si può
osservare che essa vi interviene sì a pieno titolo, perché dell’amore è promotrice ed ha
esperienza diretta, ma interagisce in chiave subordinata e compete con una certa
difficoltà con la dialettica maschile, dando tra l’altro suggerimenti agli uomini e non
alle donne per il supposto principio di reciprocità educativa/virtuosa di genere in questo
settore (ma con le ambiguità già evidenziate). La donna di palazzo vorrebbe e dovrebbe
intervenire sulla base della psicologia femminile a lei nota, ma di fatto ripropone in
pieno l’elaborazione culturale maschile sull’argomento, insomma sostanzialmente non
dice nulla di nuovo e non esprime una sua specifica psicologia, fatta eccezione per
l’insistenza sul buon diritto femminile al servizio d’amore maschile; i cortigiani, invece,
come abbiamo visto, continuano a palesare il potere maschile, dando esplicitamente la
normativa comportamentale legittimata in società (il Magnifico), o suggerendo
allusivamente comportamenti trasgressivi e veterocortesi (l’Aretino), entrambi ad usum
maschile. Tuttavia, anche se non esplicita un pensiero suo proprio sull’argomento, le va
accreditato comunque l’impegno di essersi assunta l’onere della parola diretta in
materia, nonché della propria difesa, e la capacità di riportare ad un piano alto un
argomento che l’Aretino aveva trasportato su un piano basso, tentando di svilire le
donne.
Provocatoriamente l’Aretino chiede alla signora Emilia di illustrare, lei che è donna,
come il cortigiano deve farsi amare, e l’accusa poi di aver usato le sue arti per renderlo odioso, e
la signora Emilia ribatte invitandolo a parlarne lui, visto che il gradimento e favore di cui gode
presso le donne fa ipotizzare che le conosca bene. Si ha qui un esempio interessante di
interazione con motteggio tra cortigiano e donna di palazzo. La domanda dell’Aretino, anche se
provocatoria e connotata da puntate misogine afferenti all’accusa tradizionale di follia
femminile, sottende l’incipiente coscienza che non è data al maschile una piena conoscenza
della psicologia femminile, se questa non viene letta ed esplicitata dalle donne, e suona di
rincalzo alla richiesta di aiuto nella trattazione del tema, che il Magnifico aveva vanamente
rivolto all’inizio alle donne.
250
Quanto ai collegamenti del neoplatonismo con l’amor cortese, ricordiamo che il platonismo
ficiniano si diffonde nell’ultimo trentennio del Quattrocento, periodo in cui Lorenzo il Magnifico
recuperò il dolce stil novo, e, attraverso questo, l’amor cortese, assunto in una linea cristiano-platonica.
180
Allora la signora Emilia, - Or di questo adunque ragionate, disse, signor Unico -. Rispose
l’Unico: - Parmi che la ragion vorrebbe che col servire e compiacer le donne s’acquistasse la lor
grazia; ma quello di che esse si tengon servite e compiacciute, credo che bisogni impararlo dalle
medesime donne, le quali spesso desideran cose tanto strane, che non è omo che le imaginasse, e
talor esse medesime non sanno ciò che si desiderino; perciò è bene che voi, Signora, che sete donna,
e ragionevolmente dovete saper quello che piace alle donne, pigliate questa fatica per far al mondo
una tanta utilità -. Allor disse la signora Emilia:- Lo esser voi gratissimo universalmente alle donne è
bono argumento che sappiate tutti e modi per li quali s’acquista la lor grazia; però è pur conveniente
che voi l’insegnate.-[...] (C: III, 61)
La signora Emilia, nonostante l’iniziale resistenza, non si sottrae tuttavia qui alla
discussione e precisa che chi vuol acquistare grazia ed essere amato dalle donne deve amare ed
essere amabile. Non lei, ma l’Aretino stesso ha reso le donne restie alle sue profferte d’amore,
perché le indirizza a troppe, e può fingere amore verso le une per coprire l’amore vero per altre.
Rispose allor la signora Emilia: - [...] ma io, poiché voi mi stimulate con questo modo a parlare di
quello che piace alle donne, parlerò; e se vi dispiacerà, datene la colpa a voi stesso. Estimo io adunque
che chi ha da essere amato debba amare ed essere amabile e che queste due cose bastino per acquistar
la grazia delle donne. [...] (C: III, 62)
La donna di palazzo, dunque, prende la parola sull’argomento dell’amore, un argomento
di cui ha esperienza e su cui può farsi in parte coadiutrice nell’educazione, però, si badi bene,
non tanto delle donne che vengono educate dall’uomo, ma degli uomini che vogliono essere
amati dalle donne, perché ha conoscenza diretta della psicologia femminile. Da rilevare anche
che entra nella discussione provocata e colpita nel suo amor proprio, quindi sotto la spinta dei
sentimenti e non della ragione. D’altra parte la donna come istitutrice di donne in amore è
assunta solo dalla trattatistica comico-realistica e con una valenza più misogina che filogina,
perché l’istitutrice donna educa a comportamenti immorali. Ne avremo un esempio nella
Raffaella del Piccolomini e nello Specchio d’amore del Gottifredi.
È bene osservare che, in piena sintonia con l’abituale dipendenza femminile dalla
cultura maschile, le affermazioni di principio sostenute o condivise dalla signora Emilia sono
tutte elaborate dalla tradizione culturale maschile: chi vuole essere amato deve amare («Estimo
io adunque, che chi ha da essere amato, debba amare ed essere amabile», C: III, 62); l’amore
comporta l’adeguamento alla volontà dell’altro, lo sforzo di compiacerlo,251 e su questo aspetto
insiste la signora Emilia perché esso, visto da un’ottica femminile, concerne quel servizio
d’amore cui le donne narcisisticamente ambiscono.
[...]se amaste, tutti i desideri vostri sarìano di compiacer la donna amata, e voler quel medesimo
ch’ella vole: ché questa è la legge d’amore; (C: III, 63)
Rispose la signora Emilia: -Quello che comincia ad amare deve ancora cominciare a compiacere
ed accomodarsi totalmente alle voglie della cosa amata e con quelle governar le sue; e far che i
proprii desideri siano servi e che l’anima sua istessa sia come obediente ancella, né pensi mai ad
altro che a transformarsi, se possibil fosse, in quella della cosa amata, e questo reputar per sua
somma felicità; perché così fan quelli che amano veramente – (C: III, 63).
Nella prima, come nella seconda affermazione, si avvertono gli echi danteschi della
giustificazione di Francesca nel canto quinto dell’Inferno dantesco «Amor ch’a nullo amato
amar perdona» (v.103) e del perfetto adeguamento dei beati alla volontà di Dio per l’amore
nutrito nei suoi confronti (Paradiso, Canto III, vv. 70-87), che saranno riproposti nella
251
Il tema cortese della dedizione alla volontà dell’altro ritorna negli Asolani nella parole di
Gismondo laddove indica tra le diverse modalità d’amare la seguente: «Alcuni dall’amorose fiamme più
riscaldati, ogni disvolere levando de’ loro amori, niuna cosa si negano giamai, ma quello che vuole l’uno,
vuole l’altro subitamente con quello medesimo affetto, che esso facea, e in questa guisa due anime
governando con un solo filo, ad ogni possibile diletto fortunosamente si fanno via» (Asolani, L. II, 32)
181
Instituzion morale come comportamenti che fanno da eco a quelli maschili e ridotti nella
Raffaella a pura finzione. Ma qui l’intervento faceto dell’Aretino abbassa la sublimità del
principio riportandolo all’interno del gioco concreto ed erotico dell’amore cortigiano:
- Appunto la mia somma felicità, disse il signor Unico, sarebbe se una voglia sola governasse la
sua e la mia anima.- (C: III, 63)
E l’amore va manifestato, per la signora Emilia, sempre con discrezione, senza
offendere, rispettando l’onore e l’onorabilità (C: III, 64). La sua posizione ricalca quella del
Magnifico che consiglia discrezione e prudenza, per non sortire l’effetto contrario:
ad ogni nobil donna pare sempre di essere poco estimata da chi senza rispetto la ricerca d’amore
prima che l’abbia servita (C: III, 65).
Ma la precettistica minuta è ancora competenza del Magnifico, e qui riemerge al solito
la preminenza maschile.
L’interazione che prevede un insegnamento delle donne per gli uomini e degli uomini
per le donne potrebbe anche suggerire una complementarità e scambio/osmosi di ruoli e
funzioni che si dà di fatto, ma parzialmente, nel Cortegiano, e con la donna comunque in
funzione subordinata. Pensiamo all’attività di «intertenimento» obbligatoria sia per il cortigiano
che per la donna di palazzo, alla femminilizzazione dell’uomo, agli spazi pubblici conquistati
dalla donna e ai limiti di tutto questo che non intendiamo qui ripetere. E anche all’amore come
forma di perfezionamento reciproco, con tutte le ambiguità sopra rilevate. Inoltre
l’insegnamento delle donne agli uomini, se si mantiene nelle parole di Emilia a un livello
virtuoso cortese, viene abbassato di grado dai termini della richiesta dell’Aretino, concernenti di
fatto l’amore sensuale. Si scontrano insomma qui un punto di vista alto femminile e un punto di
vista basso maschile, cosa che non succederà per l’amor platonico dove il livello è
costantemente alto, anche in relazione al femminile, ma tutto per voce e punto di vista maschile,
finché non si apre il dubbio sulla capacità del femminile di nutrire l’amor platonico. Ci troviamo
ancora dunque nel labirinto delle ambiguità.
Prima di passare alla disamina della precettistica minuta vorremmo ricordare un
momento precedente di partecipazione della signora Emilia al dialogo. Anche lì alla battuta del
signor Gasparo sui tratti utopistici della donna di palazzo, la signora Emilia aveva risposto
accettando la sfida e tacciando implicitamente il modello del cortigiano dei medesimi tratti
utopistici.
Avendo infin qui detto il signor Magnifico, taceasi; quando il signor Gasparo ridendo, Or, disse,
non potrete già dolervi che ’l signor Magnifico non abbia formato la Donna di Palazzo
eccellentissima; e da mo, se una tal se ne trova, io dico ben che ella merita esser estimata eguale al
Cortegiano.- Rispose la signora Emilia: Io m’obligo trovarla sempre che voi trovarete il Cortegiano.
– (C: III, 58)
Ci troviamo dunque di fronte a una donna di palazzo che ripetutamente prende
posizione a favore delle donne e che accetta la sfida maschile, cimentandosi qui nella
produzione di ragionamenti, seppur limitati e circoscritti al solo ambito amoroso, in cui può
aver voce in quanto ha esperienza diretta e, si presume, anche letteraria. Ed è l’unico esempio
questo in cui le donne argomentano, per quanto in misura modesta e convenzionale, e
insegnano, seppur dietro provocazione, a un pubblico maschile che, in modo sincero (il
Magnifico) o simulato (l’Aretino), riconosce la propria inesperienza della psicologia femminile,
e che, se ancora legato a un pregiudizio maschilista, tenta di manipolarne le affermazioni con
interpretazioni a doppio senso, ovvero con un apparente accordo che sottende un concetto
diverso in consonanza con l’ideologia e il carattere dell’interlocutore. Il «ragionamento»,
assunto dalla donna, rivela, quindi, una volontà di emancipazione, ma anche tutte le difficoltà di
un’acculturazione limitata e della competizione con l’eventuale ostilità dialettica degli uomini.
E in ultima analisi, ancora una volta, i limiti della filoginia di Castiglione.
182
L’uomo, come abbiamo preannunciato, è al solito ancora l’educatore e il
normatore, dà minuti precetti sul modo di rendere noto l’amore con sguardi e gesti, e di
conservare il favore della donna, pretendendo segretezza, discrezione, dignità
complessiva di comportamento, e il massimo rispetto dell’onore della donna. La
segretezza protegge l’onore e l’amore e può conciliare l’uno con l’altro nell’effetto di
buona fama, consentendo magari di derogare al primo nella sostanza. Ma quest’ultima è
una nostra illazione, legata alla tradizione cortese, e non giustificata da una posizione
esplicita in questo senso nel dialogo.
Secondo il Magnifico, l’amore va reso noto alla donna prima coi modi che con le
parole. Messaggeri del cuore sono soprattutto gli occhi. Ma attenti a guardare da innamorati
l’amata solo quando altri non possano vedere e interpretare quello sguardo rivelatore e
pubblicizzare poi quell’amore! Di nuovo dunque il richiamo assillante alla segretezza e
prudenza. Viene sottolineata come nella tradizione (Aristotele, Ovidio, Properzio, «oculi sunt in
amore duces», Elegie, L.II, XV, 12; Dante, «Per più fiate gli occhi ci sospinse», Inferno V,
v.130; Marsilio Ficino) l’importanza dello sguardo come veicolo del cuore e dell’amore con in
più un tratto specifico di bellezza rinascimentale:
Però ben dir si po che gli occhi siano guida in amore, massimamente se sono graziosi e soavi;
neri di quella chiara e dolce nerezza, ovvero azzurri; allegri e ridenti e cosí grati e penetranti nel
mirar, come alcuni, nei quali par che quelle vie che danno esito ai spiriti siano tanto profonde, che
per esse si vegga insino al cuore (C: III, 66).
Si evidenzia anche la centralità dei gesti d’amore (sospiri, sguardi, timori),
mantenendosi in un’atmosfera alta e senza scendere ai particolari minuti e cifrati, ai gesti
opportunistici convenzionali di cui si parlerà nello Specchio d’amore. L’opportunità della
prudenza e segretezza nel rapporto d’amore, della dissimulazione del sentimento d’amore, resta
assodata, anche se il conte Ludovico rileva che a volte la fama giova, perché si pensa che non ci
sia nulla di illecito da nascondere, quando non si tenta di nascondere, e perché a volte una donna
può innamorarsi di uno per la fama dell’amore che questi le porta (C. III, 67). Messer Bernardo
poi, per la difesa della segretezza, addita alcuni accorgimenti per una comunicazione segreta
anche all’interno di un dialogo in pubblico: ad es. l’uso della voce alta o della voce bassa (C:
III, 68). Un momento questo che si può definire di pignoleria precettistica. Del resto il dialogo
impostato più sulla costruzione del modello che sull’elencazione dei precetti, quando arriva a
questi, finisce con l’esaurirsi.
L’argomento trova tuttavia ancora un ramo in cui svilupparsi, quello del modo per
conservare il favore della donna. Servono a mantenere il favore della donna gli stessi strumenti
funzionali ad acquistarlo, e quindi il compiacerla «senza offenderla mai», la segretezza e la
discrezione. Da evitarsi la soverchia passione e dimostrazione di passione e l’eccesso della
gelosia che spesso provoca un avvicinamento della donna al rivale. Ancora dunque le doti del
senso della misura e dell’intuito psicologico (C: III, 69). Da evitare anche le malignità gratuite
sui rivali, la simulazione dell’amicizia col rivale per danneggiarlo, o la svalutazione di sé, per la
dignità etica che contraddistingue il modello del cortigiano, e da perseguire al contrario i
comportamenti virtuosi a più riprese caldeggiati: amare, servire, essere virtuosi, discreti e
modesti:
[...] ma perché a me non piaceria mai che ‘l nostro Cortegiano usasse inganno alcuno, vorrei che
levasse la grazia dell’amica al suo rivale non con altra arte che con l’amare, col servire e con l’essere
virtuoso, valente, discreto e modesto; in somma col meritar più di lui e con l’esser in ogni cosa
avvertito e prudente, guardandosi da alcune sciocchezze inette nelle quali spesso incorrono molti
ignoranti, e per diverse vie; (C: III, 70).
183
Va rispettato inoltre il galateo amoroso e l’amante non deve fare brutte figure con
l’amata (C: III, 71). Aiuta la segretezza l’avere un amico a cui confidarsi e che possa fungere da
intermediario (C: III, 73). Qui si tratta ancora di un amico vero. Altrove, come nella Raffaella e
nello Specchio d’amore il confidente-intermediario sarà abbassato al livello di mezzano, o
meglio di mezzana.
Che tanto spazio sia dato alla precettistica d’amore non stupisce in un ambiente come
quello della corte, dove la donna di palazzo deve vivacizzare con la sua presenza le relazioni e
portare una componente piacevole e stimolante, sempre nel rispetto del lecito sociale
(L’erotismo c’è, ma a parole lo si nega o lo si tace). Di qui lo slittamento da aspetti ideali, quali
l’adeguamento della volontà dell’amante a quella dell’amato, ad attenzioni sociali, quali la
conservazione della segretezza e dell’onorabilità, a minuzie di galateo o di tattica.
L’ilarità, l’atmosfera scherzosa con cui si conclude il dialogo, l’invito faceto dello
stesso Magnifico a seguire gli ammaestramenti di Ovidio (C: III, 72), quasi in una palinodia di
un amore spregiudicato e non morigerato quale quello di cui ha tracciato il modello, presentano
il clima della corte e l’impostazione anche accademica delle discussioni, un rito più che una
passione, un cimento razionale più che un cimento passionale.
L’insistenza sulla segretezza si motiva con la difesa dell’onore delle donne e con il
perbenismo di facciata di questa società ritualizzata. Come sul vincolo della castità così su
quello della segretezza, si insiste molto, proprio perché la stessa assegnazione di un ruolo
pubblico alla donna pretende rassicurazioni in merito per la componente maschile, pena la
negazione di questa concessione e della stessa vita di corte, e, presumiamo, anche perché
un’eventuale trasgressione che rimanesse segreta, poteva non nuocere né ai diretti interessati né
alla società, anche se con questo non vogliamo arrivare alla tesi sostenuta dalla protagonista
mezzana della Raffaella che un adulterio rimasto segreto non vada nemmeno considerato tale.
Certamente il fatto che la donna debba evitare non solo il disonore, ma anche il sospetto del
disonore, la impegna più che mai, lei e il suo amante, alla segretezza. E autorizza il dubbio (o
l’astuzia) che la tutela della buona fama possa essere di per sé e autonomamente più importante
dell’atto che ne sta alla radice, sia esso rispettoso o no delle norme etiche. La segretezza che
impegna entrambi gli amanti, e che è chiamata a tutelare soprattutto la donna, perché all’uomo,
e lo si dice esplicitamente nel Cortegiano, in questo campo sono concesse maggiori libertà,252 è
minata secondo il misogino, signor Gasparo, paradossalmente proprio dalle donne, per la loro
ambizione congiunta a pazzia e crudeltà. Le donne vogliono essere amate da tutti e tengono gli
amanti sempre sulla corda; si divertono ad ingelosire e a seminar zizzania; fingono di non
sentirsi abbastanza amate. Poi, quando l’amante sta per distaccarsi, lo cercano e lo
compiacciono, cadono cosí in pubblico disonore per l’amore già oggetto di pettegolezzi, non
fanno cosa veramente gradita all’amante e non ne ricevono gratitudine (C: III, 74 e 75).
L’uomo si è arrogato una libertà di comportamenti in campo sessuale che ha negato alla donna,
attenuando la sanzione sociale sui propri e aggravandola invece nei confronti della donna: «Ma ditemi per
qual causa non s’è ordinato che negli omini così sia vituperosa cosa la vita dissoluta come nelle donne,
atteso che se essi sono da natura più virtuosi e di maggior valore, più facilmente ancora poriano
mantenersi in questa virtù della continenzia e i figlioli né più né meno saríano certi; ché sebben le donne
fussero lascive, purché gli omini fussero continenti e non consentissero alla lascivia delle donne, esse da
sé a sé e senza altro aiuto già non porían generare. Ma se volete dir il vero, voi ancor conoscete che noi di
nostra autorità ci avemo vendicato una licenzia, per la quale volemo che i medesimi peccati in noi siano
leggerissimi e talor meritino laude, e nelle donne non possano abbastanza esser castigati se non con
vituperosa morte, o almen perpetua infamia» (C: III, 38). L’onore femminile è infatti più socialmente
condizionato di quello maschile, per cui la donna deve adottare particolari cautele per la consapevolezza
della più grave riprovazione sociale che pesa sul suo sesso: «né altro dir saprei, se non che la donna sia
ben cauta, e sempre abbia a memoria, che con molto minor periculo possono gli omini mostrar d’amare
che le donne» (C: III, 53). E inoltre non solo non macchiarsi di colpa, ma anche evitarne il sospetto:
«Deve ancor esser più circunspetta, ed aver più riguardo di non dar occasion che di sé si dica male, e far
di modo che non solamente non sia macchiata di colpa, ma né anco di sospizione, perché la donna non ha
tante vie di difendersi dalle false calunnie, come ha l’omo» (C: III, 4).
184
Ricordiamo che la segretezza dell’amore era già un vincolo cortese e che Dante stesso aveva
fatto uso della donna dello schermo, per non fare identificare la donna veramente oggetto del
suo amore. Essa era insieme una forma di rispetto e di difesa, nonché di enfatizzazione
dell’amore nel solipsismo interiore che la segretezza determinava. La partecipazione alla vita
pubblica rende però più precaria la segretezza e necessari accorgimenti tattici di simulazione per
difenderla, col rischio anche di generare equivoci tra amante e amata, come era successo al
Dante protagonista della Vita nova. Questo si evince dalla denuncia delle tecniche di
mascheramento dell’Aretino, fatta dalla signora Emilia:
[…] ma questi vostri continui lamenti, ed accusare in quelle donne che avete servite la
ingratitudine, la qual non è verisimile, atteso tanti vostri meriti, è una certa sorte di segretezza, per
nasconder le grazie, i contenti e piaceri da voi conseguiti in amore, ed assicurare quelle donne che
v’amano e che vi si son date in preda, che non le pubblichiate; e però esse ancora si contentano che
voi così apertamente con altre mostriate amori falsi per coprire i lor veri: onde se quelle donne, che
voi ora mostrate d’amare, non son così facili a crederlo come vorreste, interviene perché questa
vostra arte in amore comincia ad essere conosciuta, non perch’io vi faccia odiare- ( C: III, 62)
Certo la segretezza era un vincolo non facile da rispettare in una società in cui era
importante la visibilità, il mostrarsi, e la cortesia d’amore costituiva un importante e frizzante e
intrigante aspetto della vita di relazione; era comunque una delle tante norme o modalità da
seguire per l’accettazione sociale, così come la dissimulazione e la simulazione, strumenti da
utilizzare a tutto campo, e quindi anche in funzione della segretezza. Un vincolo, ci sentiamo di
dirlo, che da condizionamento ulteriore della libertà sessuale femminile, come probabilmente
era nelle intenzioni di Castiglione, poteva finire col costituirne un supporto, fornirne una difesa;
in questo senso la segretezza avrebbe costituito una sopravvivenza dell’etica cortese, una
copertura per la pratica dell’adulterio, nonostante la sua giustificazione teorica fosse stata
scalzata dalla coniugazione tra amore e matrimonio. Ci troveremmo allora di fronte al paradosso
che l’eccesso di limitazioni ne favorirebbe la pratica trasgressiva: il dover evitare perfino il
sospetto, può facilmente slittare nel dover evitare solo il sospetto. E non per niente Piccolomini
anche in questo, con la sua parodia, lumeggia un pericolo insito nell’archetipo parodiato, anche
se non possiamo credere che queste fossero le intenzioni di Castiglione, tanto morigerato in
apparenza e preoccupato probabilmente della segretezza anche di un amore casto, per non
favorire il sospetto di colpa.
10.12.2. L’amor platonico.
Il collegamento all’amor cortese e le persistenti ambiguità nella relazione virtuosa fra uomo e donna.
La sua funzionalità al più alto compito della cortigianía. La funzione sublimante della castità. La
dottrina neoplatonica: confronti col Ficino e col Bembo. Tra idealizzazione e velati compromessi.
La trasformazione dell’amor cortese in senso sessuofobico e la sua
legittimazione nell’istituzione matrimoniale o in una comunanza di sentimenti aliena da
accoppiamento carnale trova il suo naturale prosieguo nell’amor platonico che
spiritualizza completamente l’amore, anzi fa della bellezza della donna e quindi della
donna stessa un veicolo per giungere alla contemplazione divina, togliendole la sua
valenza di fine e quindi destituendola in parte di importanza. La concezione strumentale
della donna come organo dell’uomo, funzionale al suo piacere e benessere, permane, ma
il piacere, da erotico che era nell’amor cortese, sublimato poi nella reinterpretazione di
Castiglione, si caratterizza ancor di più in senso spirituale, nasce dalla contemplazione
della bellezza e si produce, al culmine dell’ascesi spirituale, nella forma dell’estasi
mistica.
Come già abbiamo anticipato, esso presenta al pari dell’amor cortese ambiguità
nella relazione ambivalente e reciprocamente attiva e passiva della donna e dell’uomo:
la donna eleva, ma è educata dall’uomo o a comportamenti socialmente accreditati o
185
alla morale in generale. La donna bella che veicola l’amor platonico, perfezionata
dall’uomo sua guida, lo perfeziona. Ma la sua perfezione e la sua capacità di
perfezionare e l’ulteriore perfezionamento operato su di lei dall’uomo non la rendono
degna di provare questa sublimante esperienza (è l’ipotesi più probabile, sebbene nel
dialogo a questo interrogativo non si dia risposta: su di esso si interrompono i
ragionamenti riportati, non sappiamo fino a che punto con un’astuzia da parte di
Castiglione, evidentemente non intenzionato a compromettersi con una risposta).
All’uomo invece è sufficiente la contemplazione della sua bellezza per elevarsi. E
questa esperienza perfezionante è riservata al cortigiano di tutte le età, e in particolare a
quello maturo e ‘vecchio’, mentre la qualità di veicolo sublimante per la donna, grazie
alla bellezza, le pertiene solo nell’età giovanile. Un’altra distinzione a tutto danno della
donna sulla quale ci siamo già soffermati. E ancora un’altra aporìa: la donna bella,
proiezione del divino, e in quanto tale, in qualche modo partecipe, ne è, come abbiamo
detto esclusa, anzi la sua stessa bellezza potrebbe allontanare da quella divina, se
assunta come fine.
Non solo. Per quanto si consideri neoplatonicamente la bellezza esteriore come
proiezione della bellezza interiore, questo aspetto sfugge poi perché si chiede all’uomo
l’educazione della donna bella alla virtù. Segno che l’eticità di fatto è affidata alla
normativa sociale, e non a fattori naturali. Non per niente a tanta bellezza femminile
Castiglione non fa che reiterare l’invito obbligante all’onestà-castità, pena
l’emarginazione sociale.
Significativamente la trattazione dell’amor platonico non segue quella dell’amor
cortese, che è inserita nel libro terzo concernente la modellizzazione della donna di
palazzo, ma conclude il quarto libro dopo la trattazione del tema politico, e del ruolo di
pedagogo–consigliere del principe del cortigiano. Esso è rivolto di fatto non tanto ad
avvalorare la donna, ma l’uomo, il cortigiano, consentendogli quella elevazione
spirituale che ne garantisce l’eticità e quindi il ruolo di educatore e consigliere virtuoso
del principe. Dell’amor cortese insomma si parla in rapporto alla donna di palazzo per il
ruolo che ha nella vita di relazione di corte e per normarlo in un senso moralizzatore,
dell’amor platonico in rapporto soprattutto al rafforzamento della funzione illuminante
del cortigiano, e illuminante proprio in quanto ulteriormente illuminata dall’incontro
mistico con il divino. La donna vi è anche qui, e si presume concretamente la donna di
palazzo con cui il cortigiano è a contatto, ma vi appare quasi come un’astrazione, una
concretezza che veicola un’idea e che finisce con l’esserne assorbita. Non però del tutto,
perchè saranno definiti i sensi percettori, base concreta per il passaggio alla astrazione
razionale e alla passione mistica, e sarà consentito anche uno scambio diretto, un
contatto di sensi, che vuole essere una spiritualizzazione dei sensi stessi: l’osmosi tattile
e sensuale dei baci sarà propagandata come, ovvero spacciata per, un congiungimento
spirituale di anime.
Inoltre, se di sfuggita si dice che soggetto di bellezza può essere anche l’uomo, il
che indurrebbe a pensare che, in un costume eterosessuale, la bellezza maschile potesse
promuovere l’amor platonico femminile, non si tratta che di un timido accenno, mentre
ha molto maggior spazio la battuta del misogino che ritiene che le donne-materia non
possano giungere a tanto. E la battuta conclusiva di Emilia, che propone l’eventuale
condanna del misogino, dopo la trattazione dell’argomento da parte di un interlocutore
filogino, è sì il segno che le donne ambiscono a essere parificate al maschio, ma al
solito devono aspettare un cavaliere che ne prenda le difese. Nella trattazione di questo
assunto, squisitamente filosofico, mancano ancora di una autonomia del ragionamento.
Come per l’assunto politico, così per il tema platonico, le donne seguono con
attenzione, la duchessa dà l’incarico, le battute di Emilia sono di riflesso ad alcune
186
battute misogine, ma le donne non entrano nel merito della questione. Il comportamento
silente delle donne nella diegesi sottolinea il ‘silenzio’ teorico sulle donne o il
‘semisilenzio’ ravvisabile nell’assegnazione a loro di un ruolo secondario.
Di tale concezione subalterna è segno, come già osservato, anche l’affermazione
che la donna bella va perfezionata nella virtù dall’uomo, è come un giardino che deve
essere curato, per cui si assiste alla contraddizione che vuole che la donna che,
nell’amor platonico, spinge, anche incoscientemente e casualmente, alla virtù, abbia
bisogno di essere resa virtuosa, e che l’uomo che va spinto alla virtù dalla donna, la
renda a sua volta virtuosa. Anche se Castiglione cerca di risolvere la questione con una
virtuosa reciprocità, ci sembra molto chiara la difficoltà incontrata dall’autore nel dare
alla tesi una veste logica coerente e condivisibile.
Conviene ora un breve excursus sull’intervento di Bembo, con un impianto
teorico che ricalca la teoria esposta dallo stesso negli Asolani richiamandosi alla
elaborazione filosofica ficiniana.
Innanzitutto il riconoscimento del pieno titolo del cortigiano vecchio a questo amore
chiarisce le ragioni della trattazione dopo quella del tema politico, a favore cioè della piena
legittimazione della funzione di guida del principe assegnata al cortigiano, e ne sottolinea il
carattere contemplativo. Nell’ambito neoplatonico, preparatore col suo puritanesimo della stessa
Controriforma, se da una parte si valorizza la bellezza esteriore come proiezione della interiore,
dall’altra il corpo e il piacere del corpo vengono svalutati e tutto si rapporta al piacere
dell’anima e della contemplazione dell’idea e bellezza divina. Come già abbiamo ricordato,
Castiglione, per bocca del Magnifico, toglie all’amor cortese il diritto all’adulterio. L’amor
cortese si restringe nell’ambito matrimoniale se deve comportare anche il rapporto carnale,
altrimenti non può che essere comunione di sguardi e di anime. Lo sforzo di contenere la
sensualità si vede anche nella trattazione dell’amor platonico, non solo nella svalutazione
dell’amore volgare e sensuale, proprio dei giovani, ma anche nella valorizzazione
dell’interazione incorporea dei sensi della vista e dell’udito, e della sublimazione del tatto nel
solo bacio deprivato dell’aspetto sensuale e considerato unione di anime perché la bocca è il
veicolo della parola e quindi dell’interiorità e dell’anima. Se l’elevazione intellettuale e
spirituale si associa per antica tradizione alla castità, la ‘dismissione’ del corpo presenta tuttavia
delle resistenze: dalla valorizzazione della bellezza che è innanzitutto fisica e concreta, e che è
apprezzabile perché significa l’idea della bellezza, sebbene rischi di menomarla e di sviare da
questa, all’invito rivolto all’amante platonico a non amare la bellezza dell’animo meno di quella
del corpo, il che comporta un riconoscimento anche del valore del corpo, ai baci platonici,
spirituali sì, spacciati per tali, ma fino a che punto?
La dissertazione di Bembo, dopo l’investitura da parte della duchessa ribadita come al
solito da Emilia Pio, si presenta come un continuum interrotto solo da qualche intervento faceto
a tutela della linea cortese-sensuale. Essa ne illumina i presupposti filosofici, richiamandosi
esplicitamente agli Asolani,253 con la menzione dell’«Eremita del mio Lavinello» (C: IV, 50), il
253
Gli Asolani, composti probabilmente fra il 1497 e il 1502, dopo un’ultima revisione tra il 1503 e
il 1504, comparvero a stampa nel 1505. Dionisotti, nella sua introduzione alle opere di Bembo, dopo
averne presentato la struttura (un dialogo tra tre giovani e tre donne dell’alta società veneziana che si
immagina tenuto ad Asolo durante una festa di corte, nell’arco di tre giornate, e articolato in tre libri in
cui si intersecano prose e rime petrarchesche: nel primo Perottino, amante infelice, critica l’amore, nel
secondo Gismondo, amante felice, lo elogia, nel terzo Lavinello e l’eremita espongono le dottrine
neoplatoniche e mistiche) inserisce l’opera nel filone realistico, sia per la scena che per il taglio
drammatico di confronto di esperienze piuttosto che di dottrine, anche se essa recupera nella
contrapposizione dei due amanti sull’amore e nella valorizzazione dell’amor platonico le posizioni
intellettuali dell’epoca: da una parte la polemica umanistica contro l’amore, supportata dalla morale sia
pagana che cristiana, di cui è esemplare il Dialogus contra amores di Platina, dall’altra la rilegittimazione
dell’amore operata dal neoplatonismo fiorentino. E vi rileva una prevalenza del taglio retorico
sull’interesse filosofico. «Non si esclude che in ultimo la disperazione di Perottino e l’euforia di
187
Gismondo possano riuscire temperate dalle superiori dottrine neoplatoniche e mistiche del terzo giovane,
Lavinello, e dell’eremita, ma che così avvenga non è detto. Evidentemente c’è un graduale processo
ascendente dall’amore disperato a quello sensualmente felice per la donna stessa, finalmente al perfetto e
inesauribile amore di Dio, e, in Dio, della natura e dell’arte. Ma sono gradi di una realtà che li comprende
e mostra tutti insieme, la realtà della vita in cui non mancheranno mai i «perottiani amanti» né i loro
antagonisti, tutti presi dal piacere, né i pochi abili a poggiare più in alto. Benché ci siano dall’uno all’altro
libro richiami polemici e insomma ci sia una progressiva eliminazione degli eccessi e degli errori,
l’interesse prevalente non è per la ricerca della verità. Anche a prima vista e da un calcolo materiale, il
terzo libro risulta più esile dei primi due, e al tempo stesso, spezzato come è in due parti, più intricato e
impacciato nello sforzo di concludere. E, come già si è detto, una vera e propria conclusione non c’è»
(Pietro Bembo, Prose e rime di Pietro Bembo, a cura di Carlo Dionisotti, cit., pp. 22-23). Il critico
aggiunge anche interessanti note di confronto con Cicerone, in merito alla operazione culturale fatta, di
veicolare cioè la filosofia verso la retorica e la poesia, in tempi di stasi o di condizionamento della ricerca
filosofica, oltre che di qualificare tale operazione con una connotazione nazionale che ne promuovesse
l’operatività: «Gli Asolani sono opera di un poeta e di un retore, non di un filosofo. Nella struttura
dell’opera, il poeta si riserva le pause distensive e decorative, il retore prevale. Il titolo, Asolani, richiama
subito alle Tuscolanae di Cicerone: annuncia quel che di fatto segue, un esperimento in lingua volgare di
dialogo ciceroniano con le stesse riserve eclettiche, con la stessa retorica disponibilità a esprimere
successivamente e con pari efficacia dottrine discordanti. Ed è ripetuto, nell’uso della lingua volgare,
piuttosto che del latino, lo stesso puntiglio animoso, che Cicerone nei suoi dialoghi e trattati aveva
dimostrato usando il latino là dove era di regola il greco. E come la passione filosofica di Cicerone non
toglieva che in lui e nell’età sua la filosofia non fosse più in grado di procedere in Roma oltre i termini
raggiunti dal pensiero greco e però si risolvesse in altro, in poesia e in oratoria, così e a maggior ragione il
dilettantismo filosofico del Bembo appare sintomatico di quel repentino venir meno, sulla fine del
Quattrocento in Italia, dell’avventura filosofica che col Ficino e col Pico era giunta al limite di una grande
rivoluzione religiosa e su quel limite si era arrestata indecisa. Ora una rivoluzione d’altro genere era in
corso con l’intervento prepotente in Italia di armi straniere, e la cultura italiana non era disposta a giocare
sul terreno della forza le sue carte vitali: era indotta a reprimere i pericolosi fermenti di riforma filosofica
e religiosa che essa portava in sé e a cercare piuttosto il suo scampo e la vittoria in uno sforzo unitario di
persuasione e disciplina e misura, nel discorso retorico e poetico. Perché questo discorso nelle circostanze
valesse, non a evadere dalla realtà nella internazionale palestra della tradizione latina, ma a modificare la
realtà dei rapporti fra società e cultura in Italia, bisognava che fosse italiano, che si sviluppasse nel solco
di una tradizione soltanto italiana » (Ivi, pp. 23-24). Dionisotti richiama anche la polemica del 1512-13
col platonico Pico della Mirandola in relazione all’amore e alle regole retoriche della scrittura, rilevando
l’allontanamento del Bembo maturo dal neoplatonismo e il suo riflusso su posizioni aristoteliche: «Il
Pico, filosofo, puntava sull’invenzione, sull’atto creativo dell’individuo che procede solo a specchio
dell’idea […] Il Bembo, letterato, puntava sulla elocuzione, sulla scelta linguistica e stilistica che è essa il
compito proprio dell’artista […]. Di fronte alla tesi platonica del Pico, il Bembo non aveva difficoltà a
concedere che in Dio, come di tutte le altre virtù umane, così ci fosse la perfetta idea del bello scrivere, e
che a questa idea si dovesse avere l’occhio scrivendo, quanto era possibile all’uomo intravederla; ma
concesso ciò, francamente confessava che, quanto a sé, l’idea del bello scrivere che egli portava in sé
stesso non era innata, era il frutto, gradualmente maturato in molti anni, della sua educazione letteraria,
della lettura e studio degli antichi. Se in giovinezza il Bembo aveva, come è probabile, partecipato
dell’entusiasmo di molti per le dottrine neoplatoniche, è certo che sul mezzo del cammino della vita,
contrariamente alla immagine di lui rimasta nel Cortegiano del Castiglione, egli si era ritratto sulle
posizioni aristoteliche e scolastiche della tabula rasa su cui lentamente con tenace sforzo si compone e
ordina l’esperienza e la dottrina umana. La polemica col platonico Pico era giunta a buon punto per
segnare apertamente il suo distacco. Ma la questione non era filosofica per il Bembo, era letteraria […]»
(Ivi, pp. 37-38). Chiarito il percorso filosofico e retorico di Bembo, tramite i rilievi di Dionisotti, ci
sembra opportuno soffermarci su una frase del critico, quella che sottolinea il passaggio all’aristotelismo
di Bembo, «contrariamente alla immagine di lui rimasta nel Cortegiano del Castiglione» (s’intende nei
medesimi anni del mutamento ideologico), che evidentemente nel presentarlo si è ispirato a quella data di
sé dallo stesso Bembo negli Asolani. L’immagine di un intellettuale derivatagli da quella di autore
implicito di una sua opera famosa è, dunque, più forte di quella fornita da dati biografici oggettivi. E il
ritratto ideologico, apparentemente conforme, che ne fa un altro intellettuale in un’opera ancor più famosa
(quello del cortigiano Bembo chiamato a sviluppare il tema dell’amor platonico nei ragionamenti riportati
nel Cortegiano) contribuisce ulteriormente a connotarlo presso i lettori nella forma autorizzata dalla sua
propria opera, ancorché plasmata secondo l’immaginario di quest’ultimo. Sul percorso ideologico di
Bembo, attestato dalla biografia critica, prevale quindi per il lettore ‘ingenuo’ il connotato di un Bembo
188
personaggio esperto di amor platonico del suo dialogo. Vedremo come nei dialoghi
rinascimentali sia frequente presentare come interlocutori che relazionano su un tema
intellettuali famosi per averne trattato. Questo farà anche Modio con Piccolomini, facendone
l’interlocutore più prestigioso sul tema del matrimonio.
I punti toccati da Bembo sono: la superiorità della conoscenza intellettivacontemplativa, la bellezza intesa come forma della bontà, la perfezione del cerchio, la relazione
tra macrocosmo e microcosmo, la bellezza dell’anima come causa della bellezza del corpo; la
bellezza corporea come oggetto insieme di valorizzazione e svalutazione perché da una parte
suggerisce, dall’altra menoma l’idea della bellezza; vista e udito in quanto sensi deputati alla
percezione della bellezza, ma anche il tatto nel bacio autorizzato come unione spirituale; la
celebrazione d’Amore considerato supremo vincolo del mondo e componente della Trinità
neoplatonica (Nelle note evidenzieremo concordanze e differenze con la trattazione che Bembo
ne fa negli Asolani oltre che fare richiami a Ficino).
Amore è definito come desiderio di fruire della bellezza, e, poiché si desiderano solo
le cose conosciute, la conoscenza deve precedere il desiderio e guidarlo. Nell’anima umana ci
corifeo del neoplatonismo. E a Castiglione molto si deve in questo senso, perché la dottrina neoplatonica
esposta per bocca di Bembo nel Cortegiano, sembra quasi da ascriversi tutta all’autore degli Asolani,
mentre l’impronta peculiare che ha è quella di Castiglione. Infatti il discorso di Bembo, personaggio del
Cortegiano si distingue da quello di Bembo, autore degli Asolani, per un’impostazione molto più sintetica
e tesa, incentrata significativamente sulla bellezza, e senza le spie del pensiero ascetico medievale (non
per niente il Bembo maturo rifluirà verso l’aristotelismo). È significativo in questo senso che chi sostiene
la tesi dell’amor platonico nel Cortegiano sia Bembo come personaggio cortigiano, chi la sostiene negli
Asolani sia invece soprattutto l’eremita che corregge in senso più alto lo stesso orientamento platonico di
Lavinello.
254
Tale definizione riflette perfettamente quella ficiniana (Cap. IV della Prima Oratio del In
convivium Platonis de Amore Commentarium [1469]) e bembesca (L. III, cap. 6 degli Asolani dove
Lavinello dice: «nulla altro essere il buon amore, che di bellezza disio»). L’osservazione si ritrova nelle
note al testo dell’edizione del Cortegiano curata da Cian (Vittorio Cian, Il Cortegiano del conte Baldesar
Castiglione annotato e illustrato da Vittorio Cian, cit.) che conduce un’attenta disamina sulle fonti
ficiniane e bembesche della trattazione del tema neoplatonico nel Cortegiano, ampliandola con raccordi
diretti a Platone e alle opere contemporanee sull’amore, note a Castiglione, di Francesco Cattani da
Diacceto [1466-1522], I tre libri d’amore di Messer Francesco Cattani da Diaceto filosofo e gentiluomo
fiorentino, con un panegirico dell’amore, e di Mario Equicola [1470-1525?], Di natura d’amore. Cian,
esplicitamente, così annota relativamente alle fonti di Castiglione: «La maggior parte di questo discorso
del Bembo sull’amore è tratta dal Convivio e dal Fedro di Platone e dai commenti di Marsilio Ficino,
nonché dai Tre libri d’amore del platonico Francesco Cattani da Diacceto e dagli Asolani coi quali ha in
comune le fonti» (Vittorio Cian, Il Cortegiano del conte Baldesar Castiglione annotato e illustrato da
Vittorio Cian, cit. p. 471 , LI, 2, Nota 2 a C: IV, 51). Ulteriori raccordi con Gli Asolani riguardano la
definizione della bellezza e i tre modi di conoscere (Asolani, L. III, 6); la rassegna degli affanni d’amore
(l’invettiva contro Amore di Perottino nel Libro I, 21, 35); la rappresentazione del corpo come prigione
dell’anima e l’inganno dei sensi, nonché il biasimo dei vecchi che pretendano ancora il piacere del sesso
(L. III, 16); inoltre la celebrazione della perfezione del macrocosmo (per bocca dell’ Eremita nel libro III,
19) e quella conclusiva dell’amore divino. Frequentissimi poi i riscontri col pensiero ficiniano, tra cui
citiamo: la definizione della bellezza, «pulchritudo est splendor divinae bonitatis et Deus est centrum
quatuor circulorum» (cap. III del cit. Commentarium (Secunda Oratio); l’indicazione dei mali dell’amor
volgare (Ivi, Cap. IV e VII, Septima Oratio, e Cap. VI, Oratio Secunda); la considerazione della bellezza
del corpo come effetto della bellezza dell’anima, «In his omnibus interna perfectio producit externam»
(Ivi, Cap. I, Oratio quinta, unitamente ad osservazioni contenute nel Commento di Ficino al De
pulchritudine di Plotino); l’indicazione della vista e dell’udito come sensi percettori della bellezza, in
collaborazione con la ragione (Ivi, Cap. II, Oratio quinta); la celebrazione dell’amore onesto, distinto
dalla libido, e il richiamo alla modestia e temperanza (Ivi, Cap. IV, Oratio Prima); la necessità di astrarre
l’idea della bellezza dalla bellezza della donna (Ivi, Cap. IX, Oratio secunda); la gradazione discendente e
partecipata della bellezza, da Dio agli angeli, da questi all’anima, dall’anima al corpo, che comporta un
processo ascendente in senso contrario, un concetto non presente in Platone ed elaborato da Ficino nella
sua trasformazione cristiana del platonismo: « a corpore in animam, ab anima in angelum, ab angelo […]
in Deum»(Ivi, Cap. XV e XVII, Oratio sexta) (Vittorio Cian, Il Cortegiano del conte Baldesar
Castiglione annotato e illustrato da Vittorio Cian, cit., Note, pp. 472-498)
189
sono tre vie alla conoscenza, i sensi, la ragione, ossia la capacità di distinguere e scegliere tra
255
Lavinello, dopo aver affermato che «Amore niente altro è che disio» (Asolani, L. III, 5) precisa
«nulla altro essere il buono amore che di bellezza disio» (Ivi, L. III, 6), un desiderio di bellezza intesa
come armonia delle membra del corpo e, ancor di più, delle virtù dell’anima, «È adunque il buono amore
disiderio di bellezza tale, quale tu vedi, et d'animo parimente et di corpo, et a·llei, sì come a suo vero
obbietto, batte et stende le sue ali per andare» (Ivi, L. III, 6). Tale definizione sarà ulteriormente corretta
dall’eremita: «Perciò che non è il buono amore disio solamente di bellezza, come tu stimi, ma è della vera
bellezza disio; et la vera bellezza non è humana et mortale, che mancar possa, ma è divina et immortale,
alla qual pel aventura ci possono queste bellezze inalzare, che tu lodi, dove elle da noi sieno in quella
maniera, che esser debbono, riguardate» (Ivi, L. III, 17). Un corretto desiderio di bellezza, dunque, deve
essere preceduto dalla consapevolezza di quali sono i veri beni.
256
La trattazione di questo punto negli Asolani è più frantumata, ma sostanzialmente condivisa. Il
punto più basso della conoscenza è il senso, cui è superiore la ragione con la quale l’uomo può alzarsi
verso il mondo delle idee e Dio. Tra i sensi se ne salvaguardano due, l’udito e la vista, superati comunque
dal pensiero (Ivi, L. III, 6). Nella parte intellettiva dell’animo si distinguono tre parti: «È adunque da
sapere che, sì come nella nostra intellettiva parte dell'animo sono pure tre parti o qualità o spezie,
ciascuna di loro differente dall'altre e separata (perciò che v'è primieramente l'intelletto, che è la parte di
lei acconcia et presta allo 'ntendere et può nondimeno ingannarsi; v'è per secondo lo intendere, che io
dico, il quale non sempre ha luogo, ché non sempre s'intendono le intelligibili cose, anzi non ha egli se
non tanto, quanto esso intelletto si muove e volge con profitto d'intorno a quello che a·llui è proposto per
intendersi e per sapersi; èvvi dopo queste ultimamente e di loro nasce quella cosa o luce o imagine o
verità, che dire la vogliamo, che a noi bene intesa si dimostra, frutto et parto delle due primiere, la qual
tuttavia, se è male intesa, né verità né imagine né luce dire si può, ma caligine e abbagliamento e
menzogna), così né più né meno, sono nella nostra vogliosa parte del medesimo animo pure tre spezie,
per gli loro ufficij propria et dall'altre due partita ciascuna. Con ciò sia cosa che v'è di prima la volontà, la
qual può e volere parimente e disvolere, fonte e capo delle due seguenti; e che v'è dopo questa il volere,
di cui parlo, e ciò è il disporsi a mettere in opera essa volontà o molto o poco, o ancora contrariamente,
che è disvolendo; e che v'è per ultimo quello, che di queste due si genera: il che, se piace, amore è detto,
se dispiace, odio per lo suo contrario necessariamente si convien dire» (Ivi, L. III, 13). La libertà di scelta
data all’uomo gli consente o la discesa al livello del bruto, seguendo i sensi, o l’ascesa al divino tramite la
ragione, che, concessa solo agli uomini, è il segno dell’alto destino assegnato loro dalla Natura (Ivi, L. III,
15). L’anima non può essere soddisfatta da alcuna bellezza terrena e mortale, e per la sua stessa
immortalità aspira alla bellezza divina, di cui la bellezza corporale non è che un’ombra ingannevole (Ivi,
L. III, 17). La favola della Regina delle isole Fortunate mostra con un’allegoria la superioritá dello stato
contemplativo (Ivi, L. III, 18). L’eremita illustra il processo di ascesi al mondo delle idee e a Dio,
attraverso la svalutazione dei beni terreni (Ivi, L. III, 19-22). Nel Cortegiano, il tema viene trattato in
modo più coeso e incisivo: «Dico adunque che, secondo che dagli antichi savii è diffinito, Amor non è
altro che un certo desiderio di fruir la bellezza; e perché il desiderio non appetisce se non le cose
conosciute, bisogna sempre che la cognizion preceda il desiderio: il quale per sua natura vole il bene, ma
da sé è cieco e non lo conosce. Però ha così ordinato la natura che ad ogni virtù conoscente sia congiunta
una virtù appetitiva; e perché nell'anima nostra son tre modi di conoscere, cioè per lo senso, per la ragione
e per l'intelletto: dal senso nasce l'appetito, il qual a noi è commune con gli animali bruti; dalla ragione
nasce la elezione, che è propria dell'omo; dall'intelletto, per lo quale l'om po communicar con gli angeli,
nasce la voluntà. Così adunque come il senso non conosce se non cose sensibili, l'appetito le medesime
solamente desidera; e così come l'intelletto non è vòlto ad altro che alla contemplazion di cose
intelligibili, quella voluntà solamente si nutrisce di beni spirituali. L'omo, di natura razionale, posto come
mezzo fra questi dui estremi, po per sua elezione, inclinandosi al senso o vero elevandosi allo intelletto,
accostarsi ai desidèri or dell'una or dell'altra parte. Di questi modi adunque si po desiderar la bellezza; il
nome universal della quale si conviene a tutte le cose o naturali o artificiali che son composte con bona
proporzione e debito temperamento, quanto comporta la lor natura» (C: IV, 51); «Ma tra questi beni
troveranne lo amante un altro ancor assai maggiore, se egli vorrà servirsi di questo amore come d'un
grado per ascendere ad un altro molto più sublime: il che gli succederà, se tra sé andrà considerando come
stretto legame sia il star sempre impedito nel contemplar la bellezza d'un corpo solo; e però, per uscir di
questo così angusto termine, aggiungerà nel pensier suo a poco a poco tanti ornamenti, che cumulando
insieme tutte le bellezze farà un concetto universale, e ridurrà la moltitudine d'esse alla unità di quella
sola che generalmente sopra la umana natura si spande; e così non più la bellezza particular d'una donna,
ma quella universale, che tutti i corpi adorna, contemplerà: onde offuscato da questo maggior lume, non
curerà il minore, ed ardendo in più eccellente fiamma, poco estimerà quello che prima avea tanto
apprezzato. Questo grado d'amore, benché sia molto nobile e tale che pochi vi aggiungono, non però
190
il bene ed il male, e l’intelletto con cui l’uomo può comunicare con gli angeli e da cui deriva la
volontà. Il senso conosce le cose sensibili e produce il desiderio di cose sensibili e materiali,
mentre l’intelletto conosce il mondo intelligibile e ad esso è rivolto, tramite la contemplazione.
L’uomo, a mezzo tra senso e intelletto, può scegliere di scendere verso il mondo materiale o di
salire verso il mondo delle idee e dei beni spirituali. La bellezza che può essere oggetto di
desiderio sensuale come di contemplazione intellettuale si connota per la proporzione, la
misura, l’armonia sia in natura che in arte, quest’ultima contraddistinta dalla imitazione della
natura. Essa è un’emanazione della bontà di Dio che si infonde nei corpi e, colta attraverso il
senso della vista, si imprime nell’anima e suscita il desiderio di sé:
ancor si po chiamar perfetto, perché per essere la imaginazione potenzia organica e non aver cognizione
se non per quei princìpii che le son somministrati dai sensi, non è in tutto purgata delle tenebre materiali;
e però, benché consideri quella bellezza universale astratta ed in sé sola, pur non la discerne ben
chiaramente, né senza qualche ambiguità per la convenienzia che hanno i fantasmi col corpo onde quelli
che pervengono a questo amore sono come i teneri augelli che cominciano a vestirsi di piume, che,
benché con l'ale debili si levino un poco a volo, pur non osano allontanarsi molto dal nido, né
commettersi a' venti ed al ciel aperto» (C: IV, 67); «Quando adunque il nostro cortegiano sarà giunto a
questo termine, benché assai felice amante dir si possa a rispetto di quelli che son summersi nella miseria
dell'amor sensuale, non però voglio che se contenti, ma arditamente passi più avanti, seguendo per la
sublime strada drieto alla guida che lo conduce al termine della vera felicità; e così in loco d'uscir di se
stesso col pensiero, come bisogna che faccia chi vol considerar la bellezza corporale, si rivolga in se
stesso per contemplar quella che si vede con gli occhi della mente, li quali allor cominciano ad esser acuti
e perspicaci, quando quelli del corpo perdono il fior della loro vaghezza; però l'anima, aliena dai vizii,
purgata dai studi della vera filosofia, versata nella vita spirituale, ed esercitata nelle cose dell'intelletto,
rivolgendosi alla contemplazion della sua propria sostanzia, quasi da profundissimo sonno risvegliata,
apre quegli occhi che tutti hanno e pochi adoprano, e vede in se stessa un raggio di quel lume che è la
vera imagine della bellezza angelica a lei communicata, della quale essa poi communica al corpo una
debil’ ombra; però, divenuta cieca alle cose terrene, si fa oculatissima alle celesti; e talor, quando le virtù
motive del corpo si trovano dalla assidua contemplazione astratte, o vero dal sonno legate, non essendo da
quelle impedita, sente un certo odor nascoso della vera bellezza angelica, e rapita dal splendor di quella
luce comincia ad infiammarsi e tanto avidamente la segue, che quasi diviene ebria e for di se stessa, per
desiderio d'unirsi con quella, parendole aver trovato l'orma di Dio, nella contemplazion del quale, come
nel suo beato fine, cerca di riposarsi; e però, ardendo in questa felicissima fiamma, si leva alla sua più
nobil parte, che è l'intelletto; e quivi, non più adombrata dalla oscura notte delle cose terrene, vede la
bellezza divina; ma non però ancor in tutto la gode perfettamente, perché la contempla solo nel suo
particular intelletto, il qual non po esser capace della immensa bellezza universale. Onde, non ben
contento di questo beneficio, amore dona all'anima maggior felicità; ché, secondo che dalla bellezza
particular d'un corpo la guida alla bellezza universal di tutti i corpi, così in ultimo grado di perfezione
dallo intelletto particular la guida allo intelletto universale. Quindi l'anima, accesa nel santissimo foco del
vero amor divino, vola ad unirsi con la natura angelica e non solamente in tutto abbandona il senso, ma
più non ha bisogno del discorso della ragione; ché, transformata in angelo, intende tutte le cose
intelligibili, e senza velo o nube alcuna vede l'amplo mare della pura bellezza divina ed in sé lo riceve, e
gode quella suprema felicità che dai sensi è incomprensibile» (C: IV, 68)
257
In questi termini si esprime anche Pico della Mirandola (1463-1494) nel suo De dignitate
hominis (1486), in cui immagina che Dio dica all’uomo di non averlo creato né celeste né terreno, né
mortale né immortale affinché, come artefice libero e sovrano, si potesse plasmare da sé, e scegliere se
scendere verso le cose inferiori al livello dei bruti o salire alle superiori divine.
258
Su questa concezione rinascimentale della bellezza, fatta di proporzioni e grazia, converge anche
Bembo, insistendo sulla relazione tra corpo ed anima: «La qual bellezza che cosa è se tu con tanta
diligenza per lo adietro havessi d'intendere procacciato, con quanta ci hai le parti della tua bella donna
voluto ieri dipignere sottilmente, né come fai, ameresti tu già, né quello, che ti cerchi amando, aresti a gli
altri lodato come hai. Perciò che ella non è altro che una grazia che di proporzione e di convenenza nasce
e d'armonia nelle cose, la quale quanto è più perfetta ne' suoi suggetti, tanto più amabili essere ce gli fa e
più vaghi, et è accidente ne gli huomini non meno dell'animo che del corpo. Perciò che sì come è bello
quel corpo, le cui membra tengono proporzione tra loro, così è bello quello animo, le cui virtù fanno tra sé
armonia; e tanto più sono di bellezza partecipi et l'uno et l'altro, quanto in loro è quella gratia, che io dico,
delle loro parti e della loro convenenza, più compiuta e più piena» (Asolani, L. III, 6)
259
Marsilio Ficino, dopo aver sottolineato che l’amore è desiderio di bellezza, la caratterizza con la
grazia e l’armonia e la ritrova negli animi, nei corpi e nelle voci; valorizza il senso della vista e dell’udito,
191
la bellezza [...] è un flusso della bontà divina, il quale, benché si spanda sopra tutte le cose
create, come il lume del sole, pur quando trova un volto ben misurato e composto con una certa
gioconda concordia di colori distinti ed aiutati dai lumi e dall’ombre e da una ordinata distanzia e
termini di linee, vi s’infonde e si dimostra bellissimo, e quel subietto ove riluce, adorna e illumina d’
una grazia e splendor mirabile, a guisa di raggio di sole che percota in un bel vaso d’oro terso e
variato di preziose gemme, onde piacevolmente tira a sé gli occhi umani e per quelli penetrando
s’imprime nell’anima, e con una nova suavità tutta la commove e diletta, ed accendendola, da lei
desiderar si fa (C: IV, 52).
Essa non si fruisce con il possesso, frutto dell’appetito dei sensi,260 ma con la
contemplazione razionale. Mentre i giovani sono inadatti all’amore razionale per la potenza in
unitamente alla conoscenza razionale, mentre rifiuta l’olfatto, il gusto, il tatto, sensi considerati funzionali
non all’amore, ma alla libido. Di questo troviamo un riscontro negli Asolani, nel Cortegiano invece si
valorizza anche il tatto (i baci), spiritualizzandolo però; medesima invece è la parametrazione della
bellezza: «Cum amorem dicimus, pulchritudinis desiderium intelligite. Hec enim apud omnes
philosophos amoris definitio est. Pulchritudo autem gratia quedam est, que ut plurimum in concinnitate
plurium maxime nascitur. Ea triplex est. Siquidem ex plurium virtutum concinnitate in animis gratia est;
ex plurium colorum linearumque concordia in corporibus gratia nascitur; gratia item in sonis maxima ex
vocum plurium consonantia. Triplex igitur pulchritudo: animorum, corporum atque vocum. Animorum
mente cognoscitur; corporum oculis, vocum auribus solis percipitur. Cum ergo mens, visus, auditus sint,
quibus solis frui pulchritudine possumus, amor vero sit fruende pulchritudinis desiderium, amor semper
mente, oculis, auribus est contentus. Quid olfactu? Quid gustu vel tactu opus est? Odores, sapores,
calorem, frigus, mollitiem et duritiem horumque similia sensus isti percipiunt. Istorum nullum humana
pulchritudo est, cum forme simplices sint; humani autem corporis pulchritudo membrorum requirat
diversorum concordiam. Amor, tamquam eius finem, fruitionem respicit pulchritudinis. Ista ad mentem,
visum, auditum pertinet solum. Amor ergo in tribus his terminatur; appetitio vero, que reliquos sequitur
sensus, non amor sed libido rabiesque vocatur» (Marsilio Ficino, Commentarium in Convivium Platonis
de amore, Oratio Prima, cap. IV)
260
Il rifiuto dell’amore sensuale è ribadito anche da Lavinello: «Per che se il buono amore, come io
dissi, è di bellezza disio, e se alla bellezza altro di noi e delle nostre sentimenta non ci scorge che l'occhio
e l'orecchio e il pensiero, tutto quello che è dagli amanti con gli altri sentimenti cercato, fuori di ciò che
per sostegno della vita si procaccia, non è buono amore, ma è malvagio; e tu in questa parte amatore di
bellezza non sarai, o Gismondo, ma di sozze cose. Perciò che sozzo e laido è l'andare di que' diletti
cercando, che in straniera balìa dimorano et avere non si possono senza occupatione dell'altrui et sono in
se stessi e disagevoli e nocenti e terrestri e limacciosi, potendo tu di quelli avere, il godere de' quali nella
nostra potestà giace e godendone nulla s'occupa, che alcuno tenga proprio suo, e ciascuno è in sé agevole,
innocente, spiritale, puro» (Asolani, L. III, 6), un passo in cui l’unico rapporto sessuale salvaguardato è
quello mirato alla procreazione. Da notare che già Gismondo, difensore dell’amore terreno, aveva evitato
di celebrare esplicitamente l’amore sensuale, e parlando di un amore onesto («E in fine ama di lei quello
che oggi poco s’ama nel mondo, mercé del vizio che ogni costume ha discacciato, l’onestà dico, sommo e
spezialissimo tesoro di ciascuna savia», Ivi, L. II, 15), e avvalorando i sensi dell’udito e della vista, oltre
che il pensiero conservatore dei ricordi e promotore delle riflessioni e immaginazioni intorno all’amata,
ma con un taglio comunque più sensuale («Che se di quelli che a pieno godono volessimo ragionare, di
certo quanti diletti possono tutti gli uomini che non amano in tutti gli anni della lor vita sentire, non mi si
lasciarebbe credere che a quel solo aggiugnessero, che in ispazio di poca ora si sente da uno amante, il
quale, con la sua donna dimorando, la miri e rimiri sicuramente, et ella lui, con gli occhi disievoli e
vacillanti dolcezza sopra dolcezza beendo, l'uno dell'altro inebbriandosi» (Ivi, L. II, 23); «Ora entrisi a
dire dell'altro senso, il quale scorge all'anima le vegnenti voci, di cui, se ben si considera, niente sono le
dolcezze minori. Perciò che in quanti modi esser può recamento di gioia il vedere le lor donne a gli
amanti, in tanti l'udirle può loro essere similmente» (Ivi, L. II, 25); «Dico adunque che, oltra i cinque
sentimenti, i quali sono negli uomini strumenti dell'animo insieme, insieme e del corpo, hacci eziandio il
pensiero, il quale, perciò che solamente è dell'animo, ha vie più d'eccellenza in sé che quelli non hanno, e
di cui non sono partecipi gli animali con esso noi, sì come partecipi sono di tutti gli altri» (Ivi, L. II, 27),
«Quanto diletto è da credere che sia d'un gentile amante il correre alla sua donna in un punto col pensiero
e mirarla, per molto che egli le sia lontano, ad una ad una tutte le sue belle parti ricercando? Quanto poi,
ne' costumi di lei rientrato, la dolcezza considerare, la cortesia, la leggiadria, il senno, la virtù, l'animo e le
sue belle parti?» (Ivi, L. II, 27)), e aveva detto di non voler parlare degli altri sensi («Ma passiamo più
avanti; et perché io, donne, per le dolcezze di questi due sentimenti scorte v'habbia, non crediate perciò
192
loro del senso, le persone mature, in cui «il fervor naturale comincia ad intepidirsi», sono adatte
a concepirlo, e, tra questi, i vecchi, da intendersi, come già detto, quasi alla stregua delle
persone mature e non come anziani decrepiti.261
Non è adunque for di ragione il dire ancor, che i vecchi amar possano senza biasimo e più
felicemente che i giovani; pigliando però questo nome di vecchio non per decrepito, né quando già
gli organi del corpo son tanto debili, che l’anima per quelli non po operar le sue virtù, ma quando il
saper in noi sta nel suo vero vigore, (C: IV, 54)
Attraverso la similitudine di matrice ficiniana con la stretta connessione tra la
circonferenza e il centro si sottolinea la natura della bellezza come proiezione della bontà
divina:262
[...] da Dio nasce la bellezza ed è come circulo, di cui la bontà è il centro;263 e però come non po
essere circulo senza centro, non po esser bellezza senza bontà; onde rare volte mala anima abita bel
corpo e perciò la bellezza estrinseca è vero segno della bontà intrinseca e nei corpi è impressa quella
che io scorgere vi voglia per quelle ancora de gli altri tre, ché io potrei pervenire a parte, dove io ora
andare non intendo) (Ivi, L. II, 26), per poi farlo con una velata allusione piccante, «Così ora alla pastura
delle dolcezze de' due primi sentimenti e del pensiero stando contenti nel ragionare, quelle de gli altri,
dove elle ci vengano dinanzi, presone il sapore e il saggio, lasciaremo noi andare con la loro buona
ventura. Quantunque io per me non mi seppi far mai così savio, che io a quella guisa ne' conviti d'Amore
mi sia saputo rattemperare, alla quale ne gli altri mi rattempero tutto dì. Né consiglierei io già il nostro
novello sposo che, quando Amore gli porrà dinanzi le vivande delle sue ultime tavole, che egli ancora non
ha gustate, egli di quelle contento che gustate ha, assaggiandole e assaporandole, partire le si lasciasse;
ché egli se ne potrebbe pentere. Non so ora il consiglio che voi, belle giovani, dareste alla sposa» (Ivi, L.
II, 30). Il senso della vista e dell’udito ed il pensiero vengono poi ulteriormente apprezzati in termini più
funzionali al neoplatonismo, come sottolineano il primo passo citato e il seguente, in cui l’udito è definito
finestra della bellezza dell’animo, la vista, finestra di quella del corpo, il pensiero, strumento di
conservazione dell’immagine non più percepita dai sensi: «È adunque il buono amore disiderio di
bellezza tale, quale tu vedi, e d'animo parimente e di corpo, e a·llei, sì come a suo vero obbietto, batte et
stende le sue ali per andare. Al qual volo egli due finestre ha: l'una, che a quella dell'animo lo manda, e
questa è l'udire; l'altra, che a quella del corpo lo porta, e questa è il vedere. Perciò che sì come per le
forme, che a gli occhi si manifestano, quanta è la bellezza del corpo conosciamo, così con le voci, che gli
orecchi ricevono, quanta quella dell'animo sia comprendiamo. Né ad altro fine ci fu il parlare dalla natura
dato, che perché esso fosse tra noi de' nostri animi segno e dimostramento»; «Con ciò sia cosa che, sì
come ci ragionasti tu ieri lungamente, e le bellezze del corpo e quelle dell'animo ci si rappresentano col
pensarvi, e pìgliasene, ogni volta che a noi medesimi piace, senza alcuno ostacolo godimento» (Ivi, L. III,
6). Dai passi riportati si evincono le somiglianze, ma anche il superamento della sensualitá, per
l’insistenza sulla bellezza dell’animo oltre che su quella del corpo. Bembo cerca in effetti di non staccare
completamente l’amore carnale, dandogli un aspetto più sentimentale e contemplativo, dall’amor
platonico che finisce col rinnegarlo, ma non riesce ad attuare quella fine mediazione che viene operata da
Castiglione il quale, mentre adatta l’amor cortese all’amor platonico, lascia tuttavia alcune spie della
sensualità non fosse altro che nella celebrazione molto più reiterata della bellezza, anche nella trattazione
specifica della dottrina neoplatonica.
261
Bembo condivide con Castiglione la valorizzazione dell’amore dei vecchi in quanto
tendenzialmente contemplativo per natura e la polemica contro i vecchi che ancora rincorressero i piaceri
del sesso (Vedi nota in calce al capitolo sulla donna di palazzo e sul cortigiano vecchi). (Asolani, L. III,
16)
262
Questa precisazione, di evidente stampo ficiniano, non si ritrova negli Asolani, dove
semplicemente si parla di bellezza divina e di Dio, ma non esplicitamente di bontà né, di rincalzo, di
utilità.
263
Una chiara eco ficiniana questa, fondamentale per il neoplatonismo che associa valori classici e
cristiani: «Pulchritudo est splendor divine bonitatis et deus est centrum quatuor circulorum. Neque ab re
theologi veteres bonitatem in centro, pulchritudinem in circulo posuerunt. Bonitatem quidem in centro
uno, in circulis autem quatuor pulchritudinem. Centrum unum omnium deus est, circuli quatuor circa
deum, mens, anima, natura, materia» (Marsilio Ficino, Commentarium in Convivium Platonis de amore,
Oratio secunda, cap. III).
193
grazia più e meno, quasi per un carattere dell’anima, per il quale essa estrinsecamente è conosciuta,
come negli alberi, ne’ quali la bellezza de’ fiori fa testimonio della bontà dei frutti (C: IV, 57).
Per quanto si ammetta anche l’eccezione, come fa Dante rispetto all’ordine
provvidenziale, in generale la bontà s’incarna nella bellezza (țĮȜòȢ țĮȓ ĮȖĮșóȢ) e la malvagità
nella bruttezza e la disciplina fisiognomica correda e supporta questa tesi filosofica.
E dir si po che la bellezza sia la faccia piacevole, allegra, grata e desiderabile del bene; e la
bruttezza, la faccia oscura, molesta, dispiacevole e trista del male; (C: IV, 58).
Anzi del binomio bellezza-bontà si presenta l’eccezione come rara («rare volte»), e
motivata da cattiva educazione, non da cattiva natura; del binomio bruttezza-cattiveria si
sottolinea invece la frequenza della regola («per lo più»).
Onde rare volte mala anima abita bel corpo (C: IV, 57) // I brutti adunque per lo più sono ancor mali
(C: IV, 58)
La perfezione del macrocosmo, in cui bontà, necessità, utilità, bellezza e grazia
sembrano ridursi all’uno, si riflette nel microcosmo.265 Le parti del corpo e il suo insieme sono
parimenti contraddistinte da utilità e bellezza:
Pensate or della figura dell’omo, che si po dir piccol mondo: nel quale vedesi ogni parte del
corpo esser composta necessariamente per arte e non a caso, e poi tutta la forma insieme esser
bellissima; tal che difficilmente si poría giudicar quale più o utilità o grazia diano al volto umano ed
al resto del corpo tutte le membra come gli occhi, il naso, la bocca, l’orecchie, le braccia, il petto, e
così l’altre parti (C. IV, 58).
Così avviene nella natura come nell’arte, intesa in generale come attività produttiva,
costruttiva dell’uomo. Principale motivo di lode del mondo è la bellezza, e bellezza e bontà si
identificano. La causa più importante della bellezza del corpo è la bellezza dell’anima, più
intimamente legata alla bellezza divina:
In somma, ad ogni cosa dà supremo ornamento questa graziosa e sacra bellezza; e dir si po che ’l
bono e’l bello, a qualche modo, siano una medesima cosa, e massimamente nei corpi umani; della
bellezza de’ quali la più propinqua causa estimo io che sia la bellezza dell’anima, che, come
partecipe di quella vera bellezza divina, illustra e fa bello ciò che ella tocca, e specialmente se quel
corpo ov’ ella abita non è di così vil materia che ella non possa imprimergli la sua qualità; (C: IV,
59).
La bontà si esprime dunque come bellezza, l’etica viene assorbita e resa manifesta
dall’estetica. La bellezza, se lasciva, impudica, lo è non per impulso della bellezza che
naturalmente induce alla bontà, ma per una cattiva educazione o altre cause contingenti.
Non negherò già che al mondo non sia possibile trovar ancor delle belle donne impudiche, ma
non è già che la bellezza le incline alla impudicizia; anzi le rimove, e le induce alla via dei costumi
virtuosi, per la connession che ha la bellezza con la bontà; ma talor la mala educazione, i continui
264
Mario Equicola nel libro IV del Di natura d’Amore ammette che si possano cogliere alcune
inclinazioni dalla forma del corpo, ma rifiuta di considerarle talmente potenti da determinare in toto i
comportamenti. Una posizione equilibrata di cui qui c’è solo un’eco nell’ammissione dell’eccezione
(Vittorio Cian, Il Cortegiano del conte Baldesar Castiglione annotato e illustrato da Vittorio Cian, cit.,
Nota 16 a cap. 57, pp. 480-481).
265
Negli Asolani si parla della perfezione del macrocosmo, ma non di quella del microcosmo, e si
insiste solo sul dovere dell’uomo di allontanarsi dai falsi beni terreni.
266
Negli Asolani ci sembra che più propriamente si parli di due bellezze distinte, ancorché
collegate: il corpo e l’animo hanno un parametro di bellezza simile, ma non si dice che quella dell’uno sia
la causa di quella dell’altro (L. III, 6).
194
stimuli degli amanti, i doni, la povertà, la speranza, gl’inganni, il timore e mille altre cause, vincono
la constanzia ancora delle belle e bone donne; e per queste o simili cause possono ancora divenir
scelerati gli omini belli.-(C: IV, 59)
L’affermazione che cause simili possono rovinare anche gli uomini belli, da una parte ci
sembra rientrare in una linea filogina che, per giustificare la caduta delle donne con il difetto
convenzionale della loro debolezza, chiama in causa l’eguale e più grave caduta degli uomini,
cui per tradizione si riconosce il pregio della forza, avvalendosi in chiave filogina di un motivo
misogino, dall’altra ci rimanda all’attribuzione del connotato della bellezza anche agli uomini,
in genere non considerati depositari privilegiati di questo pregio (ma, secondo Castiglione, la
bellezza deve contraddistinguere anche il cortigiano come misura e proporzione equilibrata del
corpo e coniugazione del «virile e del grazioso» C. I, 19 e 20). E questa annotazione fatta di
sfuggita ci induce a pensare a una possibile reversibilità di genere nella condizione
rispettivamente di mediatori e di fruitori dell’amor platonico. Ma questa è di fatto una
supposizione non autorizzata dal testo che non sviluppa e non ritorna su questo tema. L’amor
platonico viene insegnato al cortigiano che lo può nutrire, non alla donna di palazzo, la cui
potenza in questo campo, per utilizzare un termine aristotelico, resta in dubbio. Naturalmente,
sia per motivi di aristocrazia intellettuale e sociale, sia per i presupposti dell’amor platonico,
l’amore che Bembo intende insegnare all’eccellente cortigiano è un «amar fuori della
consuetudine del profano volgo» (C: IV, 61).
Il cortigiano innamorato dovrà fuggire ogni bruttezza dell’amore volgare e farsi guidare
dalla ragione:
[...] prima considerar che ‘l corpo, ove quella bellezza risplende, non è il fonte ond’ ella nasce,
anzi, che la bellezza, per esser cosa incorporea e, come avemo detto, un raggio divino, perde molto
della sua dignità trovandosi congiunta con quel subietto vile e corruttibile; perché tanto più è perfetta
quanto men di lui partecipa, e da quello in tutto separata è perfettissima (C. IV, 62).
E sapere che il desiderio della bellezza si soddisfa non col tatto, ma con la virtù visiva e
secondariamente con l’udito, coi sensi più slegati dal corpo:
[...] non si po ancor in modo alcuno fruir la bellezza né satisfar al desiderio ch’ella eccita negli
animi nostri col tatto, ma con quel senso del qual essa bellezza è vero obietto, che è la virtù visiva.
Rimovasi adunque del cieco giudicio del senso e godasi con gli occhi quel splendore, quella grazia,
quelle faville amorose, i risi, i modi, e tutti gli altri piacevoli ornamenti delle bellezze;
medesimamente, con l’audito, la suavità della voce, il concento delle parole, l’armonia della musica
(se musica è la donna amata); e cosí pascerà di dolcissimo cibo l’anima per la via di questi dui sensi,
i quali tengon poco del corporeo e son ministri della ragione, senza passar col desiderio verso il
corpo ad appetito alcuno men che onesto (C:IV, 62).
Da rilevare come, nonostante la valorizzazione della bellezza fisica, il corpo venga
svalutato, anche se in un’ottica più classica che cristiana: il corpo bello è quasi una
menomazione, nella concretizzazione sensibile, dell’idea della bellezza e la bellezza si coglie
preliminarmente coi sensi più «incorporei» e sostanzialmente con l’intelletto contemplativo.
Nella stessa svalutazione del corpo bello, un paradosso insito nella teoria neoplatonica, può
cogliersi una modalità ambigua di rapportarsi al femminile. Secondo la tradizione misogina la
materialità-corporeità era soprattutto un attributo e difetto femminile, e la svalutazione del corpo
confermerebbe una svalutazione della donna, ma insieme la donna è anche la depositaria della
bellezza, che, per quanto menomi la bellezza divina nella sua concretezza limitante, ne è pure
un segno e un raggio.
Di qui un profondo rispetto per la donna, ma anche un dovere di guida, e
paradossalmente ancora un segno della convenzione dell’inferiorità del femminile: il cortigiano
che la bellezza della donna eleva, è anche la guida morale della donna, non rinuncia al suo ruolo
di autorità in materia etica e sociale, il che mostra ancora una volta come la celebrazione della
perfezione della donna faccia parte dell’immaginario, la sua sottomissione che obbliga a una sua
educazione faccia parte invece della realtà sociale.
195
Appresso osservi, compiaccia ed onori con ogni riverenzia la sua donna, e più che se stesso la
tenga cara, e tutti i commodi e piaceri suoi preponga ai proprii, ed in lei ami non meno la bellezza
dell’animo che quella del corpo; però tenga cura di non lassarla incorrere in error alcuno, ma con le
ammonizioni e boni ricordi cerchi sempre d’indurla alla modestia, alla temperanzia, alla vera onestà,
e faccia che in lei non abbian mai loco se non pensieri candidi ed alieni da ogni bruttezza di vizii; e
così seminando virtù nel giardin di quel bell’animo, raccorrà ancora frutti di bellissimi costumi e
gustaragli con mirabil diletto; e questo sarà il vero generare ed esprimere la bellezza nella bellezza, il
che da alcuni si dice esser il fin d’amore. (C: IV, 62);
Sembra veramente di sentire ancora echi misogini, nella misura in cui
l’educazione/cura/costrizione alla modestia, temperanza, onestà sottintende il pregiudizio di una
natura femminile incline al vizio. L’uomo è ancora il seminatore della virtù destinato a
raccoglierne i frutti, quello che dà forma e nell’interesse prioritario del quale il miglioramento
avviene. La donna offre come sempre la materia, seppure nobilitata dalla bellezza.
Interpretazione questa giustificata anche dalla battuta faceta del cortigiano Morello che ritiene
che la forma di generazione migliore della «bellezza nella bellezza» sarebbe quella di un bel
figliuolo con un atto d’amore carnale (e non quella della bellezza morale e spirituale nella
bellezza fisica). Di diverso, rispetto alla tradizione, la valorizzazione della materia femminile,
chiamata metaforicamente «giardino» (anche se il termine è alla lettera riferito all’animo,
l’animo è pur sempre quello della donna-materia, per cui la nostra interpretazione è autorizzata),
e l’invitare la donna a partecipare del diletto («e tutti i commodi e piaceri suoi preponga ai
proprii»), seppure in relazione e in dipendenza dall’uomo. L’amore dunque comporta che
l’uomo, il cortigiano, compiaccia, rispetti ed onori la donna amata, e ne guidi e rinsaldi la virtù,
il che comporterà una specularità di atteggiamenti da parte della donna e una perfettissima
intesa, armonia e felicità. Nell’interazione d’amore la bellezza della donna suscita nell’uomo il
sentimento d’amore che lo perfeziona e determina d’altra parte in lui comportamenti che
avvalorano la donna; inoltre induce la donna a corrispondergli. Il processo di miglioramento, il
perfezionamento, è quindi reciproco:267
In tal modo sarà il nostro cortegiano gratissimo alla sua donna, ed essa sempre se gli mostrerà
ossequente, dolce ed affabile, e così desiderosa di compiacergli, come d’esser da lui amata; e le voglie
dell’un e dell’altro saranno onestissime e concordi ed essi conseguentemente saranno felicissimi (C:
IV, 62).
Le virtù della modestia, temperanza, pudore e onestà «seminate» nel giardino-donna
dall’uomo sono componenti fondamentali in una relazione platonica (ma vedremo l’adattamento
di questo virtuoso amore platonico all’amore di coppia nel matrimonio operato da Piccolomini,
e, poiché molto Piccolomini deve a Vives, la cui opera precede la pubblicazione del Cortegiano,
si può forse supporre che lo stesso Castiglione nella rappresentazione della relazione virtuosa tra
uomo e donna nell’amor platonico avesse presente un rapporto di coppia ideale già parzialmente
elaborato dalla tradizione e da migliorare, ma sempre nel rispetto della complementarità e delle
gerarchie). In essa il corpo è un veicolo dell’anima e i sensi vanno al massimo sublimati. La
relazione platonica si estrinseca innanzitutto nel guardarsi, atto di importanza prioritaria, poi
anche nel conversare intimo. Tuttavia, alla svalutazione e al rifiuto del tatto si ammette una
parziale deroga: è infatti consentito anche toccarsi le mani e baciarsi, ma il bacio non ha nulla di
sensuale. L’anima si esprime negli sguardi e nelle parole. La bocca viene intesa come porta
dell’anima, perché dalla bocca escono le parole che sono intepreti dello spirito, cioè del
principio vitale e della sede degli affetti e della intelligenza. Il bacio quindi è congiungimento
267
Anche di questa proiezione virtuosa dell’amor platonico nel rapporto di coppia non c’è traccia
nel Bembo, che ha riproposto i termini della tradizione cortese e del nuovo platonismo nonché dello
stesso pensiero ascetico medievale, senza riuscire ad amalgamarli, forse motivato più da un’intenzione
retorica di confronto fra posizioni che da un’intenzione fortemente educativa e operativa. Bembo parla
solo di un amore onesto (Asolani, L. II, 15) e, nel mito dell’androgino (Ivi, L. II, 11), sottolinea la
necessità reciproca dei due sessi.
196
delle anime piuttosto che dei corpi. Nell’amore razionale sono consentiti atti illeciti
nell’amore sensuale, perché nel primo onesti e nel secondo disonesti.
[...] però la donna, per compiacer al suo amante bono, oltre il concedergli i risi piacevoli, i
ragionamenti domestici e secreti, il motteggiare, scherzare, toccare la mano, po venir ancor
ragionevolmente senza biasimo insin al bascio, il che nell’amor sensuale, secondo le regole del
signor Magnifico, non è licito; perché, per esser il bascio congiungimento e del corpo e dell’anima,
periculo è che l’amante sensuale non inclini più alla parte del corpo che a quella dell’anima, ma
l’amante razionale conosce che, ancora che la bocca sia parte del corpo, nientedimeno per quella si
dà esito alle parole che sono intepreti dell’anima, ed a quello intrinseco anelito che si chiama pur
esso ancor anima; e perciò si diletta d’unir la sua bocca con quella della donna amata col bascio, non
per moversi a desiderio alcuno disonesto, ma perché sente che quello legame è un aprir l’adito alle
anime, che tratte dal desiderio l’una dell’altra si trasfondano alternamente ancor l’una nel corpo
dell’altra e talmente si mescolino insieme, che ognun di lor abbia due anime, ed una sola di quelle
due così composta regga quasi dui corpi; onde il bascio si po più presto dir congiungimento d’ anima
che di corpo, perché in quella ha tanta forza che la tira a sé e quasi la separa dal corpo; per questo
tutti gl’innamorati casti desiderano il bascio, come congiungimento d’anima; (C: IV, 64).
Argomentazione questa che, con una certa capziosità, legittima come atto spirituale un
atto abitualmente sensuale e che ci pare uno dei massimi sforzi di godere del corpo con una sua
forzata spiritualizzazione, per cui ci chiediamo fino a che punto non giochi anche qui la
simulazione, in questo caso finzione di funzioni e finalità. E non bastano a convincerci gli
esempi addotti di Platone e di Salomone,
E però il divinamente inamorato Platone dice, che basciando vennegli l’anima ai labri per uscir
del corpo. E perché il separarsi l’anima dalle cose sensibili, e totalmente unirsi alle intelligibili, si po
denotar per lo bascio, dice Salomone nel suo divino libro della Cantica: Bascimi col bascio della sua
bocca, per dimostrar desiderio che l’anima sua sia rapita dall’amor divino alla contemplazion della
bellezza celeste di tal modo, che unendosi intimamente a quella abbandoni il corpo.-(C: IV, 64)
Questa valorizzazione del bacio che pare condivisa dai neoplatonici, secondo quanto
attesta indirettamente Cian, costituisce anche una forma di mediazione con la tradizione
erotica cortese: l’atto rimane, e si pretende di modificarlo nella sostanza solo sulla base delle
diverse funzioni, del differente modo d’intenderlo e di viverlo. Una intenzione in parte tradita e
vanificata anche dal fatto che l’indicazione dei comportamenti con cui l’amata può compiacere
l’amante è piena di forme di seduzione: «i risi piacevoli, i ragionamenti domestici e secreti, il
motteggiare, scherzare, toccare la mano [...] insin al bascio» (C: IV, 64). Il problema di una
268
Di questa interpretazione della bocca e dei baci non c’è traccia negli Asolani, né in rapporto
all’amor platonico, né in relazione allo stesso amore sensuale, per il quale si allude solo all’amplesso
nuziale da parte di Gismondo.
269
Le osservazion di Cian sul bacio (Vittorio Cian, Il Cortegiano del conte Baldesar Castiglione
annotato e illustrato da Vittorio Cian, cit., Nota 15 a cap. 64, pp. 488-489) ci paiono poco significative,
perché imperniate su una ricognizione sul costume del bacio nei vari paesi, e non attente all’aspetto più
propriamente filosofico, solo accennato indirettamente alla fine come costume dei Platonici («Il Ciccarelli
invece riprodusse integralmente il passo del Cortegiano, ma vi aggiunse in margine una sciocchezza per
giustificarlo, dicendo che il Bembo scherzava intorno all’opinione dei Platonici, che vogliono convenirsi
all’amor divino il bacio»), e non commentato, mentre a noi sarebbe parso molto più interessante una
ricognizione non solo filosofica dell’assunto, ma anche attenta alle sottese valenze e ai compromessi cui
tende Castiglione. Non sono stati fatti rilievi su eventuali raccordi con Ficino e Bembo, per cui pensiamo
che tale tema sia stato omesso da questi scrittori. Anzi, a una nostra ricerca diretta sugli Asolani, questo
tema specifico è risultato assente all’interno della trattazione dell’amor platonico. Tale assenza (se non
motivata nel Bembo dalla fragilità del suo neoplatonismo, inficiato dal pensiero ascetico medievale)
convaliderebbe la nostra ipotesi di una mediazione di Castiglione con la tradizione erotica cortese, anche
se sotto la difesa della dissimulazione / simulazione. Di fatto la progettazione teorica involutiva dell’etica
cortese è tale da farne quasi una copia sbiadita, o un’anticipazione velata, della relazione d’amore
platonica. Per cui, proprio per ragioni di equilibrio era necessario ricorrere a concessioni, sotto la
maschera della simulazione e sotto il segno dell’ambiguità.
197
mediazione con l’erotismo cortese è dunque presente a Castiglione, che, per quanto lo
circoscriva e addirittura sembri negarlo, lascia aperte alcune vie per viverlo, diciamo in una
forma indiretta, segreta e sotto mentite spoglie. L’opportunità di una mediazione in questo senso
è rilevato dai persistenti appunti del pubblico cortigiano. Anche qui l’osservazione del
cortigiano vecchio, il signor Morello, punta il dito su questo problema, ed è interessante che le
battute pertinenti al sesso le faccia proprio l’anziano che si vorrebbe depositario per eccellenza
dell’amor platonico. Una riprova che anche sulla scena del testo si tenta un compromesso,
favorito dal veicolo della facezia propria della conversazione piacevole dei cortigiani.
L’osservazione del signor Morello, infatti, evidenzia, lamentandola, la somiglianza tra
la donna coniata dal Bembo e quella modellata dal Magnifico, entrambe sublimate in una castità
che le rende poco cortesi, «io espettava pur che voi faceste questa vostra donna un poco più
cortese e liberale verso il Cortegiano, che non ha fatto il signor Magnifico la sua» (C: IV, 63),
ossia, tra le righe, che le allontana dal modello cortese, ma il neoplatonismo condiviso da
Castiglione e da Bembo opera proprio in questo senso, richiede una sublimazione che pretende
una castità femminile e anche maschile, se vogliamo, femminilizzando l’uomo in questa
estensione dell’obbligo di castità per perfezionarsi spiritualmente secondo il modello ascetico
cristiano. Va aggiunto che la vera e intera sublimazione viene comunque prospettata solo per i
soggetti maschili in quanto un’ascesi, che si connota come un processo razionale-intellettuale,
non può appartenere alla donna, ancora appesantita dalla sua «materialità», oppure, al contrario,
la si esclude in quanto mera “anima” e bellezza spirituale, soggetto passivo dell’amore più che
attivo.
Quanto al problema della presenza della donna, se costante, può schiavizzare, fare
considerare la bellezza come originata da quel corpo, o deviare l’amore verso la sensualità. Più
produttiva per promovere la contemplazione dell’idea interiore della bellezza sembra l’assenza
della donna che l’ha suscitata. Infatti l’amore spirituale non ha bisogno della costante presenza
della donna, può bastare il suo ricordo, anzi l’innamorato platonico dovrà astrarre la forma dalla
materia e contemplare nell’immaginazione la sua idea astratta. Passerà così dalla
contemplazione della bellezza concreta individuale alla contemplazione dell’idea della bellezza
universale:
Ma tra questi beni troveranne lo amante un altro ancor assai maggiore, se egli vorrà servirsi di
questo amore come d’un grado per ascendere a un altro molto più sublime: il che gli succederà, se tra
sé anderà considerando come stretto legame sia il star sempre impedito nel contemplar la bellezza
d’un corpo solo; e però, per uscir di questo così angusto termine, aggiungerà nel pensier suo a poco a
poco tanti ornamenti, che cumulando insieme tutte le bellezze farà un concetto universale e ridurrà la
moltitudine d’esse alla unità di quella sola che generalmente sopra la umana natura si spande; e così
non più la bellezza particular d’ una donna, ma quella universale, che tutti i corpi adorna,
contemplerà; onde offuscato da questo maggior lume, non curerà il minore, ed ardendo in più
eccellente fiamma, poco estimarà quello che prima avea tanto apprezzato (C: IV, 67).
L’anima giungerà all’autocontemplazione di sé come bellezza angelica e infine alla
contemplazione della bellezza divina.270 Di questa ascesa è mezzo l’Amore271 che viene
270
Così Ficino illustra i gradi dell’ascesi: «Ergo a corpore in animam, ab hac in angelum, ab hoc in
deum ascendimus. Deus super eternitatem est; angelus in eternitate est totus» (Marsilio Ficino,
Commentarium in Convivium Platonis de amore, Oratio sexta, cap. XVI); e il modo in cui si deve amare
Dio: «Quomodo deus amandus. Nos autem, o viri clarissimi, non solum sine modo deum, ut iubere
Diotima fingitur, sed deum solum amabimus. Ita enim mens ad deum ut ad Solem acies oculorum. Oculus
autem non modo lumen pre ceteris sed et solum appetit lumen. Si corpora, si animos, si angelos
diligemus, non ista quidem sed deum in istis amabimus. In corporibus quidem dei umbram; in animis dei
similitudinem; in angelis, eiusdem imaginem. Ita deum ad presens in omnibus diligemus ut in deo tandem
omnia diligamus» (Ivi, Oratio sexta, cap. XVIIII).
271
Negli Asolani, alla requisitoria contro l’Amore terreno, fatta dall’amante infelice, Perinotto, alla
fine del primo Libro, segue, alla fine del secondo, il panegirico dell’Amor terreno, ad opera di Gismondo,
e alla fine del terzo, la celebrazione dell’Amore per Dio per bocca dell’eremita. Solo deboli tracce del
panegirico dell’amore terreno, come fonte di piacere e di concordia («Perciò che Amore [...] sempre è
piacevole, sempre giova. Trastulla nelle rigide spilunche e nelle semplici e povere capanne i duri e vaghi
198
appassionatamente celebrato come vincolo del mondo, concordia, padre dei veri piaceri, della
mansuetudine e benevolenza, strumento di elevazione dell’anima alla bellezza divina.
Qual sarà adunque, o Amor santissimo, lingua mortal che degnamente laudar ti possa? Tu,
bellissimo, bonissimo, sapientissimo, dalla unione della bellezza e bontà e sapienzia divina derivi ed
in quella stai, ed a quella per quella come in circulo ritorni. Tu dolcissimo vinculo del mondo, mezzo
tra le cose celesti e le terrene, con benigno temperamento inclini le virtù superne al governo delle
inferiori e, rivolgendo le menti de’ mortali al suo principio, con quello le congiungi. Tu di concordia
unisci gli elementi, movi la natura a produrre e ciò che nasce alla succession della vita. Tu le cose
separate aduni, alle imperfette dai la perfezione, alle dissimili la similitudine, alle inimiche la
amicizia, alla terra i frutti, al mar la tranquillità, al cielo il lume vitale. Tu padre sei de’ veri piaceri,
delle grazie, della pace, della mansuetudine e benivolenzia, inimico della rustica ferità, della ignavia,
in somma principio e fine d’ogni bene. E perché abitar ti diletti il fior dei bei corpi e belle anime e di
là talor mostrarti un poco agli occhi ed alle menti di quelli che degni son di vederti, penso che or qui
fra noi sia la tua stanzia (C: IV, 70).
pastori. Conforta ne' morbidi palagi e nelle dorate camere le menti pensose de gli alti re. Tranquilla le
noie de' giudicanti, ristora le fatiche de' guerreggianti [...]. Pasce i giovani, sostiene gli attempati, diletta
gli uni e gli altri; e sovente fa quello che cotanto pare a vedere maraviglioso, con ciò sia cosa che egli
nelle vecchie scorze ritorna il vigore delle fanciulle piante e, sotto le bionde et liscie cotenne, insegna
essere innanzi tempo mille vizzi et canuti pensieri. Piace a' buoni, diletta i saggi, è salutevole a tutti.
Scaccia la tristitia, toglie la maninconia, rimuove le paure, compone le liti, fa le nozze, accresce le
famiglie. Insegna parlare, insegna tacere, insegna cortesia. Dolci ci fa le dipartenze, perciò che più cari e
di più viva forza pieni ci apparecchia i ritorni loro; dolcissimi i ritorni e le dimore, i quali col pensiero
delle lor gioie ci fanno poi essere ogni nostra lontananza soave. Lietissimi ci mena i giorni, ne' quali ci
fanno luce e risplendono spesse volte due soli; ma le notti ancor più, sì come quelle che il nostro sole non
ci togliono perciò sempre. Il che quando pure non aviene, egli non manca per lo più che il sonno cortese
quelle medesime feste non ci apporti e non ci doni, che alle vigilie vengono tolte e negate; e così ci
miriamo noi, così ragioniamo insieme, così le nostre ragioni contiamo, così per mano ci prendiamo, come
quelli fanno che più veracemente l'appruovano quando che sia», Asolani, L. II, 33) si possono ritrovare
nell’apoteosi d’amore del Cortegiano, dove prevale il tessuto religioso-mistico, affidato negli Asolani alle
parole dell’eremita. Nel Cortegiano (C: IV, 70) tuttavia è più evidente il sincretismo filosofico-religioso e
il richiamo a valori trinitari cristiani, mentre nella celebrazione dell’ascesi alla bellezza divina degli
Asolani si avverte una maggiore incertezza nella conciliazione del mondo delle idee platoniche (Asolani,
L. III, 20) e della natura divina, (Ivi, L. III, 21-22) e si inclina a un dispregio medievale del mondo. Non
per niente chi celebra l’ultimo e più perfetto stadio della bellezza, ossia Dio, negli Asolani è un eremita,
un asceta, non è un filosofo e tanto meno un cortigiano umanista. In questo senso la tipologia del relatore
è una chiave d’accesso alla ideologia che informa il discorso. In conclusione possiamo rilevare come
Castiglione riesca a presentare il dettato neoplatonico in una forma più profonda e più coesa di quanto
non abbia fatto l’intellettuale Bembo e come della opera di questi si sia servito per andare oltre,
reimpastarla armonizzandola, e con un taglio certamente più rinascimentale nella centralità assegnata alla
Bellezza come forma della divinità, idea divina e anche nella sua concretezza femminile. E con un forte
equilibrio tra valorizzazione del corpo, in quanto depositario di un raggio della vera bellezza, e sua
svalutazione, in quanto ombra della vera bellezza. Una conservazione della centralità dell’uomo e del
terreno che si riscontra anche nella celebrazione dell’uomo come microcosmo e della sua arte come
continuatrice dell’opera della natura, e che pare invece assente negli Asolani dove sembra solo
giustapposto un pensiero medievale a un piacere della bellezza legato alla tradizione cortese (stiamo
parlando della presentazione dell’amore terreno fatta da Gismondo). E, di contro a un generico intento
educativo riscontrabile negli Asolani, un’attenzione ad un’operatività del postulato neoplatonico non solo
nel fine di perfezionamento del cortigiano-istitutore, ma anche nella proiezione virtuosa che del rapporto
tra uomo e donna nella costruzione dell’amor platonico si propone per il rapporto di coppia. Un altro
effetto virtuoso dell’arte di Castiglione è l’accompagnamento, alla teorizzazione dell’ascesi, della sua
stessa effettuazione, un vertice cui non giunge Bembo. Le parole dell’eremita non hanno il fuoco d’amore
che anima il Bembo personaggio nella sua dissertazione: il soffio della vita nell’eremita sembra
spegnersi, nel Bembo rigenerarsi. Non solo, ma, come già abbiamo anticipato, l’intellettuale Bembo trae
dalla sua natura di personaggio del Cortegiano un’immagine più alta della sua funzione di latore e
diffusore del neoplatonismo nell’ambito letterario.
199
Amore, quindi, celebrato quasi come l’equivalente dello Spirito Santo in un sistema
trinitario costituito da bellezza e bontà divina, inglobante la sapienza, viene poi invocato sulla
linea della preghiera del padre nostro, e con un’insistenza maggiore sull’aspetto mistico
dell’ardore sentimentale che purifica ed inebria di beatitudine in un fuoco che simbolicamente
distrugge per permettere la rinascita.
Però dégnati, Signor, d’udir i nostri prieghi, infondi te stesso nei nostri cori, e col splendor del
tuo santissimo foco illumina le nostre tenebre, e come fidata guida in questo cieco labirinto mostraci
il vero cammino. Correggi tu la falsità dei sensi, e dopo ‘l lungo vaneggiare donaci il vero e sodo
bene; facci sentir quegli odori spirituali che vivifican le virtù dell’intelletto, ed udir l’armonia celeste
talmente concordante, che in noi non abbia loco più alcuna discordia di passione; inebriaci tu a quel
fonte inesausto di contentezza che sempre diletta e mai non sazia, ed a chi bee delle sue vive e
limpide acque dà gusto di vera beatitudine; purga tu coi raggi della tua luce gli occhi nostri dalla
caliginosa ignoranzia, acciò che più non apprezzino bellezza mortale, e conoscano che le cose che
prima veder loro parea, non sono e quelle che non vedeano veramente sono; accetta l’anime nostre,
che a te s’offeriscono in sacrificio; abbrusciale in quella viva fiamma che consuma ogni bruttezza
materiale, acció che in tutto separate dal corpo, con perpetuo e dolcissimo legame s’uniscano con la
bellezza divina, e noi da noi stessi alienati, come veri amanti, nello amato possiam trasformarsi, e
levandone da terra esser ammessi al convivio degli angeli, dove, pasciuti d’ambrosia e nettare
immortale, in ultimo moriamo di felicissima e vital morte, come già morirono quegli antichi padri,
l’anime dei quali tu con ardentissima virtù di contemplazione rapisti dal corpo e congiungesti con
Dio.-(C: IV, 70)
Illuminazione, correzione, spiritualizzazione, purificazione accompagnano in questa
invocazione, come connotazioni religiose, quelle dell’amor cortese, che vuole l’adeguamento
dell’innamorato alla volontà dell’amato, al punto che, in questo processo di sublimazione,
amore diviene alienazione di sé e trasformazione nell’amato, quasi identificazione col principio
primo. La regola cortese citata era già stata utilizzata da Dante sul piano spirituale dell’amore
per Dio nel terzo canto del Paradiso: la carità, ossia l’amore, adeguando la volontà dei beati a
quella divina, rendeva identiche tutte le volontà fra di loro e ne provocava la piena concordia.
L’adeguamento all’uno del molteplice provocava la riduzione del molteplice all’uno. Non è la
prima volta che nel testo di Castiglione ritroviamo consonanze con Dante e non stupisce che
Castiglione, pur non trattando in genere tematiche religiose, utilizzi scene e modalità
paradisiache perché queste si prestano efficacemente a valorizzare la corte ideale e l’amore
concepito secondo le modalità spirituali del neoplatonismo in cui la dottrina platonica è mediata
con la cristiana.
L’efficacia della perorazione con cui si conclude il ragionamento, testimoniata dallo
stato quasi di estasi272 raggiunto dal relatore e dal rapimento cui partecipano parzialmente gli
astanti, vuole indubbiamente enfatizzarne il valore, e si inscrive in una prassi già avviata che
pretende il riconoscimento nella diegesi della realizzazione pratica del modello. Se prima il
signor Ottaviano era stato giudicato dalla Duchessa l’esempio del perfetto cortigiano buon
institutore e consigliere del principe, secondo il modello da lui teorizzato, adesso Bembo viene
272
La Carella ritrova il processo di ascesi mistica nella stessa strutturazione del discorso del Bembo,
oltre che nel suo stato emotivo: « [...] l’intervento del Bembo, ispirato da una sorta di «sacro furor
amoroso» (LXXI), riproduce immediatamente, nei suoi sviluppi argomentativi, i modi propri del
rapimento estatico. E non solo perché, formalmente, Bembo esordisce con una invocazione ad Amore in
modo che l’ispiri (LXI), e conclude implorando lo Spirito Santo che favorisca quella celeste felicità
prodotta dall’amore spirituale; ma anche e soprattutto perché, nella sostanza, il suo discorso ripercorre
gradualmente tutte le varie tappe dell’ascesi mistica: dalla contemplazione razionale della bellezza
particolare (Cap. LXVI), alla percezione della bellezza universale astratta (Cap. LXVII); e da questa,
attraverso la contemplazione della bellezza angelica, fino alla beatitudine della pura bellezza divina.
Avendo «parlato con tanta veemenzia, che quasi pareva astratto e fuori di sé» (LXXI) per effetto di
quell’amoroso delirio platonico che l’aveva guidato, Bembo deve interrompere il suo discorso quando
l’ispirazione cessa [...]», in Angela Carella, Il libro del cortegiano di Baldassarre Castiglione, cit., p.
1113.
200
investito concretamente dell’estasi che ha celebrato, come se fosse stato trascinato dallo stesso
fervore mistico delle sue parole alla contemplazione della bellezza divina. Si tratta insomma di
modalità funzionali alla convalida del discorso teorico di cui si adducono esempi concreti,
anche se non al tutto congruenti, perché nel primo caso si tratta di un giudizio di valore non
poggiante su una concreta esperienza del fare, e nel secondo di un’estasi indiretta, in quanto
prodotta dalle parole che la riferiscono mentre la invocano.
Avendo il Bembo insin qui parlato con tanta veemenzia, che quasi pareva astratto e for di sé,
stavasi cheto e immobile, tenendo gli occhi verso il cielo, come stupido; (C: IV, 71)
Allora la signora Duchessa e tutti gli altri cominciarono di nuovo a far instanzia al Bembo che
seguitasse il ragionamento: e ad ognun parea quasi sentirsi nell’animo una certa scintilla di
quell’amor divino che lo stimulasse, e tutti desideravano d’udir più oltre;( C: IV, 71)
Ma la signora Emilia, con una battuta faceta e ironica, testimonia di non aver
partecipato all’estasi, pur avendo seguito attentamente, o di essersi già liberata dal rapimento,
suggerendo implicitamente una sordità della donna all’esperienza mistica, sulla cui possibilità
per il femminile s’intende far proseguire il dibattito. Ancora un atteggiamento che può essere
giudicato in maniera ambivalente, come segno di una praticità e concretezza che nega alla
donna il piano dell’esperienza ideale e idealizzante, in linea col misoginismo rintracciabile
anche nella trattazione dell’amor platonico, o come segno di una capacità di mediazione
costruttiva tra ideale e reale, un’ipotesi plausibile perché nel Cortegiano si rifugge sempre dagli
estremi, e si usa l’ironia per reintrodurre la medietas mondana.
[...] quando la signora Emilia, la quale insieme con gli altri era stata sempre attentissima
ascoltando il ragionamento, lo prese per la falda della roba, e scuotendolo un poco, disse: Guardate,
messer Pietro, che con questi pensieri a voi non si separi l’anima dal corpo.-(C: IV, 71)
Segue la riapertura del dibattito sulla parità di uomini e donne di fronte alla capacità di
provare questo amore divino, ma si rimanda la trattazione e il giudizio, e l’opera si chiude senza
che l’argomento venga sviscerato, il che ancora una volta è segno di una perdurante misoginia.
La promuove la battuta misogina del Signor Gasparo che nega tale esperienza alle donne perché
meno libere da passioni e meno adatte alla contemplazione rispetto agli uomini, suscitando la
replica della signora Emilia e del Magnifico Juliano e l’assegnazione della sentenza al Bembo,
nonché il rinvio della trattazione, da parte della Duchessa.
Suggiunse il signor Gaspar: l’andarvi credo che agli omini sia difficile, ma alle donne
impossibile.- Rise la signora Emilia e disse: Signor Gaspar, se tante volte ritornate al farci ingiuria, vi
prometto che non vi si perdonerà più.- Rispose il signor Gaspar: Ingiuria non vi si fa, dicendo che
l’anime delle donne non sono tanto purgate dalle passioni come quelle degli omini, né versate nelle
contemplazioni, come ha detto messer Pietro che è necessario che sian quelle che hanno da gustar
l’amor divino. [...] Quivi rispose il Magnifico Juliano: Non saranno in questo le donne punto superate
dagli omini [...] (C: IV, 72)
Il signor Gaspar cominciava a prepararsi per rispondere; ma la signora Duchessa, Di questo,
disse, sia giudice messer Pietro Bembo, e stiasi alla sua sentenzia, se le donne sono cosí capaci
dell’amor divino come gli omini, o no. Ma perché la lite tra voi potrebbe esser troppo lunga, sarà
ben differirla insino a domani..(C: IV, 73)
Dunque il trattato si chiude senza che questa sentenza venga emessa, e lasciando questa
possibilità come meramente ipotetica o autorizzando già, in questa assenza di chiaro consenso,
la permanenza di componenti misogine. Ma, al solito, l’ambiguità viene mantenuta perché
conclude definitivamente la discussione e il trattato la battuta di Emilia che, schierata a favore
delle donne, dopo aver già precedentemente rimproverato e minacciato il signor Gasparo,
pretende che il misogino si attenga al giudizio che darà su di lui Bembo.
201
Rispose la signora Emilia: Con patto che se ‘l signor Gaspar vorrà accusar le donne, e dar loro
com’è suo costume, qualche falsa calunnia, esso ancora dia securtà di star a ragione, perch’io lo
allego suspetto fugitivo.-(C: IV, 73)273
A noi pare che essa sottolinei l’attesa di un giudizio positivo sulle donne, la speranza di
un’emancipazione, che però ancora si attende grazie alla mediazione di cavalieri maschili, con
tutti i limiti che questo comporta secondo quanto il femminismo ci ha insegnato.
Prima di concludere ci sembra opportuno aggiungere alcune ulteriori
puntualizzazioni. Il neoplatonismo, a nostro parere, sostituisce il valore della bellezza
alla bontà o meglio include la seconda nella prima, però il suo percorso di
spiritualizzazione è ispirato a quello cristiano. Al centro c’è sempre Dio, un Dio il cui
attributo è una bellezza comprensiva della bontà piuttosto che una bontà comprensiva
della bellezza, perché, se usiamo le parole di Castiglione, la bellezza è il circolo e la
bontà è il centro, e, a parer nostro, se la seconda promana dalla prima, la contiene anche
ed è con questa intimamente fusa. Questa sua virtù si diffonde nelle creature e la donna
bella vi è eletta mediatrice, come nel cristianesimo lo era la donna virtuosa, in primis
Maria, in secundis Beatrice. La donna bella è anche virtuosa, così come la donna
virtuosa è anche bella. Si riscontra, però, nei neoplatonici rinascimentali che risentono
della problematica sociale una limitazione contraddittoria nel valore riconosciuto alla
donna: la donna bella va istruita e formata alla virtù dall’uomo. Non ci sembra affatto
che Dante abbia pensato a istruire e formare Beatrice, ma che semmai ne sia stato
migliorato e istruito. Siamo di fronte a un progresso nella considerazione della donna o
a un regresso?
La giustapposizione da noi proposta dell’amor platonico all’amor cortese aiuta a
cogliere il processo di avvicinamento tra le due tipologie di amore, e l’operazione
moralizzante e sublimante che nell’amore e con l’amore intende fare Castiglione. Del
resto tale connessione è sottolineata apertamente nel testo dall’affermazione già citata di
Bembo, relativa al divieto del bacio sensuale nell’amor cortese,
[...] però la donna, per compiacer al suo amante bono, oltre il concedergli i risi piacevoli, i
ragionamenti domestici e secreti, il motteggiare, scherzare, toccare la mano, po venir ancor
ragionevolmente senza biasimo insin al bascio, il che nell’amor sensuale, secondo le regole del signor
Magnifico, non è licito; perché, per esser il bascio congiungimento e del corpo e dell’anima, periculo
è che l’amante sensuale non inclini più alla parte del corpo che a quella dell’anima,
e da quella pure già menzionata del signor Morello sulla somiglianza in senso
anticortese della donna coniata dal Bembo e di quella modellata dal Magnifico. La
demonizzazione dell’adulterio in nome della castità-onorabilità, ossia della difesa della
integrità familiare e della legittimità della discendenza, finisce col togliere il corpo
anche all’amor cortese, con l’eccezione però di quello dei legittimi coniugi,
naturalmente nella legittima interazione reciproca, in quanto investiti in essa anche del
ruolo di amanti, ma, si presume, in una maniera più castigata (un’ipotesi legata alla
tradizionale svalutazione del piacere dell’amore coniugale, tuttavia contestabile, perché
273
Riportiamo qui la nota esplicativa di Cian: «Notisi che il libro finisce con un’arguta minaccia
della signora Emilia, la quale, ricorrendo al linguaggio forense, ammonisce il Pallavicino che, se vorrà
rinnovare le sue ingiuste accuse contro le donne, dovrà esporre le proprie ragioni dinanzi al giudice, che è
il Bembo, e dar garanzia di rimettersi alla sua sentenza ( più sopra, I. 3, la Duchessa aveva detto: «e stiasi
alla sua sentenzia»). In caso contrario, lo dichiarerà contumace e considererà come nulle le sue ragioni »,
in Baldesar Castiglione, Il Cortegiano del conte Baldesar Castiglione annotato e illustrato da Vittorio
Cian, a cura di Vittorio Cian, cit., p. 501.
202
Castiglione potrebbe invece aver inteso così inserire e sottolineare il piacere all’interno
del matrimonio). Una deroga sentimentale a questo amore istituzionalizzato è ammessa
se priva di qualsiasi componente sessuale. Il piacere del corpo in questa società così
civile e condizionata nelle forme deve sublimarsi in un piacere sentimentale. Di qui al
piacere contemplativo offerto dalla bellezza della donna, veicolo di quella divina, il
passo è breve. La castità, intesa come forma di elevazione, espande sempre più il suo
dominio, fino ad investire gli stessi maschi. L’amore terreno viene di nuovo innestato in
quello divino, di cui è strumento, per esserne poi obliato o negato. Non per niente
l’eremita che celebra l’amor divino negli Asolani fa tutta una perorazione mirata a
svalutare quanto di terreno appare bello, in un recupero netto di posizioni medievali
(ricordiamo la distinzione dantesca tra veri e falsi beni) e di diverso la trattazione di
Castiglione, pur mirata a celebrare il divino, ha tuttavia una maggiore attenzione e
valorizzazione della bellezza della donna (e di conseguenza della donna), per
un’impronta culturale che a noi appare più decisamente rinascimentale. Se confrontiamo
questi due passi troveremo infatti nel discorso dell’eremita degli Asolani una
svalutazione della donna, «donnicciuola» destinata a morire, nel Cortegiano invece un
apprezzamento sincero della sua bellezza, seppur in funzione strumentale al
raggiungimento dell’idea della bellezza. Negli Asolani inoltre l’amore terreno viene
presentato come un termine di confronto che però svia e va negato, nel Cortegiano,
come un gradino funzionale nella scala dell’amore, sebbene da superare. Si tratta in
realtà di sfumature sottili che tuttavia ci sembra lecito cogliere.
Et se la voce d’una lingua, la quale poco avanti non sapea fare altro che piagnere et di qui a poco
sarà muta sempre, ti suole essere dilettevole et cara, quanto si dee credere che ti sarebbe caro il
ragionare et l’harmonia che fanno i chori delle divine cose tra loro? Et quando, a gli atti d’una
semplice donnicciuola, che qui empie il numero dell’altre, ripensando, prendi et ricevi
sodisfaccimento, quale sodisfaccimento pensi tu che riceverebbe il tuo animo, se egli da queste
caliggini col pensiero levandosi et puro et innocente a quelli candori passando, le grandi opere del
Signore, che là su regge, mirasse et rimirasse intentamente et ad esso con casto affetto offeresse i
suoi disij? (Pietro Bembo, Gli Asolani, Libro III, cap. 21)
Ma tra questi beni troveranne lo amante un altro ancor assai maggiore, se egli vorrà servirsi di
questo amore come d’un grado per ascendere ad un altro molto più sublime: il che gli succederà, se
tra sé andrà considerando, come stretto legame sia il star sempre impedito nel contemplar la bellezza
d’un corpo solo; e però, per uscir di questo così angusto termine, aggiungerà nel pensier suo a poco
a poco tanti ornamenti, che cumulando insieme tutte le bellezze farà un concetto universale, e
ridurrà la moltitudine d’esse alla unità di quella sola che generalmente sopra la umana natura si
spande: e così non più la bellezza particular d’una donna, ma quella universale che tutti i corpi
adorna contemplerà: onde offuscato da questo maggior lume, non curerà il minore, ed ardendo in più
eccellente fiamma, poco estimerà quello che prima avea tanto apprezzato. (C: IV, 67)
Se adunque le bellezze, che tutto dí con questi nostri tenebrosi occhi vedemo nei corpi
corruttibili, che non son però altro che sogni ed ombre tenuissime di bellezza, ci paion tanto belle e
graziose, che in noi spesso accendon foco ardentissimo, e con tanto diletto, che reputiamo niuna
felicità potersi agguagliar a quella che talor sentemo per un sol sguardo che ci venga dall’amata
vista d’una donna: che felice maraviglia, che beato stupore pensiamo noi che sia quello, che occupa
le anime che pervengono alla visione della bellezza divina! (C: IV 69)
In effetti in questo sforzo virtuoso verso la spiritualizzazione, Castiglione,
sebbene paia tendenzialmente svalutare il corpo, in realtà non lo dimentica, sia per il
valore comunque accordato alla bellezza esteriore, sia perché chiede all’amante
platonico di amare «non meno la bellezza dell’animo che quella del corpo» (C: IV, 62)
e quindi lascia spazio anche a quest’ultima, pur orientando verso quella dell’anima, sia
perché consente i cosiddetti baci spirituali. C’è insomma un’ambiguità, la permanenza
203
di un interesse per la fisicità, anche se la teorizzazione sembra mirare tutta alla
spiritualità e alla castità. Tale duplicità connota l’istanza fondamentale di Castiglione di
conciliare eros ed ethos, rispecchia una problematica sociale e favorisce un
compromesso che dalla mediazione onesta può slittare in quella consentita dalla
simulazione. Castiglione infatti interpreta attraverso la valorizzazione della castità
l’aspirazione di questa società a una misura ideale, a forme di elevazione che sul piano
sociale si esprimono nel rispetto della moralità e della legittimità istituzionale (onestà e
fedeltà nel matrimonio) e sul piano individuale nella stessa partecipazione
all’esperienza mistica neoplatonica, promuovendo un’armonia complessiva, ma nello
stesso tempo deve fare i conti con un’altra istanza, quella del piacere, particolarmente
pressante in questa società che può permettersi il lusso dell’ozio nobile e, per quanto
valorizzi l’acculturazione, non condivide più completamente l’attitudine classicoumanistica alla relegazione negli studi e tanto meno quella cristiano medievale della
relegazione vuoi eremitica, vuoi cenobitica nella preghiera, e che per di più stuzzica
l’eros con l’interazione di genere nella vita mondana. La stessa valorizzazione della
bellezza, ben presente anche nella sintesi neoplatonica con la bontà, comporta
l’indirizzarsi a un piacere, estetico certo, ma che sottende l’eros, più di altre forme
sublimate. L’esteticità investe pure il campo relazionale con la grazia e la misura e
diviene una forma di piacere in cui si metaforizza e sottende anche la pulsione erotica.
Castiglione effettivamente tenta la conciliazione tra moralità e libido attraverso la
traslazione del piacere erotico a forme relazionali estetiche, acculturate e sublimate, una
mediazione dunque, un compromesso che, se intimamente fallisse, avrebbe tuttavia la
possibilità di un mascheramento esteriore, quello della simulazione e dissimulazione
che consentirebbe la convivenza della trasgressione segreta e del rispetto patente della
regola, consentendo ‘buona vita’ sia alla società formalmente non aggredita sia al
singolo soddisfatto nei suoi bisogni. Una prassi quest’ultima che effettivamente si darà
e che sarà dichiarata apertamente nella Raffaella da Piccolomini. La preoccupazione
moralizzante, lo ribadiamo, se è in consonanza con la facciata perbenistica della società
aristocratica, conflige con quella verve relazionale che anima la società di corte e che si
sostanzia della naturale pulsione libidica verso l’altro sesso, espressa in forma
mascherata ampiamente dalla conversazione faceta, e trova nel riso comune
all’interlocutore e al pubblico, nell’ironia e nei doppi sensi, se non una sconfessione,
certo una forte limitazione. Tanta severità di norme e ritualizzazione di forme non può
infatti condizionare in toto una società che cerca di fatto il piacere. La convivenza tra
questi due poli è assicurata dalla valorizzazione dell’apparenza e dalle tecniche della
simulazione e dissimulazione.
A questo proposito abbiamo già avuto occasione di dire che
quell’intrattenimento che è funzione centrale della vita di corte ed è compito del
cortigiano come della donna di palazzo, che in questo ambito interagiscono, insomma la
compresenza mondana dei due generi, ha comportato l’elaborazione di un codice
normativo di rispettabilità e di rispetto reciproco, e in particolare degli uomini verso le
donne, il soggetto sociale più debole, nonché un forte autocontrollo delle donne capace
di promuovere anche il controllo maschile; intendiamo cioè affermare che è lo stesso
riconoscimento di una libertà relazionale, in cui la donna costituisce con la sua bellezza
e la sua carica erotica un forte richiamo per la pulsione libidica maschile, a comportare
un irrigidimento delle norme: esse però nascono con l’intenzione di permetterla, non di
impedirla: certo, la permettono con regole di civiltà, ma, poiché ci è noto come questa
ostacoli la libertà pulsionale creando squilibri, ci pare effettivamente che apparenza e
simulazione si offrano, anche contro l’intenzione di Castiglione, come valori e strategie
che consentono il doppio gioco, aspetto del resto che Piccolomini con la parodia della
204
sua Raffaella, evidenzia benissimo. E lì corpo, sesso, adulterio affermano in pieno i
propri diritti. Ribadiamo che proprio quella donna che in questa opera afferma il proprio
diritto al piacere e si avvale della segretezza e della simulazione per raggiungerlo è la
medesima che, emancipata da Castiglione, sotto il profilo relazionale pubblico e
parzialmente culturale, comporta però tutto uno sforzo dell’autore (moralista forse più
per necessità che per vocazione), per contenere le nuove libertà nei vecchi limiti. Ai
vincoli delle pareti domestiche si sostituiscono quelli di un forte controllo sociale
sull’onestà dei comportamenti, soprattutto (ma non solo, per Castiglione) per quello che
appaiono. Si ha così l’anatema dell’adulterio, consentito invece, purché segreto,
nell’etica cortese, e la coniugazione dell’amore col matrimonio. Se le norme riguardano
anche l’uomo, esse, quando sono pertinenti alla castità, concernono soprattutto la donna,
per tradizione socioculturale, opportunamente confermata, nel momento in cui la
liberalizzazione parziale del soggetto femminile può generare paure di trasgressione,
attraverso l’imposizione di una normativa addirittura più severa. La preoccupazione per
la castità femminile è più che mai evidente non solo nell’involuzione dell’amor cortese,
ma anche nella celebrazione dell’amor platonico, un amore appunto casto (in cui il
bacio, paradossalmente ammesso, mentre è stato vietato all’amor cortese fuori del
matrimonio, è tuttavia giustificato come forma di contatto spirituale), come la forma più
alta d’amore a corte, oltre che nel continuo richiamo al dovere di castità nella
modellizzazione della donna di palazzo. Così, mentre da una parte se ne esalta la
bellezza, le si riconoscono, almeno parzialmente, intelligenza e cultura, e la si eleva al
ruolo di mediatrice sociale e promotrice del miglioramento dell’uomo, dall’altra la si
continua a privare del piacere del proprio corpo, consentito solo in una forma di
compiacimento narcisistico, ma non integralmente sessuale. Il corpo-materia viene sì
esaltato nella forma della bellezza, a quel corpo–materia si riconosce anche la forma
dell’intelligenza, ma dalla fruizione piena di quel corpo, ovvero del suo corpo, la donna
resta esclusa: esso è un dominio maschile e la donna è sostanzialmente funzione, organo
del maschio, e non viceversa. La complementarità, per quanto sfumi la dipendenza della
donna, non l’annulla affatto. Lo riprova il fatto che non solo la complementarità del
femminile al maschile, ma anche quella del maschile nei confronti del femminile,
presuppone e conserva sempre questa dipendenza. La donna serve al maschio per la
procreazione, la gestione della casa, il piacere, la promozione al miglioramento, e anche
il maschio serve alla donna, in quanto la guida, la educa, la protegge, la mantiene,
insomma la garantisce, la celebra addirittura: diritti e doveri, comportamenti obbligatori
o consigliati si intersecano a dimostrare che il padrone, pur civilizzato e sensibilizzato,
resta sempre il maschio. Non solo: il rapporto di dipendenza femminile si coglie anche
nel fatto che la relazione tra maschio e femmina basilare sia nell’amor cortese che
nell’amor platonico è quella della coppia sposata, o si contiene in quel rapporto o è
esemplata su quel rapporto, quello appunto che abbiamo or ora evidenziato. Va
comunque rilevato che gli echi della relazione di servizio cui l’amata ha diritto con
l’amante cortese, non vengono del tutto meno, non solo per la riproposizione teorica che
ne fa Emilia Pio, ma anche perché essi vengono introiettati nella relazione della coppia
platonica, e di qui, come vedremo bene in Piccolomini, nello stesso matrimonio dove il
marito assume un comportamento più civile e servizievole. La coniugazione tra amor
cortese e matrimonio è ravvisabile anche in questa particolarità.
Ancora un’ultima annotazione: tutta questa disquisizione sull’amore, cortese e
platonico, affonda le sue radici nella tradizione culturale che enfatizza insieme in esso
una condizione psicologica e un legame sociale. L’una e l’altro sono considerati fattori
di elevazione spirituale e di civiltà. Ne consegue che appare ovvia la sua centralità nel
205
Cortegiano, per la pertinenza di questa finalità alla società di corte, che l’assume come
suo codice distintivo, come blasone di nobiltà, per l’appunto.
10.13. L’inasprimento della diatriba tra filogini e misogini e il recupero delle
fonti antiche. La reinterpretazione in chiave filogina dei presupposti misogini.
La mediazione dei misogini, relativa solo al riconoscimento delle doti esteriori visibili. La revisione
filogina dei presupposti aristotelici di sostanza e accidente, materia e forma, caldo e freddo in relazione
al rapporto di genere. Il mito dell’androgino. La riproposizione della contrapposizione Eva-Maria. La
contestazione della linea maschilista della memoria storica. La condivisione femminile del pregiudizio
maschilista dell’inferiorità intellettuale.
La diatriba tra misogini e filogini che percorre tutto il Cortegiano, trova nei
capitoli 11-52 del Libro III uno sviluppo articolato ed esemplare, che va a recuperare le
fonti e in parte interviene sulla tradizione. Cercheremo ora di presentarla
dettagliatamente, premettendo che gli argomenti dell’uno e dell’altro interlocutore non
autorizzano di per sé una trasposizione al pensiero di Castiglione, che ci sentiamo
autorizzati a individuare piuttosto nella modellizzazione della donna di palazzo, come
del resto abbiamo già tentato di fare. Perciò in questa sezione, oltre ad evidenziare gli
elementi che ci paiono innovatori sia in senso misogino che in senso filogino, o le
nuove mediazioni, andremo a cogliere, nei temi e negli esempi, aspetti della stessa
tradizione filogina che convalidano il discorso fondante di Castiglione in merito alla
donna di palazzo e aspetti che invece sono omessi, oltre ad elementi misogini
perduranti, anche se parzialmente occulti, quando non abilmente occultati. Per ulteriore
chiarezza rimandiamo alla tavola conclusiva sull’argomento.
L’infuocarsi della diatriba prende proprio le mosse dalla domanda polemica e
provocatoria del signor Gasparo sulle ragioni della mancata attribuzione alla donna di palazzo di
competenze politiche, cui il Magnifico si sottrae con un escamotage, sostenendo che tale
argomento non riguardava propriamente il suo assunto, in quanto non ha parlato di regine, e
dando per scontate, anche col sostegno dell’autorità di Platone, le capacità politiche delle donne,
nonché dalla presunta riproposizione da parte del signor Gasparo della posizione radicalmente
misogina, espressa dal signor Ottaviano alla fine della seconda giornata (C: II,91):
Conosco ben che voi vorreste tacitamente rinovar quella falsa calunnia, che ieri diede il signor
Ottaviano alle donne: cioè che siano animali imperfettissimi, e non capaci di far atto alcuno virtuoso,
e di pochissimo valore e di niuna dignità, a rispetto degli omini: ma in vero ed esso e voi sareste in
grandissimo errore se pensaste questo (C. III, 10)
I difensori delle donne, il Magnifico e il Gonzaga, recupereranno nella diatriba anche le
posizioni filogine tradizionali attribuendo, ad esempio, pure alle donne virtù tipicamente
maschili, quali la forza e l’abilità di governo, che nella donna di palazzo vengono invece taciute.
La confutazione del Magnifico da parte del Signor Gasparo comporta però anche
l’ammissione indiretta del suo ruolo come oggetto di piacere sociale, riconoscendo alla donna di
palazzo quale massimo pregio le doti visibili che l’adornano: bellezza, discrezione, onestà,
affabilità, sapere «intrattenere senza incorrere in infamia con danze, musiche, giochi, risi, motti
e l’altre cose che ogni dí vedemo che s’usano in corte» (C: III, 11), una lode a doppio taglio a
supporto della quale chiede il sostegno del pubblico femminile presente, in una apparente
valorizzazione dell’interagire dialogico tra i sessi contraddetta dal tentativo di forzarne la
condivisione ideologica di una condizione subalterna.
Ma esse sono tanto discrete sopra le altre, che amano più la verità, ancora che non sia tanto in
suo favore, che le laudi false; né hanno a male, che altri dica che gli omini siano di maggior dignità, e
206
confessaranno che voi avete detto gran miraculi ed attribuito alla Donna di Palazzo alcune
impossibilità ridicole e tante virtù, che Socrate e Catone e tutti i filosofi del mondo vi sono per niente
(C: III,11)
Questa tattica la si coglie anche in relazione ad un altro riconoscimento da parte del
misogino di un assunto parzialmente filogino, in quanto sostenuto a un certo punto, anche
all’interno della tradizione misogina (vedi Petrarca nel De remediis utriusque fortunae): il
dovere dei maschi di rispettare le donne, che però per il signor Gasparo deve avvenire solo nei
limiti del ‘quanto si conviene’ ed è legato alla presupposizione di una loro inferiorità naturale.
Anche in questa concessione, dunque, resta prevalente l’orientamento misogino.
Nientedimeno essendo questi difetti delle donne colpa di natura che l’ha produtte tali, non
devemo per questo odiarle, né mancar di aver loro quel rispetto che vi si conviene; ma estimarle da
più di quello che elle si siano, parmi error manifesto.- (C: III, 11)
Il consenso del misogino col filogino, pur con le remore evidenziate, mostra da una
parte come sia ormai pienamente accettata la nuova modalità femminile di essere a corte, e nello
stesso tempo lascia intendere come nel filogino permanga quella concezione della donna come
oggetto di piacere, anche se in forme più sublimate e civilizzate, che caratterizza il misoginismo
in una foma più istintuale, prevaricativa e violenta.
L’accusa poi rivolta al Magnifico di essere un adulatore e un simulatore che mira solo a
ottenere i favori delle donne di palazzo (C: III, 11), se va collegata al vecchio argomento che
imputava ai misogini personali ragioni (con la differenza dell’ironia e dell’inversione del difetto
nascosto in un desiderio di piacere altrettanto occulto), è anche una riprova della centralità che
per gli attori maschili hanno acquisito il pubblico e il consenso femminile. Notiamo infatti come
varie concessioni del misogino siano motivate dalla condivisione dello spazio della corte e dallo
statuto speciale di cui concretamente lì gode la donna di palazzo, e che Castiglione riconosce,
cercando di normarlo con una mediazione con l’esistente e con la tradizione.
Dopo questo scontro di apertura, la diatriba va a recuperare, tentando di forzarle in
senso filogino, le fonti della questione di genere, in particolare le aristoteliche. Il Magnifico
infatti riprende la distinzione tra sostanza e accidenti, per sostenere la parità ontologica della
femmina col maschio: medesima è la sostanza dell’essere uomini, diversi, ma secondari, gli
accidenti: quelli del corpo come la forza fisica, in cui le donne sono inferiori, non sono motivo
di particolare stima; quelli dell’animo sono pari nell’uno e nell’altro, pari è l’intelligenza. Anzi,
non solo la femmina è pari al maschio in umanità, virtù e intelligenza, ma, secondo una teoria
filosofica che sostiene che «quelli che son molli di carne, sono atti della mente» (C: III, 13),
correlazione che avevamo ritrovata nella letteratura filogina (ricordiamo Pere Torroella e
Capra), si potrebbe inclinare a credere le donne anche più intelligenti degli uomini, come
comprovano esempi storici. Le differenze di attitudini sono inoltre volute dalla natura per
consentire una più perfetta vita sociale, con espletamento di diverse mansioni. Quest’ultima
osservazione apre una prospettiva nuova: da un confronto diretto di virtù in ordine a qualità e
quantità si passa a un riconoscimento e a una accettazione della diversità come funzionale a una
più perfetta vita sociale. La differenza di sesso e di genere è insomma funzionale a una più
perfetta vita sociale, non semplicemente a una vita sociale: la donna supera così lo stadio più
basso della tradizione misogina che la giustificava solo come essere che la natura aveva reso
necessario per la conservazione della specie, per la procreazione, pur sempre in una condizione
di inferiorità, in quanto formatrice della materia, non dell’anima.
Viene anche rilevata con un atteggiamento critico la linea implicitamente misogina della
tradizione della memoria storica biografica. La scrittura, appannaggio maschile, è stata scrittura
di parte che volutamente ha ignorato o lasciato cadere nell’oblio esempi insigni di figure
femminili. Lo si desume dall’affermazione che esistono esempi di grandi figure femminili nelle
storie antiche «benché gli omini sempre siano stati parcissimi nello scrivere le laudi delle
donne» (C: III, 13), esempi s’intende, di tale grandezza che non li si è potuti tacere. Giova
ricordare che questo argomento, che suona come protofemminista, viene ripreso più tardi da
Margherita Gonzaga, che chiede di narrare ampiamente le opere virtuose delle donne per poterle
207
conoscere e conservarne quella memoria che gli uomini cercano di ostacolare, investendo così
forse implicitamente le stesse donne dell’onere di questa tutela.
Disse allor Margherita Gonzaga: Parmi che voi narriate troppo brevemente queste opere virtuose
fatte da donne; ché se ben questi nostri nemici l’hanno udite e lette, mostrano non saperle, e vorríano
che se ne perdesse la memoria: ma se fate che noi altre le intendiamo, almen ce ne faremo onore. (C:
II, 23)
Un ragionamento che si ritrova già nella prima redazione dell’Orlando furioso
ariostesco, e sarà ripreso nelle successive e ampliato nell’ultima.274
274
La trattazione del tema della parzialità maschilista della memoria storica compare in modo
ricorrente nelle diverse redazioni del Furioso (C. XVIII, ottava 1-3, redazione del 1516; C. XVIII, ottava
1-3, redazione del 1521; C. XX, ottava 1-3, e C. XXXVII, ottava 1-24, redazione del 1532): gli uomini,
per non perdere la loro supremazia e per invidia, ne hanno taciuto le opere virtuose e amplificato le
viziose, ma i tempi stanno cambiando, ed ora sono numerosi gli scrittori che le celebrano, tra cui Pontano,
Bembo, Castiglione e, s’intende, Ariosto stesso, e le medesime donne, le numerose poetesse
contemporanee, hanno preso direttamente voce in capitolo, come dimostra l’elogiatissima Vittoria
Colonna. Ariosto, mentre addita la modificazione di un costume maschile, rileva anche quella del
costume femminile: l’uno e l’altro tendono a un obiettivo comune, rendere la debita dignità e merito alla
donna, e certamente, così afferma Ariosto, la tutela femminile sarà completa quando sarà fatta dalle
donne. Una posizione questa che va oltre quella di Castiglione e che viene adombrata nel Cortegiano (C:
III, 2), nei termini di una lettura psicologica piuttosto che della costruzione della memoria, nell’incipiente
consapevolezza che la specificità femminile può essere intesa appieno, e quindi espressa, solo dalle
donne. L’affermazione sopra riportata di Margherita Gonzaga sembra più affine, ma è molto implicita.
L’onore di cui le donne vogliono ornarsi con la conoscenza delle storie di donne eccellenti, consiste solo
nella ricezione di queste o implica una volontà di partecipare alla loro trasmissione e alla conservazione
della loro memoria storica? Citiamo ora i passi più importanti: quello sull’eccellenza delle donne, sul
tradimento parziale della memoria storica maschile, e sull’incipiente conservazione della memoria
femminile ad opera delle stesse donne, un passo che ritorna identico, solo con qualche variante
ortografica, nel canto XVIII dell’edizione del 1516 e del 1521, ottave 2-3, e nel canto XX dell’edizione
del 1532, ottave 2-3: «-2- Le donne son venute in excellenza/ di ciascun arte ov hanno posto cura/ e
qualunque allhistorie habbia avvertenza/ ne sente anchor la fama nonoscura/ sel mondo nè gran tempo
stato senza/ non perhò sempre il mal influsso dura/ e forse ascosi han lor debiti honori/ o negligentia, o
invidia de scrittori // Ben mi par di veder ch al secol nostro/ tanta virtù fra belle donne emerga/ che può
dar opra a charte et ad inchiostro/ perche in li anni futuri se disperga/ e perche odiose lingue, il mal dir
vostro/ con vostra eterna fama si summerga/ e le lor lode appariranno in guisa/ che di gran lunga
avanzaran Marphisa» (ed. 1516) e che viene ripreso di nuovo e ampliato nel Canto XXXVII dell’edizione
del 1532, in particolare alle ottave 1-4, concernenti l’invidia e il silenzio maschile sulle virtù delle donne,
unitamente alla pubblicizzazione dei loro difetti: «-1- Se come in acquistar qualch’altro dono / Che senza
industria non puo dare natura,/ Affaticate notte e di si sono/ Con somma diligentia e lunga cura/ Le
valorose donne, e se con buono/ Successo, n’e uscit’opra non oscura,/ Cosi si fosson poste a quelli studi/
Ch’immortal fanno le mortal virtudi// -2- E che per se medesime potuto/ Havesson dar memoria alle sue
lode,/ Non mendicar da gli scrittori aiuto/ Aiquali astio& invidia ilcor si rode/ Che’l ben chene puon dir
spesso e taciuto,/ E’l mal, quanto ne san per tutto s’ode,/ Tanto il lor nome sorgeria, che forse/ Viril fama
a tal grado unqua non sorse.// -3- Non basta a molti di prestarsi l’opra/ In far l’un l’altro glorioso al
mondo, /Ch’ancho studian di far che si discuopra/ Cio che le donne hanno fra lor d’immondo,/ Non le
vorrian lasciar venir di sopra/ E quanto puon fan per cacciarle al fondo, / Dico gli antiqui, quasi l’honor
debbia/ D’esse, il lor’oscurar, come il Sol nebbia. // -4- Ma non hebbe e non ha mano ne lingua/
Formando in voce, o discrivendo in carte, / Quantunque il mal quanto puo accresce e impingua/ E
minuendo il ben va con ogni arte,/ Poter perho, che de le donne estingua/ La gloria si: che non ne resti
parte,/ Ma non gia tal che presso al segno giunga/ Ne ch’ancho se gli accosti di gran lunga»; alle ottave 78, riguardanti il mutamento della posizione degli intellettuali contemporanei, con citazione dello stesso
Castiglione:«-7- Non restate perho donne a cui giova/ Il bene oprar, di seguir vostra via,/ Ne da vostra
alta impresa vi rimuova/ Tema che degno honor non vi si dia,/ Che come cosa buona non si trova/ Che
duri sempre, cosi anchor ne ria,/ Se le charte sin qui state e gl’inchiostri/ Per voi non sono, hor sono a
tempi nostri.//-8- Dianzi Marullo, & il Pontan per vui/ Sono e duo Strozzi il padre e’l figlio stati/ c’e il
Bembo, c’e il Capel, c’e chi qual lui/ Vediamo, ha tali i cortigian formati:/ C’e un Luigi Alaman ce ne son
dui/ Di par da Marte, e da le Muse amati/ Ambi del sangue che regge la terra,/ Che’l Menzo fende e d’alti
stagni serra [...]»; alle ottave 14-18, relative alla memoria femminile costruita dalle poetesse
208
L’idea della donna funzionale alla procreazione viene di fatto ripreso, ma contro il
misogino che ripropone la teoria aristotelica della donna come fattrice della materia e dell’uomo
come determinatore della forma, il Magnifico sottolinea la parità di peso dei due sessi nella
generazione, e l’unità nella solidarietà familiare, utilizzando come argomento probante
l’autorità degli antichi che attribuivano a Dio entrambi i sessi: Giove, secondo Orfeo, era
maschio e femmina; la Sacra Scrittura recita che «Dio formò gli omini maschio e femina a sua
similitudine» (C: III, 14).
Altrettanto interessante è lo sviluppo sul piano dell’attitudine sentimentale che il Signor
Gasparo dà alla teoria aristotelica: la perfezione della forma, rappresentata dall’uomo, e
l’imperfezione della materia, rappresentata dalla donna, sarebbero comprovati dalla
disposizione psicologica di odio dell’uomo nei confronti della donna con cui prima si è
congiunto e di amore invece della donna per il suo primo uomo: l’uomo insomma odierebbe la
donna in quanto portatrice di imperfezione, la donna amerebbe l’uomo in quanto portatore di
perfezione. Riprova dell’imperfezione della donna sarebbe poi il suo desiderio di essere uomo,
perché per istinto di natura desidera la perfezione. Ma il Magnifico contesta punto per punto le
tesi del Signor Gasparo, non nel riconoscimento della fenomenologia dei comportamenti, ma
nell’individuazione delle cause, riportando il desiderio delle donne di essere uomo da un piano
ontologico a un piano storico sociale: le donne desiderano il potere e la libertà degli uomini.
Le meschine non desiderano l’esser omo per farsi più perfette, ma per aver libertà e fuggir quel
dominio che gli omini si hanno vendicato sopra esse per sua propria autorità (C: III, 16).
In termini più filosofici, poi, la donna non può essere considerata materia e l’uomo
forma perché la materia riceve l’essere dalla forma e la donna non riceve l’essere dal maschio,
piuttosto l’uno e l’altra si perfezionano reciprocamente,275 tanto che sono necessari entrambi per
generare. La donna poi continua ad amare il suo primo uomo per la sua inclinazione alla
stabilità; l’uomo invece abbandona la prima donna per la sua instabilità. Per i due diversi
comportamenti ci sono ragioni naturali: il sangue dell’uomo è caldo, la donna è invece frigida.
Mentre i richiami ad Aristotele rimandano alla tradizione misogina classico-medievale,
l’affermazione della stabilità del sentimento femminile in opposizione all’instabilità dell’uomo,
legata pur sempre a presupposti di scienza medica funzionali alla misoginia, si contrappone a un
luogo comune, quello dell’instabilità femminile, sulla base di un collegamento del carattere e
dei sentimenti alla sessualità diversificata per maschio e femmina. Però questa affermazione
slitta da un’apparente rivalutazione della donna in chiave di fedeltà a una giustificazione della
contemporanee, in particolare dalla Colonna, «-14- Et oltre a questi & altri choggi havete /Che v’hanno
dato gloria, e ve la danno: / Voi pervoi stesse dar ve la potete, /Poi che molte lasciando l’ago e ‘l panno/
Son con le Muse a spegnersi la sete/ Al fonte d’Aganippe, e vanno,/ E ne ritornan tai che l’opra vostra/ E
piu bisogno a noi ch’a voi la nostra. //-15- Se chi sian queste, e di ciascunavoglio/ Render buon conto, e
degno pregio darle,/ Bisognera ch’io verghi piu d’un foglio/ E c’hoggi il canto mio d’altro non parle:/ E
s’a lodarne cinque o sei ne toglio/ Io potrei l’altre offendere e sdegnarle,/ Che faro dunque? Ho da tacer
d’ognuna? O pur fra tante sceglierne sol una?// -16- Sceglieronne una, esceglierolla tale [...] //- 18Vittoria e’l nome, e ben conviensi a nata/ Fra le vittorie [...]». Giova sottolineare che l’elogio della perizia
letteraria delle donne contemporanee, tale da superare quella degli stessi maschi (E ne ritornan tai che
l’opra vostra/ E piu bisogno a noi ch’a voi la nostra), non trova riscontro nel Cortegiano, dove si insiste
solo sulla necessità di acculturare mediamente la donna di palazzo, e solamente nei cataloghi si parla di
donne dotte, ma del passato, e che Vittoria Colonna è presentata nella Dedicatoria in una luce ambigua, se
non negativa, per quanto motivata dalla slealtà dimostrata, il che ci apre qualche dubbio sulla
disponibilità di Castiglione verso le donne dotte contemporanee. E per altri rispetti, l’intelligenza
femminile, e ancor più la sessualità femminile, trovano in Castiglione limitazioni non riscontrabili
nell’Ariosto (almeno relativamente ai passi citati qui e altrove), che complessivamente ci sembra più
sensibile all’emancipazione femminile.
275
L’idea della reciprocità del perfezionamento è riproposta da Castiglione nella trattazione
dell’amor platonico: la bellezza della donna promuove l’amor platonico nell’uomo che a sua volta ne
migliora le virtù; ed anche indirettamente nella funzionalità, per la perfettizzazione, della compresenza e
mediazione di attributi maschili e femminili in entrambi i generi, ma soprattutto nel maschile (forza
guerriera + grazia).
209
libertà dell’uomo come frutto di una necessità di natura. Si ripristinano quindi le differenze di
valutazione morale del comportamento del maschio e della femmina su basi naturali di
sessualità diversificata (C: III, 16).
Invece la spiegazione data dal Magnifico del desiderio delle donne di essere uomo come
aspirazione a raggiungere potere e libertà rappresenta una sostanziale novità, e costituisce, se
non una posizione critica, un riconoscimento della discriminazione sociale già denunciata da
altri scrittori della linea filogina, come Christine de Pizan all’inizio del Quattrocento.
Sul fronte opposto, il Signor Gasparo recupera ancora un topico misogino nel suo rifiuto
di affrontare dialettiche filosofiche che non potrebbero essere capite dalle donne, le quali
giudicherebbero oltretutto secondo pregiudizio. E l’intervento della Signora Emilia che invita a
non fare discorsi filosofici che le donne non intendono, comprova indirettamente la tesi del
misogino, ossia della limitata cultura e capacità di intendere delle donne.
Allora la signora Emilia rivolta al signor Magnifico, - Per amor di Dio, - disse, - uscite una volta
di queste vostre materie e forme e maschi e femine e parlate di modo che siate inteso; perché noi
avemo udito e molto ben inteso il male che di noi ha detto il signor Ottaviano e ’l signor Gasparo, ma
or non intendemo già in che modo voi ci difendiate; però questo mi par un uscir di proposito e lassar
nell’animo d’ognuno quella mala impressione, che di noi hanno data questi nostri nemici. (C: III, 17)
D’altra parte però, la battuta di Emilia si presterebbe a una interpretazione diversa: essa
attesterebbe l’aspirazione a essere parte attiva nel dialogo sul proprio sesso, l’affermazione cioè
di un diritto e di una volontà di emancipazione: un paradosso che finora è passato inosservato
alla critica.
La disputa filosofica continua con argomenti ricavati da Aristotele. Il signor Gasparo
rileva che lo stesso Magnifico, riconoscendo il calore come qualità naturale dell’uomo, e la
frigidità come qualità naturale della donna, ha ammesso la maggiore perfezione dell’uomo: il
calore infatti è attivo e produttivo; i cieli infondono solo il calore. La donna poi deriva da questa
freddezza debolezza, «viltà» (C: III, 17) e timidezza. La freddezza insomma sarebbe
imperfezione causa di ulteriore imperfezione.
La controtesi del Magnifico si basa in genere su una concessione seguita da una
confutazione. Se è vero che il calore in assoluto è più perfetto del freddo, nelle cose miste la
perfezione è data dalla mediazione degli opposti, dal «temperamento» (C: III, 18) dell’uno con
l’altro, e a questo si avvicina più la donna che l’uomo. Una riprova della maggior perfezione
delle donne è la loro maggiore longevità. La timidezza della donna va legata altresì a una
maggiore sensibilità, a una più pronta intuizione delle cose. Infine la grandezza d’animo è
mostrata da donne come da uomini. Gli argomenti filogini vengono qui caricati ed enfatizzati: la
donna, anziché meno perfetta dell’uomo su un piano fisico, sarebbe addirittura più perfetta, e la
timidezza sarebbe o difetto minimale o non difetto perché frutto di una dote di sensibilità e
intuizione più elevata di quella dell’uomo.
Come risulta evidente, il Magnifico reinterpreta presupposti della tradizione misogina,
in particolare le tesi aristoteliche, evidenziandone effetti o concause favorevoli alla
rivalutazione della donna, secondo una tecnica già nota alla dialettica tra filogini e misogini.
In sintesi dunque l’immagine di donna plasmata dal Magnifico, sulla base del
riconoscimento teorico di una eguale, quando non maggiore, perfezione di quella maschile, è
quella di una donna positivamente dotata di equilibrio fisico, contemperamento degli opposti,
sensibilità, in misura maggiore del maschio, e il sottolineare che a livello fisico essa si avvicina
più dell’uomo alla perfezione del contemperamento degli opposti significa suffragare come
attitudine innata la dote di mediatrice sociale riconosciutale nella corte e nella civiltà
rinascimentale. Poiché equilibrio, misura, aurea mediocritas sono i canoni principi del
Rinascimento, il dotarne maggiormente la donna forse sposta il Magnifico e con lui Castiglione
verso tesi assai audaci non consapevolmente volute (C: III, 18), e di fatto attenuate e ‘contenute’
nella modellizzazione della donna di palazzo, dove le premesse teoriche e il riconoscimento
delle prevaricazioni sociali maschili non approdano alla concessione di una piena parità col
cortigiano.
210
A questo punto del dialogo un altro interlocutore misogino, il Frigio, introduce un
argomento fondamentale nella tradizione cristiana e medievale: la colpa di Eva, responsabile,
come abbiamo visto, della dannazione di tutta l’umanità, secondo l’interpretazione di
Sant’Agostino. Al che il Magnifico risponde contrapponendo Maria, eletta da Dio per incarnarsi
e redimere l’umanità, secondo una modalità tipica della tradizione filogina. Un esempio tra
l’altro supportato dalle figure di tante donne martiri per il Cristo (C: III, 19). Ci si muove,
quindi, nell’ambito della tradizionale dicotomia Eva-Maria (vedi Parte I, 1.3.6.), ma il tema
viene sostanzialmente quasi eluso, perché non ci si sofferma nella reinterpretazione simbolica
del rapporto di Adamo ed Eva, e solo si citano en passant, in termini genericissimi, le figure
delle martiri cristiane cui tanto spazio aveva dato, ad esempio, Christine de Pizan, e per le quali
si rimanda soltanto alla lettura di san Girolamo. Più avanti vedremo invece quanto spazio si darà
a figure laiche e alla storia antica nei cataloghi, ispirati in buona parte al De mulieribus claris di
Boccaccio.
10.13.1. Gli esempi probanti dei cataloghi.
La susseguente perorazione elogiativa del Magnifico, secondo il quale non c’è uomo
eccezionale che non abbia avuto una moglie, sorella o figlia di merito uguale e talvolta
superiore, spinge il signor Gasparo a chiederne le prove capaci di stabilire se la perfezione della
donna sia realtà o utopia (C: III, 21). Le prove non possono essere che esempi, tratti dalla storia
antica e contemporanea, di donne di alto e di basso rango a dimostrazione del fatto che l’ideale
trova vicine applicazioni nella realtà, sfumando la posizione iniziale che negava l’esistenza di
un esempio concreto di perfetto cortegiano:
[...] atteso che sempre sono state al mondo, ed ora ancor sono, donne cosí vicine alla Donna di
Palazzo che ho formata io, come omini vicini all’omo che hanno formato questi signori (C: III, 21)
Comincia quindi un lungo catalogo sulla scia del modello di San Girolamo e del De
mulieribus claris di Boccaccio che meriterà poi un controcatalogo, peraltro molto più breve, di
esempi misogini. Il Magnifico infatti fornisce una elencazione di esempi di donne eccezionali
per il coraggio e la costanza-fortezza d’animo, romane, barbare, giudee, recuperati dalla storia
analizzata e utilizzata con valore esemplare (C: III, 22). La contestazione del misogino Frigio,
che deprezza la costanza delle donne identificandola col difetto dell’ostinazione, merita il
‘chiarimento’ del Magnifico secondo il quale «la ostinazione che tende a fine virtuoso si dee
chiamar costanzia» (C: III, 23)
Provocata dall’esempio di una donna coraggiosa che si è avvelenata (C: III, 24), la
battuta ironica del Signor Gasparo su un uomo che ha chiesto di morire per non sentire più le
ciance della moglie, introduce nel dialogo un altro difetto grave attribuito dalla tradizione
misogina alle donne, quello della chiacchiera vana. È da notare, nell’orientamento espresso dal
misogino, l’opposizione fra la parola vana, superficiale, disordinata, portatrice di caos della
donna e la parola conoscitrice, formatrice, ordinatrice degli uomini. Va però precisato che nel
dialogo del Cortegiano, secondo l’ottica di Castiglione, la parola della donna non è più vana, è
solo parca e limitata, mirante a mediare e a orientare il dialogo, col riconoscimento implicito
della dote dell’assennatezza e della promozione dell’ordine e del cosmo, seppure non di quella
dell’intelligenza superiore produttrice.
Il Magnifico confuta poi la superiorità maschile non con un’obiezione diretta
sull’argomento (e questo ci sembra una spia di una difficoltà e di un limite nella riconosciuta
emancipazione), ma spostando il discorso verso la violenza verbale e fisica ingiustificata dei
mariti.276
«Rispose il Magnifico Iuliano: Quante meschine donne ariano giusta causa di domandar licenzia
di morir, per non poter tolerare, non dirò le male parole, ma i malissimi fatti dei mariti! Ch’io alcune ne
conosco, che in questo modo patiscono le pene che si dicono esser nell’inferno» (C: III, 25). La denuncia
della violenza maschile, ricorrente nella letteratura filogina, è ribadita anche dall’Ariosto nel Canto V del
Furioso, ottave 1- 3: «-1- tutti gli altri animal che sono in terra / o che vivon quieti e stanno in pace / o se
211
Quanto all’amore, la donna ne è capace, al contrario di quanto sostiene la tradizione
misogina (Andrea Capellano in primis), e qualora non ami, rispetta comunque il marito per
timore, mentre non altrettanto fanno gli uomini nei confronti della moglie, spesso sottoposta a
offese e percosse (C: III, 25). Quando, alla mirabile fedeltà di Camma vendicatrice della morte
del marito Sinatto, e poi suicida, il Frigio obietta che siffatti esempi non si dànno più nella realtà
contemporanea (C: III, 26), il Magnifico ne aggiunge altri tratti dall’esperienza diretta e sua
personale, come quello di Madonna Argentina (C: III, 27), mentre per le donne inventrici e
poetesse, ne elenca solo alcune alla svelta. Arrivato il turno delle donne troiane e sabine, che
dimostrerebbero la loro capacità di mediazione e il loro ruolo comprimario nell’affermazione
della grandezza di Roma, il signor Gasparo contrappone il tradimento di Tarpea (C: III, 28, 29,
30). Per uscire dallo stallo esempio/controesempio, il Magnifico adduce che la quantità degli
esempi elencati è un elemento ulteriore di prova, e, dopo qualche riluttanza fondata sul
desiderio di non oltrepassare la “misura”, procede ad allargarne il catalogo a istanza della
signora Emilia. Un intervento, quello di Emilia, che dimostra a fortiori la tendenza femminile di
partecipare al dialogo protraendo o indirizzando gli argomenti piuttosto che esprimendo giudizi
argomentati (C: III, 32). Di fronte al catalogo di donne coraggiose il signor Gasparo, che
evidentemente dispone di minore quantità di citazioni d’autorità, arriva a mettere in discussione
la veridicità delle fonti antiche o di quanto si dice degli antichi,
Dio sa come passarono quelle cose; perché que’ seculi son tanto da noi lontani, che molte bugie
si posson dire e non v’è chi le riprovi (C: III, 33).
compiendo quasi un atto trasgressivo per la mentalità del Rinascimento (C: III, 33), il che dà
occasione al Magnifico di aggiungere esempi di coraggio e fermezza di intere popolazioni
femminili, le donne di Chio, di Sparta, di Sagunto, e di grandezza di regine e duchesse, in una
vera e propria laudatio delle donne illustri recenti e contemporanee: la imperatrice Teodora, la
contessa Matilde, le duchesse dei Montefeltro, Gonzaga, Estensi, le regine Anna di Francia e
Margherita d’Austria (C: III, 34), Isabella di Castiglia, quasi santificata dal suo popolo per le
doti di giustizia, clemenza, liberalità (C: III, 35). Ricordiamo che alla stessa, per educarla alle
arti di governo coll’autocontrollo dei difetti della natura femminile, si era rivolto fra Martino di
Cordoba con il suo Jardín de nobles doncellas, intorno al 1468, il che autorizza una riflessione
sulla circolazione delle idee e dei miti, oltre che dei comportamenti encomiastici, tra gli
intellettuali cortigiani. Il Magnifico cita poi ancora due regine di Napoli, una d’Ungheria,
Isabella d’Aragona, e anche donne di condizione sociale umile, concludendo, sulla base delle
virtù del coraggio, della costanza, della prudenza-assennatezza, di ascendenza maschile, e della
dedizione d’amore e della castità-onestà, più tipicamente femminili, una celebrazione delle
donne che non conosce barriere né di tempo né di status né di nazionalità. Una celebrazione il
cui internazionalismo riteniamo sincero e rispondente allo spirito rinascimentale, e il cui
interclassismo giudichiamo invece solo di facciata, come forma di mediazione teorica con le
radici cristiane, o anche effetto solamente di un intento di dimostrazione “ad abundantiam”.
Quanto alla decadenza contemporanea, se c’è, è per il Magnifico generale, riguarda regine e re,
non ha cause che rinviino alla diversità di genere (C: III, 36).
La controproposta del Frigio di esempi di regine lussuriose e avide come Cleopatra,
controbattuta a sua volta dal Magnifico col ricordo di Sardanapali corrotti, introduce un altro
argomento fondamentale della tradizione misogina, quello della lussuria femminile, più forte e
più riprovevole di quella maschile. La castità è per il misogino un dovere soprattutto femminile,
non però per ragioni religiose, come nella tradizione cristiana e medievale, ma per una
vengono a rissa e si fan guerra/alla femina il maschio non la face/lorso con lorsa al bosco sicura erra/la
Leonessa appresso il leon giace/col Lupo vive la Lupa sicura/ne la Iuvenca ha del Torel paura// -2- Che
abominevol peste che Megera/e venuta a turbar glihumani petti/che si sente il marito e la mogliera/sempre
garrir d ingiuriosi detti/stracciar la faccia e far livida e nera/Bagnar di pianto e geniali letti/e non di pianto
sol: ma alcuna volta/di sangue gliha bagnati lira stolta//-3-Parmi non sol gran mal: ma che lhuom
faccia/contra natura: e sia di Dio ribello /che se induce a percuotere la faccia/di bella donna: o romperle
un capello/ma chi le da veneno o chi le caccia/lalma del corpo con laccio o coltello/chuomo sia quel non
credero in eterno/ma in vista humana un spirto de linferno//-»
212
questione sociale, la certezza della prole. Pesa qui un fenomeno rinascimentale, quello della
priorità della famiglia, che troverà poi uno sviluppo anche nell’etica borghese dell’Ottocento e
nella condanna durissima dell’adulterio femminile (C: III, 37). Ma il Magnifico ribalta
l’argomento della debolezza e imperfezione delle donne in senso filogino, secondo una tecnica
già accreditata nella tradizione filogina. Se le cose stanno così, se l’uomo è superiore alla donna
e più perfetto di lei, sia lui a dare esempi di castità e non ceda alla lussuria femminile,
sottolineando il dovere di guida e l’eguale e maggiore responsabilità dell’uomo già additata da
Petrarca. Nella realtà, invece, si assiste a una deresponsabilizzazione dell’uomo che
arbitrariamente considera l’infedeltà e la lussuria colpe leggere se da lui praticate, colpe
gravissime invece se praticate dalle donne.
Ma ditemi per qual causa non s’è ordinato che negli omini così sia vituperosa cosa la vita
dissoluta come nelle donne, atteso che se essi sono da natura più virtuosi e di maggior valore, più
facilmente ancora poriano mantenersi in questa virtù della continenzia e i figlioli né più né meno
saríano certi; ché sebben le donne fussero lascive, purché gli omini fussero continenti e non
consentissero alla lascivia delle donne, esse da sé a sé e senza altro aiuto già non porían generare. Ma
se volete dir il vero, voi ancor conoscete che noi di nostra autorità ci avemo vendicato una licenzia,
per la quale volemo che i medesimi peccati in noi siano leggerissimi e talor meritino laude, e nelle
donne non possano abbastanza esser castigati se non con vituperosa morte, o almen perpetua infamia
(C: III, 38).
Una differenziazione di parametri di giudizio ingiustificata che avevano già denunciato,
da un’ottica filogina, Christine de Pizan e il contemporaneo Capra, e che, nonostante
l’orientamento misogino, avrebbe criticato anche Della Casa, il quale inviterà inoltre gli uomini
ad essere più tolleranti verso le donne, data l’incidenza nella colpa della loro naturale
debolezza. Per bocca del Magnifico, Castiglione rileva dunque l’ingiustizia dei due diversi
parametri, ma non la prende di petto, cerca solo di attenuarla a latere, sottolineando il dovere di
non aggravare questa ingiustizia col gettare falsa infamia su una donna. L’onore di una donna
non va infangato e va difeso dal cavaliere anche con il duello (C: III, 38).
Tuttavia il Signor Gasparo replica che l’impudicizia femminile è grave per il fatto di
ricadere sulla discendenza («Il mondo non ha utilità dalle donne, se non per lo generare dei
figliuoli», C: III, 39), con la conseguente necessità di severi castighi per contenerla, e agli
esempi di castità femminile contrappone quella di Alessandro Magno e Scipione (C: III, 39). A
sostegno delle tesi del Magnifico interviene invece Cesare Gonzaga introducendo una nuova
sfumatura teorica: se da un lato ribadisce gli argomenti filogini di una castità tanto più
meritevole quanto più inerente a una natura debole e mal indirizzata e di una vergogna/timor
d’infamia che è una virtù rispetto all’impudenza degli uomini (C: III, 40), dall’altra sottolinea
che il freno esteriore dei castighi spesso non ottiene effetto, e ad esso va preferito quello
interiore dell’amor della virtù e del desiderio d’onore, «del qual molte fanno più stima che della
vita propria» (C: III, 41). La risoluzione del problema viene quindi demandata o a
un’attitudine interiore o a un processo di educazione, affermazione questa che punta sulla
promozione del consenso cosciente in opposizione all’obbedienza motivata dalla paura. Della
virtù femminile, come già aveva fatto Capra, sono poi citati come esempi i tentativi vani di
seduzione, «sollicitudine, doni, prieghi, lacrime» (C: III, 41), messi in atto da molti uomini.
L’esperienza propia e altrui lo documenta, mentre il misogino signor Gasparo ribatte
277
Giovanni Della Casa, Quaestio lepidissima an uxor sit ducenda, Se si debba prender moglie,
[1554], in Prose di Giovanni della Casa e altri trattatisti cinquecenteschi del comportamento, a cura di
Arnaldo Di Benedetto, Torino, UTET, 1970, pp. 47-133, p. 105.
Il civismo del Gonzaga si riscontra anche nell’affermazione che la donna è necessaria non solo
all’essere, ma anche al benessere dell’uomo, in quanto essa espande il valore e gli ambiti di
completamento dell’uomo assegnati alla donna, dalla procreazione e dalle tradizionali doti di accudienza
alla casa e di buona consigliera a quelle della grazia, piacevolezza, intrattenimento, promozione di azioni
magnanime ed esperienze sublimanti. L’argomento, che darà occasione alla trattazione dell’amor cortese,
sarà sviluppato più tardi, ma il suo inserimento costituisce l’apoteosi della complementarità del femminile
per la realizzazione del piacere maschile, anche nella forma dell’incivilimento e della sublimazione.
213
sottolineando l’incoerenza o astuta simulazione femminile riscontrabile nel fatto che le donne
pregate si negano, quelle non pregate pregano gli altri. In conclusione, della donna, accanto alla
virtù della castità, si celebra qui da parte dei filogini il culto dell’onore-onorabilità sociale,
valore e preoccupazione che essa condivide con gli uomini, in particolare con l’élite
aristocratica e l’ambiente di corte, nell’ambito di una società gerarchizzata e fortemente
regolativa.
L’onorabilità della donna si associa anche per bocca del Gonzaga al tema dell’opinione
pubblica in rapporto alle false dicerie e alle rivelazioni dei flirt che la danneggiano, ma
attenendosi al codice cortese della segretezza (C: III, 42). Inoltre egli insiste sulla virtù della
continenza femminile, riportando esempi antichi e moderni di donne innamorate che non si sono
concesse all’innamorato (C: III, 43), e sottolineandone la superiorità rispetto ad Alessandro
Magno e a Scipione, casti per motivazioni non morali, e comunque non innamorati delle donne
rispettate (C: III, 44). Il dibattito sulla continenza femminile vs incontinenza maschile sfocia
infine nella presentazione delle donne come depositarie della moralità in una società in profonda
crisi (C: III, 46): esse infatti resistono agli assalti dei seduttori, mentre il mondo maschile è
corrotto: capi militari, prelati, notai, medici, sono tutti colpevoli di venir meno ai loro doveri.
Un vero e proprio rovesciamento della tesi misogina più arcaica: la lussuria/incontinenza
femminile (C: III, 45 e 46). Nel ruolo tuttavia assegnato alla donna di palazzo di controllo
sociale, frutto dell’autocontrollo dovuto all’introiezione della stessa imposizione sociale della
castità, è più evidente il percorso di rovesciamento fatto da Castiglione, perché non basato su
affermazioni di principio sostenute da esempi, ma sull’interpretazione di un processo
psicologico e sociale complesso.
Ma il valore/pregiudizio della castità cristiano-medievale mostra qui anche la sua
vitalità, al punto che il filogino apprezza la scelta di anteporre la morte alla perdita della castità
per violenza carnale, il che è una forma di punizione doppia della vittima sotto apparenza di
eroicizzarla (C: III, 46, 47). Di qui anche la lunga enumerazione di esempi di castità fino a
quello, in forma altamente adulatoria, della «signora Duchessa nostra» (C: III, 49), Elisabetta
Gonzaga, sposa di Guidubaldo di Montefeltro, e duchessa mecenate della corte di Urbino,
vissuta in castità per quindici anni accanto al marito impossibilitato per malattia ai rapporti
sessuali. La lode, che trascende i limiti della intimità e del buon gusto, anche se autorizzata e
comprensibile nell’ambiente cortigiano servile verso il mecenate, comporta l’invito della
signora duchessa a tralasciare l’argomento, e qui la donna si mostra schiva e assennata e con un
senso della misura e del dicibile molto maggiore dell’uomo.
Non posso pur tacere una parola della signora Duchessa nostra, la quale, essendo vivuta
quindeci anni in compagnia del marito come vidua, non solamente è stata costante di non palesar mai
questo a persona del mondo, ma essendo dai suoi proprii stimulata ad uscir di questa viduità, elesse
più presto patir esilio, povertà ed ogn’altra sorte d’infelicità che accettar quello che a tutti gli altri
parea gran grazia e prosperità di fortuna;- e seguitando pur messer Cesare circa questo, disse la
signora Duchessa: - Parlate d’altro e non intrate più in tal proposito, ché assai dell’altre cose avete
che dire ( C:III, 49).
Il tema della castità trascina con sé quello del suo opposto, la caduta, di cui si elencano
diversi casi, imputati però, piuttosto che alla debolezza del sesso e alla maggiore inclinazione
naturale verso la sessualità, alla seduzione e alla violenza e ricatto maschile, spesso aiutati dalla
compiacenza delle fantesche, e anche dei padri e dei mariti. L’astuzia maschile in questo ambito
è stata anche aiutata dall’«educazione» offerta da scrittori, come Ovidio, afferma il Gonzaga.
Così si viene a deresponsabilizzare la donna, con una operazione simile a quella che i
maschilisti fanno con gli uomini, con l’intendimento di ottenere un’attenuazione della
riprovazione sociale (C: III, 50). Qui Castiglione, anche se attenua la colpa della donna, resta in
una posizione più arretrata rispetto ad Ariosto, se gli è attribuibile l’ideologia espressa dalle
parole di Rinaldo che, nel Canto IV (ottava 63-67) del Furioso, in difesa di Ginevra, accusata
d’adulterio, formula un’appassionata apologia delle donne, autorizzandole alla concessione di sé
all’amante in nome del «suave fin d’amore» e col solo consiglio di tutelar la segretezza («la
loderei molto / quando non fosse stato manifesto»), un riconoscimento paritario della loro
214
sessualità rispetto a quella degli uomini, diritto impedito ingiustamente da una legge severa che
non riguarda invece gli uomini.
63
Penso Rinaldo alquanto, e poi rispose
Una donzella dunque de morire?
Perche lascio sfogar'ne l'amorose
Sue braccia, al suo amator tanto desire?
Sia maladetto chi tal legge pose,
E maladetto chi la puo patire,
Debitamente muore una crudele
Non chi da vita al suo amator fedele.
64
Sia vero o falso: che Ginevra tolto
S'habbia il suo amante: io non riguardo a questo
D'haverlo fatto:la loderei molto
Quando non fosse stato manifesto
Ho in sua diffesa ogni pensier rivolto
Datemi pur un chi mi guidi presto
E dove sia l'accusator mi mene
Ch'io spero in Dio: Ginevra trar di pene.
65
Nonvo gia dir ch'ella non l'habbia fatto
Che nol sappiendo il falso dir potrei,
Diro ben che non de per simil'atto,
Punition cadere alcuna in lei,
E diro che fu ingiusto o che fu matto
Chi fece prima li statuti rei
E come iniqui rivocar si denno.
E nuova legge far con miglior senno.
66
S’ un medesimo ardor, s'un disir pare
Inchina e sforza l'uno e l'altro sesso
A quel suave fin d'amor che pare
All'ignorante vulgo un grave eccesso:
Perche si de punir donna o biasmare
Che con uno o piu d'uno habbia commesso
Quel che l'huom fa con quante n'ha appetito
E lodato ne va: non che impunito?
67
Son fatti in questa legge disuguale
Veramente alle donne espressi torti,
E spero in Dio mostrar che gli gran male
Che tanto lungamente si comporti.
Rinaldo hebbe il consenso universale
Che fur gli antiqui ingiusti: e male accorti:
Che consentiro a cosi iniqua legge,
E mal fa il Re che puo ne la corregge. 279
Questa discriminazione di genere era già stata messa in campo dal Magnifico nella
diatriba col misogino, ma solo col fine di un contenimento della lussuria e infedeltà maschile.
Non è senza ragione che il catalogo degli esempi, che in amplissimo numero sono di matrice
filogina e mostrano quindi un prevalente orientamento in questo senso, dopo avere evidenziato
il possesso da parte delle donne di virtù tipicamente maschili, quali il coraggio, la costanza, la
prudenza, e la loro capacità di mediazione e correzione degli errori degli uomini, si concluda
279
Orlando Furioso, 1532, Canto IV, ott. 63-67 (non si notano differenze con le precedenti
redazioni del 1516 e del 1521, il che autorizza a pensare che Castiglione avesse bene a mente questo
audace discorso di Rinaldo).
215
incentrandosi reiteratamente sulla castità, perché su questo obbligo femminile, su cui insistono i
misogini, nemmeno i filogini rinascimentali (tranne forse alcune eccezioni) sembrano
transigere. Anzi Castiglione non farà che ribadirla ad ogni pié sospinto anche nella
modellizzazione della perfetta donna di palazzo. La concessione della libertà sessuale alle
donne, e persino il riconoscimento di un loro diritto al piacere sessuale, era evidentemente
avvertito come un fattore destabilizzante per la società.
216
10.13.1.1. Tavola di riepilogo degli esempi di virtù femminile riportati
nei cataloghi del 3º libro per bocca del Magnifico Juliano e del signor Cesare
Gonzaga.
Luogo del testo.
Esempio antico
/moderno.
Virtù.
Personaggio
femminile.
Azione.
Discredito
misogino.
C: III, 22
E. antico
Generica
eccellenza pari o
superiore a quella
dei mariti, fratelli,
padri.
Ottavia, sorella di
Augusto.
Porcia, figlia di
Catone.
Gaja, moglie di
Tarquinio Prisco.
C: III, 22
E. antico
Coraggio, amore
dei figli.
Protezione
Alessandra,
moglie del tiranno coraggiosa dei figli
dall’ira della folla
dei Giudei.
contro il tiranno.
C: III, 22
E. antico
Coraggio.
Moglie e sorelle
di Mitridate.
Maggior coraggio di
Mitridate di fronte
alla morte.
C: III, 22
E. antico
Coraggio.
Moglie di
Asdrubale.
Maggior coraggio
del marito di fronte
alla morte.
C: III, 22
E. antico
Coraggio,
Armonia, figlia
fermezza, costanza. del tiranno
Gerone.
La scelta della morte Non pregio di
costanza, ma
nell’incendio della
difetto di
patria.
ostinazione.
C: III, 23
E. antico
Costanza.
Epicari, libertina
romana.
La non menzione,
sotto tortura, dei
nomi dei congiurati
contro Nerone.
C: III, 23
E. antico
Costanza.
Leona, cittadina
Ateniese.
La non menzione,
sotto tortura, dei
nomi dei congiurati
contro i trenta
tiranni.
C: III, 24, 25
E. antico
Costanza, fermezza Donna
d’animo.
marsigliese, nel
periodo della
Repubblica
romana.
Assunzione del
veleno per il
suicidio, davanti al
senato; atto
permesso per legge
a chi dimostrava
motivazioni
sufficienti per
Personaggio
maschile
contrapposto
in virtù;
personaggio
femminile
contrapposto
per vizio.
Indicazione, non
di un vizio
contrapposto, ma
di un altro,
abitualmente
attribuito alle
donne: la
chiacchiera
(La richiesta
del suicidio da
parte di un
infelice marito
tormentato dal
cianciare della
moglie).
217
togliersi la vita.
C: III, 26
E. antico
Il maggiore amore
delle mogli per i
mariti.
Camma, moglie
La dedizione alla
di Sinatto.
memoria del
defunto marito:
costanza, fermezza,
coraggio.
L’accettazione
simulata del
matrimonio con
Sinorige, l’assassino
del marito. Il suo
omicidio e il proprio
suicidio.
Madonna
Argentina, la
moglie del pisano
Tommaso.
La morte improvvisa
per l’emozione di
saperlo salvo dalla
prigionia dei Mori.
Sapienza.
Le dee Pallade e
Cerere.
Inventrici.
C: III, 28
E. antico
Sapienza.
Le Sibille.
La rivelazione del
futuro.
C: III, 28
E. antico
Sapienza, cultura.
Aspasia e
Diotima.
Maestre di
grandissimi uomini.
Nicostrata, madre
di Evandro.
L’insegnamento
delle lettere ai
Latini.
Un’altra donna.
Maestra del lirico
Pindaro.
C: III, 27, 28
L’amore della
E. contemporaneo moglie per il
marito.
C: III, 28
E. antico
vana.
L’insinuazione
che la morte sia
dovuta non alla
gioia, ma al
dispiacere del
ritorno del
marito.
Le donne causa di
molti beni.
Funzione
pedagogica del
maschile.
C: III, 28
E. antico
Sapienza cultura.
Funzione
pedagogica che
riguarda il processo
di incivilimento di
un’intera
popolazione.
C: III, 28
E. antico
Sapienza, cultura.
Funzione
pedagogica del
maschile.
C: III, 28
E. antico
Cultura.
Corinna e Saffo.
Eccellentissime in
poesia.
C: III, 29
E. antico
Donne causa della
grandezza di
Roma, forse come
gli uomini.
Saggezza, «utile
Le donne troiane.
La distruzione nel
Lazio della flotta,
per porre fine alle
peregrinazioni.
218
consiglio»,
capacità
mitigatrice, tramite
dimostrazioni
d’affetto.
C: III, 30
E. antico
Capacità
mediatrice e
mitigatrice.
Utilizzo strategico
della maternità,
«pietà»,
«prudenzia»,
«saggie»,
«magnanime».
Le donne sabine.
La mediazione tra
mariti e padri per
impedire la
battaglia.
C: III, 31
E. antico
Donna causa di
danno.
C: III, 31
E. antico
Donne causa di
bene.
Le ancelle di
Giunone.
C: III, 31
E. antico
Donne causa di
bene.
Una «vil femina». Causa della scoperta
della congiura di
Catilina.
C: III, 32
E. antico
Donne correttrici
degli errori degli
uomini.
Senso dell’onore,
coraggio, astuzia.
Il tradimento di
Tarpea.
Liberazione di
Roma dalle insidie
dei nemici.
Le donne di Chio. La partecipazione
alla lotta armata
contro Filippo di
Demetrio, per la
tutela del loro onore
di donne.
Il convincimento dei
mariti a rompere un
patto vile con gli
Eritrei, con il
suggerimento di uno
stratagemma.
C: III,32
E. antico
Senso dell’onore,
coraggio.
Le donne dei
Persiani.
Il rimprovero
durissimo dei loro
uomini in fuga,
sospinti così per
vergogna di nuovo
alla battaglia.
C: III, 33
E. antico
Senso dell’onore,
Coraggio.
Le donne
spartane.
L’apprezzamento
della morte gloriosa
dei figli in battaglia.
La loro uccisione, se
vili.
219
C: III, 33
E. antico
Senso dell’onore,
coraggio.
Le donne
saguntine.
Lotta contro
Annibale.
C: III, 33
E. antico
Senso dell’onore,
coraggio.
Le donne dei
barbari sconfitti
da Mario.
Il suicidio e
l’uccisione dei figli,
per non perdere la
libertà.
C: III, 34
E. recenti
Le donne non
inferiori agli
uomini in virtù né
nel passato né nel
presente.
Prudenza.
Amalasunta,
regina dei Goti.
Il buon governo,
caratterizzato da
prudenza.
«Singular virtù»
Teodolinda,
regina dei
Longobardi.
Il buongoverno,
caratterizzato da
singolare virtù.
Discredito
indiretto,
attraverso il
dubbio che le
testimonianze
storiche
contengano molte
falsità, e quindi
gli esempi siano
falsi.
Il catalogo di
regine, principesse
e duchesse.
La donna di potere.
C: III, 34
E. recente
C: III, 34
E. recente
“
Teodora,
imperatrice
bizantina.
“
C: III, 34
E. recente
“
La contessa
Matilde di
Canossa.
“
C: III, 34
E. recenti e
contemporanei
“
Le donne della
«nobilissima casa
di Montefeltro»,
«della casa
Gonzaga, da Este,
de’ Pii».
Gli esempi,
suggeriti e non
esplicitati, della
duchessa e di
Emilia Pio.
“
Anna, regina di
C: III, 34
Giustizia,
Francia.
E. contemporaneo clemenza,
liberalità, santità di
vita.
Il buon governo,
caratterizzato da
giustizia, clemenza,
liberalità, santità di
vita.
C: III, 34
Il buon governo
Prudenza, giustizia. Madonna
220
E. contemporaneo
Margherita, figlia
dell’imperatore
Massimiliano.
caratterizzato da
prudenza e giustizia.
Isabella, regina di
C: III, 35
«non è stato ai
Castiglia.
E. contemporaneo tempi nostri al
mondo più chiaro
esempio di vera
bontà, di grandezza
d’animo, di
prudenzia, di
religione, d’onestà,
di cortesia, di
liberalità, insomma
d’ogni virtù, che la
regina Isabella».
«divina maniera di
governare»,
congiunzione del
«rigor della giustizia
con la mansuetudine
della clemenzia e
della liberalità»,
autorità che ha
meritato «riverenzia,
composta d’amore e
timore», scelta
oculata dei ministri,
creazione degli
uomini grandi e
famosi di Spagna.
C: III, 36
E. contemporanei
Eccellentissime
signore in Italia.
Due regine di
Napoli.
«singular regine»
C: III, 36
E. contemporaneo
“
Paragonabile
La regina d’
Ungheria, morta a all’«invitto e
glorioso re Mattia
Napoli.
Corvino, suo
marito».
C: III, 36
Virtù nelle
E. contemporaneo disgrazie: forza
d’animo.
La duchessa
Isabella
d’Aragona,
sorella del re
Ferrando di
Napoli.
C: III, 36
«eccellentissime
E. contemporaneo virtù»
La signora
Isabella, marchesa
di Mantova.
C: III, 36
Altezza d’ingegno.
E. contemporaneo
La duchessa
Beatrice di
Milano, sua
sorella.
C: III, 36
«eccellentissime
E. contemporaneo virtù».
La duchessa di
Ferrara, Eleonora
d’Aragona.
Virtù nelle
disgrazie.
«non solamente era
degna figliola di re,
ma meritava esser
regina di molto
maggior stato che
non aveano
posseduto tutti i suoi
antecessori».
Isabella di Napoli. Perduto il regno, si
C: III, 36
Virtù nella
dimostra ancora
E. contemporaneo sopportazione della
regina nella dignità.
cattiva fortuna:
forza d’animo,
dignità
221
C: III, 36
E. contemporanei
Esempi di virtù di
donne di basso
grado.
Ardimento, amor di Donne di basso
patria.
grado, le Pisane.
Ardimento nella
difesa della patria
contro i Fiorentini.
C: III, 36
E. contemporanei
Virtuose, spesso
causa di bene agli
uomini e correttrici
dei loro errori.
Le donne
conosciute dai
cortigiani.
(Si suppone le
donne di palazzo
e le donne di
famiglia).
C: III, 36
E. antichi
La virtù del passato
contrapposta
all’eventuale
decadenza
presente.
Le regine virtuose
del passato:
Tomiris, regina di
Scozia, Artemisia,
Zenobia,
Semiramis,
Cleopatra.
La virtù del
passato
contrapposta
all’eventuale
decadenza
presente.
C: III, 37
E. antichi e
contemporanei
Continenza.
A difesa delle
donne: il vizio
negli uomini del
passato e del
presente: la
lussuria degli
«infiniti
Sardanapali».
A discredito delle
donne: il vizio
nelle donne del
passato e del
presente: la
lussuria di donne
come Semiramis
e Cleopatra.
C: III, 39, 42, 43
E. antichi e
contemporanei
Continenza.
Una donna di
bassa condizione.
Un’altra donna.
Conservazione della
purezza, nonostante
l’intenso amore per
un giovane sia prima
del matrimonio
forzato che dopo. La
morte per il dolore
della pena d’amore.
Rifiuto
dell’amplesso, pur
giacendo tra le
braccia
dell’innamorato per
sei mesi.
I grandi
virtuosi del
passato:
Cesare,
Alessandro,
Scipione,
Lucullo,
«Quegli altri
imperatori
romani»
Alessandro
Magno verso le
donne di Dario.
Scipione verso
la moglie di un
nemico
spagnolo.
vinto.
Senocrate che
resiste al
tentativo di
seduzione di
una donna
nuda.
Pericle che
rimprovera
aspramente
uno sospetto di
pedofilia.
C: III, 36
Continenza.
A difesa delle
222
E. antichi
donne:
confutazione o
limitazione del
valore degli
esempi di
continenza
maschile.
C: III, 47
Continenza.
E. contemporaneo
Una giovane
donna capuana.
Il suicidio per
sfuggire alla
violenza dei soldati
francesi.
C: III, 47
Continenza.
E. contemporaneo
Una contadinella
mantovana.
Il suicidio dopo la
violenza carnale
subita.
C: III, 48
Continenza.
E. contemporaneo
La nobil giovine
romana.
La morte per
assassinio a causa
della resistenza alla
violenza carnale.
C: III, 49
Continenza.
E. contemporaneo
La signora Felice
della Rovere.
Il suo proposito di
suicidio se cadrà in
mani nemiche.
C: III, 49
Continenza.
E. contemporaneo
La signora
duchessa.
La castità, l’aver
vissuto come
«vidua» col marito
per quindici anni.
C: III, 50
E. contemporanei
Continenza.
Le donne in
generale.
La resistenza alle
lusinghe e alle
minacce.
C: III, 51
E. antichi e
contemporanei
Le donne, causa di
benessere, civiltà e
ispiratrici di azioni
grandi.
Le donne troiane
e le donne
spagnole.
Eccitano i mariti e
gli innamorati ad
azioni gloriose.
C: III, 52
E. antichi e
contemporanei
Le donne ispiratrici Laura.
degli esercizi
graziosi e della
poesia.
La donna come
simbolo di cose
divine.
Le donne di corte
con la loro
bellezza e virtù.
Ha ispirato il
Petrarca.
Nella poesia mistica
di Salomone.
Ispirano i cortigiani
«chiari ingegni, qui
presenti».
223
10.13.1.2. Gli esempi: un materiale più arretrato rispetto alla modellizzazione
della perfetta donna di palazzo.
La prevalenza della tradizione filogina di attribuzione alle donne di virtù maschili. La presenza in
tono minore degli elementi propri della valorizzazione di Castiglione: capacità di mediazione e benessere
degli uomini. L’assenza delle virtù della discrezione e della mediocritas. La perdurante centralità del
tema della castità e dell’ onore.
La lunga elencazione delle regine: fiducia nella capacità di gestire il politico o mascheramento di una
condizione di eccezione? O semplicemente adulazione?
Consonanza della valorizzazione delle dame di palazzo e della duchessa negli esempi che le hanno ad
oggetto con la loro rappresentazione nella diegesi.
Il catalogo fornisce esempi di virtù di donne in generale, e di regine e duchesse,
in modo molto ampio. Meno spazio hanno esempi di basso rango. Su questo incide la
mentalità e condizione del cortigiano, che non può che elogiare il potere, soprattutto
laddove si presenti dotato almeno di qualche virtù, e con ciò non si vuole mettere in
discussione la buona fede di Castiglione che, come sappiamo, distingue finemente tra
adulazione-attribuzione di pregi falsi e lode-riconoscimento di pregi veri.
Le regine, principesse, duchesse, che trovano la maggior rappresentazione della
perfezione cui possono giungere nella regina Isabella di Castiglia, sono riconosciute
capaci di buono e ottimo governo per le doti di giustizia, clemenza, liberalità, saggezza,
e a volte vi si aggiunge la stessa santità di vita, oppure si riconosce a quelle perseguitate
dalla fortuna avversa la dote femminile-maschile di una rassegnazione caratterizzata da
dignità e dalla fermezza. Le donne che gestiscono il potere hanno le stesse qualità degli
uomini, fuorché quelle propriamente militari, delle quali in genere si tace, e vedono
enfatizzata le doti della clemenza e della liberalità, per la loro natura femminile.
L’insistenza sulle virtù delle donne con un ruolo politico introdurrebbe elementi di
dubbio sulla nostra tesi dell’esclusione del femminile dal politico, se non assistessimo
di fatto al tentativo di ostacolare la percezione che di eccezione si tratta, come
realmente è, perché le regine sono al potere in genere in sostituzione temporanea dei
maschi, e spesso non hanno integralmente il potere politico o abbisognano di aiuto
maschile, e perché di fatto la donna di palazzo viene esclusa da questo ambito, di cui
volutamente non si tratta in riferimento a lei. Solo la duchessa ha nel dialogo un ruolo
centrale in questo senso, e le vengono attribuite le stesse doti che alle altre regine, però
non dimentichiamoci che di figura sostitutiva si tratta. Insomma, ci sembra che, se
dobbiamo ammettere virtù politiche nelle donne, le dobbiamo attribuire più al potere
che per ragioni contingenti di fatto ricoprono, che a un riconoscimento generalizzato
del loro buon diritto ad accedervi. È dunque la gestione del potere che le rende capaci
di comandare, ma questa esperienza riguarda pochi casi isolati, anche se magnificati. E
non per niente, le doti più funzionali al potere sono quelle tradizionalmente attribuite al
genere maschile. È inoltre importante rilevare che le donne regali sono assunte ad
esempio in generale di virtù pari ai maschi piuttosto che ad esempio specifico di virtù
politica, un elemento anche questo che può convalidare la nostra tesi, per la quale
rimandiamo al capitolo sull’esclusione del femminile dal politico.
Le donne poi, in generale, presentate come individui o come gruppo di
popolazione, sono investite per lo più di virtù tipicamente maschili, come il coraggio, la
costanza-forza d’animo, la sapienza, la cultura, e se ne pretende a volte anche la
superiorità rispetto ai maschi. Per la cultura addirittura si assegna loro una funzione
educatrice di intere popolazioni e di grandi uomini cosí da accreditare indirettamente la
grandezza di questi ultimi a loro. Solo marginalmente si colgono alcune doti più
propriamente femminili, quali la capacità mitigatrice, ottenuta facendo leva sulla
seduzione e forza degli affetti, e la capacità mediatrice (donne troiane e sabine). E altro
224
particolare che non deve sfuggire è che molte donne vengono menzionate in quanto
mogli di..., figlie di..., il che, se si giustifica a volte all’interno di un confronto,
dall’altra ci fa ben pensare che la memoria loro è collegata e subalterna alla memoria
del maschile, come del resto anticipano la nota polemica, all’interno della diatriba, sulla
parzialità della memoria storica, e la posizione espressa da Boccaccio nel proemio al
De mulieribus Claris e ripresa anche da Ariosto.
L’impressione che deriviamo dalla maggior parte degli esempi è che ancora ci si
muova nel solco più tradizionalmente filogino, del tentativo di elevare la donna alla
pari, o sopra il maschio, attribuendole le virtù per eccellenza maschili, ad eccezione
della forza più propriamente fisica, e nemmeno di questa, visti gli esempi di
popolazione femminile che prendono direttamente le armi.
L’unica virtù tradizionale tipicamente femminile con cui si esalta la donna è
quella della continenza, virtù in quanto introiettata dalla donna, di alto come di basso
rango, e a lei imposta dal regime maschile, e virtù che assume anche i connotati della
forza e costanza, attribuite dalla tradizione misogina ai maschi. Tale virtù, sappiamo, si
espande nel senso dell’onore, cui gli esempi offrono questa e altre motivazioni. A
margine, la difesa della prole, ossia la funzione primaria della maternità, e l’amore sia
verso i figli che verso i mariti. E soprattutto questa funzione primaria della donna cade
nell’ombra, per l’intendimento di fare della donna una copia del maschio.
Anche questa è una riprova che la maggior parte degli esempi dei cataloghi resta
in un ambito più retrivo rispetto ai ruoli assegnati al femminile nel Cortegiano e alle
posizioni sostenute dai filogini nel dialogo, e condivise da Castiglione, di cui tuttavia
c’è una spia nei riferimenti, negli esempi, alla virtù mediatrice delle donne,
nell’affermazione che le donne sono causa di bene agli uomini, e nel suggerimento di
una collaborazione con essi (le donne di aiuto agli uomini e correttrici dei loro errori),
non però di fatto differenziata in relazione alle virtù di genere. Si tratta piuttosto di
donne che assumono i ruoli maschili, in collaborazione e insieme in competizione con
gli uomini in rapporto alle virtù della sapienza e cultura, o in sostituzione e motivazione
degli uomini all’azione guerresca quando essi diventano vili femminucce.
Bisogna aggiungere che, per intervento del Gonzaga, si introducono tuttavia
alcune altre virtù delle donne più consone al pensiero di Castiglione e all’ambiente
cortigiano, quella del loro contributo al benessere maschile con la promozione di grandi
azioni (vedi l’esempio delle donne troiane e delle dame di corte di Isabella di Castiglia
che stimolano l’ardore guerresco negli innamorati, C: III, 51), e quella del loro essere
ispiratrici di esercizi graziosi e di poesia, con l’esempio non solo della Laura
petrarchesca, ma anche delle dame della corte d’Urbino (C: III,52). Certo questa parte
occupa uno spazio molto più ridotto rispetto agli esempi relativi alle virtù più consuete
della tradizione filogina e ci sembra che in generale i benefici attribuiti dal Gonzaga
alle donne affondino le loro radici in un senso più lato della grazia e del piacere, come
attributi tipicamente femminili, rispetto a quanto emerge dalla maggior parte degli
esempi. È anche possibile ipotizzare una gradazione nell’ordine degli esempi che pone
in penultima posizione quelli sulla continenza e in ultima, e quindi più in alto, quelli
relativi al benessere di cui sono portatrici le donne, uno dei nuovi attributi assegnati
loro da Castiglione, oltre a quello antico e molto condiviso della castità. Ma, se così
fosse, non si giustificherebbe la presentazione delle regine quasi all’inizio, perché ne
menomerebbe l’importanza. Tuttavia la posizione di chiusura può darvi un certo
rilievo. Non dimentichiamo che tra il cortigiano e la donna di palazzo si realizzerà, a
differenza di quanto succede per lo più negli esempi dei cataloghi, una interazione
positiva su basi distinte di genere, pur con una mediazione dei tradizionali attributi e
funzioni: l’uomo si femminilizzerà un poco e la donna acquisirà spazi pubblici e il
225
diritto a una certa cultura. La mediazione che vive l’uomo e che lo potrebbe portare a
una sorta di ermafroditismo di potere, a tanto non giunge, sia perché la
femminilizzazione non deve mai diventare effeminatezza, sia perché, per quanto si
circoscriva e contenga il processo di emancipazione femminile, gli si permette un
incipit.
Per quanto pertiene all’amore, condividiamo in parte l’interpretazione freudiana
della Finucci, secondo cui le donne sono oggetto di desiderio nella mimesi, ossia negli
esempi dei cataloghi come delle facezie, e non nella diegesi, in cui però il discorso
accenna, secondo noi, varie volte a questo impulso sublimato all’interno di corretti e
controllati rapporti formali. Il tema della continenza poi assume all’interno degli
esempi la funzione fondamentale che percorre tutta l’ideologia sul femminile sia di
matrice misogina che di matrice filogina, visto che al filogino Magnifico si deve la
condanna dell’adulterio nell’amor cortese; e si unisce al timor d’infamia che motiva il
suicidio di molte donne disonorate, ricordate negli esempi, e che nel dialogo viene
ricorrentemente richiamato a tutela del comportamento femminile, con la differenza
che negli esempi si tratta di timor d’infamia legato a una trasgressione reale, per quanto
subita, mentre nella realtà di corte e nelle indicazioni dei maschi costruttori del discorso
sulle donne si tratta soprattutto di una attenzione a non cadere nel discredito
dell’opinione pubblica per atteggiamenti non conformi alla morigeratezza, senza
giungere al rapporto carnale per scelta o per violenza. Se da una parte l’obbligo della
morigeratezza s’intensifica al punto da riguardare anche atti minori (ma non
dimentichiamoci che alla donna di palazzo molto si consente nelle relazioni col
maschio, pur con questa «discrezione» e moderazione e con il richiamo alla fedeltà
coniugale), dall’altra, l’attenzione prioritaria alle reazioni dell’opinione pubblica più
che al fatto in sé, autorizza la pratica di comportamenti differenti nella segretezza del
privato con l’aiuto della simulazione e della dissimulazione nel pubblico, anche se
questa non è la posizione del filogino Magnifico né di Castiglione che pretendono una
morigeratezza onesta e sincera, un abito in cui c’è stretta corrispondenza tra l’interiorità
e l’esterioritá. È comunque forte il rischio che la coscienza individuale scenda
nell’ombra, quando domina l’opinione pubblica, e ragione di credito o discredito è solo
quello che pensano gli altri, che sanno gli altri, che immaginano gli altri.
Quanto allo status sociale cui si riferiscono gli esempi, ci sembra che molti
riguardino donne di un rango elevato, certamente tutte le regine e duchesse, in cui le
virtù divengono soprattutto virtù di governo, ma anche altre figure femminili
dell’antichità, e pochi donne di un rango modesto, in sintonia con il carattere
aristocratico della società cortigiana. A volte però vengono citate nell’insieme tutte le
donne di un popolo, così che la virtù individuale si estende ad un intero gruppo,
identificato al femminile. E che gli esempi riguardino di pìù l’antichità che i tempi
moderni, anche se si tende ad escludere una decadenza di questi e si esclude certamente
una decadenza soltanto di genere (C: III, 36).
L’esperienza diretta viene chiamata in campo dai filogini per garantire credito
agli esempi, e a volte non si tratta di quella sola poggiante sull’autorevolezza del
relatore, ma di quella condivisa nell’ambiente cortigiano. Ci stiamo riferendo alle
donne di palazzo e alla duchessa. Le donne di palazzo vengono colte come gruppo
indistinto, in una veloce citazione indiretta relativa al possesso delle virtù in generale
(C: III, 36),280 e in relazione alla loro funzione di ispiratrici di poesia dei nobili ingegni
280
«Basta che, se nell’animo vostro pensate alle donne che voi stessi conoscete, non vi fia difficile
comprendere che esse per il piú non sono di valore o meriti inferiori ai padri, fratelli, e mariti loro; e che
molte sono state causa di bene agli omini, e spesso hanno corretto di molti loro errori;» (C: III, 36)
226
contemporanei nella corte d’Urbino (C: III, 52).281 Delle donne di palazzo si cita come
esempio storico quello delle dame di corte di Isabella, ispiratrici del valore guerresco
degli innamorati (C: III, 51). La mancanza di menzione individuale può rispondere
all’intenzione di celebrare indistintamente l’intera categoria, o alla difficoltà di
selezionarne alcune a detrimento di altre in un ambiente cortigiano in cui l’invidia
avrebbe danneggiato l’armonia ideale. Del resto anche nella rappresentazione delle
donne di palazzo come destinatarie dei ragionamenti, molto poche vengono menzionate
nominalmente come interlocutrici, in generale Emilia Pio, e una o due volte Margherita
Gonzaga e Costanza Fregoso, e in genere si presenta il pubblico femminile in forma
indistinta e in reazioni comuni, gestuali o interpretate dalle poche portavoci
menzionate. E non dimentichiamo che il Magnifico nella prolusione aveva chiaramente
affermato che gli mancavano esempi concreti della perfetta donna di palazzo, anche se
poi, nel corso della trattazione, avrebbe ammesso l’esistenza di esempi molto vicini, e
nella lode alla duchessa avrebbe coinvolto implicitamente anche Emilia Pio (C: III, 34),
come già nel quadro iniziale della presentazione della corte di Urbino, perché Emilia
Pio è in verità una figura a mezzo tra la dama di palazzo e la signora che gestisce il
potere. Il Magnifico aveva peraltro anche riconosciuto nella duchessa un esempio,
invece, concreto di perfezione di donna regnante, perfezione su cui concordava tutta la
corte. Qui l’esperienza diretta è condivisa e riguarda la duchessa, ricordata prima come
esempio di ottima regnante,282 poi come esempio di castità,283 e quindi investita della
funzione di modello esemplare, così negli esempi, come nel corso del dialogo,
attraverso i comportamenti e gli attributi a lei riferiti. Ci troviamo quindi, in relazione
alla figura della duchessa e in relazione alla donna di palazzo, in una situazione di
consonanza tra la linea degli esempi che le hanno ad oggetto e la linea del discorso e
dell’ideologia complessiva del trattato, sia nelle virtù che loro si attribuiscono, sia nelle
modalità con cui le si menziona.
Per gli esempi invece che non le riguardano direttamente, ci sembra di poter dire
che essi in prevalenza costituiscono un materiale più arretrato rispetto alla
modellizzazione della donna di palazzo, un materiale preesistente e di recupero, tratto
appunto dalla tradizione filogina, e non sufficientemente investito degli elementi
innovatori del pensiero di Castiglione. Facevano forse parte dell’ipotizzato progetto
iniziale di una scrittura autonoma in difesa delle donne, ma non ci è lecito sostenerlo,
anche perché la Lettera al Frisia si presenta già molto più innovatrice. O possiamo
ipotizzare che Castiglione abbia sostanzialmente riportato il materiale abitualmente
utilizzato nelle discussioni dei cortigiani sul tema femminile e arretrato rispetto al suo
pensiero? Quanto alla lunga sequenza degli esempi delle regine, non dubitiamo che
potessero far parte del «bagaglio culturale» del cortigiano dell’epoca, innanzitutto per
obbligo di «servizio».
Ma, aggiungiamo, c’è un altro dato sufficientemente vistoso che ci induce a
pensare a quel materiale come antico, e non sufficientemente attualizzato: non solo
sono soltanto appena accennate le qualità di mediazione che Castiglione riconosce alle
donne, ma vi mancano anche le qualità rinascimentali della discrezione e mediocritas,
che Castiglione riconosce e raccomanda a tutta l’aristocrazia di corte,
281
«Non vi nomino i chiari ingegni che sono ora al mondo, e qui presenti, che ogni dí parturiscono
qualche nobil frutto, e pur pigliano subietto solamente dalle bellezze e virtù delle donne.»(C: III, 52)
282
«Se de’ tempi presenti poi parlare vorremo, non ci bisogna cercar esempii troppo di lontano, che
gli avemo in casa. Ma io non voglio aiutarmi di quelle che in presenzia vedemo, acciò che voi non
mostriate consentirmi per cortesia quello che in alcun modo negar non mi potete» (C: III, 34)
283
«Non posso pur tacere una parola della signora Duchessa nostra, la quale essendo vivuta quindici
anni in compagnia del marito come vidua, non solamente è stata costante di non plalesar mai questo a
persona del mondo […]» (C: III, 49)
227
indipendentemente dal genere, e il dato della bellezza, per quanto ricorrente, non è in
genere in primo piano. Né si intravvede l’espansione della continenza femminile a
forma di controllo sociale nell’attività relazionale e a strumento di incivilimento, dato
quest’ultimo invece evidente nella modellizzazione della donna di palazzo e funzionale
al suo ruolo di mediatrice. La continenza è assunta piuttosto a dimostrazione della
forza, costanza, coraggio e dignità femminile, e quindi del possesso di virtù maschili.
Un ultimo dato da rilevare è che nel repertorio citato non ci sono esempi di
lavoro femminile ossia di accudienza alla casa, il che da una parte si giustifica con la
volontà di produrre solo ciò che è funzionale alla competizione coi maschi nel loro
stesso campo d’azione, e dall’altra col fatto che nella modellizzazione della perfetta
donna di palazzo viene celebrato il tempo dell’ozio aristocratico, trascorso nella
conversazione e nell’intrattenimento, e non del lavoro, che la tradizione misogina
auspicava anche per contenere la lussuria femminile. Nell’ambiente di corte la castità
va conciliata con l’ozio e la libertà.
10.13.1.3. Le fonti
Le fonti antiche. I cataloghi di Boccaccio, Castiglione, Ariosto.
Le fonti da cui sono tratti gli esempi sono in genere storiografiche e biografiche:
le Vitae Caesarum di Svetonio, le Vitae parallelae di Plutarco, e i suoi opuscoli Intorno
alle virtù delle donne e Intorno al lodarsi da sé senza invidia, le Historiae di Tito Livio,
gli Annales di Tacito, il Factorum dictorumque memorabilium di Valerio Massimo, e
anche le Noctes Atticae di Aulo Gellio, e per gli esempi più recenti e contemporanei
Leonardo Bruni, Flavio Biondo.
Avvalendoci della ricerca condotta da Cian, nelle sue note al Cortegiano,284
attenta a rilevare le fonti, anche plurime dell’esempio, annotiamo che – a) alla fonte di
Plutarco, la più utilizzata, sono fatti risalire gli esempi di Ottavia, moglie di
Marc’Antonio, di Porcia, moglie di Bruto, di Cornelia, madre dei Gracchi; della moglie
e delle sorelle di Mitridate; di Camma; di Nicostrata; delle donne troiane nel Lazio;
delle «ancille a Giunone»; della «vil femina» delatrice a Cicerone della congiura di
Catilina; delle donne di Chio; delle donne spartane; di Sardanapalo; di Alessandro
Magno; - b) a quella di Valerio Massimo, l’esempio della moglie di Asdrubale; di
Armonia; della donna marsigliese; delle mogli dei Cimbri e Teutoni; di Scipione; di
Senocrate; -c) a quella di Svetonio, l’esempio di Ottavia, moglie di Marc’Antonio; -d) a
quella di Livio, l’esempio di Gaia c Cecilia, moglie di Tarquinio Prisco; della moglie di
Asdrubale; delle donne sabine; di Tarpea; delle donne saguntine; -e) a quella di Tacito,
l’esempio di Epicari; -f) anche a quella di Aulo Gellio, l’episodio di Scipione; -g) a
quella di Cicerone, l’esempio di Pericle; -h) a quella di Boccaccio, l’esempio di Lena
(derivato da Pausania), e i richiami a Tomiri, Artemisia, Zenobia, Semiramide,
Cleopatra; -i) a Giuseppe Flavio, l’esempio di Alessandra, moglie di Alessandro, re dei
Giudei, - l) a Leonardo Bruni, l’esempio di Amalasunta.
Cian inoltre fa riferimento a Guicciardini come a un riscontro storico in
relazione alla regina Isabella di Castiglia e all’episodio delle Pisane e della violenza dei
Francesi alle donne di Capua.285
284
Vittorio Cian, Il Cortegiano, cit., Note al Libro III, capp. 22- 49.
Cian confronta la trattazione di Isabella di Castiglia, fatta da Castiglione, con alcuni passi della
Relazione di Spagna, stesa da Guicciardini nel corso della sua ambasceria del 1512-1513 (Nota 3 al Libro
III, cap. 35), relaziona l’esempio del coraggio delle Pisane con l’episodio del 1499 della guerra tra
Fiorentini e Pisani riportato da Guicciardini (Istoria d’Italia, Vol. II, libro IV, p. 268 della ediz. Classici)
285
228
Ma, a un percorso diretto sul De mulieribus Claris, peraltro anch’esso
dipendente parzialmente da comuni fonti antiche (Zaccaria cita come fonti di
Boccaccio, fra i prosatori, Varrone, Livio, Plinio, Pomponio Mela, Aulo Gellio,
Vitruvio, Tacito, Giustino, Orosio, Floro, Valerio Massimo, Lattanzio, Servio,
Macrobio, Solino; tra i poeti Ovidio, Lucano, Virgilio, Stazio), l’elenco delle donne lì
presenti e riprese da Castiglione, spesso in forma di velocissima citazione, appare più
nutrito: non solo Leena, ma anche Epicari, come esempi di coraggio e dignità di fronte
alla tortura, non solo le regine Tomiri, Artemisia, Zenobia, Semiramide e Cleopatra, ma
anche Porcia e Armonia, sempre tra gli esempi di coraggio, e tra le donne colte ed
inventrici, Nicostrata, Saffo, ed anche le dee Cerere e Minerva. Per non parlare di Eva.
In effetti, anche per altri aspetti che successivamente verremo illustrando, a noi
Boccaccio sembra la fonte più significativa. Gli esempi tratti da Plutarco e da altri
biografi e storiografi, sono in genere estratti da biografie maschili o storie in generale,
continuando così Castiglione l’opera iniziata polemicamente da Boccaccio, quella di
dare una voce specifica alla memoria femminile.
Il modello del De mulieribis claris di Boccaccio è dunque centrale. L’opera,
dedicata alla contessa d’ Altavilla, con un elogio che la uguaglia «alle donne più elette,
anche tra le più antiche», vuole essere per lei di ulteriore stimolo alla virtù, soprattutto
nel raffronto con virtuose donne pagane, data la superiorità che, in ambito morale, deve
contraddistinguere le cristiane; le doti che costituiscono l’ornamento della bellezza del
corpo sono non il belletto, ma l’onestà, la castità, l’agire nobilmente (Dedica).286 Nel
Proemio l’autore rileva che, mentre esistono cataloghi di uomini illustri antichi e
contemporanei (menziona Petrarca), meritatamente famosi, non c’è quasi memoria
autonoma delle donne, anticipando in forma sottesa quella critica alla parzialità della
memoria storica gestita dai maschi, evidenziata poi dalla corrente filogina e ripresa sia
da Castiglione che da Ariosto:
Al contrario, è stato per me sempre motivo di meraviglia il fatto che le donne abbiano avuto così
poca presa sugli scrittori da non raggiugere mai il favore del ricordo in qualche opera speciale, ad
esse dedicata; mentre è ben noto - anche dalle storie più vaste- che alcune di esse compirono imprese
valorose e forti.287
Proprio questa carenza, insieme al buon diritto delle donne ad essere ricordate
come e più degli uomini per il maggior sforzo compiuto in relazione alla naturale
debolezza,
Gli uomini – è vero- sono da esaltare quando, colla forza loro concessa, abbiano compiuto grandi
azioni. Ma quanto più sono degne di elogio le donne, quasi tutte per natura molli e deboli nel corpo e
tarde nell’ingegno, se riescano ad uno spirito virile, osando compiere imprese cospicue per ingegno e
virtù, e che sarebbero estremamente ardue anche per gli uomini?288
viene assunta da Boccaccio come motivazione all’opera, che vuole riscattare il diritto
delle donne ad una memoria loro specifica, non in relazione però alla sola loro virtù, ma
in generale al compimento di azioni grandiose, anche se riprovevoli, o commiste ad
aspetti riprovevoli:
(Nota 28 al Libro III, cap. 36), e così pure quello del suicidio della giovane gentildonna di Capua con la
descrizione delle violenze dei Francesi e della strenua difesa del loro onore da parte delle donne capuane,
anche con la scelta del suicidio. (Istoria d’Italia, lib. V, vol. III, ed. cit. p. 43) (Nota 5 al Libro III, cap.
47).
286
Giovanni Boccaccio, De mulieribus claris, [1380 ca] o [1355-1360], cit.
287
Ivi, Proemio.
288
Ivi, Proemio.
229
Perciò, affinché le donne non siano private di quanto hanno meritato, mi è venuta l’idea di
ridurre - ad onore della loro gloria- in unico corpo, tra le loro biografie, quelle che mi riporterà la
memoria; e di aggiungere a tali donne, tra le molte, alcune altre che furono rese notabili o
dall’audacia o dalla forza del carattere o dall’attività o dalle doti di natura, o dalla fortuna propizia o
avversa; e di unire a queste, infine, le poche che, pur non avendo compiuto impresa alcuna degna di
memoria, offrirono tuttavia l’occasione ad imprese straordinarie. Non paia sconveniente al lettore di
trovare mescolate a matrone pudicissime- come Penelope, Lucrezia e Sulpicia- donne di grandissimo,
ma pernicioso ingegno, come Medea, Flora, Sempronia o simili. Non intendo infatti prendere il
termine fama in senso stretto e tale che sempre sbocchi in quello di virtù; bensì in più ampio
significato, con buona pace dei lettori.289
All’interno di queste posizioni filogine mirate a tutelare il buon diritto della
donna alla fama e comportanti il riconoscimento della sua capacità di compiere grandi
azioni, ancor più apprezzabile dato l’handicap fisico naturale, possiamo notare che
permangono i pregiudizi misogini sulla mollezza e debolezza del corpo femminile e
sulla ottusità dell’intelletto (qui alla mollezza però non si associa la sottigliezza
dell’intelligenza come farà la corrente filogina e ribadirà lo stesso Castiglione per bocca
del Magnifico). Proprio da tali pregiudizi di inferiorità del femminile, laddove
differisce, o si presume che differisca dal maschile, deriva la sua valorizzazione solo
nella misura in cui sa essere maschile: si esaltano infatti la forza, il coraggio,
l’intelligenza che le donne hanno dimostrato in misura superiore agli uomini, e la stessa
virtù della continenza nelle sue componenti maschili di forza e costanza. Su questa linea
si muove anche Castiglione nei cataloghi, meno invece nella modellizzazione della
perfetta donna di palazzo, dove, pur riconoscendo alla donna le virtù d’animo maschili,
le attribuisce in maggiore misura bellezza e grazia.
Boccaccio inoltre giustifica la sua omissione delle donne cristiane, con la
differenza dei fini e delle modalità dell’eroismo, nonché con l’ampia fama già ottenuta
nella letteratura cristiana, che manca invece alle donne pagane, una carenza cui vuole
sopperire:
Pure mi è parso opportuno- non vorrei passar la cosa sotto silenzio- di non mescolare alle donne,
quasi tutte pagane, alcuna delle donne della storia sacra, ebree o cristiane, eccettuata Eva. Mi sembra
infatti che pagane e cristiane non si accordino tra loro né procedano con passo eguale. Le donne della
storia sacra, seguendo le orme e gli ordini del santo Precettore, spesso, per conseguire la vera gloria
eterna, si costrinsero ad una sopportazione delle avversità quasi contraria al giudizio umano. Le
donne pagane invece giunsero alla gloria -e con che ardente forza d’animo! – o per un certo dono e
istinto di natura; o, meglio, perché spinte dalla brama dello splendore fugace di questo mondo; e
talvolta, sotto la spinta della fortuna incalzante, affrontarono anche gravissime prove. Le prime,
splendide di luce vera e indefettibile, non solo vivono nella ben meritata eternità, ma anche ci sono
note perché la loro verginità, castità, santità e virtù e la loro indomita costanza nel vincere e gli
stimoli della carne e i supplizi dei tiranni, sono state descritte- secondo esigevano i loro meriti- in
singole opere da uomini pii, illustri per le sacre lettere e per la loro veneranda maestà. I meriti delle
seconde, invece, in nessun libro allo scopo pubblicati- come ho già detto- e da nessuno segnalati, io
mi accingo a descrivere, quasi per rendere ad esse un giusto premio. Iddio stesso, padre di tutte le
cose, mi assista nella pia opera: e mi conceda, favorendo la fatica da me intrapresa, di scrivere solo a
sua vera lode.290
Questa omissione delle donne cristiane, insieme alla scelta di ricordare anche
donne pagane non virtuose, ma ‘di spiccato protagonismo’ dà di fatto all’opera, a nostro
parere, un’impronta antimedievale, in consonanza con quanto emerge da tanta
produzione di Boccaccio. Castiglione, come già abbiamo rilevato, farà parzialmente la
289
290
Ivi, Proemio.
Ivi, Proemio.
230
stessa scelta, in quanto non tratterrà delle martiri cristiane,291 rinviando per esse alla
291
Come abbiamo già rilevato, tratta invece ampiamente delle martiri cristiane, oltre che di esempi
di grandezza femminile desunti dall’antichità pagana, Christine de Pizan. Nella Città delle dame, si
avverte a più riprese il modello di Boccaccio, chiamato anche direttamente in campo come termine di
confronto. Non sappiamo se Castiglione abbia tenuto presente il catalogo di Christine, ma ci piace
comunque citarne la struttura per favorire un eventuale confronto. Dopo una difesa del genere femminile
tramite l’interpretazione della figura di Eva (con la sua colpa ha consentito poi, tramite Maria, un
maggiore avvicinamento a Dio di quello concesso al momento della creazione) e di Maria, e la
riabilitazione della fragilità (che avvicina la donna ai fanciulli apprezzati nel Vangelo), del pianto (Cristo
premiò le lacrime di Maria Maddalena), della parola (Cristo apparve nella resurrezione innanzitutto a
Maria Maddalena, perché lo annunciasse agli Apostoli) e del lavoro femminile (il filare simboleggia
l’ordine), e l’affermazione dell’utilità della differenziazione del genere femminile dal maschile per la
complementarità delle funzioni (in verità con un compiacimento per la deresponsabilizzazione che ci
lascia perplessi: sarebbe vantaggioso per le donne essere escluse dalla funzione di giudici per non dover
nutrire rimorsi; e così pure avere un corpo debole per non essere chiamate a commettere crimini in nome
della forza; una debolezza fisica tra l’altro compensata da Dio con una maggior forza morale nel rispetto
dei comandamenti, nel pudore, nell’onestà) Christine produce tuttavia un elenco di donne grandi per virtù
tipicamente maschili di governo e militari: la regina d’Egitto Nicaula, regine e dame di Francia,
Semiramide, l’imperatrice Zenobia, le Amazzoni, la regina Artemisia, moglie di Mausolo, Lilia, madre di
Teodorico, Fredegonda, regina di Francia, Berenice di Cappadocia, la vergine Camilla, la nobile Clelia. A
queste seguono esempi di intelligenza femminile: la poetessa Cornificia (fonte citata: Boccaccio), la
romana Proba, la poetessa Saffo (si ribadisce la testimonianza di Boccaccio), la vergine Manto, figlia di
Tiresia, Medea, esperta di botanica e magía, Circe; e poi di donne inventrici, Carmenta (l’alfabeto latino),
Minerva (le lettere greche, l’arte della lana e della tessitura, oltre che gli strumenti a fiato e le armature),
Cerere (l’agricoltura), Iside (il giardinaggio, la coltivazione delle piante e una forma di scrittura simbolica
abbreviata), Aracne (l’arte di tingere la lana, tessere gli arazzi, coltivare e tessere il lino e la canapa e
costruire reti per catturare uccelli e pesci), Panfila (l’arte di tessere e tingere la seta): una rassegna
funzionale a mostrare quanto gli uomini debbono alle donne, non solo per l’esserne generati, ma anche
per un benessere concreto, diverso da quello ipotizzato dal Gonzaga nel Cortegiano: non si tratta di
promozione di arti maschili, ma di invenzione di arti femminili, dall’alimentazione alla tessitura, che
concretamente permettono l’esistenza e danno i comfort necessari (e per la stessa scrittura, appannaggio
maschile, si pretende una matrice femminile). E poi donne che si sono distinte nelle arti estetiche della
pittura (Tamara, Irene, Marzia), donne prudenti e sagge (la regina Gaia Cirilla, Didone, per la fuga dal
fratello e la fondazione di Cartagine), Opi, regina di Creta, Lavinia, moglie di Enea; e le Sibille e le
profetesse ebraiche e Cassandra. Inoltre esempi di amore filiale di donne, che evidenziano quanto a torto
ci si lamenti di figlie femmine: Isifile, Claudia; esempi di amore e fedeltà verso i mariti, la regina
Ipsicratea, Triaria, moglie dell’imperatore Vitellio, Artemisia, Argia, moglie di Polinice, Agrippina
maior, moglie di Germanico, Giulia, moglie di Pompeo, Terza Emilia, moglie di Scipione l’Africano,
Santippe, moglie di Socrate, Paolina Pompea, moglie di Seneca; e di donne capaci di tacere, Porzia,
moglie di Bruto, Epicari; esempi in genere di donne benefattrici: innanzitutto Maria, che ha aperto le
porte del Paradiso; Giuditta cui si deve la salvezza del popolo d’Istraele, le Sabine, la madre di Coriolano,
Clotilde per la conversione del re Clodoveo. E naturalmente esempi di castità: la casta Susanna, Sara,
Rebecca, Ruth, Penelope, Marianna, Antonia, le sante vergini cristiane. E ancora esempi di costanza in
amore al punto da uccidersi: Didone, Medea, Tisbe, Ero, Sigismonda, e la stessa Lisabetta da Messina e la
moglie del Rossiglione sulla base delle novelle rispettive del Decameron (Boccaccio, recuperato in chiave
nettamente filogina, è in effetti per Christine una fonte privilegiata, chiamata a sostegno di numerosi
esempi e a volte anche contestato, come in merito alla svalutazione del progresso da lui ritenuto fonte di
corruzione). Rileviamo che in questo catalogo risulta particolarmente interessante la valorizzazione delle
arti femminili, quelle relative all’alimentazione e al vestire, un aspetto che sostanzialmente manca nel
catalogo del Cortegiano (Castiglione non omette del tutto le inventrici, ricorda Pallade, Cerere,
Nicostrata, ma le cita velocemente senza quasi precisarne i meriti), forse per un intento polemico: non sta
modellizzando una donna che fila, ma una donna ‘di palazzo’che parla e seduce (con onestà) nelle
relazioni piubbliche. Christine, invece, in quanto donna con esperienza di donna, tenta una rivalutazione
più significativa della donna, proprio per quello che tradizionalmente fa e che tradizionalmente la svaluta,
in quanto non maschile. La sua ‘medievalità’ rispetto a Castiglione si riscontra poi sia nello spazio
lasciato alle donne ebree e alle martiri cristiane, sia nell’utilizzo del Vangelo a sostenere certe tesi: con le
storie delle Sante martiri si chiude l’opera, che intende porne l’esempio all’apice. La ‘medievalità’ di
Christine si coglie inoltre nell’insistenza sui particolari efferati delle torture che Castiglione invece, in
231
lettura degli scrittori cristiani, ma si servirà degli esempi antichi sia di virtù che di vizio
all’interno della diatriba tra misogini e filogini, aprendo però di più anche alla
contemporaneità e ad esempi anonimi o di gruppo. In Boccaccio comunque è
rintracciabile, se non una vena polemica, per lo meno una simpatia, verso l’etica pagana
dell’azione, contrapposta a quella cristiana della sopportazione, pur elevate a paradigma
con la Griselda decameroniana.
L’opera di Boccaccio, peraltro, differisce negli intendimenti del catalogo da
quella di Castiglione: in essa, come abbiamo detto, si menzionano esempi di
‘grandezza’ femminile, anche se l’azione è riprovevole e come tale criticata; nel
Cortegiano si elencano quasi solo esempi di virtù femminile, e i misogini riportano
pochissimi esempi di vizio (Tarpea, Cleopatra), o intervengono a riconnotare in forma
svalutativa l’esempio di virtù addotto dal filogino (coraggio-costanza /ostinazione).
Boccaccio si incentra poi su esempi antichi e tratta di tempi più recenti solo in
relazione alla papessa Giovanna, fintasi uomo, alla imperatrice Costanza d’Altavilla, e
alla regina di Napoli e Sicilia, Giovanna, elogiatissima (ricordiamo i legami di
Boccaccio con la corte napoletana). Più attento invece alla celebrazione di figure di
potere contemporanee (regine, e famiglie principesche) Castiglione, pensiamo, anche
per il suo statuto più marcato di cortigiano. Per il resto l’uno e l’altro insistono nel
sottolineare le doti di coraggio, forza e anche castità femminile, sempre nei termini di
una dimostrazione di forza, e quindi nel possesso condiviso da parte delle donne delle
qualità su cui gli uomini poggiano il loro potere. Ma, nel complesso, in Boccaccio che
non distingue gli esempi in termini netti di filoginia e misoginia come fa invece
Castiglione orientandosi sulla linea filogina, e adduce anche esempi negativi o
parzialmente negativi, in particolare secondo i principi etici cristiani, ma pure classici,
emergono di più anche i difetti tradizionali della donna quali la lussuria.292 Anche in
Castiglione del resto è dato rilevare l’attenzione ad aspetti contrastanti, di virtù e difetti
delle donne, nonché ad atteggiamenti sociali repressivi, quali la violenza dei mariti. Alla
promozione di aperture ideologiche nei confronti delle donne possono inoltre avere
cooperato sia in Boccaccio che in Castiglione la tradizione cortese oltre alla
frequentazione dell’ambiente di corte, circoscritta nel tempo per Boccaccio, costante in
Castiglione.
Come Boccaccio e Castiglione, Ariosto fornisce un catalogo di donne, seppur
velocissimo (C. XVIII, 1, ed. 1516 e 1521 e C. XX, 1, ed. 1532; C. XXXVII, 5-6-18-19,
ed. 1532), laddove lamenta il tradimento della memoria storica di dominio maschile (C.
XVIII, 2-3, ed. 1516 e 1521 e C. XX, 2-3, ed. 1532; C. XXXVII, 1-24, ed. 1532),293
omaggio al suo culto della medietas, evita anche negli esempi. (Christine de Pizan, Le livre de la cité des
dames [1405 ca], cit.)
292
Sulla compresenza di posizioni diversamente orientate in Boccaccio insiste Zaccaria: «Meno
sicuro e coerente invece- si diceva- si mostra il Boccaccio sul piano morale, didattico e pedagogico. Di
fronte a prese di posizione nettamente severe contro la lussuria, l’avarizia, la superbia, il malcostume e
l’eccessiva libertà o dignità concesse alle donne (IX 3; XV 6 e 9; XVII 11 e 14; XXIII 8 e 17; LI 7 e 14), e alle
dichiarazioni, altrettanto sincere, a favore della pietà e dell’amor filiale (XVI, LXII, LXV) e coniugale
(XXXI, LXXIV), della modestia e verecondia femminile (XXXIX, LXVII), si leggono capitoli in cui
sono deplorate l’eccessiva severità nell’educazione dei giovani e nella separazione dei sessi (XIII), la
cieca gelosia (XXVIII), la vita chiusa e troppo austera delle giovanette (XLV), la dedizione esclusiva ai
lavori domestici (LVI, XCVII) o alla procreazione e al matrimonio dei figli (LXXXVI 3)» (Giovanni
Boccaccio, De mulieribus claris, cit., Introduzione, p. 11)
293
Riportiamo di nuovo qui i brani citati in una nota precedente per favorire la lettura e la
comprensione. Il tradimento maschile della memoria storica femminile viene denunciato, come già
abbiamo detto, nel canto XVIII dell’edizione del 1516 e del 1521, ottave 2-3, e nel canto XX
dell’edizione del 1532, ottave 2-3 (senza varianti se non nell’ambito strettamente ortografico): «-2- Le
donne son venute in excellenza/ di ciascun arte ov hanno posto cura/ e qualunque allhistorie habbia
232
facendo riferimento a guerriere, poetesse, regine, esempi greci e romani, e, in genere in
tutto il mondo, di donne fedeli, caste, sagge e forti, e utilizzando parametri e soggetti
condivisi da Boccaccio e Castiglione, ma da questi molto più dettagliati e articolati, in
particolare riguardo al coraggio, alla prudenza e alla castità:
-1Le donne antique fer mirabil cose
altre in l arme, altre, in le sacre muse
e di lor opre belle e gloriose
gran lume in tutto il mondo si diffuse
Arpalice e Camilla son famose
perche in battaglia erano experte et use
Sapho e Corinna perche furon dotte
splendono illustri e mai non veggon notte
ed. 1516)
294
(Orlando furioso, C. XVIII, 1,
-5Ch’Arpalice non fu, non fu Tomyri
Non fu chi Turno, non chi Hettor soccorse
Non chi seguita da Sidonii e Tyri
Ando per lungo mare in Lybia a porse,
avvertenza/ ne sente anchor la fama nonoscura/ sel mondo nè gran tempo stato senza/ non perhò sempre il
mal influsso dura/ e forse ascosi han lor debiti honori/ o negligentia, o invidia de scrittori // Ben mi par di
veder ch al secol nostro/ tanta virtù fra belle donne emerga/ che può dar opra a charte et ad inchiostro/
perche in li anni futuri se disperga/ e perche odiose lingue, il mal dir vostro/ con vostra eterna fama si
summerga/ e le lor lode appariranno in guisa/ che di gran lunga avanzaran Marphisa» (ed. 1516), e ripreso
nel Canto XXXVII dell’edizione del 1532, in particolare alle ottave 1-4, concernenti l’invidia e il silenzio
maschile sulle virtù delle donne, unitamente alla pubblicizzazione dei loro difetti: «-1- Se come in
acquistar qualch’altro dono / Che senza industria non puo dare natura,/ Affaticate notte e di si sono/ Con
somma diligentia e lunga cura/ Le valorose donne, e se con buono/ Successo, n’e uscit’opra non oscura,/
Cosi si fosson poste a quelli studi/ Ch’immortal fanno le mortal virtudi// -2- E che per se medesime
potuto/ Havesson dar memoria alle sue lode,/ Non mendicar da gli scrittori aiuto/ Aiquali astio& invidia
ilcor si rode/ Che’l ben chene puon dir spesso e taciuto,/ E’l mal, quanto ne san per tutto s’ode,/ Tanto il
lor nome sorgeria, che forse/ Viril fama a tal grado unqua non sorse.// -3- Non basta a molti di prestarsi
l’opra/ In far l’un l’altro glorioso al mondo, /Ch’ancho studian di far che si discuopra/ Cio che le donne
hanno fra lor d’immondo,/ Non le vorrian lasciar venir di sopra/ E quanto puon fan per cacciarle al fondo,
/ Dico gli antiqui, quasi l’honor debbia/ D’esse, il lor’oscurar, come il Sol nebbia. // -4- Ma non hebbe e
non ha mano ne lingua/ Formando in voce, o discrivendo in carte, / Quantunqueil mal quanto puo
accresce e impingua/ E minuendo il ben va con ogni arte,/ Poter perho, che de le donne estingua/ La
gloria si: che non ne resti parte,/ Ma non gia tal che presso al segno giunga/ Ne ch’ancho se gli accosti di
gran lunga»; alle ottave 7-8, riguardanti il mutamento della posizione degli intellettuali contemporanei,
con citazione dello stesso Castiglione:«-7- Non restate perho donne a cui giova/ Il bene oprar, di seguir
vostra via,/ Ne da vostra alta impresa vi rimuova/ Tema che degno honor non vi si dia,/ Che come cosa
buona non si trova/ Che duri sempre, cosi anchor ne ria,/ Se le charte sin qui state e gl’inchiostri/ Per voi
non sono, hor sono a tempi nostri.//-8- Dianzi Marullo, & il Pontan per vui/ Sono e duo Strozzi il padre
e’l figlio stati/ c’e il Bembo, c’e il Capel, c’e chi qual lui/ Vediamo, ha tali i cortigian formati:/ C’e un
Luigi Alaman ce ne son dui/ Di par da Marte, e da le Muse amati/ Ambi del sangue che regge la terra,/
Che’l Menzo fende e d’alti stagni serra [...]»; alle ottave 14-18, relative alla memoria femminile costruita
dalle poetesse contemporanee, in particolare dalla Colonna, «-14- Et oltre a questi & altri choggi havete
/Che v’hanno dato gloria, e ve la danno: / Voi pervoi stesse dar ve la potete, /Poi che molte lasciando
l’ago e ‘l panno/ Son con le Muse a spegnersi la sete/ Al fonte d’Aganippe, e vanno,/ E ne ritornan tai che
l’opra vostra/ E piu bisogno a noi ch’a voi la nostra. //-15- Se chi sian queste, e di ciascunavoglio/ Render
buon conto, e degno pregio darle,/ Bisognera ch’io verghi piu d’un foglio/ E c’hoggi il canto mio d’altro
non parle:/ E s’a lodarne cinque o sei ne toglio/ Io potrei l’altre offendere e sdegnarle,/ Che faro dunque?
Ho da tacer d’ognuna? O pur fra tante sceglierne sol una?// -16- Sceglieronne una, esceglierolla tale [...]
//- 18- Vittoria e’l nome, e ben conviensi a nata/ Fra le vittorie [...]».
294
L’ottava è citata dall’Orlando furioso, C. XVIII, 1, ed. 1516, ma si mantiene con minime
varianti ortografiche nel C. XVIII, 1, ed. 1521 e C. XX, 1, ed. 1532.
233
Non Zenobia, non quella che gli Assyri
I Persi e gl’Indi con vittoria scorse:
Non fur queste e poch’altre degne sole,
Di cui per arme eterna fama vole.
-6E di fedeli e caste e saggie e forti
Stato ne son non pur in Grecia e in Roma,
Ma in ogni parte ove fra gl’Indi e gli Horti
De le Hesperide il Sol spiega la chioma,
De le quai sono i pregi a gli honor morti
Si ch’a pena di mille una si noma
E questo perche havuto hanno a i lor tempi
Gli scrittori bugiardi invidi & empi. [...]
-18[...] Questa e un’altra Artemisia, che lodata
Fu di pieta verso il suo Mausolo: [...]
-19Se Laodamia: se la moglier di Bruto:
S’Arria: s’Argia: s’Evadne: e s’altre molte
Meritar laude per haver voluto
Morti i mariti esser con lor sepolte,
Quanto honore a vittoria e piu dovuto
Che di Lethe: e del Rio che nove volte
l’ombre circonda: ha tratto il suo consorte
Mal grado de le Parche e de la Morte. (Orlando Furioso, C. XXXVII, 5-618-19, ed. 1532)
Di queste nel Cortegiano sono menzionate altrettanto velocemente, Corinna e
Saffo, Tomiri, Artemisia, Zenobia, la moglie di Bruto, non certamente la Colonna.
Castiglione sembra preferire la lode delle regine e duchesse contemporanee a quella
delle poetesse, ma sappiamo delle tensioni intervenute con la Colonna per le vicende del
manoscritto del Cortigiano. Le donne menzionate da Ariosto sono presenti in parte nel
De mulieribus claris di Boccaccio, dove, accanto a Saffo, Tomiri, Artemisia, Zenobia, e
alla moglie di Bruto, abbiamo Camilla, Didone.
Per quanto riguarda l’intertestualità, ricordiamo che Rajna ha notato segni della
lettura del Cortegiano nel Canto XXXVII del Furioso (terza redazione), là dove si
utilizza la storia di Camma per l’episodio di Drusilla.295 In ogni caso, a Boccaccio si
deve guardare come al maestro di entrambi.
Possiamo, infatti, concludere ipotizzando in questi scrittori la presenza di una
linea filogina condivisa nella volontà di dare memoria storica specifica alle donne, ma,
come abbiamo rilevato, si potrebbe osservare in Ariosto una disponibilità maggiore
295
Lo ricorda Vittorio Cian nel suo commento: «Come dimostrò, con l’abituale acume e con
l’erudizione consueta, P. Rajna (Le fonti dell’Orlando Furioso, 2º ediz., pp. 523-26), il C. ebbe la fortuna
d’ispirare quel suo degno amico e lodatore, che fu Lodovico Ariosto. Il quale, nel C. XXXVII del Furioso
(st. 45-75), canto mancante nelle edizioni del 1516 e del 1521, e quindi posteriore alla pubblicazione del
Cortegiano (1528), narrando la storia di Drusilla e Tanacro, compresa in quella di Marganorre, si giovò
evidentemente della storia di Camma, come era stata rinarrata dal nostro Baldassarre» (Vittorio Cian, Il
Cortegiano..., cit, nota 1 a L. III, cap. 26). Vale la pena di ricordare pure che tracce della lettura del
Cortegiano sono state ricontrate nel canto XI del Furioso, dove (ottava 71) si menziona la leggenda di
Crotone con parole simili: «che, per una farne in perfezione, / da chi una parte e da chi un’altra tolse»
(cfr. con Cortegiano, I, LIII: «per far di tutte cinque una sola figura eccellentissima di bellezza»), anche
se la fonte prima è il De oratore ciceroniano. Cfr. Orlando furioso a cura di Cesare Segre e M. De las
Nieves Muñiz Muñiz, Madrid, Cátedra, 2002, t. I, p. 677.
234
all’emancipazione delle donne la cui forte presenza nel panorama della produzione
letteraria contemporanea non solo riconosce, ma vede crescere insieme alla volontà di
gestire la propria memoria di genere (Furioso, XXXVII, 1 ss., ed 1532). Questi
cataloghi, quindi, anche se con una visione ancora parziale e contraddittoria
dell’emancipazione femminile, nascono con un intento militante e in Ariosto e
Castiglione sono assunti all’interno di opere che sviluppano aspetti più complessi
intrecciando posizioni misogine al tema della dignità della donna, forse proprio come
memoria storica ideologizzata e termine di confronto rispetto alla novità delle posizioni
assunte.
10.14. Il confronto di genere come linea frizzante che attraversa tutto il
“Cortegiano”.
La conversazione di corte, tra generi e di genere: la mediazione tra eccitazione e compostezza, tra
pulsioni e norma. L’assorbimento dei contrasti nell’atmosfera giocosa e gioiosa.
Dopo aver esaminato la modellizzazione e la diatriba di genere negli aspetti più
propiamente teorici e normativi, conviene coglierne la presenza anche negli esempi
prodotti nella conversazione faceta e in genere nella interazione tra cortigiani e donne
di palazzo e duchessa. L’intrattenimento e la conversazione di corte promuovono infatti
uno scambio giocoso tra i sessi e favoriscono incursioni maschili in territorio
femminile, aggressive o elogiative, discorsi, battute, comportamenti in cui le pulsioni
sessuali, eccitate dalla presenza femminile, si liberano e librano, per quanto in forma
condizionata, mascherata, e con la difesa per l’appunto del gioco, del divertimento, del
riso. Il che succede anche alle donne, ma è meno evidente, perché i condizionamenti
sono maggiori: esso va colto soprattutto in quel promuovere ed assistere all’agone
maschile che ne esalta il narcisismo, una forma di piacere traslato e speculare a quello
che la loro stessa presenza come pubblico provoca nei maschi. Non mancano tuttavia
anche da parte femminile le punzecchiature ‘di genere’.
Quanto poi le facezie e le battute del dialogo siano state orchestrate da
Castiglione in conformità con gli assunti di base teorici e normativi è da vedere.
L’impressione è che la rappresentazione della scena di corte, sebbene in consonanza
con la sua modellizzazione ideale, rifletta una società un poco più libera di questa.
Certe battute misogine potrebbero risultare offensive in altro contesto, ma l’atmosfera
divertita che permea il dialogo, secondo il dettame della conversazione di corte, ne
smussa gli eccessi. Pur nel rispetto della sua marca regolativa, l’interazione ha tuttavia
un’intensità e una carica vitale maggiore di quanto la ritualizzazione e la misura fisica,
psicologica e comportamentale, dettata da Castiglione, sembrerebbe consentire.
Nella conversazione, per motivi già ripetuti, la centralità maschile si estrinseca
non solo nello sviluppo degli argomenti, ma anche nelle battute tra misogini e filogini
cui si affiancano anche i diretti interventi femminili di autodifesa. Nelle battute
polemiche dei misogini e negli esempi riportati nelle facezie l’immagine femminile è
sempre quella tradizionale di donna materia, imperfetta, lussuriosa, intellettualmente
debole, simulatrice, e si contrappone a quella della donna onesta, saggia e superiore
teorizzata nella difesa dei filogini ed esemplificata anche nei comportamenti di Emilia
Pio e della duchessa. Questo risulta evidente dalle tavole che riportiamo in calce.
Dopo aver precisato le coordinate generali, intendiamo tuttavia soffermarci un poco di
più sull’argomento. In relazione al tema delle facezie, la partecipazione degli interlocutori si fa
più vivace e frequente, proprio perché l’assunto stesso ne favorisce continui esempi e rende più
235
brillante quella conversazione di corte che deve sempre essere connotata dalla marca del
piacevole. I ragionamenti, con le battute inframezzate, si pongono all’interno di ‘giochi’, e
questa ‘leggerezza’ intride anche gli argomenti seri, e conserva l’armonia all’interno del gruppo.
La reazione del riso, che attesta l’atmosfera gioiosa, è legata non solo alla singola battuta che
può intervallare la dissertazione, ma anche al piacere che dà il poter assistere allo sviluppo
dell’argomento e all’agone tra gli interlocutori. Le battute polemiche dei misogini contro le
donne, di Gasparo Pallavicino o Ottaviano Fregoso, per quanto controbattute da qualche
difensore delle donne, siano messer Bernardo o in altri momenti del dialogo, messer Cesare
Gonzaga, o naturalmente il Magnifico Iuliano, si inseriscono sempre in questa marca giocosa e
perciò provocano spesso il riso o la battuta ironica della duchessa o di Emilia Pio o una reazione
di riso o caricaturale nel pubblico femminile (la promessa delle busse), ma non l’ira e l’astio. La
matrice giocosa del contrasto tuttavia non annulla del tutto il riferimento a problematiche reali,
ma certamente le filtra, anche se a noi pare che la decantata e virtuosa moderazione del
cortigiano-modello sfrutti un po’ troppo categorie misogine, rincarate oltretutto dalle aperte
polemiche dei misogini che conterrebbero motivi d’offesa, se non si trattasse, come dicevamo, e
se non si sapesse che si tratta, di gioco, di un divertimento intellettuale e relazionale, e se non ci
fosse la difesa dei filogini che celebra a più riprese l’onestà delle donne e il loro diritto al
rispetto. Ricordiamo, tra le accuse polemiche dei misogini, le seguenti: le donne sono animali
imperfettissimi, bisognose del freno della castità, sono insomma lussuriose, si compiacciono
delle oscenità, danno l’animo a chi ne possiede il corpo, reagiscono con la forza fisica perché
non hanno strumenti dialettici. Allo stesso modo gli esempi, sebbene di numero notevolmente
inferiore a quelli relativi a soggetti maschili, si inscrivono nel motteggio antifemminile
(lussuria, astuzia, simulazione della pudicizia, sciocchezza, crudeltà), che scherzosamente
percorre la società cortigiana e che genera il riso in generale, anche dei soggetti femminili, non
importa se per condiscendenza, consuetudine, cortesia o superiorità rispetto al misoginismo,
insomma con funzione esemplare di quanto succede nella realtà cortigiana attraverso l’azione
rappresentata da Castiglione che intende rifletterla. L’intrattenimento assume ulteriore
piacevolezza, se si connota con velate allusioni, battute scherzose, e anche piccanti, e ne sono
più frequentemente attori i maschi, i cortigiani, nonostante da parte misogina si accusino le
donne di dire motti pungenti e anche racconti osceni, peraltro quasi mai riportati, presumiamo,
un po’ per la censura delle femmine in generale, un po’ per la censura delle femmine disoneste
in particolare e naturalmente anche per l’autocensura delle oneste gentildonne interlocutrici.
Infatti i cortigiani non solo sono pressoché gli unici relatori, ma riportano in genere esempi
maschili in cui le facezie e le burle sono perpetrate da maschi a danno di maschi. Dunque,
nonostante si riconosca alle donne il diritto al motteggio e se ne riportino alcuni esempi, si
intende ancora una volta lasciare al maschio una preminenza, non solo all’interno del dialogo
che ne parla e li riferisce, ma anche all’interno delle facezie raccontate. Insomma è il soggetto
maschile quello che più facilmente ne parla e le opera, e sa ridere di se stesso più facilmente se,
accanto alla vittima maschile, sta un vincitore maschile, e non una vincitrice femminile. Esempi
in questo senso non mancano, ma sono molto più rari. Permane l’idea che il più importante
attore sociale, e certamente il più libero, sia il maschio, quello che si espone nella lotta, magari
anche a tutela del soggetto femminile, e quello che ne parla. Ci sembra infatti più accreditabile
l’interpretazione della preminenza maschile, non solo come soggetto, ma anche come oggetto
all’interno delle facezie e delle burle raccontate, in rapporto al marcato protagonismo di genere
e anche alla più libera esperienza di vita relazionale piuttosto che in rapporto ad un atto di
cortesia verso le donne.
236
10.14.1. Tavola di riepilogo sulle donne nelle facezie, come relatrici e
come soggetto che compie od oggetto che subisce la facezia o burla.
Luogo del
Tema.
‘Cortegiano’
Virtù /vizio.
I, 17.
La presa in giro Virtù: sagacia
del cortigiano
ed eleganza.
dai modi sempre
militareschi.
Vizio: la
rozzezza
maschile.
II, 47.
La donna nega
ciò di cui si
compiace di
essere richiesta.
Allusione
sessuale.
II, 54.
Il fastidio di una Vizio:
gentildonna per l’affettazione
di pudicizia.
il doversi
mostrare nuda il
giorno del
giudizio
universale.
II, 62.
Il trucco
femminile
criticato da un
brutto
cortigiano.
Arte vs
natura.
Una donna si
schermisce delle
lodi, dicendosi
vecchia, e
l’adulatore
sublima la
vecchiezza
come
«angelica»perfetta
bellezza.
Virtù:
bellezza,
modestia.
La disonestà del
cortigiano
supposto
meritevole di
impiccagione.
Vizio:
disonestà
maschile (e
mordacità
femminile).
La disonestà
della signora
Vizio:
lussuria,
II, 64.
II, 76.
Relatrice
della
facezia o
motto.
Agente
della
facezia.
Agente
Oggetto
della burla. della facezia
o motto.
Oggetto
della burla.
La dama.
Vizio:
lussuria.
La
gentildonna.
La
gentildonna.
Del pretesto
al motto, la
dama.
Il trucco:
virtù se
estetico;
vizio se
antiestetico.
Del motto, il
cortigiano.
La dama.
Vizio:
adulazione
maschile.
La signora
Boadilla.
La signora
Boadilla.
237
Boadilla,
accusata di
essere una
meretrice.
disonestà
femminile (e
mordacità
maschile).
II, 77.
Vizio:
Un marito
piange la moglie donna-danno.
che si è
impiccata a un
fico. Un altro
chiede un ramo
del fico per
innestarlo in un
albero del suo
orto.
II, 78.
L’espressione
utilizzata in una
lettera per una
destinataria che
causa pena
d’amore viene
giudicata adatta
a un destinatario
creditore.
Vizio: donna
crudele, causa
di pena
d’amore.
Citazione
strumentale a
un motto
verso
l’estensore
della lettera.
II, 78.
Battuta rivolta
contro la
bruttezza di un
cavaliere ed
elogiatrice della
bellezza della
dama.
Difetto:
bruttezza
maschile.
Il marito.
La burla a due
dame di corte
cui si fa credere
che un
contadino ben
vestito sia un
cortigiano
burlatore,
capace di
imitare il
linguaggio
Vizio:
credulità,
sciocchezza.
II, 85.
La moglie
(in forma
indiretta).
Virtù:
bellezza
femminile.
Le due
dame di
corte.
296
Nella burla delle due dame di corte si coglie un interessante doppio gioco tra essere e apparire,
come sottolinea Pignatti: «Oggetto di comicità [...] non è la turpitudo rappresentata dalla sgraziata
esibizione di naiveté del plebeo introdotto occasionalmente in corte, bensí, con un minor grado di
effrazione rispetto ai codici cortesi, la sconveniente inettitutine [...] che le due dame manifestano nel non
accorgersi di come stanno realmente le cose. La rappresentazione genuina, ma inquietante del villano, che
tanti spunti avrebbe potuto offrire in una concezione realistica del comico [...] viene neutralizzata e
voltata paradossalmente nel frutto di un inesistente virtuosismo caricaturale, che rovescia sulle due
incaute spettatrici il risibile della scena. Le due dame non si accorgono di non essere in presenza di un
improbabile, magistrale esempio di sprezzatura, bensì di un’autentica tranche de vie, alla quale restano
completamente sorde e incapaci di decrittare. Il comico della scena si situa dunque ad un metalivello in
modo obliquo ed ironico la corte ride di se stessa, cioè dell’aver interiorizzato la logica della simulazione
e dissimulazione in maniera così radicale da rimanerne prigioniera, smarrendosi dentro di essa come in un
labirinto o in un gioco di specchi» (Franco Pignatti, La facezia tra «res publica literarum» e società
238
II, 93.
contadino.
Il motto con
allusione
sessuale contro
la signora
Boadilla.
Vizio:
lussuria.
II, 93.
La burla di
Riciardo
Minutoli alla
moglie di
Filippello.
Vizio:
credulità,
sciocchezza.
II, 93.
La burla di
Beatrice al
marito.
Vizio e virtù:
astuzia.
La signora
Boadilla.
La moglie
di
Filippello.
Beatrice.
La tavola che riporta solo i pochi esempi di facezie vertenti su un personaggio
femminile, mentre tralascia quelli più numerosi incentrati su personaggi maschili,
evidenzia che nessuna donna è relatrice di facezie, perché lo sono solo i cortigiani,
pochissime sono agenti della facezia o della burla, molte invece oggetto, soprattutto
della facezia, ma anche della burla. I vizi individuati sono la lussuria e disonestà, la
credulità e sciocchezza. A mezzo, invece, tra virtù e vizio sta l’astuzia, per la differenza
di valore che le viene attribuito nel passaggio dal Medioevo all’Umanesimo e
Rinascimento, e cosí pure il belletto femminile, vizio se antiestetico, virtù se estetico e
tale che l’arte che migliora la natura dissimuli se stessa presentandosi come naturale. La
virtù femminile consiste soprattutto nella bellezza. Alla donna vengono riconosciuti
anche doti di modestia e sagacia. La linea misogina è comunque indubbiamente
prevalente nelle facezie.
10.14.1.1. La funzione liberatoria delle facezie e la loro normazione.
Ma oltre ai ruoli rivestiti dal maschile e femminile nella diegesi e nella mimesi
delle facezie, conviene osservare anche la valenza liberatoria che esse assumono,
insieme alle battute, in una società fortemente condizionata da una ritualizzazione
normativa con pretese incivilitrici che ne coarta gli impulsi libidici; una società di corte
che vuole però l’interazione di genere e deve trovare sottili vie per conciliare libido e
norma civile. Non per niente le stesse facezie sono sottoposte alle norme di misura,
controllo, convenienza e decoro che informano tutta la società.
Indubbiamente, anche se il piacere derivato dai ragionamenti è innanzitutto
intellettuale e relazionale, in una società mondana e sufficientemente libera facezie e
battute temperatamente piccanti si presentano come il sale della vita associata, in quanto
consentono in forma implicita, velata, allusa, sottintesa la veicolazione di significati
legati alle pulsioni libidiche che nella forma più esplicita non sarebbero consentiti, e la
cui espressione, pure in questa forma mediata, nella modellizzazione rinascimentale di
Castiglione deve contenersi in modalità convenzionali tali da non urtare il prossimo e da
cortigiana, in Educare il corpo, educare la parola nella trattatistica del Rinascimento, a cura di Giorgio
Patrizi e Amedeo Quondam, Bulzoni, Roma 1998, pp. 239-269, pp. 264-265)
239
non scadere nella volgarità. Eleganza, grazia, moderazione, discrezione, convenienza,
sprezzatura, rappresentano i parametri cui il cortigiano deve ottemperare sia nella
selezione delle facezie, di quelle in factis come di quelle in verbis, sia nella loro
presentazione. La piacevolezza delle facezie ha una doppia matrice, quella immediata
che può scaturire dalla trasgressione di una norma in una forma tale da suscitare il riso,
e quella sottesa, che è la liberazione da impulsi e pulsioni. Il riso consente insieme
l’esperienza virtuale e l’allontanamento, l’esorcizzazione del proibito. Non
dimentichiamo che a più riprese nel Cortegiano si sottolineano le reazioni di riso dei
cortigiani e delle donne di palazzo, nonché della duchessa, sia in relazione alle facezie
che in relazioni ai ragionamenti e alle battute. Indubbiamente questo serve a dimostrare
la piacevolezza di quelle relazioni serali, e il riso spesso è la reazione di discredito nei
confronti della trasgressione della norma, ma indirettamente costituisce anche il segno
di un bisogno di liberazione da norme eccessive ed eccessivamente vincolanti che
costringono entro i termini della medietas, del controllo razionale e del controllo
sociale. Non c’è spazio nella società aristocratica cortigiana per l’espressione delle
pulsioni, identificate con l’eccesso e la mancanza di forma o deformazione di una
forma. Per la realizzazione individuale è necessaria l’accettazione della forma condivisa
dalla società, e la simulazione e dissimulazione potrebbero costituire una non sufficiente
difesa per la liberazione degli impulsi, perché comunque ne pretendono il controllo, e
l’abito che si deve tenere in pubblico finisce col plasmare o per lo meno influenzare
anche il privato.
Perciò, per dimostrare la valenza plurima delle facezie, sotto il profilo del lecito
e dell’illecito, dell’educazione costrittiva e della trasgressione libidica, insomma del
conflitto fra civiltà e natura, ne passiamo in rassegna alcune, ipotizzando un doppio
significato. Se l’esempio della battuta volgare contro la signora Boadilla è portato
proprio per delegittimare tale tipo di facezia e difendere nella facezia il rispetto
dell’onore delle donne, è anche possibile pensare che quella battuta sia liberatoria per
gli impulsi sessuali aggressivi dei maschi e delle stesse femmine. Se l’esempio della
gentildonna che affetta pudore al punto da dirsi infastidita di doversi mostrare nuda il
giorno del giudizio universale, fa ridere per quell’affettazione smodata che si deve
evitare, pena appunto il ridicolo, e in questo senso intende educare, dall’altra sembra
suggerire una delimitazione e limitazione del senso del pudore che rifiuti gli eccessi e
consenta una maggiore libertà di comportamento in una società che obbliga la donna al
pudore e al matrimonio. Se la facezia in cui con la battuta della bellezza angelica
l’adulatore intende giustificare le lodi di una gentildonna che si è schermita adducendo
la sua età non più giovane, mira a far ridere dell’eccesso di adulazione e mette
indirettamente in evidenza il pregio della modestia della donna, sottende anche l’invito
indiretto a non rinunciare al piacere delle relazioni d’amore a causa dell’età, perché
viene comunque apprezzata quella battuta di spirito.
Così pure la burla alle due dame di corte cui si fa credere che un contadino reale
sia un cortigiano che imita un contadino, se da una parte valorizza il costume della
simulazione giunto a un tal punto di perfezione da fare scambiare il reale per il
simulato, dall’altra ne denuncia tutte le implicazioni pericolose, ossia il rischio che
divenga una lente deformante di lettura del reale, e crei un danno maggiore del
beneficio di difesa per cui lo si è adottato in una società che pretende il conformismo
sociale. E con questa destituzione della sua credibilità apre a una liberazione del
naturale, degli impulsi individuali dal condizionamento sociale di cui la simulazione è
frutto e forma.
E la facezia relativa alla moglie-danno potrebbe rivolgere al pubblico maschile
cortigiano, in cui peraltro era diffuso il celibato, l’invito a prolungare una condizione di
240
libertà, nonostante che il Magnifico valorizzi nella donna di palazzo l’istituto
matrimoniale, sia come condizione di partenza che come condizione a cui aspirare, il
che indirettamente fa supporre che al matrimonio debbano arrivare anche i cortigiani.
Ma, come sappiamo, Castiglione, cortigiano sposato, nella corte d’Urbino rappresentava
un’eccezione. E dunque la facezia sarebbe funzionale alla esorcizzazione dell’istituto
matrimoniale, che è regola caldeggiata in questa società, per l’importanza che vi ha la
famiglia come istituto che garantisce la protezione sociale e patrimoniale.
La trasgressione alla regola etica viene a volte salvaguardata sotto il profilo
estetico, e l’arte viene indirettamente proposta come fattore di civiltà pari o superiore a
quello convenzionalmente morale, e sostanzialmente latore di una nuova morale. Il
condizionamento insomma pertiene al campo estetico piuttosto che a quello etico
tradizionale. Certamente si tratta di un nuovo condizionamento, però liberatore dal
vecchio. In questo ambito si inscrive la burla di Beatrice al marito, criticabile sul piano
etico, perché si insegnerebbe alle mogli a tradire il coniuge, ma salvata dal filogino sul
piano estetico. Poiché la valorizzazione estetica è principio informante questa società, il
messaggio della burla, cosí come interpretato dal filogino, sarebbe consono ai suoi
valori, e quindi sarebbe educativo. Ma il rischio diseducativo evidenziato denuncia il
permanere del problema della conciliazione dell’estetico con l’etico, insomma il
permanere di tensioni irrisolte che trovano però un momento di tregua nella liberazione
consentita dal riso che la burla autorizza.
In conclusione ci sembra che le facezie, accanto al messaggio dichiarato e
conveniente alla normativa sociale, spesso ne sottendano un altro, che può essere
conflittuale con il primo, o lumeggino direttamente il secondo. Così avviene che, mentre
si ride di chi manca alle forme elette, estetico-etiche della società aristocratica, ci si
libera anche col riso da istanze e impulsi più segreti e moralmente riprovevoli, vivendoli
in forma virtuale, attraverso il veicolo della parola che illustra e suggerisce, e comunque
rompe il silenzio e la clausura individuale, e consente la liberazione di pulsioni, per
quanto in forma mediata e controllata, in un contesto collettivo e relazionale, di
educazione e ideologia condivisa.
L’attenzione alla medietas è comunque continua nel Cortegiano. Le stesse
facezie e motti non sono per lo più diretti, ma riportati in forma indiretta, tramite il
racconto, in modo da escludere l’ipotesi pericolosa di condivisione ideologica e
consentire al relatore quella libertà che non gli sarebbe permessa nella facezia diretta.
Inoltre vari esempi sono interpretati dal relatore in modo da portarli con sicurezza
nell’alveo dell’accettabilità. Ci si trova sempre di fronte a quel rito mondano governato,
come già detto, dalle regole della moderazione, rispetto, discrezione, convernienza,
attenzione al momento, al luogo, ai destinatari.
Preoccupazione di Castiglione, infatti, è contenere nei limiti dell’accettabilità
quanto può suscitare il riso, evitando forme dissacratorie esplicite sia di contenuto che
di modi. Una volta definiti i presupposti del riso come deformità, scarto rispetto alla
forma naturale e convenzionale, ci si sforza di ricondurlo all’interno di una relazione
che rispetti le convenienze e tenga presente la natura del pubblico, selezionando
contenuti e linguaggio e intonazioni di voce ed evidenziazione gestuale, in modo da
suscitare il riso senza provocare reazioni contrarie o malumori. E l’attenzione a questo
aspetto è tale che si rifiutano i motti mordaci che feriscono l’onore delle donne, e quelli
che offendono in generale. La varietà di motti e facezie non solo si distingue in
relazione al pubblico, ma anche in relazione alla condizione di coloro che li formulano.
Si dice infatti che quelli caratterizzati da suspense sono adatti alle persone importanti.
L’analisi della grande varietà delle tipologie e l’attenzione alla selezione e ai modi di
porgerle, oltre che alle diverse tipologie di destinatari e attanti, risponde alla
241
complessità e centralità della sfera relazionale e dell’intrattenimento per l’ambiente di
corte e al bisogno di dare un canone che salvaguardi l’accettabilità di forme giocose di
trasgressione dissimulata.297
297
Ci sembra opportuno approfondire l’argomento avvalendoci degli interessanti contributi di
Pignatti (Franco Pignatti, La facezia tra «res publica literarum» e società cortigiana, cit.) che esamina la
trattazione della facezia in tre intellettuali del Rinascimento, Pontano, Castiglione e Della Casa. Partendo
dalla osservazione di Ferroni (Giulio Ferroni, La teoria classicistica della facezia da Pontano a
Castiglione, in «Sigma», n.s., XIII, 1980, pp.69-96) sul problema, comune a ogni teoria classicistica, di
neutralizzazione dell’elemento negativo che procura il riso, rendendolo accettabile e conveniente nella
comunicazione sociale, Pignatti conduce una ricognizione sulle caratteristiche assegnate al riso e alle
forme che lo promuovono, sul rapporto tra natura e arte nella loro determinazione, sulla loro funzione e
ammissione all’interno della convenienza sociale, sui modelli classici, attraverso un confronto degli
scrittori citati con questi e tra loro. Pontano (Giovanni Pontano, De sermone, [1509] a cura di S: Lupi e
A. Risicato, Lugano, Thesaurus Mundi, 1953), secondo il critico, prelude a Castiglione per la
connotazione aristocratica e culturale data al riso nell’opposizione tra facetudo, mediocritas, urbanitas e
veracitas, da una parte, e assentatio, contentiositas, agrestitas e scurrilitas, dall’altra. Cosí pure
nell’importanza data al delectus e alla discretio, cioè alla selezione degli argomenti in modo conveniente
nelle diverse situazioni; e nell’utilizzo dello strattagemma del filtro del racconto per salvaguardare la
dignità del vir ingenuus come del cortigiano nel riproporli, ossia proporli come detti e fatti da altri, senza
la responsabilità di una propria condivisione; così pure nell’attribuzione al linguaggio plasmato dall’ars
(per Pontano l’ars, frutto della ratio, interviene a calibrare in maniera socialmente conveniente il motto
spontaneo, anche solo con la maniera di porlo. Può ad es. riportare un detto mordace in modo non
mordace e non scurrile con il controllo della gestualità e l’espressione del volto, con un decoro signorile e
distaccato) della funzione catartica di esorcizzare il brutto, funzione cui Castiglione sarà particolamente
attento, al punto da sostituire termini troppo evidenti nella definizione di contenuti riprovevoli, con
espressioni attenuative o con una perifrasi litotica. I due scrittori si differenziano, però, in relazione al
contesto cui pertiene la loro teoria del discorso faceto. Quello ipotizzato da Pontano non ha un luogo
istituzionale in cui calarsi che non sia la utopica res publica literarum, mentre quello di Castiglione si
cala nella cerchia aristocratica della corte di Urbino. In questo contesto il discorso faceto di Castiglione si
qualifica in una forma più moderata e purgata che nei modelli. Rispetto ai modelli (Cicerone, nel secondo
libro del De oratore, e Quintiliano nel capitolo De risu dell’Institutio oratoria), Pontano si limita a
cogliere la comicità del singolo motto, senza tentare di astrarre la regola universale. Inoltre, a differenza
di Cicerone, ritiene che nella facezia abbia un peso maggiore l’arte rispetto alle doti naturali e, più che
l’aspetto filosofico dell’origine del riso, lo interessano le norme che regolano la facezia, relative al
«criterio morale e stilistico dell’ars come delectus». Castiglione, a sua volta, si allontana dal modello
ciceroniano (Cicerone affida all’ars oratoria, ossia al dominio dei mezzi espressivi, alla competenza del
discorso, il raggiungimento dei due obiettivi da lui assegnati alla facezia, il delectum e il docere) in
quanto non giustifica sul piano del linguaggio faceto qualsiasi rappresentazione del vizio, e piuttosto,
riprendendo Aristotele, è attento a calibrare la gravità del vizio che può essere assunto ad oggetto, per
evitare di offendere o di suscitare pietà o riprovazione anziché riso. E soprattutto è attento al rispetto delle
regole della convenienza sociale. L’utilizzo della relatio è frequentissimo e diviene il mezzo ideologico
con cui «la brigata aristocratica protagonista del dialogo filtra e adegua le esperienze esterne» (Ivi, p.
252). Vi è centrale l’estetica della convenientia «che situa lo spazio della facezia nella sfera cangiante dei
costumi e dei comportamenti sociali», (Ivi, p. 257) ed impone moderazione e sprezzatura, assorbimento e
decantazione della deformità trasgressiva del negativo all’interno di un discorso conveniente. Il
linguaggio nella facezia in verbis si palesa più arguto e contundente che nella facezia in factis, ha una
natura concettistica e mira all’efficacia espressiva piuttosto che alla riprovazione del difetto. Monsignor
Giovanni della Casa, secondo Pignatti, conduce nel Galateo un esame di facezie, motti e beffe, più
limitato, ma in linea con Castiglione, tuttavia con un’attenzione ancora maggiore alle reazioni dei
destinatari, perché la società si sta facendo più chiusa e l’ambito sociale preso in considerazione, più
dilatato di quello della corte, rischia di non avere quella condivisione ideologica, necessaria premessa a
che non si generino equivoci. Di qui la maggiore cautela e circospezione, la richiesta di penalizzazione
degli autori di motti particolarmente mordaci, l’invito all’astensione dalla beffa che può essere percepita
come scherno offensivo, il consiglio di dirigere il motteggio solo a subalterni, per evitare le ritorsioni dei
potenti. A differenza degli umanisti che, in relazione alla facezia, si preoccupavano di definirne le
modalità costruttive nell’emittente, in una società in cui si restringe la libertà relazionale, l’attenzione si
sposta soprattutto sul destinatario. Anche Castiglione aveva invitato il cortigiano ad adattare il discorso
faceto al destinatario, però ne aveva illustrato le modalità di costruzione e aveva proposto la norma della
convenienza, potendo comunque fruire di una società più libera o almeno più omogenea rispetto a quella
242
presa in esame da Della Casa. Quest’ultimo, con l’aggravamento della preoccupazione di Castiglione,
anche se riconosce che il riso rende più piacevole la vita e quindi apprezzabili coloro che lo promuovono,
purché beffino e motteggino in modo amabile e dolce, testimonia il venir meno del sogno umanista di
«una zona franca del vivere sociale destinata al libero esercizio dell’intelligenza e al fine edonistico della
ricreazione rigenerativa » (Ivi, p. 269). Da questa disamina deduciamo che sulla modalità dei motti e delle
facezie incide, più che la premessa filosofica sulla natura del riso, il grado di accettabilità sociale, che si
propone come una variabile nel tempo, nello spazio e nell’ambito gerarchico. Castiglione, relativamente a
questa problematica, si pone in una posizione intermedia tra Pontano, ancora astratto da un contesto
concreto e conchiuso, e per questo più libero di Castiglione, calato nel milieu cortigiano, e Della Casa,
più fortemente condizionato e coartato dalle regole e possibili ritorsioni di una società sempre più chiusa.
Sulle modalità conversative teorizzate da Pontano, Castiglione, Della Casa e Guazzo si è inoltre
ampiamente soffermato Quondam nel suo saggio La conversazione. Un modello italiano, cit., dove è
attento a cogliere le implicazioni sociali della conversazione piacevole nell’Ancien Régime ed entra
anche nel dettaglio del parlar faceto, conducendo una ricognizione analitica del De sermone [1509] di
Pontano, da lui considerato il testo fondativo dei discorsi sull’arte della conversazione, ma ben presto
dimenticato per l’uso della lingua latina, e secondo lui ‘cannibalizzato’ e nello stesso tempo
implicitamente divulgato da Castiglione, secondo il costume della letteratura classicistica. Argomento del
De sermone è per il critico «il sermo del tempo libero, del riposo, del gioco», piacevole e faceto, proprio
delle frequentazioni private e pubbliche, di cui offre un modello prestigioso il Boccaccio del Decameron
nello stare insieme in modo piacevole e civile della lieta brigata durante la peste. La sua valorizzazione
della conversazione ha a fondamento quella della ragione e della parola, doni naturali e distintivi
dell’uomo, un «buon giudizio», la ratio recta, e un «giusto mezzo», la mediocritas caratterizzata da un
modus appropriato e da una mensura conveniente. L’uomo in quanto «animale razionale» è anche
«animale conversevole», secondo il modello proposto da Aristotele nell’Ethica nicomachea e la
conversazione non è un evento casuale, ma voluto: si sceglie chi frequentare. Essa risponde a un bisogno
naturale in quanto l’uomo è naturalmente orientato verso le relazioni sociali, e in quanto sempre per
natura l’uomo desidera riposo e svago di cui la conversazione piacevole (e utile) è una componente
essenziale. L’ambiente in cui si esercita tale conversazione è quello della città capitale degli stati signorili
regionali del Quattrocento, ossia delle città con la corte, e di conseguenza della corte stessa per cui i
destinatari del De sermone sono i principi e i cortigiani, i nobili frequentatori della corte, la dama e il
cavaliere. In società si apprezza l’uomo urbanus e facetus, ossia bene educato e cortese e insieme
spiritoso e arguto, e la veracitas,297 cioè il dire la verità, un compito etico proprio dell’onestà e dell’onore,
deve accompagnarsi a urbanitas/civilitas, a un saperlo dire in modi urbani e cortesi. Secondo Quondam
gli argomenti di Pontano sono perfettamente ripresi da Castiglione, che però ne migliora la forma e
coesione e trova il termine adatto per indicare la regola relazionale distintiva dell’élite: quello della grazia
cui si collega il neologismo di ‘sprezzatura’. Così pure quanto si dice intorno alle facezie (C: II, 42-97): la
trattazione della burla/ beffa come specifica tipologia faceta, la valorizzazione maggiore del modo di
raccontare la fabella (piccola storia piacevole) rispetto al suo contenuto, l’invito a restare nei confini
dell’urbanità, a evitare di trasformarsi in buffone, a tener conto della situazione comunicativa, a usare
buone maniere, a fare uso della grazia, e le stesse finalità assegnate alla conversazione: non solo il diletto,
ma anche l’onore e l’utile sulla base di un rispetto della verità che viene mediato dalla diplomatica
urbanità. E inoltre la piena assunzione delle invarianti microstrutturali del sistema etico ed estetico
classicistico, misura e convenienza, e la concezione della liberalità come peculiare virtù aristocratica. Ma
a Pontano si deve soprattutto l’aver individuato i capisaldi della moderna conversazione, intesa come
forma privilegiata della relazionalità, la cui normazione, funzionale a darle la misura della civiltà, non va
svilita come ipocrita dissimulazione; un intervento, quello di Pontano in relazione all’uso della parola,
che sarà poi esteso nel Galateo alle buone maniere complessive e al codice prossemico tramite il medium
del Cortegiano. Gentiluomini si diventa per cultura intesa come seconda natura e agli intellettuali
umanisti e classicisti si deve lo sforzo di convincere il nobile a considerare le humanae litterae
l’ornamento più alto della nobiltà. La conversazione viene intesa come pratica ordinaria di una forma del
vivere e richiede un codice distintivo che ha come valore aggiunto anche valenze estetiche, per cui le
pratiche comunicative cessano di essere naturali per entrare a far parte del campo dell’arte. Infine
aggiungiamo che, a nostro parere, il saggio di Quondam sul De sermone integra quello di Pignatti,
contestualizzandolo nell’ambito socioculturale aristocratico, mentre ne diverge nel giudizio sul referente
che per Pignatti è la res publica literarum degli umanisti e per Quondam è già invece il pubblico
cortigiano, nel suo complesso, e cioè non umanista in senso stretto, per cui viene meno una differenza
notata da Pignatti rispetto a Castiglione. Quondam concorda invece con Pignatti nel rilevare l’attenzione
di Pontano alle norme che regolano la facezia, e ai criteri rinascimentali di discrezione, misura,
convenienza al contesto comunicativo, condivisi con Castiglione, insieme alla priorità assegnata all’ars
243
10.14.2. Tavola esemplificativa su accuse misogine e difese filogine, attuate da
cortigiani o da Emilia Pio e dalla duchessa.
Come si vede dalla tavola sottostante, le accuse misogine sono sempre formulate
da uomini, la difesa filogina è affidata per la maggior parte pure ad essi, anche se vi
sono interventi saltuari delle donne, che, pur restando al di qua di ogni intento
argomentativo e ridotti spesso a sole battute, nel caso di Emilia Pio e della duchessa
compiono un ruolo determinante sia per l’accettazione del tema sia per la designazione
del cavaliere incaricato di difendere il loro sesso.
Luogo del
Tema.
‘Cortegiano’
Accusa.
Difesa.
Accusatore.
Difensore.
II, 34, 35.
L’innamoramento
per fama e
l’imitazione e
invidia reciproca.
La catena degli
innamoramenti per
un giovane di cui la
prima ha
magnificato le lodi.
Accusa di pazzia
alle donne, simili
nei comportamenti
alle pecore, e
invidiose le une
delle altre.
Lontananza
dalla verità.
Il signor
Gasparo.
La
duchessa.
Equiparazione
di donne e
uomini nei
comportamenti
sbagliati.
Messer
Federico
Fregoso.
U.
II, 69.
Le oscenità.
Accusa di volgarità
e lussuria.
Le donne ne hanno
piacere, sia di
sentirle che di
dirle.
Il signor
Le donne
Gasparo.
«oneste e
virtuose» ne
hanno vergogna.
Messer
Bernardo.
U.
II, 69.
La difesa delle
donne.
Volgarità delle
donne e
impossibilità di
distinguere le
virtuose per l’arte
della simulazione.
Le donne non
hanno bisogno
di difesa, se
l’accusa viene
da persona non
autorevole e
maldisposta per
delusione
personale.
Il signor
Gasparo.
La signora
Emilia
Pio.
D.
Messer
Bernardo.
U.
L’accusa al
misogino: le radici
della misoginia
nell’insuccesso
personale con le
donne.
II, 83.
Il rispetto e la
difesa dell’onore
della donnanobildonna.
Obbligo di non
macchiare
l’onore della
nobildonna nelle
facezie.
sull’attitudine naturale, pur giudicata anch’essa importante. E come Pignatti presta attenzione all’esame
del rapporto di imitazione e divergenza rispetto ai modelli antichi. Inoltre il saggio di Quondam precisa
maggiormente tutti gli acquisti pontaniani presenti in Castiglione, percorrendone l’iter di sviluppo.
244
Donna/
Uomo a
sostegno
difesa.
D.
La donna come
genere debole.
II, 90
Le donne possono
più liberamente
«morder gli omini
di poca onestà», di
quanto è concesso
agli uomini.
II, 90, 91.
Le donne vengono
privilegiate con la
concessione di una
maggiore libertà
nel «mordere» gli
uomini.
II, 91.
Le donne, «animali Accusa di lussuria.
imperfettissimi»,
bisognose del freno
della vergogna per
la continenza.
II, 95.
Le donne amano
chi ne possiede il
corpo.
Accusa di lussuria.
II, 95.
Confutazione a
difesa delle donne:
le donne
amerebbero così i
mariti, cosa che
non succede.
Implicita accusa
cui, senza
intenzione, dà
luogo la difesa: le
donne non amano i
mariti.
Messer
Bernardo.
U.
Difesa: le donne
non amano chi
ne possiede il
corpo, perché
altrimenti
amerebbero tutte
i mariti.
Messer
Bernardo.
U.
Difesa affidata
ai gesti, al
linguaggio del
corpo.
La duchessa D.
e le donne
Difesa
dell’onore delle
donne attraverso
l’accusa agli
uomini di una
doppia morale.
Accusa ai filogini
di parzialità.
Il signor
Gasparo.
Ottaviano
Fregoso.
Il signor
Gasparo.
Si toglie credito al
Boccaccio
misogino.
II, 96.
Le donne sembrano
voler picchiare i
misogini, per un
cenno della
duchessa.
II, 97.
Le donne parlano il
linguaggio del
corpo e della forza,
non della ragione.
II, 98.
La lingua valorizza
le donne: il vizio è
maschio, la virtù è
femmina.
Difesa
attraverso la
somiglianza di
genere con la
lingua: virtù è
parola
femminile.
Emilia Pio
D.
II, 98.
La difesa del
Magnifico: la
Difesa:
uguaglianza
Il
Magnifico.
U.
Accusa: le donnemateria,
intellettualmente
deboli.
Il signor
Gasparo
245
II, 97, 99
creazione di un
modello di donna
di palazzo perfetta
come il cortigiano.
donna-uomo
nella perfezione.
L’incarico al
Magnifico della
difesa delle donne.
Difesa: la
richiesta di
dimostrazione
della perfezione
delle donne.
IV, 30
Lussuria feminile.
Le donne
vorrebbero la
comunità sessuale
della Repubblica di
Platone.
Si contravviene
al patto di non
dir male delle
donne.
IV, 42
Intraducibilità del
modello ideale
nella realtà.
IV, 41
L’amore pazzo del Avidità femminile.
lusso da parte delle
donne.
Ottaviano
IV, 25
La svalutazione
delle qualità
femminili del
cortigiano.
Gasparo
Imperfezione
femminile.
Inutilità alla
Funzionalità
funzione ‘politica’. della grazia a
ottenere il
favore del
principe
Gasparo
Emilia Pio
D.
La
Duchessa.
D.
Emilia Pio
D.
Ottaviano
U.
Frigio
Tra le tradizionali accuse misogine rileviamo, quindi, e non meno che nel caso
delle facezie, la lussuria e incontinenza, la dipendenza dalla materia, dagli impulsi e dal
linguaggio del corpo, la debolezza intellettuale e dialettica, la pazzia e la invidia. Tra le
tradizionali difese filogine, la destituzione dell’autorevolezza del misogino il cui livore
si attribuisce a delusione e sconfitta personale nella relazione con le donne, l’utilizzo del
linguaggio in chiave di genere (dell’etimologia linguistica in realtà si servivano a
proprio vantaggio sia misogini che filogini), l’onestà della donna e il dovere di tutelarla
a causa del maggiore discredito che le deriverebbe dal macchiarla per la sopraffazione
della doppia morale maschile, e, naturalmente, l’uguale perfezione. Interessante appare,
tuttavia, la puntata di amor proprio del misogino, timoroso che il privilegio femminile
torni di detrimento alla dignità maschile, e costretto, lui, uomo, a invocare l’uguaglianza
di genere a difesa del maschile, come importante è l’attacco misogino all’innovazione di
Castiglione, l’attribuzione di doti femminili al cortigiano, che prova la resistenza
dell’ambiente tradizionale al più cospicuo tentativo di mediazione tra i sessi.
10.14.2.2. Un breve spaccato sulla ricorrenza delle note misogine, a
dequalificazione della donna, nel Libro IV.
Lussuria, imperfezione, amore del lusso e rovina del patrimonio familiare.
L’inferiorità dell’intelligenza femminile e l’inutilità delle arti femminili, ipotizzate per il cortigiano,
nello svolgimento del ruolo politico. Il vizio dell’effeminatezza nei maschi.
La più salace è l’allusione sessuale del misogino che suscita la reazione, però sempre
divertita, di Emilia Pio.
246
Rispose il signor Gaspar: Quello che più piacería alle donne per far i figlioli ben disposti e belli,
secondo me, saría quella comunitá che d’esse vol Platone nella sua Republica, e di quel modo.- Allora
la signora Emilia ridendo, Non è ne’patti, disse, che ritorniate a dir mal delle donne.- (C: IV, 30)
In forma più sottesa l’allusione all’imperfezione femminile fatta dal Frigio quando
sottolinea la quasi impossibilità di trovare nel concreto una donna di palazzo rispondente al
modello, e lamenta l’eccessiva perfettizzazione del cortigiano elaborata dal signor Ottaviano
che gli impedirebbe di trovare un riscontro nella realtà. Ma per il cortigiano si tratta di
impossibilità di raggiungere un grado di perfezione superiore a quello che può raggiungere, per
la donna di palazzo, invece, dell’impossibilità di raggiungere l’unico grado di perfezione
proposto, per cui solo in apparenza i due generi possono sembrare uguagliati.
Rispose il Frigio: Ben potete oramai lassarlo, e contentarvi ch’egli sia tale come l’avete formato:
ché senza dubio piú facil cosa sarebbe trovare una donna con le condizioni dette da voi; però dubito
che sia come la republica di Platone, e che non siamo per vederne mai un tale, se non forse in cielo.(C: IV, 42)
Più virulento risulta l’attacco misogino del Signor Ottaviano al lusso pazzo delle donne
che rovinano i mariti, in occasione dell’invito al buon principe a contenere il lusso dei privati.
[...] però è ragionevole che ‘l principe ponga mèta ai troppo suntuosi edificii dei privati, ai
convivii, alle doti eccessive delle donne, al lusso, alle pompe nelle gioie e vestimenti, che non è altro
che un argumento della lor pazzia; ché, oltre che spesso, per quella ambizione ed invidia che si
portano l’una all’altra, dissipano le facultà e la sostanzia dei mariti, talor per una gioietta o qualche
altra fraschería tale vendono la pudicizia loro a chi la vol comperare. (C: IV, 41)
Inoltre altri riferimenti esplicitanti una linea culturale o chiaramente misogina o
tendenzialmente misogina perché relegano la donna in ruoli subalterni sono il breve accenno
alla concubina che condivide il letto sospeso a mezz’aria del tiranno timoroso di congiure e alla
madre di lei che pone o toglie la scala, in cui la donna appare come materia sessuale o come
mera maternità;
[...] ovver quell’altro Aristodemo Argivo? Il qual a se stesso del letto aveva fatta quasi una
prigione:ché nel palazzo suo tenea una piccola stanzia sospesa in aria, ed alta tanto che con scala
andar vi bisognava; e quivi con una sua femina dormiva, la madre della quale la notte ne levava la
scala, la mattina ve la rimetteva. (C: IV, 24)
e anche il riferimento a Circe, sebbene marginale e contestualizzato nell’ambito della
dimostrazione di una tesi a favore della virtù dei principi come argomento della loro
grandezza,298 perché evoca una figura femminile mitica lussuriosa e perversa.
Altri preconcetti misogini emergono quando il signor Gasparo afferma la marginalità
delle competenze del cortigiano nelle arti femminili rispetto a quelle funzionali alla formazione
del principe, provocando la reazione del signor Ottaviano che le legittima in quanto favoriscono
il conseguimento della grazia del Signore, prerequisito necessario perché il cortigiano possa poi
essere ascoltato e parlare con libertà.
Allora il signor Gaspar, Penso, disse, che se delle condizioni attribuite al Cortegiano alcune a voi
mancano, sia più presto la musica e ’l danzar e l’altre di poca importanzia, che quelle che
appartengono alla instituzion del principe, ed a questo fine della Cortegianía - Rispose il signor
Ottaviano: Non sono di poca importanzia tutte quelle che giovano al guadagnar la grazia del principe
[...] (C: IV, 25)
298
«Rispose il signor Ottaviano: Se una qualche Circe mutasse in fiere tutti i subditi del re di
Francia, non vi parrebbe che piccol signor fusse, se ben signoreggiasse tante migliaia d’animali? [...]
Vedete adunque che non la moltitudine dei subditi, ma il valor fa grandi li principi.- » (C: IV, 35)
247
E ancora quando il misogino continua più tardi sullo stesso metro esprimendo il dubbio
che Platone ed Aristotele, citati come ottimi istitutori cortigiani di principi, non avessero
competenza e non praticassero l’arte della danza e della musica, competenza che il signor
Ottaviano dà invece per scontata in quanto li considera conoscitori di tutto lo scibile.
[...] disse il signor Gaspar: Io non aspettava già che ‘l nostro Cortegiano avesse tanto d’onore;
ma poi che Aristotele e Platone son suoi compagni, penso che niun più debba sdegnarsi di questo
nome. Non so già però s’io mi creda, che Aristotele e Platone mal danzassero o fussero musici in sua
vita, o facessero altre opere di cavalleria?- Rispose il signor Ottaviano: Non è quasi licito imaginar
che questi dui spiriti divini non sapessero ogni cosa, e però creder si po che operassero ciò che
s’appartiene alla Cortegianía, perché dove lor occorre ne scrivono di tal modo, che gli artifici
medesimi delle cose da loro scritte conoscono che le intendevano insino alle medulle e alle più
intime radici. (C: IV, 48)
Infine, quando il signor Ottaviano attacca la decadenza e corruzione dei giovani
cortigiani imputabile a eccessiva effeminatezza, riscattando però la pratica di arti «femminili»
se rivolte al buon fine di conquistar la grazia del signore e poterlo educare.
[...] anzi direi, che molte di quelle condizioni che se gli sono attribuite, come il danzar,
festeggiar, cantar e giocare, fussero leggerezze e vanità, ed in un omo di grado piuttosto degne di
biasimo che di laude: perché queste attilature, imprese, motti, ed altre tai cose che appartengono ad
intertenimenti di donne e d’amori, ancora che forse a molti altri paia il contrario, spesso non fanno
altro che effeminar gli animi, corromper la gioventù, e ridurla a vita lascivissima; onde nascono poi
questi effetti, che ‘l nome italiano è ridotto in obbrobrio, né si ritrovano se non pochi che osino non
dirò morire, ma pur entrare in un periculo. E certo infinite altre cose sono, le quali, mettendovisi
industria e studio, partoririano molto maggior utilità e nella pace e nella guerra, che questa tal
Cortegianía per sé sola; ma se le operazioni del Cortegiano sono indrizzate a quel bon fine che
debbono e ch’io intendo, parmi ben, che non solamente non siano dannose o vane, ma utilissime e
degne d’infinita laude. (C: IV, 4)
In conclusione, le note misogine che abbiamo riscontrato, per quanto vengano confutate
in parte nel dialogo, evidenziano i limiti di una mentalità di corte e di epoca che Castiglione
rispecchia in un poliedrico «ritratto di pittura». Ma, nell’ambiguità ideologica di una
valorizzazione della donna in funzione di un’ulteriore e maggiore valorizzazione del maschio,
rientra anche la presentazione della donna come figura in competizione con l’uomo e tale da
spingere l’uomo a perfezionarsi al massimo per conservare il potere, il ruolo di comando. Ciò si
evince dalla supposizione, avanzata dal Magnifico, che la perfezione della donna di palazzo sia
la causa dell’ulteriore perfezione politica riconosciuta al cortigiano, anche se si tratta, nel
contesto, di una competizione nella modellizzazione di genere, piuttosto che tra soggetti reali,
comunque intuibili. E a questo convergono anche ripetuti riferimenti al rischio che si torni alla
disputa sulle donne (C: IV, 30, 42).
L’incontro, lo scambio, il confronto, anche polemico, tra maschile e femminile non è
solo motivato dalla volontà di offrire un ritratto della vita di corte e della conversazione
aristocratica, ma tende di fatto a costituire un pilastro importante di questa opera, che pur
richiamando tutti i luoghi comuni e le remore tradizionali, tenta una mediazione sociale e
gerarchica nell’avvalorare le stesse doti femminili, come la grazia, e di servizio, e quindi ancor
femminili, in quanto di servizio, del cortigiano.
10.15. Comportamenti femminili e maschili nella diegesi.
Ruoli diversificati e integrati, ma non di pari peso e rilievo.
Dopo questa parziale esemplificazione del confronto di genere nella diegesi,
intendiamo ripercorrerne le modalità complessive, riportando anche una nutrita
documentazione degli interventi delle donne e di quelli con cui gli attori maschili si
riferiscono a tale pubblico. I ragionamenti e le battute sono infatti prodotti come su una
248
scena teatrale che vorrebbe essere la traduzione del modello teorico in ambito pratico,
una concretizzazione però che, per quanto pertiene al femminile, mostra un’interazione
più limitata nell’ambito del dialogo, rispetto alle competenze, peraltro anch’esse
abbastanza limitate, previste nella modellizzazione. In effetti si ha l’impressione di due
lievi discrepanze: una maggiore apertura nella diegesi rispetto alla sessualità, una
minore rispetto all’intelligenza e alla parola femminile, il che suffraga l’idea che la
modellizzazione di Castiglione voglia essere produttrice di un miglioramento di tale
società secondo linee ideologiche di emancipazione della donna sotto il profilo
intellettuale e di un suo maggior controllo invece sotto il profilo sessuale.
Innanzitutto, come già si è detto, fin dalle prime battute alle donne spetta il ruolo
di promotrici del discorso, ai partner maschili, il suo sviluppo. D’altra parte,
nell’elaborazione del modello del perfetto cortigiano le qualità a lui attribuite vengono
sviscerate, assumendo anche all’interno del dialogo i termini delle dispute letterarie,
culturali, di costume del tempo. Insomma i cortigiani parlano del modello di cortigiano,
presentandosi nell’azione e nel sapere dei cortigiani, connotato da una viva
partecipazione ai dibattiti culturali dell’epoca. La disputa sul cortigiano assume in sé, lo
ricordiamo, quella sulla superiorità delle armi o delle lettere, della pittura o della
statuaria, della lingua dell’uso o del toscano del Trecento di Petrarca o Boccaccio,
dell’imitazione di un modello o più, dei termini in cui i moderni debbano porsi nei
confronti degli antichi, delle diversità tra le nazioni, ecc. Del resto al cortigiano viene
attribuito un ampio sapere, un sapere che alle donne sarà assegnato in termini molto più
ridotti, quel tanto da consentire una interazione comunicativa. Ma, come dicevamo, il
passo in cui lo si teorizza, pur evidenziando già limiti nella concessione del sapere,
sembrava promettere un ruolo più significativo. Invece le donne intervengono solo per
proporre, ordinare, orientare, ricondurre all’assunto, interrompere il dialogo. Ne sono
apparentemente le regine, perché lo conducono, ma la loro conduzione si limita a quella
di un arbitro: i giocatori in campo restano gli uomini. Emilia Pio recita la sua parte con
vivacità e anche una certa perentorietà, approfittando dei pieni poteri che la duchessa le
ha dato: ricordiamo le battute nei confronti dell’Unico Aretino (C: I, 9) e quelle finali
nella schermaglia vivace col conte Ludovico (C: I, 55), e, oltre a interventi che ne
attestano la curiosità tipicamente femminile (aspetto condiviso dalla duchessa nel terzo
libro), quelli critici nei confronti dei misogini e a favore delle donne, tra cui la nomina
di un difensore ufficiale (C: II, 52, 69, 97, 98).299
Anche la duchessa, comunque, interviene con alcune battute, a volte rivolte a
Emilia Pio, la sua portavoce, a volte indirizzate direttamente ai cortigiani: ricordiamo
quella in cui dà mostra della sua competenza di gestione del potere, perché vi parla dei
rischi della clemenza (C: I, 23);300 la difesa della lungimiranza e tolleranza dei potenti
299
«Dite adunque liberamente, soggiunse la signora Emilia, e non abbiate tanti rispetti » (C: II, 52);
«Quivi la signora Emilia, pur ridendo, disse: Le donne non hanno bisogno di difensore alcuno contra
accusatore di così poca autorità; però lassate pur il signor Gasparo in questa perversa opinione, e nata più
presto dal suo non aver mai trovato donna che l’abbia voluto vedere, che da mancamento alcuno delle
donne; e seguitate voi il ragionamento delle facezie» (C: II, 69); «Allor, Non vi verrà fatto, rispose la
signora Emilia; che, poiché avete veduto messer Bernardo stanco del lungo ragionare, avete cominciato a
dir tanto mal delle donne, con opinione di non avere chi vi contradica; ma noi metteremo in campo un
cavalier più fresco, che combatterà con voi, acciò che l’error vostro non sia cosí lungamente impunito.Cosí, rivoltandosi al Magnifico Juliano [...]» (C:II,97); «Rispose la signora Emilia: anzi molto più; e che
cosí sia, vedete che la virtù è femina, e ‘l vizio maschio» (C: II, 98).
«[...] quando la signora Emilia ridendo, Dite ciò che vi piace, rispose, ché, con licenzia però
della signora Duchessa, io perdono a chi ha fallito e a chi fallirà in cosí piccol fallo.- Suggiunse la signora
Duchessa: Io son contenta: ma abbiate cura che non v’inganniate, pensando forse meritar più con l’esser
clemente che con l’esser giusta; perché, perdonando troppo a chi falla si fa ingiuria a chi non falla. Pur
non voglio che la mia austerità, per ora, accusando la indulgenzia vostra, sia causa che noi perdiamo
249
(C: II, 85);301 l’incarico confermato ufficialmente al Magnifico Juliano, a difesa delle
donne e a vergogna dei misogini (C: II, 99);302 uno dei rari interventi nel merito di una
questione (C: II, 27);303 e altri scherzosi a favore delle donne, senza dimenticare il
cenno dato per scherzo alle donne di alzarsi, come per picchiare il misogino (C: II, 35,
91, 96).304
Due brevi interventi in difesa delle donne sono fatti rispettivamente da madonna
Costanza Fregoso e da Margherita Gonzaga, ma non bastano a dimostrare che
anche le altre donne prendono la parola, oltre alle due istituzionali, perché sono unici e
brevissimi. In genere le donne di palazzo restano invisibili all’interno del gruppo del
pubblico, spesso indifferenziato a livello di genere. Anzi lo scarso potere di parola
assegnato alle donne (sopravvivenza di un tradizionale divieto, come evidenzia Giorgio
Patrizi) si riconosce anche quando la duchessa, in maniera scherzosa, toglie loro la
parola, assegnando questa «fatica» ai soli cortigiani.
[...] fece segno la signora Emilia a madonna Costanza Fregosa, per essere in ordine vicina, che
seguitasse, la qual già s’apparecchiava a dire, ma la signora Duchessa subito disse: Poiché madonna
Emilia non vole affaticarsi in trovar gioco alcuno, sarebbe pur ragione che l’altre donne
partecipassino di questa commodità, ed esse ancor fussino esenti di tal fatica per questa sera,
essendoci massimamente tanti omini, che non è periculo che manchino giochi-(C: I, 7)
d’udir questa domanda di messer Cesare.- Cosí esso, essendogli fatto segno dalla signora Duchessa e
dalla signora Emilia, subito disse» (C: I, 23)
301
« Replicò la duchessa ridendo: Non si disconvien talor usare le burle ancor coi gran signori; ed
io già ho udito molte esserne state fatte al Duca Federico, al Re Alfonso d’Aragona, alla Reina donna
Isabella di Spagna, ed a molti gran principi; ed essi non solamente non lo aver avuto a male, ma aver
premiato largamente i burlatori » (C: II, 85)
302
«[...] formateci una tal donna che questi nostri avversarii si vergognino a dir ch’ella non sia pari
di virtù al Cortegiano» (C: II, 99)
303
«Adunque, rispose la signora Duchessa ridendo, se cosí vanno tutti, opporre non se gli dee per
vizio, essendo a loro questo abito tanto conveniente e proprio quanto ai Veneziani il portar le maniche a
cómeo, ed a’ Fiorentini il cappuzzo» (C: II, 27)
304
«Ma la signora Duchessa impose silenzio a tutti; poi, pur ridendo, disse: Se ‘l mal che voi dite
delle donne non fusse tanto alieno dalla verità, che nel dirlo piuttosto desse carico e vergogna a chi lo dice
che ad esse, io lassarei che vi fusse risposto; ma non voglio che col contradirvi con tante ragioni come si
poria, siate rimosso da questo mal costume, acciò che del peccato vostro abbiate gravissima pena; la qual
sarà la mala opinione che di voi pigliaran tutti quelli, che di tal modo vi sentiranno ragionare» (C: II, 35);
«Allor la signora Duchessa, In questo modo, disse, signor Ottaviano, parlate delle donne; e poi vi dolete
che esse non vi amino? » (C: II, 91); «Allora una gran parte di quelle donne, ben per averle la signora
Duchessa fatto cosí cenno, si levarono in piedi, e ridendo tutte corsero verso il signor Gasparo, come per
dargli delle busse, e farne come le baccanti d’Orfeo, tuttavia dicendo: Ora vedrete, se ci curiamo che di
noi si dica male» (C: II,96)
305
«Rise quivi Madonna Costanza Fregosa, e disse: «Voi fareste assai più cortesemente seguitar il
ragionamento vostro, e dir onde nasca la bona grazia, e parlar della Cortegianía, che voler scoprir i difetti
della donne senza proposito» (C: I, 40)
306
«Parmi che voi narriate troppo brevemente queste opere virtuose fatte da donne; ché se ben
questi nostri nemici l’hanno udite e lette, mostrano non saperle, e vorriano che se ne perdesse la memoria;
ma se fate che noi altre le intendiamo, almen ce ne faremo onore» (C: III, 23)
307
Il silenzio, nella tradizione pedagogica classica-medievale-umanistica, è valorizzato come
strumento sia di attenzione e di civile rispetto e interazione, sia di riflessione e di ascesi. Però, mentre il
silenzio maschile è valorizzato all’interno di una promozione culturale, il silenzio femminile è piuttosto il
divieto sociale della parola, funzionale a impedire, secondo il pregiudizio misogino, la parola vana, e a
conservare la donna in una condizione di subordinazione. Castiglione compie dunque un’importante
innovazione assegnando alla donna un ruolo pubblico con diritto di parola, e il suo limitarsi a riconoscerle
solo una parola parca, conservandone soprattutto il ruolo passivo di uditrice, si spiega con l’opportunità di
mediare con questa tradizione. Sulla pedagogia del silenzio, con un excursus sul valore assegnato al
silenzio nella cultura classica, medievale e umanistico-rinascimentale, consigliamo l’interessante saggio
di Giorgio Patrizi, Pedagogia del silenzio. Tacere e ascoltare come fondamenti dell’apprendere, cit.
250
Comunque, in questo contesto di civiltà di rapporti in un universo in cui il
referente maggiore è sempre il maschile, nella garbata diatriba dialettica,308 le donne
che conducono come arbitre il gioco si pongono su una linea di difesa del proprio sesso
ed esse stesse, coi loro comportamenti illuminati e piacevoli, ne sottolineano la
«redenzione». Anche la duchessa, pur essendo super partes, guarda con occhio di
favore il suo genere. Nell’opera tuttavia, lo ribadiamo, prevale a tutti gli effetti il
maschile. Pensiamo inoltre a come, solo in relazione al cortigiano, si sviscerino gli
argomenti del rapporto col principe, non menzionati per le dame di palazzo, nemmeno
in relazione alla duchessa, se non in una forma di gruppo omogenea col maschile e da
esso indistinta. E in generale tutti gli aspetti della vita di corte vi hanno uno sviluppo
che nella modellizzazione della dama di palazzo è molto più ridotto, vuoi perché ne è
data per scontata la similarità, vuoi per il minor spazio progettato nell’opera, vuoi per il
riconoscimento che il livello teorico alto è per gli uomini e non per le donne e infine
perché non si crede o non si vuole probabilmente una loro piena parità. E
significativamente dove l’argomento non concerne di fatto le donne, come avviene per
il politico, anche l’interazione femminile nel dialogo si fa più sfocata e ricompare
soprattutto quando le battute rimandano al confronto di genere. Esse avranno sì un ruolo
più significativo nella trattazione dell’amor cortese, al punto da essere invitate a
prendere la parola costruttrice del sapere, ma l’intervento di Emilia Pio in merito
all’amore si ridurrà a poca cosa, sostanzialmente alla riproposizione di quanto il sapere
maschile ha prodotto in merito, come pressoché silenziose saranno le nobildonne nella
trattazione dell’amor platonico da parte di Bembo. Interventi censori poi, quali quello di
Emilia Pio che invita a moderare la polemica contro i frati,309 sono anch’essi il segno di
un’ambiguità che affida al sesso femminile la custodia dei valori religiosi tradizionali
nello stesso tempo in cui sottolinea un’autonomia di criterio. Inoltre il linguaggio del
corpo, che dal misogino viene screditato310 come il segno di un’inferiorità nel campo
308
Ricordiamo, tra le puntate misogine, la polemica contro l’effeminatezza maschile, con
comportamenti affettati ad imitazione delle donne disoneste, (C: I,19); la polemica contro certe mode e
l’artificio delle donne (C: I, 40); la catena degli innamoramenti femminili che occasiona la polemica
contro le donne considerate pazze, invidiose, pecore (C: II, 34-35); il motto che colpisce la lussuria della
donna che si dice neghi ciò che le piace le sia richiesto, con evidente allusione sessuale (C: II, 47);
l’affettazione esagerata del pudore (C: II, 54).
309
Annotiamo alcune ipotesi sul senso dell’intervento critico della signora Emilia nei confronti
dell’invettiva contro i frati ipocriti che corrompono il casto animo di qualche donna con l’invito alla
simulazione «si non caste, tamen caute» (e qui giova ricordare il disonesto frate della Mandragola di
Machiavelli). La signora Emilia difende i religiosi e vorrebbe non ascoltare l’invettiva andandosene,
assumendo così un ruolo di mediatrice e moderatrice che non tollera gli eccessi, una funzione censoria o,
se vogliamo, simulando nella facciata il rispetto della religione anche nei suoi ministri. Inoltre mentre la
mentalità laica rinascimentale (ma così avrebbe fatto anche Dante) si scaglia contro i ministri del culto
indegni, la donna ne ha rispetto, forse ad attestare anche la permanenza nella sua educazione di una
maggiore incidenza della religione. Insomma la domanda è la seguente: c’è un maggiore perbenismo
reale o di facciata per le donne? E questo è ancora il segno di una loro maggiore sottomissione ai vincoli
culturali-sociali? E un’altra ancora: la donna che non condivide un discorso decide di non starlo ad
ascoltare, non di contestarlo con argomentazioni; è questo il segno di una consapevolezza della propria
inferiorità intellettuale e culturale? O dobbiamo semplicemente pensare a questo comportamento come