“SVEVO : UNA VITA E SENILITÀ PROF .SSA NUNZIA SOGLIA

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“SVEVO : UNA VITA E SENILITÀ PROF .SSA NUNZIA SOGLIA
“SVEVO: UNA VITA E SENILITÀ”
PROF.SSA NUNZIA SOGLIA
Università Telematica Pegaso
Svevo: Una vita e Senilità
Indice
1
BIOGRAFIA -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 3
2
ANALISI DELLE OPERE --------------------------------------------------------------------------------------------------- 4
2.1
2.2
UNA VITA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 4
SENILITÀ --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 6
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Svevo: Una vita e Senilità
1 Biografia
Italo Svevo, il cui vero nome era Aron Hector Schmitz, nasce a Trieste il 19 dicembre 1861,
da padre ebreo di origine tedesca (il nonno Astolfo era giunto a Trieste come funzionario
dell'impero asburgico) e da madre italiana, porta in sé questo carattere di estraneità che è tipico
anche in altri scrittori ebrei: Kafka, Musil, Proust, Rilke, Freud. Cresce cittadino austriaco fino al
1918, vive in una città di confine come Trieste, crocevia della cultura italiana e della cultura
mittleuropea. Trieste a causa dei traffici commerciali e della sua posizione geografica era
profondamente immersa nella mentalità mitteleuropea. In questa città, "crocevia di più popoli"
Svevo si forma una cultura poco italiana e molto europea. Lo pseudonimo di Italo Svevo indica
comunque la sua consapevolezza di appartenere a due tradizioni culturali, quella italiana e quella
germanica. Lavora a lungo impiegato alla Banca Union (1880-1898); sposa nel 1896 la ricca Livia
Veneziani e lavora nel colorificio del suocero. Nei primi anni del secolo (1907) conosce l'irlandese
Joyce, esule a Trieste, che gli dà lezioni di inglese e con il quale stringe una feconda amicizia
letteraria (Joyce ha scritto Ulisse, Dedalus, Gente di Dublino ed è un esperto del "flusso di
coscienza" automatico e del racconto analitico). Negli anni 1910-12 scopre la psicanalisi attraverso
le opere del viennese Sigmund Freud, anzi con un nipote medico traduce Il sogno. Subisce l'influsso
del filosofo tedesco Schopenhauer. Nel 1925-26 esplode il "caso Svevo" in Francia e in Italia.
Muore nel 1928 a Motta di Livenza in seguito ad un incidente automobilistico.
Subì, fin da giovane, il fascino della letteratura. La sua appartenenza, d'altra parte, a un'area
culturale come quella triestina, tendenzialmente cosmopolita e legata politicamente a una nazione di
lingua tedesca (condizione, quest'ultima, emblematicamente riassunta nel suo stesso pseudonimo),
se gli consentì una grande apertura d'orizzonti, lo mise altresì in una situazione di marginalità e di
estraneità rispetto alla coeva letteratura italiana, e gli fece mancare i riconoscimenti dei suoi stessi
concittadini, legati, per ragioni nazionalistiche, alla strenua difesa della purezza della lingua e della
tradizione.
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Svevo: Una vita e Senilità
2 Analisi delle opere
2.1
Una vita
Una vita è il primo romanzo di Svevo e quando venne pubblicato nel 1892, a spese
dell’autore, passò del tutto inosservato nel panorama letterario italiano. La sua stesura iniziò nel
1888. Venne rifiutato dalla casa editrice Treves, e venne poi pubblicato nel 1892 dall'editore Vram,
a spese dello stesso autore.
Il titolo inizialmente era Un inetto, ma era stato rifiutato dall’editore, così Svevo aveva
ripiegato sull’attuale titolo, che richiama il romanzo di Guy de Maupassant Une vie. Con il titolo
precedente l’autore intendeva evidenziare la natura del protagonista e il suo pessimismo. Vari sono i
modelli possibili di Una vita: da una parte il romanzo naturalista e realista ottocentesco, dall’altra i
moderni racconti basati sull’analisi psicologica e interiore dei personaggi.
La storia ruota intorno ad Alfonso Nitti, trasferitosi da poco a Trieste dal paese natale, dopo
aver trovato lavoro da impiegato presso la banca Maller. Un giorno viene invitato a casa del
banchiere, dove si riunisce un salotto letterario, guidato dalla figlia di Maller, Annetta. Qui,
Alfonso cerca il suo modo di emergere socialmente, mostrando le sue ambizioni letterarie. Conosce
quindi Annetta con cui intreccia una relazione amorosa, un rapporto tra una donna capricciosa e
volubile e un uomo desideroso di riconoscimento sociale e artistico. Fa amicizia, inoltre, anche
con Macario, giovane ambizioso e sicuro di sé. Per Alfonso sembra essere giunto il momento più
favorevole (è sul punto di sposare Annetta), ma l’uomo, improvvisamente, ritorna nel suo paese, in
una sorta di fuga dalla sua nuova vita per dedicarsi nuovamente alla speculazione interiore e per
assistere la madre malata, che muore poco dopo. Il ritorno di Alfonso a Trieste non corrisponde al
recupero della situazione precedente: Annetta sta per sposarsi con il cugino, al protagonista viene
affidato una mansione meno importante in un altro ufficio e i suoi tentativi di riottenere il favore
della famiglia Maller sortisce l’effetto opposto. Alfonso, ormai, si sente odiato e perseguitato dai
Maller, che ormai pensano che questo voglia ricattarli. Il protagonista chiede ad Annetta di poterla
incontrare per chiarire la situazione, ma all’appuntamento si presenta il fratello, che sfida l’uomo a
duello. Alfonso, vittima della sua inettitudine e credendo che Annetta desideri la sua morte, si
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suicida. La notizia del suo decesso viene affidata dall’autore a una fredda, impersonale e ipocrita
lettera della Maller, in cui viene dichiarata, falsamente, sconosciuta la ragione del gesto
dell’impiegato.
Svevo in Una vita presenta per la prima volta la figura centrale dei suoi romanzi e di opere
di altri autori coevi o di poco successivi, l’inetto: incapace di vivere con gli altri, caratterizzato da
un continuo senso di inadeguatezza, dedito all’introspezione e paralizzato nel momento della
scelta. Alfonso Nitti incarna questo personaggio, non riuscendo ad integrarsi nel mondo altoborghese che la famiglia Maller incarna, impossibilitato a godere delle gioie che la vita gli concede,
ma concentrato sulla propria drammatica condizione di uomo. La realtà del protagonista, dopo il
ritorno a Trieste, diventa priva di ideali e desideri e culmina con la sua stanca resa di fronte alla
propria inettitudine, il suicidio finale. Tutta l’esistenza di Alfonso sembra caratterizzata da un
pessimismo e una negatività di fondo, sempre pronti ad esplodere e intaccare la superficiale
serenità ottenuta. Non a caso, Svevo ammette di essere stato influenzato, nella stesura del romanzo,
dalla filosofia di Arthur Schopenauer: e in effetti nel romanzo ritorna costante il tema della volontà
individuale, debole e insufficiente ad affrontare la realtà del mondo, e quello della negatività della
vita sociale, da cui l'uomo d'eccezione dovrebbe distaccarsi, rifiutando la sorte mediocre degli
uomini comuni.
Brano tratti da Una vita:
Camminava con passo sempre più celere verso casa sua. Sul Corso si fermò un istante; gli
era parso che passasse Macario. Non era lui, ma Alfonso andava indagando se forse gli avrebbe
dato qualche soddisfazione il vendicarsi andando da Macario a raccontargli tutta la sua avventura
con Annetta. No! Unica soddisfazione che potesse avere era di convincere Annetta ch'ella sul suo
conto s'ingannava. Le avrebbe scritto una lettera, un addio da moribondo. Si trovava con la penna in
mano dinanzi al suo tavolo, ma non gli riusciva di vergare una sola parola. Nella sua vita da
sognatore il sogno non lo aveva posseduto giammai così interamente. Depose la penna e mise la
testa fra le mani. Avrebbe voluto riflettere ma sognava irresistibilmente. Annetta lo voleva morto!
Desiderò che le riuscisse e che poi lo rimpiangesse. Sognava che l'amore per lui, senz'altra causa, un
giorno le rinascesse nel cuore e che ella andasse alla sua tomba a spargervi fiori e lagrime. Oh!
quanta buona calma in quel cimitero ch'egli sognava verde e riscaldato dal sole. Quando riaperse gli
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occhi fu sorpreso di trovarsi dinanzi quel pezzo di carta da lettera. Doveva battersi con Federico
Maller in una lotta impari nella quale il suo avversario aveva tutti i vantaggi: l'odio e l'abilità. Che
cosa poteva sperare? Gli rimaneva soltanto una via per isfuggire a quella lotta in cui avrebbe fatto
una parte miserabile e ridicola, il suicidio. Il suicidio gli avrebbe forse ridato l'affetto di Annetta.
Come in quell'istante non l'aveva amata giammai. Non si trattava più d'interesse né di sensi. Quanto
più egli l'aveva vista allontanarsi da lui tanto più l'aveva amata; ora che definitivamente perdeva
ogni speranza di riconquistare quel sorriso, quell'affettuosa parola, la vita gli sembrava incolore,
nulla. Una volta scomparso, Annetta non avrebbe più avuto il ribrezzo della paura per lui, per il suo
ricordo, ed era tutto quello ch'egli poteva sperare. Non voleva vivere dovendo continuare ad
apparirle quale un nemico spregevole sospettato di voler danneggiarla e farle pagare a caro prezzo
gli stessi favori da essa accordatigli.
Non aveva pensato mai al suicidio che col giudizio alterato dalle idee altrui. Ora lo accettava
non rassegnato ma giocondo. La liberazione! Si rammentava che fino a poco prima aveva pensato
altrimenti e volle calmarsi, vedere se quel sentimento giocondo che lo trascinava alla morte non
fosse un prodotto della febbre da cui poteva essere posseduto. No! Egli ragionava calmo! Schierava
dinanzi alla mente tutti gli argomenti contro al suicidio, da quelli morali dei predicatori a quelli dei
filosofi più moderni; lo facevano sorridere! Non erano argomenti ma desiderî, il desiderio di vivere.
Egli invece si sentiva incapace alla vita. Qualche cosa, che di spesso aveva inutilmente cercato di
comprendere, gliela rendeva dolorosa, insopportabile. Non sapeva amare e non godere; nelle
migliori circostanze aveva sofferto più che altri nelle più dolorose. L'abbandonava senza rimpianto.
Era la via per divenire superiore ai sospetti e agli odii. Quella era la rinunzia ch'egli aveva sognata.
Bisognava distruggere quell'organismo che non conosceva la pace; vivo avrebbe continuato a
trascinarlo nella lotta perché era fatto a quello scopo. Non avrebbe scritto ad Annetta. Le avrebbe
risparmiato persino il disturbo e il pericolo che poteva essere per lei una tal lettera.
2.2
Senilità
Senilità (1898) è il secondo romanzo di Svevo. Venne scritto tra il 1892 e il 1897, ma venne
pubblicato l’anno successivo, prima su un quotidiano triestino, “L’indipendente” e poi a spese
dell’autore. Lo scarso successo portò Svevo a un silenzio letterario di venticinque anni. Venne
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riscoperto e ripubblicato nel 1927 a Milano, in seguito al clamore letterario dovuto alla
pubblicazione della Coscienza di Zeno e alla critica positiva a questo romanzo da parte di Montale.
Il titolo ha significato metaforico: senilità indica l’incapacità di agire che è propria dei
vecchi, ma nel romanzo qualifica quella del protagonista che è relativamente giovane, il trentenne
Emilio Brentani.
Anche in questo romanzo, Svevo affronta il dramma della solitudine dell’uomo
contemporaneo, la sua incomunicabilità e incapacità di agire o di modificare la realtà che lo
circonda, il senso di frustrazione che gli deriva dalla coscienza del totale fallimento della propria
esistenza.
Molto apprezzato da James Joyce, che si prodigò per una buona riuscita della seconda
edizione, il romanzo si avvicina allo stile dello scrittore irlandese dato che è essenzialmente
introspettivo e mira a mettere in luce la vita interiore di Emilio.
È percorso da una certa ironia dell'autore nei confronti della figura principale, Brentani, nel
quale Svevo in parte identifica la sua personalità. L'inettitudine di Brentani è infatti spietatamente
messa a nudo dal narratore, che considera il protagonista come persona in un certo senso malata e,
infine, anche senile. Il lettore viene coinvolto in questa complicità con il narratore, e riconosce
subito i limiti e l'inadeguatezza di Emilio. Un vero e proprio controesempio alla figura fallita del
Brentani è quello di Angiolina: lungi da riflessioni esistenziali e da scrupoli di qualsiasi natura,
Angiolina sfrutta le occasioni che le si pongono per progredire e godere di vantaggi sempre nuovi.
La sua figura si evolve negli occhi di Brentani, il quale cerca dapprima di considerarla come un
angelo, cercando di darle l'improbabile soprannome di "Ange"; più tardi, la ragazza verrà però
chiamata addirittura "Giolona" dal Balli a causa della sua statura. Il cambio di nome del
personaggio ne mette bene in evidenza la graduale affermazione. Vale il discorso opposto per
Amalia, il vero e proprio alter ego di Emilio, votato a consumarsi lentamente.
La morte della sorella lascia intuire che l'esistenza del protagonista è in pericolo e che è
necessaria una presa di coscienza per evitarne un decadimento dei più vergognosi come quello
riservato al protagonista del romanzo precedente (la morte); un destino cui Emilio finisce per
sottrarsi, seppure a stento. La presa di coscienza di cui si avverte la mancanza in Senilità verrà
esaurientemente descritta nel romanzo successivo, La coscienza di Zeno. Diventa centrale nel
funzionamento del romanzo non più la struttura spazio-temporale delle vicende, ma i moti
dell’animo e le reazioni agli eventi dei personaggi, avvicinandosi sempre più alla struttura e alla
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forma de La coscienza di Zeno, in cui il protagonista diventa il narratore delle vicende, raccontate
dal suo punto di vista e attraverso la sua visione personale dei fatti.
La trama
ruota intorno alla storia d’amore tra Emilio Brentani e Angiolina. Emilio,
impiegato con velleità letterarie, vive un’esistenza monotona e grigia con la sorella Amalia, quando
incontra la giovane Angiolina, di cui si innamora. La donna, tuttavia, fin dal primo istante si
dimostra meno coinvolta del protagonista ed è anzi attratta da diversi uomini, tra cui Stefano Balli,
amico di Emilio e pittore, di cui è innamorata pure Amalia. Il legame tra Emilio e la giovane, che
doveva rimanere libero e disimpegnato, si dimostra invece ben più complesso, poiché Angiolina,
donna opportunista e infedele, può controllare i sentimenti di Emilio. Questo, geloso della sorella
per la presenza di Balli in casa sua, allontana l’uomo da casa. Amalia si ammala di polmonite, a
causa dell’abuso di etere, e muore. Emilio interrompe la relazione con Angiolina, non cessando
tuttavia di amarla. In seguito, scopre che la donna è scappata a Vienna con un cassiere di una
banca. Il protagonista ritorna a vivere la sua esistenza grigia e mediocre in solitudine, ricordando
le donne amate, Amalia e Angiolina, unendo nella memoria l’aspetto dell’una con il carattere
dell’altra.
Come Alfonso Nitti, anche Emilio Brentani incarna la figura dell’inetto, incapace di
vivere davvero, ma imprigionato nei suoi sogni e illusioni, in un continuo ed inconsapevole
autoinganno. Sono entrambi due sconfitti dalla realtà a cui non riescono appartenere. Il primo si
suiciderà, ponendo fine al senso di inutilità e inadeguatezza che lo attanaglia; fine simile a
quella della sorella del protagonista di Senilità che illusa dell’amore di Stefano a causa delle sue
stesse fantasie, nel momento della delusione amorosa perde il contatto definitivo con la realtà,
abbandonandosi all’abuso di etere, che la condurrà alla morte.
Senilità, Capitolo XIV
L'immagine della morte è bastevole ad occupare tutto un intelletto. Gli sforzi per trattenerla
o per respingerla sono titanici, perché ogni nostra fibra terrorizzata la ricorda dopo averla sentita
vicina, ogni nostra molecola la respinge nell'atto stesso di conservare e produrre la vita. Il pensiero
di lei è come una qualità, una malattia dell'organismo. La volontà non lo chiama né lo respinge.
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Di questo pensiero Emilio lungamente visse. La primavera era passata, ed egli non se n'era
accorto che per averla vista fiorire sulla tomba della sorella. Era un pensiero cui non andava
congiunto alcun rimorso. La morte era la morte; non più terribile per le circostanze che l'avevano
accompagnata. Era passata la morte, il grande misfatto, ed egli sentiva che i propri errori e misfatti
erano stati del tutto dimenticati.
In quel periodo, per quanto poté, visse solitario. Evitò anche il Balli, il quale dopo di essersi
contenuto tanto bene al letto di Amalia, aveva già perfettamente dimenticato il breve entusiasmo
ch'ella aveva saputo inspirargli. Emilio non gli sapeva perdonare di non essergli più simile in
questo. Era oramai la sola cosa che gli rimproverasse.
Quando la sua commozione s'affievolì, gli sembrò di perdere equilibrio. Corse al cimitero.
La strada polverosa lo fece soffrire, e indicibilmente, il caldo. Sulla tomba prese la posa del
contemplatore, ma non seppe contemplare. La sua sensazione più forte era il bruciore della cute
irritata dal sole, dalla polvere e dal sudore. A casa si lavò e, rinfrescata la faccia, perdette ogni
ricordo di quella gita. Si sentì solo, solo. Uscì col vago proposito d'attaccarsi a qualcuno, ma sul
pianerottolo dove un giorno aveva trovato il soccorso invocato, ricordò che poco distante poteva
trovare una persona che gli avrebbe insegnato a ricordare, la signora Elena. Egli - se lo disse
salendo le scale egli non aveva dimenticata Amalia, la ricordava anche troppo, ma aveva
dimenticata la commozione della sua morte. Invece che vederla rantolare nell'ultima lotta, la
ricordava quando triste, spossata, con gli occhi grigi lo rimproverava del suo abbandono, oppure
quando, sconfortata, riponeva la tazza preparata per il Balli o, infine, ricordava il suo gesto, la sua
parola, il suo pianto d'ira e di disperazione. Erano tutti ricordi della propria colpa. Bisognava
coprire il tutto con la morte d'Amalia; la signora Elena gliel'avrebbe rievocata. Amalia stessa era
stata insignificante nella sua vita. Non ricordava neppure ch'ella avesse dimostrato il desiderio di
riavvicinarsi a lui quando egli, per salvarsi da Angiolina, aveva tentato di rendere più affettuosa la
loro relazione. La sua morte sola era stata importante per lui; quella almeno l'aveva liberato dalla
sua vergognosa passione.
- La signora Elena è in casa? - domandò alla serva ch'era venuta ad aprire. In quella casa non
si doveva essere abituati a ricevere molte visite. La serva - una biondina gentile - gli impedì il passo
e si mise a chiamare ad alta voce la signora Elena. Questa venne nel corridoio oscuro da una porta
laterale e si fermò nella luce che usciva dalla stanza.
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"Come ho fatto bene a venire! ", pensò Emilio giocondamente, sentendosi commosso al
vedere la testa grigia di Elena, illuminata debolmente, mandare proprio quei riflessi che lo avevano
colpito la mattina della morte di Amalia.
La signora Elena lo accolse con grande affetto. - E' tanto tempo ch'io speravo di vederla. Mi
fa proprio piacere.
- Lo sapevo - disse Emilio con le lagrime nella voce. L'amicizia offertagli da quella donna al
letto di morte d'Amalia lo commoveva. - Ci conosciamo da poco, ma abbiamo passata insieme tale
una giornata da sentircene legati più che non da anni d'intimità.
La signora Elena lo fece entrare nella stanza da cui era uscita, della forma del tinello del
Brentani, sul quale era situata. L'arredo ne era semplice, anzi scarso, ma tutto era tenuto con grande
accuratezza, e non vi si sentiva il bisogno di altri mobili. La semplicità appariva un po' eccessiva
sulle pareti lasciate nude del tutto.
La serva portò una lampada a petrolio accesa, augurando ad alta voce la buona sera. Quindi
uscì.
La signora le guardò dietro con un buon sorriso: - Non posso levarle l'abitudine un po'
campagnuola d'augurare la buona sera quando porta il lume. Del resto è un uso che non dispiace.
Giovanna è tanto buona. Troppo ingenua. E' strano di trovare ai nostri tempi una persona ingenua.
Viene voglia di guarirla da una malattia tanto adorabile. Quando le racconto qualche cosa dei
costumi moderni, fa tanto d'occhi. - Ella rise di cuore. Imitava la persona di cui parlava spalancando
i buoni piccoli occhi; pareva la studiasse per goderne di più.
La biografia della serva aveva interrotta la commozione di Emilio. Per chiarire un dubbio
che gli venne, raccontò d'essere stato quel giorno al cimitero. Infatti il suo dubbio fu subito risolto,
perché, senz'alcuna esitazione, la signora disse - Io al cimitero non vado mai. Non ci sono stata dal
giorno della morte di sua sorella. - Dichiarò poi ch'ella sapeva oramai che con la morte non si lotta.
- Chi è morto è morto e il conforto non può venire che dai vivi. - Aggiunse senz'alcuna amarezza: Purtroppo, ma è così. - Disse poi ch'era stata tolta all'incanto dei ricordi dalla breve assistenza
prestata ad Amalia. La tomba del figliuolo non le dava più quella commozione che sconvolge e
rinnova. Parlava veramente i pensieri d'Emilio; certo non più, quando concluse con un assioma
morale. - Vi sono i vivi che hanno bisogno di noi.
Riparlò di Giovanna. Costei, per sua fortuna, era stata colta da una malattia ed Elena l'aveva
assistita e salvata. Si erano trovate durante quella malattia. Quando la fanciulla risanò, la signora
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comprese che suo figlio riviveva in lei. - Più mite, più buono, più riconoscente, oh, tanto
riconoscente - Anche il suo nuovo affetto le dava pensieri e dolori: - Giovanna era innamorata...
Emilio non l'udiva più. Era occupato tutto dalla soluzione di un grave problema.
Andandosene salutò con rispetto sulla porta la serva, quella che aveva trovato il modo di salvare
dalla disperazione un suo simile. - Strano - pensò, - sembrerebbe che metà dell'umanità esista per
vivere e l'altra per essere vissuta. - Ritornò subito col pensiero al proprio caso concreto: - Angiolina
esiste forse solo acciocché io viva.
Camminò tranquillo, rinato, nella notte fresca che era seguita alla giornata afosa. L'esempio
della signora Elena gli aveva provato che anche lui poteva trovare ancora nella vita il suo pane
quotidiano, la ragione d'essere. Questa speranza l'accompagnò per parecchio tempo; aveva
dimenticato tutti gli elementi di cui si componeva la sua misera vita, e credeva che il giorno in cui
avesse voluto, avrebbe potuto rinnovarla.
Le prime prove che fece fallirono. Aveva tentato di nuovo l'arte e non gliene era risultata
alcuna commozione. Avvicinò delle donne e le trovò poco importanti. - Io amo Angiolina! pensò.
Un giorno il Sorniani gli raccontò che Angiolina era fuggita col cassiere infedele di una
Banca. Il fatto aveva destato scandalo in città.
Fu una sorpresa dolorosissima per lui. Si disse: - M'è fuggita la vita. - Invece, per qualche
tempo, la fuga d'Angiolina lo ripose in piena vita, nel più vivace dei dolori e dei risentimenti. Sognò
vendette e amore, come la prima volta in cui l'aveva abbandonata.
Andò dalla madre d'Angiolina, quando già questo risentimento s'era affievolito, come era
andato da Elena quando il ricordo d'Amalia aveva minacciato d'attenuarsi. Anche questa visita gli fu
imposta da un suo preciso stato d'animo che domandava in quel dato momento un nuovo impulso,
tant'è vero che la fece in ore d'ufficio, incapace di ritardarla neppure di minuti.
La vecchia l'accolse con l'antica gentilezza. La stanza d'Angiolina aveva cambiato un po'
d'aspetto, denudata di tutte le cianfrusaglie che l'Angiolina aveva raccolte nella sua lunga carriera.
Anche le fotografie erano scomparse e dovevano oramai adornare la parete di qualche stanza in
altro paese.
- E' dunque fuggita? - domandò Emilio con amarezza e ironia. Gustava quell'istante come se
avesse parlato ad Angiolina stessa.
La Zarri negò che Angiolina fosse fuggita. Era andata a stare in casa di parenti che abitavano
a Vienna. Emilio non protestò, ma poco dopo, cedendo al suo imperioso desiderio, riprese il tono
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d'accusatore che si era tentato di togliergli. Disse ch'egli aveva previsto tutto. Aveva tentato di
correggere Angiolina e di segnarle la via retta. Non vi era riuscito e ne rimaneva scorato; ma era
ben peggio per Angiolina, ch'egli non avrebbe lasciata mai, se ella l'avesse trattato altrimenti.
Non avrebbe poi saputo ripetere le parole ch'egli pronunziò in quel momento tanto
importante, ma dovettero essere efficacissime, perché la signora Zarri si mise a singhiozzare con
certi singhiozzi strani, secchi; gli volse le spalle e se ne andò. Egli la seguì con lo sguardo un po'
sorpreso dell'effetto prodotto. I singhiozzi erano certo sinceri; la scuotevano tutta fino ad impedirle
il passo.
- Buon giorno, signor Brentani - gli disse, entrando con un bell'inchino e offrendogli la
mano, la sorella d'Angiolina. - Mamma è andata di là perché sta poco bene. Se ella vuole ritorni un
altro giorno.
- No! - disse Emilio solennemente come se stesse per abbandonare Angiolina. - Io non
ritornerò mai più. - Accarezzò i capelli della fanciulla, più scarsi, ma del colore identico di quelli di
Angiolina - Mai più! - ripeté, e con intensa compassione bacio la fanciulla sulla fronte.
- Perché? - domandò lei gettandogli le braccia al collo. Stupefatto egli si lasciò coprire la
faccia di baci tutt'altro che infantili.
Quando riuscì a togliersi da quell'abbraccio, la nausea aveva distrutta in lui qualsiasi
commozione. Non sentì alcun bisogno di continuare la predica incominciata e se ne andò dopo di
aver fatta una carezza paterna, indulgente alla fanciulla, ch'egli non voleva lasciare afflitta.
Una grande tristezza lo colse quando si trovò solo sulla via. Sentiva che la carezza fatta per
compiacenza a quella fanciulla segnava proprio la fine della sua avventura.
Egli stesso non sapeva quale periodo importante della sua vita si fosse chiuso con quella
carezza.
Lungamente la sua avventura lo lasciò squilibrato, malcontento. Erano passati per la sua vita
l'amore e il dolore e, privato di questi elementi, si trovava ora col sentimento di colui cui è stata
amputata una parte importante del corpo. Il vuoto però finì coll'essere colmato. Rinacque in lui
l'affetto alla tranquillità, alla sicurezza, e la cura di se stesso gli tolse ogni altro desiderio.
Anni dopo egli s'incantò ad ammirare quel periodo della sua vita, il più importante, il più
luminoso. Ne visse come un vecchio del ricordo della gioventù. Nella sua mente di letterato ozioso,
Angiolina subì una metamorfosi strana. Conservò inalterata la sua bellezza, ma acquistò anche tutte
le qualità d'Amalia che morì in lei una seconda volta. Divenne triste, sconsolantemente inerte, ed
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Università Telematica Pegaso
Svevo: Una vita e Senilità
ebbe l'occhio limpido ed intellettuale. Egli la vide dinanzi a sé come su un altare, la
personificazione del pensiero e del dolore e l'amò sempre, se amore è ammirazione e desiderio. Ella
rappresentava tutto quello di nobile ch'egli in quel periodo avesse pensato od osservato.
Quella figura divenne persino un simbolo. Ella guardava sempre dalla stessa parte,
l'orizzonte, l'avvenire da cui partivano i bagliori rossi che si riverberavano sulla sua faccia rosea,
gialla e bianca. Ella aspettava! L'immagine concretava il sogno ch'egli una volta aveva fatto accanto
ad Angiolina e che la figlia del popolo non aveva compreso.
Quel simbolo alto, magnifico, si rianimava talvolta per ridivenire donna amante, sempre
però donna triste e pensierosa. Sì! Angiolina pensa e piange! Pensa come se le fosse stato spiegato il
segreto dell'universo e della propria esistenza; piange come se nel vasto mondo non avesse più
trovato neppure un Deo gratias qualunque.
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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