Non - Dipartimento di Giurisprudenza

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Capitolo XI
L’OTTOCENTO E IL PRIMO NOVECENTO
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21.
Il “triennio giacobino” in Italia (1796-99)
1
Il periodo napoleonico (1796-1814). Sviluppi storico - politici
11
L’eredità napoleonica e la Restaurazione
14
Le costituzioni europee prima del 1848 : le costituzioni francesi del 1814 e 1830 e la
costituzione belga del 1831.
17
I moti del 1848 : gli sviluppi politici
22
Le costituzioni italiane “octroyées” del 1848 : caratteri comuni e specificità locali
27
Lo Statuto albertino in dettaglio
29
Le costituzioni europee della stagione quarantottesca : la costituzione francese del 4
novembre 1848, la costituzione del parlamento di Francoforte del 28 marzo 1849 e quella
prussiana del 31 gennaio 1850.
34
Una costituzione democratica : la costituzione della repubblica romana del 3 luglio 1849 41
L’applicazione dello statuto albertino nel Regno di Sardegna
52
Gli interventi legislativi nei vari settori: la politica ecclesiastica
55
L’amministrazione della giustizia
59
La riforma scolastica
60
Il Regno d’Italia
60
Le Camere
65
I Comuni e le Province
69
Diritti di libertà e origini dello ‘stato sociale’
71
I doveri civici
74
L’unificazione del diritto penale e il Codice Zanardelli
75
Sviluppi politici e costituzionali in Europa tra Ottocento e Novecento
79
L’Italia verso il fascismo
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1.
Il “triennio giacobino” in Italia (1796-99)
Le rapide e fortunate campagne militari francesi in Italia nel 1796-97
portano, come sappiamo dallo studio della storia di quegli anni, allo
sconvolgimento dell’assetto politico della penisola italiana coll’irrompere
sulla scelta del Bonaparte e dei suoi disegni egemonici. Si formano quindi,
dapprima nel nord dell’Italia, poi a Roma e a Napoli nel 1798 e 1799,
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repubbliche italiane satelliti della Francia. Si tratta delle repubbliche
cispadana, cisalpina, ligure, romana e partenopea. La risalita della penisola
da parte delle truppe austro-russe nel 1799 ne segnerà la fine, anche se
l’anno seguente il Bonaparte, dopo la battaglia di Marengo, potrà riprendere
il controllo della situazione e creare, dopo aver brevemente risuscitato la
cisalpina, una “repubblica italiana”
Si trattò di stati satelliti di una Francia repubblicana che dopo aver vissuto
le traversie del Terrore, era retta in quegli anni da un Direttorio di cinque
membri, ad orientamento moderato, e dalla Costituzione del 1795.
Ovviamente, quindi, le costituzioni delle repubbliche italiane “sorelle”
riprodurranno da vicino quel modello. E non solo : mentre gli esperimenti
costituzionali francesi del 1791, 1793 e 1795, che avevano segnato per così
dire le tappe di marcia della Rivoluzione – dall’avvento (1791) della
monarchia costituzionale improntata al garantismo della Dichiarazione dei
Diritti dell’uomo, all’ondata giacobina con i suoi fermenti egualitari e la
previsione del suffragio universale (1793) fino al “riflusso” moderato e al
ritorno al suffragio ristretto (1795) – sono contrassegnati da dense fasi di
discussione in assemblee costituenti elette dal popolo, nulla di tutto ciò
succederà in Italia. Infatti, le repubbliche satelliti a) non potranno che
ispirarsi ad un modello costituzionale già “cristallizzato” e “pronto per
l’uso” e b) non si avranno “assemblee costituenti italiane”, ma solo
l’occhiuta sollecitudine dei governanti (civili ma più spesso militari) francesi
che tale modello imporranno. Occorrerà giungere alla Repubblica Romana
del 1849 per avere in Italia una vera e propria assemblea costituente
autoctona.
Gli storici, in passato, hanno profondamente analizzato le cause di questo
“costituzionalismo forzato” del primo periodo francese, e sono per lo più
concordi sul fatto che si trattò di prudenza politica, ché i francesi non si
sentirono in sostanza di “correre rischi” controrivoluzionari : troppo esigui
erano infatti i gruppi che, al sopraggiungere delle truppe napoleoniche,
avevano preso apertamente partito per il nuovo regime, e troppo grandi
avrebbero potuto essere i rischi di perdere il controllo della situazione a
favore degli elementi antifrancesi se si fossero elette delle vere e proprie
assemblee costituenti.
Tale spiegazione storica potrà forse essere parziale o incompleta (è certo
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che da parte francese si dovevano considerare gli italiani come degli
“immaturi” per una rivoluzione), ma il crollo della Repubblica partenopea
nel 1799 ad opera delle forze sanfediste al grido di”Viva Maria”
sembrerebbe confortare questa visione delle cose.
Per quanto riguarda il modello ispiratore, la Costituzione francese del 1795,
possiamo dire succintamente che essa è moderata e reinstaura il regime
costituzionale già rovesciato dai giacobini. Prevede, nello spirito del suo
tempo, la più rigida separazione dei poteri inibendo al legislativo di ingerirsi
delle funzioni esecutiva e giudiziaria, dispone che della sovranità popolare è
depositario l’insieme dei cittadini e che il potere legislativo è esercitato da
due camere (Consiglio dei 500 e Consiglio dei Seniori) elette secondo un
doppio turno e la cui differenza stava nel fatto che il primo proponeva le
leggi e il secondo doveva approvarle o respingerle con votazione. Il potere
esecutivo è poi esercitato da un Direttorio di cinque membri cui è
formalmente inibito, sempre in omaggio alla separazione dei poteri, di
partecipare alle sedute del corpo legislativo o di influenzarlo in qualsivoglia
modo. Quanto al potere giudiziario, la novità è la creazione di una apposita
Corte di Giustizia competente a giudicare sulle accuse formulate dal corpo
legislativo sia contro i suoi membri sia contro i componenti del Direttorio :
in nome di un restaurato sistema di “legge ed ordine”, non si voleva
ritornare, evidentemente, agli eccessi arbitrari del Terrore robespierriano!
Occupiamoci ora più specificamente delle costituzioni italiane che, nel 1796
e negli anni seguenti, da essa presero le mosse.
a) La costituzione bolognese del 4 dicembre 1796.
Bonaparte entra a Bologna il 20 giugno 1796, e già il 1° luglio il Senato
bolognese, che decaduto il potere pontificio gestiva la nuova situazione pur
conformandosi ad istruzioni francesi, nomina una Giunta di 30 membri col
compito di preparare un progetto di costituzione. Bonaparte vedeva di
buon occhio il formarsi di costituzioni nei territori volta a volta caduti sotto
il suo controllo. Ma è altrettanto chiaro che l’istruzione impartita è quella di
attenersi al modello già esistente in Francia; nel Senato e nella Giunta si
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agitano invece tendenze ed umori volti a conciliare vecchio e nuovo, vale a
dire a seguire il modello francese del 1795 pur con occhio di riguardo per la
situazione locale, nel senso di riesumare istituti propri dell’antica libertà
comunale. Il 28 settembre la Giunta presenterà al Senato un testo di ben
273 articoli, che sarà ulteriormente modificato ed infine approvato il 4
dicembre 1796. Troppo tardi però perché esso possa entrare in vigore: gli
avvenimenti erano infatti mutati, e l’egemonia francese si era allargata ad
altri territori. Un semplice esperimento di “repubblica municipale” non
poteva più interessare né i francesi, né le città emiliane limitrofe, timorose
di una dominanza bolognese. Si accelerano i tempi della creazione di una
Repubblica cispadana comprendente le città di Bologna, Ferrara, Modena e
Reggio, i cui rappresentanti, sotto l’occhio benevolo e attento del
Bonaparte, si erano già riuniti tra il 16 e il 18 ottobre 1796 a Modena. E il
congresso della Cispadana, negando il suo consenso, non permetterà che la
Costituzione bolognese del 4 dicembre 1796 entri in vigore, cosicché essa
resterà lettera morta.
Ciononostante, la Costituzione bolognese non può non attirare la nostra
attenzione. Infatti a) essa costituisce pur sempre il primo esempio di testo
costituzionale adottato in Italia sull’onda del nuovo ordine napoleonico ; b)
la reazione dei gruppi dirigenti bolognesi fu tutto sommato pronta e
positiva, in quanto, lungi dal fare ostruzionismo, essi accettarono di dar
mano all’elaborazione del testo ; c) fu una costituzione in cui non
mancarono spunti di originalità.
E prendiamo le mosse da tale ultimo punto : è ovvio, e non poteva essere
altrimenti, come già si disse, che la Costituzione bolognese ricalca quella
dell’anno III, e riprende un ordinamento statale basato su rigida
separazione dei poteri, elezione a più gradi del Corpo Legislativo, sistema
bicamerale con competenze diversificate in tema di produzione legislativa,
esecutivo collegiale, eccetera. Tuttavia, notiamo talvolta un discostarsi dal
modello, con disposizioni in esso assenti. Ad esempio, l’elezione del Corpo
Legislativo è prevista mediante un sistema a tre livelli, forse meno
“democratico” di quello francese, ma in cui è evidente l’intenzione dei
dirigenti politici bolognesi di perpetuare la loro influenza: elezione di comizi
generali, poi decurionali e infine elettorali (saranno proprio i comizi
decurionali, eletti il 27 novembre, ad approvare la Costituzione nella basilica
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di San Petronio il 4 dicembre seguente); in tema di magistratura si dispone
poi, a garanzia dell’imputato, non solo il diritto di ricusare il giudice
competente e di esprimere le sue preferenze per un altro magistrato, senza
obbligo di addurne i motivi, ma anche il divieto, nei confronti di magistrati
legati da una qualche parentela, di sedere nello stesso tribunale. Si
prevedono infine originali giurisdizioni speciali dal sapore municipalistico
quali il “Foro dei Mercanti” per le cause commerciali ed un “Corpo
Municipale di Bologna”, vero e proprio primissimo tribunale
amministrativo in materia di viabilità, opere pubbliche ed altri settori di
civico interesse.
b) La costituzione delle Repubbliche cispadana del 20 marzo e
Cisalpina del 9 luglio1797
Abbiamo accennato al fatto che ormai, alla fine del 1796, il Bonaparte non
era più interessato all’esperimento costituzionale particolaristico bolognese.
Quando, il 27 dicembre 1796, un congresso di rappresentanti di Modena,
Bologna, Ferrara e Reggio Emilia proclama la “repubblica cispadana”,
preoccupandosi nel contempo di porre in stand by la costituzione bolognese,
è chiaro che l’obbiettivo diventa quello di varare una costituzione per tale
nuova entità politica. E infatti, lo stesso Bonaparte convoca a Modena per
il 20 gennaio 1797 una assemblea con il preciso scopo di preparare una
nuova costituzione. Il 1° marzo seguente l’assemblea termina i suoi lavori,
e il 19 marzo un “referendum popolare” di tipo plebiscitario, nel quale
voteranno tuttavia meno di un terzo dei circa 350 mila aventi diritto
nonostante la presenza delle truppe francesi, approva a grande maggioranza
il testo.
Se interesse vi è nel processo formativo della Costituzione cispadana, esso
risiede indubbiamente nel fatto che fu discussa da un’assemblea che
potremmo definire “costituente”, i cui orientamenti però furono pur
sempre sorvegliati dal Bonaparte, cui spettava l’ultima parola. Si trattò
quindi di un’autonomia costituzionale “limitata”.
Il testo contava ben 404 articoli ma non conteneva niente di
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fondamentalmente nuovo che non fosse già presente nella costituzione
dell’anno III e in quella bolognese : preambolo di quattordici articoli
consacrato ai “Diritti dell’Uomo e del Cittadino”, rigida separazione dei
poteri con reciproco divieto di ingerenza, corpo legislativo bicamerale
diversificato nelle funzioni ed eletto con il sistema “bolognese” a tre gradi,
esecutivo collegiale (Direttorio) di tre membri, indipendenza del giudiziario
con previsione dei “giudici del fatto” (giurati) in materia penale, di una
Cassazione competente unicamente in punto di diritto e non nel merito, e
di una Alta Corte di giustizia chiamata a giudicare sulle accuse contro i
membri del Direttorio e del Corpo Legislativo. Vi fu talvolta originalità
rispetto ai precedenti francese e bolognese laddove il dibattito serrato al
congresso modenese ebbe conseguenze sul testo degli articoli, ma non si
trattò sempre di innovazioni, come fu il caso della religione. Qui, dopo un’
appassionata difesa della libertà di culto da parte di chi, come il modenese
Compagnoni, avrebbe voluto che la costituzione tacesse sul tema,
riconoscendo col suo esplicito silenzio la libertà religiosa (”una religione
costituzionalmente proclamata diventa religione dominante”, dichiarò il 25
gennaio 1797), si finì per disporre che “la Repubblica Cispadana conserva la
religione Cattolica Apostolica Romana” !
Entrata in vigore il 19 marzo 1797, la Costituzione cispadana non si
sottrarrà neanch’essa alla logica della convenienza politica, e resterà in vita
l’espace d’un matin. Bonaparte, dopo aver annunciato il 29 giugno 1797 la
costituzione di una “Repubblica cisalpina” con capitale Milano, vi unirà ben
presto la Cispadana ed emanerà sua sponte una nuova costituzione il 9 luglio
dello stesso anno.
Tale costituzione soffrirà di un totale deficit democratico, in quanto non
sarà né discussa né approvata da una qualsivoglia assemblea pur sotto
controllo francese, ma imposta unilateralmente dal Bonaparte, non da
ultimo per ragioni di celerità. Circa il contenuto, si trattava poi, senza più
alcuna rilevante modifica, di un doppione della Costituzione dell’anno III.
Riconosciuta internazionalmente dopo il trattato di Campoformio con
l’Austria del 17 ottobre 1797, la Cisalpina vedrà riunirsi per la prima volta il
suo Corpo Legislativo il 21 novembre seguente. Il commissario Trouvé,
inviato dal Direttorio, provvederà poi a ritoccare il testo costituzionale:
riduzione del corpo elettorale e dei membri del Corpo Legislativo,
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limitazioni alla libertà di stampa. Tutte modifiche, va da sè, imposte
unilateralmente!
Il ritiro dei francesi nell’aprile 1799 segna il crollo della Cisalpina, che verrà
però restaurata con il ritorno di Bonaparte a Milano dopo la vittoriosa
battaglia di Marengo nella primavera del 1800. Ma si tratterà di una breve
sopravvivenza, condizionata ai nuovi piani di riassetto della penisola da
parte di Napoleone. La Cisalpina sarà rifusa in una “Repubblica Italiana”
sanzionata da rappresentanti italiani accorsi oltr’alpe ai cosiddetti “Comizi
di Lione”, e la costituzione sostituita il 26 gennaio 1802. Inutile dire che
anche in questo ennesimo caso ci troviamo di fronte ad un
rimaneggiamento unilaterale napoleonico al di fuori di qualsiasi contributo
o ratifica popolari.
La Costituzione della Repubblica italiana segue pedissequamente il modello
di un’ennesima costituzione francese, quella varata a Parigi il 13 dicembre
1799 che creava il nuovo regime consolare al posto del Direttorio,
spodestato il 18 Brumaio. E Bonaparte, divenuto primo console in Francia,
diviene anche presidente della Repubblica italiana. Al suo fianco, come
vicepresidente, troveremo l’attivo e indipendente Melzi d’Eril.
b) Le altre costituzioni “giacobine” : le costituzioni ligure, romana e
partenopea (1797-99)
Il panorama del triennio costituzionale “giacobino” in Italia (1796-99) non
sarebbe completo se non si accennasse alle costituzioni create nella
Repubblica Ligure, a Roma e a Napoli tra la fine del 1797 e i primi mesi del
1799. Anche qui, sostanzialmente, ritroviamo i tratti tipici di cui sopra:
presenza delle truppe francesi che instaurano, con l’aiuto dei “giacobini” e
dei democratici locali, delle repubbliche satelliti, occhiuto controllo del
Direttorio francese sulla situazione locale, redazione di testi costituzionali
modellati sulla Costituzione francese dell’anno III. Ed in effetti, la
situazione ligure è esattamente questa. I francesi hanno il controllo della
situazione dal giugno 1797, e il 2 dicembre è adottata da un comitato
ristretto, sotto controllo francese, una costituzione poi “plebiscitata”
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sommariamente e a maggioranza schiacciante dalla popolazione locale.
Sarcastico a tal proposito il giudizio di Alessandro Verri, per il quale “chi
avesse ragionato contro la proposta costituzione, sarebbe stato messo in
catene”! E la costituzione della repubblica ligure, per il suo contenuto,
imita ancora una volta il modello francese (e cisalpino), salvo discostarsene
unicamente quando si tratta, come all’articolo IV, di riaffermare , con
spirito certo meno “repubblicano” e democratico, la supremazia della
religione cattolica : “la repubblica ligure conserva intatta la religione cristiana cattolica
che professa da secoli”.
Ancora più marcato è il caso di Roma, in cui i francesi, pur in una
situazione di malcontento e frequenti rivolte popolari - cui fanno da triste
sfondo le spoliazioni d’opere d’arte ordinate dal Direttorio - controllano la
situazione dal febbraio 1798 (il 20 dello stesso mese papa Pio VI è esiliato
in Toscana) e la costituzione della fatiscente Repubblica romana è
predisposta d’ufficio da commissari francesi e promulgata il 17 marzo.
Costituzione di uno stato fantoccio, esse ammette persino di esserlo, poiché
vi si dispone addirittura, all’articolo 369, che “sarà fatto al più presto un trattato
di alleanza tra la repubblica romana e la repubblica francese. Sino alla ratifica di questo
trattato ogni legge emanata dai consigli legislativi romani non potrà essere promulgata ed
eseguita se non dopo previa autorizzazione del comandante le truppe francesi in Roma, il
quale potrà di propria iniziativa fare quelle leggi che gli sembrassero urgenti,
uniformandosi alle istruzioni direttegli dal Direttorio esecutivo della repubblica francese” !
Diverso fu il caso di Napoli e della Repubblica partenopea, che d’altronde è
rimasto storicamente celebre per il sacrificio finale di tanti dei suoi
protagonisti quali Francesco Caracciolo, Ettore Carafa, Domenico Cirillo,
Eleonora Pimentel, Luisa Sanfelice nonché l’artefice della riuscita
costituzione, Mario Pagano. A Napoli ci si trova di fronte di una situazione
“anomala” rispetto al resto della penisola : assistiamo infatti non solo ad
una minore invadenza delle autorità francesi – conscie della necessità di non
urtare le sensibilità locali, soprattutto religiose - , ma anche alla presenza di
élites colte ed illuminate che manifestano grande iniziativa e dinamismo
politico, fino al punto di tentare di controllare la situazione e difendere la
repubblica anche dopo il ritiro delle truppe francesi, nel giugno del 1799.
Napoli e il Regno delle Due Sicilie sono però soprattutto caratterizzati da
enormi squilibri sociali, dal dominio del feudo e dalla presenza di una
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vastissima fetta di popolazione in stato di miseria e analfabetismo, e pronta
perciò ad abbracciare in men che non si dica (come in effetti accadrà) la
causa controrivoluzionaria.
Il 23 gennaio 1799 i francesi del generale Championnet occupano la città, e
lo stesso Championnet si reca immediatamente ad assistere alla cerimonia
della liquefazione del sangue di S.Gennaro ! Lo stesso giorno i patrioti
napoletani dichiarano decaduto il regno di Ferdinando di Borbone (nel
frattempo fuggito da Napoli sotto la protezione inglese) e propongono a
Championnet una lista di persone tra le quali formare il nuovo governo
provvisorio. I venticinque prescelti si mettono immediatamente all’opera su
temi prioritari, quali la difesa della nuova Repubblica, lo smantellamento
dell’onnipresente sistema feudale, la redazione di una costituzione. Una
Commissione legislativa ad hoc - il cui factotum, nonché relatore del progetto,
sarà il penalista Mario Pagano, già autore di un noto trattato di procedura
criminale- si occuperà dell’approntamento della costituzione. Una
costituzione che presenterà poi, nella sua versione finale, non pochi spunti
di originalità rispetto al consueto archetipo francese del 1795:
a) innanzitutto, il testo sottolinea con toni forti, di “pedagogia
democratica” democrazia, che tutti i poteri derivano dal popolo e che
il potere costituente stesso scaturisce dalla volontà popolare;
b) sempre in tale ottica illuministica di “educazione alla democrazia” – in
un territorio già percorso, come sappiamo, da movimenti sanfedisti –
si istituiscono dei tribunali di “moralità democratica”: i Censori.
L’articolo 314 dispone che “ se alcuno vivrà poco democraticamente, cioé da
dissoluto e voluttuoso, darà una cattiva educazione alla sua famiglia, userà dei
modi superbi ed insolenti contro l’uguaglianza, sarà dai censori privato del diritto
attivo o passivo di cittadinanza, secondo la sua colpa. In qualunque caso non
potrà la pena eccedere il triennio : ma per nuove colpe potrà essere notato e
castigato di nuovo”.
c) Il titolo settimo, dedicato alla “Custodia della Costituzione”, prevede
poi l’istituzione dell’Eforato, sorta di vero e proprio “ombudsman”
(difensore civico) e corte costituzionale ante litteram, essendo
competente a garantire contro abusi nell’operato dei pubblici poteri, e
nel contempo a vigilare sull’osservanza della costituzione, a proporre
ai corpi legislativi eventuali modifiche (ad essi spettando però l’ultima
parola in tema di revisione) e a prevenire od arginare conflitti tra i
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poteri dello stato. Gli Efori, che dovevano avere almeno
quarantacinque anni di età, aver fatto parte almeno una volta dei corpi
legislativi o dell’esecutivo, essere “ammogliati o vedovi” ed essere
residenti nel territorio dello stato da almeno dieci anni, godevano
anche di una indennità di carica (art.370). Non possiamo non cogliere
qui l’estrema modernità di tale istituto, segno evidente del fatto che
un esperto giurista quale il Pagano affrontava qui il problema del
corretto funzionamento reciproco dei poteri dello stato, affidandone
l’arbitrato ad un organo super partes totalmente sconosciuto ai modelli
costituzionali francesi e delle altre repubbliche italiane. L’Eforato
precorre i tempi, e costituisce l’antenato delle moderne corti
costituzionali.
Sappiamo che la costituzione della repubblica partenopea non entrerà in
vigore. Vincenzo Cuoco, nel suo “Saggio storico sulla rivoluzione
napoletana” scriverà nel 1806, con giudizio severo e sommario, che “non
essendosi né pubblicata, né eseguita, niuna parte occupa negli avvenimenti della nostra
repubblica”. Cogliendo sinteticamente il dato di fondo del contesto sociopolitico della Repubblica – la situazione di minoranza in cui si trovavano le
élites democratiche a Napoli - , il Marchetti, nella sua opera del 1946 su
“Assemblee e costituzioni italiane del periodo giacobino” ha scritto invece
che la costituzione napoletana del 1799 “è un grido di amore alla libertà, alla
moralità e alla virtù, grido che si perde nella notte scura dell’ignoranza e della servitù in
cui per lungo tempo è vissuto il popolo napoletano”. Quel che è certo, è che gli
eventi storici precipitarono rapidamente : già ai primi di maggio del 1799,
consci di trovarsi in situazione di totale insicurezza, i francesi si ritirano da
Napoli. E nonostante il coraggioso tentativo repubblicano di organizzare
una resistenza autonoma, nel mese successivo Ferdinando IV di Borbone,
con l’appoggio diretto degli inglesi e austro-russi e sostenuto dalle bande
irregolari sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo, può rientrare a Napoli. La
breve storia della Repubblica partenopea si concluderà, tra il luglio e il
novembre 1799, con l’esecuzione dei principali protagonisti, tra cui il
Pagano, giustiziato il 29 ottobre.
Dall’esame del triennio costituzionale “giacobino” si può rilevare che si
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trattò di un’esperienza certo non priva di interesse per il futuro, ma
comunque fortemente condizionata dagli interessi geopolitici francesi. A
Roma, nel 1798, tali “interessi” si identificarono in parte addirittura con
spoliazioni di opere d’arte sistematici. In linea generale, fu però importante
che l’intervento francese liberasse energie politiche per lungo tempo
compresse ; vi fu fattiva collaborazione dei gruppi democratici nel Nord,
non mancarono proficue discussioni – come quella che si svolse in seno ai
costituenti della Cispadana sulla libertà di religione – e in una realtà
“periferica” come quella napoletana, in cui più tenue era il controllo di
Parigi, assistiamo persino al crescendo e all’exploit finale, nel 1799 inoltrato,
di una costituzione – l’ultima della serie - elaborata esclusivamente da
elementi locali e con non pochi punti di originalità, se non di novità
assoluta (Eforato). Al triennio giacobino doveva seguire, passata la
parentesi della restaurazione ad opera degli austro-russi nel 1799-1800, il
ritorno del Bonaparte, nel segno però di un allontanamento dai postulati
democratici, accolti ancora nella Costituzione dell’anno III (l’ultima delle
costituzioni della Rivoluzione francese). Il 18 Brumaio (9 novembre 1799)
infatti, con un vero e proprio colpo di stato, Bonaparte era divenuto arbitro
assoluto della situazione in Francia, instaurando quella che gli storici ormai
concordemente definiscono, con Jacques Godechot, una dittatura militare.
Incominciava l’era della “normalizzazione” napoleonica.
2.
Il periodo napoleonico (1796-1814). Sviluppi storico - politici
I proclami libertari ed egualitari della Rivoluzione francese furono
seguiti, con l’avvento del regime napoleonico, da una restaurazione
sociale e culturale. Si tornò sostanzialmente ad una monarchia ereditaria,
alla distinzione tra elettorato attivo e passivo in base al censo, ai poteri
nobiliari (di una nobiltà però non più “aristocratica”, ma più “borghese”
e legata ai destini e alle fortune napoleoniche), al maggiorascato, al
giuramento di stampo feudale, ai grandi ufficiali della Corona. Al fine di
impressionare le masse si curò molto la forma (tanto da dar vita al
concetto politico, usato ad esempio da Marx, di bonapartismo), forma però
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facilmente cancellabile all’occasione.
I principi sanciti dalla Rivoluzione non vennero tuttavia rinnegati : lo stesso
Napoleone, nel successivo Memoriale di Sant’Elena (e sempre nella misura
in cui tale documento, che sarebbe stato scritto nell’esilio di Sant’Elena, è
degno di fede) si considera come l’erede della Rivoluzione : “non salivo quindi
sul trono come erede di antiche dinastie per sedermici mollemente, al riparo delle abitudini
e delle illusioni, ma per consolidare le istituzioni volute dal popolo, per accordare le leggi
ai fatti..”.
Il Code sancirà l’abolizione di ogni privilegio nobiliare o di casta, e, come
sappiamo, la libertà individuale a tutto tondo nei rapporti civili ; perfino la
concisa Costituzione dell’anno VIII (quella varata da Bonaparte primo
console il 25 dicembre 1799, all’indomani del colpo di stato del 18
Brumaio/10 novembre 1799) non potrà non contenere, seppur in forma
stringata e concisa e pur nel sorgere e consolidarsi del nuovo occhiuto
regime, delle garanzie di libertà individuale (articolo 77).
Particolarmente significativo fu l’intervento amministrativo all’insegna della
razionalizazione centralistica : esso diede vita ad un ordinamento
burocratico molto accentrato caratterizzato dalla posizione centrale dei
prefetti (rimasta tradizionale anche in Italia), che colpiva duramente i non
conformisti e i sospetti di sedizione. Fu inoltre limitato il diritto di riunione e di
associazione, si ebbe di fatto la censura sulla stampa, furono istituiti
tribunali speciali per l’ordine pubblico.
In Italia si ebbe comunque l’instaurazione di ordinamenti di tipo francese,
accentrati, autoritari, gerarchicamente ordinati. Le province e gli antichi
territori furono sostituiti dai dipartimenti, connotati dai fiumi o da altri
elementi geografici in modo da eliminare il ricordo delle circoscrizioni
passate, fondate sulla storia. Tutti gli enti locali funzionarono in pratica
sotto tutela come sotto l’Ancien régime, ma furono disciplinati in modo
uniforme.
Fu eliminato il feudo ovunque, con effetti enormi ad esempio nel
Mezzogiorno, con perdita degli usi civici per le comunità locali (= diritti
collettivi sulle proprietà incolte), e quindi favorendo le premesse del
brigantaggio; si ebbe però l’emersione di una nuova nobiltà “borghese” a cui
furono conferiti alti titoli ed assegni dallo Stato in luogo dei vecchi tipici
poteri feudali.
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Grandi novità si ebbero per quanto riguarda il clero: si facevano cerimonie
religiose alla presenza delle autorità, ma al contempo si combattè la
credulità nei miracoli, si adottarono leggi eversive della manomorta ecclesiastica
e degli ordini religiosi contemplativi sul tipo dei benedettini (altro intervento
molto durevole, di secolarizzazione o nazionalizzazione dei beni degli enti
religiosi), e si avocò allo Stato la celebrazione dei matrimoni e la possibilità
di concedere divorzi, oltreché introdurre la comunione legale dei beni tra
coniugi secondo la tradizione di diritto consuetudinario francese. La legge
statale non aveva mai avuto un’estensione tanto ampia, né lo Stato era mai
stato così laico. Ma pare che un certo senso della tradizione e
dell’attaccamento ai dettami della religione abbiano impedito, in Italia, il
ricorso diffuso al nuovo istituto del divorzio (ammesso d’altronde anche in
Francia solo “a denti stretti” da Portalis e dagli altri artefici del Code).
In questo stesso senso fu di straordinaria importanza la rivendicazione da
parte dello Stato dell’istruzione ad ogni livello, per cui all’Università si ebbe
il controllo dei libri e delle lezioni non più da parte ecclesiastica, ma statale (nel
1777 c’era stata la prima donna laureata: a Pavia). Fu istituito il Diritto
costituzionale (o pubblico) come materia d’insegnamento e per un certo
tempo fu eliminato dall’insegnamento il Diritto romano, quello canonico e
addirittura anche il notariato - ritenuto un’inutile causa di complicazione
della vita dei borghesi. Si abolirono le scuole ecclesiastiche e si tolsero i
preti dai posti direttivi: la scuola doveva esaltare il nuovo Stato.
Vi fu intolleranza nei confronti dei preti e dei vescovi che non aderivano alle
riforme. La Chiesa fu sottoposta al controllo statale, con il disaccordo
profondo, ovviamente, di Papa Pio VII, il quale tuttavia nel 1813 dovette
piegarsi ad un concordato umiliante.
Quanto ai codici, come sappiamo furono estesi all’Italia napoleonica quelli
francesi, salvo quello di procedura penale, redatto da Gian Domenico
Romagnosi (1761-1835, collaboratore del Conciliatore, arrestato nel 1821 per
indiscrezioni di Silvio Pellico) secondo la tradizione italiana; non prevedeva
infatti la giuria, presente in Francia. Opere principali del Romagnosi, esempi
significativi del suo eclettismo, sono: Genesi del diritto penale (1791), Dell’indole
e dei fattori dell’incivilimento; fu collaboratore degli “Annali di statistica”.
La Sardegna fu l’unica zona d’Italia rimasta libera dalle truppe francesi (con
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la Sicilia) era allora chiusa in un "immobilismo metodico" sotto i Savoia, i quali a
Cagliari trovarono rifugio di fronte all’avanzare delle truppe francesi; la
Sicilia anche dovette ospitare la corte borbonica fuggitiva da Napoli. Qui la
debolezza della monarchia, sostenuta dagli Inglesi, e la lunga tradizione
parlamentare (mai interrotta) consentì l’eliminazione del feudo (salvo
indennizzo ai feudatari) e l’approvazione di una famosa Costituzione nel
1813, ricordata spesso quale modello nel periodo della Restaurazione.
La costituzione siciliana riprendeva quella spagnola di Cadice del 1812, fu
modellata sull’esperienza francese e su quella inglese, distinguendo tra
Governo e Parlamento, che controllava le spese e si componeva di due
Camere, di cui una dei baroni (i Pari) e l’altra dei Comuni, con elezioni
censuarie, naturalmente, e voto pubblico e orale. Tra gli aspetti positivi, si
sancì il diritto all’istruzione elementare e quello di resistenza contro le pretese
illegittime dell’autorità. La Costituzione siciliana fu tuttavia messa da parte
nel 1815.
3.
L’eredità napoleonica e la Restaurazione
Con la Restaurazione successiva alla caduta di Napoleone furono eliminate
le leggi napoleoniche, ma non fu ripristinato il sistema feudale, la cui
eliminazione era risultata conveniente per gli Stati italiani, i cui governi
restaurati avevano ora interesse a mantenere sotto diretto controllo la
gestione del territorio.
Anche il Codice napoleonico fu talvolta mantenuto, pur se per lo più (come
già visto nel capitolo precedente) in via provvisoria e in attesa di preparare
nuovi codici: nel Regno delle due Sicilie ad esempio, ma non in Toscana e
nello Stato Pontifico, dove venne ripristinato quel diritto comune (ma non gli
statuti comunali), che fece anche da sfondo al Codice estense richiamato in
vigore a Modena.
E qui, ancora una volta, non si può non sottolineare l’ambivalenza che
doveva necessariamente accompagnare la visione del Code nell’Italia della
Restaurazione : prodotto giuridico “straniero” di un periodo che i sovrani e
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le classi dirigenti restaurate della penisola, da Torino a Napoli, non
potevano che aborrire politicamente, esso rappresentava però, dal punto di
vista contenutistico (al pari delle altre innovazioni amministrative) un utile
progresso di semplificazione e ammodernamento. Sfrondato delle sue
apparenze e del suo “inaccettabile” carattere francese, e formalmente
abolito quasi ovunque, se ne filtreranno e trasporranno però le norme e i
concetti nei codici della Restaurazione.
Sul piano ideale e politico, poi, è indiscutibile che gli italiani del periodo
napoleonico si siano trovati a vivere, per la prima volta da secoli, una fase
di incredibile “accelerazione” nel processo di unificazione della penisola.
Nel capitolo precedente si è accennato alla ripartizione in tre aree dell’Italia
napoleonica (Regno d’Italia, Regno di Napoli e dipartimenti annessi
direttamente all’Impero). Orbene, pur se non unificata interamente da Nord
a Sud, l’Italia si trovò comunque riunita per una parte considerevole in un
unico regno, con un sovrano (lo stesso Napoleone, incoronato
solennemente re d’Italia nel Duomo di Milano nel maggio 1805), un viceré
che lo rappresentava (il figliastro Eugenio), una corte, una capitale (Milano),
una bandiera e strutture amministrative e militari omogenee. Napoleone,
nel Memoriale di Sant’Elena, scrisse che il Regno d’Italia fu così chiamato
non già perché comprendesse tutta la penisola, ma perché “il titolo era più
grande e sollecitava maggiormente l’immaginazione degli italiani”.
Un’immaginazione – aggiungiamo noi – foriera di futuri sviluppi durante il
Risorgimento.
In ogni caso, il Regno d’Italia napoleonico, che comprendeva gran parte del
Nord della penisola (il Piemonte, la Liguria e Parma erano annesse alla
Francia), ne rappresentava senza dubbio la parte economicamente più
florida; amministratori italiani facevano le loro prime esperienze all’interno
della macchina ammnistrativa napoleonica (il cui perno erano, lo ripetiamo,
le leggi del 1800 sul sistema prefettizio e sulla giustizia), e soldati italiani
combattevano - sotto propria bandiera e con propri comandanti – nei teatri
di guerra più vari, dalla Spagna (dove presero parte al famoso assedio di
Saragozza) alla Germania, alla Russia.
Le cose non andarono poi così diversamente per gli italiani che vivevano
fuori dei territori appartenenti al Regno: ad esempio, Cesare Balbo, il futuro
primo “premier” piemontese all’indomani della concessione dello Statuto
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albertino (marzo 1848) si era “fatto le ossa” come segretario della giunta
provvisoria di Toscana, incaricata di preparare l’annessione di quella regione
alla Francia nel 1808. Molti di questi italiani, ormai in odore di
“sovversivismo” furono allontanati dai loro posti con la Restaurazione.
E ‘perciò evidente che, dopo il 1815 e fin’oltre il 1848, l’indiscutibile eredità
politica, giuridica e ideale napoleonica porrà all’ordine del giorno il
problema costituzionale - inteso come aspirazione ad ottenere un testo
politico “fondante” che fosse garanzia di libertà e partecipazione politica –
per iniziativa di vasti ceti borghesi ormai “maturi” che avevano collaborato
a vario titolo all’esperimento napoleonico e ai suoi ingranaggi politici,
amministrativi e militari e che ora la Restaurazione escludeva ed emarginava
dalla politica a tutto vantaggio di ristrette e chiuse élites. Ai loro occhi, una
costituzione era garanzia imprescindibile di libertà, freno ai poteri
monarchici assoluti. E il loro modello, per tutti gli anni venti
dell’Ottocento, saranno le Costituzioni spagnola del 1812 (“Costituzione di
Cadice”) e siciliana dell’anno successivo, di impronta assai liberale.
Solo in parte, in quel primo quarantennio del XIX secolo, tale
rivendicazione “borghese” di libertà e di costituzione era connessa con
quella dell’idea di unità nazionale, che pur era stata auspicata già fin dai
tempi della Repubblica Cisalpina al tempo del famoso concorso sul tema
Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia vinto da Melchiorre
Gioia. L’idea di unità nazionale rimarrà anzi per molto tempo estranea ai
fautori della “costituzione”, dei “liberali” appartenenti in massima parte a
ceti burocratici e militari. Questi, come è noto, organizzeranno dei “moti”
di carattere essenzialmente locale, falliti grazie al rapido intervento
dell’Austria nel 1820-21 a Napoli e in Piemonte, ma certo non era nei loro
programmi il raggiungimento, negli anni venti dell’Ottocento, di una
mirabolante e immaginaria unità della penisola. Chi per primo inserirà in
un preciso e articolato programma politico – e sociale – l’obbiettivo
dell’unità nazionale (inscindibile dall’idea repubblicana) sarà, a partire dal
1831 e dalla fondazione della “Giovine Italia”, il genovese Giuseppe
Mazzini, uno dei protagonisti, come è noto, del Risorgimento.
In questa sede è solo limitatamente possibile occuparci degli sviluppi
politici ed ideologici che portarono, attraverso vari tentativi di insurrezioni
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spesso di diversa matrice ideologica, al grande turbinio rivoluzionario del
1848-49, vera e propria bufera che coinvolse gran parte dell’Europa
continentale, dalla Sicilia all’Ungheria, dalla Francia alla Prussia e alla
Polonia. Certo è che i “moti”, tanto di ispirazione “liberale” del 1820-21
che quelli democratico-repubblicani di ispirazione mazziniana del 1831 e
1834 segnarono sostanzialmente un nulla di fatto sul piano concreto :
ancora alla vigilia del 1848, non solo il “mito” dell’unità nazionale era più
lontano che mai, ma non uno stato italiano aveva concesso durevolmente
una costituzione, non un solo sovrano restaurato regnava
costituzionalmente. Se timidissime aperture in senso liberale vi furono,
come quelle di re Carlo Alberto, aperture che prima del 1848 e della
concessione dello statuto ebbero ad oggetto essenzialmente una
riorganizzazione giudiziaria ed amministrativa, esse si dovettero unicamente
alla volontà discrezionale dei regnanti.
Tale panorama italiano, che potremmo definire di “immobilismo
tormentato”, era certo in sintonia con la politica di conservatorismo antiliberale e di immobilismo tipici della Santa Alleanza e della politica
austriaca, impersonata fino al 1848 dal principe di Metternich. Tuttavia, se è
vero che sul piano europeo i territori della Casa d’Austria e quelli prussiani
o degli stati della confederazione Germanica erano sostanzialmente
caratterizzati da regimi monarchici autoritari, è pur vero che altri stati quali
la Francia o il Belgio si erano dati carte costituzionali che forniranno
importanti spunti e modelli di ispirazione. Vediamole in sintesi.
4.
Le costituzioni europee prima del 1848 : le costituzioni francesi
del 1814 e 1830 e la costituzione belga del 1831.
La Carta francese del 4 giugno 1814 fu concessa (“octroyée”, secondo il
termine francese poi diventato comune nel linguaggio amministrativo) da
Luigi XVIII dopo il suo ritorno a Parigi al seguito degli alleati vincitori di
Napoleone. La rapidità con cui fu concessa testimonia del fatto che una
restaurazione integrale della monarchia di diritto divino in stile “ancien
régime” non era più considerata possibile, e che il principio di sovranità
popolare (o “sovranità nazionale”, come fu chiamata in Francia per
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simboleggiare l’unità e non frazionabilità del popolo elettore su scala
nazionale) della Rivoluzione dell’89 era ormai ineliminabile. Nella “Carta”
il sovrano divide i propri poteri, o almeno una parte di essi, col popolo.
La funzione legislativa è propria infatti sia dell’uno che dell’altro : delle due
camere contemplate nella Carta, l’una (Camera dei pari) è integralmente di
nomina regia, ma l’altra (Camera dei deputati) è elettiva, e il suo consenso a
maggioranza è indispensabile per adottare le leggi e determinare la
riscossione delle imposte. Ma si tratta della misura massima di
compromesso che il sovrano concede al popolo. Il re può infatti sciogliere
“ad libitum” entrambe le camere e detiene la titolarità esclusiva
dell’iniziativa legislativa. Quanto alla funzione esecutiva, i ministri sono
responsabili unicamente nei suoi confronti (secondo la tradizione del
“gabinetto” d’Ancien régime) e la giustizia è amministrata in suo nome,
detenendo comunque il sovrano in via esclusiva il diritto di grazia e di
commutazione delle pene. Come se non bastasse, il preambolo della Carta
dichiarava la persona del re sacra e inviolabile nonché fonte “tutta intera”
dell’autorità in Francia : è evidente da queste parole che il costituzionalismo
moderno, nella Carta del 1814, è ancora agli albori! E comunque stiano le
cose, quella frazione di “popolo” con la quale il sovrano è disposto a
dividere la propria potestà è infinitesimamente ridotta. Le condizioni di
censo per poter votare ed essere eletti alla Camera dei deputati erano infatti
estremamante esigenti (trenta anni di età e trecento franchi di rendita per
votare, quaranta e mille franchi per l’elettorato passivo), e la partecipazione
politica è appannaggio di una esigua minoranza ristretta alla nobiltà e
all’alta borghesia.
Diversa genesi manifesta la costituzione francese del 1830, nata in seguito
alla crisi progressiva e al crollo della monarchia Carlo X, successore di Luigi
XVIII dal 1824 e che con le sue ripetute, unilaterali ed etxtraparlamentari
“ordinanze” di modifica della Carta del 1814 aveva preteso di governare in
modo sempre più “anticostituzionale”.
L’avvento al trono, nel luglio del 1830, di Luigi Filippo d’Orléans, - che
assume il titolo non più legittimista di “re dei francesi”, reintroduce il
tricolore della Rivoluzione al posto della bandiera con i gigli dei Borbone e
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crea una “guardia nazionale” di stampo democratico, in cui gli ufficiali sono
eletti - precede infatti di poco l’entrata in vigore di una nuova costituzione,
che formalmente si presentava come una modifica della Carta. In realtà, le
modifiche vi erano profonde e di sostanza : questa volta, però, in senso
liberale, in ossequio alla svolta politica creatasi col cambio di regime e per i
primi anni di regno di Luigi Filippo (ricordiamo che sono anche gli anni
della politica di “non intervento” all’estero, in contrapposizione netta con la
“politica di intervento” varata a Lubiana nel 1821 dagli stati della Santa
Alleanza e praticata dall’Austria di Metternich).
Innanzitutto, il preambolo della Costituzione del 1830, brevissimo, non
contiene più nessun’eco di tipo legittimista richiamantesi al “diritto divino”
delle monarchie. Tale preambolo menziona poi che la Costituzione è stata
emendata e approvata dalle due camere, dimodoché ci troviamo in presenza
di un testo non già “octroyé” (concesso dal sovrano), ma votato da
un’assemblea popolare avente quindi ipso facto poteri costituenti (gli storici
hanno parlato a tal proposito di una manifestazione di “onnipotenza
parlamentare”, ispirata al modello inglese della centralità del Parlamento e
che caratterizzerà il periodo di regno di Luigi Filippo).
A questo parlamento - detentore ormai di un’influenza e di un’importanza
crescenti, anche se non ancora titolare esclusivo dell’investitura dei governi,
responsabili pur sempre di fronte al re - si attribuisce ora anche un
autonomo diritto di iniziativa legislativa. Il sovrano conserva il diritto di
nominare i Pari alla Camera alta (odierno Senato), ma solo entro date
categorie di persone, e una parte consistente di popolazione (una fetta
consistente di media borghesia, diremmo) entra nella vita politica grazie
all’abbassamento dei limiti di età e del censo richiesti per l’elettorato attivo e
per quello passivo ; muta pertanto, in senso più “popolare”, il volto tanto
della camera dei deputati che della Paria.
La costituzione del 1830 resterà in vigore, come è noto, per diciotto anni,
sin quando le insanabili contraddizioni interne tra gli elementi “progressisti”
e democratici e quelli “conservatori” nel parlamento e nel paese porteranno
al crollo della monarchia di Luigi Filippo e alla rivolta del febbraio 1848,
ben presto foriera di repubblica e di nuovi esperimenti sociali.
La costituzione belga del 7 febbraio 1831 nasce invece in un contesto e con
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presupposti politici totalmente diversi : il Belgio, divenuto indipendente dal
regno dei Paesi Bassi dopo una breve ma diffusa insurrezione nell’agosto
1830, è riconosciuto internazionalmente, a Londra, dalle grandi potenze
dell’epoca, che ne garantiscono la neutralità.
Esso si trova nella necessità di varare un testo costituzionale fondante la
nuova entità statale sovrana. Questo compito sarà assolto da un’assemblea
di fresca elezione in cui siedono in particolare i rappresentanti dei due
principali partiti politici che domineranno per i decenni seguenti la vita
politica di quel paese, il cattolico e il liberale. La costituzione del 1830 è
quindi una costituzione non “octroyée”, ma votata da un’assemblea
costituente. E soprattutto nasce schiettamente ed ab initio all’insegna del
principio di sovranità popolare, e non già di un ibrido “compromesso” tra
questa e il legittimismo dinastico. In Belgio, la sovranità popolare,
incarnata da un’assemblea dotata di poteri costitutenti, preesiste infatti
all’instaurazione della monarchia.
Certo, il principio monarchico è subito accolto, ma il sovrano non avrà
quella vastità di attribuzioni inscritte nelle costituzioni francesi del 1814 e
del 1830 : basti pensare, ad esempio, che non potrà designare i membri del
Senato (elettivi al pari di quelli della Camera dei deputati, anche se con
diverse condizioni di censo) ed avrà limitata influenza nella nomina dei
magistrati, nominati sulla base di liste precostituite redatte dai tribunali e dai
consigli provinciali. Possiamo quindi affermare che é la costituzione belga,
prima tra le costituzioni europee continentali a creare una moderna
“monarchia costituzionale”, a varare la prassi, oggi usuale nei paesi
monarchici, secondo la quale il sovrano “regna, ma non governa”.
Le condizioni di censo restavano per l’elettorato passivo a deputato e a
senatore, ma venivano a cessare (per la prima volta!) per l’eleggibilità a
deputato. I senatori, dal canto loro, duravano in carica il doppio dei
deputati, vale a dire otto anni, con rinnovo parziale della camera alta ogni
quattro anni. Il sovrano restava titolare della funzione esecutiva, ma il
potere giudiziario, grazie al sistema di nomina suaccennato, acquistava una
larga indipendenza, impensabile per quell’Europa dei primi decenni
dell’Ottocento.
I principi di libertà, infine, erano accolti questa volta a tutto tondo, e si
ritornava ai modelli delle costituzioni rivoluzionarie francesi (1791, 1793,
1795), forse però in versione ancora “migliorata” perché più pura. Non si
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faceva infatti menzione di alcun tipo di censura o controllo preventivo
nell’esercizio dei diritti di libertà, e si garantivano pienamente libertà di
stampa, associazione, insegnamento, religione. Nel cattolico Belgio, non si
disponeva in nessun modo (altra grande novità!) che “la religione cattolica è
la religione dello stato”, affermando così, pionieristicamente, il principio
della neutralità e laicità dello stato. Le autonomie locali - fortemente
radicate nella tradizione municipale belga, soprattutto per ciò che era della
parte settentrionale, le Fiandre - venivano infine menzionate nella
costituzione come soggetti autonomi dotati di vaste competenze
amministrative (si crearono nove province) con ciò abbozzando, anche qui
per la prima volta nell’Europa continentale, una sorta di decentramento ante
litteram.
E’ quindi evidente quanto la costituzione belga sia progredita rispetto alle
altre sue contemporanee. Non dobbiamo dimenticare, però, che ciò è
dovuto forse in parte anche al fatto che il Belgio costituì un laboratorio
tutto particolare, in qualche modo irripetibile o irriproducibile altrove, dove
si verificarono condizioni favorevolissime: le ridotte dimensioni e la relativa
omogeneità sociale, se non linguistica, del piccolo paese (di poco più grande
della Sicilia) appena formatosi, la benevola acquiescenza dei potenti vicini
rispetto a cui il Belgio diventava “stato cuscinetto” (Francia, Prussia,
Inghilterra), la lontananza rispetto all’orbita di azione diretta della Santa
Alleanza, l’assenza ab initio di una potente monarchia autoctona capace di
frenare ogni volontà progressista dell’assemblea eletta, ed infine
l’entusiasmo fondatore, in chiave patriottica, dei membri eletti, nonché la
loro volontà di dar vita a “qualcosa di nuovo”. Il Nothomb, che fu non
solo uno storico della rivolta belga del 1830 ma anche un membro influente
dell’assemblea, scrisse che si volle in sostanza unire quanto di meglio
potevano offrire la repubblica, con i suoi diritti di libertà, e la monarchia,
con le sue “guarentigie”, e “attribuire alla società civile tutte le libertà che
potrebbe comportare lo Stato repubblicano più perfetto, conservando le
sole guarentigie della eredità monarchica”. Fu un esperimento
costituzionale riuscito e dalla vasta risonanza europea, ben studiato e
ammirato anche laddove – come nel Piemonte del 1848, dove piacque al
Cavour - non lo si imitò .
In ogni caso, poté garantire al Belgio lunghi decenni di stabilità e prosperità
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nel XIX secolo. Si pensi che la prima revisione costituzionale si ebbe
solamente sessanta anni dopo, nel 1891-92, e fu volta ad abbassare gli
elevatissimi livelli di censo richiesti per l’elezione a senatore (si pensi che
alla vigilia di tale riforma solo poco più di mille facoltosissime persone in
tutto avevano diritto di eleggere il Senato!).
5.
I moti del 1848 : gli sviluppi politici
Questi erano i modelli costituzionali che si presentavano alla vigilia del
1848, in Italia e in Europa. Il 1848, e in buona parte l’anno successivo,
segnarono un momento sconvolgimenti, a livello continentale, contro il
sistema immobilistico e legittimista messo in atto dalla santa Alleanza e
rappresentato dall’Austria del cancelliere Metternich, dalla Prussia e dalla
Russia. L’Europa è percorsa da rivolte, ovunque si reclamano carte, governi
e garanzie costituzionali, si rivendica il principio di nazionalità da parte di
nazionalità oppresse (come in Polonia e in Ungheria : in tale ultimo paese la
lotta antiaustriaca è poi guidata da personaggi ormai entrati nella leggenda,
quali Luigi Kossuth e Sandor Petöfi), mentre altrove si varano esperimenti
democratici dal netto sapore sociale (come in Francia, dove del governo
repubblicano di breve durata, scaturito dalla rivoluzione di febbraio e
creatore di un’industria di stato ante litteram grazie agli “opifici nazionali”,
farà parte anche l’operaio Martin). In Austria, Metternich è costretto a
precipitose dimissioni in una Vienna politica totalmente disorientata, e
perfino in Prussia si instaura un governo costituzionale e liberale. In Italia, il
1848 si accompagnerà anche alla guerra del Piemonte (variamente
appoggiato, inizialmente, dagli altri stati italiani) contro l’Austria, e
ambizioni territoriali di casa Savoia si fonderanno e agiranno all’unisono,
per un certo tempo, con un sentimento nazionale e patriottico diffuso, in
buona parte di matrice democratica e mazziniana, che già era stato alle
origini delle Cinque giornate di Milano e di altre rivolte antiaustriache.
Insomma, dopo tre decenni di immobilismo, il 1848 funge da acceleratore
politico ; si riscopre il 1789 in senso liberale e costituzionale certo, ma
anche in senso democratico, sociale e di rivendicazioni nazionali. Gli storici
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l’hanno visto talvolta come la data d’inizio del moderno nazionalismo, ma è
certo che questo “anno dei portenti” (come fu chiamato) sprigionò anche
una profondissima carica ideale.
Il 1846, con l’avvento al soglio pontificale di Pio IX accompagnato da
grandi speranze di riforma, preparò il terreno, e ci fu chi in Italia ritenne
decisivo il ruolo del Papato in chiave “nazionale” e nel quadro di possibili
riforme “liberali”, dato che era allora impensabile poter sopprimere lo Stato
pontificio, e che Pio IX – non contrario inizialmente a innovazioni
caldeggiate dai “liberali” quali la Guardia civica, una Consulta o un certo
grado di libertà di stampa - fu visto in un primo tempo come l’uomo giusto
per un progetto federale italiano riconciliante la libertà con la religione. E’ noto
a tal proposito lo scritto dell’abate piemontese Vincenzo Gioberti sul
“Primato morale e civile degli italiani” del 1843, scritto che che propugna
proprio tale progetto di “unità d’Italia” attraverso una federazione di stati
italiani indipendenti guidata dal papa.
In un’Europa in ebollizione liberale nel ‘48 - dopo che, come si è visto, la
Francia di Luigi Filippo aveva avuto una costituzione nel 1830 e il Belgio
indipendente dal regno d’Olanda una sua costituzione nel 1831-, spettò a
Palermo dar fuoco alle polveri a livello europeo : già nel gennaio Palermo
era in armi, con un Comitato di governo provvisorio e con il Pretore
(sindaco), che dichiarò al rappresentante del Re che si sarebbero deposte le
armi solo quando il Parlamento avesse adattato ai tempi la Costituzione
(questa, giurata dal Re, non era mai stata formalmente revocata nell’isola).
Come già nel ’20 aveva fatto Ferdinando I, Ferdinando II procedette molto
rapidamente alla sua promulgazione, che si ebbe ai primi di febbraio del ’48.
Ma fu un fatto nuovo, giacché non era certo nelle intenzioni dei sovrani
della penisola di concedere così facilmente delle costituzioni liberali
limitanti il loro potere. Re Ferdinando, immobilissimo in fatto di riforme
fino a quel momento, “prese in contropiede” i suoi omologhi italiani che
già avevano compiuto concessioni in senso liberale, e la tradizione
storiografica gli attribuisce, non senza una certa dose di malignità, la famosa
frase “Don Pio IX e Carlo Alberto hanno voluto gettarmi un bastone tra le
gambe, ed io ora getto loro questa trave!”.
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Ma il processo ormai era iniziato, e l’effetto “domino” inarrestabile. In
Piemonte la carta costituzionale prima fu delineata nei suoi principi e poi, a
marzo, promulgata, ma fu chiamata statuto fondamentale del Regno, perché
‘costituzione’ sembrava una concessione eccessiva ai novatori.
A febbraio uscì a Firenze un manifesto, firmato dal gonfaloniere Bettino
Ricasoli, in cui si chiedeva la promulgazione a Leopoldo II della Carta, che
venne presto pubblicata, sull’esempio francese del ’30 (che aveva abolito la
censura sulla stampa).
A Roma Pio IX aveva finalmente costituito la Consulta di Stato, con cittadini
laici (eccezionalmente!) da lui scelti e diretti da due prelati, e aveva emanato
una legge sulla stampa, vincolandola però a non mettere in cattiva luce gli
atti del Governo. A febbraio il Papa ricordò al popolo di aver chiamato tre
ministri laici e di aver allargato la guardia civica, insomma di aver fatto
molto. In sostanza si diceva: “Romani, non chiedete troppo e in particolare
non la guerra” (all’Austria, il Paese cattolicissimo che non avrebbe mai
potuto operare contro il Papa). A marzo al Senato di Roma, che chiese un
Governo rappresentativo, egli rispose che era difficile separare le due
dignità che rivestiva. Quando, tuttavia, il governo del cardinale Antonelli
forzò la mano, il Papa concesse la Costituzione.
Modena e Parma seguirono l’esempio.
Ora però che i popoli dovevano essere grati ai loro Principi come fare,
dunque, l’unità? Gli ostacoli ad applicare le costituzioni furono fortissimi
ovunque fuorché in Piemonte, dove si prese a modello la Costituzione
francese del 1830 (una Costituzione moderata come si è visto, il juste milieu,
il giusto mezzo si diceva) che aveva stabilito i principi liberali "minimi"
dello Stato di diritto: al Parlamento la capacità di iniziativa legislativa, la
facoltà di accusare i ministri; l’inamovibilità dei magistrati, la pubblicità delle
sedute parlamentari, l’incapacità per il Re di sospendere le leggi etc. Lo
Statuto albertino fu l’unico a sopravvivere di quella stagione costituzionale,
non tanto per la sua bontà intrinseca, ma perché sostenuto dal ceto
dirigente sabaudo.
In Toscana il movimento costituzionale fu un fallimento. Le elezioni del
Consiglio generale rimasero fondate sul censo e solo in parte sulle tradizioni
comunali. Il sovrano era sacro e sanzionava le leggi. La classe politica che
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attorniava il Granduca (che veniva auspicato come ‘Imperatore dell’Italia
centrale’) era isolata anche dai circoli politici, i club nostrani. Perciò il
Parlamento non partecipò alla guerra d’indipendenza. I Toscani erano da
tempo disavvezzi alle guerre ormai e i membri del Consiglio erano troppo
intenti a controllare il governo granducale. Giuseppe Montanelli (professore
di diritto commerciale e civile a Pisa, della famiglia di Indro, il noto
giornalista da poco scomparso) al ritorno dalla guerra richiese una
"Costituente del popolo", delegittimando il Governo granducale. Lo Statuto
fu messo da parte di fatto, anche se fu abrogato solo nel ’52, perché il
Granduca riteneva quel tipo di governo non consono alle patrie istituzioni.
Nello Statuto pontificio si affermava che il governo temporale era
secondario rispetto alle necessità sovrane del capo della Chiesa. A capo
dello Stato c’era pur sempre il Papa e il Sacro Collegio dei cardinali - da
consultare prima di avallare le decisioni dei Consigli legislativi. Delle
funzioni parlamentari erano investiti un ‘Alto consigliò di nomina papale e
il Consiglio dei deputati eletti da 9 categorie di cittadini. Ma non avrebbero
potuto discutere le relazioni diplomatiche, né la materia ecclesiastica! Il
governo, presieduto da un cardinale, non si sarebbe presentato a giustificare
il suo operato alle assemblee. L’Alto consiglio, d’altro canto, non fece nulla
e nemmeno fece fare ad altri. Il ministro dell’interno Terenzio Mamiani
enunciò un programma che otteneva la fiducia dei parlamentari, ma il Governo
non poteva agire, perché la curia pontificia bloccava tutto, volendo il Papa
evitare la guerra con l’Austria. Le dimissioni di Mamiani furono tenute in
sospeso per mesi. Alla fine il Papa chiamò Pellegrino Rossi, già professore
di diritto costituzionale alla Sorbona di Parigi, ma anche servitore di più
bandiere. Egli cercò di risolvere i problemi sul tappeto, ma un esaltato lo
uccise pensando che fosse contrario alla ripresa della guerra con l’Austria.
Fuggito Pio IX, si ebbe un’Assemblea costituente a suffragio universale, che
proclamò la Repubblica e fondò la costituzione sul potere popolare. Essa fu
proclamata il 3 luglio 1849, ma il giorno dopo arrivarono le truppe
straniere.
A Napoli si ebbe, nel febbraio 1848 una costituzione di tipo francese, ma il
Parlamento fu convocato per maggio, quando già la sua causa era fallita.
L’esercito si schierò con la corte, i ministri erano spauriti e alla prima
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riunione i parlamentari furono espulsi dalla sede perché si erano rifiutati di
giurare al Re secondo una certa formula. Nel ’49 il Parlamento venne
sciolto con un decreto regio che deplorava la ‘fremente ambizione’ con cui
si erano violati i diritti del principe, che provvide per primo in Europa alla
repressione.
In Sicilia si ebbe l’unica costituzione elaborata da rappresentanti del Paese.
Le due Camere, dei Comuni e dei Pari, aggiornarono la Costituzione del
1812-13. Il "Re dei siciliani" era tale grazie alla Costituzione del Regno, i
ministri erano non parlamentari e responsabili, era previsto il diritto di
resistenza alle violenze illegittime dell’autorità. La Corona fu offerta al duca
di Genova, dei Savoia, che però non riuscì a cingerla. Nel ’49 la repressione
borbonica fu facile perché il Parlamento bloccava il Governo.
In un ’48 tanto effervescente, era sembrata anche vicina la realizzazione del
progetto mazziniano della Costituente nazionale, che avrebbe dovuto risolvere
il problema dell’Unità e della forma istituzionale. L’iniziativa divenne
ufficiale per merito del Governo provvisorio milanese, che studiava come
unirsi al Piemonte sotto i Savoia. Ma con ciò si rompeva coi repubblicani e
si comprometteva l’unità nazionale. Comunque, la Costituente, pur vaga
nelle competenze e di breve durata, era auspicata da tutti. Inoltre si parlava
di una ‘Dieta permanente’ a Roma. Espressione del "giusto mezzo", a
Torino compariva anche la ‘Società per la federazione italiana’ con
presidente Vincenzo Gioberti (che aveva l’ostilità di Montanelli), contro i
separatismi e a favore dell’unità in modo incondizionato, indifferente al
Regno d’Alta Italia cui ambivano i Savoia.
Esisteva una profonda divisione quindi tra unitari e federalisti, ma anche tra
parlamentaristi in genere e quelli che volevano rappresentanti eletti a
suffragio universale: Montanelli, governatore di Livorno nel ’48, poi
"presidente dei ministri" in Toscana, voleva una Costituente che fissasse le
norme per la Dieta. Una circolare mandata agli altri governi si rivelò un
buco nell’acqua. Ma a Genova ci furono manifestazioni a favore, e Carlo
Alberto dovette allora chiamare al governo Gioberti, avallando quindi l’idea
della Costituente federativa. Iniziarono le trattative con la Toscana e con
Roma per far passare l’idea che i Savoia dovessero essere i prescelti da
mettere a capo della federazione italiana. Con loro si voleva convocare una
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‘Costituente per l’unità’, senza pregiudizio dell’autonomia dei vari Stati. Ma
Pellegrino Rossi, s’è detto, venne ucciso, e Terenzio Mamiani propose che
si rispettassero gli ordinamenti dei vari Stati. Mentre si protraevano pratiche
dilatorie, a Firenze, in assenza di Montanelli, gli altri due triumviri, Guerrazzi
e Manzoni, decretarono la convocazione dell’Assemblea legislativa toscana. Il
disegno costituente risultò superato con la restaurazione dei governi
legittimi.
6.
Le costituzioni italiane “octroyées” del 1848 : caratteri comuni e
specificità locali
Le costituzioni concesse dai sovrani italiani nel 1848 (e precisamente la
Costituzione del regno delle Due Sicilie, lo Statuto del Granducato di
Toscana, lo Statuto del regno di Sardegna e lo Statuto fondamentale per il
governo temporale degli Stati della Chiesa) rivelano tratti estremamente
simili, e possono sicuramente essere ricondotte ad un medesimo genus,
quello delle costituzioni francesi del 1814 e 1830 a cui si ispirarono. Ironia
della sorte, esse nacquero praticamente sorpassate dai tempi, e non già
perché da quasi due decenni il Belgio stava a testimoniare che era possibile
“andare molto più avanti”, ma anche perché di lì a pochissimo, in Francia,
la stessa costituzione della monarchia di Luglio sarebbe stata sostituita da
un’altra, diversissima : repubblicana, democratica e recante la previsione del
suffragio universale.
Vale in sostanza per le costituzioni italiane “ottriate” nel 1848 quanto si è
detto a proposito delle “carte” del 1814 e 1830 in merito al loro carattere
“ultramoderato” e alla preoccupazione sovrana di menzionare nel
preambolo che esse scaturiscono da una graziosa concessione e non già
dalla “sovranità popolare”, come a significare che il sovrano rinunciava
momentaneamente e sua sponte ad un potere assoluto di cui però avrebbe
sempre potuto legittimamente riappropriarsi. Di qui il silenzio, ad esempio,
su ogni possibile forma di revisione costituzionale, che avrebbe potuto
legittimare in qualche modo una sorta di “potere costituente” o di
“onnipotenza” parlamentare, ovviamente aborrita dai regnanti dell’epoca.
Di qui ancora, come si è già detto, la perdurante invadenza dei poteri
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sovrani, nella misura in cui essi erano co-titolari della funzione legislativa
con le camere (i membri di una delle quali erano di loro nomina), e titolari
esclusivi delle funzioni esecutiva (con potere di nomina e revoca dei
ministri al di fuori di ogni rapporto fiduciario con il parlamento) e
giudiziaria (con ampi poteri di nomina dei magistrati e con limitata
inamovibilità di questi ultimi). Una parte estremamente ridotta della
popolazione aveva poi diritto di voto, attivo e passivo, viste le elevate
condizioni di censo ; a ciò facevano da contraltare, in sintonia con i
postulati e le aspirazioni liberali, una serie di garanzie di libertà erga omnes
(personale, di stampa, domicilio ecc.), “temperate” però a volte dalla
previsione di controlli (come è il caso dell’articolo 28 dello Statuto
albertino, il quale dichiarava al contempo che la stampa era libera ma che
una legge ne avrebbe represso “gli abusi”). Immancabilmente, infine, si
dichiara la religione cattolica “religione dello Stato”, mostrando così di
volerle conferire (o conservare) un carattere di marcata preminenza in
stridente contrasto coi principi separatista e di libertà di culto.
Differenze tra le varie costituzioni italiane “octroyées” certo esistono, ma
sono da ricondurre a specificità proprie di ogni singolo stato. Così, a
Napoli (dove forte e profonda fu l’influenza del decennio francese e
murattiano!) ci si preoccupa particolarmente di fortificare l’integrità dello
stato unitario rispetto ad ogni pericolo centripeta, e la costituzione dell’11
febbraio 1848 (redatta “in solitario” dal giurista moderato Francesco Paolo
Bozzelli), invece di seguire l’esempio belga e promuovere le autonomie
locali, conferisce alla legge il potere di ordinare e limitare le loro
circoscrizioni e competenze. Inoltre, l’articolo 50 ripete il concetto
dell’origine nazionale della rappresentanza politica (“i deputati
rappresentano la nazione in complesso e non le province ove furono
eletti”); si fa poi menzione del compito del sovrano di difendere l’integrità
statale, e dell’esistenza di una proprietà statale alienabile solo mediante
apposita legge autorizzativa.
In Toscana, al contrario, la tradizionale mitezza locale trova conferma : la
costituzione del 17 febbraio 1848 (che vide tra i suoi artefici il moderato
Gino Capponi) riafferma l’autonomia locale (la “dimora stabile”, oggi
diremmo residenza, nel proprio comune è addirittura menzionata quale
condizione di eleggibilità), permette, accanto alla “religione di stato”, gli
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altri “culti esistenti” (disposizione poi imitata nello Statuto albertino), e
“rinforza” il titolo sui diritti di libertà includendovi anche la libertà di
“commercio e di industria”.
A Roma, infine, la costituzione del 14 marzo 1848, ultima in ordine di
tempo in quanto promulgata dieci giorni dopo lo Statuto albertino, non
poteva ovviamente non risentire delle particolari commistioni tra elemento
laico ed ecclesiastico, e di subordinazione del primo al secondo, tipiche
dello Stato della Chiesa : così, il potere rimase sostanzialmente, come
osservato sopra, in mani ecclesiastiche, e l’artefice de testo fu un religioso,
per quanto “illuminato”, come il cardinale Corboli Bussi. Il diritto di voto
fu espressamente ristretto solo a coloro che si professassero cattolici, le
immunità per gli ecclesiastici furono salvaguardate, e si escluse dalla
competenza legislativa delle due camere ogni materia o affare ecclesiastico.
Con la sopravvivenza dello Statuto albertino alla bufera del 1848, si porrà il
problema dell’adattamento di tale testo troppo “timido” e moderato al
progresso politico piemontese prima, italiano poi : vedremo che il grande
protagonista di tale stagione post-quarantottesca sarà il Cavour.
7.
Lo Statuto albertino in dettaglio
Con nome già significativo, perché meno impegnativo di ‘costituzione’, lo
Statuto albertino fu promulgato il 4 marzo 1848. Si trattava di una carta
‘ottorgata’ o ‘ottriata’ (secondo che si derivi il termine dallo spagnolo o dal
francese). Il Re parlò dell’affetto del popolo per la sua ‘itala corona’ e perciò
di ‘certa scienza’ concedeva la carta. L’espressione non era casuale, ma
tecnica, manifestazione di potere assoluto indipendentemente dalla
legittimità dell’atto. Il Re non aveva con ciò solo limitato l’esercizio dei suoi
poteri, ma era divenuto un sovrano costituzionale, limitandoli
originariamente.
22 articoli su 81 sono dedicati al Re, capo dello ‘Stato monarchico
rappresentativo (attenzione: non è detto ‘parlamentare’), ereditario secondo la
legge salica, ossia con esclusione dalla successione delle donne, com’era sin
dal 1328, anche se la vera legge salica si limitava a posporre le donne ai
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maschi nella successione ai beni famigliari; era anche capo del potere
esecutivo e della magistratura, nonché ‘partecipe’ col Parlamento del potere
legislativo.
La persona del Re era ‘sacra e inviolabile’, per cui per i suoi atti egli non era
responsabile: era il ministro controfirmante che se ne assumeva la
responsabilità. All’art. 22 si prevedeva che salendo al trono il Re giurasse il
rispetto dello Statuto (ma certo se non avesse rispettato le leggi non poteva
essere oggetto di sanzioni penali), che egli stesso aveva dichiarato “legge
fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia”- ossia tutt’altro
che ‘flessibile’, come si è detto poi e come si ritiene normalmente. Il fatto è
che già Cavour cominciò a dire che sarebbe stato assurdo ritenere
intangibile la costituzione; si doveva pertanto, a suo avviso, ritenere
irrevocabile nei principi e non in tutte le sue proposizioni.
Nei giudizi civili il re poteva essere convenuto tramite il ministro della Real
Casa. Percepiva la ‘lista civile’, cioè la dotazione della corona decisa per legge
all’inizio di ogni Regno. La successione avveniva in base al principio ‘le mort
saisit le vif’, ossia ‘morto il Re, viva il Re’, nel senso che era automatica. La
‘rinuncia alla corona’ non era prevista esplicitamente, come non lo era il
matrimonio morganatico, cioè quello che non estendeva la propria
condizione alla moglie. Non erano previsti luogotenenti regi (come si ebbe nel
1944, dopo il disastro dell’8 settembre 1943, ancor prima che Vittorio
Emanuele III abdicasse a favore del figlio Umberto), né nazionali, né
regionali.
Il Re era il capo del potere esecutivo, con funzione preminente anche per le
forze armate; le dichiarazioni di guerra e i trattati erano da comunicare alle
Camere quando l’interesse e la sicurezza dello Stato lo avessero permesso.
Al sovrano spettava l’emanazione di decreti e regolamenti di attuazione
delle leggi ‘senza sospenderne l’osservanza’. Il Re riceveva i ricorsi di
giustizia amministrativa, poteva far ‘grazie e commutare le pene’. Nel
concetto di grazia era compreso anche l’indulto (estinzione o riduzione della
pena) e l’amnistia (estinzione del reato).
Il Senato era vitalizio e di nomina regia; i suoi membri erano scelti (età
minima 40 anni) tra 21 categorie sociali, oltre ai principi reali che ne erano
membri di diritto. Al Re spettava anche la nomina del Presidente e del
Vicepresidente del Senato, mentre segretari e questori erano elettivi. I
membri scelti dal Re dovevano essere convalidati dal Senato stesso, che a
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volte col tempo non approvò per considerazioni di merito. La Camera ‘alta’
- come si chiamava il Senato mutuando dalla terminologia inglese conservava gli atti anagrafici dei membri della casa reale e fungeva da corte
di giustizia per i delitti di tradimento e attentato allo Stato, nonché per i
ministri messi in stato di accusa dalla Camera. Inoltre giudicava i propri
membri in sede penale. I senatori godevano dell’habeas corpus, del privilegio
di non poter essere arrestati cioè, salvo per delitto flagrante.
La Camera era elettiva (età minima 30 anni) in base alla legge elettorale; i
suoi membri ‘rappresentavano la Nazione’ senza mandato imperativo in
opposizione ai mandati imperativi degli "stati" d’Ancien régime. Il Presidente
e gli altri organi interni venivano eletti dall’assemblea. Era necessaria per i
suoi membri l’autorizzazione all’arresto, fuorché per delitto flagrante. Erano
insindacabili, come i senatori, per le opinioni espresse e i voti dati
nell’assemblea, ma non furono retribuiti fino al 1912!
Il Re poteva prorogare e sciogliere la Camera, ma doveva convocarne
un’altra entro 4 mesi. L’iniziativa legislativa spettava al Re e a ciascuna
Camera. Era necessario approvare entro ogni sessione i disegni di legge da
tutte e due le Camere, altrimenti si aveva decadenza di essi (come avviene
oggi).
Lo Statuto parla solo di "ministri", ma non di Governo, e solo in tre articoli
che dicono che essi venivano nominati e revocati dal Re e non votavano
nelle Camere. Non si parla perciò della figura del Presidente del Consiglio dei
ministri, mentre la storia italiana fu dominata da questa figura, né quindi
della fiducia di cui dovessero godere i ministri da parte delle Camere.
Otto articoli vertono molto rapidamente sui diritti e doveri dei cittadini, con
molti rinvii a leggi ordinarie. Più che altro si trattava di dichiarazioni di
principio, come l’uguaglianza dei cittadini nei diritti "civili e politici" (ma se
poi il censo li limitava!) e nell’ammissione alle cariche, con eccezioni di
legge; l’uguaglianza era garantita anche nei carichi fiscali, contro i passati
privilegi di nobiltà e clero. Si dichiaravano protetti la libertà individuale, la
proprietà e il domicilio, la libertà di stampa (ma per i libri religiosi si
riconosce la censura preventiva del diocesano!). Il Cattolicesimo viene
configurato come religione di Stato e gli altri culti sono solo tollerati.
Ma è meglio trascrivere qui, integralmente lo Statuto, dato che rimase,
almeno come schema formale, in vigore fino all’entrata in vigore della
nostra Costituzione attuale:
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CARLO ALBERTO per la grazia di Dio Re di Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme, ecc. ecc.
Con lealtà di Re e con affetto di Padre Noi veniamo oggi a compiere quanto avevamo annunziato ai Nostri amatissimi sudditi col Nostro proclama
dell’8 dell’ultimo scorso febbraio, con cui abbiamo voluto dimostrare, in mezzo agli eventi straordinari che circondavano il Paese, come la Nostra
confidenza in loro crescesse colla gravità delle circostanze e come, prendendo unicamente consiglio dagli impulsi del Nostro cuore, fosse ferma
Nostra intenzione di conformare le loro sorti alla ragione dei tempi, agli interessi e alla dignità della Nazione.
Considerando Noi le larghe e forti istituzioni rappresentative contenute nel presente Statuto fondamentale come un mezzo il piú sicuro di
raddoppiare i vincoli d’indissolubile affetto che stringono all’Itala Nostra Corona un Popolo, che tante prove ci ha dato di fede, d’obbedienza e
d’amore, abbiamo determinato di sancirlo e promulgarlo, nella fiducia che Iddio benedirà le pure Nostre intenzioni, e che la Nazione libera, forte e
felice, si mostrerà sempre più degna dell’antica fama, e saprà meritarsi un glorioso avvenire.
Perciò di Nostra certa scienza, Regia autorità, avuto il parere del Nostro Consiglio, abbiamo ordinato ed ordiniamo in forza di Statuto e legge
fondamentale, perpetua ed irrevocabile della Monarchia, quanto segue:
Art. 1. La religione cattolica apostolica e romana è la sola religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi.
Art. 2. Lo Stato è retto da un Governo monarchico rappresentativo. Il trono è ereditario secondo la Legge salica.
Art. 3. Il potere legislativo sarà collettivamente esercitato dal Re e da due Camere: il Senato e quella dei deputati.
Art. 4. La persona del Re è sacra ed inviolabile.
Art. 5. Al Re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il Capo supremo dello Stato; comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra; fa
i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere, tosto che l’interesse e la sicurezza dello Stato il permettano, ed
unendovi le comunicazioni opportune. I trattati che importassero un onere alle finanze, o variazione di territorio dello Stato, non avranno effetto se
non dopo ottenuto l’assenso delle Camere.
Art. 6. Il Re nomina a tutte le cariche dello Stato, e fa i decreti e regolamenti necessari per l’esecuzione delle leggi, senza sospenderne
l’osservanza o dispensarne.
Art. 7. Il Re sanziona le leggi e le promulga.
Art. 8. Il Re può far grazia e commutare le pene.
Art. 9. Il Re convoca ogni anno le due Camere: può prorogarne le sessioni, e disciogliere quella dei deputati; ma in quest’ultimo caso ne convoca
un’altra nel termine di quattro mesi.
Art. 10. La proposizione delle leggi apparterrà al Re ed a ciascuna delle due Camere. Però ogni legge d’imposizione di tributi, o di approvazione
dei bilanci e dei conti dello Stato sarà presentata prima alla Camera dei deputati.
Art. 11. Il Re è maggiore all’età di diciotto anni compiuti.
Art. 12. Durante la minorità del Re, il Principe suo più prossimo parente nell’ordine della successione al trono sarà Reggente del Regno, se ha
compiuti gli anni ventuno.
Art. 13. Se, per la minorità del Principe chiamato alla Reggenza, questa è devoluta ad un parente più lontano, il Reggente, che sarà entrato in
esercizio, conserverà la Reggenza fino alla maggiorità del Re.
Art. 14. In mancanza di parenti maschi, la Reggenza apparterrà alla Regina Madre.
Art. 15. Se manca anche la Madre, le Camere, convocate fra dieci giorni dai ministri, nomineranno il Reggente.
Art. 16. Le disposizioni precedenti relative alla Reggenza sono applicabili nel caso, in cui il Re maggiore si trovi nella fisica impossibilità di
regnare. Però, se l’erede presuntivo del trono ha compiuto diciotto anni, egli sarà in tal caso di pieno diritto il Reggente.
Art. 17. La Regina Madre è tutrice del Re finché egli abbia compiuta l’età di sette anni: da questo punto la tutela passa al Reggente.
Art. 18. I diritti spettanti alla podestà civile in materia beneficiaria, o concernenti all’esecuzione delle provvisioni d’ogni natura provenienti dal Re
stesso, saranno esercitati dal Re.
Art. 19. La dotazione della Corona è conservata durante il Regno attuale quale risulterà dalla media degli ultimi dieci anni.
Il Re continuerà ad avere l’uso dei reali palazzi, ville, e giardini e dipendenze, nonché di tutti indistintamente i beni mobili spettanti alla Corona,
di cui sarà fatto inventario a diligenza di un ministro responsabile.
Per l’avvenire la dotazione predetta verrà stabilita per la durata di ogni Regno dalla prima legislatura, dopo l’avvenimento del Re al trono.
Art. 20. Oltre i beni che il Re attualmente possiede in proprio, formeranno il privato suo patrimonio ancora quelli, che potesse in tutto acquistare a
titolo oneroso o gratuito, durante il suo Regno.
Il Re può disporre del suo patrimonio privato sia per atti fra vivi, sia per testamento, senza essere tenuto alle regole delle leggi civili, che limitano
la quantità disponibile. Nel rimanente il patrimonio del Re è soggetto alle leggi che reggono le altre proprietà.
Art. 21. Sarà provveduto per legge ad un assegnamento annuo pel Principe ereditario giunto alla maggiorità, od anche prima in occasione di
matrimonio; a un appannaggio dei Principi della famiglia e del sangue reale nelle condizioni predette; alle doti delle Principesse, e al dovario delle
Regine.
Art. 22. Il Re, salendo al trono, presta in presenza delle Camere riunite il giuramento di osservare lealmente il presente Statuto.
Art. 23. Il Reggente, prima d’entrare in funzioni, presta il giuramento di essere fedele al Re, e di osservare lealmente lo Statuto e le leggi dello
Stato.
Dei diritti e doveri dei cittadini.
Art. 24. Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali in faccia alla legge.
Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammessibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi.
Art. 25. Essi contribuiscono indistintamente, nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello Stato.
Art. 26. La libertà individuale è guarentita.
Niuno può essere arrestato, o tradotto in giudizio, se non nei casi previsti dalla legge, e nelle forme ch’essa prescrive.
Art. 27. Il domicilio è inviolabile. Niuna visita domiciliare può aver luogo se non in forza della legge, e nelle forme che essa prescrive.
Art. 28. La stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi.
Tuttavia le bibbie, i catechismi, i libri liturgici e di preghiere non potranno essere stampati senza il preventivo permesso del Vescovo.
Art. 29. Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili.
Tuttavia, quando l’interesse pubblico legalmente accertato lo esiga, si può essere tenuti a cederle in tutto od in parte, mediante una giusta indennità
conformemente alle leggi.
Art. 30. Nessun tributo può essere imposto o riscosso se non è stato consentito dalle Camere e sanzionato dal Re.
Art. 31. Il debito pubblico è guarentito.
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Ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile.
Art. 32. E riconosciuto il diritto di radunarsi pacificamente e senza armi, uniformandosi alle leggi che possono regolarne l’esercizio nell’interesse
della cosa pubblica.
Questa disposizione non è applicabile alle adunanze in luoghi pubblici, od aperti al pubblico, i quali rimangono intieramente soggetti alle leggi di
polizia.
Del Senato.
Art. 33. Il Senato è composto di membri nominati a vita dal Re, in numero non limitato, aventi l’età di quarant’anni compiuti, e scelti nelle
categorie seguenti: 1° gli arcivescovi e vescovi dello Stato; 2° il presidente della Camera dei deputati; 3 ° i deputati dopo tre legislature o sei anni
di esercizio; 4° i ministri di Stato; 5° i ministri segretari di Stato; 6° gli ambasciatori; 7° gli inviati straordinari, dopo tre anni di tali funzioni; 8° i
primi presidenti e presidenti del Magistrato di Cassazione e della Camera dei conti; 9° i primi presidenti dei Magistrati d’appello; 10° l’avvocato
generale presso il Magistrato di cassazione ed il procuratore generale, dopo cinque anni di funzioni; 11° i presidenti di classe dei Magistrati
d’appello, dopo tre anni di funzioni; 12° i consiglieri del Magistrato di cassazione e della Camera dei conti, dopo cinque anni di funzioni; 13° gli
avvocati generali o fiscali generali presso i magistrati d’appello, dopo cinque anni di funzioni; 14° gli ufficiali generali di terra e di mare (tuttavia,
i maggiori generali e i contrammiragli dovranno avere da cinque anni quel grado in attività); 15° i consiglieri di Stato, dopo cinque anni di
funzioni; 16° i membri dei Consigli di divisione, dopo tre elezioni alla loro presidenza; 17° gli intendenti generali, dopo sette anni di esercizio; 18°
i membri della regia Accademia delle scienze, dopo sette anni di nomina; 19° i membri ordinari del Consiglio superiore d’istruzione pubblica,
dopo sette anni d’esercizio; 20° coloro che con servizi o meriti eminenti avranno illustrata la patria; 21° le persone che da tre anni pagano 3000
lire di imposizione diretta, in ragione dei loro beni o della loro industria.
Art. 34. I Principi della famiglia reale fanno di pien diritto parte del Senato. Essi seggono immediatamente dopo il presidente. Entrano in Senato a
ventun’anno ed hanno voto a venticinque.
Art. 35. Il presidente ed i vice-presidenti del Senato sono nominati dal Re.
Il Senato nomina nel proprio seno i suoi segretari.
Art. 36. Il Senato è costituito in Alta Corte di giustizia con decreto del Re per giudicare dei crimini di alto tradimento, e di attentato alla sicurezza
dello Stato, e per giudicare i ministri accusati dalla Camera dei deputati.
In questi casi il Senato non è Corpo politico. Esso non può occuparsi se non degli affari giudiziari per cui fu convocato, sotto pena di nullità.
Art. 37. Fuori del caso di flagrante delitto, niun senatore può essere arrestato se non in forza di un ordine del Senato. Esso è solo competente per
giudicare dei reati imputati ai suoi membri.
Art. 38. Gli atti, coi quali si accertano legalmente le nascite, i matrimoni e le morti dei membri della Famiglia reale, sono presentati al Senato, che
ne ordina il deposito nei suoi archivi.
Della Camera dei deputati.
Art. 39. La Camera elettiva è composta di deputati scelti dai collegi elettorali conformemente alla legge.
Art. 40. Nessun deputato può essere ammesso alla Camera, se non è suddito del Re, non ha compiuta l’età di trent’anni, non gode i diritti civili e
politici, e non riunisce in sé gli altri requisiti voluti dalla legge.
Art. 41. I deputati rappresentano la Nazione in generale, e non le sole provincie in cui furono eletti.
Nessun mandato imperativo può loro darsi dagli elettori.
Art. 42. I deputati sono eletti per cinque anni; il loro mandato cessa di pien diritto alla spirazione di questo termine.
Art. 43. Il presidente, i vice-presidenti e i segretari della Camera dei deputati sono da essa nominati nel proprio seno al principio di ogni sessione
per tutta la sua durata.
Art. 44. Se un deputato cessa, per qualunque motivo, dalle sue funzioni, il Collegio che l’aveva eletto sarà tosto convocato per fare una nuova
elezione.
Art. 45. Nessun deputato può essere arrestato, fuori del caso di flagrante delitto, nel tempo della sessione, né tradotto in giudizio in materia
criminale senza il previo consenso della Camera.
Art. 46. Non può eseguirsi alcun mandato di cattura per debiti contro di un deputato durante la sessione della Camera, come neppure nelle tre
settimane precedenti e susseguenti alla medesima.
Art. 47. La Camera dei deputati ha il diritto di accusare i ministri del Re, e di tradurli dinanzi all’Alta Corte di giustizia.
Disposizioni comuni alle due Camere.
Art. 48. Le sessioni del Senato e della Camera dei deputati cominciano e finiscono nello stesso tempo.
Ogni riunione di una Camera fuori del tempo della sessione dell’altra è illegale, e gli atti ne sono intieramente nulli.
Art. 49. I senatori ed i deputati prima di essere ammessi all’esercizio delle loro funzioni prestano il giuramento di essere fedeli al Re, di osservare
lealmente lo Statuto e le leggi dello Stato, e di esercitare le loro funzioni col solo scopo del bene inseparabile del Re e della Patria.
Art. 50. Le funzioni di senatore e di deputato non danno luogo ad alcuna retribuzione od indennità.
Art. 51. I senatori e i deputati non sono sindacabili per ragione delle opinioni da loro emesse e dei voti dati nelle Camere.
Art. 52. Le sedute delle Camere sono pubbliche.
Ma, quando dieci membri ne facciano per iscritto la domanda, esse possono deliberare in segreto.
Art. 53. Le sedute e le deliberazioni delle Camere non sono legali né valide, se la maggioranza assoluta dei loro membri non è presente.
Art. 54. Le deliberazioni non possono essere prese se non alla maggiorità dei voti.
Art. 55. Ogni proposta di legge dev’essere dapprima esaminata dalle Giunte che saranno da ciascuna Camera nominate per i lavori preparatori.
Discussa ed approvata da una Camera, la proposta sarà trasmessa all’altra per la discussione ed approvazione; è poi presentata alla sanzione del
Re.
Le discussioni si faranno articolo per articolo.
Art. 56. Se un progetto di legge è stato rigettato da uno dei tre poteri legislativi, non potrà più esser riprodotto nella stessa sessione.
Art. 57. Ognuno che sia maggiore di età ha il diritto di mandare petizioni alle Camere, le quali debbono farle esaminare da una Giunta, e, dopo la
relazione della medesima, deliberare se debbano essere prese in considerazione, ed, in caso affermativo, mandarsi al ministro competente, o
depositarsi negli uffizi per gli opportuni riguardi.
Art. 58. Nessuna petizione può essere presentata personalmente alle Camere.
Le autorità costituite hanno solo il diritto di indirizzare petizioni in nome collettivo.
Art. 59. Le Camere non possono ricevere alcuna deputazione né sentire altri, fuori dei propri membri, dei ministri, e dei commissari del Governo.
Art. 60. Ognuna delle Camere è sola competente per giudicare della validità dei titoli di ammissione dei propri membri.
Art. 61. Così il Senato, come la Camera dei deputati, determina per mezzo d’un suo regolamento interno, il modo secondo il quale abbia da
esercitare le proprie attribuzioni.
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Art. 62. La lingua italiana è la lingua ufficiale delle Camere. È però facoltativo di servirsi della francese ai membri che appartengono ai paesi in
cui questa è in uso, od in risposta ai medesimi.
Art. 63. Le votazioni si faranno per alzata e seduta, per divisione e per squittinio (=scrutinio segreto). Quest’ultimo mezzo sarà sempre impiegato
per la votazione del complesso di una legge, e per ciò che concerne al personale.
Art. 64. Nessuno può essere ad un tempo senatore e deputato.
Dei ministri.
Art. 65. Il Re nomina e revoca i suoi ministri.
Art. 66. I ministri non hanno voto deliberativo nell’una o nell’altra Camera se non quando ne sono membri.
Essi vi hanno sempre l’ingresso, e debbono essere sentiti sempre che lo richieggano.
Art. 67. I ministri sono responsabili.
Le leggi e gli atti del Governo non hanno vigore, se non sono muniti della firma di un ministro.
Dell’Ordine giudiziario.
Art. 68. La Giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo nome dai giudici che Egli istituisce.
Art. 69. I giudici, nominati dal Re, ad eccezione di quelli di mandamento, sono inamovibili dopo tre anni di esercizio.
Art. 70. I magistrati, tribunali e giudici attualmente esistenti sono conservati. Non si potrà derogare all’organizzazione giudiziaria se non in forza
di una legge.
Art. 71. Niuno può essere distolto dai suoi giudici naturali.
Non potranno perciò essere creati tribunali o commissioni straordinarie.
Art. 72. Le udienze dei tribunali in materia civile ed i dibattimenti in materia criminale saranno pubblici conformemente alle leggi.
Art. 73. L’interpretazione delle leggi, in modo per tutti obbligatorio, spetta esclusivamente al potere legislativo.
Disposizioni generali.
Art. 74. Le istituzioni comunali e provinciali, e la circoscrizione dei Comuni e delle Provincie sono regolate dalla legge.
Art. 75. La leva militare è regolata dalla legge.
Art. 76. È istituita una milizia comunale sovra basi fissate dalla legge.
Art. 77. Lo Stato conserva la sua bandiera; e la coccarda azzurra è la sola nazionale.
Art. 78. Gli Ordini cavallereschi ora esistenti sono mantenuti con le loro dotazioni. Queste non possono essere impiegate in altro uso fuorché in
quello prefisso dalla propria istituzione.
Il Re può creare altri Ordini, e prescriverne gli statuti.
Art. 79. I titoli di nobiltà sono mantenuti a coloro che vi hanno diritto. Il Re può conferirne dei nuovi.
Art. 80. Niuno può ricevere decorazioni, titoli, o pensioni da una potenza estera senza l’autorizzazione del Re.
Art. 81. Ogni legge contraria al presente Statuto è abrogata.
Disposizioni transitorie.
Art. 82. Il presente Statuto avrà il pieno suo effetto dal giorno della prima riunione delle due Camere, la quale avrà luogo appena compiute le
elezioni. Fino a quel punto sarà provveduto al pubblico servizio d’urgenza con sovrane disposizioni, secondo i modi e le forme sin qui seguite,
omesse tuttavia le interinazioni e registrazioni dei Magistrati, che sono fin d’ora abolite.
Art. 83. Per l’esecuzione del presente Statuto il Re si riserva di fare le leggi sulla stampa, sulle elezioni, sulla milizia comunale e sul riordinamento
del Consiglio di Stato.
Sino alla pubblicazione della legge sulla stampa rimarranno in vigore gli ordini vigenti a quella relativi.
Art. 84. I ministri sono incaricati e responsabili della esecuzione e della piena osservanza delle presenti disposizioni transitorie.
8.
Le costituzioni europee della stagione quarantottesca : la
costituzione francese del 4 novembre 1848, la costituzione del
parlamento di Francoforte del 28 marzo 1849 e quella prussiana del
31 gennaio 1850.
Tali testi costituzionali nacquero ovviamente in contesti diversissimi. Un
punto accomuna la costituzione francese e quella tedesca di Francoforte,
vale a dire quello di non essere costituzioni “octroyées”, ma nate dalla
volontà di assemblee. La costituzione “octroyée” prussiana invece
simboleggia la fine della bufera quarantottesca in Germania e codifica
ancora una volta la difficile convivenza tra l’invadente principio monarchico
e le idealità liberali : avrà vita ventennale ma, contrariamente al Piemonte e
all’Italia, non vivrà un adattamento in senso più liberale e parlamentare.
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a) La Francia del 1848.
Un'insurrezione parigina pilotata da elementi radicali e repubblicani, cui si
unì la guardia nazionale, costrinse Luigi Filippo all’abdicazione, il 24
febbraio 1848. Già da tempo l’immobilismo conservatore dei governi
orleanisti aveva indotto le opposizioni ad organizzarsi : i ben noti
“banchetti” – riunioni conviviali che fornivano il pretesto per chiedere a
gran voce l’allargamento del suffragio – ne sono l’esempio più noto. Il
successo della rivolta parigina conduce alla proclamazione della repubblica e
all’instaurazione di un governo provvisorio dallo schietto carattere sociale,
composto da repubblicani come Ledru Rollin, ma anche da socialisti come
Louis Blanc e dall’operaio metalmeccanico Albert. Ma in pochi mesi la
situazione precipita : le elezioni del 23 aprile danno una nettissima
maggioranza ai moderati, un colpo di mano rivoluzionario è sventato il 15
maggio, e il 21 giugno il decreto (di un nuovo governo, moderato) di
chiusura degli “opifici nazionali” scatena una rivolta del proletariato
parigino e dei socialisti, che sarà repressa brutalmente dopo giornate di
scontri violentissimi. Alla vigilia dell’estate e dopo questo regolamento di
conti che Marx, nella sua opera “Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte”,
definirà come il primo vero grande scontro di classe, i socialisti e la classe
operaia sono fuori gioco, e le elezioni presidenziali del dicembre 1848
suggellano il trionfo moderato con la vittoria di Luigi Bonaparte, (futuro
Napoleone III). Assistiamo quindi in un anno ad una vera e propria
evoluzione moderata della vita politica francese, cui però non consegue il
ristabilimento di un regime monarchico.
In questa densissima temperie politica nasce una costituzione discussa e
votata da un’assemblea costituente formata dai deputati eletti il 23 aprile, e
che dà vita ad un regime repubblicano più nettamente ispirato al principio
della divisione dei poteri. Questa volta tutti i poteri emanano dal popolo,
che non deve più “negoziare” porzioni di sovranità con una dinastia
regnante. Si prevede una camera unica, eletta a suffragio universale diretto
(maschile) per tre anni e depositaria della funzione legislativa; un presidente
eletto per quattro anni e non rieleggibile se non decorsi altri quattro anni, di
cittadinanza obbligatoriamente francese, e che oltre ad esercitare il potere
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esecutivo divide con l’Assemblea l’iniziativa legislativa; una giustizia di
nomina dell’esecutivo, con poche innovazioni rispetto al modello della
monarchia di Luglio. Il suffragio universale, e anche la creazione di
un’unica camera parlamentare, erano certo dei notevoli progressi in senso
egualitario rispetto alle costituzioni monarchiche caratterizzate da un corpo
elettorale ristretto e da parie privilegiate. Tuttavia, se si erano separati i
poteri, si era però ancora lontani dal parlamentarismo, e quel presidente
della repubblica di durata quadriennale conservava alcuni tratti degli antichi
sovrani : poteva in particolare nominare e revocare ad libitum i ministri al di
fuori di ogni rapporto fiduciario col parlamento, negoziare e ratificare i
trattati, disporre delle forze armate, far grazia e commutare le pene,
nominare magistrati e pubblici ministeri, oltre naturalmente a promulgare le
leggi (con diritto di rinvio in caso di suo disaccordo). Il suo potere si
arrestava laddove lo richiedeva la separazione dei poteri : non poteva
sciogliere o prorogare la camera, sospendere la costituzione, dichiarare la
guerra senza approvazione parlamentare, e – come nelle repubbliche
parlamentari odierne – le leggi rinviate alle camere dovevano essere
promulgate in caso di seconda approvazione. Non sfuggirà che questa
applicazione così netta e limpida della separazione dei poteri evoca analogie
con la vigente costituzione degli Stati Uniti d’America del 1787. E infatti
non a caso la costituzione francese del 1848 è probabilmente il testo che
ancor oggi più le si avvicina, visto che la grande maggioranza delle
costituzioni europee successive imboccarono la strada del parlamentarismo,
e non già quella del presidenzialismo all’americana.
Da ultimo, ampie, più ancora che nelle costituzioni ottriate, erano le
garanzie dei diritti di libertà, che rasentavano il sociale allorché si disponeva
che la repubblica doveva favorire lo sviluppo del lavoro, la formazione
professionale, l’eguaglianza di rapporti tra padrone e operaio, nonché
provvedere a lavori pubblici atti ad impiegare i disoccupati e a fornire
assistenza ai fanciulli abbandonati, ai malati, alle persone anziane senza
risorse. Si garantì la libertà religiosa non facendo alcuna menzione di
religione di stato, e l’articolo 5 proclamò democraticamente e in omaggio
agli ideali quarantotteschi che “la repubblica rispetta le nazionalità straniere come
intende far rispettare la propria, e non intraprende alcuna guerra di conquista né impiega
le sue forze contro la libertà di altri popoli”. Ma si negò un “diritto al lavoro”,
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patrocinato dalle forze socialiste da poco sconfitte, e l’affermazione della
libertà di insegnamento non impedì che, di lì a poco, la legge Falloux del
1850 prevedesse un ampio regime di favore per la scuola l’insegnamento
religiosi. L’articolo 5 non impedirà poi lo spregiudicato intervento militare
francese contro la repubblica romana, nel 1849.
L’elezione plebiscitaria alla presidenza di Luigi Bonaparte, il 10 dicembre
1848, ipotecherà fatalmente il destino di una repubblica e di una
costituzione certo pregevoli per le novità surricordate, ma destinate a
sgretolarsi allorquando il “presidente” Napoleone diverrà imperatore, nel
1852.
b) La Germania e la costituzione di Francoforte.
Il vento liberale, costituzionale e nazionale del 1848, che aveva investito
l’Europa, non poteva ovviamente risparmiare la Germania, che perpetuava
ancora, al pari dell’Italia, una situazione di divisione territoriale, anche se il
congresso di Vienna aveva creato una “Confederazione germanica” con
propri organi consultivi (tra cui la Dieta sedente a Francoforte) e ridotto a
“solamente” 39 il numero degli stati sovrani. Tra essi, peraltro, esistevano
già, più dì quanto non succedesse in Italia, solidi legami economici e
commerciali, culminati nella conclusione di un’unione doganale ‘lo
“Zollverein”) nel 1833. Ma proprio per questo, dopo il risveglio del
sentimento nazionale antinapoleonico nel 1813 e l’allacciamento di così
stretti legami commerciali, il 1848 non poteva che porre in primo piano,
anche in una Germania dalla sovranità così parcellizzata, la questione
nazionale.
Nel marzo del 1848, sull’onda non solo della rivolta parigina ma anche
degli eventi viennesi che avevano portato alle dimissioni di Metternich (il
principale fautore della politica dello “status quo”) e alla convocazione, da
parte dell’imperatore Ferdinando I, di una dieta allargata che avrebbe
dovuto varare una costituzione per i territori dell’impero, si riunisce a
Francoforte sul Meno, città sede della Dieta della Confederazione e
geograficamente centralissima, un’assemblea di 192 membri che gli storici
tedeschi hanno definito “Vorparlament” (pre-parlamento) in quanto non
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eletta, ma composta di rappresentanti di tutti e 39 gli stati tedeschi della
Confederazione. Si trattava di risolvere il problema nazionale, ma la cosa
era resa particolarmente complicata dal fatto che l’assemblea, in sé, non
disponeva di alcun potere effettivo giuridicamente concessole, che ogni
decisione avrebbe dovuto essere ratificata dai singoli stati (tra cui le potenti
Austria e Prussia), e che essa si divise subito in due fazioni opposte, quella
dei “grandi tedeschi”, che voleva veder realizzata l’unificazione tedesca
attorno all’Austria, e quella dei “piccoli tedeschi”, che caldeggiava
all’opposto la leadership della Prussia. Quest’ultima tendenza prevalse, e
l’assemblea di Francoforte, il 28 marzo 1849, offrì la corona imperiale
tedesca al re di Prussia Federico Guglielmo IV, che la rifiutò definendola
“maleodorante di rivoluzione” (28 aprile). Nel frattempo, la situazione
politica era ovunque precipitata, in Austria come in Germania e nel resto
dell’Europa, a sfavore dei movimenti democratici e liberali, e l’assemblea,
nel frattempo trasferitasi a Stoccarda, verrà disciolta poche settimane dopo
dalla polizia.
Nello stesso giorno dell’offerta della corona al re prussiano, l’assemblea di
Francoforte pubblicò però anche il testo di una costituzione non
eccessivamente lunga (197 articoli), ma discussa per mesi e di grande
interesse. E’ una costituzione, in conformità con la tradizione tedesca, di
tipo federalista, e dall’impianto schiettamente liberale e garantista. La
funzione legislativa era esercitata da due camere, l’una (“Staatsrat” o
“camera degli stati”) composta da 192 rappresentanti eletti da tutti gli stati
(il primo articolo recitava che “lo stato tedesco - “deutsches Reich” - è
composto dai territori che formano parte della Confederazione
germanica”), l’altra (“Volksrat” o “camera del popolo”) composta dai
“deputati del popolo tedesco”; per il sistema elettorale si faceva rinvio alle
norme in vigore nei singoli stati. La funzione esecutiva avrebbe dovuto
esercitarsi da un “imperatore dei tedeschi” (“Kaiser der Deutschen”) dalle
competenze estremamente ampie, giacché a quelle già viste per il presidente
francese nella costituzione del 4 novembre 1848 (nomina e revoca dei
ministri, iniziativa legislativa, diritto di grazia e di concludere trattati) si
aggiungevano quelle di convocazione e scioglimento delle camere, di
dichiarazione di guerra e di “mantenimento della pace all’interno dello
stato” (poteri che definiremmo, in senso lato, di polizia). Quanto al potere
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giudiziario, esso era esercitato, al livello federale (il solo disciplinato dalla
costituzione), da un “tribunale dello Stato” (“Reichsgericht”), la cui
ampiezza di poteri era però sorprendente: si pensi alla competenza in
materia di “ ricorsi di cittadini tedeschi per violazione di diritti loro garantiti
dalla presente costituzione” (articolo 126, lettera g). Occorrerà aspettare un
secolo esatto perché la Germania riviva una simile esperienza mediante il
ricorso diretto del cittadino al Tribunale costituzionale, previsto dall’articolo
93 dell’attuale Legge Fondamentale.
Sorprendente e modernissima è anche l’ampiezza dei diritti individuali
garantiti (al titolo sesto, articoli 130-189), laddove si considera anche la
dimensione associativa e non già unicamente quella dei diritti individuali
“classici” tipica delle carte costituzionali derivanti dalla tradizione francese.
L’articolo 162, così, dispone che “ogni cittadino tedesco può costituire associazioni.
Tale diritto non è soggetto ad alcuna preventiva restrizione”. Allo stesso modo, gli
articoli riguardanti il principio di libertà religiosa non si limitano alla
dimensione individuale, pubblica o privata, ma considerano anche le società
religiose : l’anodino articolo 147 dispone che ogni società religiosa
(“Religionsgesellschaft”) si autodisciplina in modo autonomo ed è soggetta
al diritto comune, e che possono essere create nuove associazioni religiose
senza riconoscimento statale. Dulcis in fundo, poi, lo stesso articolo ripudia
ogni religione di stato (ed è chiaro che in un clima di multiconfessionalismo
quale quello tedesco difficilmente tale concetto avrebbe potuto affermarsi!).
Nello stesso corpo di articoli è poi garantita l’indipendenza della giustizia
(art.175), i magistrati sono dichiarati inamovibili salvo apposita decisione
giudiziaria pronunciata contro di loro (art. 177), si dispone il principio del
“giudice naturale” (definito “giudice spettante per legge”, art.175) e ogni
tipo di giurisdizione privilegiata è bandito (art.176). Infine,
pionieristicamente, l’articolo 181 (il cui titolo in neretto reca “separazione
dei poteri”) proclama l’indipendenza e la separazione tra giustizia e
amministrazione.
La costituzione del 28 marzo 1849 fu il legato importantissimo che
l’assemblea di Francoforte lascerà alla posterità, al di là della questione
dell’unificazione del paese che comunque non avrebbe potuto risolversi
data la situazione geopolitica, e che troverà invece soluzione ventuno anni
dopo grazie all’energico Bismarck e all’egemonia prussiana.
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Come già detto, la costituzione sorprende, in talune parti, per la sua
modernità : in linea coi suoi tempi nel delineare un potere esecutivo forte e
dominante al di fuori di ogni schema parlamentaristico, essa però “si
riscattò” nel delineare un modernissimo pendant a tali “poteri forti”
mediante un’amplissima gamma di libertà individuali e collettive (i
cosiddetti “corpi intermedi” dalla lunga tradizione in Germania), nonché un
avveniristico potere giudiziario forte e indipendente. Il modello della
“Paulskircheverfassung” (costituzione della chiesa di S. Paolo, così chiamata
perché colà si riuniva l’assemblea di Francoforte) non verrà dimenticato dai
teorici tedeschi del “Rechtsstaat” (stato di diritto), giuristi che
edificheranno un diritto amministrativo d’avanguardia, pendant “tecnico”
alle sconfitte politiche della borghesia tedesca che con Bismarck - e fino al
1918 - non riuscirà ad imporre un sistema di governo parlamentare.
c) La costituzione prussiana del 31 gennaio 1850.
Mentre altrove, dai paesi della monarchia austriaca all’Italia, i sovrani
poterono revocare le concessioni e le costituzioni fatte al movimento
liberale, il re di Prussia Federico Guglielmo IV percorse, con questo testo
del 31 gennaio 1850, il cammino più conciliante della revisione rispetto alla
sua costituzione “octroyée” del 5 dicembre 1848. Le due camere esistenti
collaborarono a tale revisione, per cui gli storici hanno parlato di una
costituzione “pattizia”, per differenziarla rispetto al testo ottriato del 1848.
In ogni caso, è certo che la costituzione prussiana del 31 gennaio 1850
conclude la parabola del ’48 costituzionale. Ma la conclude in modo timido
: se per assetti politici interni il re di Prussia non volle arrivare ad una
rottura con l’elemento borghese, sicuramente vi è involuzione profonda
rispetto al testo redatto a Francoforte. Rimane certo un ambito ben
definito di libertà individuali, ma più nessuna traccia di indipendenza del
giudiziario, e il sistema di elezione della camera dei deputati (la camera alta
sarà composta unicamente da membri nominati dal re) rimane
rigorosamente censitario : gli elettori vengono divisi in tre categorie in base
al censo, ognuna delle quali potrà eleggere un corrispondente numero di
deputati. E’ il sistema elettorale “a tre classi” (“Dreiklassenwahlrecht”), che
ancora per un settantennio impedirà ai ceti medi, in Prussia, di pesare in
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modo decisivo nella vita politica.
9.
Una costituzione democratica : la costituzione della repubblica
romana del 3 luglio 1849
In precedenza, si è accennato agli eventi nello stato romano, culminati con
l’uccisione di Pellegrino Rossi il 15 novembre 1848 e con la fuga di papa
Pio IX da Roma verso Gaeta (in territorio del Regno delle Due Sicilie) il 24
seguente. Ciò segna ovviamente la fine dell’esperimento costituzionale a
guida liberal-moderata, e il subentrare di un vuoto di potere colmato dai
democratici. Una giunta provvisoria, nominata con il consenso delle due
camere elette e ancora operanti, decreta infatti la convocazione di
un’Assemblea nazionale, da eleggersi a suffragio universale (maschile),
oltreché diretto e segreto. La data delle elezioni è fissata al 21 gennaio 1849.
L’affluenza alle urne, in tutto lo stato Romano, fu elevata, e non potrà mai
sotolinearsi abbastanza l’importanza di questo evento: l’elezione a suffragio
universale di un’assemblea elettiva in Italia, veramente la prima in assoluto
nel suo genere! Si calcola che votarono più di 200 mila elettori, vale a dire
dieci volte tanti quanti ne andranno alle urne ventuno anni dopo per
decretare, con un plebiscito a suffragio ristretto, l’annessione di Roma e del
Lazio al Regno d’Italia! L’Assemblea si riunì per la prima volta il 5
febbraio 1849 e subito avocò a sé la piena sovranità decisionale in quanto
investita di mandato popolare. Il 9 febbraio 1849, essa votò a approvò a
grande maggioranza un “Decreto fondamentale” di soli quattro articoli, che
dichiarava il Papato “decaduto di fatto e di diritto” dal potere temporale,
accordava al Pontefice “tutte le guarentigie necessarie” per l’esercizio del
potere spirituale e infine proclamava la repubblica (articolo 3 : “La forma
del governo dello stato romano sarà la democrazia pura, e prenderà il
glorioso nome di repubblica Romana”). Incominciava così un esperimento
politico (e ovviamente giuridico) totalmente nuovo in Italia : né i soli
precedenti degni di menzione, quelli delle “repubbliche giacobine” e delle
“repubblica italiana”degli anni 1796-1802, sono tali da potervi essere
paragonati, in quanto sappiamo già che queste repubbliche non furono
sostenute da suffragio popolare, e vissero politicamente grazie alle armi
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francesi.
Il giorno successivo, 10 febbraio, l’Assemblea nomina un Comitato
esecutivo composto dall’Armellini, dal Montecchi e dal Saliceti. Tale
organo - che incarnava il potere esecutivo - sarà poi sostituito, con decreto
dell’Assemblea 29 marzo 1849, dal più famoso Triumvirato composto dal
Mazzini, dal Saffi e dall’Armellini, quando ormai si trattava di porre nelle
mani di un organo ristretto tutte le incombenze derivanti dalla necessità di
difendere la Repubblica contro gli eserciti di Francia, Austria, Napoli e
Spagna coalizzati per riportare Pio IX sul trono.
Non è questa la sede per ripercorrere le vicende dell’eroica ma sfortunata
difesa della Repubblica, che vide naturalmente Garibaldi tra i protagonisti
insieme a tanti altri patrioti, e che si concluse con l’ingresso delle truppe
francesi in Roma tra il 3 e il 4 luglio 1849. Ci soffermeremo piuttosto sul
documento giuridico che costituisce l’eredità di tale esperimento politico,
quella Costituzione della Repubblica romana la cui redazione fu subito tra le
prime cure dell’Assemblea e che, seppure non entrata in vigore, ispirerà
profondamente l’odierna costituzione repubblicana, talvolta perfino
sorpassandola per modernità.
Un primo progetto di costituzione fu presentato dal relatore deputato
Agostini il 17 aprile. Ne seguì un secondo, presentato al plenum
dell’Assemblea il 10 giugno da Aurelio Saliceti, e che si componeva di otto
principi fondamentali e 71 articoli. La vera discussione comincia quindi in
Assemblea il 10 giugno, e si protrae ininterrottamente e ad oltranza per tre
settimane. A non moltissimi chilometri di distanza, il cerchio stava
stringendosi sempre più su Roma assediata.
Esaminiamone in breve gli articoli centrali, più originali.
Gli otto principi fondamentali riaffermano, più in dettaglio, i postulati alla
base dell’esistenza e della sovranità della Repubblica che già furono oggetto
del Decreto fondamentale. Se il primo principio ribadisce la forma
repubblicana dello stato e il secondo si muove nel solco delle tradizione
francese menzionando che “il regime democratico ha per regola
l’uguaglianza, la libertà, la fraternità”, più accesa fu la discussione e più
difficile l’accordo sul terzo principio, dallo spiccato carattere sociale. Qui lo
“spettro” della “rivoluzione sociale” agitato l’anno precedente in Francia
non poteva non avere un’eco. E infatti il deputato bolognese Quirico
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Filopanti, vicino al Mazzini, aveva proposto un emendamento coraggioso e
socialmente avanzato: “La repubblica colle leggi, colle istituzioni, coll’educazione cura
il miglioramento delle condizioni morali e materiali di tutti i cittadini. La Repubblica
deve, secondo i limiti dé suoi mezzi, assicurare la sussistenza dei cittadini necessitosi,
procurando il lavoro a quelli che non hanno altro modo di procacciarsene, o fornendo
sussidi a coloro che non possono averne dalla loro famiglia e sono impotenti al lavorare”.
Filopanti dichiarò che non si trattava, con ciò , che di applicare il principio
di fratellanza, oggi diremmo di “solidarietà”.
L’emendamento Filopanti, tra sospetti di essere “comunista” e obiezioni
più tecniche secondo cui era ridondante, non passò, anzi non ottenne
nemmeno il minimo dei voti richiesto per essere messo ai voti. Si preferì, e
fu approvato, un testo a carattere più generale, che recitava “la Repubblica
colle leggi e colle istituzioni promuove il miglioramento delle condizioni morali e materiali
di tutti i cittadini”. E che tuttavia, pur se sfrondato di un poco del suo
accento sociale, conservava grande valore perché programmaticamente
impegnava comunque lo stato ad intervenire nel sociale e a svolgervi
un’azione di elevazione. Il terzo principio fondamentale – è stato notato
dallo storico Luigi Rodelli nella sua opera “la Repubblica romana del 1849”
si poneva nel solco non già della tradizione socialista, ma di quella
dell’Illuminismo giuridico, che serbava grande fiducia nel valore educativo e
sociale delle leggi. E’ poi necessario aggiungere che esso costituisce il
precedente naturale dell’articolo 3, secondo comma, della costituzione
italiana vigente?
Qualche discussione vi fu sul quinto principio, dedicato ai municipi. Ne
scaturì una formulazione riuscita ed originale, che doveva precorrere lo
sviluppo futuro delle autonomie locali. Si dispose che l’“indipendenza” dei
municipi non poteva essere limitata che “dalle leggi di utilità generale dello
stato” e si disse, avveniristicamente, che “gran parte delle istituzioni sociali (...) di
previdenza, di credito, d’asilo, d’istruzione tecnica, quelle che comprendono infine
l’immensa sfera della mutualità debbono trovare fondamento nel Municipio”.
Ma il dibattito sarà lungo e serrato, il 26 e il 27 giugno, soprattutto sul
settimo principio fondamentale, quello della religione, ed era ovvio, visto il
contesto politico della fuga del papa, della perdita del potere temporale e
del destino futuro dello Stato romano Il progetto Saliceti conteneva due
parti ben distinte, e recitava “la religione cattolica è la religione dello Stato. Dalla
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credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici”. Si trattava di
scegliere, pur in un contesto politicamente diverso, se allinearsi al modello
della “religione di stato” sancita da tutte le costituzioni italiane ottriate (ma
anche della costituzione siciliana, votata da un “generale Parlamento” il 10
luglio 1848) oppure percorrere una via diversa, più innovativa. I deputati
romani poi non ignoravano, oltretutto, che la recente costituzione francese
del 4 novembre 1848 nulla disponeva in materia di religione di stato.
Gli interventi, appassionati, si susseguirono dunque sulla prima frase. Uno
dei protagonisti fu indubbiamente Carlo Bonaparte, principe di Canino e
cugino del presidente (poi imperatore) francese : egli aveva in animo un
articolo che sancisse la separazione dei due ambiti, “lo spirituale di là e il
temporale di qua”, come ebbe a dire. Per questo, si opporrà tanto all’idea di
religione di stato che a coloro i quali proporranno un’aperta dichiarazione
di “libertà di culto”, come infine farà lo stesso Saliceti. Ed indubbiamente –
al principe di Canino tale fatto non era sfuggito – se da un lato era
improponibile, in una repubblica, riproporre un principio intrinsecamente
legato al legittimismo dinastico e all’alleanza trono-altare, d’altra parte però
dichiarare apertamente che “il culto è libero” a Roma, sede del
cattolicesimo, avrebbe potuto urtare suscettibilità e risultare tutto sommato
inopportuno. Per questo, il 27 giugno, respinto ogni altro emendamento
(come quello che recitava “la religione cattolica è la religione della gran
maggioranza dei cittadini”), Bonaparte riaffermerà la sua fede in un
disposto breve, che sancisse, nei fatti, il principio di separazione tra stato e
chiesa preoccupandosi nel contempo dell’eguaglianza dei cittadini : “quando
abbiamo nella nostra Costituzione stabilito, che i diritti dei cittadini non sono limitati
dalla credenza religiosa, abbiamo adempito al nostro dovere (...) Ogni altra dichiarazione
è soverchia, ogni altra proclamazione è dannosa”. Bocciato il principio di religione
di stato in sede di votazione, verrà quindi approvato in via definitiva un
settimo principio fondamentale che salvava unicamente la seconda frase del
progetto Saliceti e che sanciva sinteticamente quanto voluto dal Bonaparte :
“dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici”.
E’ stato notato (A.Grilli) che tale articolo prevalse in quanto, al di là di ogni
più complicata o altisonante affermazione, univa la chiarezza dei principi e
la praticità tecnico-giuridica in termini, come si è detto, di eguaglianza tra i
cittadini di fronte alla religione. In ogni caso, si deve rilevare che per la
prima volta, in una costituzione italiana votata e prodotta per iniziativa di
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italiani, si affermava il principio di libertà religiosa.
E’ non si può neppure omettere di rilevare quanto tale disposizione sia
moderna e “progressista” nella sua concisa affermazione di libertà, se
comparata con il “simmetrico” articolo 7 della vigente costituzione italiana,
in cui la “religione cattolica” torna a far capolino, sia pure come religione
“concordataria”.
Rapidamente fu votato, infine, per ovvie ragioni politiche, un ottavo
principio fondamentale che concedeva al papa tutte le necessarie garanzie
“per l’esercizio indipendente del potere spirituale”.
Per quanto attiene all’articolato della costituzione che segue gli otto principi
fondamentali, esso ha una ripartizione chiara e semplice in un titolo primo
sui “diritti e doveri dei cittadini” e nei titoli da II a VIII consacrati
all’ordinamento dello stato. Anche in questo, ovviamente, la costituzione
romana è servita da modello alla costituzione italiana vigente.
Tra i “diritti e i doveri”, non mancano soluzioni originali e avanzate : così,
secondo l’articolo 4, “nessuno può essere carcerato per debiti” (nessun’altra
costituzione europea dell’epoca era arrivata a tanto, e nel Regno d’Italia
l’arresto per debiti, accolto nel Codice civile del 1865, sarà abolito solo nel
1877), e, con evidente modello anche per la costituzione vigente, si sancisce
il principio del “giudice naturale” e dell’inammissibilità di tribunali speciali
(“nessuna corte o commissione eccezionale può istituirsi sotto qualsivoglia titolo o nome”).
La “pena di morte” era abolita, insieme con la “confisca” (una disposizione
analoga si trova nella costituzione di Francoforte ; la francese del novembre
1848 si limitava all’abolizione per reati politici). La censura preventiva
(anche ecclesiastica) era proscritta nel momento stesso in cui si dichiarava
totalmente libera la manifestazione del pensiero (art.7 ) e, con grande
coraggio di laicità in una Roma in cui l’istruzione era ovviamente ancora
controllata dalla chiesa, si proclamava libero anche l’insegnamento (art.8).
Quanto all’ordinamento dello stato, la netta impressione che se ne ricava è
che la costituzione romana abbia voluto disegnare e definire una forma di
governo a forte coloritura assembleare. Tre sono gli organi che esrecitano i
poteri scaturenti (secondo i termini dell’articolo 15) dal popolo:
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l’Assemblea, il Consolato e i ministri, l’Ordine Giudiziario. E notiamo
subito che la costituzione dà a questo parlamento monocamerale,
sull’esempio francese, un potere sovrano di autoorganizzazione, giacché “è
indissolubile e permanente, salvo il diritto di aggiornarsi (...)”, nonché la
competenza a decidere della pace, della guerra, dei trattati; sappiamo invece
che nelle costituzioni ottriate, e in quella francese, le assemblee possono
essere sciolte dal potere esecutivo, il quale detiene anche poteri di guerra e
di pace. Lo stesso fatto che si disegni un capo dell’esecutivo collegiale di
tre elementi quale appunto il Consolato (nel quale ovviamente avrebbe
dovuto poi trasfondersi l’azione dei triumviri) evidenzia il timore
dell’Assemblea di esecutivi “alla francese”, vale a dire divenuti troppo
invadenti ai loro occhi ; non si dimentichi che era su ordine di un presidente
francese che un corpo di spedizione aveva assalito Roma!
Non dissimilmente, la costituzione italiana vigente, memore di un’altra
esperienza autoritaria più recente, manifesterà anch’essa evidenti diffidenze
verso un primo ministro “forte”: e se non lo scinderà in tre “parti”, esiterà
comunque a dargli una posizione nettamente sovraordinata rispetto a quella
dei ministri.
L’art.43 della Costituzione romana, col dichiarare che “i consoli e i ministri
sono responsabili” sembrerebbe in apparenza fondare un rapporto
fiduciario con l’Assemblea depositaria unica del mandato popolare in
repubblica. Tuttavia, la nomina e revoca dei ministri è compiuta ad opera
dei soli Consoli in consiglio dei ministri (artt. 37 e 38), cosicché ne risulta
un quadro ancora ambiguo, che in definitiva è “figlio del suo tempo”, in
quanto in quegli anni il moderno parlamentarismo era ancora agli albori.
Comunque stiano le cose, è evidente la superiorità manifesta dei Consoli sui
ministri.
Infine, il titolo VI, sul potere giudiziario, accorda ai magistrati una pienezza
di funzioni e una autonomia tali da fondare, senza ombra di dubbio, un
“terzo potere” indipendente da legislativo ed esecutivo. Già l’articolo 49, il
primo della serie, slega l’attività e la funzione giudiziaria nel suo insieme da
ogni ipoteca dell’esecutivo affermando che “i Giudici nell’esercizio delle loro
funzioni non dipendono da alcun altro potere dello Stato”. Quanto ai singoli
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magistrati, il cui atto di nomina formalmente spettava all’esecutivo “in
Consiglio dei Ministri”, l’articolo 50, precorrendo la costituzione italiana
attuale e saltando d’un balzo tutte le costituzioni ottriate, ne dispone
l’inamovibilità tout court. Ricordiamo a tal proposito che lo Statuto albertino
garantiva tale inamovibilità solo dopo tre anni di esercizio, e comunque non
ai giudici di mandamento (art.69), il livello di base della magistratura. Era
poi disposta la pubblicità delle udienze salvo “casi di moralità” (art. 52),
l’istituzione delle giurie come “giudici del fatto” nelle cause criminali, ferma
restando in capo ai magistrati “l”applicazione della legge” (art.53) e infine la
creazione di un “tribunale supremo di giustizia” composto in maggioranza
da magistrati e competente a giudicare sulle accuse contro i membri
dell’esecutivo (art.55). Si noti che nelle costituzioni ottriate, monarchiche,
tale potere giudicante era appannaggio della camera alta, ovviamente più
incline a considerare aspetti di opportunità politica. Qui esso è per la prima
volta affidato a tecnici del diritto, ennesima prova del disegno di
indipendenza della magistratura voluto dai costituenti romani.
Infine, la revisione costituzionale : essa (art. 69) è legata ad una procedura
ad hoc mediante doppia votazione ad intervallo di due mesi, il che prova
chiaramente l’intenzione di dare alla costituzione romana carattere di
rigidità (contrariamente a ciò che avveniva per lo Statuto albertino, muto sul
tema). Inutile dire che tale procedure ha costituito un importante
precedente per la costituzione vigente, la cui procedura di revisione
costituzionale, come sappiamo, è simile.
Qualche considerazione finale? Ovviamente, colpisce la modernità del
testo, redatto da un’assemblea eletta (ripetiamo il dato fondamentale) a
suffragio universale e che certo precorre i tempi. Comunque essa, senza
dubbio la più avanzata delle costituzioni italiane del suo tempo, fu oggetto
di puntigliosi e appassionati dibattiti, quasi dovesse restare in vigore per
anni mentre la causa repubblicana, nel momento dell’approvazione
definitiva, era persa, e Garibaldi lasciava Roma nel tentativo di raggiungere
Venezia. Segno evidente che i costituenti desiderarono fortemente lasciare
una testimonianza del loro operato ai posteri!
Riproduciamo qui di seguito, quale utile confronto con il testo dello Statuto
albertino, quello della costituzione della Repubblica romana del 1849 :
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PRINCIPI FONDAMENTALI
ART 1 - La sovranità è per diritto eterno nel popolo. Il popolo dello Stato Romano è costituito in repubblica democratica.
ART 2 - II regime democratico ha per regola l’eguaglianza, la libert, la fraternit. Non riconosce titoli di nobilt, n privilegi di nascita o
di casta.
ART 3 - La Repubblica con le leggi e con le istituzioni promuove il miglioramento delle condizioni morali e materiali di tutti i
cittadini.
ART 4 - La Repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli, rispetta ogni nazionalità, propugna l’italianità.
ART 5 - I Municipi hanno tutti uguali diritti. La loro indipendenza non è limitata che dalle leggi di utilità generale dello stato.
ART 6 - La più equa distribuzione possibile degli interessi locali, in armonia con l’interesse politico dello stato, è la norma del
riparto territoriale della Repubblica.
ART 7 - Dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici.
ART 8 - Il Capo della Chiesa Cattolica avrà dalla Repubblica tutte le guarentigie necessarie per l’esercizio indipendente del potere
spirituale.
TITOLO I
DEI DIRITTI E DEI DOVERI DEI CITTADINI
ART 1 - Sono cittadini della Repubblica:
– gli originari della Repubblica;
– coloro che hanno acquistato la cittadinanza per effetto
delle leggi precedenti;
– gli italiani col domicilio di sei mesi;
– gli stranieri col domicilio di dieci anni;
– i naturalizzati con decreto del potere legislativo.
ART 2 - Si perde la cittadinanza:
– per naturalizzazione o per dimora in paese straniero con animo di non più tornare;
– per l’abbandono della patria in caso di guerra, o quando è dichiarata in pericolo;
– per accettazione di titoli conferiti dallo straniero;
– per accettazione di gradi o cariche e per servizio militare presso lo straniero, senza autorizzazione del Governo della Repubblica;
l’autorizzazione è sempre presunta quando si combatte per la libertà di un popolo;
– per condanna giudiziale.
ART 3 - Le persone e le proprietà sono inviolabili.
ART 4 - Nessuno puo’ essere arrestato che in flagrante delitto, o per mandato di giudici; n essere distolto dai suoi giudici naturali.
Nessuna corte o commissione eccezionale può istituirsi sotto qualsivoglia titolo o nome. Nessuno può essere carcerato per debiti.
ART 5 - Le pene di morte o di confisca sono proscritte.
ART 6 - Il domicilio è sacro; non è permesso entrarvi che nei casi e nei modi determinati dalla legge.
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ART 7 -
La manifestazione del pensiero è libera; la legge ne punisce l’abuso senza alcuna censura preventiva.
ART 8 - L’insegnamento è libero. Le condizioni di moralità e capacità, per chi intende professarlo, sono determinate dalla legge.
ART 9 - Il segreto delle lettere è inviolabile.
ART 10 - Il diritto di petizione può esercitarsi individualmente o collettivamente.
ART 11 - L’associazione senza armi e senza scopo di delitto è libera.
ART 12 - Tutti i cittadini appartengono alla Guardia Nazionale nei modi e con le eccezioni fissate dalla legge.
ART 13 - Nessuno può essere costretto a perdere la proprietà delle cose, se non per causa pubblica, previa giusta indennità.
ART 14 - La legge determina le spese della Repubblica e il modo di contribuirvi. Nessuna tassa può essere imposta se non per legge,
ne percetta per tempo maggiore di quello dalla legge determinato.
TITOLO II
DELL’ ORDINAMENTO POLITICO
ART 15 - Ogni potere viene dal popolo. Si esercita dall’Assemblea, dal Consolato, dall’Ordine Giudiziario.
TITOLO III
DELL’ ASSEMBLEA
ART 16 - L’Assemblea è costituita dai rappresentanti del popolo.
ART 17 - Ogni cittadino, che gode i diritti civili e politici, a 21 anni è elettore, a 25 è eleggibile.
ART 18 - Non può essere rappresentante del popolo un pubblico funzionario nominato dai consoli o dai ministri.
ART 19 - Il numero dei rappresentanti è determinato in proporzione di uno ogni ventimila abitanti.
ART 20 - I comizi generali si radunano ogni 3 anni, il 21 Aprile. Il popolo vi elegge i suoi rappresentanti con voto universale, diretto
e pubblico.
ART 21 - L’Assemblea si riunisce il 15 Maggio successivamente alla elezione. Si rinnova ogni 3 anni.
ART 22
- L’Assemblea si riunisce in Roma, ove non determini altrimenti, e dispone della forza armata di cui crederà aver bisogno.
ART 23 - L’Assemblea è indissolubile e permanente, salvo il diritto di aggiornarsi per quel tempo che crederà. Nell’intervallo può
essere convocata d’urgenza sull’invito del presidente coi segretari, di trenta membri, o del Consolato.
ART 24 - L’Assemblea non è legale se non riunisce la metà più uno dei rappresentanti. Il numero qualunque dei presenti decreta i
provvedimenti per richiamare gli assenti.
ART 25
- Le sedute dell’Assemblea sono pubbliche. Può costituirsi in comitato segreto.
ART 26 - I rappresentanti del popolo sono inviolabili per le loro opinioni emesse nell’Assemblea, restando interdetta qualunque
inquisizione.
ART 27 - Ogni arresto o inquisizione contro un rappresentante è vietato, senza il permesso dell’Assemblea, salvo il caso di delitto
flagrante. Nel caso dell’arresto in flagranza di delitto, l’Assemblea, che ne sarà immediatamente informata, determina la
continuazione o la cessazione del processo. Questa disposizione si applica nel caso in cui un cittadino carcerato sia nominato
rappresentante.
ART 28
- Ciascun rappresentante del popolo riceve un indennizzo, cui non può rinunciare.
ART 29 - L’Assemblea ha il potere legislativo: decide della pace, della guerra, dei trattati.
ART 30
- La proposta sulle leggi appartiene ai rappresentanti del Consolato.
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ART 31 - Nessuna proposta ha forza di legge, se non dopo adottata, con due deliberazioni prese all’intervallo non minore di otto
giorni, salvo all’Assemblea abbreviarlo in caso d’urgenza.
ART 32 - Le leggi adottate dall’Assemblea vengono senza ritardo promulgate dal Consolato in nome di Dio e del Popolo. Se il
Consolato indugia, il Presidente dell’Assemblea fa la promulgazione.
TITOLO IV
DEL CONSOLATO E DEL MINISTERO
ART 33 - Tre sono i consoli. Vengono nominati da11’Assemblea a maggioranza di due terzi di suffragi. Debbono essere cittadini
della Repubblica, e dell’età di 30 anni compiuti.
ART 34 - L’ufficio dei Consoli dura tre anni. Ogni anno uno dei Consoli esce d’ufficio. Le prime due volte decide la sorte fra i primi
tre eletti. Nessun console può essere rieletto se non dopo tre anni dacché uscì di carica.
ART 35 - Vi sono sette Ministri di nomina del Consolato; 1° degli Affari Interni; 2° degli Affari Esteri; 3° di Guerra e Marina; 4°
di Finanza; 5° di Grazia e Giustizia; 6° di Agricoltura, Commercio, Industria e Lavori Pubblici; 7° del Culto, Istruzione Pubblica,
Belle Arti e Beneficenza.
ART 36 - Ai Consoli sono commesse l’esecuzione delle leggi e le relazioni internazionali
ART 37 - Ai Consoli spetta la nomina e la revocazione di quegli impieghi che la legge non riserva ad altra autorità; ma ogni nomina
o revoca deve essere fatta in Consiglio dei Ministri
ART 38 - Gli atti dei Consoli, finché non siano contrassegnati dal Ministro incaricato dell’esecuzione, restano senza effetto. Basta la
sola firma dei Consili per la nomina e la revoca dei Ministri
ART 39 - Ogni anno, ed a qualunque dell’Assemblea, i Consoli espongono lo stato degli affari della Repubblica
ART 40 - I Ministri hanno il diritto di parlare all’Assemblea sugli affari che li riguardano.
ART 41 - I Consoli risiedono nel loco ove si convoca l’Assemblea, ne possono uscire dal territorio della Repubblica senza una
risoluzione dell’Assemblea, sotto pena di decadenza.
ART 42 - Sono alloggiati a spese della Repubblica, e ciascuno riceve un appuntamento di scudi 3.600 all’anno
ART 43
- I Consoli ed i Ministri sono responsabili.
ART 44 - I Consoli ed i Ministri possono essere posti in stato d’accusa dall’Assemblea su proposta di dieci rappresentanti. La
domanda deve essere discussa come legge.
ART 45 - Ammessa l’accusa, il Console è sospeso dalle sue funzioni, se assolto, ritorna all’esercizio delle sue funzioni, se
condannato, l’Assemblea passa a nuova elezione.
TITOLO V
DEL CONSIGLIO DI STATO
ART 46 - Vi è un Consiglio di Stato composto di quindici Consiglieri nominati dall’Assemblea.
ART 47 - Esso deve essere consultato dai Consoli e dai Ministri sulle leggi da proporsi, sui regolamenti e sulle ordinanze esecutive;
può esserlo sulle relazioni politiche.
ART 48 - Esso emana quei regolamenti pei quali l’Assemblea gli ha dato una speciale delega. Le altre funzioni sono determinate da
una legge particolare.
TITOLO VI
DEL POTERE GIUDIZIARIO
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ART 49 - I Giudici nell’esercizio delle loro funzioni non dipendono da alcun altro potere dello Stato.
ART 50 - Nominati dai Consoli ed in Consiglio dei Ministri, sono inamovibili; non possono essere promossi, né traslocati che con
proprio consenso, né sospesi, degradati o destituiti se non dopo regolare procedura e sentenza.
ART 51 - Per le contese civili vi è una magistratura di pace.
ART 52 - La giustizia è amministrata in nome del popolo, pubblicamente; ma il tribunale, a causa di moralità, può ordinare che la
discussione sia fatta a porte chiuse.
ART 53 - Nelle cause criminali, al popolo appartiene il giudizio del fatto, ai tribunali l’applicazione della legge. La istituzione dei
giudici del fatto è determinata da legge relativa.
ART 54 - Vi è un Pubblico Ministero presso i tribunali della Repubblica.
ART 55 - Un Tribunale supremo di giustizia giudica, senza che siavi luogo a gravame, i Consoli ed i Ministri messi in stato d’accusa.
Il tribunale supremo si compone del presidente, di quattro giudici più anziani della cassazione, e di giudici del fatto tratti a sorte dalle
liste annuali, tre per ciascuna provincia. L’Assemblea designa il magistrato che deve esercitare la funzione di Pubblico Ministero
presso il Tribunale supremo. E’ d’uopo della maggioranza di due terzi di suffragi per la condanna.
TITOLO VII
DELLA FORZA PUBBLICA
ART 56 - L’ammontare della forza stipendiata di terra e di mare è determinato da una legge, e solo per una legge può essere
aumentato o diminuito.
ART 57
- L’esercito si forma per arruolamento volontario e nel modo che la legge determina.
ART 58 - Nessuna truppa straniera può essere assoldata, né introdotta nel territorio della Repubblica, senza decreto dell’Assemblea.
ART 59 - I Generali sono nominati dall’Assemblea sulla proposta del Consolato.
ART 60 - La distribuzione dei corpi di linea e la forza delle interne guarnigioni sono determinate dall’Assemblea, né possono subire
variazioni o traslocamento, anche momentaneo, senza il di lei consenso.
ART 61 - Nella Guardia Nazionale ogni grado è conferito per elezione.
ART 62
- Alla Guardia Nazionale è affidato principalmente il mantenimento dell’ordine interno e della Costituzione.
TITOLO VIII
DELLA REVISIONE DELLA COSTITUZIONE
ART 63 - Qualunque riforma di costituzione può essere solo domandata nell’ultimo anno di legislatura da un terzo dei rappresentanti.
ART 64 - L’Assemblea delibera per due volte sulla domanda con l’intervallo di due mesi. Opinando l’Assemblea per la riforma alla
maggioranza di due terzi, vengono convocati i comizi generali onde eleggere i rappresentanti per la Costituente, in ragione di uno
ogni quindicimila abitanti.
ART 65 - L’Assemblea di revisione è ancora Assemblea Legislativa per tutto il tempo in cui siede, da non eccedere i tre mesi.
DISPOSIZIONI TRANSITORIE
ART 66 - Le operazioni della Costituente attuale saranno specialmente dirette alla formazione della legge elettorale e delle altre
leggi organiche necessarie all’attuazione della Costituzione.
ART 67 - Con l’apertura dell’Assemblea Legislativa cessa il mandato della Costituente.
ART 68 - Le leggi e i regolamenti esistenti saranno in vigore in quanto non si oppongono alla Costituzione, e finché non saranno
abrogati.
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ART 69 - Tutti gli attuali impiegati hanno bisogno di conferma.
10.
L’applicazione dello statuto albertino nel Regno di Sardegna
Lo Statuto non diceva tutto della vita associata, contrariamente alla
Costituzione del II dopoguerra, che tende ad essere autosufficiente.
All’ombra dello Statuto nacquero e morirono moltissime leggi, in base alle
prevalenti esigenze del momento.
Col tempo varie leggi e consuetudini integrarono lo Statuto. Ad esempio,
esso non disciplinava il rapporto di fiducia tra governo e Camere, anche se
quella dei deputati ebbe subito il primato nel designare i ministri
(consuetudine?). O per consuetudine o per tacito assenso, si convenne che
la ‘monarchia rappresentativa’ di cui parlava lo Statuto fosse una ‘monarchia
parlamentare’. L’art. 67 diceva che erano responsabili i ministri, ma non
precisava nei confronti di chi, per cui si fece valere quanto consolidatosi
nell’esperienza francese e belga. Per il resto era l’esperienza inglese che si
prendeva a modello. Infatti già i ministri redattori dello Statuto (Giacinto
Borelli ed altri) si dimisero appena approvato, perché era "mutato il regime
politico", e perciò il Re doveva operare con nuovi ministri; così il Governo
fu affidato al moderato Cesare Balbo.
Le elezioni si tennero col sistema uninominale e l’8 maggio iniziò l’attività del
Parlamento. Subito dopo, sulla questione dell’unione con la Lombardia il
Governo finì in minoranza davanti alla Camera, per cui un ministro andò
dal Re per presentare le dimissioni. Nel 1848 si ebbero subito due crisi, una
parlamentare ed una extraparlamentare! Già a fine anno la prassi del voto di
fiducia divenne costante, con una significativa evoluzione della costituzione,
e il nuovo capo del Governo Gioberti chiese al Re nuove elezioni - erano
passati appena sei mesi dalle precedenti! Gioberti venne sostituito e il
Governo ottenne la sospensione delle garanzie costituzionali per tutta la durata
delle ostilità. Con l’armistizio di Vignale si giunse all’abdicazione di Carlo
Alberto.
Vittorio Emanuele (al governo con il generale De Launay, un reazionario)
fu rifiutato dalla Camera, che non voleva l’esecuzione dell’armistizio. Il Re
comparve alla Camera e giurò di adempiere ai suoi doveri con l’aiuto della
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Provvidenza e la cooperazione del Parlamento. Le nuove elezioni videro la
vittoria ‘democratica’, con un’astensione di oltre il 60% dei moderati. La
nuova Camera (la terza in un anno) rifiutò di approvare il trattato di pace
con l’Austria. La maggioranza non volle dare la fiducia al governo per non
dover eseguire il trattato di pace. Perciò presto ci fu un nuovo scioglimento
della Camera per nuove elezioni: il Re nel proclama di Moncalieri (20
novembre ’49) sostenne che la Camera precedente aveva violato
l’indipendenza dei poteri, e condannò la tirannia dei partiti, facendo capire
che aveva bisogno dell’aiuto dei parlamentari altrimenti...
Secondo alcuni storici si ebbe un colpo di Stato, perché il Re avrebbe
usurpato poteri che non gli competevano più in esclusiva (si era ormai in un
regime parlamentare), per cui con la sua minaccia il Re avrebbe compresso i
diritti del Parlamento e alterato le vicende successive (abuso della corona). Ma
Vittorio Emanuele aveva dato la sua parola agli Austriaci e il "Re
galantuomo" aveva ottenuto patti onorevoli. Quindi aveva violato
l’ordinamento, ma poteva giovarsi della scriminante dello stato di necessità.
Le elezioni videro un massiccio intervento del governo e un risultato
scontato a suo favore, ma anche Cavour con il giornale “Risorgimento” vi
ebbe un ruolo importante. Anche la nuova Camera non ebbe vita tranquilla,
con un D’Azeglio "mangiapreti" che emanò provvedimenti discussi, come
l’introduzione del matrimonio civile (si sancì come invalido il matrimonio
tridentino!). Nel ’52 il Re reagì sostenendo che la sua coscienza non gli
avrebbe permesso di sanzionare tale legge: nuova crisi extraparlamentare.
Nel ’55 di nuovo crisi, quando un vescovo tentò un compromesso tra
Savoia e Santa Sede: fu sconfessato dal Governo e dalla Camera! Il Re per
merito di Cavour dovette sanzionare delle leggi che aborriva e si convinse
che non poteva andare contro la Camera e il Governo.
Il regime divenne sempre più chiaramente parlamentare e incentrato sul
Governo: ossia non più solo sui singoli ministri, ma sul collegio in quanto
tale che delibera: del resto già nel marzo ’48 Cesare Balbo era stato indicato
nella risoluzione sovrana come "Presidente del Consiglio dei ministri". Ma solo in
un regolamento del 1850 si parlò di materie che non potevano venir decise
che dal Consiglio dei ministri. Comunque, si continuava a dire che i ministri
erano tutti uguali tra di loro e che solo per comodità, quando non c’era il Re,
si aveva la presidenza di un ministro. Il prestigio personale fu sufficiente a
Cavour fino al 1861 (anno della sua morte) per parare sconfinamenti del Re
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o di altri membri del Governo dallo Statuto.
Molto importante fu il potere del Governo di emanare norme giuridiche
per decreto. Un decreto del ’50 dello stesso Governo dispose che esso stesso
(!) potesse legiferare su ordine pubblico, alta amministrazione, trattati internazionali,
conflitti di attribuzioni tra ministri, proposte di nomina di arcivescovi e vescovi, alti
magistrati, senatori, conferimento nobiltà etc.
In sostanza, il potere del Governo abbracciava tutti gli atti del Re, ma
taluno ritenne che ne fossero eccettuati gli atti del potere moderatore, ossia
il c.d. potere di prerogativa (sottinteso ‘sovrana’), come ad es. di convocazione,
proroga e scioglimento delle Camere, grazia e amnistia. Ma si diceva:
qualcuno ne dovrà pur rispondere, per cui si sostenne che tali atti li
dovessero controfirmare i suoi ministri.
Inoltre c’erano i regolamenti di esecuzione di leggi e di disciplina dell’attività
amministrativa. Il Parlamento per di più delegò al Governo l’emanazione di
norme nelle materie che lo Statuto riservava ad esso (Parlamento), cioè in
materia tributaria e penale.
Nel ’48, durante la guerra, il Governo (e non il Re come era stato richiesto)
fu destinatario di tutti i poteri per fare gli atti necessari per la difesa della
patria e delle istituzioni, comprese l’emanazione di norme limitatrici della libertà
di stampa e individuale. Nel ’59 il Re fu delegato ad esercitare poteri esecutivi e
legislativi. Il Governo fece ampio uso di delega per le leggi sui Comuni e
sulle Province, per la legge elettorale e sulla scuola.
In più sovrano e ministri, necessitate cogente (spinti dalla necessità),
emisero decreti di stato d’assedio, non previsto dallo Statuto, ma mutuato
dall’esperienza francese. Con ciò intere aree del Paese furono sottoposte al
diritto pubblico militare, sollevando inutili proteste da parte dei deputati
delle zone interessate (brigantaggio nel Sud). Il Governo otteneva sempre
una sanatoria per gli abusi commessi. Il capo del Governo era anche il capo
della maggioranza parlamentare, senza tuttavia che la legge lo richiedesse.
Il sistema uninominale era adombrato dall’art. 39, ove si parlava di Camera
con deputati scelti dai collegi elettorali e altrove per successione ai deputati
morti. Lo Statuto rinviava alla legge elettorale, che stabilì censo e capacità per
gli iscritti nelle liste elettorali. I requisiti prevedevano un certo censo,
inferiore per Liguria e Sardegna; erano inclusi nelle liste i direttori di
fabbriche con più di 20 operai, capitani marittimi, membri di accademie,
magistrati inamovibili, pensionati con certa pensione annua, laureati, notai e
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causidici. Non potevano essere eletti gli ecclesiastici con cura d’anime, certi
magistrati e funzionari nel loro distretto etc.
Il censo era già requisito richiesto per eleggere gli inviati agli "stati" in
passato. L’esclusione dei non abbienti era allora motivata col fatto che non
dovevano pagare sussidi al sovrano. I deputati ammontavano a 204, scelti
come allora (e ancora oggi) in Inghilterra, uno per collegio, in modo da poterli
conoscere meglio. La legge elettorale fu detta “sacra”, ritenendosi che
modificarla significava violare la base della Costituzione. Nel ’59 fu tuttavia
modificata, approfittando dei pieni poteri: si tolse agli analfabeti (pur
contribuenti) il potere di voto, ma la svalutazione e una maggiore pressione
tributaria portò ad ampliare il numero degli aventi diritto di voto. I Deputati
passarono da 204 a 260, ma fu limitato il numero di magistrati e docenti eleggibili.
Certe categorie per il loro grado di istruzione si presumevano competenti.
Fu criticato che il diritto di voto fosse ritenuto ‘franchigia’ o concessione
sovrana. I partiti organizzati non c’erano, ma i gruppi di potere e il
Governo, a cominciare da Cavour, non si astennero dall’intervenire in vari
modi (con circolari ai prefetti indicavano i candidati preferiti!) nelle elezioni
organizzate localmente da comitati di notabili. Cavour replicò alle critiche
dicendo che ci si doveva sì astenere da violenze e corruzione, ma che tutto
il resto era lecito.
I primi anni furono assorbiti dal problema dell’unità, che fece passare in
secondo ordine i problemi costituzionali, anche per lo stato di necessità e la
modesta partecipazione popolare alla politica e lo scarso lavoro dei
parlamentari. Alcuni problemi seri furono risolti con leggi che venivano
estese ai territori che si annettevano con regi decreti, dopo suffragi universali
locali favorevoli all’annessione.
Insomma in pochi anni da una costituzione dualistica - basata sul re e il
parlamento rappresentativo del Paese - configurante una monarchia
‘costituzionale pura’, si era passati ad una monarchia di tipo ‘parlamentare’,
con il primato della rappresentanza: qualcuno sostiene che da allora il
sistema fu monista, in quanto basato su una rappresentanza espressione di
una sola classe, quella abbiente, borghese-nobiliare.
11.
Gli interventi legislativi nei vari settori: la politica ecclesiastica
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La politica ecclesiastica continuò sulla falsariga di quella dei sovrani
settecenteschi, e cioè si configurò come giurisdizionalistica. Le esigenze
dell’Unità vollero che si sopprimesse lo Stato pontificio (1870), per cui i
cattolici ed il clero si irrigidirono nelle loro posizioni, provocando a loro
volta un irrigidimento di quelle dei laici. Un documento importante per
esprimere il tipo di cultura ancora prevalente allora tra gli ecclesiastici,
anche per reazione a leggi come quelle Siccardi, è il Sillabo, ossia la raccolta
delle proposizioni ritenute ‘erronee’ dalla Chiesa e che furono condannate
dal papa con una bolla del 1864: esso è una specie di condanna globale del
mondo "moderno".
IL SILLABO DI PIO IX: 80 PROPOSIZIONI
CON I “PRINCIPALI ERRORI DELL’ETA’ MODERNA”
[I] PANTEISMO, NATURALISMO E RAZIONALISMO ASSOLUTO.
[Sono condannate 7 proposizioni].
[II] RAZIONALISMO MODERATO.
[Sono condannate 14 proposizioni].
[III] INDIFFERENTISMO E LATITUDINARISMO.
XV. È libero a ciascun uomo di abbracciare e professare quella religione che con la scorta del lume della ragione avrà reputato essere vera.
[Sono condannate altre 3 proposizioni].
[IV] SOCIALISMO, COMUNISMO, SOCIETÀ SEGRETE, SOCIETÀ CLERICO-LIBERALI. Cotali pestilenze spesso e con gravissime
espressioni sono riprovate [in varie Encicliche e Allocuzioni].
[V] ERRORI SULLA CHIESA E I SUOI DIRITTI.
XIX. La Chiesa non è una vera e perfetta società, pienamente libera, né è fornita di suoi propri e costanti diritti, conferitili dal suo Divino
fondatore, ma tocca alla potestà civile definire quali siano i diritti della Chiesa e i limiti tra i quali possa esercitare i detti diritti.
XX. La potestà ecclesiastica non deve esercitare la sua autorità senza licenza e consentimento del governo civile.
XXI. La Chiesa non ha potestà di definire dommaticamente che la religione della Chiesa cattolica sia l’unica vera religione.
XXII. L’obbligazione che al tutto vincola i maestri e gli scrittori cattolici si riduce a quelle cose solamente che dall’infallibile giudizio della
Chiesa sono proposte a credersi da tutti siccome dommi di fede.
XXIII. I Romani Pontefici e i Concilii ecumenici si scostarono dai limiti delle loro potestà, usurparono i diritti dei principi ed anche in definire
cose di fede errarono.
XXIV. La Chiesa non ha potestà di usare la forza né alcuna temporale potestà diretta o indiretta.
XXV. Oltre alla potestà inerente all’episcopato, ve n’è un’altra temporale che è stata ad esso conceduta o espressamente o tacitamente dal civile
impero, il quale per conseguenza la può revocare quando vuole.
XXVI. La Chiesa non ha connaturale e legittimo diritto di acquistare e di possedere.
XXVII. I sacri ministri della Chiesa e il Romano Pontefice debbono essere affatto esclusi da ogni cura e da ogni dominio di cose temporali.
XXVIII. Ai Vescovi, senza il permesso del governo, non è lecito neanche di promulgare le Lettere Apostoliche.
XXIX. Le grazie concedute dal Romano Pontefice si debbono stimare irrite, quando non sono state implorate per mezzo del Governo.
XXX. L’immunità della Chiesa e delle persone ecclesiastiche ebbe origine dal diritto civile.
XXXI. Il foro ecclesiastico per le cause temporali de’ chierici, sieno esse civili o criminali, dev’essere assolutamente abolito, anche senza
consultare la Sede Apostolica e nonostante che essa reclami.
XXXII. Senza violazione alcuna del natural diritto e della equità si può abrogare l’immunità personale in forza della quale i chierici sono esenti
dalla leva e dal servizio della milizia; e tale abrogazione è voluta dal civile progresso, specialmente in quelle società le cui costituzioni sono
secondo la forma di più libero governo.
XXXIII. Non appartiene unicamente alla ecclesiastica potestà di giurisdizione, qual diritto proprio e connaturale, il dirigere l’insegnamento della
teologia.
XXXIV. La dottrina di coloro che paragonarono il Romano Pontefice a un Principe libero che esercita la sua azione in tutta la Chiesa è una
dottrina la quale prevalse nel medio-evo.
XXXV. Niente divieta che per sentenza di qualche Concilio generale, o per opera di tutti i popoli, il sommo Pontificato si trasferisca dal Vescovo
Romano e da Roma ad un altro Vescovo e ad un’altra città.
XXXVI. La definizione di un Concilio nazionale non si può sottoporre a verun esame, e la civile amministrazione può tener cotali definizioni
come norma irretrattabile di operare.
XXXVII. Si possono istituire Chiese nazionali non soggette all’autorità del Romano Pontefice, e del tutto separate.
XXXVIII. Gli arbitrii eccessivi de’ Romani Pontefici contribuirono alla divisione della Chiesa in quella di Oriente e in quella di Occidente.
[VI] ERRORI CHE RIGUARDANO LA SOCIETÀ CIVILE CONSIDERATA COSÌ IN SÉ COME NELLE SUE RELAZIONI COLLA
CHIESA.
XXXIX. Lo Stato, come quello che è origine e fonte di tutti i diritti, gode un certo suo diritto del tutto illimitato.
XL. La dottrina della Chiesa cattolica è contraria al bene e agli interessi dell’umana società.
XLI. Al potere civile anche esercitato da signore infedele, compete la potestà indiretta negativa sopra le cose sacre e però gli appartiene non solo il
diritto, che dicono dell’exequatur, ma ancora il diritto, che dicono di appello per abuso.
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XLII. Nella collisione delle leggi dell’una e dell’altra potestà, deve prevalere il diritto civile.
XLIII. Il potere laicale ha l’autorità di rescindere, di dichiarare e far nulli i solenni trattati (che diconsi Concordati) pattuiti colla Sede Apostolica
intorno all’uso dei diritti appartenenti alla immunità ecclesiastica; e ciò senza il consenso della stessa Sede Apostolica, ed anzi a malgrado de’ suoi
reclami.
XLIV. L’autorità civile può mescolarsi nelle cose che riguardano la religione, i costumi e il governo spirituale. Quindi si può giudicare dalle
istruzioni che i pastori della Chiesa sogliono dare, per dirigere conforme al loro ufficio le coscienze ed anzi può fare regolamenti intorno alla
amministrazione dei Sacramenti, e alle disposizioni necessarie per riceverli.
XLV. L’intero regolamento delle pubbliche scuole nelle quali è istituita la gioventù di alcuno Stato, eccettuati solamente sotto qualche riguardo i
Seminarli vescovili, può e deve essere attribuito all’autorità civile e talmente attribuito, che non si riconosca in nessun altra autorità il diritto di
intromettersi nella disciplina delle scuole, nel reggimento degli studii, nella collazione de’ gradi, nella scelta e nell’approvazione de’ maestri.
XLVI. Anzi negli stessi seminarii de’ chierici, il metodo da adoperare negli studi è soggetto alla civile autorità.
XLVII. L’ottima forma della civile società esige che le scuole popolari, quelle cioè che sono aperte a tutti i fanciulli di qualsivoglia classe del
popolo e generalmente gli istituti pubblici che sono destinati all’insegnamento delle lettere e delle più gravi discipline, nonché all’educazione della
gioventù si esimano da ogni autorità, forza moderatrice ed ingerenza della Chiesa, e si sottomettano al pieno arbitrio dell’autorità civile e politica,
secondo il beneplacito degli imperanti e la norma delle comuni opinioni del secolo.
XLVIII. Può approvarsi dai cattolici quella maniera di educare la gioventù, la quale sia disgiunta dalla fede cattolica e dall’Autorità della Chiesa e
miri solamente alla scienza delle cose naturali, e soltanto o per lo meno primieramente ai fini della vita sociale.
XLIX. La civile autorità può impedire i Vescovi e i popoli fedeli dal comunicare liberamente e mutuamente col Romano Pontefice.
L. L’autorità laicale ha di per sé il diritto di presentare i Vescovi e può esigere da loro che incomincino ad amministrare la diocesi prima che essi
ricevano dalla S. Sede la istituzione canonica e le Lettere Apostoliche.
LI. Anzi il Governo laicale ha il diritto di deporre i Vescovi dall’esercizio del ministero pastorale, né è tenuto a obbedire al Romano Pontefice
nelle cose che spettano alla istituzione de’ Vescovati e de’ Vescovi.
LII. Il Governo può di suo diritto mutare la età prescritta dalla Chiesa in ordine alla professione religiosa tanto delle donne quanto degli uomini ed
ingiungere alle famiglie religiose di non ammettere alcuno ai voti solenni senza suo permesso.
LIII. Sono da abrogarsi le leggi che appartengono alla difesa dello Stato delle famiglie religiose, e de’ loro diritti e doveri; anzi il Governo civile
può dare aiuto a tutti quelli i quali vogliono disertare la maniera di vita religiosa intrapresa, e romper i voti solenni, e parimenti può spegnere del
tutto le stesse famiglie religiose, come anche le Chiese collegiate ed i benefici semplici, ancoraché di giuspatronato ed appropriare i loro beni e le
rendite all’amministrazione e all’arbitrio della civile potestà.
LIV. I Re ed i principi non solamente sono esenti dalla giurisdizione della Chiesa eziandio nello sciogliere le questioni di giurisdizione sono
superiori alla Chiesa.
LV. È da separarsi la Chiesa dallo Stato e lo Stato dalla Chiesa.
[VII] ERRORI CIRCA LA MORALE NATURALE E CRISTIANA.
LVI. Le leggi dei costumi non abbisognano della sanzione divina, né fa di mestieri che le leggi umane siano conformi al diritto di natura o
ricevano da Dio la forza di obbligare.
LVII. La scienza delle cose filosofiche e dei costumi e anche le leggi civili possono e debbono declinare dall’autorità divina ed ecclesiastica.
LVIII. Non sono da riconoscere altre forze da quelle in fuori, che son poste nella materia, e da ogni disciplina ed onestà di costumi devesi riporre
nell’accumulare ed accrescere per qualsivoglia maniera la ricchezza e nel soddisfare le passioni.
LIX. Il diritto consiste nel fatto materiale, e tutti i doveri degli uomini sono un nome vano e tutti i fatti umani hanno forza di diritto.
LX. L’autorità non è altro che la somma del numero e delle forze materiali.
LXI. La fortunata ingiustizia del fatto non apporta alcun detrimento alla santità del diritto.
LXII. È da proclamarsi e da osservarsi il principio che dicono del non-intervento.
LXIII. Il negare obbedienza anzi il ribellare ai Principi legittimi è cosa lecita.
LXIV. È la violazione di qualsiasi santissimo giuramento e qualsivoglia azione scellerata e malvagia ripugnante alla legge eterna, non solo non è
da riprovare, ma eziandio da tenersi del tutto lecita e da lodarsi sommamente, quando si commetta per amore della patria.
[VIII] ERRORI CIRCA IL MATRIMONIO CRISTIANO
LXV. Non si può in niun modo tollerare che Cristo abbia elevato il matrimonio alla dignità di sacramento.
LXVI. Il sacramento del matrimonio non è che una cosa accessoria al contratto e da questo separabile, e lo stesso sacramento è riposto nella sola
benedizione nuziale.
LXVII. Il vincolo del matrimonio non è indissolubile per diritto di natura, e in varii casi può sancirsi per la civile autorità il divorzio propriamente
detto.
LXVIII. La Chiesa non ha la potestà di introdurre impedimenti dirimenti il matrimonio, ma tale potestà compete alla autorità civile, dalla quale
debbono togliersi gli impedimenti esistenti.
LXIX. La Chiesa incominciò ad introdurre gli impedimenti dirimenti, nei secoli posteriori, non per diritto proprio, ma usando di quello che
ricevette dalla civile potestà.
LXX. I canoni tridentini, ne’ quali s’infligge scomunica a coloro che osano negare alla Chiesa la facoltà di stabilire gli impedimenti dirimenti, o
non sono dommatici, ovvero si debbono intendere dall’anzidetta potestà ricevuta.
LXXI. La forma del Concilio Tridentino non obbliga sotto pena di nullità in quei luoghi, ove la legge civile prescriva un’altra forma, ordinando
che il matrimonio celebrato con questa nuova forma sia valido.
LXXII. Bonifacio VIII pel primo asserì che il voto di castità emesso nella ordinazione fa nullo il matrimonio.
LXXIII. In virtù del contratto meramente civile può aver luogo tra’ cristiani il vero matrimonio: ed è falso, che o il contratto di matrimonio tra’
cristiani è sempre sacramento ovvero che il contratto è nullo se si esclude il sacramento.
LXXIV. Le cause matrimoniali e gli sponsali di loro natura appartengono al foro civile. N.B. Si possono qui ridurre due altri errori:
dell’abolizione del celibato de’ chierici, e della preferenza dello stato di matrimonio allo stato di verginità.
[IX] ERRORI INTORNO AL CIVILE PRINCIPATO DEL ROMANO PONTEFICE.
LXXV. Intorno alla compatibilità del regno temporale col regno spirituale disputano tra loro i figliuoli della cristiana e cattolica Chiesa.
LXXVI. L’abolizione del civile impero, che la Sede apostolica possiede, gioverebbe moltissimo alla libertà e alla prosperità della Chiesa.
[X] ERRORI CHE SI RIFERISCONO ALL’ODIERNO LIBERALISMO.
LXXVII. In questa nostra età non conviene più che la religione cattolica si ritenga come l’unica religione dello Stato, esclusi tutti gli altri culti,
quali che si vogliano.
LXXVIII. E però lodevolmente in alcuni paesi cattolici si è stabilito per legge che a quelli, i quali vi si recano, sia lecito avere pubblico esercizio
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del culto proprio di ciascuno.
LXXIX. Per fermo è falso, che la libertà civile di qualsivoglia culto, e similmente l’ampia facoltà a tutti conceduta di manifestare qualunque
opinione e qualsiasi pensiero alla scoperta ed in pubblico, conduca a corrompere più facilmente i costumi e gli animi de’ popoli, e a diffondere la
peste dell’indifferentismo.
LXXX. Il Romano Pontefice può e deve riconciliarsi e venire a composizione col progresso, col liberalismo e colla moderna civiltà.
Fin qui il Sillabo. Eccone alcuni presupposti. È vero che il cattolicesimo era
l’unica religione di Stato nello Statuto, ma lo Stato la favoriva poco. I
giuramenti regi e dei funzionari erano adespoti (senza invocare la divinità) e
presto lo furono anche quelli giudiziari; fu favorita la propaganda
anticlericale. Il clero visse sotto un regime di sospetto e i loro atti furono
sottoposti a controlli preventivi e successivi; fu una specie di ritorno al
cesaropapismo di Giuseppe II. Fu previsto l’exequatur e il placet alle disposizioni
e alle nomine pontificie e il ricorso per abuso contro i provvedimenti
dell’autorità ecclesiastica. L’Arcivescovo Fransoni di Torino, autorevole
anche per essere Cavaliere della SS. Annunziata, intollerante, protestò per la
concessione dello Statuto, negando il permesso di celebrare l’evento in
Chiesa. La sinistra chiese al Governo di confermare il suo anticurialismo. La
politica si ispirò spesso alla ragion di Stato, per cui la parola d’ordine di
Cavour della libera Chiesa in libero Stato non era in realtà seguita.
Nel ’48 iniziò una politica di emancipazione dei Valdesi e degli Israeliti e di
espulsione dei Gesuiti, ritenuti filoaustriaci. Nel ’49-’50 (leggi Siccardi) si
giunse all’abolizione del foro ecclesiastico e del diritto d’asilo delle chiese, senza
accordo con la Curia. Cavour sostenne che erano provvedimenti che
sarebbero andati a favore dei sacerdoti! Poco dopo si proposero leggi per
sopprimere i patrimoni ecclesiastici al fine di rimettere in sesto le finanze
statali esangui a causa delle guerre. In precedenza si era disposto (senza
spiegarne il perché) l’inventario dei beni ecclesiastici e dei redditi da essi
derivanti. Nel ’50 si propose anche che i beni ecclesiastici potessero
aumentare solo previa autorizzazione del Re, sentito il Consiglio di Stato;
un altro progetto depenalizzava l’inosservanza del riposo festivo. Quando si
propose il matrimonio solo civile, la Camera approvò, ma il Senato bloccò
la legge per un solo voto.
Il "connubio" Cavour-Rattazzi, che inaugurava il dominio pluridecennale di
quello che oggi diremmo "Centro", doveva aumentare il laicismo, per cui
non meravigliò che nel ’52 giungesse una petizione di 117 Comuni e di altri
enti locali per incamerare i beni ecclesiastici, ridurre i vescovi, abolire i conventi
e l’esenzione militare per gli ecclesiastici. L’iniziativa fallì, ma nel ’54 ci fu di
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nuovo un’offensiva in tal senso, che riuscì a sopprimere enti ecclesiastici e
ad attribuire i beni loro alla cassa ecclesiastica per le pensioni ai religiosi
degli enti soppressi.
Nello stesso anno fu adottata una legge contro gli abusi dei ministri del culto,
ossia quelli che pubblicamente censurassero le istituzioni e le leggi dello
Stato; pene più gravi erano previste nel caso in cui i fatti fossero avvenuti
con documenti. Vennero inasprite, come nel codice penale del ’59, le pene
per il reato di istigazione alla disobbedienza; altro reato previsto fu quello di
rifiuto dei propri uffici, cioè i sacramenti.
12.
L’amministrazione della giustizia
La libertà dei magistrati era formalmente riconosciuta, ma cosa avveniva di
fatto? I giudici erano tutti di nomina regia e si volevano sottomessi al
Governo. L’inamovibilità era prevista solo dopo tre anni di servizio e solo
dopo il medesimo tempo i giudici potevano essere eletti deputati. Ma
doveva intendersi tre anni dalla nomina anche già avvenuta o dall’entrata in
vigore dello Statuto, come voleva la Sinistra, che temeva che i giudici non
fossero favorevoli alle idee nuove? Rattazzi voleva che tutti i giudici fossero
ancora sottoposti a scrutinio del Governo per la conferma o la rimozione. Per
la convalida dei giudici si seguì ora l’una ora l’altra interpretazione!
Nel ’51 il ministro ex-giudice Siccardi si oppose all’idea di estromettere dalla
magistratura i sospettati di non fedeltà allo Statuto, ma poi Cavour cedette sul
punto, provocando le dimissioni di Siccardi e molti trasferimenti o
collocamenti a riposo di giudici (specie di quelli contrari alla politica
ecclesiastica del Governo).
Nel ’52 si sancì la dipendenza dei magistrati dal Governo, perché affidarli
alla Cassazione voleva dire vincolare in tal modo il ministro, l’unico
responsabile davanti al parlamento. I giudici furono dunque sottoposti a
controlli governativi e di superiori gerarchici. Sempre nel ’52 il giudice Costa della
Torre, che aveva scritto un libro per difendere la giurisdizione della Chiesa
cattolica sul matrimonio, fu destituito (senza diritto alla pensione) e
condannato al carcere dalla Corte d’Assise di Torino!
Nel ’53 Rattazzi avrebbe voluto una legge anche più dettagliata e rigida di
controllo: l’inamovibilità non doveva essere garanzia di non essere trasferiti;
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inoltre la nomina non doveva essere a vita e il ministro doveva avere la
facoltà di chiamarli in ogni momento a render conto del loro operato. Il
varo di queste misure avvenne solo nel ’59 con i pieni poteri di guerra di cui
disponeva il Governo. Come già in altre frequenti occasioni, il Parlamento
si trovò di fronte al fatto compiuto.
13.
La riforma scolastica
Sempre con gli stessi poteri fu adottata la legge Casati del ’59, preceduta
però da varie discussioni. L’idea ispiratrice della legge era che le scuole
dovessero avere "unità d’indirizzo", per cui si istituì il Consiglio della
Pubblica Istruzione di 21 membri di nomina reale per proporre programmi,
libri etc. fino ai titoli degli aspiranti alle cattedre universitarie. In ogni
provincia fu istituito un Consiglio scolastico provinciale presieduto da un
Provveditore con due rappresentanti della città capoluogo.
Le scuole furono tipicizzate e per l’Università fu istituito un esame di
ammissione, nonché un numero prefissato di esami. L’istruzione secondaria
classica era ritenuta il vero fondamento dell’istruzione: 5 anni di ginnasio (a
carico dei Comuni) e 3 di liceo classico a carico dello Stato. I Comuni
dovevano curare l’istruzione elementare e gli istituti tecnici (in parte a carico
delle province).
L’istruzione elementare era gratuita e chi si fosse astenuto da mandare a
scuola i figli senza giustificato motivo era punito per legge. Pochi articoli della
legge riguardavano le scuole private, assoggettate a sorveglianza del
ministro per quanto riguardava la tutela della morale, l’igiene e l’osservanza
dello Statuto dello Stato e dell’ordine pubblico. Chi avesse aperto istituti
secondari doveva assoggettarsi a ispezioni di autorità. Il libero
insegnamento rimase in pratica solo nelle Università. I maestri elementari
venivano scelti dai Comuni e 18 istituti (nel Regno di Sardegna) dovevano
provvedere a preparare maestri e maestre.
14.
Il Regno d’Italia
Il 18 febbraio 1861 i deputati e senatori proclamarono che il Re ‘assumesse’
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il titolo di ‘Re d’Italia per grazia di Dio e volontà della Nazione’. L’evento
dette adito a discussioni infinite: l’iniziativa partì da un ordine di Sua Maestà
con ‘concorde avvisò del Governo; il titolo, si disse, doveva essere "dato"
anziché "assunto" e, checché dicesse Cavour, non veniva dal popolo, che
avrebbe preferito fosse chiamato "Re degli Italiani". Furono sollevate
critiche anche perché il Re conservò come nome Vittorio Emanuele II,
anziché I (d’Italia).
Nello stesso ’61 si uniformò la dizione di prefetti e sottoprefetti nelle
province. Si raggiunse finalmente l’unità amministrativa, poi perfezionata con
una serie di leggi imponenti nel 1865, che provvidero a ‘piemontesizzare’
l’Italia - critici gli autonomisti, tipo Carlo Cattaneo (m. 1869) che eletto
deputato non partecipò ai lavori parlamentari per non prestare giuramento
di fedeltà alla monarchia.
Nel ’65 si procedette all’abolizione del contenzioso amministrativo pre-unitario
che faceva tutelare da atti amministrativi illegittimi entro la stessa P.A.
attiva; ora i diritti soggettivi passarono al giudice ordinario, mentre gli interessi
legittimi restarono privi di tutela giurisdizionale: si doveva ricorrere alla stessa
P.A.; solo nel 1889 con la IV sezione del Consiglio di Stato si dette tutela
giurisdizionale agli interessi legittimi da eccesso di potere e altri vizi dell’atto
amministrativo.
Lo Stato per vari anni si resse sui principii generali del diritto pubblico
piuttosto che su una normativa complessa e analitica. Nessuno nel ’48
avrebbe detto che la sovranità era dello Stato anziché del Re. Ora cominciò
ad affermarsi l’idea (poi chiarita da V. E. Orlando) che lo Stato fosse
separato dai suoi soggetti, anche i più eminenti. Il principio di legalità o
dello Stato di diritto implicava il rispetto della libertà e giustizia per tutti,
nonché la separazione dei poteri (c.d. "Stato amministrativo").
Lo Stato fece passi avanti enormi, sia sotto il profilo istituzionale come
anche dal punto di vista del territorio, acquisendo Venezia nel 1866 e Roma
nel ’70. Il passo dallo Stato sardo al Regno d’Italia fu enorme, in termini di
compiti, di personale, di mezzi. Ma si affermò con ritardo il problema sociale,
dell’attenuazione delle grandi disuguaglianze sociali esistenti.
La prima fase dopo il ’61 segnò una continuità con la politica precedente,
perché premeva soprattutto consolidare l’unità e, del resto, il ceto dirigente
era rimasto lo stesso. Così continuò la "lotta ai religiosi", per cui nel ’61 una
legge consentì di occupare le case degli ordini religiosi se fossero servite per
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pubblico servizio militare o civile, e le leggi del ’66-’67 completarono la
soppressione degli enti religiosi e dei loro patrimoni.
Non erano mancate proposte di legge radicali, come quella di un Alfieri per
cui il Papa diveniva Arcivescovo di Roma e unico del Regno, riecheggiando
la costituzione civile del clero della rivoluzione francese!
Con l’approvazione del Codice civile Pisanelli del ’65 si laicizzò il matrimonio,
già introdotto dai governi provvisori in Emilia e in Umbria. Prima di Trento
il matrimonio era stato considerato un fatto eminentemente privato, poi,
dopo tale concilio, esclusivamente di competenza canonistica, ora divenne
invece un fatto di diritto pubblico, perché attinente ai rapporti Stato-Chiesa. La
famiglia si era ritenuta un istituto attraverso il quale si realizzava l’influenza
sociale della Chiesa, per cui si doveva toglierle ogni monopolio, perché essa
non aveva avuto da Dio nessuna autorità di ingerirsi nei rapporti dei
cittadini.
La legge delle ‘guarentigie’ per il Papato del ’71 intervenne comunque con i
suoi formali riconoscimenti della più ampia libertà per le funzioni spirituali sulla scia del cavouriano “Libera Chiesa in libero Stato” - in modo da
accreditare il Regno a livello internazionale dopo la soppressione dello Stato
pontificio: era un atto unilaterale dello Stato che regolava i rapporti con la
Santa Sede e i rapporti diplomatici col mondo - e come tale non fu accettata
dal Papato, che continuò a non riconoscere lo Stato italiano. La conseguenza
fu che perdurò entro il popolo italiano, in larga maggioranza cattolico, il
problema della fedeltà al nuovo Stato. E fu anche una legge di
compromesso che scontentò molti. I democratici trovarono eccessivo che
si dicesse sacro e inviolabile il Papa e che fosse considerato sovrano (anche se
senza sovranità territoriale), con "godimento" del Laterano, del Vaticano, di
Castel Gandolfo e delle consuete guardie. con una rendita di oltre tre
milioni di lire annue, diritto di legazione etc. Ma diamo una lettura ad alcuni
articoli di questa legge, rimasta fondamentale fino ai Patti Lateranensi, che
posero fine alla ‘questione romana’:
LA LEGGE DELLE GUARENTIGIE (1871)
TITOLO I
PREROGATIVE DEL SOMMO PONTEFICE E DELLA SANTA SEDE
Art. 1. La persona del Sommo Pontefice è sacra ed inviolabile.
Art. 2. L’attentato contro la persona del Sommo Pontefice e la provocazione a commetterlo sono puniti colle stesse pene stabilite per l’attentato e
per la provocazione a commetterlo contro la persona del Re.
[…].
La discussione sulle materie religiose è pienamente libera.
Art. 3. Il Governo italiano rende al Sommo Pontefice, nel territorio del Regno gli onori sovrani; e gli mantiene le preminenze d’onore
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riconosciutegli dai Sovrani cattolici.
[…].
Art. 5. Il Sommo Pontefice, oltre la dotazione stabilita nell’articolo precedente, continua a godere dei palazzi apostolici, Vaticano e Lateranense,
con tutti gli edifizii, giardini e terreni annessi e dipendenti, nonché della villa di Castel Gandolfo con tutte le sue attinenze e dipendenze.
[…].
Art. 6. Durante la vacanza della Sede Pontificia nessuna autorità giudiziaria o politica potrà, per qualsiasi causa, porre impedimento o limitazione
alla libertà personale dei Cardinali.
Il Governo provvede a che le adunanze del Conclave e dei Concili ecumenici non siano turbate da alcuna esterna violenza.
Art. 7. Nessun uffiziale della pubblica autorità od agente della forza pubblica può, per esercitare atti del proprio ufficio, introdursi nei palazzi e
luoghi di abituale residenza o temporanea dimora del Sommo Pontefice, o nei quali si trovi radunato un Conclave o un Concilio ecumenico, se
non autorizzato dal Sommo Pontefice, dal Conclave o dal Concilio.
[…].
Art. 9. Il Sommo Pontefice è pienamente libero di compiere tutte le funzioni del suo ministero spirituale, e di fare affiggere alle porte delle
basiliche e chiese di Roma tutti gli atti del suddetto suo ministero.
[…].
Art. 12. Il Sommo Pontefice corrisponde liberamente coll’Episcopato e con tutto il mondo cattolico, senza veruna ingerenza del Governo italiano.
TITOLO II
RELAZIONE DELLO STATO COLLA CHIESA
Art. 14. È abolita ogni restrizione speciale all’esercizio del diritto di riunione dei membri del clero cattolico.
Art. 15. È fatta rinuncia dal Governo al diritto di Legazia apostolica in Sicilia ed in tutto il Regno al diritto di nomina o proposta nella collazione
dei benefizi maggiori.
I Vescovi non saranno richiesti di prestare giuramento al Re.
I benefizi maggiori e minori non possono essere conferiti se non a cittadini del Regno, eccetto che nella città di Roma e nelle sedi suburbicarie.
Nella collazione dei benefici di patronato regio nulla è innovato.
Art. 16. Sono aboliti l’exequatur e placet regio ed ogni altra forma di assenso governativo per la pubblicazione ed esecuzione degli atti delle
autorità ecclesiastiche.
[…].
Art. 17. In materia spirituale e disciplinare non è ammesso richiamo od appello contro gli atti delle autorità ecclesiastiche, né è loro riconosciuta
od accordata alcuna esecuzione coatta.
La cognizione degli effetti giuridici, così di questi come d’ogni altro atto di esse Autorità, appartiene alla giurisdizione civile.
Però tali atti sono privi di effetto se contrari alle leggi dello Stato od all’ordine pubblico, o lesivi dei diritti dei privati, e vanno soggetti alle leggi
penali se costituiscono reato.
[…].
*
*
*
Fu anche soppressa la facoltà di teologia, nonché il diritto canonico come
materia di insegnamento; furono esclusi gli ecclesiastici dall’ufficio di
giurati, dall’esenzione dal servizio militare, da direttori spirituali dai licei etc.
Tale continuità con la linea politica pre-unitaria non venne meno con la
svolta del ’76, con l’avvento della Sinistra. Già le elezioni del ’65 avevano fatto
sentire vicino il cambio. Depretis lamentava il fiscalismo e l’immobilismo
della Destra al Governo, voleva più ampie libertà, il decentramento
amministrativo, l’abolizione della gabella sul macinato, la scuola elementare
gratuita e obbligatoria.
Sulla questione della gabella (tassa) sul macinato la Destra crollò. Ma la
Sinistra si presentava molto composita, favorita dall’avvento di parlamentari
meridionali e toscani contro quelli subalpini. Depretis resse col trasformismo,
annullando la distinzione Destra-Sinistra (continuando quindi, potremmo
noi dire oggi, l’inaffondabile "Centro" di prima) e il suo ministro
dell’interno Nicotera fu faziosissimo alle successive elezioni. La Sinistra non
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poté comunque eliminare la gabella sul macinato e imporre la progressività
delle imposte. Una vera svolta si ebbe con Crispi nell’87? No, perché sia lui
che Giolitti proseguirono sul sentiero tracciato da Cavour e Rattazzi.
L’attività del Governo rimaneva regolata dalla prassi. Nessuna regola scritta
se non per le competenze, ampliate dalla legge del 1901 di Zanardelli (dal
1888 si ebbero anche i sottosegretari di Stato). Nessuna norma prevedeva la
partecipazione del Re, né competenze riservate al c.d. gabinetto all’inglese.
Esso era un organo di collegamento tra il Re e il Parlamento, dal quale erano
tratti di regola i ministri. Un decreto del ’67 aveva previsto che al Presidente
dei ministri spettasse la convocazione e la fissazione dell’ordine del giorno;
lui firmava il decreto di nomina degli altri ministri (da lui proposti) e i
decreti di convocazione, la chiusura e lo scioglimento della Camera. Il
Presidente doveva rappresentare l’unità di indirizzo politico ed adempiere agli
impegni presi nel discorso della corona – secondo il modello inglese. Ma
Ricasoli, caduto una settimana dopo, portò con sé il decreto!
Il discorso fu ripreso e portato a termine nel ’76 da Rattazzi. Fu accresciuto
il potere del Presidente nei confronti della corona e dei singoli ministri; il
Governo assunse un carattere più chiaramente parlamentare. Bisogna però
aspettare l’87 per avere una segreteria alla Presidenza e un regolamento ad
hoc che ampliò le competenze del Presidente. Egli poteva ora esaminare i
progetti prima che arrivassero in consiglio, sapere delle manifestazioni e
della pubblica opinione. Ma ci fu chi (Ruggero Bonghi e Sidney Sonnino,
’93 e ’97) lamentava una confusione nella disciplina di Governo e Camera e
l’usurpazione di poteri da parte del Presidente del Consiglio, per cui si
sostenne: torniamo allo Statuto!
Nel 1901 giunse il decreto Zanardelli ad ampliare i poteri del Presidente,
limitando quelli del sovrano per quanto riguardava le nomine del Presidente
del Senato, dei senatori, dei membri della Corte dei conti e del Consiglio di
Stato, direttori generali, capo di Stato Maggiore, presidenti di sezioni e
procuratori generali delle corti di Cassazione e di Appello, prefetti etc. etc.
Persino la nomina del ministro della Real Casa fu tolta al Re! Croce parlava
di ‘restaurazione liberale’ per dopo la crisi del ’98-1900. Si affermò il Consiglio
dei ministri e la sua collegialità. I sottosegretari dall’88 divennero solo vicari
del ministro, ma non potevano essere sostituiti in Consiglio dei ministri, né
controfirmavano; avevano solo la delega a firmare per gli atti del loro
ministero. È dunque velleitario dire che fossero membri del Governo.
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15.
Le Camere
Il sistema parlamentare che si andò delineando può essere configurato
come un bicameralismo imperfetto o zoppo. La Camera aveva avuto una funzione
nazionale importante, assorbendo anche l’opposizione alla monarchia.
Anche il Partito d’azione si trovava in imbarazzo davanti a Vittorio
Emanuele II. La storia politica sottolinea come il sistema elettorale ristretto
desse voce alla Camera solo ai ceti privilegiati (ma, si potrebbe anche
osservare, non arrivano anche oggi in Parlamento prevalentemente
avvocati, professionisti, funzionari?).
Fu invece importante la Camera sotto il profilo storico-giuridico, per il suo
lavoro legislativo, per i suoi regolamenti, per le sue inchieste. Eppure molte
critiche vennero mosse negli anni ’90 al parlamentarismo, come prassi italiana
di deviazione dal corretto funzionamento parlamentare. Il numero dei
parlamentari, cresciuto in base alle varie annessioni, salì a 508 e tale rimase
fino alla fine della I guerra mondiale. Sulla scelta dei parlamentari influì il
non expedit (= non conviene) con cui la Chiesa vietava ai cattolici di
partecipare alle elezioni: né elettori né eletti! Vita facile ebbe dunque
l’anticlericalismo.
Il ‘rimborso spese’ fu introdotto nel 1912, anche se già discusso infinite volte
(Chimienti); i suoi sostenitori lo ritenevano utile per far entrare alle Camere
anche operai, per dare più libertà di scelta agli elettori e per dar modo ai
deputati di soggiornare a Roma a lungo per impratichirsi. Di contro si
obiettava che in realtà gli operai non erano diretti da operai, che la funzione
parlamentare in molti collegi si trasmetteva di padre in figlio e che non c’era
da sperare che con l’indennità qualcosa cambiasse, infine che non c’era
bisogno dell’indennità perché già avevano una posizione di lavoro.
Non c’era la norma, come nella costituzione della Repubblica bolognese,
per cui un parlamentare era responsabile per ciò che aveva fatto. La Camera
non ebbe un Presidente eletto dal Re (che nominava solo quello del
Senato), ma non poteva autoconvocarsi, per cui il Governo poteva giocare
sulla chiusura anticipata delle sessioni, facendo decadere i progetti in corso di
approvazione e la stessa presidenza della Camera. Inoltre ministri e
sottosegretari nelle votazioni di fiducia si autovotavano, anche se invitati a
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fare il contrario.
Seguendo uno scritto di fine secolo dello stesso Chimienti, possiamo
illustrare il diritto parlamentare. Il Re sceglieva il primo ministro secondo le
indicazioni dei gruppi parlamentari alla Camera; formava quindi un
Governo, che si presentava con un programma per ottenere la fiducia alla
Camera, ma se c’erano necessità si potevano rinviare entrambe le cose.
Avere la fiducia della Camera non voleva dire, naturalmente, avere quella
del Paese. Il Governo doveva tenersi entro la legalità e l’opposizione si
prendeva la responsabilità delle crisi. Il Re, garante dello Statuto, doveva
risolvere le crisi tra Governo e Camera; se non ci riusciva si aveva lo
scioglimento o il licenziamento del Governo. Il Paese era di regola
governato da deputati e governi con fiducia.
La tradizione che voleva come capo del Governo il capo della maggioranza era
sempre rispettata, per cui il Governo era di fatto un pò il comitato direttivo
della Camera. Per questo il Governo con opportune leggi superava
l’osservanza di leggi previgenti e la maggioranza parlamentare non
controllava effettivamente i Governi. Perciò non mancarono scandali, come
quello della Banca romana etc. Solo eccezionalmente lungaggini
parlamentari misero in difficoltà i Governi: nel ’99 in odio a Pelloux (che
chiudeva la serie dei Governi "forti" iniziata con Crispi) e nel 1914 contro i
provvedimenti fiscali di Salandra. Un grave conflitto e ostruzionismo si
ebbero anche nel ’99 quando Enrico Ferri oltraggiò il Re e l’esercito.
Tra i problemi c’era quello se dare o no alla polizia il potere di vietare le
riunioni in luogo pubblico e al Governo il potere di sopprimere le
associazioni sovversive e modificare il regolamento della Camera. Si arrivò
allo scioglimento della Camera e le elezioni dettero ragione al Presidente
Zanardelli, secondo cui il Governo non poteva disporre per decreto di
materie costituzionali delicatissime ormai caratterizzanti la forma
costituzionale, come le libertà del cittadino. Il Governo fu battuto e il Re
sostituì Pelloux con Saracco. Nel 1900 avvenne il regicidio, cioè l’uccisione
di re Umberto I.
Nel 1901 il Governo Zanardelli con Giolitti ministro dell’interno lasciò
libera azione alle organizzazioni operaie, sperando di associarle alle istituzioni e
attenuarne le rivendicazioni. Ma continuarono ancora manifestazioni e
scioperi generali. Giolitti invece di assicurare il libero gioco delle forze
politiche e sociali tentò di elevare le leghe operaie all’altezza di quelle
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padronali, per avere il loro voto favorevole o l’astensione - pratica di
addolcimento, cioè di ‘integrazione’ nel sistema, che egli tenterà invano
anche con il fascismo.
Il Senato era di fatto tagliato fuori dalle vicende della vita politica. Se si
mostrava troppo recalcitrante, una nuova ‘infornata’ di nomine sistemava
tutto, ma si rinviò più volte la convalida a questo o quel nominato. Esso
dette problemi in sede di emendamenti a leggi di bilancio e tributarie, dove
lo Statuto voleva che prima ci fosse l’esame della Camera. Delicata era la
posizione del Presidente del Senato, che era nominato dal Re e doveva
controllare le nuove nomine, difendere il Senato e la sua presenza nei
Governi (Giolitti chiamò sempre pochi senatori al Governo). Importante fu
il nuovo regolamento del 1900, che stabilì lo scrutinio segreto per la convalida
dei nuovi eletti e che il nuovo Presidente venisse indicato al sovrano dai
senatori stessi.
Lo Statuto prevedeva la Corte dei conti e il Consiglio di Stato come
importanti organi di consulenza, oltreché di giurisdizione. Organi non
"agenti", come si diceva, perché non formavano la volontà dello Stato; ma
importanti per la loro indipendenza.
Il Consiglio di Stato era stato istituito per gli Stati di terraferma da Carlo
Alberto nel ’31 come avvio alle riforme liberali e fu esteso all’Italia nel ’65
con l’allegato E della legge 20 marzo 1865. Perdette la funzione
giurisdizionale nel 1877, ma accrebbe poi le sue competenze con le riforme
del 1889,1907, 1924. Molti suoi pareri (di legittimità, ma anche di merito)
erano obbligatori, talvolta anche vincolanti.
La Corte dei conti fu istituita nel 1862, sorta dalla soppressione delle
magistrature di controllo degli Stati preunitari sulla legittimità degli atti di
governo.
Importante anche l’Avvocatura ‘erariale’ istituita nel 1875, che ebbe come
Primo avvocato (oggi Avvocato generale dello Stato) Giuseppe Mantellini,
ultimo "regio avvocato" del Granducato di Toscana. Divenne Avvocatura
dello Stato nel c.d. decennio riformatore fascista (1923, ’25, ’30).
La legge comunale e provinciale del ’59 tratteggiò la figura del Governatore
della Provincia: dal ’61 si chiamò Prefetto e continuava la figura
dell’Intendente generale cui la legge del 1842 aveva assegnato la
giurisdizione amministrativa ed economica sulla provincia sabauda e la
vigilanza sui Comuni. La legge del 1859, emanata con pieni poteri, dette
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veste uniforme ai Comuni nelle varie parti d’Italia, "piemontesizzando"
tutto.
I Governatori (poi Prefetti) rappresentavano il Governo presso il popolo e
il popolo presso il Governo. In effetti, alto burocrate non elettivo com’era,
finì per operare soprattutto agli ordini del Governo. Controllava tutte le
amministrazioni e interveniva in caso di necessità. Poteva chiedere
l’intervento della forza pubblica e dipendeva direttamente dal Ministero
dell’Interno, con molti interventi ad esempio in sede elettorale contro gli
avversari politici. Scarse erano le garanzie, rimesse al Ministro, per la
carriera almeno fino al 1889, quando con la importantissima e famosa ‘IV
sezione’ del Consiglio di Stato si contribuì molto al miglioramento della
giustizia amministrativa. Le leggi di unificazione amministrativa del 1865
non incisero sulla figura del Prefetto, ma restituirono alle Province le
competenze sottratte loro nel ’59. Ma nel ’77 il ministro Nicotera dimise
molti Prefetti, come non fece neppure Mussolini. Nell’87 si rese anche più
facile dimetterli e si consentì la nomina a Prefetti dei deputati (vietato dalla
legge precedente).
La magistratura era ugualmente soggetta al potere, spesso arbitrario, del
Governo. La legge del ’59 sembrava fatta apposta per consentire
epurazioni. Nel ’62 il deputato e magistrato Giuseppe Musio sostenne che
si aveva un ordinamento incostituzionale nel suo libro Sul riordinamento
giudiziario; si sottolineò da parte di Francesco Carrara e di Giuseppe
Mirabelli (Pres. Corte d’Appello di Napoli) lo strapotere del pubblico
ministero - e sembra di leggere di problemi di oggi!
Anche la giuria ebbe vita difficile, a partire dal ’48, quando venne utilizzata
per reati di stampa. La legge del ’59 la ammetteva, ma i giurati venivano
vagliati da una doppia cernita e per di più con un "capetto" che comandava;
inoltre sempre molti rimanevano i poteri del giudice.
Per quanto riguarda la Cassazione, si pose il quesito di cosa fare delle corti
preunitarie. Si propose di farne una corte suprema di tipo americano, ma la
reazione allarmata che suscitò l’idea fece subito rientrare il progetto. Nel ’75
si riuscì a istituire una Cassazione a Roma competente per le cause dell’exStato pontificio, ma anche in esclusiva per le leggi in materia tributaria, le
leggi eversive del patrimonio ecclesiastico, sulle elezioni e i conflitti di
attribuzione. Solo nel 1888 si sarebbero abolite le sezioni penali delle
Cassazioni di Torino, Firenze, Napoli e Palermo, unificando la giurisdizione
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penale del Paese. Ingerenze molto gravi si ebbero ad esempio in Sicilia,
dove agli inizi degli anni ’60 era stato arrestato arbitrariamente il
repubblicano Giovanni Raffaele. Il P.M. non aveva dato corso alla denuncia
contro la polizia; il ministro intervenne allora contro la Cassazione, che
procedette contro lo stesso Procuratore del Re.
Le leggi del ’64 e ’65 introdussero le commissioni di sindacato sulla condotta dei
magistrati per valutare il loro comportamento e l’adesione ai principi
costituzionali! Anche i giudici dovevano quindi cooperare al successo
elettorale dei candidati governativi. Ai trombati andava poi la solidarietà
dell’opinione pubblica e della stampa.
Con la Sinistra non cambiò nulla in sostanza (il ‘Centrò continua...). Il
ministro Mancini si servì della (prima deplorata) legge del ’59 per continuare
la prassi degli interventi di condizionamento governativi. Ora era la Destra a
sostenere che bisognava rispettare i magistrati! Solo nel 1900 il ministro fece
approvare il progetto sulle ‘guarentigie’ della magistratura, ma solo nel 1908
con la legge di Vittorio Emanuele Orlando si poté consolidare il principio
dell’inamovibilità dopo tre anni. Si istituì allora il Consiglio supremo della
magistratura, in parte costituito esso stesso di alti magistrati: autogoverno sì,
ma al Senato era attribuito un amplissimo potere disciplinare perché la Corte
suprema disciplinare era composta di magistrati e senatori. Per V. E.
Orlando era il Parlamento il supremo garante per i giudici!
16.
I Comuni e le Province
Le leggi del 1865, 1889, 1898, 1915 disciplinarono i Comuni e le Province.
Tra le questioni dibattute rimaneva quella regionale, perché alla
‘piemontesizzazione’ si era da molte parti replicato chiedendo autonomia o
almeno decentramento amministrativo.
Già nel discorso della corona del 1861 il sovrano aveva accennato a tale
necessità, e il ministro Minghetti ne era convinto. Lo Stato del ’59-’61 era
inaccettabile specie per molti cattolici; per i meridionali (siciliani in
particolare) e federalisti: non si teneva conto delle diversità regionali. Nel
’63 iniziò a circolare a Palermo lo scritto anonimo Il sistema regionale richiesto
dalla natura e dalla garanzia del diritto umano, che insisteva sul regionalismo e
sui diritti individuali. Carlo Cattaneo al Nord spiegava che erano anche i
69 / 105
problemi economici e sociali che dovevano far trionfare il regionalismo,
non potendosi disciplinare in modo uguale (anche in penale) realtà
diversissime. Minghetti nel ’61 aveva lanciato l’idea delle grandi province,
cioè di consorzi obbligatori interprovinciali, e nel ’64 l’idea era stata ripresa
da Francesco Crispi e Giovanni Lanza.
Cattaneo e Vito D’Ondes Reggio restarono però i regionalisti più fervidi,
mentre Giuseppe Ferrari era il federalista democratico. Tra il ’62 e il ’64 si
fecero allora delle direzioni sovraprovinciali per le finanze e Quintino Sella
sostenne anche l’esigenza di prefetture sovraprovinciali per risparmiare. Ma
Rattazzi, capo dell’opposizione, criticò Minghetti sostenendo che il suo
decentramento faceva della provincia un "guardiano insicuro dello Stato
unitario".
La Sinistra era ferma su posizioni antiautonomistiche per differenziarsi dai
gruppi al potere e per consolidare l’unità. Nel 1888 quando furono creati i
sottoprefetti, si svincolarono le Province dal controllo rigido del Prefetto.
Da allora lo scioglimento del Consiglio provinciale divenne possibile solo
per gravi motivi di ordine pubblico o per l’inosservanza degli obblighi di
legge. Con la IV sezione del Consiglio di Stato nell’89 si poté controllare
che gli scioglimenti fossero giustificati.
Il Consiglio provinciale era elettivo, ma il Prefetto ne apriva e chiudeva le
sessioni. Le sue deliberazioni, come quelle della Deputazione, erano
soggette ad annullamento del Prefetto in tempi brevi o del Governo in ogni
tempo solo se contrarie alle leggi o a norme procedurali interne. Il mandato
era gratuito salvo il rimborso spese per residenti fuori del capoluogo.
* * *
I Comuni erano stati affievoliti nella loro autonomia negli ultimi secoli, ma
erano pur sempre per tutti le piccole ‘patrie’ in cui si nasceva, moriva etc.
Specialmente ora che avevano amministrazioni elettive non erano certo dei
meri toponimi! Essi godevano dell’autonomia (da un certo momento detta
‘autarchia’) di cui godevano gli organi elettivi, erano enti rappresentativi e
associativi. Ma erano soprattutto enti potestativi nei confronti dei quali il
cittadino aveva un rapporto di sudditanza, un pò come nei confronti dello
Stato. Erano poi "enti decentrati dello Stato" che perseguivano in via
sostitutiva finalità statali, in materia di stato civile, liste elettorali, leva
militare, liste dei giurati etc. oltreché poi per polizia, assistenza e
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beneficenza. Le elezioni si tenevano ogni 5 anni e ogni anno si aveva il
rinnovo di un quinto per sorteggio: dal 1908 ogni sei anni col rinnovo di un
terzo per biennio; dal 1915 ogni quattro anni e basta.
Il Presidente del Consiglio e della sua Giunta era il Sindaco che era anche
ufficiale dello Stato per certe funzioni di polizia. Esso veniva eletto a
scrutinio segreto tra i consiglieri. Le delibere comunali erano sottoposte a
visti e ad eventuali annullamenti amministrativi o contenziosi per ricorsi di
cittadini alla Giunta provinciale amministrativa (GPA). Il Sindaco fu
elettivo solo dal 1896.
17.
Diritti di libertà e origini dello ‘stato sociale’
Gli artt. 24-33 dello Statuto disciplinavano la parità di diritti civili,
l’ammissione alle cariche pubbliche, la libertà individuale, l’inviolabilità del
domicilio e della proprietà ed il diritto di adunarsi pacificamente e
senz’armi. L’art. 40 riservava l’ufficio di deputato ai maggiorenni di 30 anni.
La libertà di stampa, disciplinata da una legge del ’48 subì gravi restrizioni
durante la guerra del ’59 e poi del 1915-18 e qualche modifica nel 1899.
Tale libertà si ritenne difficilmente disciplinabile; si previde che la prima
copia di ogni opera fosse presentata al PM locale (poi certe copie d’obbligo
per la Biblioteca Nazionale di Firenze e poche altre).
Per il diritto di associazione il discorso è complesso, perché i governi
piemontesi suscitarono opposizioni soprattutto per la politica ecclesiastica.
Ma il Consiglio di Stato nel 1852 sostenne che il diritto di associazione non
andava regolato. Ma nello stesso ’52 i “Comitati garibaldini di
provvedimento” parvero pericolosi per l’ordine pubblico; Ricasoli li difese,
ma Rattazzi suo successore presentò un disegno di legge per punire le
associazioni che raccogliessero armati non autorizzati. Fu una discussione
prolungata, poi Rattazzi si dimise per la repressione dei fatti
dell’Aspromonte. Nel ’67 il dibattito fu riaperto per i comizi dei cattolici
operanti nel Veneto contro la politica ecclesiastica: essi furono proibiti da
Ricasoli.
Si sosteneva che il Governo in base al diritto comune doveva poter
giudicare che cosa fosse nocivo per l’ordine pubblico e per il Paese. Ma Pier
Silverio Mancini replicava dall’opposizione che quando un diritto non è
71 / 105
regolato dalla legge è pieno; un ordine del giorno della Camera auspicò la
fine di ogni violazione alla libertà di riunione finché non comportasse
violazioni di legge o disordini. Ne derivò un’ampia libertà di ‘associazione’,
anche se si era parlato solo di ‘riunione’. Un problema ad esempio fu se
potessero tollerarsi le bandiere repubblicane: per Crispi ciò doveva rientrare
nella libertà di associazione, mentre Depretis disse che in uno Stato
monarchico non poteva essere tollerabile. Chiusure si alternarono a
momenti di grande libertà.
Nel ’94 una legge vietò riunioni e associazioni miranti a sovvertire l’ordine
sociale e permise la chiusura di molti circoli socialisti. Ma nel 1900 si fece
marcia indietro e da allora vi fu ampia libertà. Nell’86 - vietandosi anche lo
sciopero - era stato disciolto il Partito operaio indipendente del 1882, ma
esso poi risorse nel ‘92 come Partito dei lavoratori italiani e nel ’93 prese
nome di PSI (Partito socialista italiano), il primo partito organizzato
italiano. Giolitti si mostrò tollerante al riguardo. Nel 1900 era stata sciolta la
Camera del lavoro di Genova, ma la misura fu subito revocata: per Giolitti
era un errore, perché si sarebbe resa nemica dello Stato la classe operaia. Il
Governo doveva tutelare tutte le classi di cittadini.
Fra i diritti di libertà venne a collocarsi anche quello di sciopero, sostenuto
dal sindacalismo moderno con atti anche violenti, ma che non potevano
reprimersi per la loro ampiezza. Lo sciopero poneva rilevanti questioni
politiche e giuridiche. Già il codice penale sardo del ’39 e quello toscano del
’53 tenevano presente che sotto l’astensione dal lavoro c’era anche lo sforzo
di costringere altri all’astensione. Nel ’83 la commissione d’inchiesta sullo
sciopero suggerì a Depretis un disegno di legge, il cui relatore Di San
Giuliano sosteneva che gli scioperi fossero illegali solo se venivano usati
certi strumenti di azione, avversando quindi il codice penale in
preparazione; ma i socialisti respinsero il progetto sperando in meglio. Il
codice penale Zanardelli del 1889 – il primo esteso su tutto il territorio
nazionale (cfr. paragrafo 13) - dispose all’art. 166 che per assicurare la
libertà di lavoro fosse punito fino a 20 mesi chi avesse usato violenza o
minaccia per modificare i rapporti di lavoro. Dieci anni dopo la
magistratura fu anche più sensibile agli scioperi politici e degli addetti a servizi
di importanza generale. Il decreto Pelloux attribuiva al Ministro degli
Interni la competenza a sciogliere le associazioni sovversive e a punire gli
scioperi nei servizi pubblici. Anche Giolitti, pur difensore nel 1900 della
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Camera del lavoro di Genova, nel 1902 sostenne l’illiceità dello sciopero dei
ferrovieri. Ne seguì non uno sciopero, ma un ostruzionismo che costrinse il
Governo alla dimissioni. La legge del 1905 avocò allo Stato le principali
linee ferroviarie, assimilando i ferrovieri ai pubblici ufficiali. Ma gli scioperi
continuarono, anche in modo violento.
Intanto si sviluppò una politica sociale in tema di assistenza (beneficenza
legale non ‘statalistica’, legge 1862); nel 1890 si creò in ogni Comune una
‘congregazione di carità’, ente pubblico legato al Comune. Dal 1886 si
regolamentò l’attività mutualistica e nel 1898 (eco della legge tedesca
dell’83) intervenne l’assicurazione obbligatoria a carico di imprenditori sugli
infortuni sul lavoro nell’industria e per i lavori rischiosi anche agricoli (poi
nel T.U. del 1904 e fondamento legislativo fino al 1937). Nel 1886 si
legiferò in tema di lavoro dei fanciulli, nel 1899 sulla prevenzione degli
infortuni.
Nel 1902, dopo reiterate richieste sindacali, si istituì l’Ufficio del lavoro
presso il ministero dell’agricoltura, dell’industria e del commercio, per
notizie e informazioni circa l’emigrazione, la produzione italiana, i rapporti
di lavoro etc. Un Consiglio superiore del lavoro di 43 membri
(comprendente rappresentanti nominati dai sindacati) elaborò ottimi
progetti di legge sul contratto di lavoro nelle miniere e nelle solfare, nelle
risaie, per donne e bambini, cassa maternità, collocamento lavoro, giudizi
sulle controversie del lavoro. Nel 1901 e 1909 fu emanata una normativa
sull’emigrazione, con una tutela contro l’approfittamento degli intermediari;
nel 1906 fu istituito il corpo degli ispettori del lavoro (anche se con norme
da applicare assai fluide), che raccoglievano tutti i dati sul mondo del
lavoro, anche per prevenire e risolvere i conflitti. Crebbe una larga opinione
pubblica sensibile ai problemi di giustizia sociale, ad esempio in materia
tributaria. Per molti anni, tuttavia, non si poté fare a meno dell’imposta sul
macinato, anche se i politici promettevano sempre di meglio. L’art. 25 dello
Statuto parlava di ‘proporzionalità’ delle imposte, ma non era inteso anche
come ‘progressività’ delle aliquote.
L’istruzione gratuita si affermò (primo nucleo del diritto allo studio di cui
all’art. 34 dell’attuale Costituzione), e ciò fu importante perché al possesso
di titoli di studio erano condizionati vari diritti. Significativa era la
previsione del ‘diritto di legalità’, ossia di esercitare quanto previsto dalle
leggi e pretendere che l’autorità non ostacolasse ma operasse
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conformemente alla legge.
Il diritto elettorale consisteva nella facoltà di partecipare alla formazione
degli organi rappresentativi e amministrativi, e di essere oggetto di tale
elezione ricorrendo i presupposti di legge. Con la legge del 1882 si triplicò il
corpo elettorale (da 600mila a oltre 2milioni); quella del 1912 (intervenuta
dopo il progetto Luzzatti del ‘10 che prevedeva anche l’obbligo del voto)
parlò di ‘suffragio universale’ (maschile, ovviamente) e ci fu in realtà un
sensibile incremento alle elezioni del ’13: da 3,5 milioni a 8,65 milioni, il
251% in più. Rimanevano escluse le donne, che però per effetto di una
decisione del Presidente Ludovico Mortara della Corte d’Appello di Ancona
nel 1906 ebbero il diritto di voto amministrativo, anche se la decisione fu
censurata da V. E. Orlando, che diceva che si era male interpretato l’art. 24
dello Statuto ("tutti i regnicoli sono eguali").
Con la fondamentale riforma crispina del Consiglio di Stato del 1889,
rimasta base del nostro sistema di giustizia amministrativa, trovarono tutela
giurisdizionale non solo i diritti ma anche gli "interessi legittimi". Fu anche
previsto il diritto all’indennità in caso di esproprio (giusta indennità ex art. 29
Statuto, intesa come giusto prezzo), ma per il risanamento della città di
Napoli per la legge 1885 si inventò la formula dell’indennità costituita per
metà dal valore effettivo di mercato e per metà da una cifra ipotetica e
puramente nominale derivante dal valore locativo e dall’imponibile
tributario.
18.
I doveri civici
Tra i doveri civici, ricordiamo quelli della frequenza scolastica, l’obbligo
tributario, doganale e tributario in senso stretto. Ogni tributo poteva essere
imposto solo per legge (Statuto, art. 30) e proporzionale (art. 25). Il
dibattito continuò a vertere essenzialmente sul problema del macinato, ma
Giolitti nel ’92 ammise che il sistema proporzionale era in realtà progressivo
a rovescio, nel senso che i meno abbienti pagavano di più dei ricchi. Egli
addossava all’opposizione l’impossibilità di attuare la progressività. Pensare
che la proporzionalità dei tributi era sembrata già a Mirabeau una delle
maggiori conquiste della Rivoluzione, perché allora solo i moralisti e i
socialisti sostenevano la progressività!
74 / 105
Solo nel 1866 si passò dal sistema dei "contingenti" - per ogni provincia
cioè si fissava l’importo dovuto - a quello della quantità fissa per ogni
contribuente sui redditi e della ritenuta sui pagamenti.
Dal 1854 ebbe applicazione il regolamento generale della leva militare
obbligatoria con molte possibilità di esenzione e anche di ‘affrancazione’ a
pagamento. Legge pressoché definitiva fu quella del 1882 (leva a 21 anni,
poi nel testo unico dell’88).
19.
L’unificazione del diritto penale e il Codice Zanardelli
Se l’Italia arrivò in tempi rapidi a darsi una legislazione civilistica unitaria
grazie al Codice Pisanelli del 1865, molto più travagliato fu il cammino del
diritto penale. In tale campo, nel nostro paese accadde il contrario di
quanto successe un Germania, dove fu subito applicato un codice penale
unico (quello prussiano) nel 1871, ma la forza e le remore della dottrina
(pandettistica) ritardarono di ben trent’anni l’adozione di un codice civile.
L’Unità d’Italia non aveva portato ad una unificazione sul piano del diritto
penale. Fino alla promulgazione del Codice Zanardelli, il 1° gennaio 1890,
l’Italia si trovava in effetti ripartita in tre aree distinte :
a) il nord e il centro fino a Roma (esclusa la Toscana), in cui vigeva il
codice penale piemontese del 1859;
b) la Toscana, retta dal codice penale (e dal regolamento di polizia
punitiva granducali del 20 giungo 1853)
c) il sud e la Sicilia, in cui, a seguito del decreto 17 febbraio 1861 e
riconoscendo (pur nell’onda della “piemontesizzazione” legislativa) le
profondissime differenze esistenti nella penisola, era stata introdotta
una versione modificata del codice penale piemontese.
Le differenze tra tali legislazioni penali erano rilevanti : ispirato al modello
del Code pénal francese del 1810 – di cui conservava la classica tripartizione
dei reati in crimini, delitti e contravvenzioni-, il codice piemontese aveva
però notevolmente mitigato le pene non solo rispetto a quello, ma anche ad
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un precedente codice sardo del 1847. La pena di morte vi era prevista per
un numero ristretto di casi, ed era prevista un’applicazione generale delle
circostanze attenuanti (laddove il codice del 1847 le contemplava
unicamente in caso di delitti contro la proprietà).
Il codice toscano, poi, rappresentava il portato di una tradizione penalistica
all’avanguardia assoluta in Europa per la sua mitezza. Il Granducato di
Toscana era stato infatti il primo stato europeo – in un contesto di vigore
generalizzato ovunque della tortura giudiziaria e della pena di morte – a
mettere in pratica i postulati di Beccaria e dell’illuminismo giuridico-penale,
abolendo pionieristicamente tale pena grazie al Codice Leopoldino (dal
nome del Granduca Leopoldo d’Asburgo-Lorena) del 1786. Reintrodotta
poi in seguito a più riprese nella stessa Toscana, la pena di morte non era
però più prevista dal codice del 1853 poiché abolitavi grazie a due decreti
del governo provvisorio toscano dell’aprile 1859 e del gennaio 1860.
L’unificazione del diritto penale in Italia dipese quindi ben presto dalla
soluzione da darsi al problema della pena di morte (abolita in Toscana, in
vigore altrove) e all’atroce paradosso di essere condannati a morte nel resto
d’Italia per lo stesso reato per il quale in Toscana la vita non era in gioco.
Doveva la mite Toscana riaprire le sue porte al carnefice? O non doveva
piuttosto il resto del paese bandirlo? Da taluni eminenti criminalisti (come
Carrara) si arrivò persino a sostenere, per tentare di “salvare” la Toscana, la
non necessità di un codice penale unico. Ma ben presto, si cominciò a non
mettere più in discussione la scelta toscana, e il terreno di scontro si spostò
piuttosto sul se non dovesse essere il resto della penisola a modificare il
proprio diritto penale. Comunque sia, il dibattito sul tema, in Parlamento e
nell’opinione pubblica – dove forte fu la corrente abolizionista - fu lungo e
aspro per decenni, accresciuto poi dalle stridenti differenze ormai
delineatesi nella penalistica italiana degli anni ’70 dell’Ottocento tra la
“scuola classica” – legata alla tradizione liberale e al principio di
proporzionalità, e in maggioranza abolizionista – e la “scuola positiva”,
vicina all’idea della “diversità biologica” del reo e della conseguente
necessità della difesa della società (cfr. più in esteso ultimo capitolo,
paragrafo 4).
Due tappe portarono all’unificazione penale ed all’abolizione della pena di
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morte :
a) una prima fase, di breve durata (1862-1865), caratterizzata da due
progetti, l’uno del Miglietti (1862), l’altro del Mancini (1865) volti ad
introdurre in Toscana il codice piemontese emendato della pena di
morte. Pasquale Stanislao Mancini, in particolare, che sarà uno dei
padri della nuova legislazione penale, era un abolizionista convinto, e
il suo progetto di nuovo codice, che pure poteva contare sulla
maggioranza alla Camera, naufragò però contro l’opposizione del
Senato regio nell’aprile 1865;
b) una seconda fase, più lunga (1868-1890), durante la quale si affermò
definitivamente l’idea che si dovesse varare un codice penale ex novo,
alternativo rispetto ai due (o tre) modelli vigenti.
Dal 1868, in effetti, i progetti si susseguirono : dapprima fu la volta del
Guardasigilli Pisanelli (l’artefice del codice civile), poi, nel 1874, del nuovo
ministro della Giustizia Vigliani. Il progetto Vigliani manteneva la pena di
morte, ma in casi tassativamente circoscritti, e faceva appello,
generosamente, al principio dell’emenda del reo. Fu approvato il 25 maggio
1875 da un Senato che non aveva fatto mistero delle sue simpatie antiabolizioniste, ma fu anche l’ultimo progetto di codice a prevedere il
mantenimento della pena di morte.
Nel marzo 1876, infatti, con l’avvento della Sinistra al potere, gli
abolizionisti, guidati dal Mancini, riprendono l’iniziativa. Mancini, chiamato
alla carica di Ministro della Giustizia, presenta nel novembre 1876 alla
Camera un progetto di codice basato sul progetto Vigliani ma emendato da
una commissione ad hoc presieduta da lui stesso e composta di eminenti
giuristi (Carrara, Conforti, Pessina, Tolomei, Ellero, Lucchini, quest’ultimo
infaticabile direttore dell’importante “Rivista penale” di impostazione
nettamente progressista) e contenente (tra l’altro) l’abolizione della pena di
morte. Il secondo progetto Mancini sarà approvato dalla Camera dei
deputati il 7 dicembre 1876 ma non andrà oltre, causa l’abbandono
prematuro del ministero della Giustizia da parte del Mancini. E seguiranno
anni di immobilismo legislativo. Nel frattempo, l’Italia aveva però
inaugurato in regime della c.d. “abolizione di fatto” (più nessuna esecuzione
capitale dall’avvento della Sinistra al potere).
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Lo sblocco di questa situazione di stallo dovuta alla divisione, in
Parlamento e nel paese, tra abolizionisti e non, verrà dagli sforzi di
Giuseppe Zanardelli, ministro della Giustizia a più riprese negli anni ’80
dell’Ottocento. Ritornato al dicastero nel 1887 dopo un primo progetto
fallito cinque anni prima, Zanardelli aggirerà il problema delle lentezze e dei
profondi conflitti parlamentari inaugurando un sistema in auge ancor oggi
nella materia codicistica : quello della legge-delega da parte del Parlamento.
Grazie ad un Senato “addolcito” da una componente abolizionista più
numerosa e ad un voto favorevole alla legge-delega il 22 novembre 1888,
Zanardelli potrà così, in poco più di un anno, portare a termine, far votare e
far entrare in vigore per il 1° gennaio 1890 un codice penale che riunificava
il diritto penale della penisola. La pena capitale non vi era più prevista,
sostituita dall’ergastolo.
Il Codice Zanardelli era diviso in tre libri : parte generale, delitti e
contravvenzioni. Quindi, contrariamente al codice francese del 1810 e a
quello piemontese, e seguendo invece la tradizione toscana, esso accoglieva
la bipartizione, e non già tripartizione dei reati.
Queste, in breve, le sue caratteristiche, come le espose lo Zanardelli stesso
nella sua relazione conclusiva dinanzi alle camere del Parlamento :
a) il codice mantiene i principi della volontà e del libero arbitrio come
base dell’imputabilità, in omaggio ai postulati della “scuola classica”.
Tuttavia, Zanardelli ammette che il legislatore dovrà trovare
nell’indagine psichiatrica e antropologica utili elementi di conoscenza
del reo per “determinarne il trattamento più opportuno”. La “scuola
positiva” aveva fato breccia, seppure parzialmente!
b) Si adotta la bipartizione dei reati, come detto sopra;
c) Viene vietata per spirito garantista (e come nel progetto Mancini) la
retroattività della legge penale, salvo in caso di “favor rei”;
d) Come si è detto, è definitivamente abolita la pena di morte. L’Italia
sanzionerà tale progresso rispettivamente dopo il Portogallo (1867) e i
Paesi Bassi (1870). La pena capitale sarà però reintrodotta in Italia nel
1930 (e fino al 1946) in un clima politico totalmente diverso, con il
nuovo codice penale (c.d. “Codice Rocco”, in gran parte in vigore
ancor oggi).
e) Si stabilisce una graduazione di pena – sconosciuta al Code pénal - tra
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tentativo e reato consumato;
f) Si crea a certe condizioni, in omaggio al principio dell’emenda e del
reinserimento del colpevole nella società, la figura della liberazione
condizionale (sotto sorveglianza).
g) Si applica la recidiva, che però opera unicamente quando le pena
inflitta per il reato precedente sia divenuta definitiva;
h) Infine, la detenzione preventiva è scontata dalla durata globale della
pena (istituto ignoto tanto al Code pénal che al codice piemontese).
Tecnicamente ben fatto, progressista nella sua impostazione (come
possiamo ben vedere da quanto detto sopra), il codice Zanardelli
rappresenta certo un traguardo di liberalismo penalistico.
Ma in quegli ultimi anni dell’Ottocento i seguaci della “scuola positiva” di
Ferri e Lombroso e delle teorie punitive guadagnavano sempre più terreno.
E proprio nel momento dell’abolizione della pena capitale, il dibattito
continuava comunque, non solo “a destra”, ma anche “a sinistra” : una
sparuta ma vivace minoranza di pubblicisti, riuniti attorno alla “Rivista
penale” del Lucchini, comincerà infatti ad interrogarsi anche
sull’opportunità dell’ergastolo – specie se combinato con lunghi anni di
isolamento – ai fini della rieducazione del condannato.
20. Sviluppi politici e costituzionali in Europa tra Ottocento e
Novecento
a) Francia
Il “Secondo impero”, 1852-1870. In Francia, la repubblica creata nel 1848 non
durerà a lungo: Luigi Napoleone, eletto presidente nel dicembre di
quell’anno, organizzerà un vero e proprio colpo di stato il 2 dicembre 1851,
arrestando gli oppositori e sopprimendo la libertà di stampa.
Successivamente, il 7 novembre 1852, un senatoconsulto restaurerà
ufficialmente il regime imperiale, e Luigi Napoleone diverrà Napoleone III.
Un plebiscito confermerà poi a larga maggioranza il nuovo stato di cose.
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Nasce così il cosiddetto “secondo impero” (dopo quello di Napoleone I),
un regime che gli storici hanno definito di “cesarismo democratico”, dai
tratti fortemente autoritari e populisti. Uno dei caratteri tipici del
“bonapartismo” è infatti la volontà d’instaurare una sorta di nesso diretto
con il popolo, che si riconosce come detentore della sovranità e a cui ci si
riserva il diritto di fare appello tramite plebisciti o referendum, non di rado
tuttavia unicamente in funzione confermativa e per “celebrare”
maggiormente decisioni già adottate. Si tenga presente che venature
“bonapartiste”, nel senso di cui sopra, affioreranno sovente nella politica
francese, sino ad oggi ).
Tuttavia, col passare del tempo, e di pari passo con l’indebolimento della
posizione dell’imperatore, si avrà, nel “secondo impero” una chiara
evoluzione in senso parlamentare.
Una costituzione, promulgata il 14 gennaio 1852, poi modificata, conferisce
all’imperatore, responsabile unicamente di fronte al popolo “cui può fare
appello” (art.5) il potere esecutivo in via esclusiva e, unitamente al Senato e
al Corpo Legislativo, il potere legislativo. L’imperatore, che comanda le
forze armate, dichiara la guerra, conclude i trattati e accorda le grazie,
nomina e revoca ad libitum i ministri al di fuori di qualsiasi tipo di rapporto
fiduciario con le camere del Palamento. Inoltre, egli ha in via esclusiva
l’iniziativa legislativa, fa i regolamenti e i decreti di esecuzione, ha diritto di
veto sulle leggi, e può sciogliere il Corpo Legislativo. Le due camere sono
strettamente controllate dall’imperatore : il Senato è interamente nominato
da quest’ultimo, mentre il Corpo Legislativo è eletto a suffragio universale e
diretto per sei anni con scrutinio uninominale e a doppio turno, peraltro in
un contesto nel quale la ripartizione dei collegi elettorali e l’organizzazione
delle elezioni non lasciavano praticamente alcuno spazio per candidati non
ufficiali ( ben pochi saranno eletti tra il 1852 e il 1870).
Come ben si vede, la costituzione del 1852, pur riconoscendo nel
preambolo “i principi del 1789”, ritorna in pratica a modellare un assetto
istituzionale a forte centralità dell’esecutivo, non dissimile nella sostanza – a
parte i tratti tipici bonapartisti del ricorso alla “voce del popolo” – da quello
già visto per la “Carta” del 1830.
E tuttavia, l’autoritarismo napoleonico perderà terreno in favore di una
sempre più marcata evoluzione in senso parlamentare. Sul piano sociale, si
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accorda il diritto di associazione nel 1864, e quattro anni dopo è ristabilita la
libertà di stampa. Ma su quello più specificamente politico-costituzionale,
già nel 1861 si dispongono la pubblicità dei dibattiti del Corpo Legislativo
nonché la facoltà di questo di criticare la politica del governo, di proporre
interpellanze e di votare per singoli capitoli (quindi con più incisività) la
legge di bilancio. Nel 1869, poi, un senatoconsulto accorderà al Corpo
Legislativo il diritto d’iniziativa legislativa e di emendamento, e il 20 aprile
1870 infine, oltre a tramutare il Senato in una seconda camera legislativa a
pari potere, e a privarlo della revisione costituzionale, si introdurrà il
principio del rapporto fiduciario governo-parlamento. Tale ultima
innovazione, ottenuta grazie all’iniziativa del liberale Emile Ollivier, segna
la nascita del moderno parlamentarismo in Francia, e verrà ratificata con
referendum l’8 maggio 1870. Cinque mesi dopo, la disfatta militare di Sedan
contro i prussiani porrà fine al “secondo impero”.
La Terza repubblica, 1875-1940. La “Terza repubblica” fu proclamata a
Parigi nel settembre 1870 in seguito alla disfatta di Sedan, ma in realtà fu
instaurata giuridicamente solo il 30 gennaio 1875 in seguito all’approvazione
per un solo voto, da parte dell’Assemblea nazionale, di un emendamento
(emendamento Henri Wallon) : essa durerà, con alterne vicende e attraverso
due guerre mondiali, sino al 1946.
Nel corso del 1875, l’Assemblea poi approverà tre leggi fondanti nel loro
insieme la costituzione della “Terza repubblica”. Si trattava delle leggi 24 e
25 febbraio sull’organizzazione del Senato e dei pubblici poteri, e della legge
16 luglio sui rapporti tra gli organi dello stato. La costituzione instaurava
un assetto caratterizzato – inizialmente – da un rapporto fiduciario
“imperfetto” tra esecutivo e legislativo, in quanto vi era assente la figura del
“presidente del consiglio”, e la funzione di presiedere il governo (oltre a
nominare i ministri e agli impieghi civili e militari, dirigere le forze armate e
la politica estera, ratificare i trattati internazionali, concedere la grazia ecc.)
spettava ad un presidente della repubblica politicamente non responsabile
di fronte alle camere. Ma ben presto una grave crisi istituzionale si
incaricherà di allontanare la prassi politica da tale modello costituzionale
ancora fondato su un capo dello stato relativamente forte.
Nel maggio 1877 infatti, il presidente della repubblica, generale Mac
Mahon, di sentimenti monarchici, obbligherà alle dimissioni un governo
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che godeva del consenso della maggioranza dei deputati (repubblicani)
dell’Assemblea. Non riuscendo ad ottenere la fiducia per un governo di
stampo conservatore, Mac Mahon scioglierà poi unilateralmente la camera
dei deputati nel giugno seguente, ma il braccio di ferro con l’esecutivo e il
legislativo si concluderà a suo sfavore allorché egli, piegandosi alla volontà
della nuova maggioranza uscita dalle elezioni di ottobre, dovrà nominare un
nuovo governo repubblicano presieduto dal Dufaure. Mac Mahon lascerà la
presidenza della repubblica nel gennaio 1879, e da quel momento la
“costituzione materiale” della “Terza repubblica” segnerà l’avvento e il
perdurare di una prassi parlamentare di tipo assembleare incentrata sul
legislativo. La funzione di presidente della repubblica diverrà puramente
formale, e acquisterà invece importanza quella del presidente del consiglio,
anche se tale figura riceverà una consacrazione costituzionale solamente nel
1934 (dopo un vuoto legislativo di quasi un sessantennio!). Nel frattempo,
uomini di primo piano si erano succeduti a tale carica, come Georges
Clemenceau, capo del potente partito radicale e primo ministro a più riprese
tra fine Ottocento e inizio Novecento e durante tutto il periodo della prima
guerra mondiale; Clemenceau, vero “uomo forte” della politica francese di
tale periodo, sarà anche uno dei principali negoziatori del trattato di
Versailles nel 1919.
Altre caratteristiche della vita costituzionale durante la Terza repubblica
saranno il trasformismo dei partiti (prassi largamente conosciuta anche in
Italia dall’avvento della Sinistra al potere in poi), l’instabilità dei governi e il
multipartitismo. Nella seconda metà dell’Ottocento, il panorama politico
francese vede ben tre partiti conservatori, quattro partiti di stampo liberalprogressista e il partito radicale di Clemenceau! E alla vigilia della seconda
guerra mondiale il panorama non sarà poi così diverso. Mentre la Gran
Bretagna continuava la sua secolare tradizione di bipartitismo, e il partito
laburista (di stampo socialista) aveva ormai soppiantato il liberale, in Francia
si assisteva ancora all’esistenza di una pluralità di partiti, che andavano dai
comunisti ai socialisti, ai radicali di sinistra, alla sinistra indipendente ecc.
fino ad arrivare, sul fronte dell’estrema destra, ai monarchici dell’Action
française. Quanto all’instabilità dei governi, essa spesso paralizzava azioni
politiche di ampio respiro, e solo la presenza di uomini energici quale il
Clemenceau con al loro vigorosa azione potevano farvi da contraltare.
Comunque stiano le cose, si pensi che alla vigilia della seconda guerra
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mondiale, nel giugno 1940, la Terza repubblica, che ormai contava ben 65
anni di esistenza, era arrivata al suo novantaduesimo governo, con una
media di un governo ogni 7 mesi e mezzo. Una media da non fare invidia
nemmeno alla mutevole vita politica italiana nei periodi pre- e postfascista!
b) La Germania
L'unificazione sotto l'egida della Prussia : la costituzione del 1871. Si è visto che la
sconfitta della rivoluzione del ’48 in Germania aveva indebolito la borghesia
liberale. Dappertutto in Germania il movimento costituzionale era in
ritirata, e laddove vennero conservati simulacri di carte costituzionali, gli
organi rappresentativi non riuscirono mai ad avere funzioni rilevanti. Tale
deficit democratico, e l’incapacità dell’affermarsi di un moderno sistema
parlamentare (quale invece esisteva da lungo tempo in Gran Bretagna, e si
era poi sviluppato in Francia dopo il 1875 e in Italia per merito di Cavour
dal 1861) avrebbe caratterizzato la vita politica e costituzionale tedesca sino
alla prima guerra mondiale. La costituzione prussiana del 1850 ne era un
buon esempio: a centralità dell’esecutivo monarchico, ogni parvenza di
possibile ampliamento dei poteri del legislativo tramite un rapporto
fiduciario col governo vi era bloccata in partenza; il già visto sistema
elettorale delle “tre classi”, poi, rimasto in vigore sino al 1918 (i
contribuenti erano divisi in tre categorie ognuna delle quali eleggeva un
numero equivalente di deputati per mezzo di un sistema a doppio turno,
eleggendo cioè dapprima dei delegati che poi procedevano alla elezione dei
deputati veri e propri) non favoriva certo una schietta rappresentatività
popolare, pur se con il passar del tempo si formeranno anche in Prussia e in
Germania moderni partiti di massa quali il socialista e il cattolico.
Politicamente, dal 1850 al 1870 si assiste all’affermarsi della Prussia come
grande potenza: grazie all’opera del Bismarck, essa strapperà all’Austria
l’egemonia sulla confederazione germanica e riuscirà, dopo la vittoria sulla
Francia di Napoleone III, a portare a termine l’unificazione tedesca sotto la
sua guida. Si adotterà una soluzione istituzionale di tipo federale, con i
sovrani e le entità statali tedesche intatti (seppure a sovranità più limitata) e
la creazione di un “impero tedesco” (Deutsches Reich). Il 18 gennaio 1871,
nella sala degli specchi di Versailles, il re di Prussia Guglielmo I fu
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proclamato imperatore di Germania. Suo cancelliere rimarrà, sino al 1890,
l’energico Bismarck.
L’assetto costituzionale del Reich, che rimarrà immutato sino al 1918, è
fissato, il 16 aprile 1871, in una costituzione (Reichsverfassung) fortemente
voluta dal Bismarck. Essa stabilisce (articolo 2) la priorità del diritto
federale su quello regionale e, all’articolo 4, definisce in modo tassativo
(non diversamente da quanto accade nell’odierna legge fondamentale
tedesca) le – ampie - competenze federali (es. economia, banca e finanza,
politica estera, poste, vie di comunicazione ferroviarie, terrestri e fluviali,
materia militare ecc.): tutto quanto non specificato restava di competenza
regionale. L’imperatore, politicamente irresponsabile, continuava a godere
degli ampi poteri già propri al re di Prussia nella costituzione del 1850 (in
particolare, nomina e revoca dei ministri, diritto di far guerra - salvo
approvazione della camera delle regioni - e concludere trattati ecc. ); ogni
forma di rapporto fiduciario tra il “suo” governo (al cui capo egli nominava
un primo ministro o “cancelliere”, responsabile verso lui solo) e il
parlamento era escluso e resterà tale fino alla vigilia del crollo dell’impero
nel novembre 1918, quando una tardiva riforma (la c.d. "legge di
parlamentarizzazione") varata il 28 ottobre - pochi giorni prima
dell'armistizio - introdurrà, troppo tardi, il sistema parlamentare. Il potere
legislativo era esercitato da una camera delle regioni (Bundesrat) composta
da rappresentanti dei vari stati tedeschi e in cui la Prussia si riservava 17
seggi su 58 (il secondo stato più rappresentato era la Baviera con 6 seggi),
nonché da una camera dei deputati (Reichstag) eletta a suffragio universale
(maschile), diretto e segreto. Ai sensi dell’articolo 12 della costituzione,
spettava però all’imperatore convocare, aggiornare e sciogliere tanto il
Bundesrat che il Reichstag, salvo il caso in cui un terzo dei membri del
Bundesrat chiedessero la convocazione di tale ultima camera, che era così
convocata d’ufficio. E’ ovvio che tale limitazione al potere di
autoorganizzazione delle camere si risolveva, al pari dell’assenza del
rapporto fiduciario, in una pesante riduzione di incisività politica.
Stupisce infine l’assenza, nella costituzione imperiale, di una parte dedicata
ai diritti individuali: per tale materia si rinviava alla legislazione regionale,
“decostituzionalizzando” tale tema “classico” delle carte costituzionali.
Ancora un sintomo rivelatore della debolezza delle forze liberali nella vita
politica tedesca di allora.
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Questi gli elementi di base del sistema costituzionale di un paese che si
avviava a giocare un ruolo centrale nella politica europea della seconda metà
dell’Ottocento e del primo Novecento, e che attraverserà una intensa fase
di industrializzazione (già nel 1848 la sola Prussia disponeva di quasi 3000
km di strada ferrata!) e si doterà, con Bismarck e a partire dagli anni ottanta
dell’Ottocento, di una moderna legislazione sociale ben presto imitata
anche in Italia.
La sconfitta subita nella prima guerra mondiale (1918) e il crollo dell’impero
tedesco forniranno infine alle forze liberali l’opportunità, con la creazione
della repubblica di Weimar, di una riscossa politica nel senso della
realizzazione di un sistema parlamentare fino ad allora ostacolato
dall’autoritarismo monarchico.
La costituzione della Repubblica di Weimar. La "costituzione del Reich", più
nota come costituzione di Weimar, dell'11 agosto 1919, segna, sul piano
giuridico, l'affermarsi in Germania di un sistema parlamentare che per tanti
decenni era rimasto incompiuto e impraticabile. E' il momento della
riscossa delle forze liberali, e personaggi di primissimo piano della cultura e
della politica tedesca ed europea - come Max Weber, Walter Rathenau,
Gustav Stresemann - contribuiranno alla redazione del testo. Un testo
però, in cui - come si vedrà - ampi poteri di bilanciamento saranno conferiti
anche al presidente della nuova Repubblica, proclamata il 9 novembre 1918
dai leader socialdemocratici Friedrich Ebert e Philipp Scheidemann.
Sappiamo che la repubblica di Weimar nasce in una situazione di estremo
caos dopo il crollo dell'impero tedesco successivo alla prima guerra
mondiale, mentre nel paese si formavano consigli spontanei di operai e
soldati (sull'esempio dei soviet russi del 1917) e le forze comuniste di Rosa
Luxemburg e Karl Leibknecht si preparavano all’azione. Weimar é quindi
figlia dell'impossibilità di salvare il vecchio ordine imperiale – rimpianto da
molti - , ma anche del bisogno di creare ordine e stabilità contro ogni
sovvertimento. Essa vivrà per quindici anni in estrema instabilità,
travagliata da profonde crisi economiche e sociali (tra cui quella del 1929) e
sempre più paralizzata dal violento affermarsi di partiti estremistici come
quello nazionalsocialista. La presa del potere di Adolf Hitler nel gennaio
1933 ne segnerà la fine.
La situazione da cui nacque la costituzione di Weimar - dibattuta e
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approvata da una camera dei deputati (Reichstag) eletta nel gennaio e
riunitasi in Assemblea costituente tra il febbraio e il luglio del 1919 - riflette
pertanto il tentativo di apportare modifiche istituzionali al Reich tedesco in
modo ordinato e pacifico. La Germania, dopo un cinquantennio di potenza
economica e militare, era infatti tornata ad una sorta di "anno zero", e la
"legge di parlamentarizzazione" del 28 ottobre 1918 era arrivata troppo
tardi per poter salvare un impero il cui sovrano, Guglielmo II, si era per di
più ostinato a rifiutarsi di abdicare in favore del figlio, rendendo così
impossibile ogni ipotesi di continuità monarchica. La scomparsa dalla
scena politica anche dei principi regnanti sui vari stati tedeschi, poi, poneva
grossi interrogativi sul futuro assetto dei rapporti tra stato centrale e
Länder.
Fu proprio in tale clima di incertezza alimentato da molteplici agitazioni
sociali che si fece strada nei costituenti tedeschi l’idea della necessità di
controbilanciare il parlamentarismo con un capo di stato forte, capace di
garantire l'unità del paese contro ogni forza centrifuga. Lo stesso Max
Weber, tra i redattori del testo di costituzione insieme con il
costituzionalista liberale Hugo Preuss, si pronunciò per un capo dello stato
che fosse anche un “dittatore plebiscitato dalle masse”. La costituzione di
Weimar reca evidentissime tracce di tale volontà di bilanciamento tra
parlamento ed esecutivo presidenziale forte.
Se in tempo di pace la gestione del paese spettava ad un Reichstag da cui il
governo dipendeva con rapporto fiduciario, in situazioni di emergenza
subentrava in posizione dominante un presidente della repubblica
(Reichspräsident) eletto dal popolo a suffragio universale diretto e dotato
di vaste competenze. Tra l'altro, il Reichspräsident poteva sciogliere il
Reichstag (art. 25 b), nominare e revocare il primo ministro (Reichskanzler)
e i ministri (art.53 c), provocare un referendum su di una legge già varata
dal Reichstag, assumere poteri straordinari in caso di emergenza (art.48) e
assumere il comando supremo delle forze armate (art.47). Tale posizione
di forza del capo dello stato - dotato per di più di un potere di scioglimento
del Reichstag che non poteva non indebolire l'indipendenza di quest'ultimo,
condizionandolo fortemente - è quindi ben evidente, pur se inserita in un
meccanismo istituzionale che prevedeva contrappesi quali la necessità della
controfirma per ogni atto del capo dello stato (art.50) e la possibilità di
messa in stato d'accusa di quest'ultimo da parte del Reichstag di fronte ad
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un'alta corte di giustizia (art.59).
La posizione del governo era per contro caratterizzata da doppia
dipendenza : formato dal presidente della repubblica (art.53), esso
abbisognava però della fiducia del Reichstag, fiducia che andava concessa
tanto alla persona del cancelliere che ai singoli ministri. La dottrina allora
dominante ritenne poi che la fiducia perdurasse fintantoché il Reichstag
non esprimesse un palese voto di sfiducia, cosa che spesso permise la
formazione di “governi tecnici” provvisori (che il costituzionalismo tedesco
definì “Präsidialkabinette”) allorquando la formazione di governi sostenuti
da chiare maggioranze parlamentari fosse troppo complicata.
L'idea di fondo della costituzione di Weimar consisteva come si vede nella
creazione di una sorta di equilibrio istituzionale tra due organi (legislativo e
capo dello stato) traenti entrambi la loro legittimazione dal mandato
popolare; essa poi si rivelava chiaramente anche nella possibilità per il
presidente di provocare un referendum ogniqualvolta fosse contrario alla
promulgazione di una legge da parte del Reichstag. In tal caso, l'incombente
crisi istituzionale si sarebbe risolta ricorrendo al titolare primigenio della
sovranità, il corpo elettorale.
Più scarso peso aveva la seconda camera parlamentare, la camera delle
regioni o “Reichsrat”, in quello che era pur sempre un sistema legislativo
bicamerale. Le leggi votate dal Reichstag potevano infatti fare oggetto di
opposizione (Einspruch) da parte della seconda camera, ma l'opposizione
poteva essere superata qualora la legge, rinviata per nuova votazione al
Reichstag, fosse riapprovata con una maggioranza di due terzi dei votanti.
Il timore di spinte centrifughe e disgregatrici aveva portato Weimar, in
controtendenza rispetto alla secolare tradizione tedesca, ad indebolire la
posizione dei Länder!
Sorprendente, attualissimo ed oggetto di ispirazione da parte dei costituenti
italiano del dopoguerra (oltreché di quelli francese del 1946) è il vasto ed
articolato elenco delle libertà civili (articoli 109-165) e diviso in cinque capi,
che organicamente prendono in considerazione il cittadino dapprima come
persona singola (capo primo), e successivamente come membro della
società civile. Una ripartizione a noi estremamente familiare, in quanto la
costituzione italiana attuale prende le mosse dal legislatore di Weimar
allorquando considera il cittadino sia come singolo sia “nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità”. E ampia sensibilità vi acquista la
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“questione sociale”, con norme - anch'esse ci sono ormai familiari contenenti un pratico riconoscimento del diritto al lavoro (che è posto
“sotto la protezione del Reich”, art.157) e della necessità di garantire ai
lavoratori “un minimo di diritti sociali comuni a tutti” (art.162).
Tuttavia, ai tempi della vigenza della costituzione di Weimar la dottrina
giuridica dominante - pervasa da una concezione positivistica del diritto non attribuì a tali importanti diritti se non un valore programmatico, e non
immediatamente precettivo.
Verso la fine del periodo weimariano acquistò sempre maggiore importanza
l'articolo 48 sui poteri del presidente in caso di emergenza nazionale. Già il
primo presidente di Weimar, il socialdemocratico Friedrich Ebert, se ne era
servito per sedare i disordini e le agitazioni degli anni dell'immediato
dopoguerra, reprimendo tra l'altro l'insurrezione "spartachista" della
Luxemburg e di Liebknecht. Ma in seguito all'acuirsi delle tensioni sociali
provocata dalle conseguenze della crisi del 1929 di tale potere sarà fatto uso
più volte, cosicché gli ultimi anni di vita di Weimar prima dell'ascesa al
potere di Hitler furono caratterizzati da un progressivo squilibrio
istituzionale: si realizzò cioè uno svuotamento dei poteri del parlamento a
favore di quelli, ormai venati di autoritarismo, di un presidente quale
Hindemburg che, nominando Hitler cancelliere, decretò la fine stessa della
repubblica. La costituzione fu in pratica abrogata dalla “legge sui pieni
poteri del governo” (Ermächtigungsgesetz) del 24 marzo 1933 che
autorizzava il cancelliere Adolf Hitler a emanare leggi sua sponte, al di fuori
di ogni procedura legislativa ordinaria e in deroga all'assetto costituzionale
di Weimar. Era l'inizio del periodo nazionalsocialista.
Vista la sua importanza se non altro come modello per il futuro, si
riproduce qui di seguito, in versione integrale e in traduzione italiana, il
testo della costituzione della repubblica di Weimar dell'11 agosto 1919.
COSTITUZIONE DI WEIMAR DELL’11 AGOSTO 1919
Il popolo tedesco, unito nelle sue stirpi, ed animato dalla volontà di rinnovare e rafforzare, in libertà e giustizia, il suo Reich, di servire la
causa della pace interna ed internazionale e di promuovere il progresso sociale, si è data questa costituzione.
PARTE PRIMA
STRUTTURA E FUNZIONI DEL REICH
CAPO I
REICH E LÄNDER
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Art. 1 – Il Reich tedesco è una repubblica. Il potere statale emana dal popolo.
Art. 2 – Il territorio del Reich si compone dei territori dei Länder tedeschi. Altri territori potranno essere riuniti al Reich, con legge di questo, se la loro
popolazione ne esprima il desiderio, in virtù del diritto di autodecisione.
Art. 3 – La bandiera del Reich è nero-rosso-oro. La bandiera mercantile è nero-bianco-rosso, con i colori del Reich nell’angolo superiore interno.
Art. 4 – I principi fondamentali riconosciuti dal diritto delle genti hanno valore di parti integranti del diritto tedesco.
Art. 5 – Il potere statale nelle materie di competenza del Reich viene esercitato dagli organi di questo in base alla sua costituzione; nelle altre materie
dagli organi dei Länder, in conformità alle loro leggi costituzionali.
Art. 6 – Il Reich ha competenza legislativa esclusiva:
1) per i rapporti con l’estero;
2) per la materia coloniale;
3) per la cittadinanza, la libertà di locomozione, di immigrazione, di emigrazione e di estradizione;
4) per la costituzione della difesa armata;
5) per il sistema monetario;
6) per il regime doganale, nonché per l’unità del territorio nei rapporti doganali e commerciali, e per la libertà di scambio delle merci;
7) per il regime delle poste, telegrafi e telefoni.
Art. 7 – Il Reich esercita il potere legislativo nelle seguenti materie:
1) il diritto civile;
2) il diritto penale;
3) il procedimento giudiziario, compresa l’esecuzione penale e l’assistenza reciproca fra autorità;
4) i passaporti e la polizia per gli stranieri;
5) la cura dei poveri e dei senzatetto;
6) la stampa, le associazioni e riunioni;
7) la politica della popolazione, l’assistenza per la maternità, i lattanti, i fanciulli e la gioventù;
8) il regime sanitario, quello veterinario e la protezione delle piante contro le malattie ed i danneggiamenti;
9) il diritto del lavoro, l’assicurazione e la protezione degli operai ed impiegati, nonché il collocamento dei lavoratori;
10) la rappresentanza professionale per il territorio del Reich;
11) l’assistenza agli antichi combattenti ed alle loro famiglie;
12) il diritto di espropriazione;
13) la socializzazione delle ricchezze naturali e delle imprese economiche, così come la produzione, la reintegrazione, la ripartizione e la
determinazione dei prezzi dei beni economici utili alla collettività;
14) il commercio, il regime dei pesi e misure, l’emissione di carta moneta, il regime delle banche e delle borse;
15) lo scambio dei prodotti alimentari e di consumo, nonché degli oggetti di uso quotidiano;
16) l’industria e le miniere;
17) il regime delle assicurazioni;
18) la navigazione marittima, la pesca di alto mare e del mare costiero;
19) le ferrovie, la navigazione interna, la circolazione a trazione meccanica sulla terra, l’acqua e nell’aria, così come la costruzione di strade,
in quanto interessino il traffico generale e la difesa nazionale;
20) il regime dei teatri e dei cinematografi.
Art. 8 – Il Reich ha inoltre competenza legislativa sulle imposte e le altre entrate, in quanto esse possano in tutto o in parte attenere ai propri scopi. Se
il Reich si appropria di entrate che prima spettavano ai Länder deve provvedere a procurare a questi i mezzi di vita di cui abbisognano.
Art. 9 – Ove si manifesti il bisogno di una regolamentazione uniforme il Reich ha potere legislativo:
1) nella cura del benessere pubblico;
2) nella protezione dell’ordine e della sicurezza pubblica.
Art. 10 – Il Reich può stabilire con legge i principi generali in materia di:
1) diritti e doveri delle associazioni religiose;
2) ordinamento scolastico, compreso l’insegnamento superiore e le biblioteche scientifiche;
3) diritto di impiego per tutti gli enti pubblici;
4) diritto fondiario, ripartizione della terra, regime di colonizzazione interna e del patrimonio familiare, vincoli della proprietà fondiaria,
regime delle abitazioni e distribuzione della popolazione;
5) regime delle inumazioni.
Art. 11 – Il Reich può stabilire con legge principi intorno alla creazione e al modo di riscossione delle imposte nei Länder, in quanto ciò si palesi
necessario per impedire:
1) danni alle entrate o ai rapporti commerciali del Reich;
2) doppie imposizioni;
3) pesi eccessivi o tali da ostacolare l’utilizzazione dei mezzi di comunicazione, o relativi a istituzioni che obblighino a contributi;
4) misure fiscali tendenti ad ostacolare l’importazione di merci a vantaggio della produzione interna, nei rapporti fra i vari Länder o parti di
Land;
5) premi all’esportazione;
oppure per salvaguardare importanti interessi sociali.
Art. 12 – Ove il Reich non faccia uso del suo potere legislativo i Länder conservano l’esercizio di quello loro spettante, a meno non si tratti di materia
esclusiva del primo.
Contro le leggi dei Länder, nelle materie relative agli oggetti di cui all’art. 7 n. 13 spetta al governo del Reich un diritto di veto quando esse
possano compromettere il benessere della generalità dello Stato.
Art. 13 – Il diritto del Reich prevale su quello dei Länder.
Ove sorgano dubbi o contestazioni sulla conciliabilità delle disposizioni di un Land con il diritto del Reich le autorità competenti dell’uno o
dell’altro possono provocare, nelle forme stabilite da una legge del Reich, la decisione di un supremo tribunale del Reich.
Art. 14 – Le leggi del Reich, ove queste non dispongano altrimenti, sono portate ad esecuzione dalle autorità dei Länder.
Art. 15 – Il governo del Reich esercita il controllo sugli affari rispetto ai quali compete ad esso la potestà legislativa.
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Esso potrà emanare disposizioni generali per disciplinare l’esecuzione da parte dei Länder delle leggi del Reich. Inoltre esso ha facoltà, allo
scopo di sorvegliare la detta esecuzione, di inviare propri incaricati presso le autorità centrali dei Länder, ed altresì, con il consenso di queste,
presso gli uffici dipendenti.
I governi dei Länder sono obbligati ad eliminare, su richiesta del governo del Reich, le deficienze che fossero accertate nell’esecuzione delle
leggi del Reich. In caso di divergenza di opinioni ciascuno dei due governi può provocare la decisione del tribunale costituzionale, salvo il
caso in cui la legge del Reich preveda la competenza di un’altra giurisdizione.
Art. 16 – I funzionari incaricati dell’immediata amministrazione del Reich nei Länder devono di regola appartenere per la loro origine a questi. Gli
impiegati, agenti ed operai dell’amministrazione del Reich devono, se lo richiedano, venire utilizzati nel territorio di cui sono originari, in
quanto ciò si renda possibile e non appaia in contrasto con la loro preparazione o con esigenze di servizio.
Art. 17 – Ogni Land deve avere una costituzione di Stato libero. Gli organi rappresentativi devono essere formati mediante voto generale, uguale,
immediato e segreto, reso da tutti i cittadini di ambo i sessi, secondo i principi fondamentali della rappresentanza proporzionale. Il governo
del Land deve godere della fiducia della rappresentanza popolare.
Le norme fondamentali, vigenti per la rappresentanza politica sono applicabili anche per le elezioni comunali. Tuttavia con legge dei Länder
si può subordinare l’esercizio della capacità elettorale al fatto della residenza nel comune per almeno un anno.
Art. 18 – La divisione del Reich in Länder deve, tenendosi presente per quanto è possibile la volontà delle popolazioni interessate, favorire al massimo
l’elevamento economico e culturale del popolo. I mutamenti di territorio dei Länder e la formazione di nuovi Länder nell’ambito del Reich
sono disposti con legge costituzionale del Reich.
Se però i Länder immediatamente interessati vi consentano è sufficiente una legge ordinaria.
È altresì sufficiente una legge ordinaria del Reich, anche se uno dei Länder interessati non consenta, quando il mutamento territoriale o la
nuova formazione proposte corrispondano alla volontà della popolazione ed il Reich annetta ad esse un interesse preminente.
La volontà della popolazione deve essere accertata con plebiscito. Il governo del Reich promuove il plebiscito quando un terzo dei cittadini
abitanti nel territorio da separare, che siano elettori politici, lo richieda.
Per potere operare un mutamento territoriale, o una nuova formazione è necessario che si raggiungano tre quinti di voti favorevoli, e che al
voto partecipi la maggioranza degli elettori iscritti. Anche quando si tratti solo della separazione di una parte di una provincia
(Regierungsbezirk) prussiana, di un circondario bavarese (Kreis) o di una porzione corrispondente di distretto amministrativo di altri Länder,
dev’essere accertata la volontà della popolazione di tutta la circoscrizione interessata. Se non vi sia contiguità territoriale della porzione da
separare rispetto alla restante circoscrizione si potrà, con apposita legge del Reich, dichiarare sufficiente la volontà della popolazione del
territorio da separare.
Dopo che sia accertato il risultato della votazione popolare il governo del Reich deve presentare all’approvazione del Reichstag una legge
corrispondente.
Se in occasione della riunione o della separazione sorga contrasto sul regolamento dei rapporti patrimoniali, esso sarà risolto, su istanza di una
parte, dal tribunale costituzionale del Reich.
Art. 19 – Il tribunale costituzionale del Reich, in quanto non vi sia la competenza di un altro organo giudiziario del Reich, decide, su richiesta di una
delle parti contendenti, le controversie costituzionali che sorgano nell’interno di un Land, per la cui soluzione non esista alcun tribunale, ed
altresì quelle di natura non privata fra diversi Länder, o fra il Reich e un Land.
Il presidente del Reich esegue le decisioni del tribunale costituzionale.
CAPO II
IL REICHSTAG
Art. 20 – Il Reichstag è formato dai deputati del popolo tedesco.
Art. 21 – I deputati rappresentano tutto il popolo.
Essi non dipendono che dalla loro coscienza e non sono vincolati da alcun mandato.
Art. 22 – I deputati sono eletti con elezione generale, uguale, immediata e segreta da uomini e donne che abbiano raggiunto il 20° anno di età, secondo
i principi generali della rappresentanza proporzionale.
Le elezioni dovranno aver luogo di domenica, o in altro giorno festivo.
Le disposizioni più particolari sono contenute nella legge elettorale del Reich.
Art. 23 – Il Reichstag è eletto per 4 anni. Le nuove elezioni devono aver luogo non oltre il 60° giorno dopo la scadenza di tale termine.
La prima riunione del Reichstag deve avvenire non oltre il 30° giorno dopo le elezioni.
Art. 24 – Il Reichstag si convoca ogni anno nel primo venerdì di novembre nella città sede del governo del Reich. Il presidente del Reichstag può
convocarlo prima di detta epoca, se ciò sia richiesto dal presidente del Reich, o per lo meno da un terzo dei membri del Reichstag.
Il Reichstag decide la chiusura della sessione e stabilisce altresì il giorno della riconvocazione.
Art. 25 – Il presidente del Reich può procedere allo scioglimento del Reichstag, ma solo una volta per lo stesso motivo.
La nuova elezione deve aver luogo non oltre il 60° giorno dopo lo scioglimento.
Art. 26 – Il Reichstag elegge il proprio presidente, i suoi vice presidenti ed i segretari. Esso si dà il suo regolamento interno.
Art. 27 – Nell’intervallo fra due sessioni o legislature il presidente ed i vice presidenti in carica dell’ultima sessione rimangono in funzione.
Art. 28 – Il presidente esercita il diritto di casa e dispone del potere di polizia nell’edifizio del Reichstag. Esso presiede all’amministrazione, dispone
delle entrate e delle uscite, secondo gli stanziamenti di bilancio, e rappresenta il Reichstag in tutti i rapporti e controversie della sua
amministrazione.
Art. 29 – Il Reichstag esplica la sua attività pubblicamente. Può deliberare in segreto quando vi sia la richiesta di almeno cinquanta deputati, approvata
con la maggioranza di due terzi.
Art. 30 – I verbali delle discussioni che hanno luogo nelle sedute pubbliche del Reichstag, o del parlamento di un Land, o delle loro commissioni, non
possono mai dar luogo a responsabilità.
Art. 31 – In seno al Reichstag è costituito un tribunale elettorale. Esso giudica anche della questione se un deputato abbia perduto il mandato.
Il tribunale elettorale è composto da membri del Reichstag eletti da questo per tutta la legislatura, e da membri del tribunale amministrativo
del Reich, che il presidente del Reich nomina, su designazione della presidenza del medesimo.
Il tribunale decide, sulla base di una pubblica trattazione orale, con tre membri provenienti dal Reichstag e due dal tribunale amministrativo.
All’infuori della trattazione davanti al tribunale, l’istruttoria viene compiuta da un incaricato del Reich nominato dal presidente di questo. Pel
rimanente la procedura viene regolata dal tribunale elettorale.
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Art. 32 – Le decisioni del Reichstag sono prese a maggioranza semplice, in quanto la costituzione non esiga un diverso rapporto di voti. Per le elezioni
che hanno luogo nel Reichstag il regolamento interno può consentire eccezioni.
Il numero legale viene determinato dal regolamento interno.
Art. 33 – Il Reichstag e le sue commissioni possono richiedere la presenza del cancelliere e dei ministri.
Il cancelliere, i ministri e i loro incaricati sono ammessi alle sedute del Reichstag e delle commissioni. I Länder sono autorizzati ad inviare
alle sedute loro incaricati per rappresentare il punto di vista del loro governo relativamente agli oggetti in trattazione.
Su loro richiesta i rappresentanti dei governi devono essere intesi durante la discussione; i rappresentanti del governo del Reich anche fuori
dell’ordine del giorno.
Essi sono sottoposti al potere disciplinare del presidente.
Art. 34 – Il Reich ha il diritto, e su richiesta di un quinto dei suoi membri deve, costituire commissioni di inchiesta. Queste commissioni raccolgono
con procedimento pubblico le prove, che esse o i promotori dell’inchiesta ritengono necessarie. La pubblicità può essere esclusa con la
maggioranza di due terzi. Il regolamento interno disciplina la procedura delle commissioni e determina il numero dei loro membri.
I giudici ed i funzionari amministrativi sono obbligati a prestare assistenza per la raccolta delle prove richieste da queste commissioni e di
sottoporre ad esse gli atti di ufficio in loro possesso.
Per le attività delle commissioni e delle autorità dalle medesime richieste trovano impiego, in via analogica, le norme della procedura penale,
senza che tuttavia venga meno il segreto epistolare e delle comunicazioni telegrafiche e telefoniche.
Art. 35 – Il Reichstag costituisce una commissione permanente per gli affari esteri, che rimane in funzione, indipendentemente dalla convocazione
dell’assemblea, anche dopo la fine della legislatura e lo scioglimento del Reichstag, fino alla convocazione del nuovo parlamento. Le sue
sedute non sono pubbliche, ma la pubblicità può venire disposta con la maggioranza di due terzi.
Inoltre il Reichstag costituisce, a garanzia del diritto della rappresentanza popolare di fronte al governo, pel periodo intermedio fra le sessioni
e dopo la dissoluzione dell’assemblea, per fine della legislatura o scioglimento, fino alla convocazione del nuovo Reichstag, una commissione
permanente.
Queste commissioni hanno i diritti propri delle commissioni di inchiesta.
Art. 36 – Nessun membro del parlamento del Reich o di un Land può in qualsiasi tempo essere perseguito giudizialmente o disciplinarmente in
conseguenza dei suoi voti o delle manifestazioni compiute nell’esercizio del suo mandato, o comunque dichiarato responsabile fuori che
dall’assemblea.
Art. 37 – Nessun membro del Reich o di un Land può, senza autorizzazione della camera cui appartiene, durante la sessione, essere sottoposto a
procedimento penale o arrestato, a meno che l’arresto non avvenga in fragrante, o al più tardi nel corso del giorno seguente al delitto.
Uguale autorizzazione è necessaria per qualsiasi altra restrizione della libertà personale che incida sull’esercizio dell’attività parlamentare.
Ogni procedimento penale contro un membro del parlamento, arresto o altra limitazione della libertà personale, deve essere sospeso per il
periodo della sessione, o su richiesta della camera cui il deputato appartiene.
Art. 38 – I membri del Reichstag o di un Landtag sono autorizzati a rifiutare la testimonianza sulle persone che hanno loro confidato dei fatti nella loro
qualità di deputati, o a cui essi nella qualità stessa li hanno confidati, e altresì sui fatti stessi. Essi sono assimilati alle persone che sono per
legge sciolti dal dovere di testimonianza, anche per quanto riguarda la consegna di documenti.
Solo con il consenso dei presidenti possono essere eseguite perquisizioni o sequestri nei locali del Reichstag o di un Landtag.
Art. 39 – Gli impiegati o gli appartenenti alle forze armate non hanno bisogno di congedo per l’esercizio delle loro funzioni di membri del Reichstag o
di un Landtag.
Ove essi siano candidati ad un seggio nelle dette assemblee deve esser loro concesso il permesso necessario per la preparazione dell’elezione.
Art. 40 – I membri del Reichstag godono del diritto di libera circolazione su tutte le ferrovie tedesche, nonché ad un’indennità, da fissare mediante una
legge del Reich.
Art. 40a – Le prescrizioni degli artt. 36, 37, 38 comma I, e 39 comma I valgono pel presidente e i vice presidenti del Reichstag, per i membri
permanenti e primi supplenti delle commissioni indicate nell’articolo 35, anche pei periodi intermedi fra le sessioni o le legislature del
Reichstag.
Ugualmente avviene per tutti i membri dei corrispondenti organi di un Landtag, se essi, a norma delle loro costituzioni, debbano rimanere in
funzione fuori del periodo della sessione o legislatura.
Per l’applicazione dell’art. 37 ai membri di cui al precedente comma le competenze attribuite al Reichstag e al Landtag sono esercitate dalle
corrispondenti commissioni.
Le persone indicate nel primo comma godono, nel periodo fra due legislature, degli stessi diritti indicati nell’articolo 40.
CAPO III
IL PRESIDENTE ED IL GOVERNO DEL REICH
Art. 41 – Il presidente del Reich viene eletto da tutto il popolo tedesco.
Eleggibile è ogni tedesco che abbia compiuto il trentacinquesimo anno. Le norme più particolari sono stabilite da apposita legge.
Art. 42 – Il presidente presta davanti al Reichstag, all’atto dell’assunzione delle sue funzioni, il seguente giuramento:
“Io giuro che dedicherò le mie forze al bene del popolo tedesco onde accrescere la sua prosperità e preservarlo da danni, che osserverò la
costituzione e le leggi del Reich, e che adempirò il mio dovere con coscienza e giustizia verso ciascuno”.
È consentita l’aggiunta di una formula di impegno di carattere religioso.
Art. 43 – L’ufficio del presidente del Reich dura sette anni. È possibile la rielezione.
Su iniziativa del Reichstag e mediante votazione popolare il presidente può essere deposto dalla carica prima del decorso del suo termine. La
deliberazione del Reichstag deve essere presa con la maggioranza di due terzi. In seguito ad essa il presidente è sospeso dall’esercizio del suo
ufficio. Il rigetto della proposta di deposizione del Reichstag vale come rielezione del presidente in carica, ed ha per conseguenza lo
scioglimento del Reichstag.
Il presidente del Reich non può essere perseguito penalmente senza il consenso del Reichstag.
Art. 44 – Il presidente non può essere contemporaneamente membro del Reichstag.
Art. 45 – Il presidente rappresenta il Reich nei rapporti internazionali. Egli conclude in nome del Reich alleanze ed altri trattati con potenze estere. Egli
invia ed accredita gli ambasciatori.
Dichiarazione di guerra o conclusione di pace devono avvenire per legge.
Alleanze e trattati con altri Stati, in quanto tocchino materia legislativa, hanno bisogno del consenso del Reichstag.
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Art. 46 – Il presidente nomina e licenzia gli impiegati e gli ufficiali, ove la legge non disponga altrimenti. Egli può delegare tali poteri ad autorità a lui
sottoposte.
Art. 47 – Il presidente ha il comando supremo di tutte le forze armate del Reich.
Art. 48 – Se un Land non adempie gli obblighi impostigli dalla costituzione o da una legge del Reich, il presidente può costringervelo con l’aiuto della
forza armata.
Il presidente può prendere le misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, quando essi siano turbati o minacciati
in modo rilevante, e, se necessario, intervenire con la forza armata. A tale scopo può sospendere in tutto o in parte la efficacia dei diritti
fondamentali stabiliti dagli articoli 114, 115, 117, 118, 123, 124 e 153.
Di tutte le misure prese ai sensi dei precedenti commi il presidente deve senza indugio dare notizia al Reichstag. Le misure stesse devono
essere revocate se il Reichstag lo richieda.
Nel caso di urgente necessità, il governo di un Land può adottare pel proprio territorio le misure provvisorie indicate nel secondo comma.
Esse vanno revocate se lo richiedono il presidente del Reich o il Reichstag.
Norme più particolari saranno date con legge del Reich.
Art. 49 – Il presidente esercita il diritto di grazia per tutto il Reich.
L’amnistia che debba valere per tutto il Reich può concedersi solo con legge di questo.
Art. 50 – Tutte le ordinanze e provvedimenti del presidente, anche se riferentesi alle forze armate, non sono validi senza la controfirma del cancelliere
o del ministro competente, che ne assumono così la responsabilità.
Art. 51 – Il presidente, in caso di impedimento, viene supplito dal cancelliere. Se l’impedimento debba presumibilmente durare per lungo tempo, la
supplenza sarà regolata per legge.
Tali norme valgono anche nel caso di una prematura cessazione del presidente, fino allo svolgimento della nuova elezione.
Art. 52 – Il governo del Reich si compone del cancelliere e dei ministri.
Art. 53 – Il cancelliere e, su proposta di questi, i ministri vengono nominati e licenziati dal presidente.
Art. 54 – Il cancelliere ed i ministri per rimanere in carica hanno bisogno della fiducia del Reichstag. Ognuno di essi deve dimettersi se il Reichstag,
con espressa deliberazione, gli ritiri la sua fiducia.
Art. 55 – Il cancelliere ha la presidenza del governo e ne dirige l’attività secondo un regolamento che viene predisposto dal governo ed approvato dal
presidente del Reich.
Art. 56 – Il cancelliere determina le direttive politiche, e ne assume la responsabilità innanzi al Reichstag. Nell’ambito di queste direttive ogni ministro
dirige in modo autonomo il ramo d’affari a lui affidato, assumendone la responsabilità di fronte al Reichstag.
Art. 57 – I ministri devono sottoporre all’esame e alla decisione del consiglio dei ministri tutti i progetti di legge, o altri provvedimenti per cui ciò sia
richiesto dalla costituzione o dalle leggi, come pure conflitti su questioni che toccano la competenza di più ministeri.
Art. 58 – Il consiglio dei ministri prende le sue decisioni a maggioranza. In caso di parità decide il voto del presidente.
Art. 59 – Il Reichstag può accusare innanzi al tribunale costituzionale il presidente del Reich, il cancelliere e i ministri, quando essi abbiano violato
colpevolmente la costituzione o le leggi. La proposta di elevamento dell’accusa deve essere firmata da almeno cento membri del Reichstag ed
esige per l’approvazione la maggioranza richiesta per i mutamenti costituzionali. Le altre norme sono contenute nella legge sul tribunale
costituzionale.
CAPO IV
IL REICHSRAT
Art. 60 – Per la rappresentanza dei Länder tedeschi nella legislazione ed amministrazione del Reich viene costituito un Reichsrat.
Art. 61 – Nel Reichsrat ogni Land ha almeno un voto. Nei Länder più grandi è attribuito un voto per ogni settecentomila abitanti, o per frazioni
superiori a trecentocinquantamila abitanti. Nessun Land può essere rappresentato da più di due quinti di tutti i voti.
L’Austria tedesca, dopo la sua unione al Reich, avrà diritto di partecipare al Reichsrat con il numero di voti corrispondenti alla sua
popolazione. Fino ad allora i suoi rappresentanti hanno voto solo consultivo.
Il numero dei voti viene determinato di nuovo dal Reichsrat dopo ogni censimento generale.
Art. 62 – Nelle commissioni formate dal Reichsrat nel suo seno nessun Land ha più di un voto.
Art. 63 – I Länder vengono rappresentati nel Reichsrat dai membri dei loro governi. Tuttavia la metà dei rappresentanti della Prussia è designata, con
le modalità stabilite da una legge del Land, dalle amministrazioni provinciali prussiane.
I Länder sono autorizzati ad inviare al Reichsrat tanti rappresentanti quanti sono i seggi ad essi spettanti.
Art. 64 – Il governo deve convocare il Reichsrat quando un terzo dei suoi membri ne faccia richiesta.
Art. 65 – La presidenza del Reichsrat e delle sue commissioni è tenuta da un membro del governo del Reich. I membri del governo del Reich hanno il
diritto, e su richiesta del Reichsrat il dovere di prendere parte alle sedute di questo e delle sue commissioni. Essi devono su loro richiesta
essere sempre ascoltati durante le deliberazioni.
Art. 66 – Il governo del Reich ed ogni membro del Reichsrat sono autorizzati di presentare proposte al Reichsrat.
Il Reichsrat regola il suo procedimento con apposito regolamento.
Le sedute del Reichsrat sono pubbliche. In conformità alle norme del regolamento può essere esclusa la pubblicità per singole trattazioni.
Le votazioni avvengono a maggioranza semplice.
Art. 67 – I ministri del Reich devono tenere al corrente il Reichsrat della condotta degli affari dello Stato. Per deliberare sugli affari più importanti
devono essere consultate dai ministri del Reich le commissioni competenti del Reichsrat.
CAPO V
IL POTERE LEGISLATIVO
Art. 68 – Il diritto di iniziativa appartiene al governo e al Reichstag.
Le leggi vengono deliberate dal Reichstag.
Art. 69 – La presentazione di proposte di legge da parte del governo deve essere preceduta dal consenso del Reichsrat. Se non si raggiunga un accordo
fra il governo e il Reichsrat, il governo può dar corso alla sua proposta, ma deve far presente l’opinione contraria del Reichsrat.
Se il Reichsrat propone un progetto di legge, che non sia approvato dal governo, questo deve presentarlo al Reichstag, indicando il proprio
punto di vista.
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Art. 70 – Il presidente del Reich deve promulgare la legge approvata secondo il procedimento prescritto e pubblicarla nel giornale ufficiale del Reich
nel termine di un mese.
Art. 71 – Le leggi entrano in vigore, se non sia prescritto diversamente, nel quattordicesimo giorno successivo a quello in cui ha avuto luogo la loro
pubblicazione nel giornale ufficiale del Reich, nella capitale del Reich stesso.
Art. 72 – La pubblicazione di una legge può essere sospesa per due mesi se ciò sia richiesto da un terzo dei membri del Reichstag. Però le leggi che
siano dichiarate urgenti dal Reichstag e dal Reichsrat devono essere pubblicate dal presidente senza tener conto della detta richiesta.
Art. 73 – Una legge votata dal Reichstag deve essere, prima della sua pubblicazione, sottoposta alla votazione popolare, se entro un mese dalla
approvazione il presidente del Reich lo stabilisca.
Una legge la cui pubblicazione sia stata, su richiesta di almeno un terzo del Reichstag, sospesa, deve essere sottoposta a votazione popolare se
ciò sia richiesto da un ventesimo degli elettori.
Infine deve procedersi ad una votazione popolare se un decimo degli elettori richieda, sulla base di un concreto progetto di legge, che essa
abbia luogo. Il progetto sottoposto alla consultazione popolare deve essere dettagliato. Esso deve essere sottoposto dal governo al Reichstag
con l’indicazione del proprio parere in merito. La votazione non ha luogo se il progetto sia accettato dal Reichstag senza mutamento.
Solo il presidente può provocare una decisione popolare sulla legge di bilancio, su leggi di imposte, o relative a stipendi.
Una legge regolerà il procedimento del referendum e dell’iniziativa popolare.
Art. 74 – Il Reichsrat può sollevare opposizione contro le leggi approvate dal Reichstag.
L’opposizione deve essere recata dal governo a conoscenza del Reichstag entro due settimane dalla sua formulazione e non più tardi di altre
due settimane deve essere integrata con i motivi.
In caso di opposizione, la legge viene sottoposta al Reichstag per un’ulteriore deliberazione. Se non si raggiunga un accordo fra Reichstag e
Reichsrat il presidente del Reich può, entro tre mesi, promuovere una decisione popolare sull’oggetto del conflitto. Ove il presidente non
faccia uso di questo diritto la legge si considera come non esistente. Se il Reichstag, con una maggioranza di due terzi, si sia dichiarato
contrario alla opposizione del Reichsrat, il presidente deve, entro tre mesi, o pubblicare la legge nella formulazione data dal Reichstag, oppure
provocare una votazione popolare.
Art. 75 – La votazione popolare può rendere inefficace una decisione del Reichstag se ad essa partecipi la maggioranza degli elettori.
Art. 76 – La costituzione può essere mutata in via legislativa. Tuttavia le modificazioni sono possibili solo se siano presenti i due terzi dei membri
assegnati per legge al Reichstag, e vi consentano due terzi dei presenti. Anche le decisioni del Reichsrat dirette al mutamento della
costituzione richiedono la maggioranza dei due terzi dei voti. Se per iniziativa popolare un mutamento costituzionale deve aver luogo con
referendum è necessario che si raggiunga il consenso della maggioranza degli elettori.
Se il Reichstag abbia approvato una legge modificativa della costituzione contro l’opposizione del Reichsrat il presidente non potrà procedere
alla sua pubblicazione se il Reichsrat entro due settimane richieda la decisione popolare su di essa.
Art. 77 – I regolamenti per l’esecuzione delle leggi sono di competenza del governo se non sia altrimenti disposto dalla legge. Per essi è richiesto il
consenso del Reichsrat se l’esecuzione delle leggi competa alle autorità dei Länder.
CAPO VI
IL POTERE ESECUTIVO
Art. 78 – La materia dei rapporti internazionali è riservata esclusivamente al Reich.
I Länder possono stipulare trattati con altri Stati per le materie la cui regolamentazione competa ad essi, ma tali trattati hanno bisogno
dell’approvazione del Reich.
Accordi con altri Stati relativi a mutamento delle frontiere del Reich vengono conclusi da questo, con il consenso dei Länder interessati.
Mutamenti di confine possono avvenire solo sulla base di una legge del Reich, a meno non si tratti di una pura rettifica di confini di parti del
territorio non abitate.
Per assicurare la tutela degli interessi che sorgono per i singoli Stati dalle loro relazioni economiche o dalla loro contiguità con altri Stati, il
Reich, d’accordo con i Länder interessati, prende le necessarie disposizioni e misure.
Art. 79 – La difesa dello Stato è riservata al Reich. L’ordinamento delle forze armate del popolo tedesco è regolato in modo unitario da una legge del
Reich, avendo riguardo alle particolarità regionali.
Art. 80 – La materia coloniale rientra nella competenza esclusiva del Reich.
Art. 81 – Tutto il naviglio mercantile tedesco forma un’unica flotta.
Art. 82 – La Germania forma un territorio doganale e commerciale racchiuso in un unico confine doganale.
Il confine doganale coincide con quello politico. Dalla parte del mare esso è formato dalla spiaggia della terraferma e delle isole appartenenti
al territorio del Reich. Possono essere determinate delle deviazioni relativamente al corso del confine doganale verso il mare ed altre acque.
Territorio o parti di territorio straniero possono essere inclusi nel territorio doganale con trattati internazionali o altri accordi.
Speciali esigenze possono determinare l’esclusione di singole zone dal territorio doganale. Per i porti franchi tali esclusioni possono avere
luogo solo con legge costituzionale.
Tali zone potranno essere unite a territori doganali stranieri solo con trattati o accordi internazionali.
Tutti i prodotti della natura, così come dell’industria e dell’arte, che sono nel libero commercio del Reich possono essere liberamente
importati, esportati o trasportati attraverso i confini dei Länder e dei Comuni. Eccezioni sono possibili solo per mezzo di una legge del Reich.
Art. 83 – Le dogane e le imposte di consumo sono amministrate dalle autorità del Reich.
Nell’amministrazione delle imposte del Reich da parte delle autorità di questo devono essere predisposte delle disposizioni, le quali
garantiscano ai Länder la salvaguardia dei loro interessi particolari in materia di agricoltura, di commercio e di industria.
Art. 84 – Il Reich regola con legge tutto ciò che riguarda:
1) l’ordinamento dell’amministrazione delle entrate dei Länder, in quanto ciò sia richiesto dall’esigenza di applicazione uguale ed unitaria
delle leggi fiscali del Reich;
2) il modo di formazione e la competenza delle autorità cui è affidata la sorveglianza sull’esecuzione delle leggi fiscali del Reich;
3) i regolamenti dei conti con i Länder;
4) i rimborsi delle spese di amministrazione occasionate dall’esecuzione delle leggi fiscali del Reich.
Art. 85 – Tutte le entrate e le spese del Reich devono essere valutate per ogni anno finanziario ed incluse nel bilancio.
Il bilancio deve essere approvato al principio dell’anno finanziario con legge.
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Le spese sono di regola autorizzate per un solo anno. Esse possono essere autorizzate anche per un periodo più lungo, in casi particolari. Non
sono ammissibili nella legge di bilancio prescrizioni che estendano la loro efficacia al di là dell’anno finanziario; o che non attengano alle
entrate o spese del Reich, o all’amministrazione delle medesime.
Il Reichstag non può, senza il consenso del Reichsrat, aumentare le spese previste nel progetto di bilancio o introdurne di nuove.
Il consenso del Reichsrat può essere sostituito nella forma di cui all’art. 74.
Art. 86 – Dell’impiego di tutte le entrate del Reich il ministro delle finanze, a discarico del governo, rende conto nel successivo anno finanziario al
Reichsrat ed al Reichstag. L’esame del rendiconto è regolato da apposita legge.
Art. 87 – L’acquisto di mezzi finanziari con prestiti è consentito solo per far fronte ad esigenze straordinarie e di regola solo per spese relative a scopi
produttivi. Provvedimenti del genere, come pure la assunzione di garanzie a carico del Reich possono avere luogo solo con autorizzazione di
una legge del Reich.
Art. 88 – La materia delle comunicazioni postali, telegrafiche, telefoniche è affidata in modo esclusivo al Reich.
I valori postali sono regolati in modo unitario per tutto il Reich.
Il governo del Reich emana, con il consenso del Reichsrat, le ordinanze relative al modo di utilizzazione dei mezzi di comunicazione ed ai
diritti che ne conseguono. Esso può, con il consenso del Reichsrat, delegare questa facoltà al ministro delle poste del Reich.
Il governo del Reich, con il consenso del Reichsrat, istituisce un consiglio consultivo, per attuare la collaborazione nella materia delle
comunicazioni postali, telegrafiche e telefoniche e delle relative tariffe.
Solo il Reich è competente a procedere alle convenzioni con paesi stranieri relativamente a tali comunicazioni.
Art. 89 – Il Reich deve assumere la proprietà delle ferrovie che servono alle comunicazioni di interesse generale ed amministrarle con una gestione
unitaria.
I diritti dei Länder all’esercizio di linee ferroviarie private devono, se il Reich lo richieda, essere trasferiti ad esso.
Art. 90 – Il Reich con il passaggio delle linee ferroviarie acquista il diritto di espropriazione e gli altri poteri pubblici che si riferiscono alle medesime.
Sull’estensione di tali poteri decide, in caso di contestazioni, il Tribunale costituzionale.
Art. 91 – Il governo del Reich emana, con il consenso del Reichsrat, i regolamenti disciplinanti la costruzione, l’esercizio ed il traffico delle ferrovie.
Esso può, con il consenso del Reichsrat, delegarli al ministro del Reich competente.
Art. 92 – Le linee ferroviarie del Reich, tenuta ferma l’inclusione del loro bilancio preventivo e del loro rendiconto nel bilancio e nel rendiconto
generale dello Stato, devono essere amministrate sotto forma di azienda autonoma, che deve far fronte da sé alle proprie spese, comprese
quelle relative al pagamento degli interessi ed all’ammortamento del debito delle ferrovie, nonché alla costituzione di un fondo di riserva.
L’ammontare delle quote di ammortamento e di riserva come pure l’impiego di queste ultime saranno regolate con legge speciale.
Art. 93 – Il governo del Reich, con il consenso del Reichsrat, istituisce dei consigli consultivi, nella materia dei trasporti e delle tariffe, relativamente
alle ferrovie del Reich.
Art. 94 – Ove il Reich abbia assunto nella propria amministrazione delle linee ferroviarie di una determinata regione, di interesse generale, non
possono nella stessa regione costituirsi nuove linee, anche esse di interesse generale, se non dal Reich stesso o con la sua autorizzazione. Se la
costruzione di nuove linee o la variazione di quelle esistenti riguardano la sfera di competenza dell’autorità di polizia dei Länder
l’amministrazione delle ferrovie del Reich deve, prima di procedervi, sentire tali autorità.
Quando il Reich non abbia assunto ancora nella propria amministrazione le ferrovie, può costruire per proprio conto quelle ad esso
considerate necessarie per le comunicazioni di interesse generale o per la difesa del territorio, anche contro l’opposizione dei Länder, il
territorio dei quali viene dalle medesime attraversato, tuttavia senza pregiudizio della loro sovranità. Il Reich può anche in detti casi trasferire
ad altri il compito della costruzione, concedendo loro, quando occorra, il diritto di espropriazione.
Ogni amministrazione ferroviaria è obbligata a consentire il raccordo con altre linee a spese di queste ultime.
Art. 95 – Le ferrovie di interesse generale che non sono amministrate dal Reich sono soggette alla vigilanza da parte di questo.
Esse devono essere stabilite ed esercitate secondo norme unitarie emananti dal Reich, e sono da mantenere in condizioni atte a garantire la
sicurezza dell’esercizio e da costruire in modo adeguato alle esigenze del traffico. I trasporti di persone e di cose devono essere esercitati in
modo da corrispondere al bisogno di chi le richiede.
Il controllo delle tariffe deve tendere ad eguagliarle e ad abbassarle.
Art. 96 – Tutte le ferrovie, anche se non siano di interesse generale, possono essere requisite dal Reich allo scopo della difesa del territorio.
Art. 97 – Spetta al Reich acquistare la proprietà ed assumere l’amministrazione delle vie navigabili di interesse generale.
Dopo che sia avvenuto tale passaggio non può essere costruita, né messa in opera altra via navigabile di interesse generale se non dal Reich o
con il suo consenso.
Nell’amministrazione, nel completamento o nella nuova costruzione delle vie navigabili devono essere, d’accordo con i Länder, tutelati e
promossi gl’interessi legati al regime delle acque.
L’amministrazione delle vie navigabili deve consentire i raccordi con altre vie d’acqua interne a spese di chi li intraprende. Il medesimo
obbligo sussiste nel caso che si operi un collegamento fra una via navigabile interna ed una linea ferroviaria.
Nell’assumere le vie navigabili il Reich acquista la facoltà di espropriazione, il potere di stabilire le tariffe, nonché la polizia sui corsi d’acqua
e sulle navi.
Il Reich deve assumere a proprio carico le obbligazioni delle società costituite per la costruzione dei corsi d’acqua naturali nei bacini del
Reno, del Weser e dell’Elba.
Art. 98 – Per attuare la collaborazione nella materia delle vie navigabili saranno costituiti, presso l’amministrazione di Stato di tali vie, con il consenso
del Reichsrat, e secondo particolari disposizioni del governo, dei consigli.
Art. 99 – Non possono essere percepite tasse per l’uso dei corsi d’acqua naturali se non per opere, costruzioni o installazioni aventi lo scopo di
facilitare il traffico. Tali tasse per le installazioni dovute allo Stato o ai comuni non possono nel complesso superare il costo delle spese di
impianto e di manutenzione. Per le installazioni non destinate esclusivamente a facilitare il traffico ma altresì ad altri fini le spese di impianto
e di manutenzione non possono essere coperte dalle tasse se non per la parte che attiene alla prima di dette destinazioni. Fra le spese di
impianto si devono comprendere il servizio degli interessi e le quote di ammortamento.
Le disposizioni del comma precedente trovano applicazione anche per le tasse percepite per i corsi d’acqua navigabili artificiali e altresì per le
installazioni fatte su tali corsi e nei porti.
Il calcolo delle tasse in materia di navigazione interna può prendere a base il complesso delle spese sostenute per una via navigabile, un
bacino fluviale o una rete di corsi navigabili.
Le presenti disposizioni valgono anche per la fluitazione sui corsi di acqua navigabili.
Solo il Reich ha diritto di imporre su navi straniere e sui loro carichi delle tasse diverse o più elevate di quelle percepite sulle navi tedesche.
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Il Reich, allo scopo di procurare i mezzi necessari per la manutenzione e l’ampliamento della rete fluviale navigabile può imporre con legge
alle persone interessate alla navigazione contributi diversi da quelli precedentemente previsti.
Art. 100 – Il Reich può altresì, con legge, e allo scopo di coprire le spese di costruzione e manutenzione delle vie di navigazione interna, obbligare a
contribuire chiunque profitti, in modo diverso dalla navigazione, dei lavori di sbarramento di una valle, tanto nel caso che esso solo ne
sopporti il costo, quanto in quello del concorso di più Länder.
Art. 101 – Il Reich deve acquistare la proprietà ed assumere l’amministrazione di tutti i mezzi di segnalazione marittima, e in particolar modo dei fari,
vascelli-fanali, boe e galleggianti. Dopo che sia avvenuto tale acquisto nessun mezzo di segnalazione potrà essere posto o mantenuto se non
dal Reich o con il suo consenso.
CAPO VII
IL POTERE GIURISDIZIONALE
Art. 102 – I giudici sono indipendenti e soggetti solo alla legge.
Art. 103 – La giurisdizione ordinaria viene esercitata per mezzo dei tribunali del Reich e di quelli dei Länder.
Art. 104 – I giudici della giurisdizione ordinaria vengono nominati a vita. Essi non possono, senza la loro volontà, essere rimossi, né sospesi dal loro
ufficio o trasferiti ad altro ufficio, o collocati a riposo se non in virtù di una decisione giudiziaria e solo per motivi e con le forme stabilite
dalla legge. La legge può stabilire limiti di età, al cui raggiungimento i giudici debbono essere collocati a riposo.
La precedente disposizione non riguarda la temporanea sospensione dall’ufficio stabilita in forza di legge.
In caso di modifica nell’organizzazione dei tribunali o delle loro circoscrizioni l’amministrazione della giustizia dei Länder può disporre
trasferimenti non arbitrari ad altri tribunali o sospensioni dall’ufficio, tuttavia a condizione della conservazione dell’intero stipendio.
Le precedenti disposizioni non trovano applicazione per i giudici commerciali, scabini e giurati.
Art. 105 – Non sono consentiti tribunali eccezionali. Nessuno può essere sottratto al suo giudice naturale. Questa norma non riguarda le disposizioni
legislative relative ai tribunali di guerra ed alle corti marziali. I giurì d’onore militari sono soppressi.
Art. 106 – La giurisdizione militare è soppressa, tranne che per il tempo di guerra ed a bordo delle navi da guerra. Disposizioni più particolari sono
date con legge del Reich.
Art. 107 – Nel Reich e nei Länder saranno costituiti con legge tribunali amministrativi per la protezione dei singoli contro ordinanze e provvedimenti
delle autorità amministrative.
Art. 108 – Con apposita legge del Reich sarà istituito un tribunale costituzionale per il Reich.
PARTE SECONDA
I DIRITTI ED I DOVERI FONDAMENTALI DEI TEDESCHI
CAPO I
LE PERSONE SINGOLE
Art. 109 – Tutti i tedeschi sono uguali innanzi alla legge.
Uomini e donne hanno di regola gli stessi diritti e doveri civici.
Sono aboliti i privilegi o le incapacità di diritto pubblico, collegati con la nascita o l’appartenenza a ceti. I titoli nobiliari sono utilizzabili solo
come parte del nome e non possono essere ulteriormente concessi.
I titoli che possono venire conferiti sono solo quelli che contrassegnano un ufficio o una professione.
Questa disposizione non riguarda i gradi accademici.
Ordini cavallereschi e distinzioni onorifiche non possono essere concessi dallo Stato.
Nessun tedesco può accettare titoli o decorazioni da un governo straniero.
Art. 110 – L’acquisto o la perdita della cittadinanza nel Reich o nei Länder non possono avvenire altrimenti che in virtù delle disposizioni di una legge
del Reich. Ogni cittadino di un Land è contemporaneamente cittadino del Reich.
Ogni tedesco ha in ciascun Land del Reich gli stessi diritti e doveri di un cittadino di questo.
Art. 111 – Tutti i tedeschi godono di libertà di circolazione in tutto il Reich. Ognuno ha il diritto di fermarsi nella contrada del Reich da lui preferita, o
di allontanarsene, di acquistarvi immobili ed esercitarvi ogni attività professionale. Nessuna limitazione può essere imposta altrimenti che con
legge.
Art. 112 – Ogni tedesco è autorizzato a trasferirsi all’estero, salvo le limitazioni poste con legge.
Tutti i cittadini, risiedano dentro o fuori del territorio del Reich, hanno diritto alla protezione del Reich di fronte all’estero.
Nessun tedesco può essere consegnato ad un governo straniero per essere perseguito o punito.
Art. 113 – La parte di popolazione del Reich alloglotta non può, sia in via legislativa che amministrativa, essere ostacolata nel suo libero svolgimento
nazionale, specialmente per quanto riguarda l’uso della lingua materna nell’istruzione, nell’amministrazione interna e nella giurisdizione.
Art. 114 – La libertà della persona è inviolabile.
Una diminuzione o soppressione della libertà individuale da parte dell’autorità pubblica è possibile solo in virtù di legge.
Chi sia arrestato deve essere informato, al più tardi nel giorno successivo all’arresto, del motivo per cui ciò sia avvenuto e del giudice che l’ha
disposto. Gli deve essere data immediatamente la possibilità di proporre azione contro tale arresto.
Art. 115 – L’abitazione di ogni tedesco è per lui un luogo di asilo ed è inviolabile. Eccezioni sono ammissibili solo in virtù di legge.
Art. 116 – Un’azione può essere sanzionata con pene solo nel caso che ciò sia stabilito con legge, emanata prima che l’azione stessa sia stata compiuta.
Art. 117 – Il segreto epistolare e quello telegrafico e telefonico è inviolabile, salvo le limitazioni da stabilire con legge del Reich.
Art. 118 – Ogni tedesco ha il diritto di esprimere liberamente, nei limiti stabiliti dalle disposizioni generali di legge, le sue opinioni mediante la parola,
lo scritto, la stampa, le immagini o in analoghe guise. Nessun rapporto di lavoro o di impiego può recare impedimento a questo diritto, e
nessuno può recare danno per il fatto che si usi del medesimo.
Non è ammessa alcuna censura. Possono tuttavia stabilirsi, con legge, deroghe per gli spettacoli cinematografici. Sono altresì ammissibili
misure legislative per la repressione della letteratura immorale e pornografica e per la protezione della gioventù nei riguardi degli spettacoli e
rappresentazioni pubbliche.
CAPO II
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LA VITA COLLETTIVA
Art. 119 – Il matrimonio, quale fondamento della vita della famiglia, e del mantenimento e potenziamento della nazione, è posto sotto la speciale
protezione della costituzione. Esso è fondato sull’uguaglianza dei due sessi.
L’elevamento spirituale, la salute e lo sviluppo sociale della famiglia è compito dello Stato e dei Comuni. Le famiglie numerose hanno diritto
ad un’adeguata assistenza.
La maternità ha diritto alla protezione ed all’assistenza dello Stato.
Art. 120 – L’educazione del fanciullo, per il suo sviluppo corporale, spirituale e sociale, è supremo dovere e diritto naturale dei genitori, al cui
adempimento veglia lo Stato.
Art. 121 – Ai figli illegittimi sono dalla legge garantite le stesse condizioni dei legittimi, onde assicurare il loro sviluppo corporale, spirituale e sociale.
Art. 122 – La gioventù deve essere tutelata dallo sfruttamento e dall’abbandono morale, spirituale e corporeo. Lo Stato ed i Comuni devono creare le
istituzioni a ciò necessarie.
Norme assistenziali che implichino coazione possono essere disposte solo in via legislativa.
Art. 123 – Tutti i tedeschi hanno il diritto di riunirsi pacificamente e senza armi, all’infuori di ogni preavviso, o speciale permesso.
La legge può subordinare le riunioni all’aperto all’obbligo del preannunzio e disporre la loro proibizione quando da esse derivi un immediato
pericolo per la sicurezza pubblica.
Art. 124 – Tutti i tedeschi hanno il diritto di formare unioni o associazioni per il raggiungimento di scopi che non siano in contrasto con la legge
penale. Tale diritto non può venire limitato con misure preventive. Il medesimo principio vale per le unioni o associazioni religiose.
Ogni unione può liberamente acquistare la capacità giuridica, in conformità alle norme del diritto civile, senza che ciò possa essere rifiutato in
considerazione dello scopo politico, sociale o religioso perseguito.
Art. 125 – La libertà e la segretezza del voto sono garantite. I particolari sono stabiliti dalla legge elettorale.
Art. 126 – Ogni tedesco ha il diritto di indirizzare petizioni o reclami scritti alle autorità competenti, o ai rappresentanti popolari. Tale diritto può
essere esercitato sia singolarmente che collettivamente.
Art. 127 – I Comuni ed i consorzi di Comuni hanno il diritto all’autoamministrazione nei limiti della legge.
Art. 128 – Tutti i cittadini senza distinzione hanno diritto di essere ammessi agli uffici pubblici in conformità alle disposizioni di legge e secondo le
loro attitudini e capacità.
Sono abolite tutte le norme di eccezione nei confronti delle donne impiegate.
Le norme fondamentali del diritto di impiego sono da stabilire con legge del Reich.
Art. 129 – La nomina a pubblici impieghi avviene a vita, a meno che la legge non disponga altrimenti. Le pensioni dirette e quelle di riversibilità sono
regolate legislativamente. I diritti acquisiti dagli impiegati sono intangibili. Per la tutela delle pretese patrimoniali degli impiegati sono
assicurate le vie giudiziarie.
Solo con l’osservanza delle condizioni e delle forme determinate con legge gli impiegati possono essere privati del loro ufficio
temporaneamente, oppure collocati in riposo temporaneo o definitivo, o trasferiti ad altro ufficio provvisto di stipendio minore.
Ogni impiegato deve avere la possibilità di impugnare le decisioni disciplinari emesse nei suoi confronti, nonché di invocare una loro
revisione. Nel suo fascicolo personale sono da registrare elementi a lui sfavorevoli solo quando sia a lui data la possibilità di esprimersi sui
medesimi. L’impiegato ha il diritto di prendere conoscenza del suo fascicolo personale.
L’intangibilità dei diritti quesiti e le garanzie giurisdizionali per le pretese patrimoniali sono in particolare garantiti anche ai militari di
carriera. Per il resto la loro posizione giuridica viene disciplinata con legge del Reich.
Art. 130 – Gli impiegati sono al servizio della collettività, non di un partito.
A loro sono assicurati la libertà del pensiero politico e quella di riunione.
Altre leggi del Reich garantiranno agli impiegati speciali rappresentanze professionali.
Art. 131 – Se un impiegato nell’esercizio di un potere pubblico a lui affidato viola di fronte a terzi il suo dovere di ufficio, la responsabilità che ne
consegue è assunta dallo Stato, o dall’ente al cui servizio sta l’impiegato stesso, salvo il regresso contro questi. Non può essere esclusa
l’azione innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria.
Le disposizioni più particolari sono emesse dalla legislazione competente.
Art. 132 – Ogni tedesco ha il dovere di assumere gli uffici onorari a lui conferiti, in conformità alla legge.
Art. 133 – Tutti i cittadini sono obbligati ad adempiere alle prestazioni personali a favore dello Stato e dei Comuni, loro imposte dalla legge.
Il dovere militare si adempie secondo le disposizioni della legge del Reich sull’esercito. Questa determina anche le limitazioni ad alcuni diritti
fondamentali, che nei riguardi dei militari, siano rese necessarie dall’adempimento dei compiti loro imposti e dal mantenimento della
disciplina.
Art. 134 – Tutti i cittadini, senza distinzione, contribuiscono, in proporzione ai loro mezzi, a tutte le spese pubbliche, in conformità alla legge.
CAPO III
RELIGIONE ED ASSOCIAZIONI RELIGIOSE
Art. 135 – Tutti i residenti nel Reich godono di piena libertà di opinione e di coscienza. Il libero esercizio del culto è garantito dalla costituzione ed è
posto sotto la protezione dello Stato, senza che perciò siano derogate le leggi generali dello Stato.
Art. 136 – I diritti ed i doveri civili e pubblici non sono limitati dall’esercizio della libertà religiosa, né ad esso sono condizionati.
Il godimento dei detti diritti e l’ammissione agli uffici pubblici sono indipendenti dalla confessione religiosa.
Nessuno può essere obbligato a rendere manifeste le sue convinzioni religiose. Le autorità possono procedere ad interpellazioni circa
l’appartenenza ad una associazione religiosa solo quando ad essa siano collegati diritti o doveri, o quando ciò sia richiesto dalle esigenze di
rilevazioni statistiche disposte con legge.
Nessuno può essere costretto ad atti o a cerimonie di culto, o alla partecipazione ad esercizi religiosi, o alla prestazione di formule religiose di
giuramento.
Art. 137 – Non vi è una religione di Stato.
La libertà di associazione religiosa è garantita. L’unione delle associazioni religiose entro il territorio del Reich non è soggetta ad alcuna
limitazione.
Ogni associazione religiosa ordina e gestisce in modo autonomo i propri interessi, nei limiti delle leggi generali, e conferisce le cariche senza
intervento dello Stato o delle autorità locali.
La capacità giuridica delle associazioni religiose viene acquistata secondo le disposizioni generali del diritto civile.
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Le associazioni religiose le quali per il diritto anteriore erano considerate di diritto pubblico rimangono tali. Il medesimo carattere potrà essere
riconosciuto, su loro richiesta, ad altre associazioni religiose se esse, in relazione al loro ordinamento ed al numero dei propri membri, offrano
garanzia di durata. Le unioni di associazioni religiose di diritto pubblico assumono anch’esse natura pubblica.
Le associazioni religiose che possiedono personalità di diritto pubblico sono autorizzate a prelevare imposte sulla base di ruoli,
conformemente alle leggi dei Länder.
Il trattamento fatto alle associazioni religiose viene esteso a quelle associazioni le quali assumono quale proprio fine il perseguimento in
comune di un ideale generale della vita (Weltanschaung).
Le disposizioni necessarie per l’esecuzione delle precedenti norme saranno emesse con leggi dei Länder.
Art. 138 – I contributi statali alle associazioni religiose derivanti dalla legge, dal contratto o da altri titoli giuridici speciali sono affrancati mediante
leggi dei Länder, con l’osservanza dei principi generali posti dal Reich.
Sono garantiti la proprietà e gli altri diritti delle associazioni ed unioni religiose sui propri istituti, fondazioni ed altri complessi di beni
destinati a scopo di culto, istruzione o beneficenza.
Art. 139 – La legge garantisce la destinazione della domenica e degli altri giorni festivi riconosciuti dallo Stato al riposo ed all’elevamento spirituale.
Art. 140 – Agli appartenenti alle forze armate deve essere assicurata la libertà dal servizio necessaria per l’adempimento dei loro doveri religiosi.
Art. 141 – Le associazioni religiose sono autorizzate alle prestazioni religiose che si rendano necessarie per il servizio divino e la cura delle anime
presso l’esercito, negli ospedali, nelle case di pena ed in altri pubblici istituti, a condizione che vi procedano con esclusione di ogni forma di
costrizione.
CAPO IV
EDUCAZIONE ED ISTRUZIONE
Art. 142 – L’arte, la scienza ed i loro rispettivi insegnamenti sono liberi.
Lo Stato ne protegge la libera esplicazione e contribuisce al loro sviluppo.
Art. 143 – All’educazione dei giovani deve provvedersi per mezzo di istituti pubblici formati con il contributo del Reich, dei Länder e dei Comuni.
La formazione degli insegnanti deve essere regolata in modo uniforme dal Reich in base a principi sull’istruzione superiore, da valere in via
generale.
I diritti ed i doveri dei pubblici impiegati valgono anche per gli insegnanti delle scuole pubbliche.
Art. 144 – Tutta l’organizzazione scolastica è sottoposta alla vigilanza dello Stato, il quale può associare a sé i Comuni. Tale vigilanza viene esercitata
per mezzo di impiegati tecnicamente specializzati (sachmannisch vorgebilde) ed addetti ad apposito ufficio (hauptamtlich tätige).
Art. 145 – Vi è un obbligo generale d’istruzione. Esso si adempie, di norma, con la frequenza della scuola popolare, della durata di almeno otto anni
scolastici, e delle scuole complementari annesse, fino al compimento del diciottesimo anno. L’istruzione ed i mezzi di apprendimento nelle
scuole popolari e complementari sono gratuiti.
Art. 146 – L’insegnamento pubblico dev’essere ordinato organicamente. La scuola media e quella superiore si basano su una inferiore comune a tutte e
devono essere costituite in modo da soddisfare alla molteplicità delle vocazioni. Per l’ammissione di un giovane in una determinata scuola
sono da prendere in considerazione le sue attitudini ed inclinazioni, non già la posizione economica e sociale, o la confessione religiosa dei
suoi genitori.
Nell’ambito dei Comuni, su richiesta di coloro che hanno la cura dell’educazione, sono da costituire scuole popolari della confessione o
concezione filosofica dei predetti, in quanto ciò non rechi pregiudizio all’organizzazione scolastica, anche nel senso del primo comma. La
volontà di chi ha la cura dell’adempimento dell’obbligo scolastico deve essere tenuta nel massimo conto. Le disposizioni particolari saranno
dettate con leggi dei Länder, in conformità ai principi stabiliti dal Reich.
Allo scopo di consentire l’accesso alle scuole medie e superiori dei giovani sforniti di mezzi economici il Reich, i Länder, i Comuni devono
predisporre dei fondi, specie per corrispondere sussidi, fino all’esaurimento del corso di studi, ai genitori dei giovani predetti, quando questi
siano ritenuti idonei a percorrere gli studi delle scuole stesse.
Art. 147 – Le scuole private non possono funzionare in sostituzione delle pubbliche se non con l’autorizzazione del Reich ed in quanto si sottopongano
alle leggi dei Länder. Per ottenere l’autorizzazione è necessario che esse non siano in condizione di inferiorità rispetto alle scuole pubbliche
per quanto riguarda i programmi, l’organizzazione, la formazione scientifica degli insegnanti, e non facciano valere fra gli allievi distinzioni
fondate sullo stato di fortuna dei genitori. L’autorizzazione deve essere rifiutata se non siano fornite sufficienti garanzie relativamente al
trattamento economico e giuridico del personale insegnante.
Scuole popolari private sono consentite solo nel caso che non esista nel Comune una scuola popolare pubblica che corrisponda alla
confessione religiosa, o alla concezione filosofica della minoranza delle persone obbligate ad avere cura dell’educazione, alla cui volontà
deve aversi riguardo, ai sensi del secondo comma dell’art. 146, oppure quando l’amministrazione della pubblica istruzione attribuisca alle
medesime uno speciale interesse pedagogico.
Le scuole preparatorie private devono essere soppresse.
Le scuole private che non sostituiscono le pubbliche rimangono sottoposte al diritto attualmente vigente.
Art. 148 – In tutte le scuole si deve tendere a sviluppare la formazione morale, il sentimento civico, la virtù privata ed il valore professionale, nello
spirito del germanesimo e con lo scopo della riconciliazione fra i popoli.
Nelle scuole pubbliche l’insegnamento deve essere impartito in modo da non ledere il sentimento di coloro che dissentono dalle opinioni della
maggioranza.
L’insegnamento civico e quello del lavoro manuale devono essere impartiti nelle scuole. Ogni scolaro, all’atto del compimento dell’obbligo
scolastico, riceve una copia della costituzione.
L’insegnamento popolare, compreso quello delle università popolari, deve essere favorito dal Reich, dai Länder e dai Comuni.
Art. 149 – L’istruzione religiosa è materia ordinaria di insegnamento nelle scuole, ad eccezione che in quelle le quali non riconoscono alcuna
confessione (laiche). Essa viene impartita secondo i principi fondamentali della legislazione scolastica ed in armonia con le concezioni della
comunità religiosa interessata, salvo il diritto di sorveglianza da parte dello Stato.
Il modo di impartire l’istruzione religiosa e la iniziativa delle funzioni ecclesiastiche rimangono affidate alle disposizioni dell’insegnante. La
partecipazione a tale istruzione, agli atti di culto ed alle cerimonie religiose ha luogo su consenso di coloro cui spetta regolare l’educazione
religiosa dei fanciulli.
Sono mantenute le facoltà teologiche nelle Università.
Art. 150 – I monumenti storici, le opere d’arte, le bellezze della natura, ed il paesaggio sono protetti e curati dal Reich.
Rientra nella competenza del Reich evitare l’esportazione all’estero del patrimonio artistico.
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CAPO V
LA VITA ECONOMICA
Art. 151 – L’ordinamento della vita economica deve corrispondere alle norme fondamentali della giustizia e tendere a garantire a tutti un’esistenza
degna dell’uomo. In questi limiti è da tutelare la libertà economica dei singoli.
La costrizione legale è da ammettere solo per la reintegrazione del diritto violato, o per soddisfare esigenze preminenti di pubblico interesse.
La libertà di commercio e di industria è garantita, nei limiti disposti con leggi del Reich.
Art. 152 – I rapporti economici sono regolati dal principio della libertà contrattuale in conformità alle disposizioni della legge.
L’usura è proibita. Gli atti giuridici immorali sono nulli.
Art. 153 – La proprietà è garantita dalla costituzione. Il suo contenuto ed i suoi limiti sono fissati dalla legge.
L’espropriazione può avvenire solo se consentita dalla legge e nell’interesse collettivo. Salvo che la legge del Reich non disponga altrimenti,
deve essere corrisposto all’espropriato un congruo indennizzo. Le controversie sorte circa l’ammontare del medesimo devono essere
sottoposte al giudice ordinario, a meno che la legge del Reich non disponga altrimenti. Le espropriazioni da parte del Reich di beni dei
Länder, dei Comuni e delle associazioni di pubblica utilità sono possibili solo dietro indennità.
La proprietà obbliga. Il suo uso, oltre che al privato, deve essere rivolto al bene comune.
Art. 154 – Il diritto di successione viene garantito in conformità alle norme del diritto civile.
La partecipazione dello Stato ai beni ereditari è regolata dalla legge.
Art. 155 – La ripartizione ed utilizzazione delle terre sono controllate con lo scopo di impedire gli abusi e di assicurare ad ogni tedesco un’abitazione
sana, ed a tutte le famiglie tedesche, specie a quelle numerose, una casa ed un patrimonio familiare corrispondenti ai loro bisogni. La
legislazione sui beni di famiglia dovrà avere particolare considerazione per gli antichi combattenti. Le proprietà fondiarie possono essere
espropriate quando ciò sia reso necessario per soddisfare il bisogno di abitazione, o per promuovere la colonizzazione interna, il dissodamento
delle terre incolte, o lo sviluppo dell’agricoltura. I fedecommessi sono soppressi.
La coltivazione ed utilizzazione della terra è un dovere che i proprietari assumono di fronte alla collettività. L’aumento di valore dei terreni,
che non derivi da un impiego di lavoro o di capitali sulla terra, deve essere rivolto a vantaggio della collettività.
Tutte le ricchezze del suolo e le forze della natura economicamente utilizzabili sono da porre sotto la sorveglianza dello Stato, secondo le
disposizioni della legge.
Art. 156 – Il Reich può, con riserva di indennizzo e per via legislativa, trasferire in proprietà collettiva, con applicazione analogica delle norme vigenti
per l’espropriazione, le imprese economiche private suscettibili di socializzazione. Il Reich, i Länder ed i Comuni possono partecipare
all’amministrazione di imprese ed associazioni economiche, o assicurarsi una influenza efficace sulle loro amministrazioni.
Inoltre il Reich può disporre con legge, nel caso di urgente necessità, e per il vantaggio della pubblica economia, la riunione e gestione
autonoma di imprese ed associazioni economiche con lo scopo di assicurare la collaborazione dei fattori della produzione, nonché la
compartecipazione all’amministrazione dei datori e prestatori di lavoro, e di disciplinare secondo i principi di un’economia specializzata 1a
produzione, la fabbricazione, la distribuzione, la utilizzazione, l’ammontare dei prezzi, ed altresì l’importazione ed esportazione dei beni
economici.
Le cooperative di produzione e di commercio e le loro unioni, su loro richiesta e con riguardo alla loro costituzione e natura, possono essere
comprese nella gestione collettivizzata.
Art. 157 – Il lavoro è posto sotto la speciale protezione del Reich.
Il Reich provvede a rendere unitario il diritto del lavoro.
Art. 158 – Il lavoro intellettuale, il diritto degli autori, inventori ed artisti è posto sotto la protezione e la cura del Reich.
Le creazioni della scienza, dell’arte e della tecnica tedesche devono essere valorizzate e protette anche all’estero per mezzo di accordi
internazionali.
Art. 159 – La libertà di coalizione per la conservazione e lo sviluppo delle condizioni di lavoro ed economiche è garantita ad ognuno, qualunque sia
l’attività esercitata. Sono contrari alla legge tutti gli accordi e le misure che mirano a limitare o impedire questa libertà.
Art. 160 – Chi si trova in rapporto di servizio o di lavoro come impiegato o operaio ha il diritto di disporre del tempo necessario per l’esercizio dei
diritti civici, ed inoltre, in quanto ciò non rechi grave danno all’azienda, degli uffici pubblici a lui affidati. La legge determina quale diritto
allo stipendio possa spettare in questi casi.
Art. 161 – Il Reich organizza con la congrua partecipazione degli assicurati, un unitario sistema assicurativo allo scopo di tutelare la salute e la
capacità di lavoro, di proteggere la maternità e di prevenire le conseguenze economiche della vecchiaia, delle malattie e degli incidenti della
vita.
Art. 162 – Il Reich sosterrà una regolamentazione internazionale dei rapporti di lavoro, che tenda ad assicurare all’intera classe dei lavoratori un
minimo di diritti sociali comuni a tutti.
Art. 163 – Ogni tedesco, pur conservando la sua libertà personale, ha il dovere morale di impiegare le sue energie spirituali e corporee in modo da
riuscire utile alla collettività.
Ad ogni tedesco deve essere data la possibilità di potere provvedere al proprio sostentamento, con il suo lavoro produttivo. Ove non gli si
possa procurare una occupazione adatta, deve essere provveduto a quanto è necessario al suo sostentamento. Le norme più particolari saranno
disposte con legge del Reich.
Art. 164 – Lo Stato deve promuovere con la sua attività legislativa ed amministrativa lo sviluppo della classe media indipendente e proteggerla
dall’eccessivo carico tributario e dall’assorbimento in altre classi.
Art. 165 – Gli operai ed impiegati debbono collaborare con gli imprenditori per la determinazione delle condizioni di impiego e di lavoro e per lo
sviluppo economico complessivo delle energie produttive. Le organizzazioni delle due categorie ed i contratti da esse stipulati sono
giuridicamente riconosciuti.
Gli operai ed impiegati, per la tutela dei loro interessi sociali ed economici, dispongono di una rappresentanza legale nei consigli operai di
azienda e nei consigli operai di distretto, formati secondo la ripartizione delle regioni economiche, nonché nel consiglio operaio del Reich.
I consigli operai di distretto e quello del Reich per l’adempimento dei generali compiti economici e la collaborazione all’attuazione delle leggi
di socializzazione, formano, insieme ai rappresentanti degli imprenditori e con gli altri ceti interessati, dei consigli economici di distretto, ed
un consiglio economico del Reich. Questi consigli devono essere organizzati in modo che vi siano rappresentati i gruppi di mestiere
importanti ed in misura proporzionale al loro rilievo economico e sociale.
I progetti di legge in materia sociale ed economica di più rilevante importanza devono essere, prima della loro presentazione, a cura del
governo del Reich, sottoposti al parere del consiglio economico del Reich. Il consiglio economico ha il diritto di formulare proposte di legge
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nella materia stessa, ed il governo del Reich è obbligato a presentarle al Reichstag, anche se non consenta ad esse. Il consiglio economico può
incaricare uno dei suoi membri di sostenere innanzi al Reichstag il progetto da esso proposto.
I poteri di controllo e di amministrazione possono essere trasferiti ai consigli dei lavoratori ed a quelli economici nell’ambito territoriale loro
spettante.
Appartiene alla competenza esclusiva del Reich di regolare l’organizzazione e le attribuzioni dei consigli operai ed economici ed i loro
rapporti con altri enti sociali autonomi.
Disposizioni transitorie e finali
Art. 166 – Fino alla costituzione del tribunale amministrativo del Reich interverrà in sua vece per la formazione del tribunale elettorale il tribunale del
Reich (Reichsgericht).
Art. 167 – Le disposizioni dell’art. 18, commi da 3 a 6, entrano in vigore per la prima volta due anni dopo la pubblicazione della costituzione. Nella
provincia prussiana dell’Alta Slesia sarà indetta, entro due mesi dopo che le autorità tedesche avranno riassunto l’amministrazione del
territorio, temporaneamente occupato, un referendum, ai sensi dell’art. 18 comma 4 n. 1 e comma 5, sul punto se l’Alta Slesia debba formare
un Land. Se la risposta sarà affermativa allora il Land sarà costituito senza che occorra una legge del Reich.
Su questo punto valgono le seguenti disposizioni:
1) deve essere eletta un assemblea del Land la quale, entro tre mesi dalla proclamazione ufficiale del risultato delle elezioni, deve procedere
alla riorganizzazione del governo del Land ed alla deliberazione della costituzione. Il presidente del Reich emana l’ordinanza elettorale, in
conformità ai principi fondamentali della legge elettorale del Reich e fissa il giorno delle elezioni.
2) Il presidente del Reich, d’accordo con l’assemblea del Land dell’Alta Slesia, determina in che momento il Land deve ritenersi costituito.
3) Acquistano la cittadinanza dell’Alta Slesia:
a) i cittadini del Reich maggiorenni, i quali nel giorno della formazione del Land hanno il domicilio o la stabile residenza nel suo territorio da
questo giorno;
b) gli altri cittadini prussiani maggiorenni, che sono nati nel territorio della provincia dell’Alta Slesia, ed entro un anno dalla costituzione del
Land dichiarano al governo di questo di volere acquistare la cittadinanza dell’Alta Slesia, dal giorno del ricevimento di questa dichiarazione;
c) tutti i cittadini del Reich che per nascita, legittimazione o matrimonio seguono la cittadinanza delle persone indicate sub a) e b).
Art. 168 – Fino all’emanazione delle leggi dei Länder, previste dall’art. 63, ma non oltre il 1° luglio 1921, tutti i voti prussiani nel Reichsrat possono
essere dati dai membri del governo.
Art. 169 – La data di entrata in vigore delle disposizioni previste dall’art. 83, comma 1, viene stabilita dal governo del Reich.
Per un congruo periodo transitorio può lasciarsi ai Länder, dietro loro richiesta, la riscossione ed amministrazione dei dazi doganali e delle
imposte di consumo.
Art. 170 – L’amministrazione delle poste e telegrafi della Baviera e del Württemberg passeranno al Reich non oltre il 1° aprile 1921.
Se fino al 1° ottobre 1920 non si raggiungerà l’accordo sulle condizioni del passaggio, la controversia sarà deferita al tribunale costituzionale.
Fino al passaggio rimangono in vigore i preesistenti diritti e doveri della Baviera e del Württemberg. Tuttavia le comunicazioni postali e
telegrafiche con gli altri Stati vengono regolate esclusivamente dal Reich.
Art. 171 – Le ferrovie, le vie d’acqua ed i segnali marittimi passeranno al Reich non oltre il 1° aprile 1921.
Se fino al 1° ottobre 1920 non siasi raggiunta una intesa sulle modalità del passaggio deciderà il tribunale costituzionale.
Art. 172 – Fino all’entrata in vigore della legge del Reich intorno al tribunale costituzionale, esercita le sue funzioni un senato di sette membri, di cui
quattro sono eletti dal Reichstag e tre dal Reichsgericht, traendoli dai propri componenti. Esso regolerà il proprio procedimento.
Art. 173 – Fino all’emanazione di una legge del Reich, in conformità dell’art. 138, saranno dovute le prestazioni statali a favore di associazioni
religiose, disposte con leggi, contratti o titoli giuridici speciali.
Art. 174 – Fino all’emanazione della legge del Reich prevista dall’art. 146 comma 2, rimane in piedi l’attuale situazione giuridica. La legge deve
essere soprattutto riguardo ai territori del Reich, nei quali non esiste legalmente una scuola separata in considerazione della confessione.
Art. 175 – La disposizione dell’art. 109 non si applica agli ordini e titoli onorifici, conferiti per benemerenze di servizio nella guerra 1914-19.
Art. 176 – Tutti i pubblici impiegati e gli appartenenti alle forze armate devono giurare fedeltà alla presente costituzione. Le norme speciali saranno
emanate con ordinanza del presidente del Reich.
Art. 177 – Se le leggi in vigore prevedono per la prestazione di giuramento una formula religiosa, il giuramento potrà seguire efficacemente anche
quando chi lo presta si limiti a dire: “io giuro”, tralasciando la formula religiosa. Per il rimanente il contenuto del giuramento previsto dalla
legge non subisce varianti.
Art. 178 – La costituzione del Reich del 16 aprile 1871 e la legge sul governo provvisorio del 10 febbraio 19l9 sono abrogate.
Le altre leggi ed i regolamenti del Reich rimangono in vigore, in quanto non contrastino con la presente costituzione. Le disposizioni del
trattato di pace stipulato a Versailles non sono toccate dalla presente costituzione. Con riguardo alle trattative per l’acquisto dell’isola di
Helgoland può essere emanata per la sua popolazione una norma derogativa dell’articolo 17 comma 2.
Le decisioni prese validamente dall’autorità sulla base delle leggi preesistenti conservano la loro validità fino alla loro abrogazione per opera
di leggi o ordinanze contrarie.
Art. 179 – Quando nelle leggi o ordinanze è fatto riferimento a prescrizioni o disposizioni abrogate o soppresse dalla presente costituzione occorre
sostituirle con le prescrizioni ed istituzioni corrispondenti di questa. In particolare, in luogo di assemblea nazionale, bisognerà leggere
Reichstag, in luogo di comitato degli Stati Reichsrat, in luogo del presidente del Reich eletto sulla base della legge sul governo provvisorio il
presidente del Reich eletto sulla base di questa costituzione.
I poteri conferiti in virtù delle leggi finora in vigore alla Commissione degli Stati per l’emanazione di ordinanze sono devolute al governo del
Reich, che a questo effetto, deve ottenere l’assenso del Reichsrat, secondo le norme della presente costituzione.
Art. 180 – Fino alla convocazione del primo Reichstag l’assemblea nazionale funziona come Reichstag.
Il Presidente del Reich eletto dall’assemblea nazionale rimane nel suo ufficio fino al 30 giugno 1925.
Art. 181 – Il popolo tedesco, per mezzo della sua assemblea nazionale, ha deliberato e sanzionato questa costituzione.
Essa entra in vigore nel giorno della sua pubblicazione.
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c) L’Austria
La sconfitta della rivoluzione quarantottesca in Austria e la revoca, nel
1851, della costituzione liberale del 1848 aveva portato, in modo non
dissimile dalla Germania, all’assenza di un quadro costituzionale suscettibile
di evoluzione in senso parlamentare: anche in Austria, come in Germania, si
rivelava evidente in tale campo la debolezza delle forze liberali e della
borghesia. Ma la posta in gioco principale per l’Austria era il mantenimento
di un equilibrio di convivenza tra le nazionalità che componevano il
variegato impero, il cui tessuto connettivo era in parte comunque assicurato
da una efficiente e fedelissima burocrazia nonché dall’esercito.
Per questo motivo, i duri colpi subiti dall’impero austriaco nel 1859 in Italia
(perdita della Lombardia) e nel 1866 ad opera della Prussia (quando
l’Austria, battuta sul campo, perse il Veneto nonché ogni egemonia sulla
confederazione germanica) non potevano non condurre ad una
ridefinizione dell’assetto costituzionale, tale da por fine allo smaccato
predominio dell’elemento tedesco e a soddisfare i desideri delle altre
nazionalità di godere di maggior peso e prestigio. Così, nel 1867, si attuò un
“riequilibrio” (Ausgleich) nei riguardi del potente elemento ungherese. Fu
concessa l’indipendenza all’Ungheria, e l’impero divenne un impero
“austro-ungarico” con capitali Vienna e Budapest. L’imperatore Francesco
Giuseppe fu solennemente incoronato re d’Ungheria nello stesso anno.
L’Austria e l’Ungheria rimasero unite nella persona del sovrano (duplice
monarchia), nonché nelle materie di politica estera, guerra e finanze (per le
quali esistevano ministeri comuni), ma per il resto si formarono governi e
parlamenti separati. In Ungheria si creò un parlamento bicamerale
“classico” formato da una camera dei deputati elettiva (a suffragio ristretto)
e da una camera dei Magnati ereditaria, si formò un governo presieduto dal
conte Andrassy e si richiamò in vigore la costituzione del 1848; lo stesso
avvenne in Austria, dove la nuova costituzione del dicembre 1867, oltre a
sancire tale “compromesso” dualistico, si preoccupò tuttavia anche di
disciplinare in modo insolitamente ampio la materia dei diritti individuali.
Così, l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, l’accesso in condizioni di
parità agli uffici pubblici, l’inviolabilità della proprietà, la libertà di
soggiorno, e domicilio, le libertà della persona, il segreto della
corrispondenza e il diritto di riunione e di associazione vennero a costituire
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una gamma di diritti garantiti e tutelati che rimasero in vigore e si trasfusero
nell’ordinamento costituzionale austriaco odierno.
Sappiamo che il dualismo austro-ungarico non risparmiò successive
tensioni alla monarchia danubiana, segnatamente ad opera degli elementi
slavi, rimasti esclusi dal “compromesso” del 1867. Tensioni furono poi
create dal progressivo tentativo ungherese di “magiarizzare” i territori non
magiari (slavi, italiani) facenti parte del regno d’Ungheria. Tutto sommato,
però, tale nuova forma di equilibrio costituzionale poté garantire all’impero
austro-ungarico un ulteriore cinquantennio di vita unitaria, fino al suo crollo
definitivo a seguito degli sconvolgimenti del 1918 e dello sprigionarsi delle
nazionalità ad epilogo della prima guerra mondiale.
d) La Gran Bretagna
Un assetto costituzionale riuscito. Ben diverso, come si sa, fu il panorama
politico della Gran Bretagna, paese in cui non vige una costituzione scritta
ma il rispetto delle “costituzione materiale” e della vita parlamentare sono
garantiti da un insieme di regole consuetudinarie di lunghissima tradizione.
Totalmente assente dal panorama politico inglese fu il susseguirsi di
costituzioni liberali, rivoluzioni, regimi autoritari ecc. che caratterizzarono
l’Europa continentale per buona parte dell’Ottocento, in quanto non fu
concessa nessuna costituzione più o meno “liberale” né si assistette a moti
di piazza per ottenerla. Piuttosto, la ricetta riuscita di un regime
parlamentare già lungamente collaudato, di un bipartitismo perfetto
(nell’alternanza tra liberali e conservatori) e di un’onnipotenza parlamentare
– che faceva di tale organo il motore del progresso giuridico e
costituzionale del paese, potendo ogni legge, anche la più “costituzionale”
essere varata, modificata o abolita in seno al Parlamento – poterono
garantire al paese per tutto l’Ottocento e anche nel secolo seguente una
lunga fase di riforme e di progresso in senso liberale e sociale in un ordinato
contesto civile, senza le convulsioni della Francia e - in parte - dell’Italia e
gli autoritarismi della Germania. L’ “età d’oro” fu forse raggiunta grazie
agli illuminati governi di Palmerston, Russell, Gladstone, Disraeli tra il 1850
e il 1880. Un tipico esempio fu la riforma elettorale del 1867, propugnata
dal democratico John Bright non in chiave operaistico/marxista ma di
diritto individuale dei lavoratori. La riforma, che allargò considerevolmente
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il numero degli aventi diritto al voto rispetto alla precedente riforma del
1832, fu varata dal conservatore Disraeli, ben consapevole del fatto che il
peso sociale delle ormai rilevantissime classi operaie doveva tradursi in peso
politico ed elettorale. A sua volta il liberale Gladstone, succeduto a Disraeli
nel 1868 e rimasto in carica sino al 1874, realizzò un’altra serie di importanti
riforme quali l’organizzazione e laicizzazione dell’istruzione elementare ed
universitaria, il riconoscimento giuridico dei sindacati (le potenti Trade
Unions), l’istituzione di concorsi per il reclutamento dei pubblici impiegati,
l’abolizione della compra-vendita dei gradi nell’esercito. Se quindi
liberalismo vi fu, possiamo dire che esso assunse la sua forma più cristallina
in Gran Bretagna, ove un assetto costituzionale già consolidato, non
bisognoso di particolari riforme e caratterizzato dal fatto che tanto il partito
Tory (conservatore) che il Whig (liberale) pur nella – a volte accanita –
rivalità politica accettavano e condividevano le “regole del gioco” permise
(e in definitiva consente tuttora) un progresso in buona parte ordinato e
privo di traumi. Anche durante il lungo periodo dei governi conservatori
succedutisi al potere dal 1886 al 1906, interrotti soltanto da una parentesi
liberale (Gladstone tornerà al governo per l’ultima volta nel triennio 189295 e tenterà energicamente, ma senza successo, di risolvere il problema
irlandese mediante un’ampia autonomia, lo Home Rule Bill), si continuò
nell’attività riformatrice. Oltre a concedere sempre maggiore autonomia ai
possedimenti ex coloniali (Australia), si adotteranno ad esempio
provvidenze a favore dei lavoratori (Workmen’s compensation Act, 1897) e
si riorganizzerà il sistema educativo pubblico (Education Act del 1902).
Nel frattempo, nasceva nel 1892 il partito laburista, destinato col tempo a
soppiantare i liberali sulla sinistra dello schieramento politico e
parlamentare britannico.
Nel 1906, dopo quasi due decenni di dominio conservatore, le elezioni
politiche daranno una schiacciante maggioranza al partito liberale, che potrà
così ritornare al potere con David Lloyd George; ma – segno dei tempi che
cambiavano – alla camera dei comuni sarà ormai presente anche una nutrita
pattuglia di 50 deputati laburisti.
E con i liberali ritorneranno all’ordine del giorno le riforme costituzionali :
si trattava di superare le molte opposizioni della Camera dei Lords (di
tendenza conservatrice), che poteva esercitare il suo diritto di veto su leggi
“liberali” (come era successo con lo Home Rule Bill di Gladstone). Lloyd
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George farà così approvare, nel 1911, il Parliament Act che trasformerà il
diritto di veto dei Lords sulle leggi approvate dai Comuni ad una semplice
facoltà di ritardare per due anni la loro entrata in vigore. L’anno seguente,
niente potrà più opporsi al varo di una delle più importanti leggi sociali
della Gran Bretagna del XX secolo : lo Health Insurance Act sulla
copertura assicurativa contro le malattie in favore delle classi lavoratrici e
degli strati più poveri della società.
21.
L’Italia verso il fascismo
Le elezioni del ’13 furono sempre uninominali con il ballottaggio tra i due
più votati, ma con due novità: il suffragio universale maschile e la fine del non
expedit da parte della Chiesa, grazie al patto Gentiloni, un conte Presidente da
vari anni dell’Unione elettorale cattolica, che convenne con i giolittiani di
votare i candidati liberali e viceversa (in funzione antisocialista e
antiradicale). I cattolici tornarono così al voto in massa, dando la preferenza
a quelli favorevoli alla convivenza di scuola pubblica e privata, alla
possibilità di avere l’istruzione religiosa nelle elementari, e infine contro il
divorzio.
Fu un successo per i candidati cattolici, ma votò solo il 60% degli iscritti (in
luogo del 65% delle elezioni precedenti) eleggendo ben 220 deputati senza
vincolo di partito! Fu un coacervo di gruppi alla Camera, salvo quello
compatto dei socialisti e il più piccolo dei nazionalisti. I deputati erano
notabili che si raggruppavano intorno a Giolitti o ad altri "luogotenenti"
tipo Sonnino e Salandra, continuando così - si sperava - le pratiche
‘centriste’, cioè trasformistiche già collaudate da decenni e che impedivano
di distinguere bene i ruoli di maggioranza e di opposizione.
I radicali alleati del Governo seppero però del patto Gentiloni solo dopo le
elezioni, per cui indignati per questo colpo di mano che violava la
tradizionale laicità dello Stato (più in generale Salvemini parlava di Giolitti
come di un ‘ministro della malavita’ per i suoi controlli sulle procedure
elettorali) fecero mancare il sostegno a Giolitti, che cadde aprendo la porta
a Salandra. La guerra di Libia era stata intanto condotta da Giolitti senza il
voto della Camera durante la lunghissima chiusura dell’assemblea durata fino
al febbraio 1912. Ora l’opinione pubblica era disorientata dopo che
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nell’estate del ’14 era scoppiata la I guerra mondiale e nel ’15 c’era stata la
campagna interventista di nazionalisti e socialisti. Giolitti e i suoi si
rifiutarono di far parte del Governo Salandra. La maggioranza si
abbandonò, pur riluttante, al Governo e la Camera gli concedette (dopo le
radiose giornate di maggio, come le chiamò D’Annunzio) carta bianca se ci
fosse stata la guerra e per tutta la sua durata (ossia leggi d’emergenza, bilanci
provvisori etc.).
Si assistette persino a decreti-legge in materia fiscale e sembrò la fine del regime
parlamentare (dice Carlo Ghisalberti, profondo studioso di storia
costituzionale italiana), con il prevalere dell’esecutivo e dei comandi militari.
Il tutto avveniva in un Paese profondamente diviso, con molti atti di
diserzione da un lato e di interventismo rivoluzionario dall’altro. Il Paese fu
gettato impreparato in un’impresa immane, in una guerra decisa senza o
contro la volontà degli Italiani (come emergeva dalla circolare-inchiesta
svolta dai Prefetti) e della maggioranza del Parlamento.
Il suo voto avvenne sotto la minaccia del Governo e della piazza, non fu
dunque libero, ma frutto della violenza che serpeggiò anche nello sciopero
generale a Torino contro l’intervento.
Il Paese fu sottoposto al diritto penale militare risalente sostanzialmente al
codice penale militare sardo del 1840, con molte fattispecie punite con la
morte. Moltissimi furono i disertori, anche se meno della metà del numero
addotto nel ’19 dal Governo per far passare l’amnistia, ma anche molti che
militari non erano finirono davanti ai tribunali militari per violazione della
disciplina di guerra o per un qualche ostacolo al Paese in guerra. La guerra
smosse grandi masse, che ora seguirono i nuovi partiti organizzati, socialista
o popolare, e non le vecchie élites liberali.
Fondamentali le prime elezioni svoltesi col sistema proporzionale, nel 1919,
elezioni decisive come poche altre nella storia italiana. Infatti i due partiti
vincitori, socialista e popolare, non seppero sfruttare la vittoria e, anche per
le difficoltà economiche della riconversione industriale, non trovarono un
accordo. I Socialisti sembrarono privi di programma e capaci solo di
scioperi, per cui i Popolari s’adattarono a puntellare i Governi, pur avendo
anch’essi frange estremiste. Così il crollo del vecchio ceto dirigente liberale
cagionò un vuoto di potere prontamente occupato dai fascisti provenienti
dalla Sinistra combattentistica.
Seguirono alcuni anni di illegalità continue, scioperi e violenze degli
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squadristi, finché il 29 ottobre del ’22 Mussolina fu chiamato al Governo da
Vittorio Emanuele III dopo le dimissioni del Governo Faceta, che aveva
invano proposto al re di firmare un decreto per proclamare lo stato d’assedio:
questo avrebbe permesso di utilizzare l’esercito contro la marcia su Roma e
quindi avrebbe bloccato l’ascesa del fascismo - forse. L’atto del re viene
considerato da molti equivalente a un colpo di Stato, contrario alla
costituzione ormai da tempo vigente, anche se è facile da parte di alcuni
giustificarlo dicendo che operò in tal modo per la necessità di evitare la
guerra civile.
Comunque fu un atto che ha danneggiato enormemente la dinastia dei
Savoia, poi posto a fondamento della norma della Cost. 1948 (di cui si è ora
deliberata l’abolizione) per cui i maschi dei Savoia non possono entrare in
Italia.
Il fatto è che da allora, grazie all’aiuto del re, Mussolini, un giornalista già
socialista, finì per salire al governo ove rimase fino al 25 luglio 1943, la
famosa notte in cui il Gran Consiglio del Fascismo sconfessò il suo capo
approvando l’ordine del giorno di Dino Grandi e costringendolo alle
dimissioni: il re nominò nuovo capo del governo il generale Badoglio.
Ma torniamo alle basilari elezioni del ’19, che avevano dato il voto anche ai
minori di 21 anni se combattenti. Il sistema proporzionale (quello da noi
vigente nel dopoguerra) allora sembrò a molti una menomazione grave
dello Statuto (anche a Giolitti), perché si diceva lesivo della libertà
dell’elettore! Nel ’20 logico corollario fu la riforma del regolamento della
Camera per cui gli uffici fino ad allora esistenti furono trasformati in
"commissioni" (anche oggi operanti) con partecipazione proporzionale dei
partiti, che controllarono tutta l’attività di Governo. Del resto il Parlamento
in questo periodo aveva soltanto provveduto disordinatamente a creare e
disfare ministeri.
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