Un`ipotesi di salvezza negli Ossi di seppia: guida alla

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Un`ipotesi di salvezza negli Ossi di seppia: guida alla
Un’ipotesi di salvezza negli Ossi di seppia: guida alla lettura di Casa sul mare
di Matteo Tasca
È possibile risalire a una visione organica della salvezza all’interno degli Ossi di seppia, libro
dell’atonia universale? Nel corso di queste pagine cercheremo di capire se ci sono (e quali sono)
delle costanti tra i rari momenti salvifici che illuminano l’esperienza dell’io lirico. Dopo aver
analizzato Casa sul mare, uno dei componimenti in cui più esplicitamente si affaccia la possibilità
di trovare «una maglia rotta nella rete»8, passeremo a un confronto con altri testi della raccolta,
tentando di individuare punti in comune tra i vari eventi salvifici. Infine osserveremo le diverse
risorse linguistiche e poetiche a cui Montale fa ricorso nel presentare, da un lato, la certezza del
male di vivere, dall’altra la remota possibilità di una salvezza.
Casa sul mare
Il viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l'anima che non sa più dare un grido.
Ora i minuti sono eguali e fissi
come i giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d'acqua che rimbomba.
Un altro, altr'acqua, a tratti un cigolio.
Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
i soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l'isole dell'aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.
Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell'ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
8
E. MONTALE, I limoni.
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Vorrei dirti che no, che ti s'appressa
l'ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s'infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l'avara mia speranza.
A' nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l'offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.
Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m'ode
salpa già forse per l'eterno.
1. Casa sul mare fa parte di Meriggi e ombre, penultima sezione di Ossi di seppia. I versi,
eccetto 2 novenari e 3 settenari, sono tutti endecasillabi. La compattezza interna di ogni strofa è
assicurata da una fitta tessitura fonica di rime, rime interne ed assonanze:
Prima strofa – rime dividono: grido (ipermetra), pompa: rimbomba (imperfetta); assonanza
grido: cigolio.
Seconda strofa – rime appaia: Carraia, muta: dorsuta (interna); assonanze spiaggia: appaia,
flussi: fumi, conche: migrabonde.
Terza strofa – rime fuga: ruga, campi: scampi; assonanze sospiro: destino, s’appressa: salvezza,
tempo: disegno, segnarti: campi.
Quarta strofa – rime prode: rode (interna): m’ode, alterno: eterno, cammino: vicino (interna);
assonanza cuore: m’ode.
Nessuna strofa resta però isolata grazie all’anafora, leggermente variata a ogni ricorrenza, che si
presenta puntuale nel primo verso di ciascuna: «Il viaggio finisce qui» (v. 1), «Il viaggio finisce a
questa spiaggia» (v. 8), «Tu chiedi se così tutto vanisce» (v. 16), «Il cammino finisce a queste
prode» (v. 34). Queste ripetizioni, non identiche ma evidentemente sinonimiche, rafforzano la
sensazione di unità dell’intero componimento.
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La prima lassa propone una riflessione riguardo una delle problematiche esistenziali più sentite
in Ossi di seppia: la sostanziale immobilità della vita umana. In questo modo il lettore si trova fin
da subito tra le mani una chiave di lettura per le immagini che seguiranno. Notiamo anche, a questo
punto, che l’incipit anastrofico di ogni lassa, oltre a fungere da legante fra le varie strofe, si carica di
un contenuto ben più profondo: all’immobilità esistenziale corrisponde l’immobilità narrativa.
Potrebbe dunque non essere un caso il fatto che la lassa in cui l’anastrofe appare più variata («Tu
chiedi se così tutto vanisce») sia anche quella in cui più diffusamente si parla di salvezza. L’eterno
ritorno dell’identico non è più la conquista spirituale che permette all’oltreuomo di vivere
nell’attimo; al contrario, è una prigione senza vie di fuga. E il viaggio significativamente finisce in
quella stessa casa sul mare che tanto aveva segnato l’infanzia del poeta: finisce dove era iniziato. La
casa sul mare, infatti, prima di essere una efficace trovata poetica, fa parte della realtà biografica
dell’autore. Così in Fine dell’infanzia: «Ma riaddotti dai viottoli/ alla casa sul mare, al chiuso asilo/
della nostra stupita fanciullezza».
In questa prima strofa l’anima, occupata e divisa dalle preoccupazioni della vita, non affronta il
viaggio in mare, non spezza la catena dell’immobilità. L’io lirico di questa poesia fa parte «della
razza di chi rimane a terra» (Falsetto). Il solo modo di comprendere pienamente l’entità di questo
scacco è avere presente la carica simbolica che il mare assume nel corso di Ossi di seppia, in
particolare nella sezione Mediterraneo. Il mare rappresenta infatti una dimensione di autenticità,
l’agognato accesso a una patria benevola, non flagellata dall’aridità che ritroviamo in tanti paesaggi
montaliani: «non m’era più in cuore la ruota/ delle stagioni e il gocciare/ del tempo inesorabile;/ ma
bene il presentimento/ di te m’empiva l’anima» (Scendendo qualche volta…). Allo stesso tempo
però si configura come una volontà cieca e inflessibile, per nulla simile a un padre affettuoso che va
incontro alle sue creature: «Così, padre, dal tuo disfrenamento/ si afferma, chi ti guardi, una legge
severa./ Ed è vano sfuggirla: mi condanna/ s’io lo tento anche un ciottolo/ róso sul mio cammino»
(Ho sostato talvolta nelle grotte…).
L’impressione è che il mare non tenga conto di entità diverse da sé, che comprenda solo la
propria “legge” interna. Dunque l’adulto, che a differenza del bambino ha un’identità più definita,
non può recuperare quell’antica unità con il mare, così come un oggetto solido non si mescola con il
liquido in cui viene immerso, ma mantiene la sua forma, rimane cioè altro. L’esilio è inevitabile:
«Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale/ siccome i ciottoli che tu volvi,/ mangiati dalla
salsedine;/ scheggia fuori dal tempo, testimone/ di una volontà fredda che non passa./ Altro fui:
uomo intento che riguarda/ in sé, in altrui, il bollore/ della vita fugace – uomo che tarda/ all'atto, che
nessuno, poi, distrugge» (Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale…).
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Lo scacco dell’anima che si ferma «a queste prode» diviene ora più comprensibile: da un lato c’è
la caducità di una vita certa ma inautentica, dall’altro l’inquietante annullamento a cui chiama il
mare. L’io lirico, in quanto «uomo che tarda all’atto», opta per una non-scelta e resta in bilico tra
l’insoddisfacente fenomeno rappresentato dalla terra e l’agognata, ma pur sempre terribile essenza
del mare. Il risultato è uno stato di immobilità vissuto nel contraddittorio aspetto di prigione-rifugio,
per cui l’io resta infelicemente ancorato a terra.
Correlativo oggettivo di questa condizione esistenziale sono i giri di ruota della pompa.
L’elemento liquido resta, ma alla distesa vasta e continuamente mutevole («esser vasto e diverso/ e
insieme fisso»)9 si sostituisce un flusso di portata inferiore, costretto in un percorso. Molto efficaci
sono gli ultimi due versi della strofa («un giro: un salir d'acqua che rimbomba./ Un altro, altr'acqua,
a tratti un cigolio»), ognuno dei quali contiene un giro di pompa. La cadenza che ne risulta
contribuisce a rafforzare l’invincibile senso di monotonia nella vita.
Nella seconda strofa il «livello figurale»10 cambia: da una sezione riflessiva si passa a una
sezione descrittiva. Scegliendo la disposizione riflessione-descrizione, Montale inverte l’ordine
tipico negli altri componimenti di Meriggi e ombre (descrizione-riflessione). Le scene di questa
strofa rispecchiano dunque il discorso portato avanti in quella precedente: i «fumi» si riallacciano
alle «cure meschine», apparenze dietro le quali non c’è nulla di essenziale; «gli assidui e lenti flutti»
sono in stretto rapporto con «i minuti […] eguali e fissi», a cui aggiungono però una certa
sensazione di logorio causato del tempo.
Solo la scena finale («ed è raro che appaia/ nella bonaccia muta/ tra l'isole dell'aria migrabonde/
la Corsica dorsuta o la Capraia») presenta elementi non ricollegabili a quanto enunciato nella prima
parte. Infatti le rare apparizioni della Corsica e della Capraia fungono da ponte con la terza strofa,
introducendo nella poesia l’idea di un’eccezione, di una lontananza che si lascia per lo meno
contemplare. Va sottolineato il fatto che le nuvole siano definite «l’isole dell’aria migrabonde»: si
crea così un legame confuso, quasi visionario, con la Corsica e la Capraia (queste, isole per
davvero) che potenzia l’effetto di un’apparizione miracolosa. È implicito però che queste isole,
anche nei rari casi in cui si rivelano all’orizzonte, rappresentano per l’io lirico un semplice oggetto
di osservazione, non una meta da raggiungere; come ogni strofa si preoccupa infatti di ribadire, il
viaggio «finisce qui», alla casa sul mare: la distanza resta incolmabile.
La terza strofa, la più lunga della poesia, presenta un piano figurale misto: a momenti riflessivi si
alternano momenti descrittivi. La strofa si apre con una fondamentale novità: l’entrata in scena del
9
E. MONTALE, Antico, sono ubriacato dalla tua voce…
Per questa espressione prendo spunto dal saggio di L. BLASUCCI, Livelli figurali di Casa sul mare, in Gli oggetti di
Montale, Urbino, il Mulino, 2002, pp. 133-152.
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“tu”11, spesso sfruttata dal poeta per definire con più chiarezza, tramite un rapporto contrastivo, la
condizione dell’io. Infatti, riconoscendo al tu la possibilità di salvarsi (anche se remota: «Vorrei
dirti»; «Penso che per i più non sia salvezza,/ ma taluno sovverta ogni disegno»; «codesta via di
fuga/ labile come nei sommossi campi/ del mare spuma o ruga»), per opposizione si rafforza il
senso di prigionia dell’io, al quale sembra non essere riservata alcuna speranza di ritrovarsi «qual
volle», libero dalle «ore eguali e fisse». La poesia sembra preceduta da una premonizione profetica
tutta in negativo, per cui l’io sa di non essere uno degli eletti. Al contrario il tu, ignorando il proprio
destino, può sperare di salvarsi. In questo sarà anche assistito dall’io che, certo della condanna, è
pronto a donare quella speranza che a lui non serve più: («Vorrei prima di cedere segnarti/ codesta
via di fuga»: è il gesto di chi ha visto ma è rimasto fermo).
Il sacrificio dell’io per il tu potrebbe però rivelarsi vano, tant’è che il poeta ribadisce questo
dubbio quasi come un’ossessione: con l’uso del condizionale («vorrei dirti»), con la sequenza
“penso + congiuntivo” («Penso che per i più non sia salvezza,/ ma taluno sovverta ogni disegno»),
con gli avverbi «forse» e «chissà» («forse solo chi vuole s’infinita», «e questo tu potrai, chissà, non
io»; il forse è presente anche nella quarta strofa «Il tuo cuore vicino che non m’ode/ salpa già forse
per l’eterno»), con il futuro («l’ora che passerai di là dal tempo», «e questo tu potrai»). 12
Nella quarta strofa il livello figurale è ancora misto, ma i due registri risultano giustapposti: nel
primo distico troviamo una descrizione paesaggistica, nel secondo una riflessione esistenziale e non
immaginifica. Questa sequenza riassume il discorso portato avanti nei versi precedenti.
2. È necessario chiedersi, a questo punto, in cosa consista la salvezza di cui parla la poesia. I
versi 16-19 («Tu chiedi se così tutto vanisce/ in questa poca nebbia di memorie;/ se nell'ora che
torpe o nel sospiro/ del frangente si compie ogni destino») indicano l’idea di una vita lontana dal
suo «quid definitivo», da cui bisogna fuggire verso una forma di esistenza più autentica. Non è
chiaro, però, se ciò sia possibile in questa stessa vita, dunque nel nostro ordine fisico; oppure se,
come sembra suggerire il dantismo «s’infinita», la salvezza conduca in una dimensione non più
terrestre, dove è possibile un’esistenza libera dalla costrizione spazio-temporale. Per chiarire questo
punto occorre, tuttavia, ricercare la fenomenologia della salvezza anche nel resto di Ossi di seppia.
11
Per dichiarazione dello stesso Montale, il tu che si cela dietro questa poesia è Paola Nicoli, attrice ligure di origine
peruviana. In Ossi di seppia, alla Nicoli sono ispirate In limine, Non rifugiarti nell’ombra.., Tentava la vostra mano la
tastiera…, il trittico Crisalide, Marezzo, Casa sul mare.
12
Da notare che il gruppo “forse + futuro” è presente anche in Forse un mattino andando. Anche qui il centro della
poesia consiste in una possibilità vagheggiata, piuttosto che nel racconto di un miracolo accaduto. Tuttavia, mentre in
Forse un mattino andando l’istante privilegiato si presenta come la rivelazione dell’inganno-rappresentazione, a cui
segue la scoperta del vuoto (negazione di una negazione); in Casa sul mare «l’ora che passerai di là dal tempo» assume
valori positivi (affermazione). Questa è un’ulteriore conferma che in poesia meno per meno non fa più.
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Per raccogliere elementi utili sarà bene partire dal trittico dedicato a Paolo Nicoli, di cui Casa sul
mare fa parte insieme a Crisalide e Marezzo. In Marezzo la descrizione paesaggistica culmina in
una rottura dell’ordine naturale («la maglia che non tiene»): «Un astrale delirio si disfrena,/ un male
calmo e lucente./ Forse vedremo l'ora che rasserena/ venirci incontro sulla spera ardente»; «Oh la
vendemmia estiva,/ la stortura nel corso/ delle stelle!». Il cerchio stretto intorno all’uomo per un
attimo si spezza («sei passata»). Il tu non riconosce più il suo linguaggio, né il suo passato («Parli e
non riconosci i tuoi accenti.13/ La memoria ti appare dilavata»); e se la memoria, creando continuità
tra tutti i frammenti della vita, conferisce unità al nostro essere, allora la «memoria […] dilavata»
indica perdita di identità. Anche qui si affaccia, vaga, l’ipotesi di una dimensione libera dalle
coordinate spazio-temporali. La fuga tuttavia non è completa: «Ora, che avviene?, tu riprovi il peso/
di te, improvvise gravano/ sui cardini le cose che oscillavano,/ e l'incanto è sospeso». Il tu non
riesce a lasciarsi alle spalle la vita passata, il miracolo si compie a metà e tutto torna com’era: «Ah
qui restiamo, non siamo diversi./ Immobili così. Nessuno ascolta/ la nostra voce più. Così
sommersi/ in un gorgo d'azzurro che s'infolta».
Più complesso è lo svolgimento della tematica in Crisalide. I versi cruciali, quelli della possibile
svolta, sono questi: «Lo sguardo ora vi cade su le zolle;/ una risacca di memorie giunge/ al vostro
cuore e quasi lo sommerge./ Lunge risuona un grido: ecco precipita/ il tempo, spare con risucchi
rapidi/ tra i sassi, ogni ricordo è spento; ed io/ dall'oscuro mio canto mi protendo/ a codesto solare
avvenimento». Il tu viene strappato ai suoi ricordi da un grido, l’attività della memoria viene
interrotta: tutto ciò scatena immediatamente il collasso dell’ordine temporale e del concetto di
identità, ad esso legato. L’io assiste alla scena da lontano, nascosto in un cantuccio («Per me, che vi
contemplo da quest’ombra»), senza prendere direttamente parte a questa sorta di trasfigurazione.
Infatti, come si chiarisce nella strofa successiva, («Siete voi la mia preda, che m'offrite/ un'ora breve
di tremore umano./ Perderne, non vorrei neppure un attimo:/ è questa la mia parte, ogni altra è
vana./ La mia ricchezza è questo sbattimento/ che vi trapassa e il viso/ in alto vi rivolge; questo
lento/ giro d'occhi che ormai sanno vedere»), all’io non è riservata una vera e propria salvezza:
piuttosto una intensificazione della vita e della dimensione umana 14. L’impossibilità per l’io di
salvarsi sembra essere assunta da Montale quasi come un postulato poetico.
Al contrario, l’evento che riguarda il tu assume caratteristiche ambigue: alcune affermazioni
sembrano rimandare ad un ordine diverso da quello naturale («ecco precipita/ il tempo, spare con
13
Questi nuovi accenti potrebbero riallacciarsi alle «salmastre parole/ in cui natura ed arte si confondono» (Potessi
almeno costringere…). Il problema del linguaggio, specialmente del linguaggio poetico, è centrale negli ultimi
movimenti di Mediterraneo.
14
Questa osservazione, tra l’altro, mi sembra applicabile anche ai versi 18-21, 46-49 de I limoni: «Qui delle divertite
passioni/ per miracolo tace la guerra ,/ qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza/ ed è l'odore dei limoni»;
«e il gelo del cuore si sfa,/ e in petto ci scrosciano/ le loro canzoni/ le trombe d'oro della solarità».
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risucchi rapidi/ tra i sassi, ogni ricordo è spento»); altri elementi, in primis il fatto che l’io assista
all’evento, farebbero pensare che tutto avviene nella dimensione fisica comune, senza bisogno di
immaginare un superamento dei confini spazio-temporali. Contro quest’ultima osservazione si
potrebbe anche obiettare che l’ordine fisico resta intatto, poiché il miracolo (e quindi il “passare
oltre”) non è completo: («M'apparite/ allora, come me, nel limbo squallido/ delle monche esistenze;
e anche la vostra/ rinascita è uno sterile segreto,/ un prodigio fallito come tutti/ quelli che ci
fioriscono d'accanto»). In ogni caso la questione è tutt’altro che risolta.
La strofa successiva ripropone ancora, con una mirabile tecnica, uno scenario di salvezza
illusoria: nei primi versi si parla esplicitamente di una «illusione», dunque dell’irrealizzabilità del
prodigio («E il flutto che si scopre oltre le sbarre/ come ci parla a volte di salvezza;/ come può
sorgere agile/ l'illusione, e sciogliere i suoi fumi»); nei versi successivi, però, la stessa illusione è
descritta nel dettaglio attraverso l’uso dell’indicativo presente, come se si stesse svolgendo in quel
momento davanti agli occhi dell’io («Vanno a spire sul mare, ora si fondono/ sull'orizzonte in
foggia di golette»). L’illusione tanto sperata si trasforma in allucinazione.
Questa tecnica rende ancora più «amara» l’improvvisa rottura della sesta strofa: «Ah crisalide,
com'è amara questa/ tortura senza nome che ci volve/ e ci porta lontani - e poi non restano/ neppure
le nostre orme sulla polvere;/ e noi andremo innanzi senza smuovere/ un sasso solo della gran
muraglia;/ e forse tutto è fisso, tutto è scritto,/ e non vedremo sorgere per via/ la libertà, il miracolo,/
il fatto che non era necessario!»15. La possibilità che arrivi «la barca di salvezza» è smentita
definitivamente al v. 68: «nell’onda e nell’azzurro non è scia».
Come si è potuto notare per quel che riguarda la fenomenologia della salvezza, nel trittico
Crisalide-Marezzo-Casa sul mare si è compiuta una evidente evoluzione in senso escatologico,
rispetto a testi come Quasi una fantasia (dove è dipinta un’evasione fantastica, collocata in un
momento di transizione tra il sonno e la veglia), Là fuoresce il tritone… e Falsetto (anche se l’ironia
di questo componimento è volta a denunciare troppo semplici prospettive di salvezza, piuttosto che
a proporne una autentica). Anche il componimento che chiude la raccolta, Riviere, è pervaso da un
ottimismo ingenuo e troppo frettoloso, tanto che lo stesso autore la giudicherà «una sintesi e una
guarigione troppo prematura»16. Al contrario, le tre poesie in questione non solo appaiono molto più
mature nel loro pessimismo ragionato, ma non ancora rassegnato; ma si trovano anche in linea con
In limine17, testo introduttivo e in qualche modo programmatico per l’intera raccolta. Anche le date
15
Mentre in Casa sul mare il «forse» era legato alla speranza che la donna potesse salvarsi, in Crisalide, rovescio della
medaglia, esprime il timore che l’inquietante meccanismo della natura possa essere senza falle.
16
Cfr. E. MONTALE, Sulla poesia, Milano, Mondadori, 1976, p. 566
17
Va ricordato che anche In limine, così come il trittico Crisalide-Marezzo-Casa sul mare, è dedicata a Paola Nicoli.
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di composizione dei componimenti (sia il trittico sia In limine risalgono al 1924) intervengono a
confermarne la prossimità.
Allora, la visione della salvezza veicolata da Montale appare la seguente: una possibilità («Se
procedi t'imbatti/ tu forse nel fantasma che ti salva»; il «forse» non manca neppure qui) accettata
filosoficamente sulla scorta del contingentismo di Boutroux 18; ma anche un evento che, non essendo
mai stato sperimentato in prima persona dall’io lirico, non può essere descritto con la stessa
precisione che si affaccia, ad esempio, nei versi in cui si parla del «male di vivere».
Può essere utile tracciare uno schema delle caratteristiche ricorrenti nella fenomenologia della
salvezza:
-
La salvezza irrompe come un errore nel meccanismo di natura: «cerca una maglia rotta nella
rete» (In limine); «[…] di scoprire uno sbaglio di Natura,/ il punto morto del mondo, l'anello che
non tiene,/ il filo da disbrogliare che finalmente ci metta/ nel mezzo di una verità»; (Casa sul mare),
«ma taluno sovverta ogni disegno» (I limoni); «un astrale delirio si disfrena», «oh la vendemmia
estiva,/ la stortura nel corso/ delle stelle!» (Marezzo).
-
Il tempo, motivo di prigionia per l’io (Casa sul mare: «ora i minuti sono eguali e fissi»;
Arsenio: «[…] l’ore/ uguali, strette in trama») interrompe bruscamente il suo consueto fluire: «si
compongono qui le storie, gli atti/ scancellati pel giuoco del futuro» (In limine); «ecco precipita/ il
tempo, spare con risucchi rapidi/ tra i sassi, ogni ricordo è spento» (Crisalide); «Oh la vendemmia
estiva» (Marezzo); «Vorrei dirti che no, che ti s'appressa/ l'ora che passerai di là dal tempo», «Il tuo
cuore vicino che non m'ode/ salpa già forse per l'eterno» (Casa sul mare).
-
L’azione compiuta è definita sempre come un passaggio oltre una barriera: «Cerca una
maglia rotta nella rete/ che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!» (In limine); «Sei passata» (Marezzo);
«l'ora che passerai di là dal tempo», «passi il varco, qual volle si ritrovi» (Casa sul mare).
-
A salvarsi è sempre il tu, mai l’io: «Lunge risuona un grido: ecco precipita/ il tempo, spare
con risucchi rapidi/ tra i sassi, ogni ricordo è spento; ed io/ dall'oscuro mio canto mi protendo/ a
codesto solare avvenimento» (Crisalide); «Sei passata», «Ah qui restiamo, non siamo diversi»
(Marezzo); «Vorrei dirti che no, che ti s'appressa/ l'ora che passerai di là dal tempo;/ forse solo chi
vuole s'infinita,/ e questo tu potrai, chissà, non io» (Casa sul mare); «Se procedi t'imbatti/ tu forse
nel fantasma che ti salva:/ si compongono qui le storie, gli atti/ scancellati pel giuoco del futuro.//
18
Émile Boutroux (1845 – 1921) nega l’idea positivista che tutta la realtà sia retta da inflessibili leggi di causalità. Non
tutto quel che accade è prevedibile matematicamente o razionalmente, come se ci trovassimo all’interno di un
meccanismo a ingranaggi. Alcuni eventi percorrono vie che non si possono prevedere.
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Cerca una maglia rotta nella rete/ che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!/ Va, per te l'ho pregato, - ora
la sete/ mi sarà lieve, meno acre la ruggine...»19 (In limine).
Al di là di queste costanti l’evento salvifico non si colloca in una dimensione chiaramente
individuabile, ma rimane volutamente avvolto in un alone di mistero. Questo dato di fatto non deve,
tuttavia, stupirci: Ossi di seppia è il libro del «male di vivere» e dell’atonia universale, non certo
della redenzione. Montale stesso dirà: «Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la
realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella
disarmonia».20 L’intento della prima raccolta montaliana non è tanto parlare di salvezza, quanto
cercare di capire, descrivendolo, l’esilio dell’io che non sa entrare in comunione con il mondo. Il
modello simbolista e dannunziano è completamente rovesciato: la natura non è più rifugio, né tanto
meno oggetto di assimilazione panica. Nel confronto con la natura il poeta-vate non è più in grado
di trascendere le singole componenti del mondo, non può scoprirsi divino 21; anzi, molto spesso
proprio oggetti o scenari della natura diventano correlativo oggettivo del male e dell’immobilità
esistenziale.
3. È importante notare come alla condizione esistenziale del poeta (perenne senso di disarmonia
nei confronti della realtà; vaga fiducia, o fede, nella possibilità che pochi si salveranno),
corrisponda un uso ponderato delle risorse linguistiche. Ne risulta, quindi, che il male di vivere è
incarnato da una enorme quantità di oggetti, riportati con assoluta precisione. Il sentimento di
estraneità al mondo, costante nell’esperienza del poeta fin dall’adolescenza, è tradotto
nell’esposizione di quegli stessi paesaggi, di quegli stessi oggetti dai quali l’io si sente assediato.
Certo, questa caratteristica della poesia di Montale raggiungerà la piena maturità solo nelle
Occasioni, dove si ricorre sistematicamente alla descrizione, precisa fin quasi al puntiglio, di
esperienze privilegiate particolarmente significative per il poeta 22. Tuttavia, già in Ossi di seppia
questa tendenza è perfettamente rintracciabile. Ne risulta un realismo particolarissimo che travalica
il limite di una mera scelta formale. La poetica montaliana è infatti motivata da un contenuto
19
Ne I limoni un evento vitalistico coinvolge direttamente l’io. Tuttavia, come in Crisalide («un’ora breve di tremore
umano»), anche qui si verifica un’intensificazione della vita piuttosto che il passaggio in un’altra dimensione di cose: «e
il gelo del cuore si sfa,/ e in petto ci scrosciano/ le loro canzoni/ le trombe d'oro della solarità». Mancano dunque il
secondo e terzo punto. Ai versi 22-31, invece, l’istante tanto atteso si configura come una rivelazione gnoseologica,
priva di qualsiasi implicazione salvifica o escatologica.
20
Confessioni di scrittori (Interviste con se stessi), Torino, ERI, 1951 ora in E. MONTALE, Sulla poesia, Milano,
Mondadori, 1976 cit., p. 570.
21
G. D’ANNUNZIO, Meriggio: «E l’alpi e l’isole e i golfi/ e i capi e i fari e i boschi/ e le foci ch'io nomai/ non han più
l'usato nome/ che suona in labbra umane./ Non ho più nome né sorte/ tra gli uomini; ma il mio nome/ è Meriggio. In
tutto io vivo/ tacito come la Morte.// E la mia vita è divina».
22
A questa maturazione corrisponde un nuovo adattamento linguistico. Le Occasioni abbondano infatti di tecnicismi, di
termini stranieri e di nomi propri; tuttavia rinunciano a quel linguaggio aulico e arcaico a cui spesso il poeta fa ricorso
in Ossi di seppia.
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spirituale-esistenziale, che viene prima della forma: per dirla con Contini, si tratta di un realismo
esistenziale. Solo così nelle sue composizioni Montale può interrogare direttamente la realtà23,
senza dover passare per il tramite di immagini-simbolo («È ora di lasciare il canneto/ stento che
pare s'addorma/ e di guardare le forme/ della vita che si sgretola»). Per questo la terminologia
montaliana è così precisa; per questo molte sue poesie contengono elementi estranei alla tradizione
(oltre a quelli elencati sopra, si consideri ad esempio il «fuscello teso dal muro», la cui ombra è
paragonata all’indice di una meridiana), oppure elementi il cui valore è rovesciato rispetto a quello
tradizionale (il caso più famoso è quello dell’«upupa», o «galletto di marzo»); per questo nei
componimenti più riusciti l’oggetto è autonomo e padrone della scena, e tutti gli sforzi del poeta
tendono a descrivere quei particolari, anche minimi, che ne facciano emergere il contenuto
profondo; per questo non è azzardato parlare di un ricorso (seppur ancora imperfetto e
inconsapevole) al correlativo oggettivo 24, nel quale l’ellissi del primo termine di paragone,
escludendo qualsiasi forma di commento da parte dell’io lirico, lascia tutto lo spazio al secondo
termine (quello, appunto, oggettivo).
Dunque, se l’immagine-simbolo si pone come tramite per significare un’idea o un concetto altri
da sé, al contrario l’oggetto montaliano cerca di riportare direttamente e fedelmente nella poesia
proprio quella realtà, nei confronti della quale l’autore è in disarmonia. In altre parole, l’oggetto ha
lo scopo di interrogare poeticamente il reale, accogliendo frammenti di realtà nell’arte. Bisogna
dare spazio non tanto al sentimento/riflessione, quanto all’oggetto da cui il sentimento/riflessione
scaturisce:
Il poeta non deve soltanto effondere il proprio sentimento, ma deve altresì lavorare una sua
materia, verbale, “fino a un certo segno”, dare della propria intuizione quello che Eliot chiama un
“correlativo oggettivo”. Solo quando è giunta a questo stadio la poesia esiste, e lascia un’eco,
un’ossessione di sé. Talora vive per proprio conto e l’autore stesso non la riconosce più: poco
importa25.
Tuttavia in Ossi di seppia il correlativo oggettivo è spesso utilizzato in maniera imperfetta.
L’impressione è che Montale si sia mosso spontaneamente, per innata sensibilità, verso questo tipo
23
Intesa comunque come fenomeno, non come essenza o noumeno.
Il saggio in cui Eliot parla del correlativo oggettivo risale al 1919, dunque, cronologicamente, potrebbe essere stato
letto da Montale prima della stesura di Ossi di seppia. Tuttavia si legge in una dichiarazione dello stesso poeta: «La
verità è che io avevo tradotto nel ’29 tre brevi poesie di Eliot, ma nient’altro conoscevo di quel poeta; mentre parecchie
mie pagine degli anni precedenti già mi imponevano quella strada» (Poesie di Eugenio Montale ne, Il secondo mestiere
– Arte, musica, società, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1996, p. 1495-1496). Considerando che Arsenio,
la poesia più tardi in Ossi di seppia, risale al 1927, non si può pensare ad una iniziale influenza degli scritti di Eliot sul
poeta ligure. È anche vero, però, che nelle Occasioni, pubblicate nel 1939 (quindi dopo il contatto con Eliot) l’uso del
correlativo oggettivo risulta più maturo e, soprattutto, più sistematico.
25
E. MONTALE , Della poesia d’oggi, in Il secondo mestiere – Arte, musica, società, a cura di Giorgio Zampa, Milano,
Mondadori, 1996, p. 1530-1531
24
34
di forma poetica; mancando però un’adeguata formulazione teorica (il giovane poeta non aveva
ancora familiarità con Eliot), l’uso di questa tecnica è poco sistematico e, per così dire, “impuro” 26.
Osserviamo uno dei testi più noti della raccolta:
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
È evidente che, accanto all’oggetto nel quale il sentimento si incarna, viene nominato
esplicitamente anche il sentimento stesso. Il primo termine di paragone lascia tracce della sua
esistenza nella poesia, privando così il secondo termine della sua pura “oggettività”. Ne consegue
che gli oggetti di Spesso il male di vivere ho incontrato… non sono liberi di significare liberamente
ciò che sono, poiché l’interpretazione del lettore è orientata dalle indicazioni fornite dall’autore. Gli
elementi che vanno in scena sono già semantizzati, dunque non possiamo far altro che prendere atto
di questa semantizzazione. Bisogna però notare che più si va in avanti nella cronologia dell’opera,
maggiore appare l’attenzione di Montale a non «spiattellare» 27 i suoi contenuti. Non a caso il testo
della raccolta in cui la poetica oggettiva è esibita con maggior sistematicità è proprio Arsenio,28
cronologicamente a metà strada tra Ossi di seppia e Occasioni.
4. Dopo aver analizzato il linguaggio del male di vivere, terminiamo osservando le risorse
linguistiche a cui il poeta fa ricorso per parlare di salvezza. Si possono individuare due diversi
registri (i corsivi da qui in avanti sono miei):
-
«Vorrei dirti che no, che ti s'appressa/ l'ora che passerai di là dal tempo;/ forse solo chi
vuole s'infinita,/ e questo tu potrai, chissà, non io», «Il tuo cuore vicino che non m'ode/ salpa già
26
Come riconoscerà lo stesso Montale: «In sostanza non mi pare che il nuovo libro [Occasioni] contraddicesse ai
risultati del primo: ne eliminava alcune impurità […]» (Intenzioni (Intervista immaginaria) in Il secondo mestiere –
Arte, musica, società, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1996, p. 1482).
27
«Non pensai a una lirica pura nel senso ch’essa ebbe poi anche da noi, a un giuoco di suggestioni sonore; ma piuttosto
a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli», E. MONTALE, Intenzioni
(Intervista immaginaria), in Il secondo mestiere – Arte, musica, società a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori,
1996, p. 1481. Montale pronuncia (o meglio scrive, essendo un’intervista immaginaria) questa frase parlando delle
Occasioni.
28
Composto nel 1927.
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forse per l'eterno» (Casa sul mare); «Parli e non riconosci i tuoi accenti./ La memoria ti appare
dilavata./ Sei passata …» (Marezzo); «ecco precipita/ il tempo» (Crisalide). In questi casi la
terminologia utilizzata è astratta, concettuale («s’infinita», «eterno»), vaga: è lontanissima la
minuziosità descrittiva osservata per gli oggetti del male di vivere.
-
«Cerca una maglia rotta nella rete» (In limine); «… uno sbaglio di Natura,/ il punto morto
del mondo, l'anello che non tiene,/ il filo da disbrogliare» (I limoni); «Un glorioso affanno senza
strepiti/ ci batte in gola: nel meriggio afoso/ spunta la barca di salvezza, è giunta» (Crisalide); «Oh
la vendemmia estiva,/ la stortura nel corso/ delle stelle!» (Marezzo). Nei casi citati Montale fa
ricorso a immagini-simbolo, non a veri e propri oggetti. Simboleggiare cosa? Un passaggio, una
rottura, un’esperienza che, non essendo mai stata sperimentata, non si può incarnare così come si
incarna il male di vivere.
In Ossi di seppia dunque la salvezza non ha oggetti, non è una componente autentica del reale,
ma solo un’improbabile possibilità. Di conseguenza, il linguaggio che la esprime è rarefatto, vago,
spesso risultato di una commistione tra elementi narrativi ed elementi astratti. In alternativa, il poeta
fa ricorso ad immagini-simbolo arbitrarie29 e incapaci di interrogare direttamente la realtà.
L’esattezza nel descrivere le incarnazioni del male di vivere viene abbandonata: infatti, come si può
trovare un oggetto che parli di salvezza, se questa rifiuta di incarnarsi nel nostro mondo fisico? Se
niente interviene a incepparlo, il meccanismo continua a girare tranquillo, terribile, perfetto.
Solo un testo di Ossi di seppia sembra fare eccezione a questa regola. In Arsenio infatti si
affaccia una prospettiva reale di salvezza per l’io: e non a caso, con straordinaria coerenza, proprio
in Arsenio compare il primo oggetto in grado di indicare «il segno d'un'altra orbita». Così quel
semplice (ed evidentemente non-simbolico) «ritornello/ di castagnette» prepara la strada a una
nuova lotta30 e a un nuovo libro, in cui la salvezza, stavolta sì, avrà un corpo e un volto. Ma a
questo punto molto è cambiato dai tempi degli Ossi, altre sono le sfide da superare: scoperto e
sperimentato “l’oggetto” salvifico, bisognerà conquistare il linguaggio che, pur tenendolo sotto
vetro, sappia conservarne almeno un poco di vitalità.
29
L’oggetto, al contrario, non presenta caratteri di arbitrarietà, poiché non può essere diverso da quel che effettivamente
è.
30
«E anche nel nuovo libro [Le occasioni] ho continuato la mia lotta per scavare un’altra dimensione nel nostro pesante
linguaggio polisillabico, che mi pareva rifiutarsi a un’esperienza come la mia. […] Ho maledetto spesso la nostra lingua
[…]». E. MONTALE, Intenzioni (intervista immaginaria) in Il secondo mestiere – Arte, musica, società, a cura di Giorgio
Zampa, Milano, Mondadori, 1996, p. 1482.
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