VIII. Non è vero che noi tutti, in quanto uomini, vogliamo
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VIII. Non è vero che noi tutti, in quanto uomini, vogliamo
Verifica Filosofia Classe 3^A Leggi attentamente il seguente brano ricavato dal dialogo Eutidemo: 1 - esprimi con una frase la tesi sostenuta da Socrate 2 - individua gli argomenti utilizzati da Socrate per sostenere la sua tesi, distinguili e sintetizzali brevemente 3 - in base all'analisi testuale effettuata, spiega brevemente l'importanza del brano alla luce delle tue conoscenze sul pensiero di Socrate "VIII. Non è vero che noi tutti, in quanto uomini, vogliamo stare bene? O tale domanda è, come appena ora temevo, una di quelle che fanno ridere? Sì, è senza dubbio da sciocchi porre simile domanda: chi, tra gli uomini, non vuole star bene? - Ma nessuno!, rispose Clinia. - Esatto [279a], dissi io: ma allora, posto che vogliamo stare bene, in che modo lo potremo? Forse se avessimo molti beni? O questa è una domanda ancor più banale della prima? Che sia così non vi è, infatti, alcun dubbio. Annuì. - Ma allora, quali tra le cose sono quelle che risultano beni per noi? O neppur questo appare difficile, né tale che ci voglia un sublime uomo per trovarlo? Ché ognuno sa dirci ch’essere ricchi è bene. Così, no? - Senza dubbio, disse. - Anche stare bene in salute, essere [b] belli e avere ogni altra dote fisica? Fu di questa opinione.- Ma la nobiltà di nascita, il potere, l’essere onorato nel proprio stato, tutti questi, evidentemente, sono beni. Ne convenne. Ed io: - Quali beni ancora ci restano? In che consiste esser prudente, giusto, coraggioso? Per Zèus, Clinia, ritieni che sia una giusta tesi porre questi tra i beni, oppure no? Vi è forse qualcuno che possa sostenere il contrario: ma tu che ne pensi? - Vanno posti tra i beni, disse Clinia. - Bene!, esclamai. - E là sapienza, la porremo nel coro? Tra i beni, o che dici? Tra i beni. - Sta attento a non lasciarne da parte [c] qualcuno, degno d’essere ricordato. Mi sembra, rispose Clinia, di non averne tralasciato alcuno. Ed io ricordandomene, dissi: - Ma sì, per Zeus, rischiamo di avere lasciato da parte il più grande dei beni. - E quale?, domandò. - La buona fortuna, Clinia. Tutti, anche i più stupidi, dicono ch’essa sia il più grande dei beni. - E’ vero!, esclamò. Ma io, mutando ancora pensiero, proseguii: - Per un pelo non ci siamo coperti di ridico [d] di fronte a questi forestieri, tu ed io, figlio di Assioco. - E perché?, domandò. - Perché già, discorrendo prima, abbiamo posto la buona fortuna, ed ora ne veniamo a parlare di nuovo. - E cioè ? - Ma è senza dubbio ridicolo, quel che ci sta di fronte da tempo proporlo di nuovo e dire due volte la medesima cosa. - In che senso lo dici?, chiese. - Ma è proprio il sapere, dissi, la buona fortuna: lo sa anche un bambino. Egli restò meravigliato, tanto è giovane e semplice, sì che io, resomi conto della sua meraviglia, dissi: - Non sai, Clinia, che [e] i flautisti sono i più fortunati relativamente a saper suonare bene il flauto? Acconsentì. - E non è anche così, seguitai, dei grammatici nello scrivere e nel leggere le lettere? - Certo! - Ma come? Relativamente ai pericoli del mare credi che altri vi siano, in genere, più fortunati dei nocchieri che fanno il loro mestiere? - Evidentemente no! - Non solo, ma durante una campagna militare con chi preferiresti affrontare pericoli e casi di guerra, con uno stratega che sa o con uno ignorante? [280a] - Con uno che sa. - E se tu fossi in cattiva salute con chi passeresti il pericolo con serenità, con un medico che sa o con un ignorante? - Con un medico che sa. - E allora, dissi, ritieni che avresti maggior fortuna se tu avessi a che fare con uno che sa piuttosto che con un ignorante? Fu d’accordo. - Il sapere, dunque, in ogni campo, fa la buona fortuna degli uomini, ché il sapere, mai, in nulla, può sbagliare, ma necessariamente opera e riesce rettamente: se no, non sarebbe più sapere. IX. Non so come, ma alla fine ci trovammo d’accordo che, [b] nella sostanza, la questione stesse così: se c’è sapere, chi lo possiede non ha bisogno di buona fortuna. Poiché ci eravamo trovati d’accordo su questo, lo interrogai di nuovo per sapere come ci si trovasse d’accordo in ciò che prima s’era convenuto. Eravamo rimasti d’accordo, dissi, che se avessimo avuto molti beni, avremmo vissuto felicemente e bene. Acconsenti. - Ma vivremmo felici, avendo quei beni, se essi non fossero per noi un vantaggio, oppure sì? - Se lo fossero!, esclamò. - E [c] costituirebbero un vantaggio per noi, solo se li avessimo, ma non ne usassimo? Per dire: se avessimo molti cibi, ma non mangiassimo, o bevande ma non bevessimo, ne avremmo forse una qualche utilità? -Evidentemente no!, disse. - E allora, tutti gli artigiani, se tenessero preparati gli attrezzi del loro lavoro, ma non se ne servissero, vivrebbero forse bene per il fatto che posseggono l’occorrente, perché, cioè, posseggono tutto ciò che un artigiano deve possedere? Un falegname, ad esempio, che fosse provvisto di tutti gli strumenti e di sufficiente legname, ma non costruisse, potrebbe trarre un qualche utile da tale suo possesso? - Nient’affatto!, esclamò. - E se uno [d] fosse ricco e possedesse tutti quei beni di cui or ora dicevamo, ma non li usasse, sarebbe felice per il solo fatto che possiede tali beni? - Evidentemente no, Socrate! - E allora, dissi, a quanto sembra non solo deve possedere codesti beni chi voglia essere felice, ma deve anche servirsene; altrimenti nessun giovamento gli deriverà da tale possesso. - E’ vero. - Eppure, Clinia, sarà sufficiente questo solo a fare felice un uomo, cioè possedere i [e] beni e servirsene? - Mi sembra di sì! - Se, aggiunsi, uno se ne serva rettamente, oppure no? - Se rettamente - Giusta risposta, dissi. Eh sì, perché ritengo che sia peggio servirsi in maniera scorretta di una qualsivoglia cosa che non servirsene affatto, ché dei due modi l’uno è male, l’altro né male né bene. Non dobbiamo [281a] dire così? Fu d’accordo. - Ebbene, nella lavorazione e nell’uso del legname, ciò che fa sì che rettamente se ne usi non è forse la scienza falegnamesca? - Non altro, rispose. - Ed egualmente, nella lavorazione delle suppellettili quella che ne rende possibile la realizzazione è la scienza. Ne convenne. - E allora, proseguii, anche nell’uso di quelli che prima dicevamo beni, ricchezza, salute, bellezza, sempre la scienza è guida ad usarne rettamente e a indirizzare l’azione al suo giusto fine, o è [b] altro? - La scienza, disse. - Non solo, dunque, la buona fortuna, ma anche la scienza, sembra, procura agli uomini il fare bene in qualsivoglia possesso ed azione. Fu d’accordo. - E allora, per Zeus, seguitai, c’è forse una qualche utilità nel possedere gli altri beni se mancano ragionevolezza e sapere? Sarebbe forse utile a un uomo possedere molte cose e farne molte, qualora non avesse intelligenza, o piuttosto gli converrebbe possedere e operare poche cose, con intelligenza? Vedi un po’: operando meno non cadrebbe in meno errori? e facendo meno errori non si troverebbe meno male? e, stando meno male, non sarebbe meno infelice? - Senza dubbio!, esclamò. [c] - Già, ma chi si trova a operare meno, chi è ricco o chi è povero? Un povero, rispose. Chi è debole o chi è forte? Un debole. - Chi ricopre alte cariche o un ignoto? Un ignoto. - E chi sarà meno pronto all’azione, chi sia coraggioso e intelligente o un vile? - Un vile. - Anche un pigro, dunque, piuttosto che un uomo d’azione. - Fu d’accordo. - Chi [d] va con lentezza piuttosto che uno sollecito, chi è corto di vista e duro d’orecchi piuttosto che uno di vista e d’orecchi acuti? Ci trovammo in tutto vicendevolmente d’accordo. - E allora, o Clinia, dissi, ecco il capo della questione: finisce che tutte quelle doti che sopra dicevamo beni non è forse esatto discorrerne come se fossero per sé beni in natura, ma, sembra, altrimenti sta la cosa: se loro guida è l’ignoranza sono ancor più mali dei loro contrari, di tanto quanto più potenti sono gli strumenti che mettono a disposizione della loro cattiva guida; se invece hanno a guida prudenza e sapere sono beni maggiori: in sé e per sé nessuno di essi è un valore. - A quanto sembra, disse, la questione si [e] mostra proprio come tu dici. - E che ne vien fuori da tutto quel che si è detto? Che nessuna di tutte le altre cose è buona o cattiva, mentre delle due che restano la capacità è buona, l’ignoranza cattiva: non è così? Fu d’accordo. SVOLGIMENTO 1 - esprimi con una frase la tesi sostenuta da Socrate Tesi: "L'unico bene è il sapere" 2 - individua gli argomenti utilizzati da Socrate per sostenere la sua tesi, distinguili e sintetizzali brevemente Argomento 1: Se siamo soliti considerare la fortuna come il più grande dei beni, non possiamo non concordare sul fatto che la vera fortuna consite nel possedere quel sapere che, a seconda delle circostanze, arreca il maggior vantaggio. Quindi il sapere è in realtà il più grande dei beni. Argomento 2: Del resto, non è il possesso di molti beni (ricchezza, salute, potere, ecc.) in sé a recare vantaggio, ma l'uso che se ne fa: se uno non ha questo sapere, invece di trarre vantaggio dai beni che possiede, più probabilmente li utilizzerà arrecando danno a se stesso e agli altri. Quindi, il sapere è l'unico vero bene, senza il quale nessuna, fra le molte cose che possono essere considerate vantaggiose, costituisce realmente un bene. 3 - in base all'analisi testuale effettuata, spiega brevemente l'importanza del brano alla luce delle tue conoscenze sul pensiero di Socrate Sostenendo che "in vista della felicità l'unico bene è il sapere", Socrate ci introduce al nucleo del suo pensiero, ossia la dottrina conosciuta come "intellettualismo etico". Essa consiste nell'affermazione secondo cui "nessuno compie il male volontariamente". Premesso che ognuno fa ciò che ritiene bene, poichè al bene è associato il piacere e al male il dolore, colui che compie il male non può farlo volontariamente. Ciò che gli manca è una corretta comprensione di ciò che è veramente bene per lui. Per realizzare questa condizione è necessario entrare in possesso di un sapere complessivo di ciò che è bene e di ciò che è male per l'uomo. Questo sapere, realizzandosi, coincide con l'agire virtuoso. È quindi tutt'uno con l'anima individuale considerata secondo quella funzione che le appartiene come sua essenza: la virtù. Socrate dimostra di possedere questo sapere in massimo grado, ma non è in grado di esplicitarlo come oggetto di insegnamento. Il sapere etico, infatti, non è qualcosa che si possa insegnare, ma qualcosa che ciascuno deve apprendere da sè utilizzando su di sè gli strumenti offerti dalla ragione e sperimentandoli nell'agire virtuoso. Socrate sollecita questo cammino interiore con la stranezza del suo approccio ironico tutto teso a indurre i suoi concittadini a distogliere l'attenzione dai beni esteriori e prendersi cura della propria anima, e lo conduce col rigore argomentativo dei suoi discorsi, tenendo conto, appunto, della verità cui la ragione sempre ci riconduce, e cioè che "per la felicità dell'uomo, l'unico bene è il sapere".