Scarica allegato - Comune di Cosenza

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Scarica allegato - Comune di Cosenza
Storia di copertina / 1 La leggenda del fume dove è nascosto il tesoro del re dei Barbari
Nazisti, ebrei, storici
e tombaroli: la febbre
dell’oro contagia
Cosenza trasformando
Alarico in un business
di Francesco Battistini /Illustrazione di Manuela Bertoli
T
empo da Goti. Piove, si scivola.
La gola del Caronte è invasa di
nebbia. I castagni fanno buio
sul calcare rosato. I sentieri
sono fango, erbacce che il falcetto non taglia da anni. «Qui ormai ci vengono solo i
tombaroli». Si va in fla indiana sul ponticello: la guida, l’assessore, il vigile urbano… Ci siamo tutti? No, manca Natalino:
l’uomo che scoprì il luogo. «Soffro troppo
a venire lassù…». Natalino Bosco era ancora un bancario quando salì la prima volta
col fratello — «dovevamo solo controllare
un terreno di mia madre» — e il 19 settembre 1989 guidò oltre le vecchie flande
di Mendicino, prese la provinciale per le
foreste d’Alimena, si scontrò col suo destino. Un’occhiata distratta, dietro una curva,
alt, un attimo, torna indietro!... «Era piovuto molto, l’acqua aveva lavato la pietra.
Rimasi incantato. Sulla montagna, sotto la
vegetazione, spuntava quest’enorme croce. Incisa. Diciannove metri per dodici. Allora scesi dalla macchina. M’incamminai.
Ero incredulo: possibile non l’avesse mai
notata nessuno?». C’era un pastore con le
capre: «Mi raccontò che della croce parlava già il nonno del nonno di suo nonno.
Poi aggiunse: laggiù ci sta pure l’altare…».
L’altare? Quale altare? «Mi voltai: era nella
grotta di fronte». Coperto dalla vegetazione. Scolpito nella roccia, con tutta quella
sabbia intorno. «Allora chiesi come si
chiamasse la collina. “Rigardi”... Non sa32
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pevo che a questo nome, a questa croce, a
quest’altare avrei dedicato ventisei anni».
Oggi è tutto come allora. L’ovile abbandonato, la grotta umida, i graffti di qualche
barbaro contemporaneo. E nessuno che
abbia mai scavato. Bosco non se ne dà
pace: ha studiato la storia, cercato i segni,
litigato con archeologi scettici e soprintendenti pigri. Sa di saperne molto, ma
la sua verità l’ascolta la pioggia: «Come
fate a non capire?», si scalda, «Rigardi è
un toponimo gotico! Signifca devozione,
riguardo: quel che si tributava ai capi. E
la croce è runica! Rappresenta un sole ed
esalta la natura, secondo la tradizione dei
Goti. Anche l’altare: è identico all’Ipogeo
delle Dune che si trova a Poitiers, ci seppellivano i guerrieri. E poi quella sabbia
a cinquecento metri d’altitudine. È di fume! Evidente, ce l’ha messa qualcuno…».
Bosco ci scommette: «Lì sotto c’è Alarico».
E con Alarico, il Tesoro dei Goti. L’oro di
Roma. L’immenso bottino che i barbari
si portarono via quando saccheggiarono
undici secoli di storia e celebrarono l’Undici Settembre dell’età antica. «Il segno
della prossima fne del mondo», scrisse
Sant’Agostino: quando con una sola città,
una Città che non era affatto Eterna, «tutto
il mondo perì».
MADAME E IL FÜHRER. Sono milleseicento anni che lo cercano. Monsignori e rabdomanti. Accademici e dilettanti. Astro-
logi ed eremiti. Poeti e analfabeti. Nazisti
ed ebrei. Alla confuenza del Crati e del
Busento, nelle cave di Mendicino e sotto
i tumuli di Bisignano, fra i colli di Domanico e nei ninfei di Carolei. Un’epopea.
«Vengon feri quei magnanimi», li prendeva un po’ in giro un rimatore locale, il
Ciardullo, «a sgroppare un nodo antico,/
a pescar siccome un cefalo/ il cavallo di
Alarico». Illusi e delusi, Indiana Jones e
predatori dell’arte perduta, quanti ci han
provato a pescare il cavallo, il cavaliere e
il tesoro tramandato dagli storici. 25 tonnellate d’oro e 150 d’argento: l’equivalente
d’otto Tir. Carri di rubini, opali, avorio,
berilli, anfore, tiare, scettri, cammei, interi portici placcati, forzieri di gioielli e
tessuti, statue di Gesù e degli apostoli,
angeli con gli occhi incastonati di zaffri,
lampadari decorati di delfni, corone, foglie dorate, agate sardoniche dell’India e
dell’Arabia, sigilli, piatti, calici, sacchi di
corallo... Un giorno del Settecento passò
di qui Giacomo Casanova e per poco non
s’imbatté in uno stimato funzionario del
viceré di Napoli, Ettore Capecelatro, che
con mille uomini stava aprendo una voraLe candele che illuminano il mistero
Alarico, re dei Goti, morì in Calabria dopo il
saccheggio di Roma del 410 d. C. Fu seppellito nel
letto del fume Busento, deviato dal suo corso, con un
tesoro che la leggenda quantifca in 25 tonnellate di
oro e 150 d’argento. E che comprenderebbe
anche la Menorah, il candelabro simbolo degli ebrei.
Uno sguardo dall’alto sul Klondike italiano
A destra, il Castello Svevo, che domina Cosenza,
edifcato dai saraceni sui ruderi della Rocca Brettia.
Per la città, il mito di Alarico è un business da sfruttare
per incrementare il turismo e l’economia locali.
gine di cento metri. A metà dell’Ottocento,
Alexandre Dumas capitò in questa “piccola Atene della Calabria” e stupito vi trovò
una folla intenta a scavare il letto disseccato della confuenza. Negli Anni Trenta,
un corrispondente dell’Observer telegrafò
eccitato a Londra: «From Cosenza, in Southern Italy, comes news of a search for the
burial place of Alaric!», stanno cercando
una tomba leggendaria…
Ci si mise anche Hitler. Mentre bombardava Guernica, trovò il tempo di spedire fn
quaggiù Heinrich Himmler e signora, accompagnati da un misterioso spione, Eugen Dollmann, e dagli uomini dell’Ahnenerbe: i cacciatori nazisti di radici ariane.
La missione era di controllare un’eccentrica archeologa francese, madame Amélie
Crevolin, che s’era messa in testa di dragare fno a otto metri sotto il ponte di Laurignano. Il re barbaro era un’ossessione, per
i nazisti: chiamarono operazione Alarico,
Unternehmen Alarich, anche l’invasione
militare dell’Italia. Ed era Goebbels a elencare il Tesoro dei Goti fra gl’irrinunciabili
simboli del Reich, più importante della
corona di Teodolinda a Monza, delle tappezzerie normanne a Bayeux o dell’Adamo
ed Eva di Cranach agli Uffzi. «Su e giù pe
‘l fume passano/ e ripassano ombre lente:/ Alarico i Goti piangono/ il gran morto
di lor gente…»: c’è una famosa ballata del
Von Platen, La tomba nel Busento, traduzione del Carducci, che tutti i bambini tedeschi studiano fn dalle elementari. Probabilmente la conosceva a memoria anche
Himmler, quel tramonto di primavera del
1937, quando il corteo delle decapottabili
SS calò sulle rive del fume e il capo della
polizia nazista, solenne, s’alzò da un sedile posteriore della sua Mercedes, ammirò
l’alveo e sull’attenti — Heil Hitler! — onorò reverente l’antico eroe dei supremi
Germani, il vincitore dei latini, l’ariano
cristiano: ti saluto, Alarico, ovunque tu sia
sepolto.
GOTICA FENICE. Dov’è? E soprattutto:
c’è? «Bisogna esser cauti», raccomanda
Pietro De Leo, studioso di storia medievale all’Università della Calabria: «Non
ci sono molti dubbi che il re dei Goti fu
sepolto qui. E niente vieta di cercare qualunque cosa. Io però non credo ci sia un
immenso tesoro: l’importante è partire
dai dati sicuri…». Di sicuro c’è che Alarico
I dei Balti, re (reik) di tutti (ala), è un re di
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nessuno. Una gotica fenice: che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa. L’unica
certezza viene da uno storico bizantino,
il Giordane, che più di cent’anni dopo la
morte del Gran Barbaro cita il manoscritto
perduto d’un monaco di Squillace: Alarico morì forse di malaria, forse avvelenato,
forse traftto da una lancia mentre viaggiava verso la Sicilia e andava in cerca di
grano per sfamare i suoi quattrocentomila
Visigoti. Si decise per caso di seppellirlo
qui, tra sette colli come a Roma e «sotto la sabbia d’un fume», anche perché
lungo un fume (il Danubio) era nato. Da
allora, mille fabe parlano d’una camera
sepolcrale grande come una basilica, d’un
colonnato trasportato dalla vicina Sibari,
del cavallo sotterrato in una buca con la
spada, lo scudo e una cotta di ferro, della
tomba sigillata da una pietra di diciotto
metri per lato… Furono quattro giorni di
funerale. Un colossale lavoro: Alarico il ribelle se ne andò col suo bottino e con la
romanità che non aveva mai potuto avere,
nascosto nella terra dei Bruzi e dei lupi,
sgozzati tutti quelli che gli avevano preparato la tomba. «I Goti», scrive il Giordane,
«piangendo colui che tanto avevano amato, deviano dal suo corso il fume Busento
presso la città di Cosenza» e «nel mezzo
del suo letto fanno scavare una schiera di
prigionieri», quindi «vi seppelliscono Alarico con molte ricchezze, riconducono le
acque a scorrere nel loro alveo e, perché il
luogo rimanesse per sempre ignoto, uccidono tutti gli scavatori…».
Il resto è mistero. Deviare fumi e sotterrarvi i morti coi loro tesori, nell’idea che
ricevessero fertilità e vita, lo si faceva dal
Tigri al Tevere (anche il sarcofago di Attila,
per dire, è da qualche parte fra la Sava e
il Piave). Questo però s’usava fra i pagani,
mentre Alarico era cristiano. I francesi —
ma quale Calabria! — sostengono che il
bottino di Roma fnì a Carcassonne, per
la precisione nelle gole del Congoust, e
servì a costruire Tolosa. «Gli storici», dice
il professor De Leo, «narrano che le nozze
tra il cognato d’Alarico e Galla Placidia, la
fglia dell’imperatore Teodosio che i Goti
avevano rapito durante il saccheggio, furono celebrate a Narbonne. Fra i doni nuziali si descrive un’enorme quantità d’oro,
gioielli, pietre preziose. Che ci faceva in
Francia tutta quella roba? Veniva da Roma.
Anche se, probabilmente, era solo una
parte del tesoro».
IL CANDELABRO ERRANTE. L’oro è tanto. Ma non è tutto. E forse non era l’unica
cosa che interessava a Himmler. Perché i
nazisti sapevano anche di un’altra storia:
«Un mito nel mito», strizza gli occhi il
professor De Leo, «se n’è sempre parlato,
ora se ne riparla… Ma anche qui, prove
certe zero». Lo scorso Natale, foste passati
da Cosenza, vi sareste stupiti. Il passeggio
di corso Mazzini non era addobbato delle
solite renne&slitte: brillava di candelabri a
sette bracci, com’è per la festa ebraica di
Da sanguinario a testimonial
A destra, un rendering mostra come sarà
il nuovo Museo dei Goti, che sorgerà
proprio alla confluenza del fume
Crati con il Busento, insieme a una statua
equestre del Gran Barbaro.
Il mito parla
di una camera
sepolcrale
grande
come una
basilica, di
un colonnato,
del cavallo
sotterrato
con la spada,
lo scudo
e una cotta
di ferro
Hannukah. Una cosa mai vista. Eppure,
qui una sinagoga non c’è mai stata. E la comunità ebraica è quasi scomparsa. E agli
ebrei napoletani, per celebrare la festività
delle capanne di Sukkot, al massimo si
spediscono i bei limoni cosentini. Perché
tutte quelle strane luminarie, allora? Il
mito nel mito vuole che il Tesoro dei Goti
sepolto in Calabria comprendesse anche
una grande lampada a olio, 70 chili d’oro
e d’argento: la Menorah. Il Candelabro di
Gerusalemme. Per millenni, il simbolo
dell’ebraismo. Da settant’anni, lo stemma
d’Israele. Che rappresentava il roveto ardente di Mosé e dava luce al Tempio, prima che Tito ne distruggesse le mura.
Dove sia fnita la Menorah è uno dei grandi misteri della storia. Portata in trionfo a
Roma nel 70 d.C., come testimonia l’Arco
dell’Imperatore al Palatino, dopo le razzie
dei barbari sparì nel buio dei secoli e nel
vortice dell’immaginario – la nascosero a
Bisanzio, no, andò a Cartagine, macché,
se la tennero i Papi!... —, per riafforare a
Cosenza con romanzesche ipotesi alla Dan
Brown: Alarico morì mentre stava riportando il candelabro errante a Gerusalemme? E Himmler lo trovò? Roba da fction.
Il vaticanista e autore di thriller Carlo Mar-
roni ha scritto una sceneggiatura, il regista Massimo Scaglione la sta studiando, in
una trama che non risparmia gl’interrogativi del caso: la Menorah fnì nelle mani di
Hitler, bruciando nel bunker di Berlino? O
è in qualche segreta a Roma? O sta ancora
sotto le gelide acque del Busento? «Tutti
gli ebrei sanno che in questa leggenda
c’è poco di vero…», sorride Giuseppe De
Rosa, fra i pochi cosentini ad avere ancora
la memoria del ghetto di Cafarone, degli
ultimi Brenner che vi abitavano e degli
stampatori con la kippa che vi lavoravano:
«Ma tutti gli ebrei, sotto sotto, un po’ ci
credono».
BUFALE & BRAND. Passò Casanova, passò Himmler, la febbre dell’oro no. «Molti
neanche la conoscono», dice il sindaco di
Cosenza, Mario Occhiuto, ma la leggenda
d’Alarico è sopravvissuta: «Il giorno in cui
venni a insegnare in Calabria», ricorda il
professor De Leo, «la vicenda della tomba
fu la prima cosa che m’attrasse». «A Cosenza cresci con questa narrazione», dice
Lucio Presta, impresario delle star tv da
Benigni a Bonolis, da Belén alla Ventura,
ora aspirante primo cittadino: «Una volta,
quando andavo a scuola io, era una storia
che tutte le maestre c’insegnavano». Un
vello d’oro, un Klondike sottocasa: lavati
i capelli nel Crati, raccomanda una credenza, e vedrai che diverranno dorati. Una
famiglia ha fatto i soldi e non è ben chiaro
come? Tutti a dire che ha trovato i sesterzi
nel fume e cancellato le tracce… A Cozzo
Rotondo, un antico tabù vieta di calpestare
la collina che diede riposo al re. A Bisignano, che un tempo si chiamava Busentio
come il fume, narrano di galline che facevano i pulcini d’oro. E siccome il Von Platen apparteneva alle segrete sette dei Templari, poteva mancare chi individuasse una
mappa del tesoro nei capolettera dei suoi
versi? «C’è un signore», sorride l’assessore
al Turismo, Rosaria Succurro, «che spesso viene in municipio a raccontarmi d’un
sogno che lo perseguita: Alarico e il fglio
che procedono su un carro…».
Nel 1965, boom della ricostruzione, anche
un inviato dell’Europeo calò a Cosenza e
capì: «Cristo si è fermato a Eboli», scrisse,
«ma adesso l’abbiamo fatto scendere. Cristo è sceso e ha portato il turismo, gli alberghi, sta portando l’autostrada. Ora deve
portare la tomba e il tesoro». E così ecco
le botteghe d’Alarico, il lungofume Alarico, il vino d’Alarico, la pizzeria Alarico, i
gioielli d’Alarico, il libro digitale d’Alarico,
il centro d’analisi mediche Alarico e poi
concorsi letterari, otto opere musicali, romanzi, gruppi Facebook, fumetti by Sergio
Bonelli, il cartellone del Teatro comunale
dedicato al mito, un Festival delle Invasioni, un cortometraggio appena presentato
a Venezia, un monumentale elmo di Mimmo Palladino… (immaginate lo choc, nel
2010, quando uno studioso austriaco rivelò ai cosentini che in realtà l’effgie riprodotta ovunque non è mai stata d’Alarico:
raffgura il fglio, Alarico II…).
Ricerche vere, però no. «Qui non si sono
mai fatte serie campagne archeologiche»,
dice Maria Cerzoso, direttrice del Museo
dei Bruzi, «ma si sa che in Italia si scava
solo per le emergenze, non per i tesori».
Quando tentarono negli anni Cinquanta,
fu più che altro per sistemare gli argini.
E chi ritentò nei Sessanta, era solo un appassionato ingegnere milanese. O il mago
Silvagni venuto da Ravenna, o un rabdomante di Grottaglie o un altro ancora che
girava col pendolino, tutt’al più una coppia
di radioestesisti danesi... A Carolei, s’organizzavano sedute spiritiche. A Mendicino,
si facevano conferenze stampa appena
spuntava un muretto. A Malavicina, una
lavandaia giurava d’aver trovato monete
d’oro nel Crati. A un certo punto, scovarono perfno un vecchio che aveva fatto il
badilante per Himmler e gli chiesero se i
nazisti avessero trovato qualcosa — magari obbligando tutti a tenere il segreto — e
come mai madame Crevolin aveva abbandonato di corsa gli scavi senza lasciare una
relazione, un diario, nulla… Il poveretto,
smemorato, non poté che tacere. «Quanta
gente scopre ogni anno Atlantide? Quanta
l’Eldorado?», s’indignò sull’Espresso l’archeologo Sabatino Moscati, all’ennesimo
annuncio d’un pilone fatto passare per
un ritrovamento: «A Cosenza gli studiosi
vengono emarginati! Tornino nelle loro
tane, sembrano dire tutti questi dilettanti:
per diffondere le grandi notizie, no grazie,
bastano loro!». Il mecenate cosentino Bilotti Ruggi d’Aragona, pescando nella sua
grande collezione di Warhol e Dalí, De
Chirico e Boccioni, un giorno donò alla
città fbule visigote e paste vitree comprate a un’asta internazionale. Sono esposte
al Chiostro di San Domenico, rare e preziose. Ma nemmeno quelle provano qualcosa. Perché nessuno sa più dove furono
dissepolte.
IL FALCO CACCIATORE. Chi non cerca non
trova. E l’anno scorso, un giorno d’agosto,
compare dal Maryland l’ultimo cacciatore.
Tutti lo conoscono perché va ai talk show.
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Molti sanno che è un falco delle amministrazioni Usa, consigliere militare e amico
personale dei Bush. I più ignorano che
studia Alarico da sempre. Il tranquillo
americano ammira il monumento di Telesio ai piedi del Pancrazio, visita la casa
natale del musicista che inventò il pedale
dei pianoforti. Ma si chiama Edward Luttwak e non è qui a fare il turista. Ha visto
i documenti, conosce la geologia: «Questa
faccenda del sacro fume deviato sembrava
solo un tòpos, una cosa teatrale», annuncia in una serata pubblica, «invece no: l’alveo fu spostato davvero. Al massimo d’un
chilometro, direi. L’area da indagare non è
enorme. È arrivato il momento di cercare
sul serio. Di passare dal mito d’Alarico alla
sua vera storia…». In sala, c’è un attimo di
silenzio stupefatto. Brusio. Poi parte l’applauso. E chi non ci ha mai creduto, deve
ricredersi. «Se l’Italia», rimprovera Lut-
twak, «garantisse una buona percentuale
a chi trova un tesoro, come accade in tutto
il mondo, sarei venuto qui già trent’anni
fa. E la Calabria sarebbe piena di gente con
droni e metal detector. Invece avete leggi
arretrate: chi butterebbe soldi in una ricerca che non rende?». Luttwak ha un’idea:
«Qualcosa è possibile. Nella steppa ucraina sono spuntati tesori d’un popolo nomade iranico, gli Sciti. Gente che seppelliva i
re sotto tumuli uguali a quelli dei Goti, coi
cavalli e tutti gli ori. Gli archeologi russi
hanno usato rilevatori d’anomalie magnetiche, modelli molto avanzati di Mad. Perché non fare lo stesso? Ce li hanno tutte le
marine militari, sono radar che da un elicottero vedono qualunque massa metallica sottoterra. Quelli d’ultima generazione,
li utilizza Israele: servono a individuare le
armi nei tunnel di Hamas».
Gl’israeliani!… «Non voglio creare aspet-
Un ventennio di ricerche e congetture
in attesa di una spedizione uffciale
1 Carolei (loc. Vadue):
1984 - Lungo il fume
Caronte, affluente del
Busento, a 500 m dalla
confluenza con il fume
Jassa, vengono rinvenuti
resti di costruzioni datati
al V sec. d.C.
2 Domanico (loc. Piedimonte): 1986 - Nei pressi
di un fumiciattolo che
scorre vicino al Busento,
lo studioso svedese Erik
Furugard individua un
cumulo di terra somigliante ad una collinetta.
Qui ricerche effettuate
nel 1989 non hanno dato
alcun risultato.
3 Bisignano (loc. Cozzo
Torre): 1986 - Sulla riva
destra del Crati, Vincenzo Rizzo individua un tumulo.
4 Mendicino: 1989 - Su un colle
chiamato Rigardi, in corrispondenza
del ponte Alimena, sul fume Caronte,
affluente del Busento, viene scoperta
una grotta. Sulla parete della cavità è
incisa una croce, mentre all’interno
viene trovata sabbia ritenuta trasportata
artifcialmente dal sottostante corso
d’acqua.
1998 - Tonino Cicala, studioso cosentino, interpretando la croce come
strumento topografco, individua nel
luogo di fronte alla grotta (Rigardi = di
fronte a...), nella confluenza del torrente
Alimena col Caronte, zona in cui esistono diverse grotte sotterranee, il luogo
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della sepoltura.
1999 - I fratelli Bosco ritornano su
questa ipotesi sulla base della teoria che
i Visigoti avevano credenze incentrate
sull’esaltazione della natura, la venerazione della roccia, delle acque e degli
alberi, per cui la croce sulla grotta non
sarebbe un segno cristiano ma rappresenterebbe il sole. Questi individuano
sulla parete opposta due grotte, con resti
di un antico altare rupestre, e dentro
una di esse il suolo scavato e ricoperto
da sabbia.
5 Carolei: 1996 - Lungo il fume
Jassa, affluente del Busento, una grotta
sottostante un ninfeo settecentesco
pseudoromano viene indicata come
luogo della sepoltura, ma le ricerche non
producono risultati.
tative», avverte il politologo, «ma a Gaza
sperimentano da due anni le strumentazioni Elf a bassissima frequenza, defettori
che vanno in profondità…». Negli ultimi
mesi c’è stato qualche contatto tramite i
geofsici inglesi dell’Archaeological Prospection Services, università di Southampton. Finora, la risposta da Gerusalemme
è stata prudente: «Noi possiamo individuare nel sottosuolo masse metalliche
anche piccole», ci conferma una fonte
dell’Israel Defence Force, «però la nostra
tecnologia è top secret: le industrie per la
sicurezza non intervengono in operazioni
diverse dalla difesa». Nemmeno se si tratta di collaborare con l’Italia per trovare il
sacro Candelabro? «Su queste cose decidono i governi, non i militari». E in ogni
caso, chiude il discorso Yoli Schwartz,
portavoce del Dipartimento archeologico
israeliano, «noi ci muoviamo su tracce
sicure: nessun nostro ricercatore è mai
andato in Calabria, perché al momento
non c’è nulla». Luttwak non si perde d’animo: «La Menorah è solo
un’ipotesi senza basi, chiaro. Ed
è normale che non siano interessati. In fondo, agli ebrei non
importa più di tanto ritrovare il
candelabro. Non sono idolatri:
per loro conta la Parola, non la
madonnina che piange. Sanno
che una piccola Menorah di plastica
d’un bambino è sacra quanto quella del
Tempio di Gerusalemme. Questo però non
signifca che là sotto non ci sia nulla».
INVASIONI BARBARICHE. «Ci mancava
ssulu ‘u Mossad!», si chiacchiera la domenica mattina al caffè Renzelli, addentando
le varchiglie al cioccolato. «Se serve vado a
scavare anch’io!», è ironico Lucio Presta:
«Il tesoro è un buon pretesto perché nel
mondo parlino un po’ di noi. Ma nessuno
s’illuda che i nostri problemi li risolvano
Alarico, Luttwak o gl’israeliani…». A sentire i critici, Cosenza avrebbe altro a cui
pensare: qui c’è meno ‘ndrangheta che
altrove, ma a due passi dalla confuenza i
muri delle case sono ancora traforati dagli spari della guerra, il centro storico è
di chi lo occupa, gli asili e la sanità sono
agli ultimi posti delle classifche nazionali
e fno a quest’estate, altro che Goti, sulle
rive erano accampati centinaia di rom…
Cosentini né lontani né vicini e nemmeno per padrini, dicono quelle linguacce
dei catanzaresi: i barbari non se ne sono
mai andati? «Ma no», si difende il sindaco
Occhiuto, «Cosenza sta cambiando molto.
Basta guardarsi intorno. Si fa una raccolta differenziata che c’invidiano in tutto il
Sud, il museo dei Bruzi è un gioiello ed è
stato rifatto anche quello diocesano, che
espone un crocifsso reliquiario rarissimo:
Alla ricerca del mito perduto
Sopra, gli zoologi e antropologi delle SS
durante una spedizione nazista in Tibet,
dovuta — stando al mito — alla ricerca
dell’Arca dell’Alleanza: quello stesso
gruppo fu poi spedito da Hitler in Calabria
per cercare la tomba di Alarico.
A destra, Heinrich Himmler, comandante
e membro di spicco del Terzo Reich.
ce ne sono altri due al mondo… Stiamo
costruendo un ponte di Calatrava. Abbiamo impreziosito le strade con le sculture
di grandi maestri. Dopo trent’anni, abbiamo riaperto anche il castello di Federico
di Svevia. In tutto questo, Alarico ci serve
eccome: lo sa quanti turisti ci possono arrivare dalla Germania?».
Chi cerca un tesoro trova un nemico e
Occhiuto, un po’ di nemici, se li è fatti:
architetto che lavora molto in Cina, singolare sindaco di centrodestra con la fssa
del bello, imita le effmere estati romane
anni 70 del comunista Renato Nicolini,
cita il Casanova che qui si divertì molto,
rivendica d’avere fnalmente stracciato le
cartoline un po’ ammuffte della Cosenza decaduta e dei troppi viaggiatori che
nei secoli la descrivevano triste “terra di
morti” o tomba di re e d’eroi, da Isabella
d’Aragona ai fratelli Bandiera. Mostra i
palazzi che la notte s’illuminano di colori,
stile sound&light. E che di giorno si decorano d’artisti: li ospita da mezz’Europa nei
BoCS-Art, casette di larice costruite apposta su un pezzo di lungofume risanato,
ciascuno lascia un’opera «e meglio ancora
se poi parla dei Goti…». È sulle memorie
d’Alarico che Occhiuto si gioca la rielezione, riaprendo la stagione della caccia
(al tesoro). Prima mossa: s’è fatto dare 7
milioni di fnanziamenti per buttare giù
il vecchio hotel Jolly, obbrobrio che sor-
ge proprio alla confuenza. Al suo posto,
metterà un Museo dei Goti retroilluminato, con tanto di statua equestre del Gran
Barbaro in emersione dalle acque (non si
sa mai salti fuori qualcosa: un muratore
che costruì l’albergo, in punto di morte,
rivelò al fglio d’aver trovato uno scheletro,
ma d’essere stato costretto a coprirlo di
calcestruzzo…). Occhiuto ha messo insieme anche un comitato tecnico-scientifco:
qualche nome eccellente come l’ex ministro Alessandro Bianchi o Nicola Misasi,
fglio del giurassico democristiano, alla
testa il professor De Leo che legge antiche
carte e nuove mappe.
COME LOCH NESS. «Barbarie culturale!»,
protesta qualcuno. Ideologia criminale,
s’indignò una volta il ministro della Cultura, Sandro Bondi: «Non potete far passare
da eroe uno che stuprò e saccheggiò!». E
quando all’ultima fera milanese del turismo è spuntato un dépliant della città con
l’immagine di Himmler a mo’ di testimonial, «una svista», è stato Gian Antonio
Stella a polemizzare col sindaco: «Meglio
sarebbe che tante energie fossero spese
per il sito archeologico di Sibari e altre
straordinarie ricchezze cosentine», vedi
le rovine trascurate di piazza Toscano…
Il jolly Alarico, Occhiuto lo cala ovunque.
Dividendo la coscienza di Cosenza. «Imbarazzante e ridicolo», attacca lo storico
Battista Sangineto: «Si spendono soldi per
una leggenda, quando il centro storico va
a pezzi. La nostra identità è legata ai Bruzi,
alla grandezza di Telesio. Alla nobiltà d’un
luogo che nel Medioevo fu una piccola
culla di democrazia, tra i pochi a non essere infeudati. Che c’entra Alarico? È solo
una cosa appiccicata. Farne un brand, è
umiliante per la città: sterminò centinaia
di cosentini…». «È come se un giorno a
Ground Zero», tambureggiano i blog, «si
decidesse d’intitolare un museo alla memoria di Bin Laden e alle imprese terroristiche di Al Qaeda!». Ma quale Osama, replica Luttwak: «Non si può ridurre Alarico
a un barbaro sanguinario, lui è una fgura
fondamentale nel passaggio dall’Impero romano all’Europa medievale, ovvero
d’uno dei momenti chiave dell’umanità».
E a parte il fatto che nel September 11 Memorial di New York sono esposti perfno
gli oggetti personali dei qaedisti, «Alarico
era comunque una fgura molto più complessa», è d’accordo il medievista Giuseppe
Roma: «Uno che non concepiva altra cultura
che la romana: non distruggeva civiltà, non
voleva la scomparsa dell’impero. Sognava
d’integrarsi nel sistema statale romano. I
suoi soldati avrebbero potuto radere al suolo
Roma, ma non lo fecero».
Quod fecerunt o non fecerunt barbari, dice il
sindaco, oggi conta poco. «Capisco un po’ di
scetticismo, ma molte polemiche sono solo
ideologiche e strumentali…». Perché a Cosenza, come ad Alarico, l’oro di Roma serve
più che altro per garantirsi un futuro. Si scava
per non toccare il fondo: «Un territorio non
cresce solo con le grandi opere, che peraltro
non arrivano mai. Contano anche le opere
immateriali. Perfno le leggende. Sarebbe
stupido abbandonare proprio questa, che ci
racconta del più grande tesoro della storia.
Più grande di quello di Troia». Il sindaco ha
esempi da elencare: «Verona non ha fatto la
sua fortuna sul mito di Giulietta e Romeo? E
Copenaghen con la Sirenetta? E Loch Ness
col mostro?». Cercate uno Shakespeare, fatevi un selfe col barbaro, fotografate un’ombra
che sorga dal fume. E fdatevi: il vero tesoro
è non trovarlo mai.
Francesco Battistini
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sette | 42 — 16.10.2015