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John Carlins
L’impresa padronale
Il confine tra successo e incompetenza
Armando
editore
Sommario
Premessa
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Introduzione
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La differenza tra impresa di mercato, familiare e padronale
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Impresa di mercato
Impresa familiare
Impresa padronale
Il significato sociale e sociologico della figura dell’imprenditore:
la guida in un mondo incerto
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La critica svolta agli imprenditori nasce dal confronto
tra quanto osservato e studiato e un grande esempio:
Enrico Mattei
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La fabbrica ha ancora un senso nel mondo occidentale?
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I grandi studi sull’imprenditoria
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Karl Marx e lo sviluppo critico del suo pensiero in Vilfredo Pareto
Joseph Schumpeter
Max Weber
Richard Sennett
Robert D. Putnam
Edward C. Banfield
I figli dell’imprenditore in posizione di manager:
la moratoria psicosociale
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La gioventù come fase a sé stante della vita
Prima si parlava di generazione ora di coorte
Una parentesi: quando ci si blocca intorno a un concetto.
La sociologia ferma per 150 anni sullo studio delle classi sociali
e annesse conflittualità Il consumo come arma sociale
Il concetto di generazione-coorte
L’età della stupidità
Come reagire riprendendo continuità nella trasmissione
di valori tra generazioni?
Il ruolo della donna nella società nel corso dei secoli
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Il caso dell’impresa edile Lombarda
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Il caso dell’impresa del mobile Veneta
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Il caso dell’impresa di zootecnia Veneta
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Il caso dell’imprenditore-intellettuale friulano
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Il caso della cartiera nel Lazio
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Il caso della commerciale inox in Sicilia
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Il senso di questi case history in negativo: incapacità
di riconoscere fiducia e ingratitudine verso i collaboratori.
Peccati mortali nella società della comunicazione
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Sveglia signori! Le aziende di pet in Italia: un esempio tra i
tanti possibili nei diversi settori merceologici
Una premessa antipatica ma necessaria
Cose da non fare ma accadute – esempi
Quanto sono tirati i liguri! (è solo una battuta ma neppure
tanto astratta)
Le strette visuali dell’imprenditore
L’azienda che riceve solo mezzo email
L’azienda padronale che ha solo familiari ai vertici
Sì è vero ha problemi comportamentali ma consegue risultati
sul mercato
Considerazioni sull’industria in genere
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Le pre-condizioni necessarie alla stesura
di un piano di marketing
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Quello che un’impresa familiare e padronale non capirà mai
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Il rinnovamento necessario
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Il vero rischio che corre la democrazia con
una disoccupazione eccessiva
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Il caso italiano: storia di un’anomalia
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Studio di un caso: quando un direttore commerciale maltratta
(senza motivo) un candidato. Arroganza, stupidità o entrambe?
Ecco troppo spesso a chi sono affidate le imprese,
contraddicendo sia il codice etico che il ruolo sociale
che l’azienda dovrebbe ricoprire. In pratica diventano
un ostacolo allo sviluppo del Paese
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Conclusioni: non esiste un imprenditore semi analfabeta,
oppure sotto delirio d’onnipotenza, come anche incapace
di riconoscere la crisi della sua azienda.
Esiste un italiano malato
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Questo è il senso del libro
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Perché essere così duri verso la classe imprenditoriale
padronale?
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Le ricette
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a) La ricetta per formare un nuovo imprenditore
di cui l’Italia ha bisogno
b) La responsabilità della Confindustria verso una classe
imprenditoriale che non sa ancora comunicare
Bibliografia
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Premessa
Questo non è un libro denuncia, al contrario contiene un appello: non lasciamo che l’industria familiare padronale italiana, venga
travolta delle nuove necessità del mercato e scompaia, comportando
nuova disoccupazione e depauperamento sociale quanto economico
nel tessuto vivo del Paese.
“Il padrone” in azienda è un bene nazionale: un benefattore per
mille piccoli paesotti della provincia italiana. Nel suo essere padronale, in quanto capo dell’azienda familiare l’imprenditore di questo
tipo non è in grado di capire oltre la sua presunzione. Soffre senza
sapere di preciso quali siano i suoi limiti, scontrandosi con quelle
inderogabili necessità d’adeguamento al mercato globale, a partire
dalla gestione del fattore umano, inteso sia come clienti che dipendenti. Il pensiero corre a un’impresa di un paese della provincia di
Treviso dove l’imprenditore, pur lasciando limitato spazio alla figlia
quarantenne nella gestione dell’azienda, (quasi sotto tutela) non è
disposto a riconoscere l’imminente fallimento. Quest’ostinazione
non consente all’impresa sia di ricevere gratuitamente fondi comunitari per la ristrutturazione e il rilancio, che l’intervento di uno specialista, in grado di risollevare l’attività come già fatto in altre realtà
della zona. A Napoli si dice “ciuccio e presuntuoso”. Purtroppo l’incapacità e incredulità nel prendere atto della propria situazione, è
uno dei principali limiti dell’azienda padronale italiana. Rincarando
la dose con un altro esempio, il ricordo corre a quell’impresa, nella
stessa zona, attiva nella costruzione di lampadari. Da anni in costante contrazione di fatturato e personale, è diretta da una signora che
ha ereditato dalla famiglia l’attività. Essendo nota a tutta la parente9
la la non felice situazione aziendale, viene invitato un aziendalista
di Milano a intervenire gratuitamente per salvare quanto resta.
Il professionista telefona alla Signora presentandosi e trasmette
un’email dove spiega cosa normalmente svolge e i risultati ottenuti
nella stessa area geografica. A questa email non ci sarà mai una risposta, tanto è l’incredulità e l’arroganza dell’imprenditrice nel non
credere che stia fallendo.
Complessivamente si tratta di “brava gente” ma dalle visuali così
limitate, da non essere in grado di dirigere un’attività complessa,
come oggi è diventata un’impresa!
Per quanto riguarda il concetto di fattore umano, che qui è inteso
nella sua duplice asserzione: cliente/dipendenti, si tratta della vera
scoperta, nella cultura aziendale, dagli anni 2015 in poi. Il cliente è
diventato crudele e selettivo nella scelta del prodotto e il dipendente, sempre più un potenziale umano dotato di personalità in grado
d’offrire creatività e spirito d’iniziativa o di vendicarsi, a seconda
di come viene trattato. Il combinato disposto di clienti e dipendenti,
sono in grado di schiacciare qualsiasi attività imprenditoriale, grazie
anche all’amplificazione dei loro umori tramite il social network.
Nel rapporto umano, l’impresa padronale è clamorosamente deficitaria.
Un imprenditore di una grande impresa di divani del Veneto afferma: m’interessa assumere apprendisti che formo nel primo anno
affinché proseguano nella stessa mansione nei 39 successivi, prima
d’andare in pensione. Questa frase è del 2014 in un’azienda che ha
55 anni di storia, ma ancora non ha capito nulla di come gestire il
personale, nonostante abbia oltre 100 dipendenti senza un direttore
del personale!
L’arroganza dell’imprenditore familiare nel collocare figli e famigliari in posti di responsabilità, limita e tarpa ogni reale possibilità
di successo, nonostante i successi siano ancora numerosi e conseguiti su tutti i mercati del mondo.
Perdere l’impresa padronale sarebbe un danno al Paese, al contrario va aiutata e ristrutturata per adeguarsi alle nuove necessità del
mercato. Nel dettaglio, per sopravvivere, servono ingegneri e manager che crescano con l’attività.
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Incapace di relazionare adeguatamente con le persone, il “padrone” (affettuosamente così indicato) è spesso arrogante e presuntuoso, a volte anche analfabeta (incapace di creare pensiero nuovo).
L’impresa padronale è forte del suo passato in un presente e futuro
che richiede nuove regole.
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Introduzione
Il titolo “Impresa padronale” è da considerarsi onomatopeico nel
senso che se ogni impresa nel mondo ha un proprietario, il significato che qui si vuole intendere è riferito a qualcosa di limitato nelle
visuali, non potendo andare oltre al mero utilizzo dell’impresa come
retrobottega familiare. Ecco dove viene identificato il “padrone”. Si
tratta di un soggetto, che colloca i familiari di ogni rango all’interno
dell’azienda, non per merito o capacità, ma per il solo fatto che deve
sistemare la famiglia.
Un meccanismo di lottizzazione degli incarichi di responsabilità
tra familiari, non è detto che non funzioni (la stragrande maggioranza delle imprese italiane è in queste condizioni) ma certamente
espone maggiormente alla crisi e al fallimento, nel confronto con
le altre realtà industriali. Perseguendo un simile comportamento di
lottizzazione familiare nell’impresa, l’imprenditore manca di rispetto sia alle maestranze, che alle necessità d’arricchimento della sua
stessa famiglia, quindi al Paese dove si colloca geograficamente e
allo Stato Nazionale. Ecco che l’impresa padronale, come qui intesa,
tradisce il senso puro d’imprenditoria, pur ricalcandone le orme, per
assumere le funzioni di un negozio a conduzione familiare.
Chi è il vero imprenditore? Oltre quanto indicato nel Codice Civile, è da considerarsi Capitano d’industria quella persona che “partorisce” una creatura dotata o no di personalità giuridica, per collocare sul mercato un’idea in termini di prodotti e servizi, lavorando
nell’interesse dell’impresa, di ciò che rappresenta e di chi ne fa parte. Che la famiglia dell’imprenditore ne abbia un beneficio è una
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naturale conseguenza ma non lo scopo primo del suo agire. Sembra
una differenza sottile ma non lo è. Come verrà spesso descritto in
questo libro, collocare ad esempio, nella funzione di Direttore commerciale la figlia del proprietario benché laureata in economia (nel
migliore delle ipotesi) espone l’azienda a visioni limitate con occasionali e anche continui successi. Nonostante ciò l’intera funzione
dirigenziale è nel migliore dei casi viziata da chi non ha più nulla da
perdere, godendo di una sicurezza immeritata. Si tratta di personaggi che non studiano più (oltre il dovuto per il “pezzo di carta”) non
creano ulteriore pensiero, non si raffrontano in forme creative con
idee e tendenze, perché il loro posto di lavoro non verrà mai messo in discussione e questa sicurezza annebbia la capacità di vedere,
pensare, capire, proporre.
Si potrebbe obiettare che il cancro che logora le PMI padronali
italiane non sia dovuto ai familiari presenti in posizione di vertice,
ma alla loro inamovibilità. Questo è vero. Basterebbe stabilire anche
per loro lo stesso rischio sul posto di lavoro degli altri, per ottenere
un equilibrio? No, non basta.
È raro che le famiglie imprenditoriali, oltre a qualificare i propri
figli in un circuito scolastico completo, gli inviino anche all’estero o
in altre realtà per anni, dove formarsi in carattere e mentalità, rientrando in attività verso i 40 anni d’età o i 10-15 di formazione esterna, apportando idee e cultura aziendale. Questo sarebbe un degno
figlio/figlia di un Capitano d’industria in grado di subentrare, nei
successivi anni del passaggio generazionale, garantendo continuità
lavorativa alle maestranze.
L’azienda, quando nasce, in realtà non è più del proprietario o dei
suoi figli. Impresa e figli appartengono a loro stessi, quindi sono della Comunità e della Società nazionale, pur ricevendo continui input
dalla famiglia che li ha generati.
Per analogia, l’azienda ha una sua vita, che diventa sociale nel
momento in cui distribuisce reddito e ricchezza. Ecco il nuovo livello di maturità che non si riesce a raggiungere in generale e specificatamente in Italia, dove mentalmente il padrone è quel personaggio
che quotidianamente vuole essere ringraziato per l’opportunità concessa al dipendente/operaio di poter lavorare, incurante del contri14
buto offerto in cambio. Questo passaggio verrà ripreso più volte nel
libro, perché è centrale nella vecchia mentalità dell’imprenditoria
padronale, ancora ben radicata nelle PMI italiane. Da quest’assenza
di coscienza da parte dell’imprenditore, chiuso nella sua arroganza e
visuali ridotte, deriva quella marea di fallimenti che ha colpito l’Italia dal 2009 a oggi e una disoccupazione record, capace di porre in
discussione la stessa democrazia come forma di governo. Il pensiero
ritorna a quelle due aziende della provincia di Treviso già descritte
nella premessa.
In realtà, per essere corretti e completi, la disoccupazione italiana
è principalmente frutto dei processi di delocalizzazione produttiva.
Su questo aspetto c’è stata una selvaggia corsa al profitto da parte della classe imprenditoriale per re-importare i prodotti realizzati all’estero, godendo di costi del personale irrisori. Il confronto è
nell’ordine di 26 euro/ora in Europa contro i 2 della Cina prima che
iniziassero a salire anche in quell’area del mondo. Il guaio è che la
società occidentale non può comprare se non lavora, per cui, privata
di posti di lavoro ha dovuto ridurre i consumi interni conducendo al
collasso il sistema produttivo nazionale sia de localizzato che non.
Su questa critica all’attuale dottrina economica che ci ha condotto
alla crisi in Occidente, merita una riflessione il pentimento del sociologo Richard Sennett. A pag. 11 del libro La cultura del nuovo
capitalismo, Sennett dichiara: “avevo trascurato il ruolo del consumo in economia”. Caspita! Se questi sono stati gli strateghi della
globalizzazione, ora è chiaro perché il sistema non funziona. Non
ci voleva una grande fantasia per comprendere che il meccanismo
non avrebbe rispettato le promesse. Di fronte al fallimento della globalizzazione si pone rimedio con i processi di reshoring (rientro in
Patria delle imprese precedentemente delocalizzate). È triste constatare come il governo, in Italia, non si sia neppure posto il problema
disconoscendo l’intero argomento. Al contrario sia gli Stati Uniti
(dal febbraio 2012) e più recentemente i britannici dal 2014 hanno
introdotto procedure di reshoring iniziando a ridurre il tasso di disoccupazione.
Ecco dove manca lo Stato. Quando poi questo Stato, a visuali
ridotte, incide su una classe imprenditoriale “padronale” struttural15
mente limitata, la somma delle insensibilità diventa così enorme da
rendere il sistema economico nazionale assimilabile a una jungla!
Dal binomio: una classe politica impreparata e una categoria
diffusa d’imprese padronali, nasce buona parte dell’anomalia italiana, strutturata su una serie di colpi di Stato in bianco. Non ultimo un presidente del consiglio dei ministri privo di legittimazione
popolare, in quanto non eletto da nessuno se non sindaco di una
città minore d’Italia. L’Italia esprime una serie di anomalie tanto
discusse negli anni ma mai risolte. Tornando al problema per cui
questo studio esiste, come fare per rilanciare l’impresa padronale?
Max Weber (uno dei fondatori della sociologia) insegna: non esiste
un problema che non abbia almeno una soluzione (criteri di metodenstreit) pertanto l’analisi non è nel capire se ci siano ipotesi
per gestire il problema, ma quali applicare. Quella che questo libro
propone, per rilanciare le imprese, chiama in causa lo Stato (pur essendo in epoca globalizzata) esortandolo ad agire attraverso la leva
fiscale. Si potrebbe graduare la tassazione d’impresa da zero al valore attualmente in uso, a seconda di come l’azienda sia strutturata.
Ad esempio, ci sono imprese nel nord est italiano che contano fino
a 134 dipendenti con 13 milioni di euro di fatturato che vogliono
caparbiamente restare nella forma giuridica di “società di persone”
o più specificatamente “società semplici”, per evitare che si sappia
“in giro” quanto guadagna il proprietario. Il ragionamento si può
estendere alle cooperative che in realtà sono società commerciali
camuffate per non pagare le tasse. Anche queste, da un livello in
poi di fatturato, non è corretto che beneficino ulteriormente degli
importanti sconti fiscali previsti.
È nota la polemica tra il proprietario del marchio “Esselunga”,
il Signor Bernardo Caprotti, che dichiara di pagare le tasse e la
Coop (quella orientata politicamente) che, indipendentemente dal
giro d’affari e persone coinvolte, non paga il volume adeguato di
fiscalità che dovrebbe al pari di altre società, semplicemente perché
protetta dalla forma societaria di tipo cooperativo. In pratica società
identiche, ma una paga le tasse, l’altra no. Come si nota, esiste un
“buco” nella stessa normativa fiscale d’impresa italiana, più preoccupata di proteggere ideologicamente un gruppo politico d’impresa
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ben identificato, anziché assicurare un’oggettiva logica fiscale valida per tutti. Comunque, assodato come ci siano ampie lacune di
faziosità nell’applicazione del diritto fiscale in Italia, rendendo difficile l’identificazione di un interlocutore affidabile, sarebbe saggio
che non pagassero le tasse (in quanto di rilevante interesse pubblico)
quelle imprese “vere” che abbiano le seguenti caratteristiche:
– strutturate con manager non d’estrazione familiare, oppure se
anche fossero legati al proprietario e alla sua famiglia, che
abbiano almeno un iter formativo compatibile a quello di un
normale manager e in più possano contare su esperienze lavorative in Italia e all’estero, presso altre aziende non controllate
dalla famiglia, in ruoli in crescita verso la posizione successivamente ricoperta in Italia. Insomma abbiano un curriculum;
– che esista un rapporto tra manager e maestranze che non sia
inferiore alle 25 unità;
– che l’azienda non sia di persone ma di capitali. Ciò sarebbe
possibile a patto che venga riformato il diritto d’impresa per
rendere obbligatoria una formula societaria di capitali al di sopra, ad esempio, del milione di euro o del miliardo se riferito
alle lire (non è scontato che la moneta “euro” possa sopravvivere alle sue contraddizioni) e che questo valga per qualsiasi
tipo di società, azzerando la copertura su cui le cooperative e
fondazioni hanno fino ad ora goduto nell’esenzione dal pagamento delle tasse;
– che il management d’impresa rediga annualmente un piano di
marketing (la cui forma sia libera) e che un estratto sia consegnato in banca unitamente al bilancio;
– che al di sopra le 75 unità lavorative sia indispensabile un direttore del personale;
– che al di sopra dei 2 milioni di euro/4 miliardi di lire, sia indispensabile un direttore commerciale, un direttore di marketing, un responsabile della qualità, un direttore di produzione e
che questi manager abbiano i titoli effettivi per i loro compiti,
quindi ingegneri in produzione e qualità e i connessi studi per
le altre specializzazioni. Inoltre è importante che questi personaggi non siano dei prestanome o ancora e peggio familiari
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del titolare, solitamente privi di un idoneo curriculum al pari
di qualsiasi altro manager;
– a questo punto rispettando queste e altre condizioni, il pagamento delle tasse sull’utile aziendale potrebbe essere annullato confermando pari trattamento a tutte quelle imprese private
che superano i 5.000 dipendenti, riconoscendo loro un valore
sociale, quindi un interesse collettivo. In questa maniera, oltre
a favorire con i processi di reshoring (rientro in patria d’aziende già fuoriuscite per effetti di delocalizzazione) si spingono
le grandi società a investire in Italia a beneficio della collettività (con annessi posti di lavoro).
Solo la politica fiscale (rinsavita dagli sbandamenti descritti e
chissà quanti altri ancora) sarebbe in grado di correggere un difetto di concezione nella PMI padronale italiana. Lasciare tutto così
com’è, vuol dire permanere in una fragilità imprenditoriale strutturale, dove a fervide menti e iniziativa d’impresa dei nostri industriali, gli obblighi familiari hanno il potere di ridurre tutto in acqua
o sabbia, scolando dalle mani dell’ingegnosità delle nostre persone
migliori. Questo perché, correggendo il tiro adottato sino ad ora,
l’Italia deve molto (se non tutto) all’impresa padronale. In assenza d’imprese padronali, oggi il nostro Paese sarebbe equivalente a
quelli reduci dal blocco dell’est europeo, sottoposti ai diversi regimi
comunisti o nel migliore dei casi a quanto oggi presente in genere
nei Paesi balcanici.
Sarebbe sano e corretto che ogni paese, soprattutto del nord italiano, dove l’impresa padronale è più fitta, sia eretta una statua a ricordo, onore e memoria all’imprenditore locale, grazie al quale tanti
figli, oggi adulti, sono nati e cresciuti.
Disconoscere questo merito alla classe imprenditoriale sarebbe
una barbarie e un torto che non merita nessuno.
Nonostante ciò, se molto si deve a chi ha sfamato l’Italia, le PMI,
oggi non sono più adeguate. Spesso, in un’apatia di fondo o reale
incapacità, non vogliono o sanno emergere a ruoli più completi e
competitivi. Ne consegue che l’impresa padronale italiana, nella sua
sostanza, sprofonda o nella crisi più nera (i suicidi si concentrano
dove mancano i manager) o in una gestione arrogante utilizzando
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incoscientemente la paura sui dipendenti, come metodo di lavoro.
Tutto questo convive, in piena contraddizione, con reali successi sul
mercato per il “made in Italy”. Si profila così un immane spreco di
risorse umane ridotte a comparse e di potenzialità di mercato non
espresse. Nel momento in cui il fattore umano dovesse avere un valore in bilancio, quasi tutte le PMI padronali italiane, andrebbero
automaticamente in rosso, risparmiando, in questo modo sulle tasse,
ma aprendosi a un’emorragia di cervelli e persone, per cui resta solo
chi non ha altre scelte o non ha più ragioni per mettersi in gioco:
in pratica non le persone migliori. Così si chiude il cerchio: cattiva
gestione, basso profilo nel fattore umano comunque “maltrattato”,
proiezioni mediocri sulla lunga durata delle aziende che colgono indubbiamente successi sul mercato, ma senza porli a sistema. Infatti
le case e i grandi nomi vengono acquistati da altre società che iniziano subito quella ristrutturazione mai svolta nel passato, che sarebbe
stata necessaria.
In effetti un argomento di sicuro interesse è esplorare dove si colloca il confine tra la modestia e spesso ignoranza dell’attuale classe
imprenditoriale padronale italiana e il successo, comunque conseguito. Questo è un ragionamento appassionante.
Ho visto degli imprenditori, oggi alla soglia della pensione, entrati
in azienda a 14 anni seguendo le orme paterne, che sono praticamente degli analfabeti, in grado però di condurre un’impresa complessa
al successo, garantendo stipendi e paga a tutti e anche extra busta.
Ovviamente il loro tratto con il personale è pietoso, ma la capacità di
comprendere il come e il quando entrare sul mercato resta eccelsa.
Sulla base di questo esempio, particolarmente diffuso nell’impresa padronale italiana, si deve dedurre che il successo non richiede
formazione e cultura?
Dall’altro lato conosco un imprenditore-intellettuale, letteralmente raggirato e defenestrato dalla sua stessa azienda che aveva creato,
dove il suo commercialista di fiducia, amico da sempre, l’ha tradito,
contribuendo al suo isolamento.
Due casi diversi che lasciano pensare che negli affari serva solo
“fiuto” e non cultura.
Come interpretarli?
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Ancora un terzo. Un ex contadino, quindi anche operaio che negli
anni fonda un’azienda oggi leader nel settore, ha distribuito tutti gli
incarichi di dirigenza ai suoi giovanissimi figli e nipoti. Si configura
così una realtà con due volti: un disastro nella gestione del personale
e un successo sul mercato, garantendo decenni di reddito.
A questo punto la confusione appare totale e trarne una logica è
difficile. Un quarto caso è di quell’imprenditore con 15 dipendenti,
attivo nel settore della componentistica in rubinetteria nell’omonimo distretto a nord di Novara. Francamente quale sia la differenza
tra lui e i suoi operai non è mai stato molto chiaro a parte l’alzare la
voce verso il personale dipendente, appunto come un padrone. Questo capo d’azienda ha adottato un sistema di lavoro “alla cinese” del
genere “lavora, lavora e lavora, con margini ridottissimi” trovandosi
quindi sempre al pelo tra l’essere sommerso dai costi di produzione
da pagare e impegni d’assicurare per restare a galla. Nel cassetto
ha, da oltre un decennio, un sogno: un rubinetto che grazie ad aria
compressa e a un labirinto di sua ideazione, erogherebbe più acqua
rispetto gli altri, utilizzandone di meno. Non ne ha fatto nulla. L’idea
è rimasta nel mondo di quelle possibili, senza neppure richiedere
l’assistenza di un consulente per realizzare quanto non è stato capace
di portare avanti. Questo imprenditore è rimasto povero.
In Lombardia, un impero edile, gestito anche questo in forma
padronale da un padrone vero e proprio (nel senso peggiore) si è
sciolto lasciando tutti i suoi oltre 60 dipendenti a casa, semplicemente perché ha svuotato l’azienda italiana di ben 25 milioni d’euro,
costruendo un villaggio nel Golfo di Guinea, a sua volta venduto
a una società britannica, il cui introito è stato trattenuto, estero su
estero, dalla famiglia di proprietà. In sede di fallimento nessuno ha
osato dire nulla sia per paura, ma soprattutto perché tutti i posti di
responsabilità erano in mano alla famiglia, basandosi su persone assolutamente non qualificate al ruolo, se non per giocare a calcio.
Gli esempi possono continuare all’infinito, compresa quella figlia di proprietario, nel ruolo di responsabile di marketing in una
grande azienda, che all’ingresso del consulente, discutendo sullo
stato dell’impresa, s’inalbera pretendendo rispetto, anziché entrare
nel merito dell’assenza di un piano di marketing, del mansionario e
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dell’organigramma, oltre a una più completa politica della sicurezza.
Appositamente, in questo caso, è stato usato “il rispetto alla storia
dell’impresa” per non affrontare la responsabilità nel non aver fatto
quanto necessario, aldilà degli ultimi 56 anni di vita imprenditoriale. Questo è un atteggiamento tipico degli imprenditori padronali.
Si tratta della stessa società già citata che nasconde la redditività
attraverso una forma societaria non adeguata al fatturato e numero
di dipendenti, nonostante la legge consenta quest’abuso. In realtà ci
sono anche altri aspetti. Parenti o figli dei fondatori, tra loro non si
fidano, imponendo per questo l’unanimità delle decisioni come sistema di controllo. Anche quest’aspetto è drammaticamente presente nelle imprese familiari e padronali costituendo un danno all’attività, perché, tra l’altro, allunga enormemente i tempi di reazione alle
istantanee necessità imposte dal mercato. È chiaro che un’impresa
così destrutturata, benché importante nel panorama nazionale, deve
necessariamente essere dotata di un organigramma, di un piano di
marketing, della contabilità industriale, di una politica del personale
etc.
Nella confusione voluta o feudi di potere strenuamente e arrogantemente detenuti, si conserva il potere nella divisione diffidente tra
ruoli. Mai, in realtà di questo tipo ci sarà un direttore generale o un
amministratore delegato, perché imporrebbe delle linee di condotta
che nessuno vuole seguire perché deprivato della sua fetta di controllo e influenza sugli altri. È stallo dinamico, in quanto comunque
gli atti aziendali vengono compiuti. Strutture di questo tipo sono destinate a non avere altri 56 anni di vita, perché lente nella decisione,
troppo legate alle persone (quelle della famiglia di proprietà) irriguardose delle maestranze da sfruttare (è presente un 35% di personale non nazionale di cui diversi assolutamente analfabeti, assunti da
oltre vent’anni, in un’impresa che ha svolto corsi di sicurezza senza
accertarsi che il personale abbia capito) con prodotti esteticamente
validi, ma senza un futuro, perché realizzati con materie prime altamente tossiche. Ovviamente la ricerca & sviluppo, in quest’azienda
non è presente come realtà.
Mancano “le menti”, manager e ingegneri. Al contrario il resto
sono solo “gente pratica”, incapace d’andare oltre il fare perché non
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preparati a pensare. Si conferma ancora, da questo caso di studio e
altri descritti, come “i padroni” pretendano sempre rispetto, peccato
che troppo spesso sia solo una richiesta senza i contenuti adeguati.
E questa gente, così limitata e arrogante, dovrebbe gestire il benessere degli italiani? Come conciliare un esercito di presuntuosi
con le regole di guida necessarie a un’impresa moderna, che vuole
restare sul mercato e che include sia la trasparenza che un buon rapporto con le maestranze tra i suoi “must”, creando in questo modo
“pensiero nuovo e idee”?
Possibile che a simili personaggi sia andata sempre bene pur essendo sostanzialmente analfabeti? Qui serve capirsi. In questo contesto, per analfabeta, non si intende chi non sa leggere e scrivere
(come gli operai extracomunitari prima indicati) ma chi ha smesso
di pensare nell’arroganza della sicurezza e agiatezza (e qui il riferimento è soprattutto ai familiari del capo aziendale). In riferimento all’imprenditore, si intende colui/lei che pur avendo (è raro) un
pezzo di carta del tipo laurea, spesso solo triennale, non ha più letto
nulla dai tempi dell’università. Forse ascolta la TV, ma non legge o
appena sfoglia il quotidiano (nel migliore dei casi e raramente quello
economico) non legge libri e forse al massimo qualche romanzo, ha
smesso di produrre idee pur avendo in mano il benessere di decine
e decine di dipendenti, ignari d’essere guidati da gente che non ha
la patente pur essendo dei bravi “praticoni”. Ecco un’altra parola
magica dell’impresa padronale: praticamente!
Oltre a pretendere rispetto, l’impresa padronale è “pratica” perché
è incapace di seguire un discorso completo e complesso. Che cosa
ce ne facciamo di questa gente, in epoca globalizzata, pur subendo i
loro fallimenti, perdendo il nostro posto di lavoro, oppure assistendo
ai loro successi senza capire come facciano?
Per rispondere serve guardare alle grandi evoluzioni del mondo
produttivo come metodo d’arricchimento; da un sistema prevalente
agricolo, si è passati alle grandi scoperte geografiche che hanno provocato i primi ingenti traffici commerciali. Per un importante salto di
qualità finalizzato a raggiungere la vera ricchezza, si dovette passare
oltre il Rinascimento, giungendo all’industria nella metà del XVIII°
secolo. Senza enumerare le diverse rivoluzioni sociali e industriali
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intercorse nei secoli, il punto focale è sempre stato concentrato su un
bene: la terra, i traffici, il prodotto. Oggi è diverso. Pur conservando
ovviamente tutta l’importanza che hanno i fattori del capitale (terra,
lavoro e masse finanziarie) siamo entrati probabilmente in un’era
dove la personalità umana è la novità in grado di fare la differenza
con il passato.
L’essere umano, in epoca contemporanea è più importante che
mai, nella duplice veste sia di cliente che dipendente. I suoi capricci
negli acquisti sono in grado di “mettere a tappeto” qualsiasi azienda
o di farne la fortuna in tempi rapidissimi, grazie al tam-tam che il
social network offre. Che un prodotto sia effettivamente valido o
no, non importa. Nel caso il social network lo bocci o critichi, il suo
successo sul mercato è già compromesso.
In una società così volubile e capricciosa, l’assenza di una politica
del personale, caratteristica prima dell’azienda padronale, è da considerarsi un evento mortale che se unito agli altri passaggi critici del
settore, crea una miscela esplosiva veramente pericolosa. È possibile
che questo tipo d’impresa si estingua da sé per cause diverse, tra cui
la sfortuna sul mercato, l’abbandono dei migliori lavoratori, l’incapacità di gestione delle crisi da parte d’una proprietà non allenata,
l’esaurimento della fortuna che oggi copre come un mantello quella
formidabile incapacità di gestione padronale, ma su tutti questi eventi, brilla sempre quello più critico: la mancanza di persone adeguate.
Infatti mancano ingegneri in produzione e progettazione, mancano
manager, mancano persone preparate, mancano le mentalità.
Un errore classico dell’azienda padronale, ad esempio, è quello
di non rispondere alle email o limitarsi a parlare al telefono perché
scrivere è difficile!
Concludendo, effettivamente l’azienda padronale italiana ha goduto e ancora raccoglie successi, ma si tratta d’eventi di una storia
passata spinta a forza in un’era che ha nuove regole, spesso non
conosciute e tanto meno applicate dove la personalità umana gioca
un ruolo cruciale.
Non a caso stiamo assistendo a una severa pulizia sul mercato di
qualcosa che ha fatto il suo tempo: l’impresa padronale. Il guaio è
che chiudendo le fabbriche, il danno diventa nazionale provocando
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dolore, disoccupazione e povertà. Urge a questo punto il salvataggio
di un sistema d’impresa che funziona, ma non è adeguato a proseguire in questo modo.
Per spiegare alle famiglie imprenditoriali alcune delle loro pecche principali, evitando che miseramente falliscano, è stato scritto
questo libro esortandole a “prendere la patente”, per guidare le loro
fortunate (per ora) attività d’impresa. Non si tratta solo di un omaggio a persone che hanno sofferto e di cui l’Italia è debitrice, senza di
loro saremmo tutti più poveri. Nonostante il rispetto dovuto e riconosciuto agli imprenditori familiari e padronali, non c’è fiducia nella
loro spontanea capacità d’evoluzione, comprensione e recupero delle
indispensabili qualità per dirigere e governare un’azienda moderna.
Ecco che per spiegare alle famiglie imprenditoriali il bisogno d’adeguarsi (prendere la patente per guidare) lo strumento fiscale, nella
sua antipatica invasività e autorevolezza, resta l’unico vero strumento per salvare la Nazione sia da un Governo incompetente in materia,
che una classe imprenditoriale padronale, altrettanto ignorante.
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