VII Incontro di Studio di Analitica Rimini 2009

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VII Incontro di Studio di Analitica Rimini 2009
VII Incontro di Studio di Analitica
Rimini 2009
Seconda Sessione
Tra Rinascimento e Barocco: interpretazione, forma e
linguaggio
Emanuele Gasparini
Tra Musica e Architettura. Il Nuper rosarum flores di Dufay e la
brunelleschiana cupola di Santa Maria del Fiore.
Stato attuale delle conoscenze sull’argomento: La recente
pubblicazione sulla rivista Musica/Realtà (n.88 marzo 2009), l’ultima
pubblicazione uscita in ordine al suddetto argomento, vuole porre una
nuova questione di indagine prima mai considerata, neppure dagli
studi fondamentali che hanno dato il via a questo dibattito accademico
[Warren(1973), Wright(1994)].
Contenuti principali della comunicazione e obiettivi della ricerca, con
eventuale divisione in parti e apporti del proprio contributo rispetto
allo stato attuale delle conoscenze: L’indagine affronta un argomento
che da circa trent’anni è oggetto di studio della musicologia e si
propone di sbilanciare maggiormente l’analisi a favore dell’aspetto
storico architettonico che spesso ha sofferto di una certa carenza.
Partendo dai fondamentali scritti di Warren, Wright e Trachtenberg,
l’autore propone una nuova interpretazione per legare assieme i due
eventi, architettonico e musicale, protagonisti dell’evento in
questione. La lettura dell’Apocalisse da un lato, l’iconografia e
l’ambiente culturale dall’altro, possono forse restituirci una nuova
chiave di lettura per decifrare i rapporti numerici – quindi armonici –
che sarebbero sottesi alle due costruzioni, musicale e architettonica.
Divisione in parti: 1) Analisi della struttura architettonica e dei suoi
rapporti “armonici”; 2) Analisi del mottetto Nuper rosarum flores di
Dufay e dei rapporti numerici armonici in esso sottesi; 3) Legame e
interpretazione tra i rapporti armonici dell’architettura e della musica
analizzate; 4) Conclusioni.
Bibliografia essenziale
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***
Simone Ciolfi
I recitativi delle Cantate di Alessandro Scarlatti: aspetti formali e
funzionali
I recitativi delle Cantate di Alessandro Scarlatti, già dai contemporanei
additati a esempio di musica ricercata e curiosa, non sono mai stati
oggetto di uno studio musicologico specifico quanto le arie che li
affiancano. Descritti spesso come mera successione di triadi, i
recitativi mutuano invece dalla teoria musicale dell’epoca e, nello
specifico, dalle ‘regole’ del partimento, Lezzioni dello stesso Scarlatti
in primis, strategie musicali che ne animano l’armonia e la natura
musicale. In base a questi elementi è possibile scandire con più
precisione la materia e conferire alle parti un senso direzionale più
certo. In tale musica, priva di unità tonale, affidare gradi melodici al
basso aiuta a individuarne il ruolo e l’effetto. Pur in un sistema fatto di
unità semantiche che corrispondono generalmente a un verso, il
pensiero contrappuntistico anima il rapporto tra linea vocale e basso,
rapporto che genera una varietà di schemi che vestono la
declamazione del testo, materiale che va ad ampliare le brevi
casistiche reperibili nella trattatistica dell’epoca (Fux, Mattheson e
altri). Vengono inoltre discusse le caratteristiche de alcuni testicampione di cantate. La natura formale e il contenuto espressivo, gli
aspetti ricorrenti, il grado di teatralità o introspezione, lavorano in
stretta connessione con la musica.
Lo studio tenta di collocare queste unità semantiche in un discorso
‘retorico’ musicale che è stato individuato in tre fasi: esordio,
narrazione ed epilogo, mirando a far chiarezza in un’apparente
intercambiabilità delle unità narrative. Il punto di partenza ne è la fase
cadenzale, facilmente individuabile, dalla quale si parte per sondare i
momenti precedenti. Oltre all’individuazione delle unità sopradette,
notevole importanza è stata data anche alle modalità con le quali esse
vengono collegate, spesso con l’intenzione di generare un senso di
apertura protratta, una delle priorità della musica recitativa, che trova
nell’uso parziale della Regola dell’ottava e delle norme del partimento
una strategia che la avvicina all’improvvisazione e gli fa assumere a
tratti natura quasi espressionista.
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Fabrizio Ammetto
Analisi formale e armonico-strutturale dei concerti per due violini di
Vivaldi
In Europa il più importante compositore di concerti per due
violini è senza dubbio Vivaldi, con poco meno di una trentina di lavori
scritti lungo quasi il suo intero arco creativo: questo nutrito corpus
offre numerosi spunti di analisi.
Tutti i concerti per due violini vivaldiani sono articolati in tre
movimenti, ma accanto alla classica tripartizione Allegro-Largo-Allegro
in alcuni lavori si riscontrano anche differenziazioni agogiche verso il
veloce o il lento che dimostrerebbero una nuova flessibilità propria del
tardo periodo di attività di Vivaldi.
Sebbene il Nostro costruisca i suoi doppi concerti in tonalità che
impiegano fino a un massimo di tre alterazioni, secondo una prassi
piuttosto comune per l’epoca, la varietà del tono utilizzato in numerosi
movimenti centrali è invece senz’altro sorprendente, soprattutto se
paragonata alle pratiche di Bach o di Händel che, accanto a
impostazioni monotonali, adottano quasi esclusivamente la relativa
minore o maggiore.
La forma maggiormente utilizzata da Vivaldi nella costruzione
dei movimenti veloci (e occasionalmente dei movimenti centrali) nei
suoi concerti per due violini è quella ‘con ritornello’, mentre i tempi
lenti sono costruiti anche secondo altre forme: come movimento di
sonata per due solisti e basso continuo (a sezione unica, o bipartito e
ritornellato), o come episodio solistico all’interno di due interventi
orchestrali posti all’inizio e alla fine del movimento.
Nei movimenti veloci costruiti secondo la ‘forma con ritornello’ le
tonalità esplorate ‒ oltre al tono d’impianto ‒ sono normalmente altre
due o tre (raramente quattro), ma la varietà delle sequenze
armoniche impiegate è senz’altro straordinaria.
Due elementi strutturali, degni di analisi, presenti nei movimenti
costruiti nella forma con ritornello (ma non solo) – e che attestano
un’evoluzione stilistica nei processi compositivi di Vivaldi – sono la
ripresa integrale o abbreviata del primo “Tutti” a conclusione del
movimento e, soprattutto, il rapporto delle proporzioni tra i ritornelli
orchestrali e gli episodi solistici.
Per la costruzione dei “Tutti” orchestrali nei concerti per due
violini, Vivaldi adotta in un quarto dei casi una scrittura imitativocontrappuntistica, derivata dall’esperienza del “concerto di gruppo”
senza solisti. La varietà delle soluzioni impiegate va dalle semplici
entrate successive a canone delle quattro voci (tutte alla tonica), a
fugati, a vere e proprie esposizioni di fuga.
In alcuni doppi concerti Vivaldi costruisce il primo episodio
solistico utilizzando il materiale melodico dell’incipit del ritornello
orchestrale; altrove stabilisce un legame melodico – seppur non
sempre propriamente letterale – tra il “Tutti” iniziale e il primo “Solo”,
o comunque ne sottolinea un’affinità semplicemente ritmica. Un’altra
tecnica compositiva impiegata dal Nostro per rafforzare l’unità
strutturale del brano è la ripresa dell’incipit del primo episodio solistico
nell’ultimo “Solo” del movimento. E anche in numerosi movimenti
centrali si incontra la ripresa abbreviata dell’incipit iniziale, esposta
secondo diverse combinazioni.
A livello di scrittura adottata dai due solisti nel combinare le
rispettive linee melodiche, i concerti vivaldiani mostrano un panorama
quanto mai ampio per varietà e originalità: si incontrano procedimenti
per moti paralleli o contrari (quest’ultimo, probabilmente,
un’innovazione di Vivaldi), dialoghi alternati, imitazioni in
contrappunto, melodia accompagnata. In quattro concerti si incontra
poi una particolare forma di combinazione delle linee melodiche dei
due solisti, che potremmo chiamare “arpeggio accompagnato” (anche
in questo caso probabilmente un’invenzione vivaldiana).
L’accompagnamento degli episodi solistici è piuttosto variegato:
dal solo basso continuo all’alternanza con le sezioni unite di violini e
viole all’unisono; dalle sole sezioni dei violini all’unisono alla sola
sezione delle viole; dall’intera compagine orchestrale all’unisono a
sostegni armonici a due o a tre parti reali, ecc. È difficile ipotizzare
un’evoluzione stilistica nella pratica vivaldiana di scrivere gli
accompagnamenti “senza basso”, sebbene nelle sue composizioni (e
non solo strumentali) composte fino agli anni Venti sia ravvisabile una
certa tendenza che predilige quasi sempre una sola linea melodica o
tre distinte, ma quasi mai due linee separate.
Bibliografia
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Fabrizio Ammetto, Le Sonate per violino di Antonio Vivaldi. Fonti e
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sperimentale di II livello in discipline musicali (indirizzo interpretativocompositivo in Violino), Conservatorio di musica dell’Aquila, a.a. 2005-2006.
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Michael Talbot, Vivaldi and Fugue, Firenze, Olschki («Quaderni vivaldiani»,
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Fabrizio Ammetto, I concerti di Vivaldi «con» (o «per»?) due violini
«obligati» (o «principali»?), in Vivaldi, passato e futuro, Atti del Convegno
internazionale di studi (Venezia, 13-16 giugno 2007), a cura di Michael
Talbot e Francesco Fanna, pubblicazione online nel sito dell’Istituto Italiano
Antonio Vivaldi di Venezia, 2009 (di imminente pubblicazione).
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Duilio D’Alfonso
La fuga per organo BWV 542 di J. S. Bach: dal soggetto alla forma, in
prospettiva schenkeriana
Nonostante i vari riferimenti, negli scritti di Schenker, alle fughe di
Bach, e qualche analisi schenkeriana di alcune fughe del
Wohltemperierte Klavier, è opinione diffusa che l’analisi schenkeriana
non sia agevolmente applicabile al “repertorio contrappuntistico”
tonale e, a fortiori, a quello pre-tonale e modale. L’essenza della
polifonia occidentale, tanto di quella tonale che di quella modale,
consiste nella cosiddetta “indipendenza” delle voci, che sola garantisce
l’autentica polivocità di una tessitura sonora, in cui ogni voce si
sviluppa autonomamente, seppure “con il consenso di tutte le altre”.
Ma appunto tale indipendenza, e conseguente perfetta equivalenza,
delle voci si scontrerebbe con uno degli assunti fondamentali della
teoria schenkeriana della musica tonale, in base al quale ogni brano
musicale conforme alla regole della grammatica della tonalità
presenta un livello profondo al quale consiste nel puro dispiegamento
delle tensioni implicite nella triade di tonica. Tanto il concetto di
“basso fondamentale”, quanto quello di “linea fondamentale”
risulterebbero pertanto particolarmente ostici da applicare a una
composizione polifonica, soprattutto se in rigoroso stile imitativo,
quale la fuga. Come è possibile, ci si chiede,
individuare la
progressione di una linea profonda o di un basso fondamentale in una
tessitura polifonica quale quella di una fuga, in cui ogni voce dialoga
“alla pari” con ogni altra, in cui non esiste alcuna chiara
differenziazione funzionale tra le voci?
In questo intervento, attraverso la presentazione di una analisi
completa, di orientamento schenkeriano, della fuga in sol min. per
organo BWV 542 di Bach (a quattro voci), mi propongo di portare
argomenti che suggeriscono una revisione di tale “received view”.
Dall’analisi di questa fuga emergeranno due aspetti. Il primo è che
nella fuga strumentale bachiana, grazie all’equilibrio tra contrappunto
e armonia tonale, il senso dell’unità tonale, la forza unificante della
triade di tonica sono pienamente realizzati. E se così è, deve esistere
un qualche livello al quale la triade di tonica agisce come “forza
coesiva” dell’intera composizione. Il secondo è che anche per la fuga
si può (tentare di) delineare un rapporto “forma-contenuto tonale”
(così come per la forma-sonata), ovvero un rapporto “tipico” tra il
contenuto e le tensioni tonali interne all’ursatz e l’architettura formale
complessiva della fuga.
L’analisi schekeriana non può che procedere, nell’approccio alla
partitura, secondo una metodologia “dal basso”, data-driven, per
usare una formula presa in prestito dalle scienze cognitive. La
presentazione dei risultati dell’analisi può invece essere invertita, i
risultati possono cioè essere esposti dall’alto verso il basso,
dall’assioma generale al brano musicale concreto. Nell’esporre i
risultati principali della analisi della fuga bachiana, seguirò questo
secondo modo di procedere.
L’ipotesi analitica emersa dal progressivo lavoro di “eliminazione degli
strati”, dal più superficiale della partitura musicale al livello profondo,
è che la fuga, nel suo complesso, presenta una progressione lineare
fondamentale dal quinto grado della scala ( 5̂ ! 4̂ ! 3̂ ! 2̂ ! 1̂ ), la cui prima
elaborazione è data dal sesto grado di volta del quinto (I livello medio,
figura 1). L’espansione del primo livello medio, da cui si generano due
grandi “blocchi tonali” coerenti, è ottenuta attraverso il
prolungamento del quinto grado della urlinie che precede la volta,
tramite una prima discesa dal quinto grado al primo (progressione
lineare di quinta), con un trasferimento di registro, tra il terzo e il
secondo grado (II livello medio, figura 2). Si crea così lo spazio per il
“decorso tonale” della fuga, polarizzato attorno alla dominante nel
primo blocco tonale (batt. 1-68) e alla tonica nel secondo (batt. 68115), secondo il seguente schema:
I
V
I
V
III
V
VII
V
I
IV
VI
V
I
I
Si procederà poi con la presentazione di altri due grafici del livello
medio e di uno del livello esterno dell’intera fuga, per poi concentrarsi
sul primo blocco (batt. 1 - 68), e in particolare sul gruppo costituito
da esposizione + controesposizione (batt. 1 -32), che formalmente
presenta la seguente articolazione:
Sogg – Risp – Sogg – Risp - Div – Sogg – Risp – (breve giuntura) Sogg
Esposizione
Controesposizione
Si mostrerà come si tratti di un gruppo tonalmente coeso, che
comporta la discesa 5̂ ! 4̂ ! 3̂ della progressione lineare maggiore, che
prolunga il quinto grado della urlinie. Una ulteriore “zoomata”
sull’esposizione servirà per mettere in luce il modo in cui la coda
svolge la sua funzione di “ponte strutturale” tra soggetto e
controsoggetto, il cui contenuto tonale lineare le deriva “logicamente”
dal ruolo di giuntura tonale che essa ricopre, nel condurre dalla tonica
alla dominante (nella transizione dal soggetto alla risposta) e
viceversa (risp - sogg). Si vedrà che è possibile tentare una
generalizzazione, da questo caso particolare, su ruolo e contenuto
tonale della coda, in relazione alla struttura tonale del soggetto,
ipotizzando così una sorta di ursatz dell’esposizione di fuga
(proponendo, cioè, un’ipotesi di rapporto tra contenuto tonale
armonico-lineare e struttura formale per la fuga, così come vi è per la
forma-sonata). Seguirà l’analisi armonico-tonale e sintagmatica del
soggetto della fuga.
Il carattere esemplare della architettura formale e tonale di questa
fuga, l’esemplarità del rapporto tra struttura e contenuto tonale del
soggetto e architettura formale e contenutistica della fuga nel suo
insieme, l’esemplarità con cui la costruzione formale, tonale e
motivica della fuga si radica nelle proprietà strutturali, tonali e
motiviche del soggetto, l’intera fuga apparendo come il logico
dispiegamento di tali proprietà, tutto ciò rende questa fuga
particolarmente funzionale a un approccio analitico di tipo
schenkeriano. L’obiettivo di questo lavoro non è comunque solo quello
di presentare un’analisi schenkeriana di una fuga di Bach. Piuttosto, lo
scopo è quello di proporre una riflessione sul rapporto tra forma e
“struttura profonda” della fuga, in relazione anche alle proprietà
formali e tonali del soggetto, al fine di valutare la possibilità di
formulare ipotesi generali circa eventuali tipicità nei processi di
dispiegamento della struttura profonda attraverso i moduli della
architettura della fuga.
Bibliografia essenziale
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Giancarlo Bizzi, Specchi invisibili dei suoni. La costruzione dei canoni:
risposta a un'enigma, Edizioni Kappa.
Quarta Sessione
Ottocento strumentale: aspetti teorici, interpretativi e
stilistici
Marco Targa
La Sinfonia a teatro. Procedimenti sinfonici nelle opere degli autori
della Giovane Scuola
La musicologia si è solo di recente dedicata allo studio della
morfologia dell’opera italiana del periodo a cavallo fra la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
A fronte della mole di studi analitici circa le strutture formali presenti
nei melodrammi italiani di primo Ottocento, le ricerche dedicate alla
catalogazione, descrizione e interpretazione critica dei principi formali
alla base delle opere scritte dagli autori della cosiddetta Giovane
Scuola sono apparse in quantità decisamente inferiore giungendo, di
conseguenza, a risultati solo parziali.
Le difficoltà in questo campo di analisi sono di vario ordine: l’opera di
questo periodo vive all’insegna di una multiforme varietà di principi e
di soluzioni formali (a volte disorientante per l’analista) che si
miscelano o si giustappongono all’interno della stessa opera o atto o
scena con estrema disinvoltura. Di conseguenza la questione spesso
non è tanto quella di rinvenire le strutture di un particolare modello
normativo emergenti da una convenzionalità determinata dal genere
musicale di appartenenza, socialmente riconosciuto e condiviso (come
avviene per la morfologia dell’opera di primo Ottocento, caratterizzata
da un alto grado di convenzionalità), quanto quella di evidenziare il
ricorrere di un certo modo di pensare la forma musicale, talora dai
caratteri molto personali, legati forse più al singolo autore, alle sue
“abitudini” compositive e solo in parte espressione di un sistema di
norme condivise, in un periodo in cui l’emergere di un’estetica che
esalta l’originalità inventiva del compositore comporta via via la
completa destituzione del complesso di formule e codici convenzionali
che aveva retto l’opera italiana del periodo precedente.
Fra le varie tematiche che da questo tipo di indagine si potrebbero
sviluppare, mi propongo di focalizzare l’attenzione sull’aspetto del
cosiddetto “sinfonismo operistico”, categoria molto presente nel
dibattito critico del periodo preso in esame e indubbiamente
importante nella comprensione dell’architettura formale delle opere
composte dai relativi autori.
Il concetto di fusione tra i generi della sinfonia e dell’opera e il
conseguente proposito di creare una forma operistica in cui il discorso
musicale sia affidato ad un flusso orchestrale continuo, organizzato
secondo criteri sinfonici è di origine wagneriana: un punto di partenza
per inquadrare le problematiche ad esso connesso è sicuramente
costituito dai contributi della letteratura analitica wagneriana
sull’argomento, in particolare Newcomb [1981] e Abbate [1990].
In Italia, Virgilio Bernardoni si è occupato a più riprese di questa
tematica in riferimento, invece, proprio agli autori della Giovane
Scuola, mettendo in evidenza come le tendenze sinfoniche nell’opera
fin de siècle si siano manifestate sotto differenti forme: l’utilizzo di
stilemi strumentali desunti dalla tradizione del canone classico, la
proliferazione di intermezzi sinfonici con chiara valenza drammatica
inseriti all’interno dello svolgersi dell’opera, ampi segmenti dell’opera
organizzati secondo una logica puramente orchestrale di tipo sinfonico
che, in alcuni casi, arrivano a coprire l’arco di un intero atto (come nel
primo atto di Manon Lescaut, del secondo atto di Bohème, del primo
atto di Fedora, ecc.).
Lo studio delle forme musicali nel campo dell’opera ha uno dei suoi
punti di maggiore interesse nella valutazione dei rapporti che
intercorrono fra la struttura musicale e quella che compete agli altri
due codici espressivi che concorrono a formare il testo operistico
complessivo e cioè l’espressione verbale e l’azione scenica. In questa
prospettiva importanti sono i contributi forniti nel numero terzo della
rivista «Studi pucciniani», nel quale vengono proposti, fra le altre
cose, nuovi concetti analitici relativi al rapporto tra le componenti
sinfoniche e la loro valenza drammatica, formulati espressamente in
relazione al repertorio operistico in esame: in particolare mi riferisco
ai saggi di Hübner e di Hepokoski.
L’obiettivo della ricerca proposta è quello di approfondire questa
tematica ampliandone la prospettiva comparatistica ad una più varia
casistica di esempi, al fine di evidenziare quali siano i principi comuni
ai vari autori e quali, invece, gli stilemi personali legati all’autore
specifico. Il metodo adottato non potrà che avvalersi di un continuo
intreccio tra le metodologie di analisi della forma musicale e le
metodologie di analisi drammaturgica. In particolare, un nodo di
problematiche interessanti risiede proprio nei rapporti di reciproca
congiunzione/disgiunzione e di reciproca dipendenza/indipendenza che
si possono instaurare tra il discorso sinfonico, già dotato di una sua
forte coerenza formale interna, e lo svolgersi della scena drammatica
ad esso sovrapposta, nonché dei principi che regolano la fusione di
queste due componenti in un complesso unitario, con le relative
conseguenze che la loro differente combinazione comporta sul piano
del significato complessivo della scena.
La ricerca intende, in definitiva, apportare un ulteriore tassello alla
conoscenza degli sviluppi che l’opera italiana ha avuto a cavallo del
Novecento, soprattutto nell’ambito dell’evoluzione delle forme
musicali, e fornire nuovi riferimenti analitici utili alla comprensione e
alla valutazione critica di un repertorio che ancora presenta ampi
margini di indagine.
Bibliografia
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Paolo Fabbri, Istituzioni metriche e formali, in Storia dell’opera italiana,
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Norbert Christen, Giacomo Puccini: analytische Untersuchungen der Melodik,
Harmonik und Instrumentation, Hamburg, Karl Dieter Wagner, 1978.
***
Catello Gallotti
La forma-sonata oggi: l’esposizione della sonata classica in due
recenti teorie
Negli ultimi vent’anni circa si è ripreso a scrivere molto sulla forma
musicale – in particolare su quella classica – e da più punti di vista,
segnando una netta inversione di tendenza rispetto allo scarso
interesse che, agli inizi della seconda metà del ‘900, avevano
manifestato teorici e storici della musica, soprattutto di lingua inglese,
rispetto a quest’ambito di ricerca. Diversi autori hanno mostrato
quanto le categorie formali abbiano ancora da dire, anche in
prospettiva schenkeriana; inoltre, sono apparsi studi che, dando
nuovo
vigore alla tradizione della Formenlehre classica, stanno proponendo
visione originali e significative, stimolando modi diversi di concepire la
presenza di modelli formali convenzionali e spingendo la ricerca verso
territori ancora poco esplorati.
Tra i più recenti contributi alla teoria della forma classica, un grande
interesse hanno suscitato la teoriadelle funzioni formali di William
Caplin [1998] e la cosiddetta Sonata Theory di James Hepokoski e
Warren Darcy [2006]. Caplin, ritenendo che la nostra percezione della
forma musicale sia intimamente collegata alla ‘temporalità’, ha
individuato una serie di funzioni attraverso le quali è possibile definire,
sotto il profilo sintattico–temporale (come inizio, centro e fine), tutte
le unità formali su larga, media e piccola scala di qualsiasi lavoro del
periodo classico. Hepokoski e Darcy hanno elaborato un’ampia teoria
la cui premessa fondamentale sta nell’idea che comprendere la forma
significa ricostruire un processo dialogico tra un lavoro individuale e
una serie di norme convenzionali di riferimento, derivate
dall’osservazione
diretta
della
musica
(‘forma
dialogica’).
Nell’elaborare le loro rispettive teorie, gli autori si basano su elementi,
tecniche e procedure differenti: Caplin considera centrali i processi
armonico–tonali, la struttura di raggruppamento e il ruolo delle
cadenze, mentre Hepokoski e Darcy si concentrano maggiormente
sulla configurazione retorica complessiva, cioè su specifiche
disposizioni di tessiture e moduli tematici, accentuando notevolmente
gli aspetti ritmici, dinamici e di ‘punteggiatura’ della forma musicale.
Queste diversità si riflettono significativamente anche sul modo in cui
essi intendono la sezione espositiva di una forma–sonata, l’oggetto
della mia indagine. Per Caplin, l’esposizione dispiega le funzioni
formali di Tema principale (inizio), Transizione (centro), Tema o
gruppo tematico subordinato (fine) e Sezione conclusiva, ed egli è
portato ad individuare questa stessa sintassi di base in tutte le
esposizioni. Al contrario, Hepokoski e Darcy postulano una
fondamentale distinzione tra due formati espositivi: un’esposizione in
due parti e un’esposizione continua. Questa distinzione è determinata
da un forte evento retorico, la medial caesura
(MC). La sua presenza configura un’esposizione in due parti, articolate
rispettivamente in Tema primario-Transizione (P-TR) e in Tema
secondario-Zona conclusiva (S–C); invece la sua assenza determina
un’esposizione continua, caratterizzata clamorosamente dall’assenza
di S.
Nella mia relazione intendo operare un confronto tra queste due
diverse concezioni dell’esposizione, con la convinzione che entrambe
ci dicano cose molto significative sulla sua configurazione formale. Il
mio intento è quello di coglierne, al di là delle evidenti differenze di
idee e di metodo, i possibili tratti
complementari o comuni, discutendone i presupposti fondamentali
attraverso un riesame critico di alcuni esempi musicali. In particolare
tenterò di mostrare quali sono i margini di applicabilità della Sonata
Theory alla teoria della funzioni formali. Per questo motivo, dopo aver
sintetizzato le direttrici principali di queste recenti teorie, mi
soffermerò soprattutto sul concetto centrale di medial caesura, con i
suoi quattro defaults armonici, e sulla funzione di tema subordinato di
Caplin. Se la trattazione della cesura mediana è, a mio avviso,
sostanzialmente integrabile nella teoria di Caplin, l’assenza di tema
subordinato da un’esposizione continua sembra del tutto incompatibile
con la sua descrizione della sintassi formale, dal momento che per il
teorico canadese il tema subordinato è funzionalmente presente in
ogni sezione
espositiva. Ma si tratta davvero di termini irriducibili? Più
semplicemente, è possibile – e se sì, in quale misura – salvaguardare
la funzione di tema subordinato mantenendo nello stesso tempo
valida l’idea di un’esposizione continua?
Bibliografia essenziale
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***
Gaia Varon
Interprete e regista: dialogo fra sordi o felice convivenza? Due
versioni video della Quinta di Beethoven dirette da Herbert von
Karajan
CONTESTO, PREMESSE E METODOLOGIA D'INDAGINE. Oggi
l’esperienza musicale passa sempre più attraverso la fruizione di
prodotti audiovisivi: dvd, reti tematiche, video reperibili su Youtube,
diffusione di concerti in live streaming. L'accumulazione di
registrazioni audiovisive costituisce di fatto un nuovo «repertorio»,
inteso, strictu sensu, come accumulazione di «reperti», oggetti
sempre disponibili per il potenziale fruitore. La standardizzazione del
formato materiale produce una sostanziale equiparazione di oggetti
musicali in origine molto diversi fra loro. Il processo di
mediatizzazione che dall'evento musicale conduce al prodotto
audiovisivo
è
spesso
ignorato,
implicitamente
considerato
«trasparente».
A fronte di un'abbondante riflessione sull'impatto della rimediazione fra cui meritano di essere citati fra i contributi principali almeno i testi
di Bolter e Grusin e Lev Manovich -, gli studi di parte musicologica
sulla trasposizione audiovisiva di performance musicali sono ancora
esigui e non sistematici.
La comunicazione che qui si propone rappresenta una tappa di un
progetto esteso, alcune riflessioni preliminari del quale sono state
oggetto della relazione presentata al Quinto incontro di studio di
Analitica (marzo 2007).
Il progetto mira a far emergere i meccanismi costruttivi della
trasposizione audiovisiva dell'esecuzione di un brano sinfonico e a
mettere in luce la modificazione che questa comporta rispetto al piano
della performance. Il primo obiettivo che la ricerca mira a produrre è
una, sia pur parziale e provvisoria, catalogazione di tipologie di messa
in video del repertorio sinfonico, in relazione ai meccanismi costruttivi
e di funzionamento. Obiettivo secondario della ricerca è delineare,
attraverso alcuni casi esemplari, una "storia" della trasposizione
audiovisiva della Quinta Sinfonia dagli anni Cinquanta del secolo
scorso ad oggi. Un terzo obiettivo del lavoro è verificare in quale
misura quella porzione di repertorio consegnata all'audiovisivo possa
essere oggetto di uno studio musicologico e servire, in particolare,
come fonte per l'analisi e la storia dell'interpretazione.
Il percorso di ricerca muove da alcuni assunti: che la «messa in
video» di un'esecuzione musicale sia un atto autoriale che conduce a
un oggetto nuovo, nel quale convivono tre piani autoriali,
composizione, performance e messa in video; che sia possibile,
legittimo e interessante ricostruire, a partire dalla versione
audiovisiva, l'ideale intenzione della terza autorialità (sovrapartitura);
che sia rilevante indagare quali relazioni questo terzo piano autoriale
istituisca coi due sottostanti; che questo nuovo oggetto sia passibile di
essere indagato come nuovo «testo»; che questo nuovo testo possa
essere esaminato applicando a esso, con le dovute cautele e
trasformazioni, strumenti di indagine già rivelatisi efficaci per i due
piani sottostanti la messa in video, ovvero testo musicale in senso
stretto e performance.
CONTENUTI E ARTICOLAZIONE DELLA PRESENTAZIONE. La
comunicazione presenta alcuni esiti di una prima verifica di un'ipotesi
metodologica della ricerca nel suo complesso, ovvero che sia possibile
analizzare la ripresa audiovisiva come strato a sé stante, una sorta di
performance della performance, applicando ad essa procedimenti di
analisi già usati per la performance in senso stretto (vedi in
particolare gli studi di John Rink).
Dopo un succinto inquadramento del quadro complessivo in cui il
lavoro si inserisce, la presentazione verterà su un'analisi comparata di
alcune versioni audiovisive della Quinta Sinfonia di Beethoven, e in
particolare due con i Berliner Philharmoniker e la direzione di Herbert
von Karajan, registrate rispettivamente l'una nel 1966 con la regia di
Henri-Georges Clouzot, l'altra nel 1983 con regia dello stesso Karajan.
Nella fase analitica, le singole porzioni di testo audiovisivo volta a
volta indagate vengono smontate nei diversi strati, ciascuno dei quali
viene segmentato analizzato separatamente; obiettivo dell'analisi così
condotta è far emergere le gerarchie sottese nella «intuizione
informata» - nei termini di John Rink – presente nei diversi livelli
autoriali, dall'esecuzione musicale alla ripresa audiovisiva. La
successiva comparazione fra gli esiti di queste separate disamine
permette di verificare la presenza di coerenze di sistema innanzitutto
entro ciascun livello autoriale e nella relazione fra i diversi piani
autoriali di un prodotto audiovisivo.
Il confronto fra le due versioni dirette da Karajan, ambedue senz'altro
peculiari e atipiche rispetto alle prassi più convenzionali della
trasposizione audiovisiva, è particolarmente interessante, poiché una
scaturisce da un progetto ambizioso di connubio fra due autorialità
forti, l'altra il caso del tutto anomalo della coincidenza perfetta fra i
due piani autoriali.
BIBLIOGRAFIA
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Canova, Milano (in corso di pubblicazione).
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dir. Arturo Toscanini, New York, Carnegie Hall, 22 marzo 1952.
Beethoven, Sinfonia n.5 in do min. op.67, Wiener Symphoniker, dir. Herbert
von Karajan, regia di Georges Henry Clouzot, 1966.
Beethoven, Sinfonia n.5 in do min. op.67, London Philharmonic Orchestra,
dir. Leopold Stokowski, Croydon, Fairfield Hall, 8 sett.1969, BBC/Emi
Classics.
Beethoven, Sinfonia n.5 in do min. op.67, Wiener Philharmoniker, dir.
Leonard Bernstein,
Wien, Konzerthaus, settembre 1977, Unitel/Deutsche
Grammophon
Beethoven, Sinfonia n.5 in do min. op.67, Berliner Philharmoniker, dir.
Herbert von Karajan, Berlin, Philharmonie, 8 dicembre 1983, regia di
Herbert von Karajan.
Beethoven, Sinfonia n.5 in do min. op.67, London Classical Players, dir.
Roger Norrington, 1990, BBC/Scotland (with an Introduction by
R.Norrington).
Beethoven, Sinfonia n.5 in do min. op.67, Mahler Chamber Orchestra, dir.
Daniel Harding, Ferrara, Teatro Comunale, 19 novembre 1999.
Beethoven, Sinfonia n.5 in do min. op.67, Berliner Philharmoniker, dir.
Claudio Abbado, Roma, Accademia di S.Cecilia, febbraio 2001, Rai/EuroArts
Music International.
Herbert von Karajan, Die Kunst des Dirigierens (estratto), Wiener
Symphoniker, regia Henri Georges Clouzot, s.d. (1966?).
The Making of the Symphonies (documentario), Chamber Orchestra of
Europe, dir.N.Harnoncourt, regia P.Swann, Swann Ass.Prod./Channel Four
Television/La Sept, 1990.
The Art of Conducting. Great Conductors of the Past (documentario), regia di
Gérard Caillat, Teldec, 1995.
***
Elisabetta Piras
Pensiero implicito e pensiero esplicito nell’esecuzione musicale di
giovani pianisti
Stato attuale delle conoscenze sull’argomento: Partendo dalla
concezione di esecuzione musicale come forma concreta di pensiero
musicale (Clarke 2002), lo sforzo intellettuale che ne sta alla base ha
dato vita all’annosa questione di quale sia l’analisi musicale operata
dal musicista per realizzare le sue scelte interpretative. Tra le
principali correnti di pensiero si riscontrano quelle propense ad
affermare che si tratti di un’operazione intuitiva ed implicita, spesso in
relazione con conoscenze pregresse ed esperienza esecutiva (Meyer,
1973), oppure che si tratti –o sia necessiaria- una scrupolosa analisi
di tutti i parametri riscontrabili, per cogliere appieno le possibilità
interpretative (Berry, 1986; Narmour, 1988), o ancora che esista una
mediazione tra questi due esterni in una “intuizione informata” (Rink,
2002; Rink, 2007), per cui l’intuito guida l’esecuzione secondo gli
elementi desunti dall’analisi operata su più livelli.
CONTENUTI PRINCIPALI DELLA COMUNICAZIONE E OBIETTIVI DELLA
RICERCA, CON EVENTUALE DIVISIONE IN PARTI: In questa sede si
vuole proporre l’analisi delle esecuzioni di due brani musicali, di sei
giovani pianisti (da 10 a 14 anni). I brani musicali oggetto dell’analisi
sono Study for the left hand, dal Volume I di For Children di Béla
Bartók, e Erster Verlust da Album für Jugend Op. 68 di Robert
Schumann, e presentano caratteristiche strutturali e tecniche molto
diverse.
L’obiettivo principale della ricerca è di rilevare quanto le scelte
esecutive dei giovani pianisti sono guidate –sotto l’aspetto analiticoda un pensiero implicito, e quanto da un pensiero esplicito, quindi, in
qualche modo, anche consapevole.
La comunicazione sarà, quindi, divisa in 4 parti:
1)
Introduzione
esplicativa
sulla
problematica
dell’analisi
dell’esecuzione;
2) Presentazione del protocollo: soggetti, materiali, procedura,
metodo analitico;
3) Risultati;
4) Conclusioni.
METODO ANALITICO IMPIEGATO: Le esecuzioni sono analizzate sulla
base di semplici software di rilevazione parametrica. L’analisi di
riferimento per il raccordo tra gli elementi riscontrabili è affine a
quella indicata come “analisi precedente a una data esecuzione” da J.
Rink (2007). Lo studioso la ipotizza come lavoro preliminare allo
studio di un brano, da parte di un pianista professionista, quindi
presumibilmente consapevole sia degli aspetti analitici sia di quelli
tecnico-esecutivi. I temi di maggiore interesse di questo tipo di analisi
sono: le articolazioni formali e armoniche; le variazioni di tempo; le
dinamiche; profilo melodico e suoi elementi costitutivi; impianto
ritmico. Questo tipo di analisi non apporta sostanziali innovazioni
rispetto alle usuali tecniche analitiche, ma tiene conto delle
particolarità di scrittura in relazione alla tecnica esecutiva.
APPORTI DEL PROPRIO CONTRIBUTO RISPETTO ALLO STATO
ATTUALE DELLE CONOSCENZE: Sebbene esistano numerosi contributi
autorevoli sia sugli aspetti cognitivi dell’esecuzione musicale, sia
sull’analisi dell’esecuzione, l’attenzione è spesso rivolta a musicisti
professionisti, comunque adulti, oppure a casi particolari di soggetti di
età giovane, ma con caratteristiche particolari. La presente ricerca
guarda invece a una fase di formazione dei musicisti. La fascia di età
dei soggetti è stata infatti scelta perché nell’ambito di un percorso di
studi pianistico “professionalizzante”, in genere, gli allievi sono
impegnati a quest’epoca nella preparazione del primo importante
traguardo a livello esecutivo, corrispondente all’esame del quinto anno
del Conservatorio; oltre ciò, in queste età è individuata la seconda
delle tre fasi di sviluppo del pianismo concertistico [Sosniak 1985;
Sloboda 1994] in cui ha luogo un incremento delle ore di studio, il
metodo di studio diventa più autonomo e sistematico, si frequentano
lezioni con insegnanti esperti, e comincia a prendere forma un
maggiore affinamento delle capacità tecniche e una maggiore
consapevolezza delle qualità espressive della musica, sebbene ancora
non sia formalizzato l’apprendimento dell’analisi.
Senza pretese di esaustività, si propone quindi un’applicazione
interdisciplinare degli strumenti dell’analisi musicale, e delle discipline
di area psico-pedagogica con riferimento allo strumento musicale.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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Quinta sessione
Il Novecento popolare e di tradizione orale
Emilio Capalbo
Concezione modulare e sue evoluzioni nella popular music
Sin dalle sue origini la musica folk afroamericana mise in
evidenza delle peculiarità che la rendevano profondamente differente
da qualunque altro stile musicale allora diffuso nei futuri Stati Uniti.
Come ben noto tali differenze riguardavano vari ambiti, da quello
dell’emissione vocale a quello della natura dei testi, dalle connotazioni
ritmiche al materiale “scalare” usato; ma è sempre stato poco
studiato un aspetto che si è rivelato strutturante e decisivo nello
sviluppo di tutta la popular music in qualche misura debitrice a tale
matrice “nera”, ovvero quello della concezione modulare, istintiva per
gli schiavi in quanto in qualche modo insita nella musica popolare
africana che essi, seppure progressivamente e inevitabilmente
contaminata, riproponevano. E’ noto anche che uno degli esiti più
macroscopici della commistione tra la musica popolare afroamericana
e quella “bianca”, in gran parte derivata dalla tradizione europea sia
popolare che colta, sia stato quello della “regolarizzazione” metrica del
blues, che ebbe poi tra gli esiti più evidenti la standardizzazione della
nota struttura delle 12 misure, ormai considerata tipica del blues
stesso. Tale struttura è stata fonte costante d’ispirazione per decine di
generazioni di musicisti; ma si sa che la parabola del rock, dal rhythm
and blues ai giorni nostri, ha visto la frequente sostituzione della
struttura originaria con altre, spesso più simili a quelle classiche
occidentali (8 o 16 battute), e a volte anche asimmetriche. Ciò a cui
raramente si è dato peso è come queste strutture siano debitrici in
misura simile sia alla fraseologia musicale della musica europea
(anche in questo caso sia popolare che colta) che appunto a quella del
blues. Le 12 battute erano organizzate in maniera che possiamo
definire appunto “modulare”: 3 moduli da 4 battute ciascuno,
imperniati sui 3 accordi cui nella musica tonale si attribuiscono
caratteristiche funzionali chiare e forti, ossia tonica, sottodominante e
dominante; e su questa base procedevano, oltre che l’ambito
armonico, anche quello melodico e quello ritmico. Per quel che
riguarda quest’ultimo il “modulo” si è evoluto nella “pattern”, base di
lavoro di ogni sezione ritmica che approcci un brano rock o pop di
qualsivoglia genere o stile. Dal punto di vista melodico le strutture
figlie dirette del blues sono rimaste monotematiche e quasi mai
modulanti (eccezion fatta nella musica pop per la cosiddetta
“modulazione del camionista”, con la trasposizione del chorus un
semitono sopra), e pressoché sempre modulari; quelle derivate dalle
strutture di 8 o 16 battute (a loro volta figlie delle 12 tramite processi
di compressione o dilatazione dei moduli) hanno piegato verso una
forma bipartita o tripartita di tipo strofico (strofa-ritornello + bridge).
La concezione modulare trova applicazione anche nelle strutture
armoniche e nella loro evoluzione; esse appaiono di norma
organizzate secondo dei clichet comunemente noti come “giri
armonici”, in sé spesso non distanti dai normali concatenamenti che si
studiano in qualunque manuale di armonia classica, anche se sovente
le logiche centrifughe rispetto alla tonalità innestate dal blues creano
delle anomalie rispetto agli standard dell’armonia sette/ottocentesca.
Con grande frequenza tuttavia le strutture armoniche risultano essere
imperniate su micro-moduli quali i riff, che per prassi esecutiva
soprattutto chitarristica (in particolare quella dei power chords)
diventano allo stesso tempo giri armonici e quindi strutturalmente
rilevanti anche a livelli superiori, o costruite a partire da semplici
pattern, modulari per definizione, in grado comunque di sorreggere
l’intero impianto formale; e a livelli ancora superiori appaiono come
risultanti dalla stratificazione di moduli (pattern ritmiche, riff,
concatenamenti armonici) spesso tra loro intercambiabili o comunque
ricomponibili all’occorrenza. La forza dell’ostinata iterazione ritmica,
melodica e armonica, che da decenni è l’ingrediente irrinunciabile
della maggior parte della popular music, e che di fatto è ottenuta
tramite l’enfatizzazione a vari livelli di strutture modulari, appare il
grimaldello principale con cui vengono colpiti i canali percettivi degli
ascoltatori di oggi; strutturalmente appare affascinante e al contempo
utile da approfondire in modo analitico e teorico notare in quali modi i
moduli siano stati e tuttora siano organizzati per produrre il risultato
artistico finale. Il saggio che presenterò intende ricostruire nelle sue
linee fondamentali i risultati cui tale ricerca mi ha condotto finora,
nonché mostrare i prossimi obiettivi della ricerca stessa.
***
Marco Francesco Lutzu
La riscoperta di una polifonia di tradizione orale : il caso di Nughedu
San Nicolò
BREVE DESCRIZIONE DELL’ARGOMENTO E DEGLI OBIETTIVI DELLA
RICERCA. Nughedu San Nicolò è un piccolo centro di circa mille
abitanti situato nella Sardegna settentrionale. A partire dal 1994 un
gruppo di giovani del paese si sono attivamente impegnati per
recuperare la tradizione di canto polifonico ormai in disuso da alcuni
decenni. Tale polifonia, denominata a cuncordu, è attualmente diffusa
in circa quindici paesi della Sardegna centro settentrionale, connessa
perlopiù ai sodalizi confraternali, legata principalmente alla
celebrazione dei riti della Settimana Santa e trasmessa
esclusivamente per via orale. Il recupero della tradizione di canto
nughedese è passata attraverso alcune tappe significative: il
ritrovamento di vecchi quadernetti che riportavano i testi di alcuni
canti, la registrazione di vecchi confratelli che ricordavano alcuni dei
profili melodici, le lezioni informali prese dai cantori di un paese vicino
ecc. Oggi, a distanza di quindici anni, a Nughedu il canto a cuncordu è
nuovamente funzionale e la polifonia di cantori e confratelli è
un’immancabile elemento sonoro in occasione di matrimoni e funerali,
di feste patronali e, soprattutto, della Settimana Santa.
Basato su una ricerca sul campo che porto avanti dal 2004, lo studio
della realtà nughedese si rivela assai interessante sotto diversi
aspetti, sia di natura antropologica che di natura strettamente
musicologica. Dopo una breve descrizione delle modalità di recupero
del canto e degli attuali contesti esecutivi, focalizzerò il mio intervento
su aspetti strettamente analitici relativi ai sei principali brani che
compongono il repertorio. Basandomi sulle metodologie di analisi della
polifonia di tradizione orale sarda proposte da Bernard Lortat-Jacob
(1996) e Ignazio Macchiarella (2008), proporrò un’analisi delle
macroforme, delle configurazione accordali, dei movimenti delle parti
e dell’organizzazione del tempo evidenziando le specificità della
tradizione di canto nughedese a confronto col più ampio fenomeno del
canto a cuncordu della Sardegna.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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Lucca 1996.
MARCO LUTZU (a cura di), Sa passione. La riscoperta del canto a Nughedu
San Nicolò, Live Studio, Cagliari 2009.
IGNAZIO MACCHIARELLA, Il falsobordone fra tradizione orale e tradizione
scritta, Libreria Musicale, Lucca 1995.
IGNAZIO MACCHIARELLA (a cura di), L'analisi nell'etnomusicologia,
«Bollettino di Analisi e Teoria Musicale — Monografie G.A.T.M.», 2000, VII/1.
IGNAZIO MACCHIARELLA, Cantare a cuncordu. Uno studio a più voci, Nota,
Udine 2008.
***
Giuseppe Massimo Rizzo
Analisi delle interazioni musicali nella musica strumentale dell'isola di
Veglia (Golfo del Quarnaro, Croazia)
L'analisi della musica strumentale dell'isola di Veglia storicamente ha
prevalentemente interessato la dimensione scalare della cosiddetta
“scala istriana” (MATETIĆ-RONJGOV 1939; ŽGANEC 1963; BONIFAČIĆ
2001) in quanto i toni prodotti dai due strumenti che costituiscono il
contesto esecutivo standard e privilegiato (una coppia di suonatori di
sopele, oboi popolari non temperati di differente registro) sono da
sempre considerati i piu` arcaici progenitori d'una diafonia
ampiamente diffusa e contaminata da elementi sociomusicali urbani
nell'ambito della penisola istriana meridionale e del litorale
quarnerino. Gli aspetti formali - quali l'uso del moto contrario tra le
due parti, l'andamento per seste non temperate e l'uso delle ottave
nelle cadenze, l'analogia con i canti kanat e tararankanje (BONIFAČIĆ
1996; BOERSMAA E KOVAČIĆ 2006) e la differenziazione di generi e
stili - sono stati approcciati, in alcuni casi analiticamente ma nella
maggior parte dei casi soltanto descrittivamente, da studiosi che si
sono soffermati prevalentemente su aspetti formali statici e non sulle
processualita` dinamiche oppure hanno indagato precipue proprieta`
antropologiche ed etnologiche sorvolando su questioni di forma
musicale.
Attraverso l'analisi musicale si cerchera`, invece, di penetrare
all'interno delle dinamiche interattive che costrituiscono, di per se,
all'occhio dell'analista, performance musicali formalmente variabili. In
tal modo e` possibile comparare il travaso di melodie e stili da una
localita` ad un'altra, la modificazione sincronica e diacronica di stili,
l'invenzione e la "localizzazione" di repertori ed analizzarne le diverse
strategie interattive musicali. I tentativi di codificazione del repertorio
per sopele infatti non hanno affatto tenuto in considerazione l'aspetto
dinamico della performance generando un corpus fisso, categorizzato
in stili di danza, generi e differenti stili locali, collocando "brani" di
"musica popolare" in una dimensione astorica ed al di fuori delle
relazioni sociali. La concettualizzazione indigena del fare musica
(ZEMP 1978,1979; FELD 1982; AMES-KING 1971; STONE 1982) e la
pratica dialogica dell'esperienza sul campo (GALLINI E SATTA 2007)
hanno fornito la base per la scelta dei criteri analitici.
In questo senso gli strumenti 1) dell'analisi spettrale e scalare
computerizzate, 2) della comparazione di performance di sopele
trascritte attraverso segni gesturali su di un rigo musicale di sei linee
e 3) della generazione di diagrammi di flusso che mostrano l'aspetto
interattivo di queste musiche ed, infine, 4) la loro comparazione
diacronica e sincronica, possono fornire un efficace
sistema di comprensione delle pratiche musicali strumentali dell'isola
di Veglia.
L'analisi spettrale e scalare, innanzitutto, mostra che i comportamenti
ritualistici (složit) che precedono una esecuzione di qualsivoglia
genere o stile hanno una funzione negoziale timbrica e scalare (es.1)
che tende a “mettere d'accordo” musicalmente i suonatori (oltre che
avere altre funzioni ritualistiche). Le caratteristiche organologiche che
sottostanno alla produzione timbrica e scalare in realta` non fanno
altro
che
trasmettere
generazionalmente
una
tendenziale
"potenzialita`" scalare – e non una scala "determinata" e fissa come è
stato invece evidenziato altrove - che è poi effettivamente negoziata
sul campo dai suonatori di sopele (es.2); l'atto ritualistico che precede
la performance, però, non "accorda" i toni dei due strumenti come
farebbero i membri di un'orchestra tramite il diapason o di suonatori
di popular music tramite un "tuner" ma, soffermandosi sulle
relazioni di ottava, raggiunge il proprio scopo allorche` l'equilibrio di
ottava permette ai suonatori di percepire il rafforzamento di alcuni
armonici superiori comuni ai due strumenti. Si ha così una sensazione
affettiva di "armonia", fra i due strumenti e suonatori, che innesca la
performance effettiva e quindi l'interazione motivica e ritmica.
L'uso di trascrizioni gesturali (es.3) invece che di trascrizioni
diastematiche classiche nasce dall'esigenza di comparare frammenti
melodici in un contesto di dimensioni scalari eterogenee le cui funzioni
tonali non sono date dal costrutto scalare in sè ma dalla posizione che
i toni occupano sullo strumento e dalla loro diteggiatura. Dalla
comparazione di tali performance si comprende
perche` musiche formalmente molto diverse siano indicate dai
suonatori come "stesso brano”. Ciò accade in quanto siamo di fronte a
forme musicali in cui – entro un frame astratto che potremmo indicare
come “repertorio” di frasi e periodi - la proliferazione e
giustapposizione motivica polivocale (cioè della tessitura verticale)
segue regole interattive e di storia della relazione tra i suonatori: a
seconda del grado di qualità della relazione tra i due suonatori si
potranno inserire nuove melodie o costruirne di nuove ed essere più o
meno sicuri di essere musicalmente "seguiti" (ed infatti i più bravi
suonatori sono quelli che sono kumpanj). Mettere a punto diagrammi
di flusso (es.4) che mostrano analiticamente l'interattivita` delle
performance significa, dunque, mostrare questa relazione dinamica.
Come dicevo all'inizio – invece – la relativamente ricca tradizione di
studi che si e` occupata del fenomeno della diafonia istriana e dalla
musica strumentale dell'isola di Veglia si è fermata a descrivere
aspetti statici oppure ha del tutto sorvolato la questione soffermandosi
sulla dimensione etnografica e/o simbolica. Nel mio internvento tento
di inserire nel campo dell'analisi formale
musicale
le
modalità
processuali
dell'interazione
tra
due
persone/suonatori. Tale interazione, che non è necessariamente
comunicativa (GOFFMAN 1969), si svolge privilegiando il canale
sonoro e rapportando ascolto, comportamento gesturale, il campo
delle concettualizzazioni e categorizzazioni diffuse del fare musica, ed
il loro essere storia orale, in un processo il cui prodotto cristallizato
esiste solo per l'analista ma le cui regole, invece, si attuano e
perpetuano giorno dopo giorno nella comunità stessa.
Bibliografia citata
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University Press, Evanston Illinois.
Besić, Jerko 1976 "The tonal framework of folk music in Yugoslavia". The
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1981 "Stilovi folklorne glazbe u Jugoslaviji". Zvuk 3: 33-50.
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Bonifačić, Andrija 1971 "Narodno pjevanje na Otoku Krku u sklopu muzike
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Bonifačić, Ruža 1996 "Tarankanje. A Disappearing Music Tradition". Narodna
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Feld, Steven 1982 Sounds and sentiments. Birds, Weepings, Poetics and
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Gallini, Clara e Satta, Gino
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Goffman, Ervin 1969 L'interazione strategica. Il Mulino, Bologna.
Matetić-Ronjgov, Ivan
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Prašelj, Dušan 2005 "Ivan Matetič-Ronjgov i Otok Krk". Krčki Festival 19352005, pp.45-46, Centar za Kulturu Grada
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Stone, Ruth M. 1982 Let the Inside Be Sweet. The Interpretation of Music
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Zemp, Hugo 1978 "'Are'are classification of Musical Type and Instruments”.
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- 1979 "Aspects of 'Are'Are Musica Theory”. Ethnomusicology, vol. 23/1,
pp.5-48
Žganec, Vinko 1963 “La gamme istrienne dans la musique populaire
yougoslave". Studia Musicologica Academiae Scientiarum Hungaricae, T. 4,
Fasc. 1/2, pp. 101- 128
***
Alessandro Bratus
Scrittura e riscrittura nei Basement Tapes di Bob Dylan: Ode To Billie
Joe di Bobbie Gentry e Clothesline Saga (Answer To Ode)
I meccanismi alla base della composizione nella popular
music,nonostante alcuni tentativi teorici come quelli di Allan Moore
(1997, 2001), Richard Middleton (1994), Vincenzo Caporaletti (2005,
2007) e altri studiosi prevalentemente di area anglosassone, sono
ancora al centro di un dibattito
in corso. Spesso tali processi passano, in maniera più o meno diretta,
dalla rielaborazione di influenze, generi, interpreti, o canzoni
preesistenti. La difficoltà nel fare luce su questo fondamentale
momento nella messa a punto di una canzone popular è spesso
dovuta alla mancanza di fonti che testimonino parte della genesi della
canzone, prima questa che venga fissata dalla pubblicazione ufficiale
su disco.
Partendo da questi presupposti, il paper presentato cercherà di
mostrare come si comportino Bob Dylan e suoi musicisti nel ricavare
una vera e propria canzone-risposta da una hit da classifica come Ode
To Billie Joe di Bobbie Gentry, contemporanea ai Basement Tapes
(1967). Questa trasformazione è funzionale alla creazione di un
oggetto da tutti i punti di vista ‘nuovo’ e ‘originale’, che passa
attraverso un processo non solamente di variazione su uno schema
dato, ma di vera e propria composizione, capace di unire in un
pensiero unitario i diversi livelli strutturali della canzone. Saranno
discussi i molti elementi che le accomunano e che confermano un
rapporto di discendenza diretta da una all’altra, mettendone in
evidenza i motivi di vicinanza formale, espressiva, musicale.
Clothesline Saga fornisce un caso palese di quelli che Richard
Middleton ha chiamato fenomeni di autoriflessione, fondamentali in
tutti i tipi di comunicazione in cui sia coinvolto «[…] un linguaggio che
significa sè stesso.» (Middleton: 1994: 302. La citazione riportata da
Richard Middleton è tratta da Jakobson (1960) Lo studioso inglese
distingue diversi tipi di autoriflessione, che si organizzano in un
processo di significazione in cui «[…] il principio interpretativo è
interamente strutturale: il significato di particolari unità risiede non in
che cosa sia la loro sostanza, ma nel loro rapporto (contrasto,
equivalenza, proporzione, analogia, e così via).» (Middleton, 1994:
305).
Interpretata in tale modo la popular music appare, allora, come un
campo percorso da unità comunicative provviste di forti legami
reciproci, che negoziano il loro significato in base ai rapporti e alle
influenze del singolo numero musicale rispetto a un contesto più
ampio, quindi essenzialmente in base a fenomeni di tipo stilistico e
intertestuale. In questa situazione tentare di
capire che tipo di connessione esista tra una determinata canzone e il
suo modello non è solamente una questione interessante sotto il
profilo analitico, ma diventa un elemento cruciale attraverso il quale
investigare il significato di ogni manifestazione poetico-musicale; si
potrà in questo modo inserirla in quella rete di riferimenti verbali e
musicali dal quale procede la sua composizione, come rielaborazione
di uno (o più) precedenti. Negli studi musicologici su un’altra
tradizione non scritta contemporanea, il jazz, il concetto di
autoriflessione è stato utilizzato soprattutto per lo studio
dell’improvvisazione, come nei lavori di John Murphy (1990) o Ingrid
Monson (1996). Tali operazioni partono proprio dal concetto di
intertestualità o, più specificamente di intermusicalità, per spiegare
come nella musica basata sull’estemporizzazione di strutture
soggiacenti (i cosiddetti “standard”) i diversi pezzi si relazionino tra
loro. Recuperare questo concetto più a largo raggio per lo studio della
popular music, e in particolare per i Basement Tapes, sembra essere
una strada utile da percorrere per avvicinarsi al significato delle
registrazioni nel loro complesso, come repertorio che nasce in larga
parte sulla base di procedimenti di selezione e ripresa di materiale
preesistente.
Bibliografia essenziale
CAPORALETTI, VINCENZO
2005 I processi improvvisativi della musica. Un approccio globale, Lucca,
LIM.
2007 Out-Bloody-Rageous (Soft Machine, "Third",1970). La logica dialettica
della musica audiotattile, “Philomusica on-line”, numero speciale (Atti del
Convegno internazionale "Composizione e sperimentazione nel rock
britannico 1966-1976", a cura di Gianmario Borio e Serena Facci),
disponibile
all’indirizzo
http://www.unipv.it/britishrock19661976/testiit/cap1it.htm
MIDDLETON, RICHARD
1994 Studiare la popular music, Milano, Feltrinelli (ed. or. Studying Popular
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MOORE, ALLAN
1997 Anachronism, Responsibility And Historical “Intension”, «Critical
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Journal»,
disponibile
all’indirizzo:
http://www.leeds.ac.uk/music/Info/critmus/articles/1997/03/01.html
- 2001 Rock: The Primary Text. Developing A Musicology Of Rock, Aldershot,
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MONSON, INGRID
1996 Saying Something: Jazz Improvisation And Interaction, Chicago, The
University of Chicago Press.
MURPHY, JOHN P.
1990 Jazz Improvisation: The Joy Of Influence, «The Black Perspective In
Music», 18/1-2, pp. 7-19.
Sesta sessione
Avanguardie colte del Novecento
Alfonso Alberti
Ortografia e funzioni armoniche nella produzione atonale di
Skrjabin
Stato attuale delle conoscenze sull’argomento: Il problema è
assolutamente decisivo per la comprensione della musica di Skrjabin.
La questione è stata posto in ambito internazionale: un primo articolo,
ad opera di George Perle, diede al problema una soluzione in sé
coerente (ma sostanzialmente avulsa da altre caratteristiche della
pagina musicale, perciò con un potere esplicativo molto limitato). Un
secondo articolo di Cheong Wai-Ling dà invece una spiegazione dotata
di potere esplicativo ben maggiore. Le conseguenze di questa nuova
proposta analitica vengono però solamente additate, e non vengono
trattate alcune notevoli conseguenze, cioè la possibilità di riflettere in
maniera nuova sulla centripecità e gerarchizzazione della sintassi
armonica di Skrjabin.
Contributo allo stato attuale delle conoscenze sull’argomento:
chiarificazione e integrazione delle soluzioni al problema ortografico.
Proposta originale per la descrizione di una dialettica e di una
gerarchizzazione a più livelli della sintassi armonica di Skrjabin.
Metodo: indagine armonica funzionale, con supporto della pcs-theory.
Sintesi dei contenuti della ricerca
Il problema: Nella produzione atonale di Skrjabin, e in particolare nei
suoi ultimi lavori, capita di trovare ortografie in apparenza
stravaganti. La stessa classe di altezze può avere due ortografie
diverse, anche se enarmonicamente equivalenti, a breve distanza
l’una dall’altra. Intere sequenze melodiche possono trovarsi scritte
(anche qualora non vengano trasposte) in due modi diversi nella
stessa composizione.
La soluzione di George Perle: Le ortografie sono cangianti perché
fanno riferimento a sistemi ottatonici (o eptatonici derivati) in
continuo cambiamento, e che danno coerenza a ogni punto della
partitura. Perle ricostruisce i sistemi ottatonici skrjabiniani col criterio
(semplice, ma limitante) di non avere mai due classi di altezze
consecutive con lo stesso nome: mai mib-mi in successione, per
esempio. Essendo i gradi di una scala ottotonica otto e i nomi delle
note sette, una ripetizione deve comunque esserci, e si verifica fra il
primo e l’ultimo grado della scala. Esempio: si-do-re-mib-fa-solb-labsibb.
Il limite consiste nel fatto che, se è ora possibile spiegare il cambio di
ortografia attraverso un cambio di scala ottatonica di riferimento non
è possibile spiegare perché
La soluzione di Cheong Wai-Ling (integrata da un’enfasi particolare sul
concetto di funzione armonica): Skrjabin usa il sistema ottatonico che
gli consente di scrivere l’accordo (in genere pseudo-dominantico)
soggiacente nella maniera standard (che consenta cioè di non tradirne
la funzione). Per esempio, se la sonorità di riferimento in un certo
punto del brano è 0-4-10, occorre usare un sistema ottatonico che
consenta di scrivere queste tre classi di altezze come do-mi-sib, e non
certo come do-fab-sib.
(Si impone, ovviamente, una riflessione su cosa sia “la” funzione di un
oggetto neutro come 0-4-10, che in altri autori potrebbe configurarsi
per esempio come sesta eccedente; in realtà il contesto locale, e
anche l’evoluzione del linguaggio armonico skrjabiniano, sciolgono i
principali equivoci possibili).
Nei sistemi ottatonici di Wai-Ling la ripetizione del nome della nota
avviene all’interno della scala ottatonica. Esempio: si-do-re-re#-mi#fa#-sol#-la.
Questo permette di avere la nota iniziale della scala coincidente con la
fondamentale dell’accordo dominantico di riferimento (si-re#-la, per
esempio), mettendo perciò in relazione l’ambito armonico funzionale e
quello ortografico.
Generalizzazione della regola: l’accordo può anche non essere
dominantico. Si propongono esempi di accordi diversi che generano
un sistema scalare e un’ortografia conseguente.
Discussione delle eccezioni alla regola: Per esempio, una triade scritta
come sovrapposizione di terza minore e terza maggiore e poi, qualche
battuta dopo, in un contesto identico, la sua trasposizione scritta
come seconda eccedente più quarta diminuita.
Obiettivo vero e proprio della relazione, cioè analisi delle conseguenze
di questo approccio: se è vero che a generare le scale (che a loro
volta determinano le ortografie) sono degli accordi dotati di una certa
funzione (e per non tradire ortograficamente questa funzione Skrjabin
ha scelto una scala ottatonica piuttosto che un’altra), allora è da
incoraggiare in maniera massiccia una riflessione sulla musica di
Skrjabin che si basi sul concetto di funzione armonica.
Cheong Wai-Ling mostra la parentela fra il cosiddetto accordo mistico
e la scala ottatonica con uguale nota di riferimento. Si può andare ben
oltre e mostrare come le funzioni dominantiche, dopo avere perso la
necessità di risolvere sulla funzione di tonica, restino la funzione
principe della musica di Skrjabin e si incarnino in vocaboli armonici
morfologicamente affini e funzionalmente identici. La perduta
dialettica fra dominante e tonica si realizza ora in tre modi diversi:
- dialettica (lessicale) fra accordi dominantici e non dominantici (in
genere aventi la triade minore come sottoinsieme)
- dialettica (lessicale) fra diversi generi di sonorità dominantiche (0-24-6-9-10, 0-1-4-6-9-10, 0-2-6-9-10, ecc.)
- dialettica (sintattica) fra dominanti costruite su diversi gradi (tutte
da relazionale al suono di riferimento iniziale e finale, che in
composizioni di piccole-medie dimensioni è sempre unico).
Acquistano importanza i cicli di trasposizione (in primis quelli di terza
minore, terza maggiore e seconda maggiore). In particolare, il
discorso ortografico aiuta a chiarire come le trasposizioni a distanza di
terza minore siano veramente un evento potenzialmente tensivo,
nonostante il contenuto di classi di altezze non subisca cambiamenti
(ma il loro uso sì).
Riassumendo: si tratta di una proposta analitica che va nella direzione
di un’interpretazione funzionale e gerarchizzata della sintassi
armonica skrjabiniana; si è scelto il problema ortografico come via di
approccio privilegiata.
Bibliografia minima
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(primavera 1980), pp. 1-18.
George Perle, Scriabin’s Self-Analyses, «Music Analysis», III/2 (luglio 1984),
pp. 101-122.
James M. Baker, The Music of Alezander Scriabin, Yale University Press, New
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Allen Forte, New Approaches to the Linear Analysis of Music, «Journal of the
American Musicological Society», XLI/2 (estate 1988), pp. 315-348.
Cheong Wai-Ling, Ortography in Scriabin’s Late Works, «Music Analysis»,
XII/1 (marzo 1993), pp. 47-69.
Elliott Antokoletz, Transformations of a Special Non-Diatonic Mode in
Twentieth-Century Music: Bartok, Stravisnky, Scriabin and Albrecht, «Music
Analysis», XII/1 (marzo 1993), pp. 25-45.
Clifton Callender, Voice-Leading Parsimony in the Music of Alexander
Scriabin, «Journal of Music Theory », XLII/2 (autunno 1998), pp. 219-233.
Susanna Garcia, Scriabin’s Symbolist Plot Archetype in the Late Piano
Sonatas, «19th-Century Music», XXIII/3 (primavera 2000), pp. 273-300.
Richard Bass, Half-diminished Functions and Transformations in Late
Romantic Music, «Music Theory Spectrum», XXIII/1 (primavera 2001), pp.
41-60.
***
Patrizia Mazzina
La musica gestuale di John Cage
Stato attuale delle conoscenze sull’argomento: numerosi sono i lavori
intorno
all’opera e il pensiero di John Cage, in particolare, le riflessioni circa il
rapporto che lega il compositore statunitense con il mondo orientale
(PORZIO MICHELE, Metafisica del silenzio. John Cage, l’oriente e la
nuova musica) e l’influenza che questa dimensione ebbe sulla
concezione stessa del comporre attraverso l’utilizzo di pratiche
aleatorie e dell’introduzione stessa del “caso” nell’ambito del processo
compositivo. Insieme alle numerose ristampe delle diverse
“conversazioni” con Jon Cage (CAGE JOHN, Per gli uccelli.
Conversazione con Daniel Charles; R. KOSTELANETZ (a cura di), John
Cage. Lettera ad uno sconosciuto) e gli scritti dello stesso compositore
(CAGE JOHN, Silence. Lectures and Writings; CAGE JOHN, A Year from
Monday). Non sono, inoltre, da dimenticare i diversi contributi di
analisi e riflessioni emersi nell’ambito di giornate di studi come, ad
esempio, quelle del Convegno di studi Riva
del Garda, L’espressione si sviluppa in colui che la percepisce,
incentrante,
principalmente, sulla produzione caegiana a partire dal periodo
cosiddetto
“romantico”, sulle tecniche “aleatorie” ed elettroacustiche utilizzate e
sperimentate dal compositore.
Contenuti principali della comunicazione e obiettivi della ricerca: da
una prima
analisi complessiva del materiale bibliografico e discografico a
disposizione, il
presente progetto si propone di individuare le “categorie estetiche”
che consentono di delineare una cosiddetta poetica del gesto
nell’ambito di alcune partiture scelte tra le opere di John Cage (Water
Music del 1952; Water Walk e Sound of Venice del 1959; Music Walk
del 1958 e Theater Piece del 1960). Obiettivo della ricerca è
individuare le strutture e le forme che consentono di definire un’opera
musicale come opera gestuale e i diversi e molteplici scambi che la
gestualità innesca tra la dimensione sonora e quella visiva (sia esso
un gesto esecutivo-performativo o un gesto iconiconotazionale). Il
gestualismo musicale si sviluppa, dunque, nell’opera di Cage,
all’interno di due diversi e variegati livelli di percezione della
comunicazione e della trasmissione: da un lato attraverso una
gestualità performativa (attraverso il valore extramusicale innescato
dalla consapevole “azione-gesto” dell’interprete sullo spettacolo
complessivo oltre che sul risultato sonoro) e dall’altro attraverso una
gestualità iconografica, dove lo spazio fisico della pagina e la stessa
notazione
tendono a “visualizzarsi” in vere e proprie partiture-immagini volte a
conferire al segno un immediato valore visivo ed espressivo che
supera i limiti delle tradizionali convenzioni semiografiche.
Apporti del proprio contributo rispetto allo stato attuale delle
conoscenze: il presente progetto si propone di approfondire, da una
diversa prospettiva, il lavoro di John Cage: seguendo la strada del
gestualismo (o poetica del gesto) si vuole sostanzialmente
ripercorrere le tappe e i momenti in cui il linguaggio musicale, le
convenzioni performative e notazionali subirono un totale
stravolgimento attraverso un’osmosi costante tra la dimensione
scenico-visiva, semiografica nonché sonora. Le partiture scelte
appartengono tutte alla categoria della musica cosiddetta gestuale,
oltre a costituire un corpus di opere strettamente legate tra loro
come, del resto, lo stesso Cage ebbe modo di scriverci: «Prima di
Theater Piece (1960) avevo fatto due pezzi per la televisione. Uno si
chiamava Water Walk e l’altro Sound of Venice (1959). L’avevo
chiamato Water Walk (1959) per via di Music Walk (1958); e Music
Walk, penso che lei sarà d’accordo con me, è un lavoro teatrale. Prima
di Music Walk c’era stato Water Music (1952). Questi titoli vorrebbero
dimostrare che tutti questi lavori sono legati tra loro […]» (R.
KOSTELANETZ (a cura di), John Cage. Lettera ad uno sconosciuto). Si
propone, pertanto, come utile supporto alla ricostruzione di un profilo
estetico più dettagliato della poetica del gesto caegiana, la lettura e
l’analisi delle partiture delle opere selezionate, rispetto alla letteratura
attualmente esistente.
Bibliografia essenziale
a) Opere di carattere storico-filosofico
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b) Musicologia: apparato teorico
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***
Marco Marinoni - Simone Conforti
Anthèmes 2 di Pierre Boulez: analisi parametrico-estesica e fattibilità
dell’ambiente esecutivo elettroacustico.
Lo studio in esame è incentrato sul brano Anthèmes 2 (1997) di Pierre
Boulez, per violino e dispositivo elettronico. Il lavoro del compositore
francese, di estrema rilevanza per ciò che concerne la storia della
composizione legata all'uso delle nuove tecnologie, viene indagato
secondo due differenti tipologie di osservazione, complementari ma
diversamente focalizzate, situate in due zone autonome all’interno del
presente contributo:
1. analisi musicale e tecnologica del brano (Marinoni);
2. studio dell'ambiente esecutivo elettroacustico (Conforti).
L'argomento è stato sviluppato mediante uno studio della
composizione nel suo insieme, a partire da un’approfondita analisi
musicologica. La valutazione di fattibilità del sistema elettronico è
stata attuata tramite esperimenti di ricostruzione dell'ambiente
esecutivo. Le due parti di cui si compone questo contributo possono
essere presentate separatamente oppure confluire in un unico
intervento.
1. Analisi musicale e tecnologica del brano. L’analisi condotta sulla
partitura è di impostazione parametrico-estesica, basata sui
cambiamenti contrastivi, secondo la direzione indicata da Michel
Imberty per cui il processo di segmentazione di un brano musicale
viene strutturato a partire dalla percezione di cambiamenti qualitativi
più o meno pregnanti nel flusso del tempo musicale. Il cambiamento
contrastivo, per essere percepito, necessita che l’Io percepisca non
solo gli stati A e B ma la transizione da A a B. Il passaggio costituisce
la realtà percettiva della relazione tra le parti. B deve presentare una
qualità diversa rispetto ad A. Il cambiamento introduce una
discontinuità nel tessuto temporale attraverso due possibili modalità:
gerarchia e giustapposizione.
Attraverso la segmentazione in questo modo attuata, il brano viene
descritto prima a livello della macro-forma, articolando una
osservazione preliminare di tipo paradigmatico in cui la metodologia di
osservazione varia flessibilmente a seconda dell’oggetto osservato;
l’osservazione scende quindi al livello della micro-forma, con
l’obiettivo di individuare le cellule tematiche strutturali e la ripartizione
dei ruoli a livello morfo-sintattico. Parallelamente all’analisi dei
materiali strumentali viene indagato il ruolo dell’elettronica, alla
ricerca di congruenze o divergenze cui dare significato.
Questa metodologia mista è coerente con quanto affermato da Boulez
nello scritto “Le système et l’idée” riguardo all’importanza di osservare
un brano anche in base a come esso viene percepito piuttosto che
solamente per come esso è costruito. In questa sede non viene
pertanto attuata una esplorazione di tipo seriale focalizzata
principalmente sul parametro altezza, già esaurientemente portata a
termine da Goldman nella sua tesi. Attraverso l’indagine dei rapporti
gerarchici (asse sintagmatico) e delle relazioni orizzontali che
interessano il decorso formale del brano (asse paradigmatico)
vengono compiute inferenze qualitative circa le scelte operate dal
compositore, integrando l’osservazione analitica con un intervento di
tipo ermeneutico.
Le scelte metodologiche attuate in questo studio riprendono e
sviluppano quelle presentate nell’ articolo “Atomi distratti di Mario
Garuti” di Marco Marinoni: in quello specifico caso, le dichiarazioni del
compositore, appositamente intervistato, venivano utilizzate come
linee guida per l’organizzazione dell’osservazione; diversamente, in
questo lavoro, le parole di Boulez si configurano quale strumento di
verifica e confronto post hoc. A tal proposito, parte delle dichiarazioni
rilasciate da Boulez in occasione della prima esecuzione del brano (21
Ottobre 1997, IRCAM, Parigi) al filosofo e musicologo francese Peter
Szendy sono state tradotte in italiano e saranno rese disponibili in
appendice al testo dell’intervento.
2. Studio dell’ambiente esecutivo elettroacustico. La seconda parte di
questo contributo è focalizzata sull'interesse destato dall’ inusuale
sforzo, divulgativo ed editoriale, che ha riguardato la redazione di un
manuale tecnico a corredo dell'opera. Tramite lo studio del testo in
esame, di cui vengono attentamente valutati pregi e difetti, si giunge
ad una disamina delle possibili strade da percorrere per la
ricostruzione e la preservazione attraverso il tempo dell’ambiente
elettroacustico del brano, nella sua doppia valenza di testo musicale e
argomento di ricerca tecnologica.
L’urgenza di individuare direzioni e modalità attuative praticabili per
arginare la perdita d'informazione che colpisce le composizioni che
fanno uso delle tecnologie elettroniche muove dalla necessità di
formulare un linguaggio condiviso attraverso il quale recuperare i
brani del recente passato e garantire sostegno a una prassi non
ancora sufficientemente condivisa relativamente alle modalità di
notazione della musica elettroacustica, come rileva anche Alvise
Vidolin in un suo recente scritto.
“Nell’affrontare questo repertorio musicale […], il regista del suono
deve spesso ‘completare’ la partitura attuando scelte personali che
cerchino di rendere al meglio l’idea compositiva e che siano coerenti
con la prassi esecutiva del compositore-esecutore pervenuta il più
delle volte per partecipazione diretta o per tradizione orale. Molto
spesso si pone il problema di ‘trascrivere’ i dati prescrittivo-operativi
della partitura per renderli compatibili con le tecnologie correnti”
(VIDOLIN 2001).
Nel caso di Anthèmes 2 il problema riguarda principalmente la scelta,
da parte del compositore e dello staff di ricerca che si occupò della
realizzazione dell’ambiente esecutivo della prima esecuzione, di
includere nel manuale tecnico-operativo fornito con la partitura,
tecnologie caratterizzate da rapida obsolescenza. Lo studio
dell’ambiente elettroacustico di Anthèmes 2, relazionato al rapporto
tra notazione delle informazioni tecniche e risultati realizzativi
musicali, ha così permesso di sviluppare interessanti riflessioni a
proposito del mezzo di trasmissione dell'informazione dominiospecifica, stimolando domande circa la validità del mezzo cartaceo in
cui sono stati trascritti i procedimenti elettronici.
La ricerca di documentazione e di fonti in grado di mettere in luce le
caratteristiche di integrazione stretta tra analisi musicologica e
rapporto con l'apparato tecnologico del brano in esame ha evidenziato
la carenza di scritti a cui riferirsi per la trattazione di uno studio
impostato secondo questi criteri, generando lo stimolo per la
diffusione di una ricerca che ha l'obiettivo di andare a colmare tale
mancanza di informazioni.
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***
Simonetta Sargenti
Interazione spazio-suono e influenza fra tecnologia e
strumentale nelle ultime opere di Luigi Nono.
scrittura
Nel xx secolo sono molti i compositori la cui poetica è rivolta
prevalentemente all’approfondimento della dimensione timbrica. Tra
questi Luigi Nono, particolarmente nell’ultimo decennio (1980-1990),
ha lavorato in modo particolare sulle possibilità espressive del suono
potenziate e amplificate dall’impiego della tecnologia. La presente
ricerca è volta a definire i più significativi aspetti della poetica di Nono
all’interno dell’interazione tra suono naturale ed elaborato dal vivo o
registrato e le conseguenze di tale poetica sulla dimensione dell’opera
musicale e sulla scrittura vocale e strumentale.
Nelle ultime opere di Nono infatti, il timbro risulta essere una
dimensione assai rilevante che influisce direttamente sulla concezione
del tempo e della forma della composizione. Il modo di intendere il
suono ha una profonda influenza anche sull’importanza dell’elemento
spaziale, tanto che il suono si muove e si definisce in relazione ai
diversi spazi di produzione e di ascolto e diventa possibile parlare di
una vera e propria azione sonora, realizzata attraverso l’ interazione
tra compositore ed esecutori. Questi aspetti dell’opera sono
strettamente connessi anche all’uso delle tecnologie, soprattutto del
live electronics . Ne consegue una nuova concezione degli strumenti e
della voce che si rispecchia in modo evidente nella scrittura vocale e
strumentale.
La problematica del tempo e dello spazio in rapporto ad una possibile
definizione di “azione sonora” è stata da me fin qui studiata
basandomi sull’analisi di La lontananza nostalgica utopica futura, per
violino e nastro del 1988. Attraverso questa analisi ho messo in rilievo
le caratteristiche del ruolo dello strumento e di quello del suono
registrato e l’importanza dell’interazione tra gli esecutori che
ridefiniscono ogni volta la forma della composizione e le sue
caratteristiche anche in rapporto al luogo dell’esecuzione.
L’ influenza della tecnologia sulla scrittura strumentale è invece al
centro dell’analisi di A Pierre dell’azzurro silenzio inquietum, del 1985,
per flauto basso, clarinetto basso e live electronics, dove vi è il
tentativo di rilevare alcuni caratteri salienti della scrittura
strumentale, possibili solo in funzione della presenza della tecnologia
stessa. Un’ulteriore approfondimento riguarda l’analisi di Io,
frammento da Prometeo, un’opera che prevede l’impiego della voce,
per confermare l’ipotesi dell’interazione esecutore-compositore e
l’influenza della tecnologia sulla scrittura vocale.
Analogamente, in A Pierre appaiono chiari i legami tra il procedimento
della scrittura strumentale e il trattamento del suono dal vivo
finalizzato ad un’azione sonora. Qui, il suono si modifica con
l’elaborazione elettronica nel momento stesso in cui viene emesso e il
procedimento con cui il pezzo è costruito prevede che gli strumenti
eseguano una linea apparentemente assai semplice di suoni.
Indagando il procedimento compositivo, che implica ancora una volta
il forte coinvolgimento degli esecutori, sia strumentisti che registi del
suono, si chiarisce il senso della drammaturgia del suono sottintesa
alla composizione. La scrittura strumentale in A Pierre appare assai
statica: la maggior parte delle note sono tenute e sembrerebbe non
esserci movimento. Al contrario il movimento è proiettato all’interno
del suono stesso in virtù delle sfumature dinamiche e dei diversi modi
di attacco utilizzati. Ho rilevato raggruppando le dinamiche e i modi di
attacco in schemi, con colori differenti, che vi sono delle ricorrenze di
alcuni caratteri specifici del suono che dipendono proprio dalla
presenza del trattamento del live electronics e non potrebbero essere
tali diversamente.
Il processo di composizione di questo brano è dunque stratificato in
due livelli: una base strumentale con caratteristiche apparentemente
semplici e statiche, e l’elaborazione con il live electronics. La scrittura
strumentale sottende comunque, dietro questa semplicità apparente,
quegli stessi caratteri di mobilità interna già osservati in La
lontananza. La trasformazione dal vivo ha luogo sui vari parametri del
suono. Viene proposta anche una breve analisi della realizzazione del
live electronics.
Indicazioni bibliografiche
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A Pierre, dell’azzurro silenzio inquietum, a più cori , per flauto contrabbasso
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per violino e nastro di L.Nono, in De Musica, rivista online, gennaio 2008.
S.Sargenti, Influenza della tecnologia sulla scrittura strumentale di Luigi
Nono, EMS08 , 2008
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Emiliano De Mutiis
Livelli di lettura e pragmatiche interpretative in De Stijl (1985) di
Louis Andriessen
L’utilizzo di categorie e strumenti della teoria letteraria e della
semiotica testuale in seno all’analisi musicale è una pratica piuttosto
diffusa in musicologia, specie nei contributi più recenti. Questa
tendenza si accentua se si vanno a considerare le pratiche analitiche
riconducibili alla semiologia musicale. Il modello analitico «transstrutturalista» che Jean-Jacques Nattiez definisce in Le combat de
Chronos et d’Orphée, ad esempio, non solo risponde ad esigenze
epistemologiche molto simili a quelle proprie della «pragmatica
testuale» definita da Umberto Eco nel Lector in fabula, ma ne ricalca –
seppur non dichiarandolo apertamente – molti degli assunti
metodologici. Anche se a distanza di più di dieci anni l’uno dall’altro, i
due studiosi si muovono verso uno scopo comune: integrare in un
impianto teorico di matrice strutturalista considerazioni relative alle
strategie di creazione e di ricezione di un’opera: il primo rivolgendosi
al compositore e all’ascoltatore; il secondo all’autore e al lettore.
Analizzando le due opere, appare evidente come il lettore descritto da
Eco si comporti in modo molto simile dall’ascoltatore postulato da
Nattiez nelle sue analisi estesiche: entrambi attuano una pragmatica
interpretativa descrivibile e – seppur parzialmente – prevedibile,
richiesta dal testo – attraverso espliciti segnali – e predisposta
dall’autore-compositore: «nello stesso modo in cui, per Eco, il
romanzo crea i propri lettori, l’opera musicale crea i propri ascoltatori.
[…] un’opera, a seconda del suo grado di complessità, è responsabile
della molteplicità e della diversità delle strategie estesiche che mette
in moto» [Nattiez].
Tale pragmatica corrisponde ad una serie di azioni indispensabili per
riempire gli «spazi vuoti» [Eco] lasciati dal testo, cogliendo ricorrenze,
contrasti, variazioni, relazioni tra le parti e il tutto (semantica
introversiva) e rapportando ciò che è proprio di quel dato testo ad una
competenza
di
carattere
generale
o
specifico
(semantica
estroversiva). Ciò conduce ad un comportamento, che può essere
definito cooperativo, volto alla ricerca del senso dell’opera e
descrivibile come una serie di individuazioni e riconoscimenti
progressivi e concentrici; ma anche “a balzi”, tra i diversi piani
significanti del testo musicale e non (discorsivo, narrativo, attanziale e
ideologico), nella costante oscillazione tra un processo percepito e una
conoscenza attualizzata (tra universo intro- ed estro-versivo).
Applicando quindi esplicitamente la lente metodologica del Lector in
fabula, corredata anche da altri e successivi assunti teorici di Eco,
l’intevento mirerà a definire i livelli di lettura e le pragmatiche
intepretative possibili della composizione De Stijl (1985) di Louis
Andriessen, schiudendo inedite prospettive in merito ad essa.
Vedremo quindi come, ad un primo livello di lettura, l’ascoltatore
attuerà una pragmatica interpretativa a partire sia dai dati sonori
percettivamente più evidenti (in virtù delle loro connotazioni culturali
e grazie ai “comportamenti musicali” predisposti a tal fine), sia da
quelli semiologicamente richiedenti un minor grado di competenza
specialistica; incrociando questi dati con una serie di informazioni
facilmente accessibili sull’opera (come le informazioni da “booklet di
CD” o da “note di sala” riguardo il soggetto della composizione, la
poetica del compositore, l’organico nonché il contenuto dei testi
cantati), egli potrà accedere ad un primo livello di senso. Il confine
(semiologico e percettivo) tra questo e il successivo è predisposto dal
compositore in base alla sua idea del pubblico e stabilito dal
musicologo per ogni analisi (facendo appello, ad es., a quella che
Nattiez chiama «introspezione percettiva»). Proprio come il lettore
descritto da Eco, tale ascoltatore attuerà una cooperazione
interpretativa con la superficie sonora di De Stijl e le informazioni da
esso possedute, muovendosi tra strutture attuanziali, ideologiche,
discorsive e narrativo-formali e arrivando facilmente all’identificazione
di importanti nodi di senso, come la tripartizione dell’opera, la
fortissima caratterizzazione stilistica delle prime due parti (richiamanti
mondi stilistici differenti e lontani nel tempo), l’evidente diminuzione
di questa caratterizzazione nella terza parte e i legami tra tutto questo
e i testi cantati.
Ad un secondo livello di lettura, all’ascoltatore subentrerà un
ascoltatore-musicologo, che scenderà a livelli di senso attualizzabili
attraverso competenze specialistiche e analisi testuale. A questo
secondo livello di lettura, la cooperazione intepretativa si servirà di
una più approfondita indagine sulla poetica del compositore
(attraverso interviste, scritti teorici, schizzi formali), di altre analisi
musicologiche della stessa opera, nonché di una dettagliata analisi del
testo musicale; si arriverà così ad evidenziare la presenza di relazioni
armoniche, motiviche e testurali, di ricorrenti e geometrici rapporti
formali, e a definire il ruolo strutturale di determinati «strati» ritmicostilistici, mettendo in relazione aspetti narrativi (provenienti dal testo
cantato) e parametri musicali (armonia, ritmo, durata). Le strutture
attuanziali, ideologiche, discorsive e narrativo-formali assumeranno
così una luce diversa che non andrà a smentire ma a completare e
approfondire quella percepibile ad un primo livello.
Alla fine del percorso analitico, si arriverà a delineare due ipotesi
interpretative, distinte e complementari, entrambe riconducibili al
forte legame che nella poetica di Andriessen sussiste tra il nome di
una composizione e le strategie musicali attuate in essa: la prima –
esplicitata sin dalle note di sala e nei booklet – che riferisce De Stijl al
nome collettivo di un movimento artistico guidato da Piet Mondrian e
che si sofferma sulle varie trasposizioni musicali di Andriessen di un
quadro del pittore olandese; la seconda – inedita – che, rimandando
De Stijl al suo significato letterale («lo stile»), si focalizza sul ruolo
che il concetto di stile musicale ha sulle strategie di senso evidenziate,
presentando De Stijl al contempo come musica sullo «stile» e come
saggio sullo «stile» in musica.
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