L`ARA E LA VAMPA Significato e ruolo delle pire rituali di San
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L`ARA E LA VAMPA Significato e ruolo delle pire rituali di San
L’ARA E LA VAMPA Significato e ruolo delle pire rituali di San Giuseppe testo di Giorgio M. Di Giorgio fotografie di Sergio Borroni In Sicilia, le celebrazioni dedicate a San Giuseppe sono ricche e variate. Esse si svolgono tra il 23 gennaio (sposalizio con la Vergine), il 18 marzo (vampe, zucchi, luminari), il 19 marzo, quando si erigono gli altari di pane e il 1° maggio, epoca delle processioni organizzate dalle Confraternite dedicate al Santo. Anticamente, per celebrarne il trapasso, il 17 luglio si svolgeva un vero e proprio corteo funebre: così a Erice, dove la Corporazione dei falegnami, mastri d’ascia e bottai portava in processione San Giusippuzzu ’u curtu, detto anche San Giusippuzzu di li ’mbriachi. Ma la manifestazione più spettacolare e significativa è la vampa. Cataste di legna e oggetti di vario genere vengono erette nei crocicchi, nelle piazze e attirano un gran numero di adolescenti, soprattutto nella fase di allestimento. L’accensione avviene all’imbrunire. La pira è il veicolo dell’offerta al Santo, per grazia da richiedere o ricevuta. Essa, in forza delle norme che ne regolano la costruzione e l’accensione, rappresenta la dimora del Santo, all’atto del sacrificio. La più antica ed elementare forma di altare è, infatti, il focolare, dedicato al culto degli antenati. Nella tradizione indo-europea, i membri della famiglia presentavano le offerte tramite il fuoco domestico, divenuto intermediario con il mondo preternaturale. Si viene in tal modo ad operare una saldatura rituale tra vita e non-vita; tra il mondo dei vivi e quello dei defunti: una sopravvivenza modificata e degradata, degli antichi culti ctoni. La trasformazione del rito domestico in rito pubblico, conferma la sacralità della fiamma non solo come mezzo di purificazione della comunità dai mali prodotti dal “vecchio inverno”: il gelo, l’indigenza, la morte, ma soprattutto di mediazione con l’al di là. Non a caso il dies natalis di San Giuseppe: giorno della sua morte fisica e rinascita in un livello superiore e spirituale è la vigilia dell’Equinozio di Primavera, che segna il raggiunto equilibrio fra luce e tenebre, fra il manifestato e il non-manifestato; l’istante in cui la natura si desta dopo il sonno invernale. Non è un caso che in molte culture l’equinozio di primavera sia anche il Capodanno: il calendario iraniano; la Pesach ebraica, da cui discende la Pasqua cristiana; anche nel calendario latino pregiuliano, di matrice lunare, marzo era il primo mese dell’anno. Sham el Nessim era un’antica festa egizia, risalente al 4700 a.C. e coincideva con l’equinozio di Primavera. Gli Egizi usavano accatastare carni, pani e frutta, insieme a fiori e incenso, su tavole di legno, terracotta o pietra, accanto ad anfore ripiene di bevande. Presso i Babilonesi, derrate e fiori erano posti vicino alla mensa, in un vaso con sostegno ligneo, che costituiva una sorta di altare, allo scopo di propiziare la fertilità. In altri contesti spazio temporali, cumuli di tuberi venivano consumati collettivamente; brani di carne e di altri cibi venivano appesi sui rami degli alberi. L’Equinozio di Primavera è festività della rinascita anche nell’Azebaijan, Afganistan, India, Turchia, Zanzibar, Albania; è giorno sacro per i Tamil (con lo scarto di un mese, secondo lo Zodiaco Hindu) e per gli Ismaili Nizari, che un tempo venivano chiamati Ashashin. In Giappone l’equinozio di primavera si trascorre visitando le tombe di famiglia. È, dunque, pertinente l’accostamento delle celebrazioni di San Giuseppe non solo all’area grecolatina e cretese-micenea, ma praticamente a tutte le culture. La pira e la mensa-altare sono omologhi: la vampa in cui bruciano legna, mobili, monete, pani rituali e altri oggetti d’uso comune, è in realtà un’ara sacrificale, che nel tempo si è evoluta in un diverso tipo di altare: la mensa per i poveri e gli altari di pane. Nella fase di preparazione, costruzione e accensione della catasta è possibile riconoscere le fasi di un rituale. Il materiale viene raccolto nell’ambito familiare o nel vicinato; l’allestimento, l’accensione, la gestualità stessa degli operatori, avviene con una rigida sequenza. Se, infatti, nella fase di raccolta sono coinvolti, fondamentalmente, i più piccoli, alla preparazione della catasta sovrintende un adolescente e l’accensione, momento carico di tensione, è affidata a un adulto, che abbia fatto una prumisione al Santo. La donna è esclusa dai preparativi. Anche nelle aree dove l’uso tende a decadere, è l’elemento maschile ad espletare la raccolta, erigere la catasta e appiccarvi il fuoco. L’aspetto pubblico sembra affermare la preminenza del maschio nel gruppo sociale: in realtà l’esclusione della donna ha la funzione di preservarla dalla riprovazione sociale, poiché la pubblica questa connota la donna come mendicante. Quando, invece, il rituale è limitato all’ambito domestico, essa occupa un ruolo preminente e rispettato, quale elemento di coesione e vitalità del gruppo familiare. Intorno alla vampa si recitano preghiere e si levano invocazioni, accompagnati da lanci di oggetti tra le fiamme: una sedia, un abito, un berretto, una moneta. La tensione emotiva lievita di momento in momento, fino a sfociare in danze intorno al fuoco, girotondi e, soprattutto, pericolose esibizioni dei ragazzi più prestanti e coraggiosi. L’atmosfera orgiastica che connota i festeggiamenti di San Giuseppe, sia nei fuochi che nelle tavole imbandite, ripropone la medesima sequenza nell’offerta: prodiga, ostentata, sovrabbondante. Il culto è, ancora oggi, correlato ad usi e modi di dire. Valga per tutti l’esempio tratto da una tipica espressione siciliana: haiu quattru vampi ’nta sacchetta, ho quattro bocche da sfamare: vampa come metafora di figli. A questo punto è d’obbligo citare il bambino del focolare dei riti eleusini: letteralmente colui che viene dal focolare, ossia dalla comunità. In Sicilia si accendono pire (zucchi) anche la notte di Natale e per le festività legate al culto della Vergine. La Vinuta di li busi di Cacciamo prende la forma di una fiaccolata seguita da musiche e spari di petardi (G. Pitré). Da ricordare anche il Vecchio ucciso sul rogo e la coppia carnevalesca ’u nannu e ’a nanna. Tutti riti di purificazione stagionali. Un motto siciliano, riportato da Giuseppe Pitré, recita: L’urtima varva di San Giuseppi, la bianca barba del Patriarca è metafora dell’ultima neve del mese di marzo, preludio alla primavera, stagione di risveglio, rinnovamento e speranza. a cura di Sergio Borroni