Boccaccio e Machiavelli - Occasioni di lettura

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Boccaccio e Machiavelli - Occasioni di lettura
Edizioni
Helicon
Premessa
Pubblico qui due profili di grandi autori delle nostre lettere
riletti in occasione del centenario e per vie e itinerari anche un po’
indiretti e obliqui. Le pagine su Boccaccio sono nate in Romagna
per un libro che intendeva onorare il novellatore sommo di nostra gente chiamando a raccolta scrittori e poeti. L’altra occasione,
tutta toscana, fu suggerita da un libro in onore di Vittorio Vettori,
nume del Casentino. A Vittorio sono dedicate queste due letture
di classici nel decennale della morte.
Marino Biondi
(1 maggio 2014)
Premessa • 7
Nel nome del Boccaccio
Sono passati secoli e dolori
ma siamo qui a raccontarci storie1
alle fiere e talor crudeli donne di Ravenna
(leggendo e rileggendo la novella di Nastagio
nella selva di Chiassi, Decameron, V, 8)
Quantunque volte, graziosissime donne, meco pensando riguardo quanto voi naturalmente tutte siete pietose,
tante conosco che la presente opera al vostro iudicio avrà
grave e noioso principio, sì come è la dolorosa ricordazione della pestifera mortalità trapassata, universalmente
a ciascuno che quella vide o altramenti conobbe dannosa,
la quale essa porta nella sua fronte. Ma non voglio per ciò
che questo di più avanti leggere vi spaventi, quasi sempre
tra’ sospiri e tralle lagrime leggendo dobbiate trapassare.
Questo orrido cominciamento vi fia non altramenti che a’
1
Edito in Poeti romagnoli d’oggi e Giovanni Boccaccio, Promosso dal Circolo culturale
“Giordano Pollini” in occasione del 700° della nascita di Giovanni Boccaccio,
a cura di F. Pollini, immagine di copertina di I. Fioravanti, introduzione di R.
Bertino e F. Pollini, saggi di M. Biondi e R. Casalini, Cesena, Società Editrice «Il
Ponte Vecchio» 2013. Note storiche e letterarie, informazioni sullo stato degli
studi specialistici intorno a Boccaccio, e alla sua opera latina e volgare, visite alle
mostre dell’anniversario, fra Ravenna e Firenze, e più digressioni intorno all’arte
del racconto, ai tempi della Peste Nera e della Peste Finanziaria. La dedica alle
“ravegnane”, che furono senza cuore finché Nastagio non ebbe a convincerle, è
di piena responsabilità dell’autore delle note medesime, e l’illustre editore e committente non abbia a patirne conseguenza veruna in sede fisica e metafisica, ma
ogni riferimento a ravegnana vissuta o vivente è puramente casuale. Una voce
enciclopedica utile a un orientamento biografico e bibliografico è il profilo steso
da N. Sapegno, Boccaccio, Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 10, Roma,
Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1968 (anche online).
Nel nome del Boccaccio • 9
camminanti una montagna aspra e erta, presso alla quale
un bellissimo piano e dilettevole sia reposto, il quale tanto
più viene lor piacevole quanto maggiore è stata del salire e
dello smontare la gravezza. E sì come la estremità della allegrezza il dolore occupa, così le miserie da sopravegnente
letizia sono terminate.
(Comincia la Prima giornata del Decameron)2
Si aprì ufficialmente la serata, e Lauretta indicò il primo del gruppo che doveva mettersi a raccontare. Si trattava di Veruno, che le chiese quale fosse l’argomento cui
obbedire in quella splendida notte. Lei, come spesso piace
fare a chi comanda, stupì la comitiva decidendo di non
decidere, cioè lasciando la libertà a ognuno di seguire il
tema che più gli piacesse. Dopo qualche secondo di silenzio, con lo sguardo alla luna quasi piena, Veruno sorrise
e cominciò il suo racconto. Gli diede perfino un titolo:
“Benedetto colui che ha raggiunto il punto di non ritorno
e lo sa, poiché potrà godersi la vita”.
Firenze: questa storia comincia a Firenze.
(Decameron 2013, A Giovanni Boccaccio, che ci perdoni…. )3
Sì, Giovanni Boccaccio, ab utero matris poeta e novellatore, avrà
perdonato i suoi emuli, «diversi scribacchini toscani, maschi e
femmine», che nella Firenze di oggi, anno del Signore 2013, continuano a essere devoti alla sua religione del raccontarsi storie. Che
altro se no? Cento racconti, anzi «cento novelle», per diletto e conoscenza. Ma anche consolazione e spasso in mezzo ai guai: «Era
il lontano 2008, quando dall’America giunse un vento maligno che
2
3
Le citazioni sono tratte dall’ultima edizione commentata: Giovanni Boccaccio,
Decameron, a cura di A. Quondam, M. Fiorilla e G. Alfano, in collaborazione con
l’Associazione degli Italianisti, Milano, Rizzoli (Bur Classici), 2013, pp. 163-164
(siglato BD 2013).
Decameron 2013, a cura di M. Vichi, Ghezzano (Pisa), Felici Editore, 2013, p. 5
(siglato D 2013).
10 • Nel nome del Boccaccio
cominciò a far marcire ogni cosa, e quel vento si chiamava Crisi
Finanziaria, poi Crisi Economica, e alla fine, più semplicemente,
Grande Crisi. Come una peste cominciò a infettare ogni paese,
portando sfacelo e distruzione, soffiando nelle città e nei villaggi
il suo alito maledetto.»4 A ogni epoca la sua peste. Quella che ci
è toccata non è la bubbonica, ma la finanziaria, peste asettica, ma
invasiva, da calcolo numerico e febbre borsistica, d’importazione
non lanzichenecca sì piuttosto banchiera e statunitense, e certo,
pur rognosissima e quasi cronica, meno calamitosa.
Ma nella peste, nelle pesti, gli scrittori, in quella contingenza
epidemica blasonati come pestigrafi, erano soliti narrare, a consolazione dei superstiti afflitti, l’amore, e la sua antica e sempre
nuova leggenda, ma anche certe esacerbate passioni, tanto più
che le epidemie, e la torbida aura di quelle, le febbri, le voglie,
i macerati sensi, quasi erezioni di un diavolo in corpo, sì come
tossico sembra che quell’amore abbiano attizzato oltre misura. Si
vada a un luogo della Introduzione al Decameron, allorché lo scrittore
poneva il contrasto, innescava l’attrito fra «li divini ufici in abito
lugubre quale a sì fatta stagione si richiedea» e il desiderio delle
fanciulle ivi radunate, «sette giovani donne tutte l’una all’altra o
per amistà o per vicinanza o per parentado congiunte, delle quali
niuna il venti e ottesimo anno passato avea né era minor di diciotto, savia ciascuna e di sangue nobile e bella di forma e ornata di
costumi e di leggiadra onestà», di vagheggiare per sé altre storie,
d’amor profano5. Prima si sosteneva che il morbo eccita la carne
e a quel modo le lugubri nenie della chiesa domenicana, costruita
fuori le mura verso il 1278 ma consacrata solo nel 1420, potevano
ben disporre al suo contrario, gli allegri uffici del novellare. Boccaccio incideva anche quest’altra verità di etica sociologica, o di
morale al tempo della pubblica sventura, e affermava di non poter
rivelare i nomi propri delle sette donzelle per la seguente ragione:
4
5
D 2013, p. 12.
BD 2013, pp. 178-179 (Introduzione).
Nel nome del Boccaccio • 11
«che io non voglio che per le raccontate cose da loro, che seguono,
e per l’ascoltate nel tempo avvenire alcuna di loro possa prender
vergogna, essendo oggi alquanto ristrette le leggi al piacere che
allora, per le cagioni di sopra mostrate, erano non anche alla loro
età ma a troppo più matura larghissime»6. In tempi di calamità
naturali si allargano i cordoni della morale. Leggiamo pertanto
questa toccante apologia nel pericolo d’ogni giorno, alla presenza
di appestati, cadaveri, becchini: «E se questo concedono le leggi,
nelle sollecitudini delle quali è il ben vivere d’ogni mortale, quanto maggiormente, senza offesa d’alcuno, è a noi e a qualunque
altro onesto alla conservazione della nostra vita prendere quegli
rimedii che noi possiamo? Ognora che io vengo ben raguardando
alli nostri modi di questa mattina e ancora a quegli di più altre
passate e pensando chenti e quali li nostri ragionamenti sieno, io
comprendo, e voi similemente il potete comprendere, ciascuna di
noi di sé medesima dubitare: né di ciò mi maraviglio niente, ma
maravigliandomi forte, avvedendomi ciascuna di noi aver sentimento di donna, non prendersi per noi a quello che ciascuna di voi
meritatamente teme alcun compenso.»7 I loro nomi d’arte? «Delle
quali la prima, e quella che di più età era, Pampinea chiameremo
e la seconda Fiammetta, Filomena la terza e la quarta Emilia, e
appresso Lauretta diremo alla quinta e alla sesta Neifile, e l’ultima
Elissa non senza cagion nomeremo.» Ed è Pampinea che, dismessi
i paternostri, prende l’iniziativa del racconto: «Donne mie care»8.
Ci fu un momento della composizione in cui probabilmente Boccaccio pensò a una brigata interamente femminile (sette donne
come nell’Ameto), ma poi si aggiunsero i tre uomini, Panfilo, Filostrato, Dioneo. Pari opportunità per l’altra metà del cielo.
Se il Decameron di Boccaccio, testo archetipico del narrare moderno, non sappiamo bene quando e come sia stato composto,
6
7
8
BD 2013, p. 179 (Introduzione).
BD 2013, pp. 180-181 (Introduzione).
BD 2013, pp. 179-180 (Introduzione).
12 • Nel nome del Boccaccio
e gli unici termini di riferimento vengono dal post quem della peste (1348), oltre che da una lettera di Francesco Buondelmonti a
Giovanni Acciaioli del 13 luglio 1360 che ne certificava l’avvenuta
pubblicazione. E se risaliamo indietro, prima di Boccaccio, si apre
una landa desolata e nulla o quasi sappiamo sia della tradizione
orale della novella sia della tradizione scritta (il Novellino è il più
antico Libro di novelle che ci sia noto). Del Decameron 2013, allestito
da Marco Vichi, sappiamo bene invece quando è stato scritto, ai
nostri giorni, e lo abbiamo letto, pizzicandolo prima che in volume, con qualche anticipo, su una pagina fiorentina del «Corriere
della Sera». Certo, e per fortuna nostra, esso è in tutt’altre faccende affaccendato, di società liquida a noi coeva, con tutti i problemi che ben conosciamo (e condividiamo), ma non c’è la peste.
Almeno quella che uccide ma solo quella che impoverisce. Pure vi
possiamo leggere di amore e di amori.
Leggiamo pertanto il Secondo racconto, che si potrebbe intitolare «L’amore è azione». Lei, Manuela, è una donna felicemente
sposata. Allo spasimante che non le dà tregua e le dice di amarla,
risponde con discreto buon senso che tutti sono buoni a provare
dei sentimenti. Altro è provarli in re, come direbbero i filosofanti
scolastici, dalla potenza all’atto. E all’uomo rimasto giustamente senza parole, aggiunge questo invito scatenante: «Una prova,
voglio una prova d’amore, spiegò lei, come nei tempi antichi».
Ebbene la storia avrebbe tutta l’aria di lievitare cavallerescamente, sembrare un grande amore, roba forte, roba d’altri tempi e
costumi. Le prove, l’ordalia, prima dell’esaudimento della passione e dell’eros. Galeotto dunque il nostro libro? E quale era la
prova pretesa dalla concupita dama? Ella così s’era pronunciata:
«Come regalo di Natale desidero delle lucciole. Voglio vedere la
loro luce in inverno»9. Valle a capire le donne, ma se voleva lucciole la capricciosa sposa per essere di nuovo impalmata, e che
lucciole fossero. Poi si vedrà come finisce la storia - sì a letto 9
D 2013, pp. 35-38.
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cari lettori, e proprio nella mattina di Natale, ma non nel modo
eroico-cavalleresco e anche un po’ sibaritico in cui lui, il cercatore
di lucciole e sognatore di lanterne, se l’era immaginata. Lei si concede, è vero, ma nel modo più negligente, svogliato, spoetizzante,
spogliandosi con metodo come per un intervento ambulatoriale
senza anestesia. Si fa accompagnare all’appuntamento adulterino
dal marito che poi, a cose fatte, se la viene a riprendere. Così
come si porta il figlio in piscina o a lezione d’inglese, si consuma
l’anoressico commercio carnale extra moenia. L’adulterio, che mandava emanazioni stordenti e fluidi peccaminosamente carismatici
solo leggendo la Bovary, è ridotto a una frana di normalità. Non
nominiamo invano Francesca da Rimini, di cui pure diremo. Ma si
possono così calpestare i peccati, umiliare i rimorsi?
Nel Terzo racconto, protagonisti la signora Beherami e suo figlio
Milon, il cui titolo Le vie del signore è di per sé promettente e misericordioso, non ci immagineremmo come il più antico mestiere
del mondo riesca ancora a fare miracoli. Potenza della narrazione. Qui non sono frigide escort, da palazzo dei congressi o grand
hotel, ma puttane casalinghe che sanno di cucina e caffelatte, che
ricevono a casa, il macellaio, l’impiegato del catasto, una gestione
famigliare, per far quadrare i conti, professionale e da welfare, sì
una perdizione della mutua - la vita, cantava Mina, è un letto sfatto - ma anche una bocca di rosa che sarebbe piaciuta a Fabrizio
De Andrè, tanto che incanta il parroco, il quale finisce per gettare
la tonaca, e andare per le strade del mondo - ecco il miracolo:
«m’incamminai lungo la provinciale. Volevo conoscere il mondo,
le donne e la vita dei peccatori.»10 E tante altre sono le storie, che
ci riportano alla realtà dei nostri anni e dei nostri giorni, al lavoro
precario, al traffico nelle ore di punta, alle notti da sballo in vite
altrimenti impossibili, alla pazienza che ribolle nella gente qualunque e che potrebbe esplodere ed eruttare come un nuovo Vesuvio
o una nuova Etna dell’incazzatura catastrofica. Distruzione e li10
D 2013, p. 43.
14 • Nel nome del Boccaccio
bertà, come nel Sesto racconto, I Flagellanti di Follonica: «Stamparono
un foglio. C’era scritto che se i giornalisti volevano dare loro un
nome, che li chiamassero con quello che si erano scelti: I Flagellanti.
Dicevano anche che il loro era un movimento autonomo e abbastanza incazzato.»11 Sì, l’incazzatura è il marchio d’epoca, la nostra
firma sull’impotenza cui siamo ridotti. C’è un racconto che parla
d’amore, nel modo migliore in cui d’amore si possa parlare, ed è
per mio conto la più simile alla novella di Nastagio nel Decameron.
Anche qui c’è un bosco e si potrebbe anche verificare la caccia
mortale di uno stalking. E invece le cose vanno diversamente. Lei,
Arianna, si accorge che lui, Giò, il ragazzo amico d’infanzia che
in quel momento la sta proteggendo dal fidanzato maniaco che
la insegue, è stato tutta la vita fino a quel momento innamorato
di lei e l’amore di lui la persuade all’amore. È una specie di amor
che a nullo amato amar perdona e s’intitola I casi della vita12. Nel
Proemio il Vichi, delegato a introdurre la silloge narrativa, scrive
che «narrare è la prima occupazione dell’uomo, anche quando egli
non se ne avvede tutta la nostra vita è un racconto, e quando non
ci raccontiamo agli altri raccontiamo a noi stessi. Parafrasando un
tale Guglielmo, possiamo insomma dire che siamo fatti della stessa materia del racconto. L’uomo non può esistere senza il narrare,
e a onor del chiasmo aggiungo che la narrazione non può esistere
senza l’uomo.»13 Forse che raccontando storie, il mondo ci appare
meno oscuro, meno enigmatico? Ogni storia rivela un segreto,
e magari altri ne aggiunge. E ci sono storie, di disperazione e di
follia sociale, che raccontano l’Italia di oggi come i media sempre
più bugiardi non ci raccontano più.
Due parole di teoria letteraria. Proust raccomandava: niente
teoria. Sarebbe come mettere il cartellino del prezzo su un regalo.
Ma promettiamo d’esser brevi. Quale il processo che dà forma
11
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D 2013, pp. 62-67.
D 2013, pp. 231-241.
D 2013, p. 11.
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