scaricabile QUI - politicaMente.eu

Transcript

scaricabile QUI - politicaMente.eu
EUNOMIA
RIVISTA SEMESTRALE DI STORIA E POLITICA INTERNAZIONALI
ANNO III N.S., NUMERO 1, 2014
2014
Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali
Università del Salento
Direttore Responsabile
Massimo Ciullo (Università del Salento, Lecce, Italy)
Editor in Chief
Antonio Donno (Università del Salento, Lecce, Italia)
Scientific Board
Furio Biagini (Università del Salento), Uri Bialer (Hebrew University, Jerusalem,
Israel), Ester Capuzzo (Università “La Sapienza”, Roma), Michele Carducci
(Università del Salento), Daniele De Luca (Università del Salento), Ennio Di Nolfo
(Università di Firenze), Antonio Donno (Università del Salento), Giuseppe Gioffredi
(Università del Salento), Alessandro Isoni (Università del Salento), Giuliana Iurlano
(Università del Salento), David Lesch (Trinity University, San Antonio, TX, USA),
Joan Lluís Pérez Francesch (Universidad Autónoma de Barcelona), Amparo Lozano
(Universidad S. Pablo Ceu-Madrid, Spagna), Luke Nichter (A&M Texas University,
USA), Francesco Perfetti (LUISS “G. Carli”, Roma), Attilio Pisanò (Università del
Salento), Ricardo D. Rabinovich-Berkman (Universidad de Buenos Aires), Bernard
Reich (George Washington University, Washington, USA), Antonio Varsori
(Università di Padova), Manuela Williams (University of Strathclyde, U.K.)
Editorial Staff
Fausto Carbone, Giuliana Iurlano, Massimo Ciullo, Fiorella Perrone, Bruno Pierri,
Francesca Salvatore (Publication Manager), Lucio Tondo, Ughetta Vergari
Editorial Office
c/o Corso di Laurea di Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali
Università del Salento-Lecce
Via Stampacchia, 45
73100 Lecce (Italy)
tel. 39-0832-294642
tel. 39-0832-294765
fax 39-0832-294754
e-mail: [email protected]
ISSN 2280-8949
Journal website: http://siba-ese.unisalento.it/index.php/eunomia
© 2014 Università del Salento – Coordinamento SIBA
http://siba2.unisalento.it
Sommario
ANNO III n.s., NUMERO 1, 2014
Editoriale…………………………………………………………………….
p. 5
Saggi…………………………………………………………………………
p. 7
JOAN DEL ALCÀZAR
Chile, cuarenta años después. Memoria para el futuro contra memorias
obstinadas………………………………………............................................ p. 9
LILIANA SAIU
Gli Stati Uniti e il problema della sicurezza nell’area del Mediterraneo.
Il rapporto Holmes, 1967 ...............................................................................
p. 31
GIANLUCA BORZONI
The King is dead, long live the Queen.
I rapporti italo-britannici nei giorni del passaggio
da Giorgio VI a Elisabetta II ........................................................................
p. 45
LUCIO TONDO
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz e il contrasto con il Kaiserreich
(aprile 1914)…................................................................................................
p. 77
IDA LIBERA VALICENTI
Un episodio poco conosciuto degli anni della seconda guerra mondiale:
l’eccidio dei pugliesi di Crimea (1942-1945).....……………………………. p. 143
ENTELA CUKANI
Consociational Power Sharing Arrangements as a Tool for Democracy:
The Experiences of Macedonia and Kosovo………………………………… p. 157
SABRINA SERGI
Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger………………..... p. 169
Note e discussioni…………………………………………………………..... p. 193
MICHELE CARDUCCI
Sull’ipotesi di istituzione di una corte costituzionale internazionale:
per il “diritto alla democrazia” e la tutela contro i mutamenti
incostituzionali.................................................................................................. p. 195
3
EMANUELE PIGNATELLI
Le “primavere arabe”: nascita e involuzione………………………………. p. 213
RICARDO RABINOVICH-BERKMAN
Game of Laws. On the Creation of Fictitious Juridical Yesterdays………… p. 241
GIULIANA IURLANO
Line in the Sand.
Frontiera e frontiere negli Stati Uniti dell’Ottocento…………………........
p. 255
Recensioni…………………………………………………………………..
p. 263
Gli autori...………………………………………………………………….
p. 279
Colophon………………………..…………………………………………..
p. 281
4
EDITORIALE
Con questo numero, «Eunomia» inizia il suo terzo anno di vita. A nostro giudizio, il
bilancio può considerarsi positivo, anche se molto resta ancora da fare. Abbiamo
consolidato alcune collaborazioni con settori rilevanti, sia nazionali, che esteri, di
studiosi nel campo della storia contemporanea e in quello delle relazioni internazionali,
e altre ancora sono in via di definizione. L’esperienza finora fatta, tuttavia, ci induce a
ridefinire gli ambiti disciplinari e scientifici della nostra rivista. Nata con l’intento di
rappresentare i settori scientifico-disciplinari del corso di laurea in Scienze politiche e
delle relazioni internazionali dell’Università del Salento, nel corso del tempo la rivista –
abbiamo constatato – non poteva accogliere un così vasto e differenziato arco di
interessi scientifici, anche per mancanza di collaborazioni. In realtà, la grande
complessità dei campi scientifici presenti in un corso di laurea in Scienze politiche e
delle relazioni internazionali avrebbe potuto portare «Eunomia» – e in parte ciò è
avvenuto – a configurarsi come una rivista dai confini indistinti e, in definitiva, dai
connotati troppo generali.
Così, una riflessione in seno alla redazione ci ha portato a decidere che, dal presente
numero, «Eunomia» si definirà come una “rivista semestrale on-line di storia e politica
internazionali”. Riteniamo che questa sia una scelta giusta per alcuni motivi.
Innanzitutto, per il fatto che la rivista è nata per impulso di alcuni docenti e studiosi nel
campo della storia internazionale, come si è potuto constatare dalla prevalenza di
contributi in tal senso, apparsi nei primi quattro numeri e anche nel presente. In secondo
luogo, per la volontà di caratterizzare la rivista in modo più preciso e rigoroso,
individuando campi d’indagine metodologicamente omogenei, ma non per questo
circoscritti in steccati culturali. Infine, per dare un contributo allo sviluppo degli studi
sulla storia e politica internazionali, che hanno da sempre avuto un posto alquanto
marginale, soffocati dal provincialismo culturale del nostro paese.
Oltre che il formato, anche la struttura interna della rivista è mutata. Accanto ai
saggi, proponiamo un settore di note e discussioni e, infine, una parte, ancora più
sostanziosa, dedicata alle recensioni. Ciò che non cambierà, invece, sarà l’attenzione
verso le proposte dei giovani studiosi, attenzione che ha già caratterizzato finora la
nostra rivista in modo significativo.
La Redazione
5
6
SAGGI
Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali
Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 9-29
e-ISSN 2280-8949
DOI 10.1285/i22808949a3n1p9
http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento
JOAN DEL ALCÀZAR
Chile, cuarenta años después.
Memoria para el futuro contra memorias obstinadas
Abstract: Four decades have passed since the Chilean Army was revolted against the government of
Allende. Years pass, but individual and group memoirs — understood as discourses about the past — of
this period remain belligerently contradictory, as evidenced by the dispute between the figures of Allende
and Pinochet. We are concerned about this reality because young people who didn’t live the leaden years
are ascribed — uncritically — to the dominant memory in their closest living space. Build a memory for
the future, by increasing the dose of historical knowledge of young Chileans, could favor the recognition
of internal political differences until making them compatible with a democratic coexistence of quality.
Keywords: Chile; history; memory; youth; democracy.
Cuarenta años después del golpe militar que acabó con la vida y con el gobierno de
Salvador Allende, Chile continúa padeciendo la inexistencia de consensos básicos
respecto al relato de su pasado próximo. Esta tesis puede comprobarse fácilmente. Un
ejemplo: los dos personajes más importantes de su historia reciente siguen siendo objeto
de filias, fobias y comparaciones con frecuencia acríticas. Hablamos de Salvador
Allende y de Augusto Pinochet. Se trata de dos figuras de la historia contemporánea de
Chile que, como seres humanos, poco tienen que ver el uno con el otro. Ambos
personajes vivieron con proximidad física un período breve, intenso y crucial de la
historia del país andino. Allende llegó a La Moneda por los cauces constitucionales y
creyó hasta el final en la lealtad del general golpista. Pinochet lo hizo a punta de
bayoneta y simuló su respeto a una autoridad a la que aborrecía. La victoria del general
golpista, que se dijo patriota, significó la muerte del presidente que se quiso
revolucionario.
Han pasado los años y en Chile ambos personajes siguen siendo extremadamente
controvertidos. Fuera del país, no obstante, la imagen de Pinochet está asociada a lo
peor del ser humano. Paralelamente, la imagen de Allende perdura como muy positiva
Joan Del Alcàzar
en parte gracias a una cierta mitificación que resalta sus aciertos y virtudes, y oculta sus
errores y sus déficits.
Estas páginas obedecen a un interés por colaborar en la construcción de un discurso
histórico coherente y veraz para las jóvenes generaciones que no deben ser rehenes de
un pasado sobre el que no tienen responsabilidad alguna. Es necesario procurar un
mejor conocimiento histórico a la juventud chilena, por ejemplo sobre estos dos
personajes que siguen polarizando los discursos contradictorios – cuando no
excluyentes – sobre ese pasado reciente de su país.
La confrontación Allende vs. Pinochet como síntoma
Es en nuestra opinión una evidencia que los dos grandes actores individuales citados
han vertebrado la historia reciente de Chile. En unas declaraciones al diario español «El
País», el ex presidente Patricio Aylwin decía hace menos de un año que Salvador
Allende «no fue buen político» y le responsabilizó de la triste suerte de Chile a partir de
1970.1 Al más que caldeado ambiente interno se añadió la celebración, pocos días
después, de un homenaje a Augusto Pinochet a cargo de nostálgicos del general. Esto
agitó todavía más las aguas políticas chilenas. El festejo terminó con importantes
incidentes que ponen de relieve que ambos personajes siguen suscitando aún mucha
confrontación entre sus respectivos valedores y contrarios.
Atendamos a la última hiriente controversia de la que hemos tenido conocimiento.
Aunque parezca mentira, la extrema derecha todavía insulta a Allende, como se pudo
comprobar en septiembre de 2012 en el parlamento de Valparaíso, con motivo del
trigésimo noveno aniversario del golpe militar. Sigue siendo una tristísima realidad: una
parte de la derecha autóctona parece que no solo no está a favor de la reconciliación de
los chilenos, sino que ni siquiera parece aceptar la idea del reencuentro como fase
previa. Cuando Michelle Bachelet era ministra de defensa, allá por el 2003, reflexionaba
en una entrevista en el diario «El Mercurio» − con motivo del 30 aniversario del golpe
1
Ver R. MONTES, Entrevista a Patricio Aylwin. El presidente se confiesa, en «El País», 27 de mayo de
2012.
10
Chile, cuarenta años después
− a propósito de la necesidad de trabajar conjuntamente por el reencuentro de sus
compatriotas:
«Sin buscarlo – y, probablemente, sin imaginarlo tampoco –, Michelle
Bachelet se ha convertido en un símbolo de la reconciliación. Ella, sin
embargo, prefiere usar otras palabras y no esa; reencuentro, por
ejemplo, le acomoda mejor, la siente más suya. La actual ministra de
defensa lo aclara en la entrevista: “Por eso no uso, en general, las
palabras perdón o reconciliación. Reconciliación, porque es un asunto
muy personal. Para que haya reconciliación a nivel colectivo requiere
que haya más verdad y justicia. No se puede borrar el pasado. Primero
porque es imposible. Segundo, porque es peligroso no aprender de las
lecciones de la historia. Y tercero, porque como médico sé que para
2
que una herida sane tiene que estar limpiecita”».
Lo era hace diez años y hoy sigue siendo una tarea en absoluto sencilla, porque se
trata de una sociedad fragmentada por un traumatismo tan fuerte como fue la dictadura
militar encabezada por el general Pinochet. Todavía treinta y nueve años después del
suicidio del doctor Allende en un Palacio de la Moneda sitiado por las tropas golpistas,
un diputado de la ultraderecha insultó públicamente la memoria del presidente
socialista. La noticia fue, claro, ampliamente recogida en los medios:
«Al inicio de la sesión de este martes en la cámara de diputados, el
diputado René Alinco (Ind) solicitó realizar un minuto de silencio en
memoria de las víctimas y del fallecido presidente Allende, petición
que fue acogida por el presidente de la cámara, Nicolás Monckeberg
(RN). Sin embargo, el momento fue interrumpido por el diputado
Urrutia, quien cuestionó la decisión. “¿A los cobardes que se
suicidaron ese día también le vamos a rendir homenaje? ¿Al cobarde
que se suicidó ese día también? No puedo creerlo, presidente”,
3
manifestó el parlamentario de la UDI».
Partidarios y detractores han representado − y en buena medida siguen representando
− dos polos opuestos como referentes políticos tanto en Chile como más allá de sus
fronteras. Salvador Allende se suicidó en la sede de la presidencia de la república, en el
2
«El Mercurio», 5 de septiembre de 2003.
Diputado
UDI
lanzó
insulto
contra
Allende
en
el
congreso,
en
http://www.emol.com/noticias/nacional/2012/09/11/560026/diputado-udi-que-interrumpio-minuto-desilencio-en-el-congreso-con-insulto-a-allende.html [Consulta 12 de febrero de 2014].
3
11
Joan Del Alcàzar
Palacio de La Moneda, mientras era asediado por tierra y aire por tropas al mando de
Augusto Pinochet, quien no sólo prohibió a sus subordinados negociar nada con el
presidente legítimo, sino que además de exigirle rendición incondicional especuló − en
un tono supuestamente jocoso − con la posibilidad de ponerlo en un avión rumbo a
Cuba y que el aparato se estrellara antes de llegar a su destino.
Desde ese 11 de septiembre de 1973, Augusto Pinochet reinó en Chile sin cortapisas,
y lo hizo hasta que el plebiscito de 1988 amputó su mandato de forma inesperada. Pese
a ello, durante los años en que continuó como comandante en jefe se mantuvo
amenazante hasta que, fatalmente para él, viajó a Inglaterra en 1998. Allí murió
(políticamente, se entiende), tras pasar más de quinientos días retenido por la policía
británica a la espera de la resolución de sus tribulaciones jurídicas para evitar ser
extraditado a España. En 2006 escribimos:
«Desde la muerte política, ocurrida en Londres en el otoño de 1998, el
general no ha sido sino un cadáver molesto. Hoy, frente al Palacio de
La Moneda, una estatua afable de Salvador Allende preside la amplia
y hermosa explanada. Jamás habrá sitio en ella para Augusto Pinochet
Ugarte. Ya no quedan ni sus huesos, convertidos en cenizas por sus
familiares para prevenir una hipotética profanación de la tumba, y los
4
chilenos son ahora más libres para definir su presente y su futuro».
Los treinta y tres años que mediaron entre la muerte de Salvador Allende y la suya
estuvieron marcados para Pinochet por el dramático final de su enemigo y su conversión
en mito de la ejemplaridad republicana. Mientras que Allende fue entronizado como un
mártir de la democracia y un referente de los progresistas del mundo, él hubo de
soportar el indeleble estigma de haber sido el máximo responsable de la muerte del
prócer y de haber instaurado una dictadura cruel en Chile que causó muchos miles de
muertos, detenidos − desaparecidos, torturados, exiliados y represaliados internos.
Sobre Allende se propagó una especie de leyenda dorada que el líder fallecido no tuvo
la posibilidad de emborronar; mientras que sobre Pinochet se construyó una leyenda
4
J. ALCÀZAR, A modo de conclusión. La segunda muerte de Augusto Pinochet, en J. ALCÀZAR, Yo pisaré
las calles nuevamente. Chile, revolución, dictatura, democracia (1970-2006), Santiago, Editorial
Universidad Bolivariana, 2009.
12
Chile, cuarenta años después
negra que el dictador − tras sus gafas de pasta negra y su gesto siempre adusto − pareció
empeñado en confirmar de manera continuada desde el más explícito de los
aislamientos como máximo mandatario de la República de Chile. Es cierto que el
dictador gozó de un enorme predicamento entre los suyos durante el tiempo que duró su
vida política, por lo menos hasta 1998, porque después de la retención londinense se
airearon trapos sucios económicos − suyos y de su familia − que perjudicaron
seriamente su imagen.5 Pero no lo es menos el hecho de que Pinochet prácticamente no
pudo salir de Chile durante sus años de gobierno (viajó a España, al funeral de Franco, y
fue una singularidad significativa), ni que haya pasado a la historia como paladín de la
traición a la legalidad republicana chilena y de la crueldad represiva de su régimen.
La llamada leyenda dorada que entronizó al fallecido presidente Allende se extendió
con rapidez y fortuna y, excepto en algunos detalles, pervivió en el tiempo. Tras el
golpe, todas las informaciones que provienen de la junta militar son entendidas como
mentiras y propaganda. Paralelamente, los derrotados intentan defender – desde el
interior y desde el exterior de Chile – la gestión del gobierno de la Unidad Popular, al
mismo tiempo que denuncian la represión de los militares en el poder. En este contexto,
comienza a edificarse desde el mundo progresista internacional una imagen mitificada
de lo acaecido en Chile.6
El eje que vertebra esa versión ficticia es muy claro: pese a algunas voces que lo
califican de tibio o ingenuo, Allende es exculpado de su responsabilidad política en el
colapso de su presidencia. El argumento central se sustenta en las últimas horas del
gobierno de la UP – con las dramáticas imágenes de La Moneda ardiendo por los cuatro
costados, tras el ataque cobarde y abusivo con cazas de combate – y no en su desarrollo
desde el 4 de noviembre de 1970. El tiempo histórico se comprime: más de 1000 días de
gobierno se condensan en media jornada de desigual lucha, con lo que la balanza se
inclina en favor de Allende y los defensores de La Moneda. Paralelamente, coexiste una
5
El escándalo se destapó en 2005 y dio paso a una minuciosa investigación sobre las cuentas secretas de
Pinochet para tratar de esclarecer si parte de ellas podían venir de comisiones por la compra de armas. En
octubre de 2007, cuando todavía no se había cumplido un año de la muerte del dictador, se ordenó el
arresto y procesamiento de su familia.
6
Ver G. CÁCERES - J. ALCÀZAR, Allende I la UP: cap a una decostrucció dels mites polítics xilens, en «El
Contemporani. Arts, Història, Societat», 15, 1998, pp. 33-41.
13
Joan Del Alcàzar
segunda clave interpretativa: Allende es entendido como el mejor representante de la
democracia chilena, y su muerte, a manos los facciosos, se homologa a la desaparición
de una democracia de alto valor institucional en el contexto latinoamericano. Allende
nos es presentado como un republicano ejemplar que ha muerto en combate.7 Se apunta
así otro dato trascendental para los sectores más a la izquierda de la resistencia chilena:
la de la muerte guerrillera de Allende – se niega tajantemente el suicidio, por lo tanto –,
que contará con un narrador y fabulador excepcional, Fidel Castro, en un escenario
inigualable, la Plaza de la Revolución de La Habana.8
Por último, de la leyenda dorada se desprende un tercer componente reduccionista.
Al igual que en otras experiencias populistas de corte progresista, Allende pasa a
encarnar al conjunto de un pueblo. Él es su portavoz dilecto y su desaparición es la
pérdida de su principal y casi exclusivo defensor.9
La crónica de los hechos del día del golpe refuerza esa síntesis reduccionista. Como
señalábamos con Gonzalo Cáceres en el artículo citado, mientras Allende actúa en
defensa y estricto apego a la legalidad, los golpistas subvierten la legalidad de manera
indigna. Mientras Allende es presentado como un líder carismático, depositario de una
voluntad soberana expresada en las urnas y que lo obligaba a desenvolverse en medio de
estrictos márgenes éticos, los facciosos – amen de singularizar la traición y la mentira
en sus versiones más degradadas – asumen el papel de enemigos del pueblo.
La tremenda e irresistible personalización del régimen militar convirtió en
indiscutibles una serie de antinomias entre ambos personajes. La primera de ellas es la
idiosincrasia de cada uno de ellos; uno, un general del ejército con un marcado y tosco
perfil militar; el otro, un personaje político de naturaleza civil e ilustrada. Sobre esta
base toman cuerpo sus rasgos más definitorios: la picaresca teñida de cautela de un
7
Ver S. ALLENDE, Obras escogidas (periodo 1939-1973), compilacion de G. MARTNER, Santiago de
Chile, Centro de Estudios Politicos Latinosamericanos Simon Bolivar, 1992, p. 550.
8
El acto tuvo lugar el 28 de septiembre de 1973, y contó con la presencia de la viuda y las hijas de
Salvador Allende. Fidel Castro hizo una recreación casi cinematográfica de la supuesta muerte en
combate del líder chileno. Esa versión, la de la muerte en combate, muerte guerrillera, fue la versión
oficial de la izquierda chilena durante décadas. El discurso de F. Castro en
http://www.archivochile.com/S_Allende_UP/esp_homenajes/SAhomenaj0002.pdf [Consulta 12 de
febrero de 2014]. Ver J. TIMOSSI, Grandes alamedas. El combate del presidente Allende, La Habana,
Editorial de Ciencias Sociales, 1974.
9
Ver F. VARAS - J. VERGARA, Operación Chile, Barcelona, Pomaire, 1973.
14
Chile, cuarenta años después
hombre taimado y poco claro, frente a la valentía de un presidente aparentemente
cándido, franco y sin doblez. No solo sus formas de acceder al poder son opuestas −
golpe de Estado, frente a elección democrática −, además también lo son las formas de
ejercerlo: Pinochet lo hizo de manera dictatorial y sin piedad para con sus enemigos;
mientras que Allende intentó desarrollar su ideal revolucionario a través de la
democracia según era concebida en aquellos años desde la izquierda política. No en
balde sus discursos representan dos polos opuestos de la comunicación: es la brillante
oratoria del demócrata frente a la austeridad castrense del dictador; el discurso del
tribuno culto e ilustrado, frente a la arenga autoritaria y la limitación verbal del militar.
La memoria, las memorias, el futuro
Como hemos hecho en otros trabajos, también en éste pretendemos colaborar
modestamente – desde la investigación histórica – en la construcción de un futuro mejor
para la sociedad chilena; un tiempo en el que las diversas memorias que existen en
Chile sobre los traumáticos años de la Unidad Popular y la dictadura militar dejen de
resultar contrapuestas y beligerantes. Es por ello que hablamos de memoria para el
futuro.
Debemos aclarar que cuando en este texto hablamos de memoria histórica o de
memorias históricas, en singular o en plural, el lector debe saber que nos referimos tanto
a los posicionamientos personales producto del recuerdo o de las vivencias individuales
– que llevamos imaginariamente cargados a la espalda, como en una virtual mochila
personal e intransferible –, como a los discursos o usos públicos personales o de grupo
sobre el pasado reciente de Chile que conviven, no sin dificultades, en los distintos
escenarios políticos y sociales de aquel país.10
En la medida que entendemos que la memoria para el futuro es una propuesta que
puede devenir positiva para aquellas sociedades que quieren desarrollarse contando con
ciudadanos comprometidos con la democracia, con la solidaridad social y con los
10
Ver J. ALCÀZAR, Continuar viviendo juntos después del horror. Memoria e historia en las sociedades
postdictatoriales, en W. ANSALDI (dir.), La democracia en América Latina, un barco a la deriva, Buenos
Aires, Fondo de Cultura Económica, 2007, pp. 411-434.
15
Joan Del Alcàzar
derechos humanos, pensamos que la propuesta es válida para el Chile que rememora las
cuatro décadas transcurridas desde aquella mañana del 11 de septiembre de 1973.
Nos preocupa el hecho de que la existencia de discursos discordantes sobre el pasado
histórico pueda resultar incompatible con un desarrollo más armónico, y que eso
perjudique la convivencia de personas que comparten unas fronteras y una bandera. Es
por ello que propugnamos la que podríamos llamar memoria mínima común de
convivencia, aquella que se sustenta en una serie de consensos básicos sobre el pasado,
que es – además – una construcción útil y necesaria para la formación en temas
valóricos de la ciudadanía. Nos preocupa y nos motiva la formación de los ciudadanos
como tales, con derechos y deberes, y – particularmente – la de los estudiantes actuales
que serán los ciudadanos efectivos del futuro. Entendemos que es necesario potenciar
entre la juventud una buena dosis de conocimiento histórico académico que les permita
conciliar su memoria particular de origen familiar con una explicación coherente y
fundamentada en la pretensión de objetividad propia de los historiadores.
Y es por ello que pensamos que el período educativo es esencial para la formación de
esos futuros ciudadanos adultos.11 Es importante precisar que entendemos que esta
formación no se sustenta exclusivamente en la relación profesor alumno, tampoco
exclusivamente dentro del aula, sino que es una formación que tiene que ver con lo que
es la vida de la personas y, por tanto, con la conformación de la memoria individual de
cada uno de los ciudadanos que sintoniza, entra en contradicción o incluso en conflicto
con otras memorias individuales o con las memorias mayoritarias. Así pues, en buena
medida hablar de memorias históricas es hablar de lecturas sobre el pasado.12
Esta propuesta de construcción de una memoria para el futuro arranca de la
necesidad de generar ciudadanía democrática desde la etapa escolar. Entendiendo que
los estudiantes tienen por un lado la información y la formación que reciben en la
escuela, la información y la formación que perciben de la familia, y la información y la
formación que recogen de su entorno vital más próximo, es evidente que se mueven en
un escenario complejo. Si no hay contradicciones significativas entre los diversos
11
Nos referimos fundamentalmente a los estudiantes de enseñanza secundaria.
Ver J. ALCÀZAR, Historia desde el cine [y con la literatura] para la educación, en «Revista Brasilera
de Estudos Pedagógicos», XCIII, 235, set/dez 2012, pp. 645-666.
12
16
Chile, cuarenta años después
niveles de formación e información las cosas van bien en la medida que posibilitan una
adscripción de ciudadanía que en las sociedades democráticas ha de sustentarse en los
ideales de igualdad, libertad y solidaridad.
Pero esto no siempre ocurre, no siempre hay sintonía con el sistema valórico ideal ya
que los discursos explicativos del pasado pueden encerrar grandes contradicciones entre
ellos; incluso hasta el punto de ser obstáculos a veces insalvables para una convivencia
armoniosa y, por lo tanto, para una buena adscripción democrática. Sociedades que han
vivido experiencias traumáticas más o menos recientes, como los países de la Europa
del sur o los de la América Latina, se encuentran entre las que podemos denominar
sociedades en situación postraumática.
Memorias en conflicto en el Cono Sur
Dejando de lado los casos europeos, entre ellos el español, que todavía evidencia la
dictadura franquista (1939-1973/75) y la transición democrática (1973/75-1982), hemos
trabajado el escenario de los países del Cono Sur que vivieron las dos dictaduras que
todavía hoy generan mayor contradicción en cuanto a los relatos existentes.13 En la
Argentina posterior a 1983, Luis Alberto Romero había tipificado cuatro memorias en
conflicto.14 En 1998, Steve J. Stern detectó, para el caso chileno, otras cuatro de lo que
él denomina memorias emblemáticas.15 Manuel Antonio Garretón, por su parte, conecta
las distintas memorias existentes en su país a lo que llama los hitos fundantes de la
memoria nacional chilena16 e identifica tres: la Unidad Popular y la crisis de un
proyecto nacional, el golpe militar y la dictadura y, en tercer lugar, el plebiscito y la
redemocratización política.
13
Ver J. ALCÀZAR - J. CÁCERES, Clío contra las cuerdas: memorias contra historia en el Chile actual, en
J. CUESTA (dir.), Memorias históricas de España (siglo XX), Madrid, Fundación Francisco Largo
Caballero, 2007, pp. 412-427.
14
Ver L.A. ROMERO, El pasado que duele y los dilemas del historiador ciudadano, en
http://www.unsam.edu.ar/escuelas/politica/centro_historia_politica/romero/Criterio.pdf.
15
Ver S.J. STERN, De la memoria suelta a la memoria emblemática: hacia el recordar y el olvidar como
proceso histórico (Chile, 1973-1998), en E. JELIN (comp.), Las conmemoraciones: las disputas en las
fechas ‘in–felices’, Madrid, Siglo XXI, 1998, pp. 11-33.
16
Ver M.A. GARRETÓN, Memoria y proyecto de país, en «Revista de ciencia política», XXIII, 2, 2003,
pp. 215-230.
17
Joan Del Alcàzar
Sin que ahora debamos de profundizar más en este terreno, a los efectos de nuestro
objetivo con estas páginas, nos parece clarificadora la clasificación de Luis Alberto
Romero, quien estableció la existencia de cuatro memorias de la última dictadura
argentina que pueden tener – con las debidas matizaciones – valor genérico para el área
latinoamericana: la llamada memoria oficial – fundada, dice, por el Informe Nunca Más
e institucionalizada por la Teoría de los dos demonios17 – la militante, la rencorosa y la
reivindicativa de los hechos de la dictadura. Una de las características comunes – y ésta
es una realidad de extrema importancia – es que para ninguna de ellas la verdad, en el
sentido convencional del término, es un objetivo importante. Y es que, como dice L.A.
Romero:
«Cada uno se acuerda de lo que quiere y se olvida de lo que le da la
gana. La memoria es valorativa y categórica, y tiende a considerar las
cosas en términos de blancos y negros [...] todo lo que en la memoria
es exaltado y contrastado, en el campo del saber de los historiadores
18
es opaco y matizado».
Así pues, los problemas de las contradicciones entre las memorias del pasado − las
de matriz más estrictamente política y partidaria − pueden verse agravadas por el
abismo social que separa a esos grupos que están en la parte de arriba y en la de abajo
de la pirámide social. Hay, pues, una tensa relación entre la historia reciente y el
presente político y social. En los casos chileno y argentino la aparición de las memorias
militantes fue, quizá, el único espacio de actuación posible. En buena medida,
pensamos, se produjo una contaminación, si se puede hablar así, de la memoria de la
dictadura por la desilusión de la democracia. La baja calidad de la democracia
recuperada frustró demasiadas expectativas, especialmente las de aquellos que se
reconocían como víctimas directas de la dictadura militar, pero también de otros que
habían imaginado (no sin razón, dada la simplificación extrema de los discursos
partidarios que alentaron grandes expectativas) que la democracia iba a mejorar su
calidad de vida de forma casi automática. El caso argentino es muy ilustrativo: de las
17
Ver M. RANALLETTI, La construcción del relato de la historia argentina en el cine, 1983-1989, en
«FilmHistoria», on-line, IX, 1, 1999, pp. 3-15.
18
ROMERO, El pasado que duele y los dilemas del historiador ciudadano, cit.
18
Chile, cuarenta años después
grandes ilusiones de 1983 al «que se vayan todos» de 2001, se produce un descenso al
descrédito del sistema democrático. Peldaños como las asonadas militares de Aldo Rico
y otros, la hiperinflación, la amnistía para la junta militar, el fin de la convertibilidad,
condujeron, en palabras de L.A. Romero, «al punto más bajo del imaginario
democrático».19
En ciertos sectores surge con fuerza una memoria militante, que propicia la
politización partidista del pasado reciente como herramienta o arma antisistema
(democrático). Se trata, con frecuencia, de aquellos que siguen pensando, décadas
después, que la democracia − peyorativamente adjetivada como burguesa − no es sino
un disfraz de la clase dominante, que ahora dice repudiar la dictadura de la que se sirvió
poco tiempo atrás.
Hay que ser conscientes, sin embargo, que en la otra orilla política también surge una
memoria reivindicada por los partidarios del olvido, si se nos permite el juego de
palabras. En el caso chileno, muy extremo eso sí, los hay que consideran que no hay
nada que reprochar al régimen militar, ni por supuesto al general Pinochet. Estos
nostálgicos incluso consideran que al general habría que agradecerle a perpetuidad el
haber evitado una guerra civil y haber modernizado Chile. Desde esa posición ofrecen,
metafóricamente, una especie de propuesta de tablas en una imaginaria partida de
ajedrez: los partidarios del olvido (los correligionarios o amigos de los verdugos)
vendrían a decir a los partidarios de la memoria (los correligionarios o amigos de las
víctimas), poco más o menos: vale más que dejéis de hablar del pasado y que miréis
hacia el futuro, porque si hablamos del pasado todos podremos y deberemos hablar.20
Se trata de la llamada por Steve Stern memoria de la caja cerrada; esto es: no hablemos
del pasado, que es peligroso.
Nuestra propuesta va, justamente, en el sentido inverso: hablemos del pasado, pero
hagámoslo pensando en el futuro. Aquellos estudiantes que estamos formando como
ciudadanos, aquellos con quienes queremos colaborar en la generación de esa memoria
para el futuro, no son responsables de lo ocurrido antes de que ellos intervinieran en la
19
20
Ibid., p. 3.
Ver ALCÀZAR - CACERES, Clío contra las cuerdas, cit., pp. 421-422.
19
Joan Del Alcàzar
realidad política y social de sus países, pero deben tomar conciencia de ella. Es en este
sentido que recuperamos las declaraciones del ex canciller alemán Gerhard Schröeder
pronunciadas en 2005 en Berlín, en el transcurso un acto celebrado con motivo del 60
aniversario de la liberación del campo de exterminio de Auschwitz. Tras afirmar que los
actuales ciudadanos alemanes «no tienen ninguna culpa del Holocausto», añadió que
«es un deber común de todos los demócratas enfrentarse al acoso
repulsivo de los neonazis y al intento de quitar importancia a los
21
crímenes nazis».
Aquello que defendía Schröeder es que la juventud alemana no es responsable del
Holocausto, pero debe saber que existió; la española no es responsable de la guerra civil
ni de la dictadura de Franco, pero debe conocerlas; igual que tampoco lo es la chilena de
la dictadura de Pinochet. No obstante, deben saber que existieron y que, además de
inaceptablemente injustas, pueden tener efectos perniciosos para la convivencia si ellos
no son agentes activos para revertir la situación.
Como decíamos al principio de estas páginas, los años van cayendo del calendario y
los dos actores políticos más importantes del Chile reciente siguen representando no
solo dos formas de entender cómo ha de organizarse una sociedad compleja, sino que
proponen dos maneras de enfrentar la vida, dos formas de ser en relación con los otros,
dos pautas de sociabilidad más que contrarias, antagónicas. El civil, seductor, vitalista,
ilustrado y tribuno comprometido con la emancipación de los desheredados, contra el
militar, dogmático, jerárquico, tosco pero efectivo en la salvaguarda de los valores más
conservadores de una sociedad muy clasista.
Observado por el extranjero, Chile presenta en ocasiones una imagen de isla
solitaria, ajena a lo que pasa en otras latitudes, ya sean próximas o lejanas. La
pervivencia de la confrontación entre Allende y Pinochet es un litigio que solo se
entiende desde Chile, de la misma manera que solo dentro de España pudo entenderse la
vigencia de un cierto franquismo sociopolítico muerto el dictador. No hay
reivindicación alguna del franquismo hoy día, por más que sus herederos políticos sean
21
Ver J. COMAS, Schröder: «No tenemos culpa, sí responsabilidad», en «El País», 26 de enero de 2005.
20
Chile, cuarenta años después
− unos más que otros − los actuales gobernantes. Franco es hoy un recuerdo incómodo,
casi de mal gusto, y a lo más que pueden llegar quienes orbitan en la nostalgia es a
negarse en redondo a cualquier condena de lo que fueron las más de tres décadas de
dictadura que nos infligió. Los adolescentes españoles de hoy a duras penas pueden
decir dos frases sobre aquel general bajito, de voz meliflua y de crueldad probada. Y eso
pasará con Pinochet en Chile, con el andar de los años.
No obstante, no debemos ni limitarnos a esperar que el tiempo resuelva nuestros
problemas ni auto engañarnos: estas controversias, todavía efervescentes en el país
andino, son de consumo exclusivamente interno. Fuera de los límites nacionales,
Pinochet está condenado como responsable de una dictadura que violó los derechos
humanos de forma cuantitativa y cualitativamente dantesca. Es cierto que los seguidores
del general siempre insisten en que el número de víctimas fue muy bajo, como si se
tratara del balance de un desastre natural y tres mil víctimas directas con resultado de
muerte o desaparición fueran una cifra razonablemente asumible. Claro que eso lo
conectan a que se evitó una guerra civil que, suponen, hubiera tenido un mayor coste en
vidas humanas. Y ese es un razonamiento, insistimos, exclusivamente de consumo
interno.
En cuanto a Salvador Allende, sin embargo − a diferencia de lo que ocurre con
Augusto Pinochet − hay mayor sintonía entre su imagen de dentro y su imagen de fuera
de Chile. Entendemos que sigue encarnando todo un ramo de virtudes entre las que
figura la coherencia, la abnegación y hasta la asunción del martirio en defensa de sus
principios. Podrá aducirse que es una asignación sesgada, incompleta y que no recuerda
los errores que se le pueden atribuir al líder socialista en la dirección de un proceso que
tuvo, quizá, más de voluntarismo político que de resultado del análisis concreto de la
realidad concreta del Chile − y de la América Latina − de los primeros años setenta del
siglo XX. Podrá argumentarse en esta línea de manera muy razonable, pero eso no
cambiará esa visión mayoritariamente positiva del hombre que fue capaz de inmolarse
en el Palacio de la Moneda una mañana de septiembre del año setenta y tres.
21
Joan Del Alcàzar
Creemos que la confrontación de los dos actores ha de ser superada y que ha de
avanzarse en la construcción de bases más sólidas tanto de la concepción de la Historia
de Chile como en lo que se denomina la política de la Historia.
A nuestro juicio, esa falta de consensos fundamentales no es estrictamente un
problema chileno actual, sino que viene de más atrás de la victoria de la Unidad
Popular, aunque la situación se envenena definitivamente a partir de 1970. Y son esas
visiones envenenadas las que fundamentan las distintas memorias que encontramos
todavía en conflicto.
A finales del siglo pasado, Steve J. Stern había detectado cuatro de las que él
denomina memorias emblemáticas.22 La primera es la memoria como salvación. Desde
esta posición el trauma chileno se ubica antes del golpe militar, un período en el que la
economía era arbitraria y catastrófica y la violencia había alcanzado niveles
preocupantes. Para quienes se adscriben a esta línea de memoria el odio impregnaba el
aire, y el país se dirigía indiscutiblemente hacia una guerra civil que había de ser muy
cruenta. Una segunda memoria emblemática es la que Stern denomina memoria como
ruptura lacerante no resuelta. El eje sobre el que pivota esta concepción es que el
régimen de Pinochet llevó a Chile a un infierno de muerte, tortura y dolor físico y
psicológico. En tercer lugar identifica la que llama memoria como una prueba de la
consecuencia ética y democrática. Es una memoria que pone a prueba la consecuencia
en la defensa de los valores éticos de las personas, que se ven confrontadas a la realidad
dramática de las grandes violaciones de los derechos humanos. Finalmente, la cuarta de
las memorias emblemáticas es la de la caja cerrada. El eje vertebrador de ésta es que el
golpe y las violaciones de los derechos humanos subsiguientes constituyen un tema
importante pero peligroso y hasta explosivo si se abra la caja y se ventila su contenido.
Como el problema no tiene solución y es tan peligroso y complicado, lo mejor es
mantener cerrada la caja.
El general Pinochet, en su discurso del 13 de septiembre de 1995, era contundente en
esta línea:
22
Ver STERN, De la memoria suelta a la memoria emblemática, cit.
22
Chile, cuarenta años después
«Es mejor quedarse callado y olvidar. Es lo único que debemos hacer.
Tenemos que olvidar. Y esto no va a ocurrir abriendo casos,
mandando a la gente a la cárcel. OL-VI-DAR, esta es la palabra, y para
que esto ocurra, los dos lados tienen que olvidar y seguir
23
trabajando».
Nosotros discrepamos frontalmente del general. Mantener viva, por generaciones, la
memoria de la caja cerrada es no solo injusto con las víctimas de la dictadura; no solo
inaceptable desde la construcción del discurso histórico, es además un grave error
político. Un error que
lastra la convivencia de los chilenos. Resulta, por tanto,
imprescindible, avanzar en la [re]construcción del relato sobre el pasado reciente del
país.
Romper clichés, acabar con las mitificaciones y enseñar historia a los jóvenes
La sociedad chilena ‒ en nuestra opinión ‒ todavía no ha sido capaz de ubicar en un
lugar apropiado ni al presidente Allende ni al dictador Pinochet, ambos venerados por
los suyos y odiados por sus detractores. Los partidarios del primero ‒ del presidente
legítimo ‒ tienden a envolverlo entre algodones y a demonizar al general. Por otro lado,
los fieles al dictador todavía le otorgan el galardón de gran héroe que salvó al país del
comunismo y de la inminencia de una guerra civil, supuestamente buscada por el
camaleónico Allende.
Cuando las heridas no están cicatrizadas, pese a las casi cuatro décadas pasadas
desde el golpe, es fácil que la tensión se reavive con cualquier pretexto. Esto es ‒ según
entendemos desde la distancia − lo que ha ocurrido recientemente en Chile, donde
prácticamente – como referíamos al principio – han coincidido en el tiempo una
polémica entrevista al ex presidente Aylwin con la celebración de un homenaje a
Pinochet, que iba acompañado de la presentación de un documental hagiográfico sobre
el general.24
23
Ver http://www.derechoschile.com/espanol/acerca.htm [Consulta 12 de febrero de 2014].
Documental dirigido por Ignacio Zegers, en http://www.youtube.com/watch?v=8kGWGTa0y_M.
[Consulta 12 de febrero de 2014] que, además, se ha visto en vuelto en otra polémica y es que el cineasta
chileno Miguel Littin ha denunciado el robo intelectual de imágenes de su película Compañero,
Presidente.
24
23
Joan Del Alcàzar
Las reacciones a las declaraciones de Aylwin no se hicieron esperar. Isabel Allende,
hija del presidente, emitió un comunicado en el que se decía:
«El golpe de Estado fue responsabilidad de quienes lo ejecutaron y de
quienes conspiraron para derribar al gobierno constitucional […]
culparlo o a él o a la UP (la coalición que lo sustentaba) contradice
toda evidencia histórica».
También el que fuera presidente, Ricardo Lagos, salió en su defensa alegando que el
presidente
«fue un demócrata. Al momento del golpe de Estado había un
parlamento que funcionaba, había tribunales que funcionaban. Y por
25
lo tanto nada justifica el golpe».
Por otro lado, el homenaje a Pinochet − autorizado por el gobierno de Sebastián
Piñera − hizo que los disturbios volvieran a las calles de Santiago y se saldaran con 20
heridos y 64 detenidos. La onda expansiva ha llegado también al terreno de la política
partidaria; el gobierno de Piñera ‒ a través de Andrés Chadwick, su portavoz ‒ adoptó
una posición de neutralidad ante el acto al que dicen no haber sido invitados.26 Pese a la
asepsia gubernamental, el presidente Piñera se ha visto salpicado directamente por la
cuestión. En una entrevista concedida a la BBC pocos días después del homenaje, el
presidente de Chile daba por zanjada de manera brusca el encuentro después que el
periodista le preguntara a propósito de la polémica sobre el homenaje a Pinochet.27
Más allá de las declaraciones, lo que parece indiscutible es que pasan los años y la
confrontación Allende vs. Pinochet sigue abierta, lo que no es sino la evidencia de que
continúan existiendo distintas y antagónicas memorias de la historia reciente de Chile.
Desde la responsabilidad que compete al pueblo chileno respecto a su presente y su
futuro, parece que sería necesario revisar críticamente los discursos existentes y
comenzar a construir un discurso distinto, así como a superar la contraposición de las
25
R. NÚÑES, Chile: Allende y Pinochet, dos fantasmas que se niegan a desaparecer, 11 de junio de 2012,
en http://www.infolatam.com/2012/06/12 [Consulta 12 de febrero de 2014].
26
Ver El Gobierno de Chile no es partidario del homenaje a Pinochet, en «Europapress.es», 6 de junio de
2012, en http://www.europapress.es/latam/chile/noticia-chile-gobierno-no-partidario-homenaje-pinochetdefiende-derecho-organizacion-celebrarlo-20120606052157.html [Consulta 12 de febrero de 2014].
27
Ver G. LISSARDY, La pregunta sobre Pinochet que BBC Mundo no le pudo hacer a Piñera, en «BBC
Mundo.
Una
voz
independiente»,
en
http://www.bbc.co.uk/mundo/noticias/2012/06/120622_entrevista_pinera_chile_pera.shtml.
24
Chile, cuarenta años después
dos figuras que es un ejercicio con escasos dividendos que no sean negativos. Es
necesario aceptar la diferencia de la responsabilidad en el gobierno del país: uno,
Allende, tres años; y el otro, Pinochet, diecisiete. Y es imprescindible asumir que
mientras que el primero consideró un servidor leal al segundo hasta la misma mañana
del golpe, Pinochet consideró siempre enemigos a Allende y a todos sus partidarios. Es
necesario aceptar que el golpe militar se puede entender, pero en ningún caso justificar;
de la misma manera que si se comprende que el golpe fue bien recibido por mucha
gente como la única salida al caos, no por ello se acepta su desarrollo posterior,
particularmente las violaciones masivas, sistemáticas y continuadas de los derechos
humanos más elementales.
Resulta necesario superar los mitos que existen de un lado y desde el otro y
trascender a efectos de la comprensión del pasado la visión estrictamente ética. Si nos
enfrentamos desde la ética a los dos periodos o a los dos personajes no hay discusión:
hay un gobierno legítimo, convulso e inoperante en su última fase si se quiere, pero
legítimo; y hay un gobierno ilegitimo y violador de los derechos humanos que usurpó el
poder al primero por la fuerza de las armas. Esto no puede ponerse en discusión, ni se
puede justificar con los viejos y manidos clichés de la guerra civil inminente, ni de los
miles de hombres armados dispuestos a dar un baño de sangre a Chile, puesto que
conocemos suficientemente bien los hechos históricos probados que desmienten estas
afirmaciones.
Aceptar los errores, las insuficiencias, los déficits y las contradicciones del periodo
de la UP o del proyecto gubernamental de Allende no puede ponerse en el mismo plano
de simetría respecto al desempeño de una dictadura militar ‒ dictadura, no régimen
militar, dictadura28 − larga, cruel y cruenta. Por tanto, se trata de abandonar las
mitificaciones y de superar las imágenes estereotipadas a propósito de los representantes
de dos visiones antagónicas de la historia reciente de Chile. Es necesario romper con la
idea de que el derecho de propiedad es equiparable al derecho a la vida, como es
28
El Consejo Nacional de Educación (CNED) de Chile, en su sesión del 9 de diciembre de 2011, erradicó
el concepto de “dictadura militar” de los ejes temáticos de Historia para sexto básico (enseñanza
secundaria). Eso dio lugar a una importante respuesta ciudadana en forma de una carta abierta a Harald
Bayer, ministro de educación del gobierno de Sebastián Piñera, que recogió miles de firmas. Ver
https://sites.google.com/site/dictaduraporsunombre/ [Consulta 12 de febrero de 2014].
25
Joan Del Alcàzar
necesario situar a ambos personajes en un contexto de guerra fría, de confrontación
Este-Oeste, de blancos y de negros, o de rojos contra azules, en el que la defensa de los
valores propios ‒ revolucionarios o conservadores − podía llegar a estar por encima de
cualquier otra consideración política.
Pensando fundamentalmente en las generaciones que no vivieron ni los años de la UP
ni los de la dictadura militar, sería deseable construir un relato explicativo del pasado
reciente desde la pretensión de objetividad que es propia del oficio de historiador, que
permita superar los planteamientos esencialistas y que reconozca las diferencias
políticas e ideológicas internas, incluso las diferencias de proyectos sociales, desde la
convicción que pueden ser perfectamente compatibles en la construcción y el desarrollo
de una convivencia colectiva razonablemente armónica.29
En este sentido, ante la confrontación de los partidarios de dos actores políticos de
las dimensiones de Salvador Allende y de Augusto Pinochet, es necesario aceptar que
estamos ante dos proyectos políticos diametralmente opuestos en cuanto a sus principios
y a sus sistemas de valores. Uno se alinea con las corrientes favorables a la reducción de
las distancias entre los distintos grupos o clases sociales, haciendo énfasis en el papel
regulador y redistributivo del Estado, que ha de garantizar que los intereses privados
estén subordinados a los públicos, especialmente para mejorar las condiciones de vida y
trabajo de los sectores más humildes; y eso mientras promueve un sistema de
organización de la sociedad que considera más justo y que identifica con el socialismo
de inspiración marxista. Mientras tanto, el otro construye su programa político sobre la
autoridad militarizada e indiscutible, el orden social rígidamente jerarquizado y la
inviolabilidad de la propiedad privada que no puede estar subordinada al
intervencionismo del Estado, todo ello desde la identificación con lo que denomina los
valores occidentales y cristianos; valores que considera antagónicos con el materialismo
y el ateísmo que adjudica al socialismo. A ambos hay que enmarcarlos en un mundo
dividido en dos, en un escenario que llamamos guerra fría y que no admitía ni las
medias tintas ni los matices políticos.
29
Ver R. VILLARES, El debate sobre la historia de España o la politica de la historia, en J. ALCÀZAR
(Coord.), Història d’Espanya: què ensenyar. Debat al voltant de la historia d’Espanya, Valencia, PUV,
2002, p. 27.
26
Chile, cuarenta años después
Por otro lado, las pautas de gobierno de uno y de otro se sustentan sobre
presupuestos completamente diferentes. Las de Salvador Allende, de manera no exenta
de importantes contradicciones, se cimentan en el mantenimiento de la legalidad
republicana, aunque con un discurso equívoco que en la medida que identifica la meta
final con la Cuba castrista ‒ pese a que enfatiza que la ruta será bien distinta a la de los
guerrilleros de la Sierra Maestra − era una propuesta abierta a diversas interpretaciones,
muy probablemente porque quería dar satisfacción a la pluralidad de sensibilidades y de
grupos ideológicos que coexistían dentro de la UP y en su inmediata periferia. Adolecía
el proyecto, además, de una concepción homologable a lo que hoy día entendemos por
un funcionamiento democrático, en la medida que era deudor de una concepción
instrumentalista de la democracia que la izquierda política mundial, muy especialmente
la que se reclamaba de filiación marxista en su sentido más estricto, tenía absolutamente
arraigada. La democracia aparecía ‒ para quienes creyeron en la Vía chilena, dentro y
fuera del país − como un sistema mediante el cual esa misma izquierda podía acceder al
poder de manera no violenta, pero en la medida que se consideraba que el pueblo ya
había alcanzado su estación término, el mantenimiento de las formas de la llamada
democracia burguesa era algo absolutamente prescindible.
Los presupuestos constitutivos del gobierno de Pinochet, por su parte, son los que
sustentan las llamadas dictaduras de seguridad nacional de los años sesenta, los setenta
y los ochenta, en sintonía por tanto con las directrices de protección hemisférica frente
al expansionismo soviético que tanto se temía desde Washington, especialmente,
después que la pequeña Cuba se convirtiera en una especie de portaviones de la
supuesta pandemia revolucionaria de filiación moscovita. En su desarrollo, el gobierno
militar de Pinochet practicó con fruición la persecución hasta el exterminio del enemigo
interior al que, desde el principio, despojó no solo de su nacionalidad sino, en la
práctica, de su condición de ser humano; y lo convirtió en sujeto receptor de todas las
violaciones de la doctrina de los derechos humanos básicos. Si el gobierno al que
llamaba comunista había puesto en cuestión el sacrosanto derecho de propiedad había
sido porque no se habían preservado adecuadamente los sistemas de control social, y
porque se había permitido la proliferación de las organizaciones que ponían en cuestión
27
Joan Del Alcàzar
el sistema sociopolítico existente, proponiendo su transformación radical y
revolucionaria. Solo desde una acción resuelta y radical – quirúrgica, como gustaban
decir; de amputación hablará Pinochet a Miguel de la Cuadra Salcedo en una entrevista
para TVE realizada en septiembre de 197330 – podía ponerse freno a ese desbarajuste
político y revertir la situación.
Allende en sus discursos siempre afirmaba estar convencido de que solo la
democracia era la llave para llegar al socialismo, por lo que apostó – con modestia, le
dijo a Regis Debray en la conversación que ambos mantuvieron en 197131 – por lo que
él creía una forma novedosa de transitar hacia el socialismo en los tiempos del mundo
bipolar. Tan cargada de ilusiones como preñada de contradicciones, la llamada Vía
chilena se nos antoja hoy día como un producto muy singular de su tiempo; una
propuesta frágil que se sustentaba en un concepto de democracia bien distinto del de
nuestros días, en la medida que ‒ como hemos dicho − se apoyaba en una
instrumentalización que hoy nos resulta inaceptable. La defensa de la democracia ‒ de
la democracia sin apellidos ‒ aparecería para la izquierda política mundial de la mano
del partido comunista italiano;32 precisamente, tras la caída del gobierno de la UP y
como resultado de las reflexiones que su fracaso y su derrota suscitó.33 La visión de
Allende, mucho más abierta no obstante que la de una buena parte de quienes
conformaban la propia coalición del gobierno que él presidía, se legitimaba a si misma
tras una razón fundamentalmente ética que se compadecía mal con las correlaciones de
fuerzas políticas realmente existentes no solo en Chile, sino en América Latina en su
conjunto.
En ese escenario de guerra fría, en un hemisferio en el que la potencia hegemónica
eran los Estados Unidos de América, el precio a pagar por aquellos que habían osado
desafiar el status quo anterior no solo a 1970, sino al de los años posteriores a la victoria
30
Ver http://www.rtve.es/alacarta/videos/reporteros-de-la-historia-de-tve/miguel-quadra-chile-1973/631040/
[Consulta 12 de febrero de 2014].
31
La entrevista fue grabada y convertida en documental por Miguel LITTIN, con el título de Compañero
Presidente. Ver http://vimeo.com/47478157 [Consulta 12 de febrero de 2014].
32
Ver A. GRAMSCI - P. TOGLIATTI - E. BERLINGUER, El compromiso histórico, Barcelona, Crítica, 1978.
33
Ver A. RIQUELME, Los modelos revolucionarios y el naufragio de la vía chilena al socialismo, en
«Nuevo Mundo/Mundos Nuevos», 27 de enero de 2007, en http://nuevomundo.revues.org/10603.
28
Chile, cuarenta años después
castrista, había de ser alto. El régimen militar, por tanto, se empleó a fondo, en sintonía
con otros regímenes continentales de la misma matriz y se decidió a extirpar lo que
denominaban el cáncer marxista. Si el comunismo no era una ideología sino que era
una enfermedad − como había dicho J. Edgar Hoover, director del FBI durante casi
medio siglo − el general Pinochet como otros de sus coetáneos, civiles y militares,
estaba decidido a curar a Chile de ese mal.
Sería bueno, pues, ubicar a ambos personajes en su época y en su contexto, y asumir
‒ mediante el conocimiento y la enseñanza de la Historia − un pasado que podemos
disfrazar pero no cambiar. Y sería bueno ofrecer un discurso coherente y veraz a las
jóvenes generaciones que no debieran ser rehenes de un pasado reciente − pero cada vez
más alejado − sobre el que no tienen responsabilidad alguna.
29
Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali
Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 31-44
e-ISSN 2280-8949
DOI 10.1285/i22808949a3n1p31
http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento
LILIANA SAIU
Gli Stati Uniti e il problema della sicurezza nell’area del Mediterraneo.
Il rapporto Holmes, 1967*
Abstract: By early 1967, security in the Mediterranean region was a matter of serious concern to the
Johnson Administration. This was partly a consequence of the increased Soviet naval presence and most
of all of Moscow’s political activities in some parts of North Africa and the Middle East. Mainly based on
unpublished records, this essay describes the United States’ action to overcome the problem that
ultimately resulted in the activation of the NATO Naval On Call Force in the Mediterranean.
Keywords: The Holmes Report; Mediterranean Security; U.S. Foreign Policy; NATO; NAVOCFORMED.
All’inizio della primavera del 1967, i vertici dell’esecutivo guidato da Lyndon Baines
Johnson commissionarono allo Special State-Defense Study Group uno studio delle
prospettive di potenziamento degli interessi statunitensi nel lungo periodo nella regione
gravitante sul Mediterraneo. Lo studio doveva consistere in un’analisi profonda degli
interessi e degli obiettivi politici degli Stati Uniti e della loro interazione con gli
interessi di altre potenze e con l’evoluzione di forze e orientamenti nell’area del
Mediterraneo e del Vicino Oriente. Lo scopo era quello di fornire ai policy-makers
americani una guida per la politica verso l’area nel quinquennio 1967-1972. La crisi
mediorientale del maggio 1967 e la guerra dei sei giorni conferirono alla questione
maggiore urgenza, e tuttavia lo studio era stato commissionato prima dello scoppio di
quella guerra, segno che a Washington la situazione era già considerata preoccupante,
soprattutto in ragione dell’incremento della presenza di unità navali sovietiche, in
massima parte provenienti dalla flotta del Mar Nero. Questa presenza militare,
praticamente nulla in passato, improvvisamente aveva cominciato a divenire consistente
a partire dalla primavera del 1963, in concomitanza con lo schieramento di sottomarini
armati con missili Polaris deciso dall’amministrazione Kennedy dopo la rimozione dei
missili Jupiter dalle basi italiane e turche, rimozione avvenuta, a sua volta, all’indomani
della crisi cubana dell’ottobre 1962. Alla maggiore presenza sovietica, sempre nel 1963,
Liliana Saiu
aveva contribuito l’annuncio diramato alla fine della riunione ministeriale della NATO a
Ottawa circa l’organizzazione delle forze nucleari assegnate al Comando Supremo
Alleato in Europa, SACEUR.1
In verità, all’incremento progressivo della propria presenza militare, l’Unione
Sovietica aveva affiancato una proposta di denuclearizzazione del Mediterraneo (il
progetto Lake of Peace, o Sea of Peace) con una nota consegnata agli Stati Uniti, al
Regno Unito e ai governi di quattordici paesi rivieraschi. Ma questa iniziativa non
aveva avuto alcun seguito, in quanto i principali destinatari l’avevano considerata
solamente come una mal celata pretesa di ritiro unilaterale delle forze occidentali dal
Mediterraneo o, al massimo, come un’iniziativa propagandistica diretta a creare
dissenso fra i paesi NATO e a disorientare i non allineati.2
Naturalmente, l’attivismo sovietico verso il Mediterraneo non era soltanto una
questione di causa-effetto correlato ai missili Polaris e all’incremento in genere della
disponibilità di armi nucleari da parte della NATO; si trattava anche della necessità dei
vertici sovietici di recuperare la credibilità e l’autorevolezza compromesse dalla débacle
dell’impresa cubana sia a livello interno e in relazione ai rapporti con i paesi satelliti, sia
nei confronti del movimento comunista internazionale, sia, e non è questo un aspetto
secondario, nella competizione in corso con la Cina per mantenere il ruolo guida, la
leadership mondiale del suddetto movimento, ovvero per assumerlo – o non perderlo
ove già acquisito – nei paesi di nuova indipendenza. Competizione con la Cina
comunista, che ai sovietici era già costata, nel 1961, la perdita dell’unica base per
* Questo articolo riprende il tema trattato nella relazione da me presentata al convegno finale del progetto
PRIN 2008, coordinato dal Prof. Leopoldo Nuti.
1
Sul dispiegamento dei missili Polaris e l’organizzazione delle forze nucleari NATO, si veda
diffusamente L. NUTI, La sfida nucleare. La politica estera italiana e le armi atomiche 1945-1991,
Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 241-262.
2
La nota fu consegnata il 20 maggio 1963, vigilia della conferenza ministeriale NATO di Ottawa, proprio
per protesta contro l’annunciata decisione di dislocare nel Mediterraneo sottomarini armati con missili
Polaris. La nota affermava che l’URSS era venuta a conoscenza della dislocazione di sottomarini armati
con missili Polaris nel Mediterraneo, precisamente in basi situate in Spagna, a Cipro e a Malta, e
considerava tale passo una minaccia alla pace nell’area mediterranea e nel mondo. Chiedeva, pertanto, la
denuclearizzazione del Mediterraneo. Il testo è in «Relazioni Internazionali», XXVII, 22, 1963, pp. 690692. Ampia documentazione sulla nota sovietica e le reazioni dei destinatari in THE NATIONAL ARCHIVES
(d’ora in poi TNA), Kew Gardens, File DO 182-61: Proposals for Nuclear Free Zone in the
Mediterranean, May-September 1963.
32
Gli Stati Uniti e il problema della sicurezza nell’area del Mediterraneo
sottomarini di cui il patto di Varsavia disponeva nel Mediterraneo, e cioè quella di
Valona in Albania. E, a proposito di basi, va precisato che l’espansione della presenza
navale sovietica era avvenuta pur in assenza di vere e proprie basi, né l’URSS avrebbe
potuto procurarsele senza smentire la sua stessa propaganda contro la presenza di basi
straniere all’estero. L’URSS si serviva, però, delle strutture generosamente messe a
disposizione da paesi amici, segnatamente Egitto e Siria.3
Per qualche tempo, l’affacciarsi di unità sovietiche nel Mediterraneo non aveva
eccessivamente impensierito gli americani. Si trattava, comunque, di una presenza
limitata e non in grado di competere con la sesta flotta degli Stati Uniti. La sua
consistenza nel 1967, secondo un rapporto NATO, era mediamente la seguente: un
incrociatore, otto cacciatorpediniere e unità di scorta, comprese unità dotate di missili
SSM e SAM, una nave appoggio per sottomarini, una o più unità da sbarco, uno o due
sottomarini atomici, da sei a otto sottomarini alimentati da combustibile convenzionale,
diverse unità d’appoggio.4 Tuttavia, il quadro dell’attivismo sovietico si era man mano
e, in misura crescente, esteso a vendita di armi, ad assistenza economica e ad invii di
stuoli di esperti in vari campi in alcuni paesi mediterranei e anche mediorientali, come
ad esempio l’Iraq. Ed era quest’aspetto politico assai più di quello militare a costituire la
3
Sull’incremento delle unità navali e dell’influenza dell’Unione Sovietica nell’area mediterranea, si
vedano: J.C. CAMPBELL, The Soviet Union and the United States in the Middle East, in «Annals of the
American Academy of Political and Social Science», vol. 401: America and the Middle East, 1972, pp.
126-135; G.S. DRAGNICH, The Soviet Union’s Quest for Access to Naval Facilities in Egypt Prior to the
June War of 1967, Center for Naval Analyses, Arlington, VA, July 1974; L.J. GOLDSTEIN - Y.M.
ZHUKOV, A Tale of Two Fleets: A Russian Perspective on the 1973 Naval Standoff in the Mediterranean,
in «Naval War College Review», LVII, 2, Spring 2004, pp. 32-33. Sulle operazioni della flotta sovietica
nel Mediterraneo in questo primo periodo, si veda B.W. WATSON, Red Navy at Sea: Soviet Naval
Operations on the High Seas, 1956-1980, Boulder, CO, Westview Press/Arms and Armour Press, 1982,
pp. 73-83. In generale, sull’evoluzione della dottrina navale sovietica durante la guerra fredda e
l’influenza dell’ammiraglio Sergei Gorshkov, si vedano G.E. HUDSON, Soviet Naval Doctrine and Soviet
Politics, 1953-1975, in «World Politics», XXIX, 1, October 1976, pp. 90-113; G.E. MILLER, An
Evaluation of the Soviet Navy, in «Proceedings of the Academy of Political Science», XXXIII, 1, The
Soviet Threat: Myths and Reality, 1978, pp. 47-56; M. MCCGWIRE, Naval Power and Soviet Global
Strategy, in «International Security», III, 4, Spring 1979, pp. 134-189.
4
Cfr. Rapporto NATO: The Situation in the Mediterranean, s.d., ma collocabile al maggio-giugno 1968.
Documento ottenuto tramite Mandatory Review Request da NATIONAL ARCHIVES AND RECORD
ADMINISTRATION (d’ora in poi NARA), Washington, DC. Sulla consistenza della presenza navale
dell’URSS si veda anche la testimonianza dell’ambasciatore degli Stati Uniti presso la NATO durante
l’amministrazione Johnson: H. CLEVELAND, NATO: The Transatlantic Bargain, New York, Harper &
Row, 1970, pp. 95-97.
33
Liliana Saiu
fonte delle preoccupazioni di Washington; queste attività potevano, infatti, porre a
repentaglio quanto era rimasto nei rapporti fra i principali paesi occidentali e i paesi
arabi, tanto più che, nella sua opera di penetrazione, Mosca non esitava a utilizzare
l’ostilità di questi ultimi verso Israele in funzione anti-occidentale.5
L’ampiezza della composizione dello Special State-Defense Study Group incaricato
dell’analisi della situazione di per sé dimostrava l’importanza ad essa attribuita
dall’esecutivo degli Stati Uniti. Il gruppo era, infatti, formato da sette militari
appartenenti al dipartimento della difesa, quattro funzionari del dipartimento di stato,
uno del dipartimento dell’interno e due funzionari della Central Intelligence Agency.
Doveva, inoltre, operare sotto la supervisione di un Senior Policy Group formato dal
direttore della stessa CIA, dal presidente dei Joint Chiefs of Staff e da alti funzionari dei
dipartimenti di stato e difesa. A presiederlo fu chiamato un diplomatico a riposo, Julius
Holmes, che era stato, tra l’altro, assistente speciale del segretario di stato per gli affari
della NATO alla fine degli anni ’50 e, dal 1961 al 1965, ambasciatore a Teheran. Per un
breve periodo, Holmes aveva fatto anche parte del gruppo di negoziatori americani che,
nel 1954, avevano contribuito alla risoluzione della questione di Trieste.
Lo studio fu terminato a metà luglio, e i risultati vennero raccolti in un rapporto
rimasto noto come rapporto Holmes, ufficialmente intitolato: Near East, North Africa
and the Horn of Africa: A Recommended American Strategy.6 Sul piano generale, e a
prescindere dai suoi destini, questo documento è di grande importanza, in quanto
rappresenta il punto di partenza dell’accentuazione dell’attenzione statunitense per
l’area del Mediterraneo nella fase finale dell’amministrazione Johnson, un’attenzione
5
Tra i numerosi studi sulla politica degli Stati Uniti verso l’area mediorientale anche nel periodo qui
considerato, si vedano in particolare: H.W. BRANDS, Into the Labyrinth: The United States and the Middle
East, 1945-1993, New York, McGraw Hill, 1994; D. LITTLE, American Orientalism: The United States
and the Middle East since 1945, Chapel Hill and London, The University of North Carolina Press, 2002;
W.B. QUANDT, Decade of Decisions: American Policy toward the Arab-Israeli Conflict since 1967,
Berkeley, University of California Press, 1977; P. TYLER, A World of Trouble: The White House and the
Middle East from the Cold War to the War on Terror, New York, Farrar, Straus and Giroux, 2009.
6
Cfr. Report Prepared by the Special State-Defense Study Group: “Near East, North Africa and the Horn
of Africa: A Recommended American Strategy, undated (ma ricevuto dall’ufficio del segretario alla difesa
il 17 luglio 1967), UNITED STATES DEPARTMENT OF STATE, Foreign Relations of the United States (d’ora
in poi FRUS), 1964-68, vol. XXI, Near East Region; Arabian Peninsula, U. S. Government Printing
Office, Washington D.C., 2000, doc. 22.
34
Gli Stati Uniti e il problema della sicurezza nell’area del Mediterraneo
che assunse carattere d’urgenza di lì a poco, in concomitanza con l’inizio
dell’amministrazione Nixon, e che, nel 1970, portò all’istituzione, in ambito NATO,
della NAVOCFORMED, ovvero della forza navale su chiamata per il Mediterraneo.7 E
tuttavia, il Mediterraneo, peraltro destinatario di gran parte delle raccomandazioni finali,
non era esplicitamente menzionato nel titolo, che invece si riferiva all’area vasta che
gravitava, e gravita, su di esso e sulla quale si ripercuotevano i mutamenti o anche i
semplici sbilanciamenti degli equilibri Est-Ovest. E, tra queste aree, era indicato anche
il Corno d’Africa, situato in prossimità di una delle porte del Mediterraneo (chiusa, al
momento della conclusione rapporto, ma si sperava per poco), una porta critica e, in
quanto tale, oggetto delle apprensioni americane, specialmente dopo l’annuncio
britannico relativo all’abbandono degli impegni di difesa a est di Suez.
Riguardo ai contenuti, il documento, piuttosto lungo e talora ripetitivo, esordiva con
una dettagliata descrizione di una serie di US National Interests, primo dei quali era
impedire all’URSS o ad altri Stati ostili di guadagnare una posizione predominante.
Alcuni degli altri: mantenere le vie d’accesso nel Mediterraneo, nel caso fosse stato
necessario intervenire militarmente nel Northern Tier (il livello settentrionale
dell’alleanza, formato da Grecia e Turchia e completato dall’Iran); ostacolare l’accesso
sovietico alla regione mediante il rafforzamento del medesimo Northern Tier. Il
Northern Tier e il suo rafforzamento ricorrevano, d’altronde, in molte parti del
documento, dal quale, invece, mancava qualunque accenno a possibili difficoltà
d’interazione, per non dire d’assistenza, nei confronti del regime tutt’altro che
democratico instaurato tre mesi prima in Grecia. Ma, d’altra parte, c’erano ben altre
priorità rispetto a una revisione dei rapporti con la Grecia, che, con la sua posizione
chiave, rimaneva un elemento essenziale dello schieramento atlantico.8
7
Sui vari aspetti e i molteplici versanti della politica di Nixon verso la regione mediorientale, si vedano
gli studi pubblicati in Nixon, Kissinger e il Medio Oriente (1969-1973), a cura di A. DONNO e G.
IURLANO, Firenze, Le Lettere, 2010.
8
«Greece, like Turkey and Iran, emerges as particularly important to the U.S. given the uncertainties in
the Middle East and the Soviet thrust in that area»: così scriveva il segretario di stato, Dean Rusk, al
presidente Johnson il 27 luglio 1967, in FRUS, 1964-1967, vol. XVI, Cyprus, Greece, Turkey, U. S.
Government Printing Office, Washington, D.C., 2000, doc. 296. Tre anni più tardi, fu il presidente Nixon
35
Liliana Saiu
Ancora, fra gli interessi nazionali degli Stati Uniti il rapporto Holmes poneva la
necessità di salvaguardare l’accesso alle risorse petrolifere dell’area a condizioni
accettabili. Per comprendere l’importanza del problema, occorre ricordare che, all’inizio
del 1967, più del sessanta per cento del consumo di petrolio e derivati richiesto agli
Stati Uniti in ragione della guerra in Vietnam e più della metà delle risorse petrolifere
utilizzate dalla sesta e settima flotta provenivano dal Medio Oriente. Non solo, gli Stati
Uniti ormai importavano almeno il venti per cento del petrolio per uso interno, e la
percentuale saliva rapidamente. In altre parole, da net exporter gli Stati Uniti divenivano
net importer; il picco della produzione teorizzato negli anni ’50 dal geologo americano
M. King Hubbert era stato raggiunto, segnando un evento epocale di cui deve tenere
conto ogni analisi della politica estera degli Stati Uniti, dal periodo qui in
considerazione agli anni a noi più vicini.9
Il secondo punto dello studio Holmes era dedicato alle Soviet Activities e iniziava
con la lapidaria affermazione che, nell’area di studio, l’URSS perseguiva il suo attacco
indiretto all’Europa utilizzando a tal fine ogni mezzo per eliminare l’influenza
occidentale, specialmente quella americana, per destabilizzare la NATO, la CENTO e gli
accordi occidentali di sicurezza bilaterali, e per guadagnare per se stessa posizioni
comparabili con quelle occidentali in ambito politico, militare ed economico. Veniva,
comunque, riconosciuto un limite di fondo all’azione di Mosca, e cioè il timore che
conflitti locali potessero portare a uno scontro diretto con gli Stati Uniti. Peraltro, si
osservava che le tattiche sovietiche erano favorite da alcuni fattori, primo fra tutti la
mancanza di antichi legami coloniali; di conseguenza, l’URSS era esente da accuse e
sospetti di nuovo imperialismo, che, al contrario, gravavano sull’Occidente in genere.
a ricordare che la Grecia manteneva undici divisioni nello schieramento della NATO: Off-the-Record
Remarks by President Nixon, 16 settembre 1970, in FRUS, 1969-1976, vol. I, Foundations of Foreign
Policy, 1969-1972, U.S. Government Printing Office, Washington, D.C., 2003, doc. 71.
9
Dati sul consumo statunitense del petrolio mediorientale in Paper Prepared in the Department of State:
Near East Oil: How Important Is It?, February 8, 1967, in FRUS, 1964-1967, vol. XXI, cit., doc. 19. Sul
picco di Hubbert, si veda K.S. DEFFEYES, Hubbert’s Peak: The Impending World Oil Shortage,
Princeton, Princeton University Press, 2001, e ID., Beyond Oil: The View From Hubbert’s Peak, New
York, Hill and Wang, 2005. Solo ultimamente la produzione statunitense di petrolio e gas ha cominciato
una costante risalita; si vedano i dati relativi pubblicati dalla U.S. Energy Information Agency nel proprio
sito: www.eia.gov.
36
Gli Stati Uniti e il problema della sicurezza nell’area del Mediterraneo
Un certo anti-occidentalismo era del resto nutrito da una parte crescente delle classi
sociali meno privilegiate di alcuni paesi dell’area.10
La parte centrale del rapporto era dedicata alla strategia che gli Stati Uniti avrebbero
dovuto adottare, Strategy for the United States. Venivano suggerite ben nove linee
d’azione, prima delle quali, forse non a caso, era definita come Safeguard the Southern
Flank of Europe through Diversification of Western Involvement. Questo punto esordiva
con l’osservare che, dalla seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti spesso avevano
dovuto far fronte a problemi nell’area «virtually unaided and at considerable cost».
Proseguiva notando che, nell’area medesima, c’erano ancora importanti interessi
dell’Europa occidentale; ciò nonostante, gli alleati europei degli Stati Uniti non avevano
voluto assumersi pienamente «their share of the burden». In modo più specifico:
«Europe is a natural source of influence in the region. Consequently,
the US should press for greater unilateral and multilateral involvement
of Western Europe, commensurate with its interests».
Concludeva con l’asserzione che un maggiore coinvolgimento di altre potenze sarebbe
valso anche a mitigare la tendenza verso una «unstable polarization and a direct USUSSR confrontation». Ecco, dunque, che il rapporto Holmes arrivava al vero punto
dolente: i costi o, meglio l’annosa e spinosa questione del burden sharing, della
condivisione dei costi della difesa, sulla quale lo stesso segretario di stato Dean Rusk
intervenne più volte e con maggiore insistenza a partire dal 1964 (l’anno della
risoluzione del Golfo del Tonkino e del conseguente inizio dell’escalation in Vietnam),
senza mai dimenticare di rimarcare l’egoismo degli alleati europei.11 Una questione che,
con Nixon, sarebbe assurta al livello di priorità negli obiettivi americani con quella che
10
Su questo punto, si veda A. Donno, Una relazione speciale. Stati Uniti e Israele dal 1948 al 2009,
Firenze, Le Lettere, 2013, p. 170.
11 Tra le varie dichiarazioni in tal senso del segretario di stato Rusk: «The Secretary [Rusk] “emphasized
that our allies are not shouldering an equitable share of the overall Nato defense burden […] pointed out
that we are in a ‘desperate situation’ regarding our costs in comparison to those of Europe and that the
allies ‘will not move unless we are harsh’”». Memorandum for the Files, May 2, 1964, in Frus, 19641968, vol. XIII, Western Europe Region, U. S. Government Printing Office, Washington D.C., 1995, doc.
21. Sul problema della spartizione dei costi anche in seno alla Nato durante la presidenza Johnson, si veda
Cleveland, Nato: The Transatlantic Bargain, cit., pp. 86-89.
37
Liliana Saiu
divenne una sorta di vera e propria operazione politica denominata Redcoste, ossia
Reduction of Costs in Europe.
Tornando alle svariate strategie raccomandate dal rapporto Holmes, vale la pena di
citarne alcune: perseguire una migliore capacità militare degli stessi Stati Uniti; fornire
armamenti convenzionali con pragmatismo e flessibilità; dissuadere Israele e gli arabi
dall’acquisire armi nucleari e missili strategici e sollecitare la loro accettazione di
salvaguardie internazionali.
Esaurita l’elencazione delle strategie, il rapporto Holmes raccomandava ben
trentasette iniziative politiche specifiche volte all’implementazione delle medesime
strategie. La prima di tali iniziative riguardava la Mediterranean Region, in merito alla
quale proponeva di avviare discussioni per focalizzare l’attenzione dei paesi dell’Europa
occidentale sui loro stessi interessi di sicurezza e sulla necessità di assumere maggiore
responsabilità; per sollecitarli a rafforzare i legami con gli Stati radicali dove l’influenza
degli Stati Uniti scarsa; per promuovere una pianificazione congiunta da parte della
NATO, onde far fronte ad eventuali contingenze; infine, per creare una piccola forza
navale permanente entro la stessa NATO.
In pratica, secondo le risultanze del rapporto Holmes, l’attivismo sovietico nella
regione del Mediterraneo poneva seriamente a repentaglio gli interessi statunitensi e, per
far fronte al pericolo, gli Stati Uniti dovevano a loro volta porre in essere in prima
persona tutta una serie di iniziative che si preannunciavano politicamente ed
economicamente molto onerose se non ci fosse stato il contributo dei paesi dell’Europa
occidentale, che era quindi imperativo assicurarsi.
Una volta completato, il rapporto Holmes passò alla valutazione dei dipartimenti e
delle agenzie interessate, dove non trovò consensi unanimi. Al contrario, specialmente
nell’ambito dell’ufficio Intelligence and Research (INR) del dipartimento di stato, trovò
molte critiche: principalmente quella secondo cui la minaccia sovietica era sovrastimata
e, di conseguenza, la necessità d’azione assai meno urgente di quanto raccomandato nel
rapporto. Alcuni funzionari dell’INR scrissero lunghi rapporti in cui, punto per punto,
contestavano sia le premesse, sia le conclusioni del rapporto. Uno di questi documenti
poneva in rilievo come le cattive intenzioni attribuite all’URSS derivassero da un
38
Gli Stati Uniti e il problema della sicurezza nell’area del Mediterraneo
giudizio semplicistico che non teneva in considerazione la storia delle cattive relazioni
sovietico-statunitensi degli ultimi vent’anni e l’andamento del confronto nucleare e che
non distingueva la retorica ideologica dei dirigenti di Mosca dalla loro politica
operativa. Agli Stati Uniti poteva dar fastidio l’intrusione sovietica nel Mediterraneo,
proseguiva il rapporto, ma, dopo tutto, in quel mare c’erano sottomarini armati con
missili Polaris con testate nucleari puntate contro l’URSS. Washington poteva risentirsi
dell’attivismo sovietico e delle mosse per guadagnare un’influenza predominante
almeno in alcuni Stati arabi e anche in Iran. Ma, in fin dei conti, gli Stati Uniti si erano
posti alla guida di altri Stati arabi a danno dell’URSS: negli anni Cinquanta avevano
tentato di creare la Middle East Defense Organization (MEDO), poi avevano
sponsorizzato il patto di Baghdad (la CENTO, Central Treaty Organization) diretta ad
allineare sulle posizioni americane e contro l’URSS alcuni paesi del Medio Oriente o,
quanto meno, ad innalzare un cordone sanitario contro qualunque influenza dell’Unione
Sovietica in un’area ad essa immediatamente adiacente. Infine, non c’era alcuna prova
seria del fatto che Mosca nutrisse qualche speranza di dirottare dai mercati occidentali il
petrolio mediorientale, dato che a quei mercati Mosca non poteva offrire alcuna
alternativa.12
In un secondo documento, si argomentava, fra l’altro, che la questione non era
regionale, ma globale: se la posizione militare sovietica in Medio Oriente avesse posto
una minaccia diretta ai paesi NATO, senza dubbio si sarebbero rese necessarie
12
Cfr. David Mark to Arthur Hartman, Memorandum. Current Soviet Foreign Policy: How Should the US
Interpret it and React (A Personal View), September 5, 1967, in NATIONAL ARCHIVES AND RECORDS
ADMINISTRATION (d’ora in poi NARA), Record Group (d’ora in poi RG) 59, Senior Interdepartmental
Group Files 1966-1972 (SIG), Lot File 74 D 344, box (b.) 7. Le opinioni di Mark non sono mutate nel
tempo; da un’intervista del 1989: «Q: Did it ever occur to you that the Russians themselves might feel
under threat from the West? A: Oh, I'm sure they did. I mean, the Russians have felt that all along. We
were the first with nuclear weapons; we were clearly supporting their enemies, that is anti-communist
forces, in all the states which they considered to be in their sphere of influence in Eastern Europe. We
supported anti-communist Poles, Hungarians, Czechs, Romanians – well, there weren't many of those, but
some – Bulgarians, less so, Yugoslavs, whatever, so that our anti-Moscow intentions were very clear in
those areas. And the Russians felt that this was their security buffer zone, and we weren't willing to accept
it». THE LIBRARY OF CONGRESS, The Foreign Affairs Oral History Collection of
the Association for Diplomatic Studies and Training, in http://memory.loc.gov/cgibin/query/r?ammem/mfdip:@field(DOCID+mfdip2004mar02).
39
Liliana Saiu
contromisure tecnicamente adeguate. Ma questo non richiedeva misure particolari nella
regione mediterranea, perché era altamente improbabile che essa diventasse il centro di
eventuali ostilità sovietico-americane. La protezione dei Polaris, sottolineava il
documento per inciso, era parte di un problema globale assai più che locale. E tra i paesi
NATO, solamente la Turchia era particolarmente esposta alla potenza sovietica, il che
però era vero anche molto tempo prima che Mosca estendesse la propria influenza in
Medio Oriente; in ogni caso, la questione era molto più politica che militare, e politica
in senso Est-Ovest e non nell’ambito mediorientale.13 Un altro documento dell’INR si
lanciava nell’elogio di una politica di basso profilo e dei suoi meriti.14 Un altro ancora
metteva in evidenza quelli che venivano considerati errori di analisi e di valutazione del
rapporto Holmes.15
Questi pareri non incontrarono alcuna rispondenza ad alto livello. Ma le critiche
mosse da un esponente di un altro settore dell’amministrazione ebbero, invece, un
particolare risultato. L’esponente in questione era Harold Saunders, membro dello staff
dell’autorevole National Security Council. Essenzialmente, Saunders contestava l’utilità
di prendere in considerazione iniziative politiche che il congresso non avrebbe mai
approvato, in quanto superiori alle risorse e alle capacità degli Stati Uniti. Sollecitati da
Saunders, altri settori del dipartimento di stato concordavano sul fatto che i rapporti
degli Stati Uniti con la maggior parte degli europei in merito all’Africa e al Medio
Oriente fossero stati in parte impostati sulla rivalità e non sulla collaborazione; che il
ruolo del Regno Unito e degli Stati Uniti quali poliziotti del Medio Oriente e difensori
degli interessi occidentali a fronte dell’aggressione sovietica era stato a lungo dato per
scontato in Europa occidentale e, infine, che, a prescindere dai motivi, l’Europa
appariva riluttante ad esercitare un ruolo militare e politico nel Mediterraneo-Medio
Oriente.16
13
Cfr. All. B (untitled) to INR-George C. Denney, Jr., to Katzenbach, September 13, 1967, Subject: SIG
Discussion of Holmes Study and Proposed Five Year Strategy, NARA, RG 59, SIG, Lot File 74 D 344, b. 7.
14
Cfr. J. LEONARD, A “Low Posture” in the Middle East, September 13, 1967, all. C, ibid.
15
Cfr. Check List of INR Comments on Proposed “Five Year Strategy” for the Near East, North Africa,
and the Horn and the Underlying Holmes Study, s.d., all. A, ibid.
16
Cfr. Memorandum for the Record. Subject: Near East-South Asia IRG Meeting Wednesday, 16 August
1967, Discussion of the Holmes Study, in FRUS, 1964-68, vol. XXI, cit., doc. 24.
40
Gli Stati Uniti e il problema della sicurezza nell’area del Mediterraneo
Si deduce da questi giudizi che nei livelli più alti dell’amministrazione non si
trattava di ridimensionare i punti di vista e le raccomandazioni del rapporto Holmes; si
trattava, piuttosto, di richiamare gli europei alle proprie responsabilità e, soprattutto, di
ottenere la loro partecipazione alla condivisione degli oneri politici e finanziari impliciti
nell’applicazione del rapporto. E, data la scarsa rispondenza ai ripetuti appelli, per non
dire alle intimazioni precedenti, occorreva trovare modalità più efficaci o, almeno,
tentare di trovarle. A questo punto, dunque, secondo una prassi non nuova ai policymakers americani, la questione venne rimbalzata dalla responsabilità degli Stati Uniti a
quella della NATO,17 sede che a Washington sembrava molto più promettente in vista di
un esito positivo, perché, in quanto alleati NATO, i paesi dell’Europa occidentale
avrebbero trovato molto più difficile sottrarsi a oneri che, dopotutto, riguardavano
un’area la cui sicurezza in gran parte ricadeva nella responsabilità dell’alleanza. E, sul
piano interno, i rispettivi governi avrebbero probabilmente trovato minore opposizione
nel far accettare nuove spese derivanti dagli impegni atlantici, piuttosto che richieste
singolarmente e quasi d’imperio dagli Stati Uniti, verso i quali, tra l’altro, anche a causa
del Vietnam, vasti strati dell’opinione pubblica europea manifestavano critiche e
scontento.18
Pertanto, il rapporto Holmes venne “sanitized”. Il sottotitolo originario, A
Recommended American Strategy, fu trasformato in un più sobrio A Background Paper.
Le parole United States o American vennero sostituite con NATO, oppure Western
Europe; quindi, gli interessi americani diventavano interessi della NATO, le azioni da
intraprendersi dagli Stati Uniti diventavano azioni NATO o dei paesi dell’Europa
occidentale, e così di seguito. Contestualmente, si stabilì che Julius Holmes si recasse in
missione presso il consiglio atlantico e i principali alleati NATO per presentare il suo
17
Sull’utilizzo della NATO quale veicolo dei programmi di sicurezza degli Stati Uniti, mi permetto di
rinviare al mio Basi e strutture militari degli Stati Uniti in Italia. Il negoziato, 1949-1954, Roma, Aracne,
2014, in particolare il cap. I.
18
In particolare, sulle reazioni dei partiti e dell’opinione italiani alla guerra nel Vietnam, si veda L. NUTI,
Le relazioni tra Italia e Stati Uniti agli inizi della distensione, in L’Italia repubblicana nella crisi degli
anni settanta, a cura di A. GIOVAGNOLI e S. PONS, vol. I: Tra guerra fredda e distensione, Soveria
Mannelli, Rubbettino, 2002, pp. 38-42.
41
Liliana Saiu
rapporto e chiedere che in seno all’alleanza fosse costituito un comitato ad hoc per
studiare la situazione nel Mediterraneo e i mezzi per farvi fronte, seguendo le
indicazioni contenute nello stesso rapporto. In definitiva, fu in questa forma “sanitized”
che il rapporto ricevette l’approvazione definitiva; contestualmente, vennero approvate
anche le istruzioni per la missione Holmes, le quali contemplano, tra l’altro, che il
diplomatico statunitense spiegasse le ragioni obiettive del rapporto; ponesse in evidenza
l’impatto della minaccia sovietica sugli interessi occidentali e l’esigenza di una comune
consapevolezza del problema da parte degli alleati NATO; auspicasse la creazione di un
gruppo di studio NATO per raggiungere una valutazione condivisa e concordare linee
d’azione adeguate; suggerisse che il consiglio atlantico chiedesse al comando supremo
delle forze alleate in Europa (SACEUR) e al comitato politico della NATO di contribuire
al lavoro del gruppo di studio. Nella lettera di trasmissione delle istruzioni si precisava
che su di esse vi era il pieno accordo dell’ambasciatore americano presso la NATO,
Harlan Cleveland, e che, per consentire l’elaborazione della politica americana verso il
Medio Oriente, era necessario sapere in quale misura gli alleati NATO condividessero il
punto di vista di Washington in merito alla minaccia sovietica o potessero essere
persuasi ad accettarne la validità.19
In buona sostanza, la missione Holmes si configurava come una sorta di “vendita”
del concetto di una minaccia sovietica che nemmeno l’amministrazione americana
condivideva unanimemente, ma che rappresentava la base indispensabile per la
condivisione di oneri che gli Stati Uniti non erano più disposti ad accollarsi da soli.
D’altra parte, soprattutto alla luce degli eventi mediorientali di quell’anno, era
imperativo che ci fossero una rielaborazione e un rilancio della politica americana
nell’area per non rischiare un passivo politico che l’amministrazione di Washington
giudicava intollerabile.
19
Sulla seconda versione del rapporto e sulle istruzioni a Holmes, si vedano Sonnenfeldt a Holmes:
Comments on NATO Version of Your Study, September 12, 1967, NARA, RG 59, SIG, Lot File 74 D 344, b.
7; Leddy a Katzenbach, Instructions for Ambassador Holmes’s Trip to Europe for Consideration by SIG,
September 12, 1967, ibid; Hartman a Katzenbach: For Your Meeting With Amb. Holmes, September 13,
1967, ibid; Record of Meeting, September 14, 1967, in FRUS, 1964-1968, vol. XXI, cit., doc. 25;
Department of State to Amembassy Paris, t. 4683, September 20, 1967; NAC Consultations on the Middle
East. For Ambassador Cleveland, NARA, RG 59, SIG, Lot File 74 D 344, b. 7.
42
Gli Stati Uniti e il problema della sicurezza nell’area del Mediterraneo
La missione Holmes non fu un pieno successo. Gli scandinavi erano fisicamente
lontani dal problema; gli italiani più attenti ai loro rapporti bilaterali; i tedeschi erano
preoccupati di trovarsi in condizione di dover realmente applicare la dottrina Hallstein
e, di conseguenza, privarsi di relazioni diplomatiche con paesi con i quali intrattenevano
interessanti rapporti economici e commerciali; i francesi, dopo l’abbandono delle
strutture militari integrate della NATO, sembravano stare sulla soglia della stessa
alleanza atlantica; gli inglesi non potevano tornare indietro sulle revisioni della difesa e,
comunque, ritenevano che l’intenzione ultima degli americani di innalzare la bandiera
della NATO sulla sesta flotta non fosse affatto “a British interest”. Sulla maggior parte
dei governi dell’Europa occidentale gravava, infine, l’imbarazzo di intraprendere azioni
in collaborazione con il nuovo regime greco.20
Altri fattori di primaria importanza agivano sulle reazioni degli alleati europei.
Nessuno voleva rischiare di iniziare entro la NATO e, quindi, di dare ufficialità a
discussioni che inevitabilmente avrebbero toccato il punto più dolente della situazione
mediorientale, e cioè il conflitto arabo-israeliano. Nessuno voleva che la NATO
diventasse un’assise o avesse la parvenza di voler mediare nel conflitto. Nessuno,
insomma, intendeva essere coinvolto anche minimamente. Un altro fattore era la
situazione stessa della NATO, considerate la succitata iniziativa francese e l’imminenza
della scadenza dei vent’anni previsti dal trattato per eventuali recessi. E il problema
della sicurezza dell’Europa occidentale, a partire da Berlino e dalla Germania Federale,
era ancora una questione concreta ed irrisolta. Sotto quest’aspetto, la sopravvivenza
della NATO era essenziale, ed essenziali erano anche il ruolo degli Stati Uniti
nell’alleanza e il loro contributo alla sua vitalità. Quindi, gli alleati europei non erano
nella posizione di porre un veto assoluto alle iniziative americane.
Allo stesso tempo e per gli stessi motivi, tutti i membri, e questa volta americani
compresi, erano interessati al successo degli sforzi in atto in quel periodo su iniziativa
20
Le reazioni e gli umori degli alleati sono qui desunte dalla relativa, e molto ampia, documentazione
britannica; in particolare, Burrows a FCO, tel. 317, October 12, 1967, TNA, FCO 41/251; FCO to UKDEL
NATO, tel. 1614, October 17, 1967, ibid.; Barnes to Hood, Memo. Nato, The Middle East and the
Mediterranean, October 17, 1967, ibid.
43
Liliana Saiu
del ministro degli esteri belga, Pierre Harmel, per definire i futuri compiti e, in pratica,
la stessa ragion d’essere dell’alleanza atlantica. E questo militava contro l’accettazione
della proposta Holmes di creare un gruppo ad hoc per discutere su misure nella regione
mediterranea. Accettarla significava, infatti, sminuire il senso stesso del lavoro di
Harmel, uno dei cui quattro sottogruppi già si occupava degli sviluppi esterni all’area
NATO, e sminuire il lavoro di Harmel significava rischiare di compromettere il futuro
dell’alleanza stessa. Di questo, come detto, erano ovviamente consapevoli anche gli
americani, che, pur di mantenere il problema entro la NATO, si rassegnarono a
rinunciare al gruppo di studio ad hoc e ad accettare l’inclusione del problema del
Mediterraneo nello studio Harmel. Quest’ultimo fu approvato nel mese di dicembre;
uno dei paragrafi finali recita testualmente:
«The Allies will examine with particular attention the defence problems
of the exposed areas e.g. the South-Eastern flank. In this respect the
present situation in the Mediterranean presents special problems,
bearing in mind that the current crisis in the Middle East falls within the
21
responsibilities of the United Nations».
In qualità di uno dei cosiddetti seguiti del rapporto Harmel, il problema del
Mediterraneo fu oggetto di una lunga e serrata serie di discussioni entro la NATO.
L’approvazione del “concetto” di una forza navale su chiamata avvenne solo nel
gennaio 1969; la flotta divenne operativa l’anno dopo. Da allora e fino al 1992, allorché
fu sostituita dalla STAVANFORMED, la forza navale stabile del Mediterraneo, essa compì
esercitazioni e visite in vari porti, in tal modo mostrando la bandiera, proprio come
facevano i sovietici.
21
The Future Tasks of the Alliance: The Council Report-The ‘Harmel Report’, December 13-14, 1967, in
http://www.nato.int/cps/en/natolive/official_texts_26700.htm?selectedLocale=en.
44
Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali
Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 45-76
e-ISSN 2280-8949
DOI 10.1285/i22808949a3n1p45
http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento
GIANLUCA BORZONI
The King is dead, long live the Queen.
I rapporti italo-britannici nei giorni del passaggio da Giorgio VI a Elisabetta II
Abstract: Historical studies on Angl o-Italian diplomatic relations between the end of WWII and the
early Fifties have often stressed two contradictory el ements: the alleged good will to overcome the heavy
legacy left by Italian fascism and the war, and th e political and psychologica l qualms that emerged
whenever the dialogue between Rome and London was re sumed. Largely based on primary sources, this
essay brings new elements to the knowledge of the evolution of bilateral relations in the midst of the
dynastic succession that led Elizabeth II to the throne of Saint James.
Keywords: Anglo-Italian relations; King George VI’s death; Queen Elizabeth II’s ascent to the throne;
Ambassador Manlio Brosio; The Trieste Question.
1. Gli scenari diplomatici, 1951-1952
«L’improvvisa morte di re Giorgio, la cui salute, dopo l’operazione subita nel settembre
scorso, sembrava procedere sulla via di un lento ma graduale miglioramento, è stata
motivo di diffuso e profondo senso di dolore per tutto il popolo inglese»:1 l’8 febbraio
1952, a due giorni dalla morte del sovrano che aveva guidato la Gran Bretagna
nell’ultimo quindicennio – periodo non particolarmente lungo, ma straordinariamente
denso di avvenimenti capitali – l’incaricato d’affari italiano a Londra, Livio Theodoli,
tentava di condensare in un rapporto per il ministero degli esteri i sentimenti prevalenti
tra gli inglesi, sottoponendoli ad analisi.2 In presenza di commenti unanimemente
ispirati al ricordo delle virtù «di uomo, di cittadino, di padre di famiglia, di soldato e di
A fine settembre 1951, Giorgio VI era stato operato di pneumectomia (J. WHEELER-BENNET, King
George VI: Hi s Life and Rei gn, New York, St. Martin’s Press, 1958, p. 788); la citazione si trova in
Theodoli a De Gasperi , telespresso 708/407, 8 febbraio 1952, in ARCHIVIO STORICO-DIPLOMATICO DEL
MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI (d’ora in avanti, ASDMAE), Affari Politici (AP) 1950-1957, Gran
Bretagna, b. 139.
2
Il 6 febbraio, il diplomatico aveva avvisato della scomparsa di Giorgio VI con telegramma in cifra agli
esteri n. 1500 del 6 febbraio 1952, ibid.
1
Gianluca Borzoni
sovrano», il diplomatico si domandava se dietro la formale impossibilità di superare il
principio “the King can do no wrong ” si nascondesse la possibilità di un giudizio più
articolato sui possibili sviluppi istituzionali del paese.
Ebbene, complice anche «la saggezza degli uomini politici che si sono succeduti al
potere» e il tradizionale senso di lealtà monarchica della popolazione, era suo
convincimento che la posizione della corona fosse «più salda che mai», a dispetto delle
prove affrontate dal momento della sua inconsueta ascesa al trono. Rafforzamento del
ruolo del sovrano costituzionale la cui «suprema dignità non può essere oggetto di lotta
politica», trasformazione dei legami tra i paesi del Commonwealth, salvaguardando – a
un prezzo non indifferente – alla monarchia quantomeno «la funzione di ultimo anello
costituzionale»: al suo popolo, Giorgio VI lasciava in eredità un regime monarchico a
cui riferirsi «non come a qualche cosa che appartiene al passato, ma come a uno
strumento che potrà continuare ad essere utile anche per il futuro».3 Certo, gli scenari
politici non apparivano i più propizi a una tranquilla transizione regale. Il paese era
stato recentemente attraversato da forti polemiche in occasione della campagna
elettorale che, nell’ottobre precedente, aveva riportato al potere i conservatori dopo sei
anni, e un allentamento dei toni sarebbe stato necessario. Come aveva scritto in quei
giorni sobriamente il «Daily Mirror»,
«la battaglia è finita […]. Il paese è tornato a un governo conservatore
con una maggioranza risicata. L’amministrazione del signor Churchill
ha ora la responsabilità di gestire le difficoltà con le quali la Gran
Bretagna si deve confrontare a causa della situazione mondiale.
Dobbiamo guadagnarci da vivere eliminando il disavanzo commerciale,
e allo stesso tempo ristrutturare le nostre difese. Fare ciò richiederà la
buona volontà e lo sforzo della nazione. Niente di meno sarà
4
sufficiente».
La quotidianità si mostrava, viceversa, ancora segnata da dissidi politici e
conflittualità sociale, come puntualmente riferiva l’ambasciata italiana. Avvisaglie di
3
Theodoli a De Gasperi, telespresso 708/407, 8 febbraio 1952, cit.
46
The King is dead, long live the Queen
una nuova ondata di tensione si erano palesate già sul finire di gennaio, quando il leader
laburista Clement Attlee, parlando a Manchester, pur riconoscendo l’esistenza di una
situazione economica difficile nel paese, preavvertiva la maggioranza conservatrice che
scelte di politica economica di tipo restrittivo sarebbero state avversate con durezza.
Questa presa di posizione era stata considerata a Grosvenor Square, sede della
rappresentanza italiana, del tutto demagogica, sia in considerazione delle obiettive
circostanze, sia con riferimento ai provvedimenti intrapresi dallo stesso ultimo governo
a guida laburista. Agli inizi di febbraio, poi, il dibattito parlamentare sul tema aveva
registrato “violenti scontri”,5 che accentuavano le punte critiche rivolte al primo
ministro Churchill anche riguardo ad alcune scelte relative al settore militare, quali la
rinascita della Home Guard e la nomina a ministro della difesa di un nuovo pari
d’Inghilterra, quale lord Alexander,6 mentre ancora si attendevano con apprensione
novità in tema di riarmo.
Con le prerogative e i vincoli dettati dalla prassi costituzionale britannica, la
responsabilità di iniziare a condurre il paese in un frangente sicuramente intricato
sarebbe ricaduta sulle spalle della primogenita di Giorgio VI. Lungo il solco tracciato
dal padre, ma anche con una necessaria dose di ulteriore personale fermezza.
Quanto all’Italia, anche a Londra l’ultimo appuntamento elettorale aveva suscitato
qualche timore. L’opinione pubblica aveva salutato i risultati delle amministrative del
1951 con accenti diversificati, ma, più che il cospicuo indietreggiamento percentuale
patito dalla democrazia cristiana, si era sottolineata con favore la perdita, da parte dalla
sinistra, dei grossi centri del nord precedentemente amministrati. L’avanzata comunista
rivelava, peraltro, come la maggioranza di governo avesse davanti a sé ancora molte
sfide sociali da affrontare. Commentava «The Times»:
D.E. BUTLER, The British General Election of 1951, London, Macmillan & Co, 1952, pp. 245-246.
Theodoli a Esteri, telespresso riservato 590/328, 2 febbraio 1952, in ASDMAE, AP 1950-1957, Gran
Bretagna, b. 139.
6
Si vedano Theodoli a Esteri, telespresso 335/172, 19 gennaio 1951, e telespresso 473/236, 28 gennaio
1951, ibid.
4
5
47
Gianluca Borzoni
«Il governo italiano dovrà fare sforzi ancora maggiori per ridurre la
disoccupazione e la aumentare produzione, distribuire la terra ai
contadini, eliminare stridenti ineguaglianze, ricchezza e privilegi se vuole
diminuire il compatto e formidabile blocco degli elettori comunisti. È
molto probabile che l’Italia, affrontando tali compiti, necessiti di
7
maggiore assistenza [da parte dei] suoi alleati».
Proprio sul piano economico i mesi appena trascorsi avevano fatto registrare altri
passi avanti nella cooperazione anglo-italiana, su impulso del relativo comitato misto di
lavoro. Temi economici e commerciali, ma anche un’ulteriore occasione per esaminare
“questioni d’indole generale”, specie in capo al processo di integrazione europea,
entrando nel dettaglio delle motivazioni alla base dell’adesione italiana al piano
Schuman e della posizione ostile della controparte; spiegando perché, da parte
britannica, ci si dicesse contrari anche al pool agricolo di proposta francese e, viceversa,
interessati in maniera “inusitata” a quello aeronautico ipotizzato a Roma; vagliando,
altresì, le opportunità di dar vita a una grande conferenza economica bilaterale e, per
intanto, le possibilità di piazzamento di nuove commesse inglesi finalizzate a sostenere
l’avviato riarmo.8
In definitiva, sulla scia dei soddisfacenti risultati dei colloqui londinesi di De
Gasperi e Sforza del marzo 1951 – «a dispetto della loro genericità […], al contrario
importanti»9 – nel rinnovato contesto politico esistente, per le autorità italiane si
potevano rinvenire le premesse di un fecondo sviluppo di relazioni con il governo
presieduto da Winston Churchill, il quale, al momento dell’agognato ritorno a Downing
Street, aveva preannunciato un “fresh approach” anche in politica estera. A dispetto di
posizioni passate e di atteggiamenti caustici anche recenti,10 dal leader conservatore e
Gallarati Scotti a Esteri, telespresso 6503, 30 maggio 1951, e Gallarati Scotti a Esteri, telespresso
7381, 14 giugno 1951, in ASDMAE, AP 1950-1957, Gran Bretagna, b. 57, dove si trovano anche numerosi
ritagli della stampa britannica.
8
Cfr. Appunto per S.E. il Ministro, 10 luglio 1951, ibid.
9
A. VARSORI, Un primo tentativo di riconciliazione angl o-italiana nel dopoguerra: la visita di De
Gasperi e Sforza a Londra nel marzo del 1951, in «Storia e Diplomazia», IV, 3, dicembre 2012, p. 33.
10
Agli inizi del marzo precedente, aveva sollevato molte polemiche un riferimento all’Italia contenuto in
una replica parlamentare, poi riferita diffusamente sui giornali; si vedano i relativi ritagli dal «Times»,
7
48
The King is dead, long live the Queen
da Anthony Eden – tornato anch’egli a guidare i ben noti ambienti del Foreign Office –
erano provenuti alcuni segnali preliminari che consentivano di intravedere orientamenti
favorevoli all’Italia, sia di carattere generale (relativamente alla volontà di correggere i
«molti piccoli errori commessi dai laburisti»),11 sia in merito ai principali dossier
riguardanti il governo di Roma, tra i quali l’ammissione alle Nazioni Unite e l’ancora
spinosissima questione di Trieste.
Anche l’opinione pubblica britannica mostrava un rinnovato interesse per gli affari
italiani e, anzi, proprio con riferimento alla perdurante esclusione dall’ONU, autorevoli
testate esprimevano valutazioni apertamente critiche, mentre la stampa in lingua inglese
a diffusione internazionale si attendeva a breve importanti novità. Scriveva, ad esempio,
Mario Rossi, sullo statunitense «Christian Science Monitor», che Churchill avrebbe
presto dimostrato nei confronti della DC «maggiori simpatie del partito laburista […],
che ha ripetutamente appoggiato i socialdemocratici italiani».12 Dopo la freddezza
dell’immediato dopoguerra, un miglioramento di atmosfera era stato realizzato,
attraverso una significativa serie di provvedimenti di politica estera, militare e
coloniale, spesso – si leggeva – anche in controtendenza rispetto al «rinascen[te]
nazionalismo» italiano. Evidenti incomprensioni, come detto, ancora caratterizzavano il
dialogo sull’integrazione europea.13 Ma, anche in quest’ambito di azione, andava
maturando, da parte di diversi esponenti di primo piano del partito, la necessità che una
chiara risposta, in termini di difesa continentale, agli scenari apertisi con la crisi coreana
dovesse condurre la Gran Bretagna, superata l’avversione laburista, a riprendere il
«Manchester Guardian», «News Chronicle», «Daily Telegraph» e «Daily Mail» del primo marzo, dal
«Daily Herald» del 2 marzo 1951, in ASDMAE, AP 1950-1957, Gran Bretagna, b. 57.
11
Cfr. Sforza a De Gasperi, 19 maggio 1950, in I Documenti Diplomatici Italiani, serie undicesima, vol.
IV, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2009, doc. 204.
12
Gallarati Scotti a Esteri, telespresso 12796/6046, 29 novembre 1951, in ASDMAE, AP 1950-1957, Gran
Bretagna, b. 57.
13
Cfr. ibid.
49
Gianluca Borzoni
cammino comune, riassumendone la guida.14 Sarebbe bastato a convincere un più che
perplesso Churchill e un decisamente ostile Eden?
Per il momento, il 29 ottobre 1951 De Gasperi, nel rivolgere al primo i propri auguri
per la riassunzione della guida del governo, aveva contestualmente espresso «la certa
fiducia che l’insigne promotore dell’ideale europeo saprà dargli tutto l’appoggio della
sua preziosa energia realizzatrice».15 E al nuovo segretario di stato agli esteri, che il 31
gli aveva manifestato la soddisfazione di “essere colleghi”, lo statista trentino aveva
risposto due giorni dopo, esprimendo consapevolezza per il difficile impegno da
affrontare, ma anche la speranza «che la fruttuosa cooperazione tra noi possa costituire
un efficace contributo alla causa di tutti».16 Ancora il 2 novembre, la prima visita
protocollare di Gallarati Scotti a Eden si era svolta con incoraggiante cordialità: “viva
ammirazione” per De Gasperi, compiacimento “per [il] cammino percorso” e desiderio
di approfondirlo, al fine di rendere «più cordiale [la] ricerca di soluzione [dei] problemi
pendenti»17 in un clima di lealtà e franchezza. E se la mente degli italiani correva subito
alle terre giuliane, il capo del Foreign Office ricordava che anche i britannici avevano
alcune penose preoccupazioni e citava espressamente l’Egitto, convinto com’era della
necessità che i reciproci punti di vista fossero chiariti, al fine di «rendere impossibili
equivoci e interferenze che potrebbero compromettere per Occidente posizioni
indispensabili sua difesa». Agli esteri, la parola “interferenze” venne sottolineata con un
vigoroso tratto di matita blu. L’ambasciatore d’Italia, che assicurava l’intenzione del
proprio governo di sviluppare i rapporti vicendevoli, concludeva di avere trovato Eden
«pieno di giovanile energia e sicuro di sé, lieto che destino gli
consenta riprendere carica cui sua esperienza lo ha reso
Cfr. S. GREENWOOD, Britain and European Int egration since the Second Worl d War, Manchester,
Manchester University Press, 1996, pp. 44-54.
15
De Gasperi a Churchill, telespresso 9961, 29 ottobre 1951, in ASDMAE, AP 1950-1957, Gran Bretagna,
b. 57.
16
Message from the Right Honourable Anthony Ed en to His Excellency Signor De Gasperi, 31 ottobre
1951, ibid.
17
De Gasperi a Eden, in Scola Camerini a Gallarati Scotti, telespresso 10089, 2 novembre 1951, ibid.
14
50
The King is dead, long live the Queen
particolarmente adatto, e pronto a dare nuovo tono politica
estera suo paese».18
Poche settimane più tardi, la partecipazione emotiva dimostrata dall’opinione
pubblica inglese in occasione dell’alluvione del Polesine aggiunse un elemento di
reciproca
comprensione
politicamente
(ma
anche
simbolicamente)
rilevante,
accompagnata com’era dal contributo prestato dalle forze britanniche della zona A
triestina. E, infatti, così aveva risposto il presidente della repubblica Einaudi al
messaggio di cordoglio inviatogli da Giorgio VI:
«Sono oltremodo sensibile e non meno sensibile sarà il mio paese alle
espressioni di simpatia che V. M. ha voluto indirizzarmi in questa così
triste ora. Nel rendere le grazie più vive desidero altresì rassicurare la V.
M. della nostra riconoscenza per la cooperazione data all’opera di
salvataggio da parte di reparti britannici, con uno dei quali ho avuto la
felice opportunità di compiacermi personalmente sui luoghi
19
alluvionati».
A dispetto, dunque, del disagio che, per diverso tempo, sarebbe stato provocato dalla
mancanza di un ambasciatore in sede dopo le dimissioni e, poi, la partenza da Londra di
Gallarati Scotti, l’azione intrapresa da quest’ultimo al fine di recuperare una convinta
cordialità nei rapporti reciproci era proseguita costante – ciò che rispondeva
«all’interesse dei due paesi e di tutta la comunità occidentale»,20 aveva detto re Giorgio
nel corso di un’udienza di congedo ancora particolarmente amichevole – e poteva
dunque legittimamente attendersi che il regno di Elisabetta avrebbe registrato un
ulteriore miglioramento della situazione.21
Gallarati Scotti a De Gasperi, telespresso 13820, 2 novembre 1951, ibid.
Einaudi a S. M. il re, Londra, telespresso 11881, 23 novembre 1951, ibid.
20
Gallarati Scotti a Esteri, telespresso cifra 15984 Pr., 12 dicembre 1951, ibid.
21
Gallarati Scotti si sarebbe trattenuto a Londra fino al 20 dicembre. Sull’analisi della realtà britannica
da parte dell’ambasciata di Grosvenor Square nel corso del 1951, mi permetto di rinviare al recente G.
BORZONI, Dusk of the “Sole dell' Avvenire” for Labour Party? Italian Ambassador Tommaso Gallarati
18
19
51
Gianluca Borzoni
2. Una nuova sovrana in Gran Bretagna
La regina conosceva l’Italia, dove era stata anche nell’aprile del 1951, quando aveva
trascorso tredici giorni tra Roma e Firenze in compagnia del consorte Philip.
Proveniente da Malta, la coppia era giunta nella capitale italiana nella tarda mattinata
dell’11: tra gli impegni di rilievo, immediatamente dopo l’arrivo a Ciampino, la
principessa Elizabeth aveva partecipato alla colazione offerta al Quirinale dal capo dello
stato Luigi Einaudi; due giorni dopo, la visita in Vaticano per l’udienza presso papa Pio
XII.22 A corona degli incontri istituzionali, una lunga serie di eventi sociali, sportivi e
culturali, e la gita di due giorni a Firenze, ospiti dell’ex regina di Romania, Elena, a
Villa Sparta. Al momento della ripartenza da Roma, il 24, il presidente della repubblica
aveva comunicato ai reali inglesi «quanto gradita [fosse] stata in Italia la visita della
graziosa principessa», traendone «felice auspicio per le relazioni di amicizia» tra Italia e
Gran Bretagna. Tre giorni dopo era giunto il messaggio di risposta con il quale Giorgio
VI esprimeva riconoscenza per l’accoglienza tributata alla figlia e al genero –
«particolarmente felici» del viaggio – e confermava come il fervore manifestato
nell’occasione dagli italiani potesse essere considerato «una nuova prova dell’amicizia»
tra i due paesi.23
Meno di dieci mesi più tardi, la gradita ospite si accingeva, dunque, a salire sul trono
di San Giacomo, mentre la scomparsa del padre incrementava l’attività diplomatica tra
Roma e Londra. All’apprendimento della notizia, il presidente del consiglio e ministro
degli esteri De Gasperi si era recato presso l’ambasciatore britannico per una visita di
Scotti Face to British Elections of October 1951 , in «Sociology Study», III, 10, October 2013, p. 773780.
22
L’udienza papale sollevò in Gran Bretagna molte discussioni e svariate critiche, provenienti soprattutto
dalla libera chiesa di Scozia. Tra queste ultime, la costatazione che l’utilizzo del velo da parte di
Elizabeth e della sorella Margareth e la riverenza accennata avevano «aggiunto proprio quella nota di
resa alle condizioni di accettazione cattolico-romane che sono così care al cuore della chiesa romana e
così umilianti per i fedeli protestanti».‘Wee-Free’ Professor Attacks Prin cesses for Seeing the Pope –
‘Why a Black Veil? Why a Curtsey?’ , in «The Daily Express», May 9, 1951, in ASDMAE, AP 1950-1957,
Gran Bretagna, b. 57.
23
Einaudi al re e alla regina d’Inghilterra , telegramma 3268, 24 aprile 1951; Giorgio VI a Ei naudi, 27
aprile 1951, ibid. (dove è presente tutto il materiale relativo alla visita).
52
The King is dead, long live the Queen
condoglianze, prima di pronunciare alla camera un indirizzo di cordoglio che
sostanzialmente chiuse i lavori parlamentari in segno di lutto. Nel frattempo, si chiedeva
all’incaricato d’affari di compiere i passi di rito presso la famiglia reale e fare altresì
conoscere al più presto a Roma le intenzioni inglesi circa i funerali e l’eventuale
necessità di delegazioni speciali da parte dei paesi stranieri.24 Nella tarda serata del 6,
giunsero alla consorte del re, alla regina Mary ed alla nuova sovrana i telegrammi con i
quali il capo dello stato Einaudi esprimeva la propria partecipazione al lutto,25 seguiti da
quelli indirizzati da De Gasperi a Churchill e Eden.26 In particolare, così recitava il
messaggio per la giovane regina:
«La repentina scomparsa di S.M. il re Giorgio VI mi rattrista
profondamente. Nel grande lutto che colpisce con vostra maestà e la
reale famiglia tutto il popolo britannico prego la maestà vostra di voler
accogliere l’assicurazione della commossa solidarietà del mio paese e
27
mia personale».
Di seguito, data istruzione alle rappresentanze a Ottawa, Sidney, Karachi, Capetown e
Colombo di presentare le condoglianze ai governi locali e di associarsi alle
manifestazioni del resto del corpo diplomatico,28 nel primo pomeriggio dell’8, Einaudi
inviò un nuovo messaggio alla sovrana, che ora salutava nella sua nuova dignità,
Cfr. Scammacca a Theodol i, fonogramma s.n., 6 febbraio 1952, in ASDMAE, AP 1950-1957, Gran
Bretagna, b. 139. Al contempo, a Parigi, Quaroni tentava di appurare se fosse prevista una partecipazione
del presidente della repubblica. Pur non esponendosi in proposito, già nel pomeriggio del 7 febbraio il
cerimoniale del Quai d’Orsay faceva rilevare che una partecipazione del presidente Auriol non sarebbe
stata inconsueta, rievocando il precedente del viaggio a Londra del presidente Lebrun in occasione della
scomparsa di Giorgio V. Cfr. Quaroni a Da Gasperi, telegramma 1554, 7 febbraio 1952, ibid.
25
Cfr. Einaudi alla regina madre El isabetta, telegramma 1228, 6 febbraio 1952; Einaudi alla regina
Mary, telegramma 1229, 6 febbraio 1952; Einaudi alla regina Elisabetta, telegramma 1230, 6 febbraio
1952, ibid.
26
Cfr. De Gasperi a C hurchill, telegramma 1231, 6 febbraio 1952; De Gasperi a Eden , telegramma
1232, 6 febbraio 1952, ibid.
27
Einaudi alla regina Elisabetta, telegramma 1230, 6 febbraio 1952, cit.
28
Cfr. Scammacca a Ottawa, Sidney, Karachi, Capetown, Colombo, telegramma 1234/C, 6 febbraio
1952, ibid. Su suggerimento del cerimoniale, al primo ministro canadese Louis Saint-Laurent venne,
inoltre, inviato un messaggio diretto di De Gasperi. Cfr. De Gasperi a Saint-Laurent, telegramma 1286, 7
febbraio 1952, in ASDMAE, AP 1950-1957, Gran Bretagna, b. 139.
24
53
Gianluca Borzoni
nell’attesa dell’incoronazione ufficiale da tenersi a debita distanza di tempo dalla
scomparsa del padre:
«Voglia vostra maestà consentire che, nel momento della sua ascesa al
trono degli avi, io le offra l’omaggio dei miei migliori sentimenti.
Prego anche vostra maestà di accogliere i più fervidi voti del mio
paese e miei personali per la prosperità della maestà vostra e per le
29
fortune del suo regno».
Il rinnovato augurio di un regno “lungo e felice”, che potesse rappresentare il viatico
per una “cordiale e feconda amicizia” con l’Italia, ispirava, invece, il contenuto del
telegramma inviato in contemporanea da De Gasperi a Churchill.30 Nei giorni
successivi, si predispose celermente la missione incaricata di portare l’estremo saluto al
sovrano deceduto. Da Londra si era apertamente manifestato compiacimento per
l’ipotesi di inviare una delegazione speciale dall’Italia e, anzi, il Foreign Office aveva
fatto sapere che, impossibilitato il capo dello stato a presenziare, una designazione
come suo rappresentante personale del presidente del senato o, in mancanza, del
presidente della camera sarebbe giunta gradita. Da parte sua, Theodoli – messo ancora
sull’avviso dai colleghi inglesi – consigliò di aggregare alla delegazione un alto
ufficiale delle forze armate, di preferenza un ammiraglio.31 Conseguentemente, al
cerimoniale diplomatico si predispose un progetto di delegazione che, accanto all’«alta
personalità politica», che l’avrebbe guidata, comprendeva il segretario generale della
presidenza della repubblica, il capo dello stesso cerimoniale, Michele Scammacca, il
capo di stato maggiore della difesa-marina e, “eventualmente”, l’incaricato d’affari e gli
addetti militari in servizio a Grosvenor Square.32
Il pomeriggio del 9 la questione poteva dirsi perfezionata: della delegazione
avrebbero fatto parte tutte le personalità suggerite da Scammacca, integrate dal
Einaudi alla regina Elisabetta II, telegramma 1297, 8 febbraio 1952, ibid.
De Gasperi a Churchill, telegramma 1296, 8 febbraio 1952, ibid.
31
Cfr. Scammacca a De Gasperi, appunto s.n., 9 febbraio 1952, ibid.
32
Cfr. Progetto di delegazione ufficiale italiana ai
funerali della defunta
d’Inghilterra, allegato al doc. precedente.
29
30
54
maestà Giorgio VI
The King is dead, long live the Queen
presidente del consiglio di stato e da alcuni altri accompagnatori. A Londra, tuttavia,
non tutte le scelte compiute sarebbero state oltremodo apprezzate, come si dirà. Il
gruppo sarebbe giunto nella capitale inglese via treno la mattina del 14, dopo una sosta
a Parigi.33 Poco dopo l’arrivo, iniziarono le prime visite: a Buckingham Palace, a
Clarence House e a Marlborough House, per l’apposizione delle firme dei registri delle
tre regine Mary, Elizabeth – ora, a sua volta, regina madre – e Elizabeth II.34 Nel
pomeriggio ebbe poi luogo il primo incontro ufficiale di tutte le delegazioni
diplomatiche con la nuova sovrana, ancora a Buckingham Palace. Nei momenti in cui si
intrattenne con Gronchi, Elisabetta espresse riconoscenza per i messaggi di Einaudi,
delle cui condizioni di salute chiese notizie, e ancora ricordò le giornate romane
dell’anno precedente; un colloquio breve e cordiale, che la recente visita e la
conoscenza diretta di alcuni membri della rappresentanza avevano facilitato, ma anche
un’occasione di rincrescimento per la missione diplomatica italiana a Londra che, come
detto, priva di un ambasciatore accreditato, aveva visto il capo della propria
delegazione speciale relegato verso la fine del gruppo, peraltro seguito dal cancelliere
Adenauer35 e dal delegato pontificio, monsignor Giobbe. La giornata si era conclusa
con una visita alla Westminster Hall per l’omaggio alla salma di Giorgio VI.
Cfr. Zoppi a Londra e Parigi, telegramma cifra 1341, 9 febbraio 1952, ibid.
Come per le altre missioni straniere ad hoc, anche la delegazione italiana venne affiancata da un alto
funzionario diplomatico britannico: la scelta del Foreign Office era ricaduta su Pierson Dixon, vice
segretario permanente e – come rimarcato da Theodoli – personaggio “ben noto” in Italia, per i suoi
trascorsi presso la rappresentanza di Gran Bretagna in una fase particolarmente densa di avvenimenti,
quale il periodo 1938-1940, e poi in qualità di primo collaboratore dei ministri Eden e Bevin; su di lui si
veda P. DIXON, Double Diploma: The Life of Sir Pierson Dixon, Don and Di plomat, London,
Hutchinson,
1968.
Per
un
agile
profilo,
cfr.
anche
http://www.oxforddnb.com/templates/article.jsp?articleid=32839&back=.
35
La personale partecipazione di Adenauer nasceva con motivazioni differenti, essendo stata suggerita al
cancelliere direttamente dall’alto commissario britannico nella Repubblica Federale di Germania, su
istruzione del governo di Londra. Aveva riferito il 10 febbraio il rappresentante diplomatico Francesco
Babuscio Rizzo, che tale suggerimento andava «posto in relazione [a] difficoltà persistenti circa invito
formale Adenauer [a] conversazioni Londra» sullo statuto di occupazione della Germania. In previsione
di nuove complicazioni negoziali dopo le dichiarazioni governative in favore di una partecipazione
tedesco-occidentale ai progetti di difesa comune europea, gli ambienti anglo-americani nella RFG
vedevano dunque «molto favorevolmente occasione che presentasi ora Adenauer recarsi a Londra ove
sarebbero già previsti colloqui con Acheson». Babuscio Rizzo a Est eri, telegramma cifra 1695 Pr., 10
febbraio 1952, in ASDMAE, AP 1950-1957, Gran Bretagna, b. 139.
33
34
55
Gianluca Borzoni
Il 15, i funerali del re si svolsero «con quel fasto che discende dalla plurisecolare
tradizione del cerimoniale britannico»;36 oltre alla delegazione italiana, tra i partecipanti
vi erano i reali delle corti scandinave, belga e olandese, i re di Grecia e dell’Iraq, i
presidenti francese, jugoslavo e turco, i principi ereditari di Giordania, Etiopia, Persia,
la granduchessa del Lussemburgo, mentre un assai nutrito gruppo di sovrani in esilio,
da Pietro di Jugoslavia a Michele di Romania, assistettero alla cerimonia a Windsor.
Diciotto i ministri degli esteri presenti alla funzione, tra i quali Dean Acheson, in
rappresentanza del presidente Truman, e Alberto Martin Artajo, in vece del
generalissimo Franco. Laddove non fossero state previste delegazioni speciali,
soccorsero le presenze dei capi delle missioni diplomatiche accreditate, come nel caso
sovietico.
Dopo essere stato scortato da un imponente corteo funebre di sette gruppi ben
individuati (rappresentanti delle forze armate, a precedere il feretro; capi di stato e
principi reali; capi delle delegazioni estere, tra cui quella italiana; seguiti dei capi di
stato; membri delle delegazioni straniere; seguiti di queste ultime; addetti militari), nei
cinque e più chilometri che separano Westminster dalla stazione di Paddington, il
feretro reale era stato poi tradotto, insieme con le delegazioni presenti, con un treno
speciale a Windsor; qui, un ricomposto corteo lo aveva accompagnato alla cappella del
castello reale per la funzione religiosa, alla presenza anche degli esponenti politici
britannici, non presenti alle altre fasi della complessa cerimonia.37 Tredici mesi più
tardi, un nuovo lutto avrebbe colpito la famiglia reale britannica, con la scomparsa della
regina Mary. Sia il presidente della repubblica, sia il presidente del consiglio avrebbero
espresso a Londra la “dolorosa simpatia” del popolo italiano.38
Theodoli a Esteri, telespresso 884/494, 16 febbraio 1952, ibid.
Cfr. Theodoli a Esteri, telespresso 884/494, 16 febbraio 1952, cit.
38
Cfr. i telegrammi: Einaudi alla regina Elisabetta; Elisabetta II a Ei naudi; De Gasperi a C hurchill;
Churchill a De Ga speri, in Antinori a ambasci ata a Londra , telespresso 3977, 20 aprile 1952; le note
Brosio a Eden , 25 marzo 1953; Eden a Brosio , nota 91/117, 1 aprile 1953, in ASDMAE, Ambasciata
Londra 1951-54, b. 81, fascicolo “Funerali Queen Mary 1953”.
36
37
56
The King is dead, long live the Queen
Sul piano politico, a dispetto delle attese nel corso delle prime fasi del regno di
Elisabetta II, le occasioni di vicinanza e reciproca comprensione anglo-italiana furono
sopravanzate dal nuovo irrompere sulla scena di problemi mai risolti. Da questo punto
di vista, gli incidenti occorsi a Trieste tra il 20 e il 22 marzo 1952 – che pregiudicarono
i rapporti tra le autorità italiane ed il comandante britannico della zona A, Winterton –
simboleggiarono il brusco ritorno alla realtà fattuale.39 La successiva fase negoziale con
gli alleati anglo-americani fu l’occasione per il nuovo ambasciatore accreditato a
Londra, Manlio Brosio, finalmente giunto in sede, di valutare «realisticamente i limiti
della “nostra cosiddetta amicizia”», nel convincimento che, per rendere quest’ultima
salda e duratura, impegno personale e buona fede non bastassero, richiedendosi il tempo
dovuto e «soprattutto forti, concreti punti di comune interesse». E se la materia
economica presentava spazi di manovra e prospettive, gli scenari diplomatici si
confermavano piuttosto avari.40
In misura più sfumata, anche i consuntivi di fine anno di parte britannica avrebbero
manifestato una duplicità di percezione. In linea generale, a giudizio della
rappresentanza a Roma, i problemi riemersi non svilivano la portata dei progressi
compiuti e il persistente ottimismo rispetto al futuro. Pareva, all’ambasciatore Victor
Mallet, che l’Italia avesse raggiunto un apprezzabile livello di stabilità politica e di
allentamento delle tensioni sociali, anche a paragone con altre realtà nazionali.
Innegabilmente, gli equilibri del paese si reggevano ancora sul ruolo prominente
giocato da De Gasperi – «uomo di vera integrità morale e astuzia politica», la cui
autorità, «sebbene talvolta messa in discussione», non aveva subito nei fatti una
diminuzione significativa – mentre i riferimenti politici del passato andavano
tramontando e una nuova generazione di classe dirigente tardava, invece, a maturare. In
questo scenario, era essenziale restare vigili rispetto alla minaccia comunista, che,
tuttavia, sembrava ora meno incombente, come avevano riservatamente testimoniato
Cfr. M. DE LEONARDIS, La “diplomazia atlantica” e la soluzione del problema di Trieste (1952-1954),
Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1992, pp. 68-69.
39
57
Gianluca Borzoni
alcuni «grandi datori di lavoro del Nord Italia» e come si poteva desumere dalla
situazione delle aree agricole del Sud. Non risultava alieno da questo progresso il
percorso di riforme che le autorità avevano intrapreso, che spingeva il diplomatico a
scrivere che
«ovunque io viaggi, sono colpito dai tanti segnali d’industriosità e
sviluppo, non solo per quanto riguarda la riforma terriera ma anche
l’edilizia abitativa, le comunicazioni, i progetti idroelettrici e, forse
altrettanto importante, nella produzione di gas metano»
che stava già facendo risparmiare all’Italia il costo dell’importazione di 2 milioni di
tonnellate di carbone all’anno.41 E andava anche crescendo l’attenzione verso la
cooperazione internazionale, nonostante gli ancor magri risultati ottenuti in termini di
indirizzamento di manodopera sui mercati del lavoro esteri, obiettivo prioritario per un
paese «ancora infestato dallo spettro di 2 milioni di disoccupati e altri 2 milioni con soli
150 giorni lavorativi all’anno».42
Quanto alla politica estera, al di fuori dello specifico “nodo” triestino, la situazione
italiana non aveva recentemente offerto all’osservazione preoccupanti rivolgimenti. Il
confine orientale si confermava, però, chiave di volta capace di orientare le scelte
governative anche in altri ambiti. Lo stesso De Gasperi non era estraneo a questa
tendenza, pur con dei distinguo:
«Ogni qualvolta […] uno discute di Trieste con lui trova
immediatamente una quasi esagerata sensibilità, come fosse un
dentista che tocca il nervo di un morale particolarmente irritabile. Mio
convincimento è che lui abbia ora mutato opinione sul fatto che possa
mai riuscire ad ottenere più della Zona A oltre forse a Capodistria e la
linea di costa sopra Pirano. Nel suo cuore vorrebbe probabilmente
Su Brosio e la questione triestina si veda ora F. LEFEBVRE D’OVIDIO, Manlio Brosio ambasciatore a
Londra, in «Storia e diplomazia», IV, 3, dicembre 2012, p. 45.
41
Annual Review of 1952, allegato a Mallet a Eden, tel. 6, January 10, 1953, in NATIONAL ARCHIVES,
Kew Garden – London (d’ora in avanti, NA), FO 371/107742.
42
Ibid.
40
58
The King is dead, long live the Queen
giungere a un compromesso su una soluzione simile, ma non osa
neppure proporla al suo gabinetto finché non abbia pienamente vinto
43
le prossime elezioni generali».
Tanto più che, come alleata, l’Italia si era dimostrata “faithful and conscientious”, ben
portandosi nel corso dell’anno, come confermato anche dalle alte personalità militari
britanniche giunte a Roma in visita, dal maresciallo Montgomery a lord Ismay. E
mentre le specifiche relazioni tra il comandante in capo nel Mediterraneo e i vertici
della marina italiana “could hardly be better ”, il sostegno statunitense cominciava a
produrre confortanti segnali di aumentata prestanza relativa delle forze terrestri ed
aeronautiche del paese.44 A ben vedere, non tutti condividevano questa idilliaca
raffigurazione, e, alcuni mesi dopo, da altre vie sarebbero giunti al Foreign Office
rinnovati esempi della persistenza di pregiudizi sul carattere non certo indomito degli
italiani e valutazioni più di dettaglio sulle forze armate che – come scrive Antonio
Varsori – «sembravano essere fortemente influenzate da ben radicati condizionamenti
psicologici».45
Non mancavano neppure diversità di vedute sul piano generale. Differente sotto
svariati aspetti l’ottica rispetto alla questione coloniale (compresa l’emigrazione bianca)
e alla politica britannica in Medio Oriente, persistevano soprattutto le discordanze nel
modo di guardare ai progressi nel processo d’integrazione continentale. Né,
nell’interpretazione inglese, il “vigoroso sostegno” offerto da De Gasperi e dal gruppo
dei suoi seguaci al progetto di Comunità Europea di Difesa che il 27 maggio 1952 era
stato sottoscritto a Parigi46 senza la partecipazione di Londra – il “grande trionfo” di
Ibid.
Cfr. ibid.
45
A. VARSORI, Gran Bretagna e It alia 1945-56: i l rapporto tra una grande potenza e una piccola
potenza?, in ID., a cura di, La politica estera italiana nel secondo dopoguerra (1943-1957), Milano,
LED, 1993, p. 236.
46
Sulla meditata adesione alla proposta francese e sulle più numerose voci dissenzienti all’interno della
maggioranza in questa fase, si veda P. PASTORELLI, La politica europeistica dell’Italia negli anni
Cinquanta, in ID., La politica estera italiana del dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 241-243.
43
44
59
Gianluca Borzoni
Eden, nelle parole di Harold Macmillan47 – rappresentava un punto di arrivo, bensì
un’importante tappa verso la realizzazione di una “federal six-power Little Europe” alla
quale associare strettamente la Gran Bretagna. Era, peraltro, impossibile predire con
certezza a quali esiti avrebbe condotto questo percorso, non potendo la rappresentanza
britannica
«fare a meno di dubitare se l’opinione pubblica italiana […] abbia
almeno iniziato ad afferrare le piene implicazioni della scomparsa di
48
un esercito nazionale italiano e il suo assorbimento in uno europeo».
In definitiva, uno scenario in chiaroscuro. Per Mallet, non era semplice comprendere
il motivo per cui in Italia gli inglesi non risultassero “popolari” come erano stati in
tempi passati: dal suo punto di osservazione privilegiato, la ‘lettura’ che se ne dava era
che
«la nostra recente tendenza a amoreggiare con il maresciallo Tito e la
nostra asserita mancanza di simpatia per le ragioni italiane su Trieste
hanno certamente abbassato di molto le nostre azioni in questo paese»,
ravvivando latenti antagonismi nei confronti dei «soli europei a non essere stati sconfitti
nella guerra» e facilitando l’emergere di un’ondata di simpatia verso i francesi «le cui
forze armate sono state un fallimento quasi analogo» a quello italiano. D’altro canto,
proseguiva, anche il governo di Londra aveva di che riflettere su questo stato di cose:
«Noi ancora subiamo il tentativo del governo laburista di
propagandare i vantaggi del Welfare State, che gli italiani considerano
Note, May 30, 1952, in H. MACMILLAN, The Macmillan Diaries: The Cabinet Years, 1950-1957, edited
and with an introduction by P. CATTERALL, London, Pan Macmillan, 2003, p. 164.
48
Annual Review of 1952, cit. Sulle perplessità parlamentari, cfr. ancora PASTORELLI, La politica
europeistica, cit., pp. 243-246. Una compiuta trattazione del punto di vista dei militari italiani rispetto
alla CED si trova in D. CAVIGLIA - A. GIONFRIDA, Un’occasione da perdere. Le forze armate italiane e la
Comunità Europea di Difesa (1950-1954), Roma, APES, 2009.
47
60
The King is dead, long live the Queen
avere indebolito le nostre finanze e distrutto la convertibilità della
sterlina. L’insuccesso dei minatori italiani in Inghilterra ci ha causato
grave danno. La nostra prolungata austerità è qualcosa che gli italiani,
con il loro anarchico disprezzo per il razionamento alimentare,
pagamento di tasse e altre necessarie ma irritanti restrizioni della
49
libertà individuale non riescono a comprendere appieno».
Se non ci si asteneva, dunque, dal consueto accenno all’incapacità italiana di apprezzare
completamente gli sforzi britannici, interpretati come incomprensibili forme di
puritanesimo con più prosaiche ricadute a proprio discapito – come nel caso delle
restrizioni imposte al turismo in uscita, che trovava nell’Italia una destinazione
tradizionale – le considerazioni finali si velavano, altresì, di accenni autocritici e una di
certa dose di umano rimpianto:
«È vero che masse di turisti americani, pieni di dollari, girano il paese
in lungo e in largo, ma in qualche modo non sono graditi e rispettati
come soleva essere il turista inglese di un tempo. Di più, in altri tempi
in città come Firenze, Venezia, Genova e Roma vi erano sempre
famiglie britanniche benestanti e rispettate, che sovente si trattenevano
per generazioni nella stessa villa e rappresentavano parte della vita
civica del luogo. Le nostre restrizioni valutarie hanno completato ciò
che morte e altre cause naturali avevano già avviato, e il “Signor
Inglese” non è più una figura familiare il cui solido valore era ben
apprezzato e la cui influenza deve essere stata a volte di grande aiuto
50
per il mio predecessore».
Nei mesi successivi, nuovi accadimenti avrebbero portato conferme a queste parole,
ma anche sensibili mutamenti, specie in relazione alla questione triestina. Dalla sua
sede, Brosio avrebbe iniziato a perorare la bontà della linea volta a rinvenire una
“soluzione provvisoria” in proposito, osservando, al contempo, con un certo disincanto
la consequenziale evoluzione dei rapporti bilaterali. Così, mentre tra gli alleati angloamericani e la Jugoslavia si raggiungeva il momento di “massima cordialità” – e Tito
varcava i cancelli di Buckingham Palace per incontrarvi la regina, primo leader
49
50
Annual Review of 1952, cit.
Ibid.
61
Gianluca Borzoni
comunista a farlo51 – a fine marzo 1953, vigilia di un passaggio di Eden a Roma dopo le
visite ad Ankara e Atene, l’ambasciatore faceva il punto della situazione: «Io sono
freddamente obiettivo né mi faccio illusioni eccessive sulle possibilità di un rapido
miglioramento» dei rapporti. Nessun dubbio che, alla base di molte divergenze, vi fosse
quella che chiamava la «persistente apprensione sui veri motivi dei rispettivi
atteggiamenti»: la mancanza, in definitiva, di una leale fiducia «che può sussistere
anche quando le posizioni politiche non collimano».52 E, in effetti, neppure da parte
inglese si nascondeva ormai che si stesse attraversando “un periodo difficile”, non solo
a causa di Trieste: petrolio persiano, situazione egiziana – con i timori che gli italiani
assumessero al Cairo una posizione sgradita riguardo ai progetti di comando
mediorientale53 – atteggiamento italiano «eccessivamente federalista ed europeista».
Circa, poi, la necessità di una più stabile intesa d’ordine generale, da Grosvenor Square
si era riservatamente verificato come presso molti ambienti conservatori si tendesse ora
«a svalutare l’apporto dell’Italia, in quanto si ritiene che l’azione degli Stati Uniti varrà
in ogni caso a mantener[la] nell’alleanza atlantica, e non si vede chiaramente quali
vantaggi l’Inghilterra possa trarre per la sua particolare politica» da un accordo con
Roma.54
Si veda DE LEONARDIS, La “diplomazia atlantica”, cit., pp. 230-232.
Brosio a De Gasperi, lettera 1641/791 del 31 marzo 1953, in ASDMAE, Ambasciata Londra 1951-54, b.
135, fascicolo “Rapporti italo-inglesi”.
53
Già in occasione dell’avvicendamento diplomatico relativo alla sede egiziana, l’anno precedente,
Brosio aveva assunto un atteggiamento critico circa le posizioni ministeriali. Così aveva scritto al
segretario generale Zoppi il 25 luglio 1952: «Quanto poi al punto specifico dell’Egitto, comprendo
naturalmente le esigenze di tutela dei nostri considerevoli interessi economici e di comunità […]. Ma nel
quadro politico generale mi sembra che sia opportuno che il ruolo dell’Egitto vada visto nelle giuste
proporzioni. In generale le possibilità concrete della nostra politica sono state egregiamente delineate e
delimitate […]: sono modeste, e per esse non credo valga la pena di arrischiare i nostri già delicati
rapporti con la Gran Bretagna». Brosio a Zoppi, lettera riservata 3668 del 25 luglio 1952, ibid.
54
Appunto s.n. del 21 aprile 1953, ibid.
51
52
62
The King is dead, long live the Queen
3. L’incoronazione di Elisabetta II e il declino di De Gasperi
In questo stato di cose, ci si apprestava ad assistere all’ultimo atto dell’insediamento di
Elisabetta II: l’incoronazione, programmata per gli inizi del successivo mese di giugno.
Come già per i funerali di Giorgio VI, tra rigide forme cerimoniali, episodi di attiva
collaborazione e latenti malumori, anche l’organizzazione di questo evento avrebbe
rappresentato una più aggiornata cartina di tornasole per delineare lo stato dei rapporti
bilaterali.
L’agenda dei festeggiamenti predisposta dal cerimoniale inglese risultava assai fitta
e politicamente significativa, comprendendo una lunga serie di manifestazioni a
carattere ufficiale e numerosissimi eventi collaterali. Tra le prime, il ricevimento offerto
dal governo, il banchetto di stato della regina, il pranzo del ministro degli esteri con la
partecipazione della stessa sovrana e di Churchill, un altro ricevimento a Buckingham
Palace e le visite di commiato. Tra le seconde, si ricordavano, soprattutto, la festa
presso lord Salisbury, ministro per le relazioni con il Commonwealth, il ricevimento
alla camera dei comuni e quello offerto dall’arcivescovo di Canterbury, oltre al
programma aggiuntivo predisposto dall’ambasciata italiana, che consentì alla
delegazione giunta da Roma di incontrare in rapida successione numerosi ministri
britannici (tra i quali, il cancelliere dello Scacchiere e i ministri dei lavori pubblici,
difesa, lavoro, approvvigionamenti e edilizia), politici di ogni provenienza, personalità
militari e della cultura.55 A Roma, la definizione della missione speciale suscitò, anche
in questa occasione, ampie discussioni e qualche contrarietà. Già a metà ottobre 1952,
da Grosvenor Square si metteva sull’avviso il ministero circa la delicatezza della
questione: «Per i funerali di Giorgio VI la delegazione [...] fu considerata dagli inglesi
piuttosto scadente di tono»; non vi era dunque ragione alcuna per “fare il bis”.56 Il
primo requisito, per non incorrere in ulteriori errori, avrebbe dovuto riguardare la
rappresentatività dei componenti: in questo senso, appariva fondamentale la
Brosio a Esteri, telespresso 3004/1384 del 12 giugno 1953, in ASDMAE, Ambasciata Londra 1951-54,
b. 81, fascicolo “Gran Bretagna – Delegazione italiana all’incoronazione della Regina Elisabetta II”.
56
Theodoli a Casardi, lettera personale del 18 novembre 1952, ibid.
55
63
Gianluca Borzoni
partecipazione del capo del governo o, in mancanza, del suo vice o di un importante
ministro e di un vice-ministro o sottosegretario agli esteri; insomma, nell’ottica
britannica, diceva esplicitamente Theodoli a Aubrey Casardi, «Piccioni e Taviani […]
andrebbero molto meglio di Gronchi e Scammacca».57 D’altra parte, i francesi – che
prevedevano l’inserimento in delegazione all’estero del capo del cerimoniale nei casi di
partecipazione del presidente della repubblica – si diceva avrebbero inviato a Londra le
massime autorità dello Stato.58
Agli inizi dell’anno seguente, Brosio comunicò al Foreign Office che la missione
italiana sarebbe stata composta dal presidente De Gasperi, dal senatore Alessandro
Casati e dall’ammiraglio Ferreri in rappresentanza delle forze armate, certo che la
partecipazione del primo «[sarebbe stata] qui molto apprezzata».59 Da Roma si aggiunse
il segretario particolare del presidente del consiglio, Canali, e il capo di gabinetto agli
esteri, Scola Camerini, oltre ad alcuni accompagnatori.60 Si trattava, però, ancora di
ipotesi provvisorie e, dopo due mesi di sostanziale inerzia, Brosio decise di scrivere
direttamente a De Gasperi, sollecitando una “decisione definitiva” anche in merito ad
un suo possibile sostituto:
«Se non erro, in tua forzata assenza, è Pella [ministro del Tesoro] che
sarebbe destinato a sostituirti: e personalmente ritengo che, se la
sostituzione è inevitabile, si tratterebbe di un’ottima, benché
61
subordinata, scelta».
Con la data delle elezioni fissata per domenica 7 giugno e la certezza che, stante il
programma delle celebrazioni, prima del 6 sarebbe stato impossibile ripartire da Londra,
la guida della delegazione fu effettivamente assunta da Pella, accreditato con lettera del
presidente della repubblica, datata 18 maggio 1953, quale suo rappresentante presso
Ibid.
Cfr. ibid.
59
Brosio a Scammacca , lettera 263 del 15 gennaio 1953, ibid.; la comunicazione al Foreign Office si
trova in Brosio a Eden, nota 230 del 12 gennaio 1953, ibid.
60
Cfr. Scammacca a Brosio, lettera 699 del 20 gennaio 1953, ibid.
61
Brosio a De Gasperi, lettera del 26 marzo 1953, ibid.
57
58
64
The King is dead, long live the Queen
Elisabetta II.62 Nella missiva, si leggeva l’assicurazione di Einaudi «della cordiale
partecipazione del mio paese e mia a tanto e così vasto giubilo» e la decisione di
nominare una speciale delegazione, i cui membri avrebbero avuto
«certamente motivo di compiacersi di poter avere parte nella
63
cerimonia, [nella] quale a buon diritto si esalta la nazione amica».
Seguivano i voti augurali per un felice regno. Anche l’ambasciatore Brosio, dalle
colonne del «Diplomatist», che ne aveva richiesto un contributo in occasione
dell’incoronazione, volle esprimere auspici di “felicità e prosperità”, certo di
interpretare anche i sentimenti del suo popolo, che comprendeva l’affetto degli inglesi
per la loro regina e «sinceramente prendeva parte a questa magnifica dimostrazione di
solidarietà che unisce l’intero Commonwealth».64
Agli inizi di maggio iniziarono le difficoltà relative al cerimoniale. Il 4, una nota
circolare firmata dal premier Churchill comunicava le disposizioni relative all’ordine di
precedenza in base al quale sarebbero state ripartite le rappresentanze straniere. Tali
disposizioni riproponevano lo schema già seguito in occasione di precedenti
incoronazioni. Analogamente al 1911 e al 1937, le monarchie avrebbero preceduto le
repubbliche, ma – ancora come in passato – erano previste delle eccezioni in favore di
Stati Uniti, Francia e, evidentemente per il solo caso del 1937, Unione Sovietica.65 La
questione era sottile e Brosio ne scrisse subito al presidente della repubblica. In breve,
«molti Stati minori (latino-americani, Spagna, Portogallo, ecc.) se ne sono risentiti» e, a
dispetto dei precedenti sfavorevoli, avevano intrapreso delle consultazioni tra loro e con
il decano del corpo diplomatico, l’ambasciatore di Francia. In tutto ciò, risultava
Cfr. Theodoli a Scammacca, lettera 1701 del 3 aprile 1953; e Scammacca a Brosio, telegramma 90 del
4 aprile 1953, ibid.
63
La lettera di accreditamento si trova allegata a Scammacca a Brosi o, lettera 5/5091E del 24 maggio
1953, ibid.
64
Hefter [“The Diplomatist”] a Brosio, lettera del 10 aprile 1953, ibid.; segue la minuta del messaggio.
65
Cfr. Churchill a Brosio, nota TR 72/148 del 4 maggio 1953, trasmessa a Roma con appunto di Brosio a
esteri, 8 maggio 1953, ibid.
62
65
Gianluca Borzoni
peculiare la posizione dell’Italia, repubblica che, nelle precedenti occasioni, aveva,
però, «il rango spettante alle monarchie». Si trattava di una circostanza inedita; come
comportarsi?66 Dopo opportune discussioni, a Roma e Londra, si decise che un passo di
protesta sarebbe stato necessario, onde attestare un aperto dissenso rispetto ai
«criteri politici ispiranti le eccezioni […], che appaiono fuori posto in
solennissima cerimonia dove la procedura dovrebbe essere dettata da
strette regole di protocollo, senza discriminazioni a favore di taluni
67
Stati».
Più serie misure sarebbero state da sconsigliarsi – si sosteneva a Grosvenor Square –
perché, a fronte di un “particolare disagio” che ne sarebbe conseguito in capo ai rapporti
bilaterali, non avrebbero neppure prodotto effetto di sorta.68 Con le debite forme, il 20
maggio a Roma, venne predisposta la relativa nota verbale, poi inoltrata a Mallet. Nella
parte terminale, ricordato che, in eventi quali l’incoronazione di un sovrano, «il
concetto di uguaglianza di dignità e di rango dei capi di stato sembra essere il più
conforme alla tradizione e agli usi diplomatici», il governo italiano diceva di volersi
limitare a manifestare la propria insoddisfazione «per l’alto riguardo verso l’augusta
celebrazione e in considerazione degli amichevoli rapporti esistenti fra i due paesi».69
Superata la vicenda, il 2 giugno la “grandiosa cerimonia” presso l’abbazia di
Westminster
ebbe
momentaneamente
la
meglio
sulle
incomprensioni
e,
nell’accomiatare, tre giorni dopo, la delegazione italiana, la regina Elisabetta manifestò
grande cordialità, ancora rievocando la sua ultima visita. Ed anche dal Foreign Office si
tenne discretamente a precisare che le attenzioni rivolte nei giorni precedenti agli
Brosio a Ei naudi, lettera del 12 maggio 1953, ibid. Dopo le consultazioni tra i capi delle missioni
diplomatiche coinvolte – e la verifica che l’ordine delle precedenze era stato approvato dalla regina e
“non suscettibile di modificazione”, un gruppo di paesi latino-americani guidati dagli ambasciatori di
Argentina e Colombia avevano manifestato l’intenzione, poi rientrata, di indirizzare una “protesta
energica”. Si optò per un’espressione di disappunto comunicata per le normali vie diplomatiche. Cfr.
Brosio a Esteri, telegramma 142 del 14 maggio 1953, ibid.
67
Brosio a Esteri, telespresso urgente 19 maggio 1953, ibid.; e Brosio a Esteri, telegramma 142 del 14
maggio 1953, cit.
68
Cfr. ibid.
66
66
The King is dead, long live the Queen
italiani erano motivate dal «desiderio di usare un particolare riguardo verso la missione
speciale del nostro paese».70
La settimana seguente, in Italia si tennero le attese elezioni politiche. A dispetto
degli auspici del «Times», che considerava “ragionevole sperare” che la coalizione
governativa riuscisse ad ottenere una maggioranza stabile,71 il risultato del voto del 7
giugno, con il mancato conseguimento del premio di maggioranza da parte della
coalizione centrista, aprì scenari differenti. Suo primo effetto, il governo che ne sortiva,
l’ottavo presieduto da De Gasperi, nasceva politicamente debole; a Londra si definiva la
situazione “doppiamente disgraziata” e si concludeva che in Italia «manca oggi
qualsiasi base [per un] governo efficace».72 In questo complicato scenario, a fine mese,
il capo del governo ebbe una nuova, e stavolta piacevole, occasione per tornare nella
capitale britannica, dopo il forfait all’incoronazione. Dal 23 al 26 giugno era stata,
infatti, organizzata da tempo una visita, in occasione del conferimento della laurea
honoris causa da parte dell’università di Oxford. Nel clima del momento, la visita del
capo del governo italiano assunse un carattere anche politico, e come tale fu considerata
dalla stampa inglese.73 E, in effetti, De Gasperi, che giunse accompagnato da donna
Francesca, ma anche dai diplomatici Del Balzo e Canali – fatto che confermava il
significato della venuta – appena sbarcato dall’aereo, ebbe subito una prima
conversazione in ambasciata con il ministro di stato Selwyn Lloyd e il responsabile del
dipartimento occidentale del Foreign Office, Cheetham, seguita dal trasferimento al n.
10 di Downing Street, dove incontrò Churchill; e, questo, su iniziativa britannica,
precisava Brosio. Uno scambio d’idee era ritenuto, infatti, opportuno, alla vigilia della
Ministero degli Affari Esteri a Ambasciata di Gran Bretagna, Nota verbale del 20 maggio 1953, ibid.
Brosio a Esteri, telespresso 3004/1384 del 12 giugno 1953, cit.
71
Cfr. Brosio a Esteri, telegramma 150 del 20 maggio 1953, in ASDMAE, Ambasciata Londra 1951-54, b.
88, fascicolo “Italia. Politica e situazione interna – Elezioni politiche giugno 1953”.
72
Brosio a Esteri, telegramma 210 del 17 luglio 1953, ibid.
73
Cfr. Ufficio Stampa a ambasciata a Londra , telespresso 8/4044 del 17 giugno 1953, in ASDMAE,
Ambasciata Londra 1951-54, b. 135, fascicolo “Rapporti italo-inglesi”.
69
70
67
Gianluca Borzoni
partenza del premier per le Bermuda, dove avrebbe incontrato statunitensi e francesi.74
Comunità Europea di Difesa e Trieste furono i temi principali dei colloqui, che videro
gli italiani confermare i dubbi circa le possibilità d’intesa con Tito, e i britannici
ribadire cauta disponibilità e spiegare come molti recenti malintesi fossero «originati da
recente allusione nuovo “Locarno” europeo» per i Balcani: quello che si intendeva –
spiegava Churchill – era un trattato «basato [sullo] stesso spirito ma non formulato [con
le] stesse parole».75
La sera si tenne un pranzo offerto dal primo ministro e lady Churchill, pranzo al
quale intervennero eminenti personalità britanniche. Al brindisi, Churchill pronunciò
«parole di calda accoglienza»: il suo ospite guidava da lungo tempo il governo italiano,
«[...] ma non è la durata della carica che conta, ma ciò che nella carica
è stato compiuto. E De Gasperi ha riportato l’Italia sulla via della
democrazia e alla normalità e, superando molte difficoltà, l’ha avviata
76
alla piena ripresa e alle opere di pace e di libertà».
Per queste ragioni, auspicava che il proprio paese potesse realizzare, con l’Italia oramai
reinserita “nel concerto delle nazioni”, un proficuo lavoro per il consolidamento e la
difesa dei valori di civiltà e democrazia. De Gasperi replicò con garbo – e con un po’ di
circospezione – di essere giunto a Londra non in veste ufficiale, bensì per quello
«che gli antichi romani chiamavano “otia”; non “ozio” che non v’è
stato né per lui né per il primo ministro […] ma nel senso antico di
cultura politica e di studi umanistici»,
facendo, quindi, riferimento al riconoscimento che avrebbe ricevuto a Oxford, «pietra
miliare della civiltà europea» e «simbolo di quello che noi possiamo realizzare
The Churchill-Eisenhower Correspondence, 1953-1955, edited by P.G. BOYLE, Chapel Hill, University
of North Carolina Press, 1990, p. 56 e segg.
75
Brosio a Esteri, telegramma 145 del 24 giugno 1953, in ASDMAE, Ambasciata Londra 1951-54, b. 88,
fascicolo “Visita di De Gasperi in Inghilterra”.
76
Brosio a Esteri, telespresso 3387/1566 del 2 luglio 1953, ibid.
74
68
The King is dead, long live the Queen
insieme».77 Il seguito del ricevimento ebbe, però, uno sviluppo infausto, dacché
Churchill fu colpito da un serio malore che gli precluse per alcuni mesi di partecipare
alla vita pubblica; lo stesso incontro alle Bermuda venne annullato.78 Il giorno
successivo si svolse allo Sheldonian Theatre dell’università di Oxford la prevista
cerimonia, che vide De Gasperi, «in toga rossa e berretto dei velluto», ricevere per
primo la laurea ad honorem,79 seguito dal Home Office Secretary, David Maxwell Fyfe,
e dall’ex segretario di stato Herbert Morrison, ma anche dallo scultore Epstein, dal
direttore del British Museum, Downing Kendrick, e dall’attore John Gielgud.
Nell’indirizzo di presentazione, letto in latino dal Public Orator, venne tratteggiata la
vita dello statista italiano, definito nella motivazione dell’onorificenza «uomo
fortissimo il quale con esimia fortezza restituisce alla dilettissima Italia la pace e la
antica stima».80
Dopo la tregua in terra britannica, ripresero, per De Gasperi, le tribolazioni italiane,
tanto che le problematiche settimane che seguirono condussero alla fine del governo da
lui guidato e, insieme, al suo declino politico. Questa svolta provocò una notevole
impressione presso l’opinione pubblica e i circoli politici britannici, con previsioni
fosche d’instabilità non dissimili da quelle relative alla Francia – mentre in Germania
«sia che vinca il partito di Adenauer, sia che vincano i social-democratici non vi sono
pericoli che si scivoli verso il comunismo» – e aperte critiche anche da parte laburista
nei confronti «del mutato atteggiamento dei socialisti democratici e degli altri partiti
italiani», davanti alle quali, riferiva l’ambasciatore Brosio, «non era certo facile offrire
spiegazioni adeguate».81
Ibid.
Cfr. DE LEONARDIS, La “diplomazia atlantica”, cit., p. 264.
79
La rievocazione è di M.R CATTI DE GASPERI, De Gasperi uomo sol o, Milano, Mondadori, 1964, p.
360.
80
Brosio a Esteri, telespresso 3387/1566 del 2 luglio 1953, cit.
81
Brosio a Esteri, telespresso 3989/1844 del 31 luglio 1953, in ASDMAE, Ambasciata Londra 1951-54,
busta 88, fascicolo “Italia. Politica e situazione interna – Elezioni politiche giugno 1953”.
77
78
69
Gianluca Borzoni
4. La soluzione alla questione di Trieste. Verso un nuovo inizio?
Sul piano diplomatico, parallelamente alla «disillusione atlantica e [alla] più
intransigente tutela dei nostri interessi», che il tramonto di De Gasperi e l’avvio della
breve esperienza di governo a guida Giuseppe Pella comportarono,82 anche per i
rapporti con Londra si inaugurava un periodo vieppiù difficile. La trattativa su Trieste
condiziona in modo imprescindibile i rapporti e, esacerbando ulteriormente l’atmosfera,
facilita il riemergere di espressioni di risentimento. Seccamente, così Pella si
indirizzava alla camera il 6 ottobre:
«Con la Gran Bretagna i nostri rapporti sono caratterizzati dai comuni
impegni che i due paesi hanno assunto quali membri dell’alleanza
atlantica. Collaboriamo, inoltre, nel settore economico europeo, quali
partecipanti all’OECE e in quell’organo formativo di unità politica che
è il Consiglio d’Europa. Se, nella progressiva ricostruzione dell’antica
cordialità, si sono dovute e si debbono superare delle difficoltà, è
tuttavia proposito del governo italiano di contribuire per la sua parte a
realizzare quell’atmosfera in cui i due paesi siano in grado di
procedere nel comune interesse in una politica costruttiva di reciproca
83
cooperazione e solidarietà».
Due giorni dopo, inglesi e statunitensi manifestavano di volere anch’essi «contribuire
per la loro parte» e, con la dichiarazione bipartita presentata al capo del governo
italiano, «procede[vano] risolutamente sulla via della spartizione», annunciando il
trasferimento della zona A all’Italia.84
Si apriva, così, l’ultima fase del negoziato che condusse al memorandum del 5
ottobre 1954. Di questo negoziato, l’ambasciata di Grosvenor Square fu uno dei luoghi
principali,85 mentre anche il nuovo ambasciatore britannico in Italia iniziava a svolgere
«attiva ed efficace azione» – queste le parole usate da Brosio con Eden – per
Cfr. DE LEONARDIS, La “diplomazia atlantica”, cit., p. 283.
Del Balzo a Brosio, telegramma 327 del 6 ottobre 1953, in ASDMAE, Ambasciata Londra 1951-54, b.
135, fascicolo “Rapporti italo-inglesi”.
84
P. PASTORELLI, Origine e significato del Memorandum di Londra , in «Clio», XXXI, 4, ottobredicembre 1995, p. 607.
85
Cfr. LEFEBVRE D’OVIDIO, Manlio Brosio Ambasciatore a Londra, cit., p. 52.
82
83
70
The King is dead, long live the Queen
consolidare la fiducia reciproca.86 Dal momento del suo arrivo a Roma, nel novembre
1953, sir Ashley Clarke aveva viaggiato molto: Milano, Torino, Genova, Firenze,
Mezzogiorno; ovunque, aveva rinvenuto cordialità, ma anche residui «di una certa
anglofobia e di risentimenti», al pari di quanto ancora accadeva nel suo paese nei
confronti degli italiani, le cui realizzazioni democratiche e industriali s’ignoravano. Ma
si trattava, proseguiva, d’incomprensioni che traevano origine dal passato, da una
“mentalità sorpassata”, che derivava dall’esperienza fascista e dalla guerra.87 Era,
dunque, il momento di voltare pagina.88 Nella primavera del 1954, forse, i tempi non
erano ancora maturi, aveva ribattuto il ministro degli esteri Piccioni, che fino al
momento delle note dimissioni, nel settembre successivo, si mantenne su posizioni più
intransigenti di Brosio circa la “soluzione provvisoria” per Trieste:89 ancora una volta, il
problema giuliano veniva sottovalutato dagli inglesi, per quanto si trattasse di una
questione «profondamente radicata nella coscienza nazionale del popolo italiano» e
«troppo importante e troppo sentita perché si possa rinviarla sine die». In questo senso,
un più convinto aiuto di Londra e Washington sarebbe stato, invece, decisivo per
ricondurre Tito a una soluzione ragionevole.90
In effetti, gli sviluppi successivi confermarono il contenuto della conversazione e sei
mesi dopo, con l’annuncio del raggiungimento dell’accordo che riportava Trieste
all’Italia, le parole benaugurali di Clarke poterono trovare finalmente eco anche presso
Brosio a Esteri, telegramma 61 del 5 marzo 1954, in ASDMAE, Ambasciata Londra 1951-54, b. 135,
fascicolo “Rapporti italo-inglesi 1952-‘53-‘54”.
87
Cfr. Colloquio fra il Ministro degli Affari Esteri e l ’Ambasciatore britannico Sir Ashley Clarke, 6
aprile 1954, trasmesso con appunto 3075 di Zoppi a Brosio del 10 aprile 1954, ibid. Sulle posizioni
dell’ambasciatore Clarke, si veda VARSORI, Gran Bretagna e Italia 1945-56, cit., pp. 238-239.
88
In tema di sensibilità politica connessa con la pesante eredità del passato, si può segnalare che, agli
inizi dell’anno, destò sensazione il fatto che, tra i paesi che la regina Elisabetta si accingeva a visitare nel
suo viaggio privato nel Commonwealth, fosse stata inclusa la Libia, con sosta presso i cimiteri di guerra
britannici a Tobruk. La circostanza, segnalata dalla legazione d’Italia a Tripoli, formò oggetto di una
richiesta di chiarimenti di Brosio al Foreign Office. Cfr. Brosio a Est eri, appunto 9/9 del 1° gennaio
1954, in ASDMAE, Ambasciata Londra 1951-54, b. 81, fascicolo “Viaggio Regina Elisabetta II
nell’impero”.
89
Cfr. D. DE CASTRO, Memorie di un novant enne. Trieste e l ’Istria, Trieste, MGS Press, 1999, p. 217;
LEFEBVRE D’OVIDIO, Manlio Brosio Ambasciatore a Londra, cit., p. 51.
90
Colloquio fra il Ministro degli Affari Esteri e Sir Ashley Clarke, 6 aprile 1954, cit.
86
71
Gianluca Borzoni
la rappresentanza a Londra. La conclusione data alla “onnivora” questione giungeva
stavolta a marcare un momento di svolta positivo, come «simboleggiato dalla cena che
Brosio offrì all’ambasciata alla Regina Elisabetta II» e dagli inviti al capo del governo
Mario Scelba e al ministro Martino a recarsi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.91 Per
il rappresentante italiano, giunto alla fine della propria missione, molteplici fattori
rendevano ora possibile uno sviluppo di rapporti amichevoli su basi meno rapsodiche
del passato: la Gran Bretagna si avvicinava a nuove elezioni, in condizioni di ripresa
economica tali da generare un senso di diffusa euforia e legittime aspettative di nuova
vittoria conservatrice, che, nell’ottica italiana, sarebbe stata da preferirsi ad un successo
laburista.92 Sul piano internazionale, il tramonto di Churchill avrebbe consentito di
superare una conduzione della politica estera talora bicefala, con il Foreign Office «che
non ha mai approvato e non approva le impreviste iniziative del vecchio statista».93
Sarebbe spettato ad Anthony Eden, nel raccoglierne l’eredità, dare un contributo di
maggiore chiarezza, specie in capo ai rapporti con Mosca:
«I britannici sono ben freddamente decisi a discorrere coi sovietici, ma
soltanto da posizioni di forza. Essi non credono alla utilità di blandirli
con mosse concilianti fatte in pura perdita […]. Essi sono infine
convinti – e su questo punto noi potremmo utilmente riflettere – che
un fermissimo atteggiamento contro il comunismo all’interno dei
DE LEONARDIS, La “diplomazia atlantica”, cit., p. 492. L’efficace espressione su Trieste è di Ennio Di
Nolfo, riportata da De Leonardis, ibid., p. 510.
92
Cfr. Brosio a Martino, appunto riservato 5391/2745 del 17 dicembre 1954, in ASDMAE, Ambasciata
Londra 1951-54, busta 135, fascicolo “Rapporti italo-inglesi 1952-‘53-‘54”. Le considerazioni di indole
generale sui caratteri delle posizioni laburiste nei confronti dell’Italia (e della Jugoslavia) avevano
recentemente trovato nuove conferme nelle parole pronunciate tempo prima dal deputato laburista Healey
in una conversazione privata. A parere di Healey, l’Italia entrava a stento nei ragionamenti del Foreign
Office, era invisa a Eden e sconosciuta ai laburisti, che si sentivano sentimentalmente e politicamente
legati a Belgrado. Al rilievo di parte italiana che la politica di un grande paese difficilmente risulta mossa
dal sentimento, bensì dall’interesse politico, il deputato laburista replicava «che l’Inghilterra non ha
nessuna stima per l’Italia e non se ne fida». Oltre al fatto di contare relativamente poco sul piano militare.
«Come indice della brutalità con la quale […] ha espresso il suo pensiero», si citava in chiusura una
battuta «che, per cattivo gusto, supera tutte le altre. A una osservazione […] che forse i sentimenti antiitaliani in Gran Bretagna erano alimentati dal sentimento anti-papista del popolo inglese, Healey ha detto
che “il papa non era amato più perché era un italiano, che non perché era un cattolico”». Conversazione
con Healey (26 novembre), ibid. La sottolineatura è nel testo.
93
Brosio a Martino, appunto 5391/2745 del 17 dicembre 1954, cit.
91
72
The King is dead, long live the Queen
paesi liberi non solo non nuoce, ma giova a migliorare i rapporti con
l’Unione Sovietica: fino a che questa può contare su grosse quinte
colonne all’interno di taluni paesi, ha scarso interesse a fare loro
94
concessioni sul piano internazionale».
A livello bilaterale, ora che l’accordo con la Jugoslavia aveva «chiuso la triste
eredità del trattato di pace e ci ha dato libertà di azione», un più sano realismo avrebbe
dovuto indirizzare i ragionamenti di parte italiana. Sui temi europei, la buona volontà
dei conservatori era testimoniata dalle scelte operate circa l’UEO, ma scambiare
quest’atteggiamento per un’adesione a «sconfina[menti] sul terreno di una vera
integrazione politica ed economica» sarebbe stato un marchiano errore. Si era,
comunque, certamente attenuato «il contrasto di impostazioni pratiche e ideali fra
italiani e i britannici»:
«I risentimenti e le animosità del dopoguerra avevano oscurato la
visione delle comunanze di interesse esistenti […]. Si era dimenticato
che il principale interesse britannico in Europa e nel Mediterraneo,
ossia l’interesse all’equilibrio, coincide con l’interesse nostro. […] Lo
potranno negare gli idealisti, che vedono nella piena integrazione
politica dell’Europa la sola ed immediata possibilità di salvezza, e
nella Gran Bretagna la nemica di tale politica. Ma essi non tengono
conto che questa non è la realtà. Essi trascurano il fatto che spingendo
a fondo una politica federalista nell’UEO rimarrebbe indietro non solo
la Gran Bretagna, ma anche la Francia e forse la Germania. Quindi,
senza rinunciare ai nostri ideali, noi dovremmo fare nell’UEO una
politica possibilista, a lunga scadenza. E ciò facendo potremo avere
molti punti in comune colla Gran Bretagna: soprattutto l’interesse
comune di evitare il predominio di uno o di più paesi
95
nell’organizzazione».
Quanto agli interessi balcanici, le prospettive erano buone: se, infatti, il patto balcanico
non riusciva ad «assicurare una salda coesione politica» fra i membri, l’Italia godeva di
buoni rapporti con la Turchia, al pari di Londra, mentre la volontà di quest’ultima di
94
95
Ibid. La sottolineatura è nel testo.
Ibid.
73
Gianluca Borzoni
mantenere lo status quo avrebbe dovuto spingere a scelte consonanti relativamente
all’Albania. Il tutto in una fase in cui al Foreign Office risultava allo studio
«una duplice possibilità di movimento: dell’Italia verso il patto
balcanico e della Jugoslavia verso l’unione occidentale»,
ciò che anche i turchi parevano suggerire.96
Con la scomparsa di una prospettiva coloniale da parte italiana, spazi di manovra
erano da ravvisarsi anche nel più ampio ambito mediterraneo – vera «pietra di paragone
della possibilità e solidità di buoni rapporti» con gli inglesi – dove una maggiore
cooperazione sarebbe stata ben praticabile, una svolta scartata «l’utopistica idea di un
patto mediterraneo orizzontale, il quale sarebbe un’unione di deboli».97 Luogo
principale di questa cooperazione avrebbe dovuto essere la Tripolitania, specie
nell’eventualità di un futuro distacco dalla Cirenaica, in seguito alla scomparsa di re
Idris, ma si citavano anche le possibili ricadute positive in Eritrea, Somalia, Medio
Oriente ed Egitto,
«ove noi potremmo offrire un contributo alla stabilità e alla
pacificazione del settore, purché non ci abbandoniamo a un’irreale
98
politica filo-araba in funzione anti-britannica».
Questi i rinnovati scenari da approfondire, in previsione della visita di Scelba e
Martino a Londra, nel febbraio 1955. Una visita che, a differenza di altre precedenti,
puntualizzava ancora Brosio, avveniva per richiesta britannica, ciò che avrebbe
consentito di
«sedere al tavolo senza l’imperiosa necessità di chiedere appoggio sui
problemi italiani aperti e urgenti. […] Viceversa per la prima volta in
Ibid. Sul tema si veda G. CAROLI, L’Italia e il patto balcanico, 1951-1955. Una sfida diplomatica tra
Nato a Mediterraneo, Milano, Franco Angeli, 2011.
97
Brosio a Martino, appunto 5391/2745 del 17 dicembre 1954, cit. La sottolineatura è nel testo.
98
Ibid.
96
74
The King is dead, long live the Queen
questo dopoguerra noi abbiamo qualche cosa da offrire in termini di
generale cooperazione politica e non abbiamo nulla di specifico da
99
chiedere».
Dopo tre anni a Londra, l’ambasciatore si accomiatava con una summa dello stato dei
“rapporti psicologici” tra i due paesi:
«Mi sono convinto che, se l’atmosfera è notevolmente migliorata in
questi ultimi tempi, vi è ancora molto cammino da percorrere. Non
illudiamoci di aver creato un equilibrio stabile di sentimenti fra le
nostre opinioni pubbliche. […] Si possono scrivere varie cose
interessanti ed anche acute al riguardo, ma sostanzialmente i punti
negativi sono da parte inglese la scarsa fiducia che si ha nella nostra
solidità e serietà e da parte italiana il sospetto che tuttora si nutre sulle
100
intenzioni dell’Inghilterra».
Sarebbe, dunque, servita un’azione “paziente e intelligente” per evitare che
sentimenti antagonisti si riaccendessero. Nella certezza che alcune reazioni
dipendessero dal diverso temperamento dei due popoli e fossero, quindi, ineliminabili,
ma che altresì «molto potrebbe ancora esser fatto affinché britannici e italiani si
conoscano meglio e si stimino di più».101
Parevano risuonare le parole di un articolo comparso sul «Corriere della Sera» poche
settimane prima: la questione dei rapporti tra Italia e Gran Bretagna – si leggeva – era
«uno dei maggiori paradossi di questo dopoguerra»: le due nazioni avevano ogni motivo
«per essere amiche, e tuttavia non riescono a esserlo che a mezzo cuore», permanendo
remore psicologiche a percorrere convintamente la strada della collaborazione.102 Dal
ministero degli esteri, il segretario generale, conte Zoppi, concordava su molte delle
posizioni di Brosio e aggiungeva la necessità di
Ibid.
Ibid.
101
Ibid.
102
A. GUERRIERO, Italia e In ghilterra, in «Corriere della Sera», 25 novembre 1954, in ASDMAE,
Ambasciata Londra 1951-54, b. 135, fascicolo “Rapporti italo-inglesi 1952-’53-’54”.
99
100
75
Gianluca Borzoni
«evitare di dare agli inglesi l’impressione che intendiamo, con logica e
impazienza latine, trarre subito le pratiche conseguenze di una
103
rinnovata amicizia per forzarli ad assumere impegni».
Al contrario, i noti scenari sui quali si sarebbero verificate le possibilità concrete di
una nuova e più duratura amicizia presentavano realtà in divenire e tempi dilatati, che
avrebbero dato all’Italia l’opportunità di operare senza frenesie e condizionamenti:
quanto agli sviluppi continentali, bisognava ricordare come gli ambienti politici,
culturali ed economici si sentissero legati ai percorsi d’integrazione, precisando,
tuttavia, che non s’intendeva “forzare i tempi”; e allo stesso modo, sui temi balcanici
appariva utile non dare «l’impressione di un nostro particolare desiderio di entrare nel
patto balcanico» e attestare con chiarezza l’ottica circa l’Albania – recisa
contrapposizione a ogni ipotesi di smembramento, contrario “ai nostri vitali interessi” –
e la volontà di procedere anche in questo ambito in maniera concorde. Soprattutto, era
necessario puntualizzare i contorni della “politica araba” di Roma: mancanza di
aspirazioni territoriali, esistenza d’interessi economico-culturali da tutelare e
incrementare; interessi, dunque, legittimi e non contrastanti con le altrui posizioni, nel
convincimento che «consolidando le nostre posizioni […] operiamo nell’interesse di
tutto l’Occidente». In questo e negli altri settori – tra cui la citata complessa realtà
dell’emigrazione italiana, da svilupparsi con opportuna politica di “infiltrazione” – se,
da parte britannica, si fosse abbandonata ogni pregressa diffidenza, le due diplomazie
avrebbero potuto «lavorare insieme e sostenersi reciprocamente».104 In procinto di
sostituire Brosio a Grosvenor Square, sarebbe toccato proprio a lui, Zoppi, il compito di
verificare le concrete possibilità di un simile corso d’azione. Dopo il tempo
dell’incomprensione e il lento superamento di problemi reali e diffidenze vicendevoli,
poteva essere giunto anche il momento della collaborazione fattiva.
103
104
76
Appunto Zoppi, s.d [ma tra dicembre 1954 e inizi 1955], ibid.
Ibid.
Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali
Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 77-142
e-ISSN 2280-8949
DOI 10.1285/i22808949a3n1p77
http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento
LUCIO TONDO
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
e il contrasto con il Kaiserreich (aprile 1914)*
Abstract: In April 1914, the United States entered in conflict with Germany because of Mexico. The
Kaiserreich, which had extended its political and economic influence in Mexico, opposed Madero’s
liberal power and recognized the dictatorship of Huerta in order to protect its commercial interests and
to use Mexico as an instrument of Weltpolitik, bringing under discussion the “Monroe Doctrine” and the
American supremacy in the Southern Hemisphere. Wilson openly backed up the anti-Huerta democratic
forces, and expressed a strong sense of realism trying to reduce the influence of the Reich and defeat
Huerta. When at Tampico’s port some Marines were arrested by the Huerta’s forces, Wilson took the
opportunity to settle the score with the dictator and authorized the taking of Veracruz, also for blocking
the delivery of German weapons cargo on board of the ship Ypiranga. The ship was prevented from
docking, and this triggered the diplomatic reaction in Berlin. The Veracruz Crisis clearly demonstrated
the American will to counter the German Weltpolitik, three years before the United States fought against
Germany in the WWI.
Keywords: Veracruz Crisis; Woodrow Wilson; US Foreign Policy; Victoriano Huerta; Kaiserreich;
Germany; Mexico.
Introduzione
Quando, il 2 aprile 1917, Woodrow Wilson si presentò di fronte al congresso riunito in
sessione congiunta perché dichiarasse lo stato di guerra contro il Reich tedesco, accentuò enfaticamente lo spirito di missione – una vera e propria “crociata democratica” –
con cui gli Stati Uniti si apprestavano a entrare nel conflitto europeo. Egli sostenne che
gli Stati Uniti avrebbero difeso
«i princìpi della pace e della giustizia nella vita del mondo contro una
potenza egoista e autocratica e di costruire, tra i popoli del mondo realmente liberi e autogovernati, un accordo di scopi e d’azione in grado di
1
garantire l’osservanza di tali princìpi».
Wilson manifestò l’adesione ai princìpi idealistici frutto di una lunga maturazione uma*
Il presente lavoro è dedicato alla memoria di mio padre.
Address to the Congress, April 2, 1917, in A.S. LINK, ed., The Papers of Woodrow Wilson (d’ora in poi
PWW), 69 vols., Princeton, N.J., Princeton University Press, 1966-1994, vol. 41, p. 522.
1
Lucio Tondo
na,2 religiosa3 e accademica,4 anche se il suo «puritanesimo militante [vissuto] in una
tipica posa da crociato»,5 non gli precluse la possibilità d’immettere nel proprio modus
operandi una forte connotazione realista e personalistica.6 Egli dichiarò che gli Stati Uniti avrebbero messo a disposizione tutto il proprio know how economico, commerciale,
tecnico e militare, per lottare per
«la democrazia […], per il diritto e la libertà delle piccole nazioni, per il
dominio universale del diritto attraverso un accordo tra popoli liberi
7
[…] che, alla fine, renderà il mondo libero».
Dichiarando l’avversione per la politica di potenza che aveva informato di sé la vita
internazionale – compresa quella delle democrazie europee accanto alle quali gli americani si schieravano come “associati” e non alleati –, Wilson asserì che gli Stati Uniti
entravano in guerra senza alcuna aspirazione territoriale o espansionistica:
«Il mondo deve essere reso sicuro per la democrazia. […] Non cerchiamo nessuna conquista, nessun dominio. […] Noi siamo solo i difensori
8
dell’umanità».
La gran parte degli storici che ha analizzato le commistioni tra idealismo e realismo
2
Tra gli ultimi lavori sulla biografia wilsoniana, si vedano W.B. HALE, Woodrow Wilson: The Story of
His Life, Charleston, SC, Nabu Press, 2012; S.B. MCKINLEY, Woodrow Wilson: A Biography, Whitefish,
MT, Literary Licensing, LLC, 2011; L. AUCHINCLOSS, Woodrow Wilson: A Life, London, Penguin
Books, 2009; W.B. MAYNARD, Woodrow Wilson: Princeton to Presidency, New Haven, CT, Yale
University Press, 2008.
3
Sulle ripercussioni politiche delle convinzioni religiose di Wilson, si vedano, tra gli altri, A.S. LINK,
Woodrow Wilson: Revolution, War, and Peace, Wheeling, IL, Harlan Davidson, Inc., 1979; ID., The
Philosophy and the Policies of Woodrow Wilson, Chicago, IL, University of Chicago Press, 1958; ID.,
Woodrow Wilson: Presbyterian in Government, in G.L. HUNT, ed., Calvinism and the Political Order,
Philadelphia, PA, Westminster Press, 1965; J.M. MULDER, “A Gospel of Order”: Woodrow Wilson’s
Religion and Politics, in J.M. COOPER-CH.H. NEU, eds., The Wilson Era: Essays in Honor of Arthur S.
Link, Arlington Heights, IL, Harlan Davidson, 1991; M. MAGEE, What the World Should Be: Woodrow
Wilson and the Crafting of a Faith-Based Foreign Policy, Waco, TX, Baylor University Press, 2008.
4
Sull’esperienza accademica di Woodrow Wilson si vedano, tra gli altri, H.W. BRAGDON, Woodrow
Wilson: The Academic Years, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1967; H. CRAIG, Woodrow
Wilson at Princeton, Norman, OK, University of Oklahoma Press, 1960; J.M. MULDER, Woodrow
Wilson: The Years of Preparation, Princeton, N.J., Princeton University Press, 1978.
5
J.C. STOESSINGER, Crusaders and Pragmatists: Movers of Modern American Foreign Policy, New
York- London, W.W. Norton & Company, 1985, p. 14.
6
Cfr. TH.J. KNOCK, To End All Wars: Woodrow Wilson and the Quest for a New World Order, Princeton,
N.J., Princeton University Press, 1995, p. 20.
7
Address to the Congress, April 2, 1917, in PWW, vol. 41, cit., p. 527.
8
Ibid., p. 525.
78
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
della politica estera wilsoniana – e le loro ricadute internazionali – ha situato la prima
guerra mondiale come terminus a quo di quegli «assunti che in seguito diverranno assiomatici per gli statisti americani».9 Frank Ninkovich, forse il più rappresentativo tra di
essi, ha collocato il wilsonismo sia a sostrato culturale della politica estera statunitense
del Novecento, sia a base ideologica caratterizzante il XX secolo come l’American Century. Ma se, da un lato, la storiografia ha posto l’accento sull’entrata nel conflitto mondiale – comprendendovi anche l’opposizione diplomatica, politica e militare al bolscevismo10 – come turning point per la trasposizione pratica dei princìpi del wilsonismo,
dall’altro, sembra aver sottostimato che tali fondamenti teorici si fossero già esplicati in
politica attiva già nei primi tempi della presidenza, specie nei riguardi
dell’atteggiamento verso i paesi dell’America Latina.
Solo gli studiosi che hanno approfondito i rapporti tra l’amministrazione Wilson e il
Messico hanno evidenziato come tali topoi costituissero l’asse portante della politica
estera statunitense già a partire dal 1914. L’impianto interpretativo di tali storici ha inquadrato la crisi politico-diplomatica di Veracruz quale momento prodromico
all’opposizione wilsoniana alle pulsioni rivoluzionarie di Pancho Villa e il conseguente
fallimento del generale Pershing nel catturarlo nel 1916, dopo le numerose incursioni in
territorio statunitense, specie quella contro i circa 600 soldati e i civili di Columbus,
New Mexico.11 Studi come quelli di Donald Baldridge, Haldeen Braddy, Peter Calvert e
9
F.A. NINKOVICH, The Wilsonian Century: U.S. Foreign Policy Since 1900, Chicago, IL, University of
Chicago Press, 1999, p. 13.
10
Sulla politica wilsoniana nei riguardi della Russia bolscevica e dell’intervento militare in Siberia, si
vedano, tra gli altri, R.L. WILLET, JR., Russian Sideshow: America’s Unclared War, 1918-1920,
Washington, D.C., Brasseys, Inc., 2003; D.E. DAVIS-E.P. TRANI, The First Cold War: The Legacy of
Woodrow Wilson in U.S.-Soviet Relations, Columbia, MO-London, University of Missouri Press, 2002;
C. WILLCOX MELTON, Between War and Peace: Woodrow Wilson and the American Expeditionary Force
in Siberia, 1918-1921, Macon, GA, Mercer University Press, 2001; D.S. FOGLESONG, America’s Secret
War Against Bolshevism: U.S. Intervention in Russian Civil War, Chapel Hill, N.C, University of North
Carolina Press, 1996.
11
Sulla figura di Pancho Villa e il suo contrasto con gli Stati Uniti, oltre all’ormai classico
dell’opposizione comunista americana contro la politica di Wilson (J. REED, Insurgent Mexico: with
Pancho Villa in the Mexican Revolution, St. Petersburg, FL, Red and Black Publishers, 2009), si vedano,
tra gli altri, B.F. WILLIAMS, JR., Pancho Villa: A Lifetime of Vengeance, Tucson, AZ, Smokin Z Press,
2011; L.A. HARRIS, Pancho Villa and the Columbus Raid, Whitefish, MT, Kessinger Pub Co, 2010; J.W.
HURST, Pancho Villa and Black Jack Pershing: The Punitive Expedition in Mexico, Westport, CT,
Greenwood Pub Group, Inc, 2007; H.M. MASON, The Great Pursuit: Pershing's Expedition to Destroy
Pancho Villa, New York, Smithmark Pub., 1995.
79
Lucio Tondo
Mark Gilderhus,12 riconducibili all’impianto della scuola revisionista, hanno evidenziato come tanto l’episodio di Veracruz, quanto la spedizione contro Villa rispondessero ad
una comune logica politico-economica. Essa tendeva a utilizzare l’intervento militare
sia per favorire lo sfruttamento delle risorse naturali messicane da parte della Petroleum
Lobby, sia per proseguire, ammantandola con un velo d’idealismo, la linea della Dollar
Diplomacy e arrivare all’“esportazione” del liberal-capitalismo. Tesi riprese e confermate dagli studi di Edward Haley, Friedrich Katz, Robert Smith e ampliate dal recente
lavoro di John Mason Hart, che hanno interpretato l’intervento militare statunitense sia
come risultato di un patto tra l’establishment diplomatico e l’ambiente economicofinanziario finalizzato alla stabilizzazione degli affari dei privati, sia come l’azione –
promossa dai businessmen – per controllare lo sviluppo (e il sottosviluppo) economico
messicano.13 Un approccio incentrato sulla presunta aggressività della politica estera
statunitense, ma che non ha preso in analisi le motivazioni politico-ideali alla base
dell’azione militare, al contrario di alcuni esponenti della scuola ortodossa. Studiosi
come Clarence Clendenen, Kenneth Grieb, Louis Teitelbaum e James Sandos hanno
posto a fondamento delle operazioni militari in Messico l’impianto teorico del wilsonismo.14 Essi hanno concentrato le proprie analisi sul tentativo d’espansione dei princìpi
istituzionali della democrazia americana, sul diniego del riconoscimento de jure al re12
Cfr. D.C. BALDRIDGE, Mexican Petroleum and United States-Mexican Relation, 1919-1923, New
York, Garland, 1987; H. BRADDY, Pershing’s Mission in Mexico, El Paso, TX, Texas Western Press,
1966; P. CALVERT, The Mexican Revolution, 1910-1914: The Diplomacy of Anglo-American Conflict,
Cambridge, Cambridge University Press, 1968; M.T. GILDERHUS, Diplomacy and Revolution: U.S.Mexican Relations under Wilson and Carranza, Tucson, AZ, University of Arizona Press, 1977; ID.,
Wilson, Carranza, and the Monroe Doctrine: A Question in Regional Organization, in «Diplomatic
History», VII, 2, Spring 1983, pp. 103-115.
13
Cfr. E.P. HALEY, Revolution and Intervention: The Diplomacy of Taft and Wilson in Mexico, 19101917, Cambridge, MA, MIT Press, 1970; F. KATZ, Pancho Villa and the Attack on Columbus, New
Mexico, in «American Historical Review», LXXXIII, 1, February, 1978, pp. 101-130; R.F. SMITH, The
United States and Revolutionary Nationalism in Mexico, 1916-1932, Chicago, IL, University of Chicago
Press, 1972; J.M. HART, Revolutionary Mexico: The Coming and Process of the Mexican Revolution,
Berkeley, CA, University of California Press, 2002.
14
Cfr. C.C. CLENDENEN, Blood on the Border: The United States Army and the Mexican Irregulars,
London, Macmillan, 1969; ID., The United States and Pancho Villa: A Study in Unconventional
Diplomacy, Ithaca, NY, Cornell University Press, 1961; K.J. GRIEB, The United States and Huerta,
Lincoln, NE, University of Nebraska Press, 1969; L.M. TEITELBAUM, Woodrow Wilson and the Mexican
Revolution (1913-1916): A History of the United States-Mexican Relations from the Murder of Madero
until Villa’s Provocation across the Border, New York, Exposition Press, 1967; J.A. SANDOS, A German
Involvement in Northern Mexico, 1915-1916. A New Look at the Columbus Raid, in «Hispanic-American
Historical Review», L, 1, February 1970, pp. 70-88.
80
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
gime di Huerta per non avallare – creando un pericoloso precedente – una sorta di appeasement con quei personaggi che utilizzavano l’aggressione come strumento della
dialettica politica e sul contrasto dello sforzo tedesco di alimentare il confronto tra gli
Stati Uniti e il Messico per trarne dei benefici economico-militari.
Tali impianti storiografici hanno costituito il sostrato su cui sono stati prodotti alcuni
lavori monografici sulla crisi di Veracruz. Tra di essi, le opere che si sono distinte per
originalità interpretativa e l’ampio dibattito stimolato sono state quelle di Robert Quirk,
John Eisenhower e Mark Benbow. Quirk, che concluse il proprio libro nel periodo in
cui Kennedy stava autorizzando l’invio dei primi “consiglieri militari” nel Sud-Est asiatico, lasciò intendere, tra le righe, ai lettori coevi l’esistenza d’un fil rouge che legava la
politica wilsoniana di difesa dell’onore e del prestigio statunitensi con quella kennediana mirante all’affermazione della potenza americana.15 Un parallelismo che si esplicitava chiaramente, se applicato all’episodio della Baia dei Porci, di pochi mesi antecedente
alla data di pubblicazione dell’opera. L’autore sosteneva che la spedizione dei marines a
Veracruz aveva evidenziato il fallimento dell’approccio wilsoniano nella politica latinoamericana, poiché il presidente
«aveva rivestito l’aggressione americana con un manto d’idealismo bigotto. Nell’insistere sulla moralità delle proprie azioni, egli suscitò sia
16
l’odio sia il disprezzo dei messicani».
Un approccio fallimentare che, per Quirk, sembrava avesse insegnato poco
all’establishment politico-diplomatico, specie nell’ottica del confronto sovieticoamericano:
«In questo tempo di crisi, gli americani farebbero bene a ricordarsi la
natura della sconfitta di Woodrow Wilson nel trattare con i latinoamericani. […] Noi dovremmo avvantaggiarci dal prendere coscienza
che i nostri attuali fallimenti traggono origine dagli stessi atteggiamenti
17
evidenziati nel 1914».
Un insuccesso che l’autore ascriveva all’incapacità wilsoniana di recedere da un im15
Cfr. R.E. QUIRK, An Affair of Honor: Woodrow Wilson and the Occupation of Veracruz, Lexington,
KY, University of Kentucky Press, 1962, p. vi.
16
Ibid.
17
Ibid.
81
Lucio Tondo
pianto idealistico che avrebbe causato un’inadeguatezza a comprendere le reali esigenze
dei messicani, determinando una perdita di credibilità per quell’American Way of Life
che s’intendeva “esportare”.18
Anche per John Eisenhower, l’idealismo ha rappresentato la chiave di lettura per il
discernimento della politica messicana di Wilson. Ma, se per Quirk esso costituiva la
base da cui il presidente aveva lanciato delle “crociate democratiche”, per Eisenhower i
princìpi teorico-politici wilsoniani erano intrisi di una contraddizione in termini che ne
annullava la portata. L’antinomia della politica estera wilsoniana era da ricercare, secondo lo studioso, nel fatto che «l’occupazione di Veracruz e la spedizione punitiva [di
Pershing contro Villa] furono ordinate da un uomo sinceramente dedito alla pace».19
Contrasto che si acutizzava, poiché, anche se Wilson, negli anni degli impegni accademici, si era scagliato contro gli ideali espansionistici verso l’Ovest e il Messico, propugnati da James Polk,20 la sua politica aveva fornito una versione del Manifest Destiny
intrisa di una certa aggressività idealistica. Utilizzando un linguaggio fluido tendente a
penetrare i bizantinismi della politica messicana, Eisenhower asseriva che le radici degli
interventi militari in Messico erano da ricercarsi in una combinazione di considerazioni
ideali e realistiche di Wilson. Accanto alla difesa della democrazia, ferita dal golpe di
Huerta, Wilson avrebbe inviato i marines prima a Veracruz e, in seguito, sui confini meridionali degli Stati Uniti per renderli più sicuri, mediante la neutralizzazione del “pericolo rivoluzionario” rappresentato dal “bandito” Pancho Villa e per consentire ai businessmen americani la protezione dei propri interessi.21 E, nonostante egli non intendesse
arrivare a un conflitto aperto con il Messico, l’invio delle truppe aveva prodotto nei centramericani un sentimento d’inevitabilità dello stesso, ottenendo l’effetto di aumentare
la percezione degli Stati Uniti come meri invasori territoriali, e non come “esportatori”
della democrazia.22
18
Cfr. ibid., p. 115.
J.S.D. EISENHOWER, Intervention! The United States and the Mexican Revolution, 1913-1917, New
York, W.W. Norton & Company, 1995, p. iii.
20
Cfr. ibid., p. iv.
21
Cfr. ibid., p. 217.
22
Un’“esportazione” ammantata d’idealismo che, come ha sostenuto Martin Haas, in una recensione del
2003 al testo di Eisenhower, ha trovato una corrispondenza diretta nella politica irachena di George W.
Bush. Sarebbe esistito un trait d’union diretto tra la politica wilsoniana nei riguardi di Huerta e l’invio dei
19
82
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
Al contrario di quanto prospettato da Quirk e Eisenhower, per Mark Benbow
l’idealismo che informò la politica wilsoniana spingendola all’intervento in Messico
traeva origine da una covenant theology. L’idea, cioè, che fosse «l’intelligenza divina a
guidare e sorvegliare ogni patto tra popoli, tra gruppi di popoli e tra governanti e governati».23
In tal senso, le convinzioni religiose di Wilson avrebbero costituito le motivazioni
delle sue scelte, portandolo alla conclusione che i leaders politici avessero degli obblighi morali verso la propria cittadinanza e che, nel momento in cui non avessero rispettato i loro doveri, avrebbero perso la legittimità a governare, fornendo al popolo il diritto
alla ribellione.24 Se applicata alla politica centramericana, tale chiave di lettura conduce
alla conclusione che
«la profonda fede religiosa di Wilson, radicata nella covenant theology,
nella sua chiesa presbiteriana del Sud, divenne il fondamento per la sua
25
politica verso il Messico».
Una politica che, per Benbow, non si poteva far rientrare nella categoria
dell’imperialismo, poiché il presidente non solo abbandonò la Dollar Diplomacy di
Taft, ma cercò anche d’imporre uno schema covenanter nella politica mondiale: «I covenants erano un mezzo per portare l’ordine nel caos, di elevare più vicino a Dio e al
paradiso ciò che emergeva dal deserto».26 Ma, accanto all’idea del covenant, dell’ordine
divino e degli Stati Uniti come esecutori della volontà di Dio, Benbow aggiunge quella
presbiteriana di Federal Headship, che Wilson avrebbe immesso direttamente
nell’azione politica. Secondo tale aspetto teologico, Adamo, dopo la cacciata dall’Eden,
sarebbe diventato il rappresentante stesso degli uomini e, come tale, il leader federale
marines a Veracruz per favorire l’insediamento di «un governo giusto e ordinato per il Messico» (M.
HAAS, Regime Change, in http://www.h-net.org/reviews/showrev.php?id=7247) e la politica bushiana
finalizzata alla democratizzazione dell’Iraq di Saddam Hussein. Analogia evidente, se si tiene conto del
giudizio di Eisenhower, secondo cui «la fissazione del presidente Wilson di rimuovere Huerta dal potere
sembra essere stato il risultato di un’odiosa vendetta [sic] personale, motivata dal rifiuto di Huerta di
obbedire ai suoi ordini». EISENHOWER, Intervention!, cit., p. xvii.
23
M. BENBOW, Leading Them to the Promised Land: Woodrow Wilson, Covenant Theology, and the
Mexican Revolution, 1913-1915, Kent, OH, Kent State University Press, 2010, p. 2.
24
Cfr. ibid., p. 3.
25
Ibid., p. 125.
26
Ibid., p. 10.
83
Lucio Tondo
dell’intera umanità.27 L’idea di un unico rappresentante di un vasto gruppo umano avrebbe avuto ripercussioni sul pensiero politico wilsoniano. Il presidente, in qualità di
Federal Head della nazione, era in grado di parlare per conto del proprio popolo di
fronte al resto del mondo, assumendo una sorta di responsabilità rappresentativa. Ne
discendeva una giustificazione teologico-razionale per una personalizzazione della politica che, se inquadrata nell’ottica della Federal Head, faceva assumere alla politica
messicana wilsoniana i contorni di una missione divina. Una redenzione, quasi, che, dopo l’omicidio di Madero, fu finalizzata al ristabilimento dell’ordine costituzionale quale
perseguimento «della volontà divina di estendere il vangelo della democrazia».28
1. Wilson e il rifiuto del riconoscimento di Huerta
Il 4 marzo 1913, Wilson s’insediò alla Casa Bianca ed ereditò dal predecessore, William
Howard Taft, la gestione della sempre più spinosa evoluzione della dinamica politica
messicana. Il paese centramericano, governato sin dal 1876 da Porfirio Díaz, eroe nazionale distintosi nella guerra combattuta contro i francesi dopo l’invasione di Napoleone III (1862-1867), stava vivendo un periodo di rapido sviluppo in campo commerciale,
infrastrutturale e industriale.29 Nonostante la dittatura di Díaz avesse favorito la penetrazione delle imprese straniere – soprattutto le statunitensi, impegnate a limitare la portata degli interessi di quelle europee – nel tessuto economico-produttivo messicano,
rendendo de facto il paese dipendente dall’estero, essa avviò, nel contempo, un processo
d’ammodernamento delle strutture sociali.30 La sua azione riformatrice mirava a garantire un periodo di pace funzionale allo sviluppo di una moderna borghesia imprenditoriale, agricola e industriale, ma il risultato che ottenne fu quello di aumentare il già ampio potere dei latifondisti a scapito dei contadini e degli operai, le cui proteste furono
27
Cfr. ibid., p. 19.
Ibid., p. 12.
29
Sulla vita e l’azione politica di Díaz, si vedano, tra gli altri, P. GARNER, Porfirio Díaz, White Plains,
NY, Longman Publishing Group, 2001; L.B. PERRY, Juárez and Díaz: Machine Politics in Mexico,
DeKalb, IL, Northern Illinois University Press, 1978.
30
L’apertura di Díaz agli investimenti esteri produsse una gara tra imprenditori americani e europei per
ottenere dal governo il maggior numero di concessioni governative delle risorse naturali e agricole messicane. Cfr. CH.C. CUMBERLAND, Precursors of the Mexican Revolution of 1910, in «The Hispanic American Historical Review», XXII, 2, May 1942, pp. 244-252.
28
84
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
represse nel sangue.31 A tali rimostranze si accompagnarono quelle dei ceti medi e intellettuali, che avviarono un’azione d’opposizione sfociata, nel 1910, in un’insurrezione
armata contro il governo di Díaz, capeggiata da Francisco Madero, Pancho Villa e Emiliano Zapata.32
Convinto di poter gestire agevolmente la sfida, nello stesso anno Díaz indisse delle
elezioni, in cui, molto probabilmente a causa di brogli elettorali, sconfisse il liberale
Madero, che raccolse solo poche centinaia di voti. Egli, costretto alla fuga negli Stati
Uniti, insieme agli altri dirigenti del proprio partito in esilio, stilò il Piano di San Luis
Potosí,33 documento che dichiarava nulle le elezioni e che invitava la popolazione
all’insurrezione. A Madero, Villa e Zapata si affiancarono Venustiano Carranza e Álvaro Obregón,34 e la loro azione congiunta, condotta su tutto il territorio nazionale, portò
alla detronizzazione di Díaz.35 L’elezione alla presidenza di Madero, nel 1911, nonostante mirasse alla pacificazione nazionale, mediante un tentativo di conciliazione anche
con i componenti il governo Díaz, non riuscì però a unificare le diverse aree sociopolitiche che lo avevano portato al potere. Ciò fu causato sia dalle ambizioni personali
dei diversi capi rivoluzionari, sia dal non aver immediatamente avviato le riforme
dell’architettura istituzionale, agraria e sociale, promesse all’ala più radicale che lo aveva appoggiato nella lotta contro Díaz.36 Quando apparve chiara la volontà di Madero di
31
Cfr. HART, Revolutionary Mexico, cit., pp. 219-222.
Sulla vita e la politica di Madero si veda il recente S.R. ROSS, Francisco I. Madero: Apostle of Mexican
Democracy, Whitefish, MT, Literary Licensing, LLC, 2011. Sull’azione rivoluzionaria di Zapata, invece,
cfr., tra gli altri, J. WOMACK, Zapata and the Mexican Revolution, New York, Vintage, 1970; F.
MCLYNN, Villa and Zapata: A History of the Mexican Revolution, New York, Basic Books, 2002; S.
BRUNK, Emiliano Zapata!: Revolution and Betrayal in Mexico, Albuquerque, NM, University of New
Mexico Press, 1995; P.E. NEWELL, Zapata of Mexico, Montreal, Black Rose Books, 1997.
33
Cfr.
The
Plan
of
San
Luis
Potosí
(November
20,
1910),
in
http://www.latinamericanstudies.org/mexican-revolution/potosi-plan.htm.
34
Sulla vita e l’azione politica di Carranza, si vedano, tra gli altri, D.W. RICHMOND, Venustiano
Carranza’s Nationalist Struggle, 1893-1920, Lincoln, NE, University of Nebraska Press, 1984. Su
Obregón, cfr. L.B. HALL, Álvaro Obregón: Power and Revolution in Mexico, 1911-1920, College Station,
TX, Texas & M. University Press, 2000; J. BUCHENAU, The Last Caudillo: Alvaro Obregn and the
Mexican Revolution, Chichester, Willey Blackwel Publishing, Inc., 2010.
35
Sull’avvio e la conduzione della rivoluzione contro Díaz, cfr., tra gli altri, J.M. HART, Revolutionary
Mexico, cit.; CH.C. CUMBERLAND, Mexican Revolution: Genesis Under Madero, Austin, TX, University
of Texas Press, 1952; A. KNIGHT, The Mexican Revolution, Vol. I, Cambridge, MA, Harvard University
Press, 1986; M.J GONZALES, The Mexican Revolution, 1910–1940, Albuquerque, NM, University of New
Mexico Press, 2002.
36
Cfr. H. PHIPPS, The Agrarian Phase of the Mexican Revolution of 1910-1920, in «Political Science
Quarterly», XXXIX, 1, March 1924, p. 3.
32
85
Lucio Tondo
non procedere alla spartizione e all’assegnazione ai peones della terra confiscata ai latifondisti durante la fase rivoluzionaria, Zapata ne divenne il maggior oppositore. Dopo
aver rifiutato di smobilitare la sua armata del Sud, Zapata riunì in una junta i sostenitori
più vicini e proclamò il “Piano de Ayala”, in cui
«i capi riuniti si dichiararono ufficialmente in rivolta contro il governo
federale. Proclamarono che Madero era un inetto, un traditore e un tiranno. Solo con la violenza avrebbero potuto ottenere giustizia per i
37
pueblos».
Giustizia sociale che s’identificava principalmente con una radicale riforma agraria e
l’avvio di una nuova insurrezione popolare.38 Di fronte alla minaccia zapatista, Madero
incaricò il comandante delle forze armate, il generale Victoriano Huerta, di combattere
e sconfiggere i rivoluzionari.39 Nei primi anni del 1913, Huerta, con l’appoggio di Félix
Díaz (nipote di Porfirio), di Bernardo Reyes e dell’ambasciatore americano Henry Lane
Wilson, costrinse Madero ad accettare la sua “protezione”, mettendolo agli arresti e attuando un vero e proprio putsch. Pochi giorni dopo la Decena Trágica, in cui non furono risparmiate violenze nemmeno ai propri congiunti, Madero fu forzato a presentare le
proprie dimissioni e, al suo posto, fu nominato provvisoriamente Reyes. Nonostante il
suo vice, José Maria Pino Suárez, cercasse di organizzare un tentativo per liberarlo, che
gli costò la vita, il 22 febbraio Madero fu giustiziato.40
William Howard Taft, che a quella data era ancora in carica e in attesa
dell’insediamento di Wilson alla Casa Bianca, durante il coup d’état di Huerta si limitò
a inviare alcuni plotoni dell’esercito sul confine per la protezione delle vite e delle proprietà americane. Rifiutandosi d’intervenire, Taft cercava di legittimare de facto la nuova presidenza Huerta, mostrandosi certo che l’appena eletto Wilson, trovandosi di fronte
al fatto compiuto, non avrebbe messo a repentaglio gli investimenti statunitensi nella
regione e che avrebbe riconosciuto de jure il nuovo governo messicano. Tale convincimento nasceva dalla consapevolezza che nessun presidente, per quanto idealista, avreb37
WOMACK, Zapata, cit., p. 138.
Cfr. ibid., pp. 138-140.
39
Sulla vita e la politica di Huerta, si veda l’ormai classico M.C. MEYER, Huerta: A Political Portrait,
Lincoln, NE, University of Nebraska Press, 1972.
40
Cfr. WOMACK, Zapata, cit., p. 173.
38
86
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
be potuto operare delle politiche sfavorevoli agli interessi americani, cresciuti esponenzialmente durante la sua amministrazione.41 Taft, infatti, già nei primissimi tempi della
sua presidenza, aveva incoraggiato i businessmen americani a investire nell’economia
messicana, assicurando che, anche grazie alla disponibilità politica di Díaz ad appoggiare la Dollar Diplomacy, gli Stati Uniti avrebbero garantito loro qualunque forma di protezione politica, diplomatica e militare.42 Ma, al di là dei vantaggi economico-finanziari,
la politica di Taft, come ha evidenziato John Mason Hart, pose le basi delle spinte rivoluzionarie, disilludendo i messicani circa la bontà delle politiche di Díaz, che
«avevano prodotto un’economia instabile a beneficio di pochi. Egli fallì
nel sostenere l’espansione economica che aveva caratterizzato i suoi 22
anni [di governo]. La combinazione di difficoltà economiche e frustra43
zione determinò il dissenso politico».
Taft non valutò la possibilità di tali eventuali ricadute negative perché la difesa degli
interessi statunitensi nell’area costituiva il nucleo della propria politica latinoamericana. Proprio per questa ragione, immediatamente dopo che Madero, nel 1910,
ebbe annunciato la sua candidatura alle elezioni presidenziali, fornì pieno appoggio al
conservatore Díaz, favorevole agli investimenti americani, contro il suo competitor, nazionalista e riformista. In seguito, nei disordini che erano seguiti alla sconfitta di Madero e alla sua chiamata alla rivoluzione, Taft, nonostante avesse preventivato anche di
proclamare un embargo sulle armi per non rafforzare l’azione destabilizzante di Madero
e dei suoi alleati più radicali, quando apparve chiaro che la vittoria sarebbe andata agli
oppositori di Díaz, abbandonò tale possibilità. Il 12 marzo 1912, realisticamente, di
fronte alla minaccia rivoluzionaria di Zapata, nel tentativo di rafforzare Madero, promulgò l’embargo totale sulle armi da inviare in Messico.44 Ciò, al contrario delle aspettative, produsse un rafforzamento dei ribelli, poiché incentivò il contrabbando attraverso
41
Nel 1900, il valore totale degli investimenti americani all’estero si stimava intorno ai 500 milioni di
dollari. Nel 1913, essi avevano raggiunto la cifra di 2,5 miliardi di dollari, la metà dei quali era in America Latina. Cfr. J.M. HART, Empire and Revolution in Mexico: The Americans in Mexico since the Civil
War, Berkeley, CA, University of California Press, 2002, p. 82.
42
Cfr. ibid, pp. 90-100.
43
Ibid., p. 265.
44
Cfr. Proclamation by the President, March 14, 1912, in Papers Relating to the Foreign Relations of the
United States (d’ora in poi FRUS), 1912, Washington, DC, U.S. Government Printing Office, 1919, pp.
745-746.
87
Lucio Tondo
il confine Sud degli Stati Uniti, troppo vasto per essere totalmente monitorato dalle forze di polizia e abitato, nella sua gran parte, da contadini messicani simpatizzanti con la
causa rivoluzionaria.
Le ripercussioni interne e internazionali di tali posizioni non sfuggirono all’analisi di
Woodrow Wilson. Egli, appena assunta la presidenza, per dare un segnale di discontinuità con le politiche sin lì seguite nei riguardi dell’America Latina in generale e del
Messico in particolare, prese immediatamente le distanze dall’impianto della Dollar Diplomacy. In un colloquio con il segretario di stato, William Jennings Bryan, asserì che
«è estremamente pericoloso cercare di determinare la politica estera di una nazione in
termini di interessi materiali».45
L’amministrazione Wilson non si dimostrava disposta ad avallare una difesa a oltranza del big business a scapito dell’edificazione di una politica latino-americana improntata sul rispetto delle prerogative democratiche. E nonostante alcune lobbies – specie quelle petrolifere texane – cercassero d’operare delle pressioni sulla presidenza, tanto mediante Bryan,46 quanto mediante il consigliere personale di Wilson, colonello
House,47 per ottenere o un riconoscimento del governo Huerta, o un intervento militare
statunitense che ristabilisse l’ordine, permettendo loro una serena ripresa degli affari, il
presidente si rifiutò di prendere in considerazione entrambe le ipotesi. Nel primo
Cabinet Meeting, tenuto l’11 marzo 1913, a House – che metteva in risalto come il di45
Cit. in H. NOTTER, The Origins of the Foreign Policy of Woodrow Wilson, New York, Russel & Russel, 1965, p. 267.
46
Nel maggio 1913, William Jennings Bryan fu contattato da Julius Kruttschnitt, presidente della Southern Pacific Company, perché premesse su Wilson affinché il governo stilasse una nota con cui chiedere
a Huerta di fornire garanzie sulla sicurezza della compagnia, sull’avanzamento dei lavori e sulla protezione della vita degli operai americani. Il 26 gli scrisse che, «per alcuni mesi, la Southern Pacific Company è
stata privata del possesso delle sue linee ferroviarie di Sonora e Sinaloa, provocato dalle autorità statali
mediante i loro ufficiali». Note from Secretary of State for the President, May 26, 1913, in PWW, Vol. 27,
cit., p. 479. La richiesta del magnate era di accelerare i tempi per un’azione decisa sul regime di Huerta,
perché si arrivasse a una stabilizzazione politica, che non lasciasse dubbi sulla volontà della presidenza di
difendere gli interessi americani: «Pare che l’attuale amministrazione abbia una grande opportunità, agendo celermente, di presentare un piano al governo messicano chiedendo urgentemente di fissare il prima possibile una data per le elezioni». Ibid., p. 480.
47
John Mason Hart si è detto certo che il colonnello House fosse uno sponsor dell’intervento armato in
Messico per la protezione degli interessi economico-finanziari. House era stato contattato da alcuni rappresentanti di compagnie petrolifere, come il consigliere legale della Texas Company, William Buckley,
Sr., che peroravano un’azione militare. Buckley, senza troppe perifrasi, scrisse a House, sostenendo che
«tutti noi crediamo che non ci sia altra soluzione a questa situazione difficile e che essa sia l’intervento
americano. […] Alla maggior parte del popolo messicano, a questo punto del suo sviluppo, non importa
molto della libertà politica». Cit. in HART, Empire and Revolution in Mexico, cit., p. 306.
88
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
niego del riconoscimento del nuovo regime messicano avrebbe potuto causare una progressiva perdita dell’influenza americana a solo vantaggio della Gran Bretagna e della
Germania – Wilson oppose il proprio rifiuto.48 Il giorno successivo, in una conferenza
stampa, ribadì la posizione, sostenendo che gli Stati Uniti non avevano
«niente da cercare nell’America Centrale e del Sud, ad eccezione dei reali interessi dei popoli dei due continenti, la sicurezza dei governi per il
bene del popolo e non per un piccolo gruppo d’interesse e lo sviluppo
dello scambio di relazioni personali e commerciali tra i continenti che
possano contribuire al profitto e al vantaggio d’entrambi e non interferi49
re con le libertà e i diritti di nessuno».
In sostanza, Wilson dichiarò di non aver alcuna intenzione che gli interessi economico-finanziari dettassero i punti cardine della propria politica latino-americana. Il 27 ottobre 1913, in un discorso tenuto a Mobile, Alabama, dopo aver deprecato le sofferenze
cui le concessioni governative, fornite a un ristretto numero di grandi investitori, avevano condannato alcuni paesi come il Messico, nuocendo al loro sviluppo, dichiarò che la
sua politica si sarebbe differenziata:
«Quegli Stati che sono obbligati […] a rilasciare concessioni sono nelle condizioni di far dominare i propri affari interni dagli interessi stranieri: un sistema di cose sempre pericoloso e destinato a diventare intollerabile. Ciò che questi Stati desiderano, dunque, è l’emancipazione
dalla subordinazione, che sinora è stata inevitabile, dalle imprese straniere e l’affermazione di un forte carattere […] che sono ancora in
50
grado di dimostrare».
Per il presidente, gli statunitensi avrebbero dovuto presentarsi ai latino-americani
come
«gli amici e i difensori, in termini di uguaglianza e onore, di diritti umani, d’integrità e di opportunità, contro ogni interesse materiale […] e
[gli Stati Uniti dovevano] considerare come uno dei doveri
dell’amicizia il fatto che nessun interesse materiale sia superiore alla li51
bertà umana e all’opportunità nazionale».
48
Cfr. J.B. DUROSELLE, From Wilson to Roosevelt: Foreign Policy of the United States, Cambridge, MA,
Harvard University Press, 1963, p. 36.
49
Press Conference of the President, March 12, 1913, in PWW, vol. 27, cit., p. 172.
50
Address Before the Southern Commercial Congress in Mobile, Alabama, October 27, 1913, in PWW,
vol. 28, cit., p. 450.
51
Ibid., p. 451.
89
Lucio Tondo
Anticipando di qualche anno i contenuti ideali – anche a livello semantico – della
dichiarazione di guerra, Wilson rimarcò il fatto che non avrebbe sostenuto un intervento
militare in Messico finalizzato alla mera difesa degli interessi economico-finanziari. Tale presa di posizione si sintetizzò nella formula del “Watchful Waiting”, mediante la
quale Wilson si riservava di intraprendere qualunque tipo d’iniziativa politicodiplomatica in attesa delle decisioni che Huerta avrebbe assunto nei riguardi delle prerogative parlamentari messicane. Quest’atteggiamento, lungi dal rappresentare una pratica attendista o dilatoria, permetteva all’amministrazione d’operare una disamina analitica della situazione politica messicana e, conseguentemente, di disporre di un ampio
margine di manovra nei riguardi delle azioni di Huerta. Nonostante anche all’interno del
proprio gabinetto si fossero manifestate delle resistenze a tale presa di posizione e delle
spinte verso l’assunzione di una politica più attiva, il presidente non recedette dalla propria impostazione.52 Ciò non si verificò nemmeno di fronte alle pressioni in tal senso
provenienti dall’estero. Il 16 novembre 1913, Londra chiese a Washington delle garanzie per la protezione dei sudditi e delle imprese britanniche operanti in Messico. Il ministro degli esteri, sir Edward Grey, inviò allo State Department un telegramma con cui
evidenziava le difficoltà che il governo Asquith stava incontrando nel comprendere il
modus operandi statunitense nei riguardi del paese centramericano. Grey, nel timore che
il dichiarato idealismo di Wilson potesse mettere in discussione il realismo della difesa
degli interessi britannici in America Latina, facendo espresso riferimento alle responsabilità derivanti dalla “dottrina Monroe”, rivolse
«degli appelli urgentissimi da parte degli interessi britannici e canadesi
in rappresentanza di circa 40 milioni di sterline d’investimenti in tramvie, ferrovie, illuminazione e petrolio in Messico sotto forma di conces53
sioni e contratti in vigore ormai da molti anni».
Proprio in ragione di ciò, il ministro degli esteri britannico chiese delle precise garanzie a Wilson:
«Il governo degli Stati Uniti dovrebbe chiarire che non intende semplicemente forzare Huerta a lasciare il potere, ma che vuole assicurare che
52
53
Cfr. HART, Empire and Revolution in Mexico, cit., p. 306.
Telegram from Sir William Tyrell to the President, November 16, 1913, in PWW, vol. 28, cit., p. 573.
90
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
il Messico possa avere il miglior governo possibile e […] che le pro54
prietà saranno protette».
In sostanza, Grey chiedeva, senza troppe perifrasi, che Wilson abbandonasse ogni tipo
di riserva e si adoperasse o a riconoscere de jure la legittimità di Huerta a governare, o a
favorire il rovesciamento della junta per consentire il mantenimento degli interessi britannici e occidentali in genere. Nel porre la richiesta, Grey l’argomentò non solo riferendosi alla necessità di tutelare anche il big business americano, ma anche assegnandole una valenza politica. Se gli Stati Uniti avessero protratto il diniego di riconoscere
Huerta, avrebbero dovuto favorire l’insediamento di un governo democratico a Città del
Messico. Ciascuna delle ipotesi avrebbe avuto il pregio sia di assegnare un ruolo internazionale alla politica idealistica wilsoniana, sia di proteggere gli interessi occidentali
nell’area. La replica americana cercò di rassicurare le ansie di Grey, mettendo in risalto
come qualunque azione politico-diplomatica che Wilson avesse intrapreso in Messico
sarebbe stata finalizzata a non recare alcun danno agli investimenti stranieri. Al contempo, egli ribadì la volontà di non riconoscere Huerta e riportò le assicurazioni fornite
al dipartimento di stato dagli oppositori del dittatore:
«Abbiamo appena ricevuto dal comandante costituzionalista a Tuxpam
il seguente messaggio: “Poiché governo su base costituzionale, sarà mia
cura garantire gli interessi di tutte le compagnie petrolifere straniere e
55
interne operanti nella regione che occupo”».
L’implicita vicinanza che Wilson manifestò nei confronti dei nemici di Huerta evidenziava come l’attendismo del “Watchful Waiting” fosse solo di facciata. Infatti, al
contrario di quanto paventato da una parte del suo governo e da alcune cancellerie occidentali, Wilson, sin dal proprio insediamento alla Casa Bianca, aveva evidenziato un
deciso atteggiamento di contrasto verso Huerta. Non fu casuale che una delle prime iniziative assunte in materia di politica latino-americana fu di non tenere in alcun conto le
informazioni provenienti dall’ambasciatore a Città del Messico, Henry Lane Wilson. Il
diplomatico, di orientamento dichiaratamente repubblicano, era stato accreditato nella
capitale messicana da Taft, nel 1909. Nell’ambito dello State Department, era noto per
54
55
Ibid., p. 574.
Letter from President to Sir William Tyrell, November 22, 1913, in PWW, vol. 29, cit., p. 160.
91
Lucio Tondo
le sue posizioni fortemente anti-maderiste e, nei giorni del golpe, aveva espresso senza
riserve il proprio appoggio a Huerta, sino al punto da far circolare delle voci insistenti
sulla stampa americana circa un suo presunto ruolo nella destituzione, arresto e omicidio di Francisco Madero.56 Il suo presunto coinvolgimento nel putsch, la sua perorazione della difesa degli interessi del big business e le responsabilità che parte della politica
messicana gli ascriveva per tali ragioni,57 indussero Wilson, nonostante lo avesse riconfermato nel ruolo, a non prestare ascolto alle sue richieste di fornire un riconoscimento
de jure al dittatore messicano. Tale scarsa fiducia nell’obiettività di giudizio del diplomatico, spinse il presidente a inviare a Città del Messico il giornalista del progressista
«New York World»,58 William Bayard Hale, affidandogli l’incarico di «girare per gli
Stati dell’America Latina [e di] riportare in modo chiaro, come suo solito fare, ciò che lì
procede bene e ciò che non va».59
Anticipando l’utilizzo di special reporters, quasi dei consiglieri personali e speciali
(come coloro che alcuni anni dopo furono inviati in Russia e in Giappone), Wilson, di
fatto, bypassò il parere del dipartimento di stato, rivendicando il primato presidenziale
nella formulazione della politica estera in generale e latino-americana in particolare.
Pungolato da alcuni giornalisti sul ruolo di Hale in Messico, Wilson si limitò a sostenere che lo aveva inviato solo «per [farsi dire] cosa sta succedendo laggiù»,60 mentre, in
realtà, il primo compito che gli affidò fu quello di scoprire quale parte avesse svolto
l’ambasciatore Wilson durante il coup d’état di Huerta. Hale si dimostrò all’altezza del
compito affidatogli: il 18 giugno 1913, inviò il primo rapporto a Wilson, incentrandolo
56
Sul ruolo svolto da Henry Lane Wison nel golpe di Huerta, si veda CALVERT, The Mexican Revolution,
1910-1914, cit., pp. 98-99.
57
Cfr. ibid., p. 135.
58
Il «New York World», sin dalla sua fondazione, nel 1860, aveva assunto posizioni favorevoli al partito
democratico. Nel 1873, fu rilevato da John Pulitzer per risollevarlo dalle difficoltà finanziare in cui versava. Sino alla data della sua morte, nel 1911, Pulitzer fece del giornale un pioniere della stampa scandalistica nota come “Yellow Journalism”. Oltre a continuare la tradizione inaugurata dal padre, Ralph Pulitzer, nel 1913 ne rinnovò la veste grafica e avviò la pubblicazione di un annuario, il «The World Almanac», che da quel momento divenne una consuetudine della stampa americana. Il quotidiano stampò la
sua ultima copia il 27 febbraio 1931. Sulle attività di John Pulitzer e del «New York World» si vedano,
tra gli altri, J. MCGRATH MORRIS, Pulitzer: A Life in Politics, Print, and Power, New York-London, Harper Perennial, 2011; G. JUERGENS, John Pulitzer and the “New York World”, Princeton, N.J., Princeton
University Press, 1967.
59
President Wilson to William Bayard Hale, April 19, 1913, in PWW, vol. 27, cit., p. 335.
60
Press Conference of the President Wilson, May 5, 1913, ibid., p. 483.
92
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
sia sul modus operandi, che il generale messicano aveva utilizzato per prendere il potere, sia sul supporto che il diplomatico gli aveva fornito nel garantire l’appoggio
dell’ambasciata all’azione di forza.61 La conseguenza diretta di ciò, secondo l’analisi di
Hale, era stata che
«migliaia di messicani [erano] convinti che l’ambasciatore [avesse] agito dietro ordine di Washington e [avevano] letto la sua conferma
[nell’ufficio diplomatico] da parte del nuovo presidente americano come il crisma dell’approvazione, accusando gli Stati Uniti del caos in cui
62
il Messico [era] caduto».
Le rimostranze che Henry Lane Wilson mosse alle accuse di Hale63 causarono la
perdita della sempre più esigua fiducia che Wilson riponeva in lui. A metà giugno 1913,
l’ambasciatore fu richiamato a Washington e, dopo essere stato un’ora a colloquio con il
segretario di stato e il presidente – che lo definì «un personaggio inqualificabile»64 –,
rassegnò le proprie dimissioni. Per non lasciare vacante la sede diplomatica, il dipartimento di stato autorizzò Nelson O’Shaughnessy a recarsi a Città del Messico come
Chargé d’Affaires in rappresentanza degli Stati Uniti.65
Prima di procedere all’accreditamento di un altro diplomatico che sostituisse il rimosso Wilson, il presidente inviò John Lind, esponente della camera dei rappresentati
ed ex governatore democratico del Minnesota,66 come emissario in Messico perché esponesse a Huerta i termini entro i quali la sua amministrazione era disposta a dare il
riconoscimento. Questi prevedevano l’immediata cessazione degli scontri tra le varie
fazioni, l’indizione di libere elezioni, a cui Huerta non avrebbe dovuto candidarsi e il
cui risultato le parti si sarebbero dovute impegnare a rispettare con un patto sottoscritto.
Le consultazioni di Lind non riscontrarono alcun successo e ciò, unitamente ai rumors
61
Cfr. A Report from President by William Bayard Hale, June 18, 1913, ibid., p. 536.
Ibid.
63
Cfr. William Bayard Hale: “Memoranda on Affairs in Mexico”, July 9, 1913, in PWW, vol. 28, cit., p.
31.
64
President Wilson to Cleveland Hoadley Dodge, July 21, 1913, ibid., p. 53.
65
Cfr. President Wilson to the Secretary of State, July 3, 1913, ibid., p. 22. Sulla vita e l’azione
diplomatica di O’Shaughnessy si vedano A.M. LARKE, Nelson O’Shaughnessy as Instrument of Woodrow
Wilson’s Mexican Foreign Policy, Houston, TX, University of Houston, 1967; E. O’SHAUGHNESSY, A
Diplomat’s Wife in Mexico, New York, Cornell Univeristy Press, 20092.
66
Sulla vita di John Lind si vedano, tra gli altri, F.J. EGAN, The John Lind Mission to Mexico, San Diego,
CA, Unversity of San Diego Press, 1967; G.M. STEPHENSON, John Lind of Minnesota, Gaithersburg, MD,
Associated Faculty Press, Inc., 1971.
62
93
Lucio Tondo
circa il probabile scioglimento del parlamento messicano da parte di Huerta, indussero
Wilson a non escludere aprioristicamente l’avvio di una politica più attiva.67 A metà
agosto, il presidente prese in esame, con Bryan, le eventuali azioni che
l’amministrazione avrebbe potuto intraprendere nei riguardi del dittatore messicano. Il
segretario di stato non scartava l’ipotesi di «fornire assistenza ai costituzionalisti, consentendo loro d’importare armi», anche se ciò avrebbe «potuto aumentare la confusione
e incrementare la perdita di vite e proprietà».68 Il presidente si dichiarò d’accordo con
Bryan e, nonostante fosse conscio della necessità di fornire assistenza agli oppositori di
Huerta, i costituzionalisti, reiterò la decisione di non revocare l’embargo di armi poiché
un’eccessiva disponibilità di mezzi avrebbe certamente condotto a un aumento delle
perdite civili.69 La decisione di Wilson era dettata anche dal fatto che il contrabbando
d’armi, effettuato dal confine texano, stava rifornendo i costituzionalisti – allocati a
Nord del paese centramericano – dei mezzi necessari per opporsi a Huerta.
Un primo mutamento d’indirizzo si verificò a ottobre, dopo che a Washington giunse
la notizia che le elezioni tenute in Messico erano state dichiarate nulle e che la junta militare aveva proceduto all’arresto di alcuni membri dell’opposizione parlamentare. In un
simile frangente, analizzando la situazione con il colonnello House, Wilson non rigettò
l’ipotesi di fornire un sostegno politico-diplomatico agli oppositori di Huerta, sostegno
finalizzato al ritorno al potere del governo precedente al putsch. Tra le ipotesi, Wilson e
il proprio consigliere non esclusero né la possibilità di riconoscere ai costituzionalisti lo
status di belligeranti (con la conseguenza diretta di ritirare l’embargo delle armi), né
l’eventualità di dichiarare guerra e inviare la flotta perché chiudesse gli accessi ai porti
67
Lind si mantenne in contatto con Wilson sia mediante i canali diplomatici tradizionali, che quelli informali. Dopo aver cercato di far da tramite tra il presidente e Huerta, lasciò Città del Messico per Veracruz e, nei giorni della crisi, non si limitò a riportare alla Casa Bianca le informazioni di prima mano di
cui poteva disporre, ma propose, a volte insistentemente, d’avviare un’azione militare, garantendo che i
messicani avrebbero accolto i marines come liberatori. Quando, nell’aprile 1914, i militari statunitensi
incontrarono una strenua resistenza, Wilson si disse esterrefatto dalle analisi di Lind e non le tenne più in
alcun conto. Cfr. M. BENBOW, Intelligence in Another Era. All the Brains I can Borrow: Woodrow Wilson and Intelligence Gathering in Mexico, 1913-15, in https://www.cia.gov/library/center-for-the-thestudy-of-intelligence/csi-actions/csi-studies/studies/vol5no4/intelligence-in-another-era.html.
68
Memorandum of a Conversation between the President and the Secretary of State, August 16, 1913, in
PWW, vol. 28, cit., p. 136.
69
Cfr. ibid.
94
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
messicani e bloccasse ogni via di rifornimento a Huerta.70 Tralasciando per il momento
queste ultime probabilità, che potevano apparire come prese di posizione irreversibili,
Wilson decise di focalizzare la propria politica sulla richiesta del ripristino, nella pienezza dei poteri costituzionali, del vecchio governo e l’indizione immediata di libere
elezioni. Per tale ragione, quasi fosse la presentazione di un’ultima chance, ai primi di
novembre, egli chiese a John Lind di rinnovare gli sforzi per indurre Huerta a dimettersi. Al rifiuto del generale, il presidente autorizzò William Bayard Hale a recarsi da Venustiano Carranza, capo dei costituzionalisti, e negoziare con lui le condizioni poste
dall’amministrazione Wilson perché gli Stati Uniti fornissero il proprio supporto
all’opposizione anti-huertista. Gli Stati Uniti avrebbero revocato l’embargo in cambio
dell’accettazione di un piano, stilato dalla presidenza e dallo State Department, per la
mediazione tra le parti e la garanzia della salvaguardia della vita e degli interessi dei
cittadini americani. Nonostante rifiutasse immediatamente l’offerta statunitense, accusando implicitamente Wilson di volersi arrogare il diritto d’intervenire nella gestione
degli affari interni messicani, Carranza, a dicembre, mutò opinione. Ciò fu dovuto soprattutto all’avanzata delle forze di Huerta, che, con una controffensiva, avevano ripreso
ai costituzionalisti la città di Torreón, punto strategico allocato al centro dello Stato di
Coahuila, precedentemente conquistata dalle forze di Pancho Villa.71
In un tale contesto, Wilson – che, partendo dal rifiuto di Carranza di novembre – nel
messaggio annuale al congresso, aveva sostenuto che gli Stati Uniti «non [avrebbero]
alterato la propria politica del Watchful Waiting»,72 accettò la mediazione con il capo
dei costituzionalisti per il tramite di Luís Cabrera, suo consulente legale e delegato ai
rapporti con l’estero. Questi scrisse un pamphlet snello, di sole 16 pagine, pubblicato a
Washington il 1° dicembre 1913,73 in cui illustrava i motivi per i quali i costituzionalisti
stavano combattendo contro Huerta e anticipava i programmi di governo che essi avrebbero voluto attuare, una volta che fossero riusciti a detronizzare il generale golpista.
70
Cfr. Memorandum of a Conversation between the President and Colonel House, October, 1913, in
PWW, vol. 28, cit., p. 481.
71
Cfr. M. PLANA, Pancho Villa e la rivoluzione messicana, Firenze, Giunti, 1994, p. 43.
72
The Secretary of State to Certain Diplomatic Officers of the United States, December 2, 1913, in FRUS,
1913, p. 864.
73
Cfr. L. CABRERA, The Mexican Revolution from a Mexican Point of View, in
http://www.archive.org/stream/mexicansituation00cabrrich/mexicansituation00cabrrich_ djvu.txt.
95
Lucio Tondo
Cabrera metteva in evidenza come la dittatura di Huerta fosse da ascrivere anche
all’incapacità della borghesia messicana di sapersi porre come medium dei contrasti socio-economici che opponevano latifondisti e contadini ed al fatto di non aver saputo avviare né gestire una riforma agraria ormai urgente. Egli avviava la sua analisi, sostenendo che «la rivoluzione messicana possiede solo in apparenza un carattere politico, ma,
in fondo, le sue caratteristiche sono economiche e sociali».74 Il Messico non aveva saputo sviluppare, a partire dalla rivoluzione del 1910, una legislazione che tutelasse gli interessi delle classi più deboli, notevolmente colpite dalla mancata espansione
dell’apparato economico-produttivo. Tale tutela, continuava Cabrera, in virtù del carattere moderato e liberale delle forze al governo detronizzate da Huerta, sarebbe stata garantita solo dai costituzionalisti, che, in tal senso, si ponevano come i legittimi prosecutori della rivoluzione che aveva abbattuto il regime di Díaz: «Il partito costituzionalista
intende risolvere il problema sociale messicano promuovendo l’educazione e eliminando, per quanto possibile, le barriere tra le classi superiori e quelle inferiori».75 La portata
rivoluzionaria della compagine si manifestava nel progetto di dare sostanza politica a
quella riforma agraria, ormai ineludibile, sempre promessa a peones e campesinos e mai
compiutamente avviata: «I costituzionalisti intendono avviare immediatamente alcune
riforme economiche, specialmente quelle riforme agrarie, così necessarie per offrire alle
classi inferiori la possibilità di migliorare la propria condizione».76 La conclusione a cui
il pamphlet giungeva era quella dell’ineluttabilità del compimento del processo rivoluzionario messicano. Un’inevitabilità di un movimento popolare dal basso che il consesso internazionale avrebbe dovuto accettare, in primis gli Stati Uniti: «Una rivoluzione
sociale possiede le stesse caratteristiche che alcune malattie cicliche hanno tra gli esseri
umani. È necessario attendere il loro pieno sviluppo e qualunque tentativo
d’interromperlo prematuramente o di arginarlo porterebbe a delle complicazioni molto
più pericolose».77 Proprio in virtù di ciò, secondo il portavoce di Carranza, gli Stati Uniti avrebbero dovuto fornire un appoggio politico-diplomatico all’azione dei costituzionalisti, evitando d’intraprendere delle azioni di forza che ne avrebbero potuto indebolire
74
Ibid.
Ibid.
76
Ibid.
77
Ibid.
75
96
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
la portata e gli effetti presso la popolazione locale, cementandola intorno a qualunque
personaggio politico – Huerta compreso – percepito come oppositore a una supposta
invasione straniera: «L’impazienza e il desiderio del presidente Wilson di arrivare a una
conclusione e il suo fine dichiarato di eliminare Huerta hanno fatto maturare l’idea,
presso l’opinione pubblica, che una soluzione immediata della crisi messicana sia ancora lontana».78
Il pamphlet di Cabrera sortì un certo effetto sulla determinazione della politica statunitense. Wilson parve certo del fatto che solo Carranza avrebbe potuto garantire al Messico un periodo di stabilità sociale e avviare un’incisiva ripresa economica. Tale convincimento si basava sul fatto che il programma politico dei costituzionalisti, oltre a rivolgersi al ceto borghese medio-alto (invitandolo ad assumere un ruolo economico propulsivo), andava incontro alle istanze dei contadini più poveri, garantendo loro la determinazione a realizzare la riforma agraria. Allo stesso tempo, il presidente, anche in
virtù delle informazioni di prima mano che riceveva da John Lind e William Bayard
Hale, era conscio che l’unica strada attraverso la quale i costituzionalisti avrebbero potuto realizzare il proprio programma era quella rivoluzionaria. In ragione di ciò, gli Stati
Uniti non avrebbero potuto più mantenere una posizione ufficiale d’equidistanza tra le
parti, ma schierarsi apertamente dal lato dei costituzionalisti. Come ha sintetizzato efficacemente John Mason Hart, «il nazionalista Carranza non era perfetto da un punto di
vista amministrativo, ma rispettava la proprietà privata e offriva un patto per la sicurezza di decine di centinaia di americani che vivevano nel paese».79
Il possesso di tali caratteristiche incentivò Wilson a sostanziare realisticamente il suo
iniziale approccio idealistico alla questione messicana. Il 2 gennaio 1914, egli scrisse, in
una dichiarazione per la stampa, che «una soluzione ottenuta mediante una guerra civile
porta sempre a una conclusione amara, ma, che noi lo vogliamo o no, essa si deve raggiungere a ogni costo il prima possibile».80 In sostanza, non solo si ammetteva
l’inevitabilità dello scontro in Messico, ma si lasciava intendere che non si sarebbe tollerato che il golpista Huerta potesse avere la meglio su una forza che garantiva l’avvio
78
Ibid.
HART, Empire and Revolution in Mexico, cit., p. 306.
80
Statement for the Press, January 2, 1914, in PWW, vol. 29, cit., p. 207.
79
97
Lucio Tondo
di una politica interna liberale e di una estera collaborativa con gli Stati Uniti.81 Per tale
motivo, a febbraio, Wilson decise di riconoscere a Carranza e ai costituzionalisti lo status di belligeranti e, al fine di fornire loro tutta l’assistenza di cui necessitavano, di rimuovere l’embargo delle armi. Il 31 gennaio 1914, il dipartimento di stato comunicò a
tutte le proprie sedi diplomatiche la decisione di Wilson di revocare l’embargo, argomentandola con il fatto che «a Città del Messico non esiste alcuna forza che non sia in
grado di fare altro se non perpetuare e rafforzare l’egoismo oligarchico e gli interessi
militari [del governo Huerta], per cui è chiaro che il resto della nazione può essere indotto a resistere solo mediante una costante guerriglia e uno spietato tormento al
nord».82 Bryan, continuava sostenendo che, per fornire agli anti-huertisti i mezzi per
condurre a termine la liberazione del paese, «il presidente si è pienamente convinto […]
che non sia più possibile mantenere a lungo un atteggiamento neutrale nei confronti delle contendenti».83 Per tale motivo, il 3 febbraio, l’embargo sulle armi fu ufficialmente
revocato.84
2. Il contrato tra gli Stati Uniti e il Kaiserreich nel Messico
Parallelamente all’approccio idealistico, nella gestione della questione messicana Wilson manifestò un atteggiamento tipico del più disincantato Realpolitiker. Ciò si verificò
nel momento in cui gli ideali – e gli interessi nazionali – statunitensi entrarono in rotta
di collisione con quelli che il Kaiserreich deteneva nel paese centramericano. In realtà,
il Messico aveva rappresentato uno dei punti d’attrito nei rapporti tra Stati Uniti e Germania già durante il periodo della dittatura di Porfirio Díaz.85 Il Reich, a causa della
propria tardiva fondazione, nel 1871,86 aveva cercato di penetrare in America Latina
81
Cfr. B.J. HENDRICK, The Life and Letters of Walter H. Page, Garden City, NY, Doubleday, Page &
Co.mpany, 1926, p. 267.
82
The Secretary of State to All Diplomatic Missions of the United States, January 31, 1914, in FRUS,
1914, Washington, DC, U.S. Government Printing Office, 1922, p. 447.
83
Ibid.
84
Cfr. Proclamation Revoking the Proclamation of March 14, 1912, Prohibiting the Exportation of Arms
or Munitions of War in Mexico, Febraury 3, 1914, ibid., pp. 447-448.
85
Cfr. F. KATZ, Deutschland, Diaz und die mexikanische Revolution. Die deutsche Politik in Mexiko,
1870-1920, Berlin, Deutscher Verlag der Wissenschaften, 1964, Sn. 339-343; A. VAGTS, Deutschland
und die Vereinigten Staaten in der Weltpolitik, Zweite Band, New York, Macmillan Co., 1955, pp. 17661781.
86
Per una disamina storiografica sul Kaiserreich, si vedano, tra gli altri, H.U. WEHLER, Das Deutsche
98
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
con un certo ritardo rispetto a Francia e Gran Bretagna. A tal fine, aveva utilizzato il
Messico come un ariete per scardinare la “dottrina Monroe” e mettere in discussione la
supremazia di Washington nell’emisfero meridionale.87 Successivamente alla prima
contrapposizione con gli Stati Uniti, verificatasi in occasione della crisi venezuelana,
scoppiata tra il 1902 e il 1903,88 il Reich, tra il 1904 e il 1905, aveva intessuto dei rapporti strettissimi con Díaz, arrivando a progettare l’invio di consiglieri militari tedeschi
per avviare l’addestramento della flotta e dell’esercito messicano. La proposta, fallita
per l’opposizione dell’Auswärtiges Amtes, il ministero degli esteri di Berlino (che
l’aveva rigettata per evitare un confronto diretto con Washington), fu ripresa nel 1907.
Guglielmo II ripresentò l’offerta, ma fu dissuaso dal proseguire la pressione su Díaz
Kaiserreich, 1871-1918, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1973; E. FRIE, Das Deutsche Kaiserreich.
Kontroversen und die Geschischte, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2004.
87
Cfr. KATZ, Deutschland, Diaz und die mexikanische Revolution, cit., pp. 344-349.
88
La crisi venezuelana si verificò tra il 1902 e il 1903, quando Gran Bretagna, Germania e Italia imposero
un blocco navale al Venezuela per rispondere al rifiuto del presidente Cipriano Castro di onorare i debiti
contratti durante la guerra civile del 1892. Castro era convinto che la “dottrina Monroe” avrebbe fornito
un ombrello protettivo alle possibili ritorsioni europee. Quando Teddy Roosevelt, all’epoca vicepresidente nell’amministrazione McKinley, dichiarò che, «se uno Stato sudamericano si comporta male
nei confronti di un paese europeo, lasceremo che questo lo prenda a schiaffi» (cit. in L. SCHOULTZ, Beneath the United States: A History of U.S. Policy toward Latin America, Cambridge, MA, Harvard
University Press, 1998, p. 180), gli europei applicarono il blocco navale, neutralizzando agevolmente la
marina venezuelana. Castro non cedette alle pressioni, rivolgendosi a un arbitrato internazionale, ma si
scontrò con la fermezza degli Stati europei che procedettero con il blocco. Il successivo affondamento di
alcune navi venezuelane, il bombardamento del Forte di San Carlos da parte delle navi tedesche Panther
e Vineta nella laguna di Maracaibo, la morte di oltre venti persone e lo sbarco di alcuni contingenti di
terra scatenarono una forte campagna anti-europea da parte della stampa statunitense, cui seguì la messa
in stato d’allerta della flotta americana. Le proteste di Berlino contro tale mossa, definite dallo State Department «quanto di più vicino a una minaccia diretta, nei limiti del linguaggio diplomatico» (cit. in. S.W.
LIVERMORE, Theodore Roosevelt, the American Navy, and the Venezuelan Crisis of 1902-1903, in «The
American Historical Review». LI, 3, April 1946, pp. 459-460), provocarono la reazione di Roosevelt, che
accusò il Reich di voler occupare un porto venezuelano per stabilirvi una base navale permanente. La
vertenza si risolse il 13 febbraio 1903, quando Germania, Gran Bretagna e Italia raggiunsero un accordo
con il Venezuela, i cui termini prevedevano la fine del blocco navale e obbligavano lo Stato sudamericano a versare il 30% dei propri dazi doganali per risarcire gli europei. È da notare che, nello stesso
momento in cui la corte permanente d’arbitrato stabilì che le nazioni europee avrebbe potuto godere di un
trattamento privilegiato, Teddy Roosevelt pronunciò il celebre “corollario alla dottrina Monroe”.
Sull’atteggiamento dei paesi europei e degli Stati Uniti nei riguardi della crisi venezuelana si vedano, tra
gli altri, H.C. HILL, Roosevelt and the Caribbean, Los Angeles, CA, Hunt Press, 2007; M. MAAS, Catalyst for the Roosevelt Corollary: Arbitrating the 1902-1903 Venezuela Crisis and Its Impact on the Development of the Roosevelt Corollary to the Monroe Doctrine, in «Diplomacy & Statecraft», XX, 3, September 2009, pp. 383-402; E.B. PARSONS, The German-American Crisis of 1902-1903, in «Historian», 3,
May 2007, pp. 438-452; W. DEIST, Flottenpolitik und Flottenpropaganda. Das Nachrichtenbureau des
Reichsmarineamtes 1897-1914, Mainz, Verlag Philipp von Zabern, 2006; Klaus HILDEBRAND, Das
vergangene Reich. Deutschen Außenpolitik von Bismark bis Hitler, 1871-1945, München, Oldenbourg
Verlag, 2008.
99
Lucio Tondo
dall’atteggiamento piuttosto cauto del cancelliere, Bernhard von Bülow.89 Ciononostante, il Kaiserreich riuscì a ottenere una posizione economico-commerciale di preminenza
all’interno del paese centramericano, riuscendo a sfruttare una politica del divide et impera che Porfirio Díaz stava operando nei riguardi degli Stati europei. Il fine del dittatore messicano era quello di controbilanciare la presenza in Messico di Gran Bretagna,
Francia e Stati Uniti mediante il rafforzamento della posizione tedesca, traducendola, di
fatto, in una crescente primazia commerciale, economica e finanziaria.
Il pericolo della penetrazione tedesca, che da economica avrebbe potuto trasformarsi
in politica, non sfuggì all’analisi del dipartimento di stato, al punto che, tra il 1900 e il
1905, si diffuse quella che fu chiamata la “german threat”. Un certo allentamento della
tensione si verificò con l’amministrazione Taft, quando – in adesione alla linea della
Dollar Diplomacy – il presidente bollò come “assurda” l’ipotesi di un’aggressione tedesca nell’America del Sud.90 In un Cabinet Meeting del 1909, Taft rigettò le analisi allarmistiche dello State Department circa la volontà del Kaiserreich di occupare militarmente dei territori dell’emisfero meridionale, sostenendo che «tutti i tedeschi con cui
egli aveva avuto a che fare nelle diverse zone del mondo preferivano di gran lunga fare
affari fuori dalle proprie colonie, piuttosto che all’interno di esse, perché in tal modo
avrebbero potuto guadagnare di più. Infatti, essi vendevano ovunque a prezzi molto più
bassi rispetto a quelli dei mercanti inglesi».91 L’approccio presidenziale fu ribadito da
un alto funzionario diplomatico, John B. Jackson, ministro all’Havana, che, nel 1902,
aveva servito presso l’ambasciata statunitense a Berlino. Alla richiesta del segretario di
stato, Philander Knox, di fornire un commento sul terzo congresso della Società coloniale tedesca, tenutosi nell’ottobre 1910, Jackson, dopo aver sottolineato che gli emi89
Cfr. M. STÜRMER, Das ruhelose Reich. Deutschland, 1866-1918, Berlin, Severin und Siedler, 1983, pp.
440-443. Sulla figura e sul ruolo di von Bülow si vedano, tra gli altri, J. HILDEBRANDT, Wilhelm II und
Bernhard von Bülow - "Kaiser versus Kanzler" oder "persönliches Regiment im guten Sinne"?, München,
Grin Verlag, 2011; G. FESSER, Reichskanzler von Bülow – Architekt der deutschen Weltpolitik, Leipzig,
Militzke Verlag, 2003; W.J. MOMMSEN, War der Kaiser an allem schuld?, Berlin, Ullstein Verlag, 2005;
P. WINZEN, Bülows Weltmachtkonzept, Untersuchungen zur Frühphase seiner Außenpolitik 1897-1901,
Boppard, Harald Boldt Verlag, 1977; B. VON BÜLOW, Memorie, 4 vol., Milano, Mondadori, 1931; ID., La
Germania imperiale, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1994.
90
Cfr. W. CLEMENT, Die Monroe Doktrine und die deutsch-amerikanischen Beziehungen im Zeitalter des
Imperialismus, in «Jahrbuch für Amerika Studien», I, 1, 1956, p. 167.
91
Cit. in M.A. DEWOLFE HOWE, George von Lengerke Meyer: His Life and Public Services, New York,
Dodd, Mead & Co., 1920, p. 433.
100
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
granti tedeschi si muovevano verso l’America Latina solo alla ricerca di fortuna, giunse
alla conclusione tranchant che «non c’è alcun carattere aggressivo e niente che lasci
presagire l’esistenza di una possibile politica tedesca con ambizioni pan-germaniche».92
Nonostante gli approcci tendenti a ridimensionare la portata dell’espansione politica
tedesca in America Latina, era innegabile che la politica del Kaiserreich fosse stata indirizzata all’ottenimento di un primato delle esportazioni nell’emisfero meridionale da
sfruttare in una chiara funzione espansiva. A tal fine, è sufficiente sottolineare, in questa
sede, come tra il 1903 e il 1912, il volume globale delle esportazioni tedesche in America Latina fosse aumentato a pieno discapito del maggior competitor europeo, la Gran
Bretagna, e come si fosse avvicinato, e in taluni casi avesse superato, quello statunitense. Tra il 1903 e il 1904, la percentuale del mercato detenuto dalla Gran Bretagna in Argentina, Brasile e Cile, i cosiddetti “paesi A.B.C.”., era rispettivamente del 34, del 28 e
del 38%, più del doppio di quella degli Stati Uniti (12, 11 e 9%) e di gran lunga superiore a quella tedesca (13, 13 e 27%).93 Nella Repubblica Dominicana, in Paraguay, Venezuela e Uruguay, le percentuali britanniche corrispondevano al 12, 32, 25 e 26%, quelle
tedesche al 14, 15, 25 e 13% e quelle americane al 63, 4, 29 e 10%.94 La sola eccezione
era rappresentata dal Messico, dove gli Stati Uniti possedevano il 55% del mercato contro il 13% della Gran Bretagna e il 12% della Germania.95 Tra il 1912 e il 1913, tali
proporzioni si modificarono a tutto vantaggio del Kaiserreich. Nei “paesi A.B.C.”, infatti, la Gran Bretagna vide diminuire sostanzialmente il volume delle proprie esportazioni, che scesero al 31, 25 e 32%.96 A tale calo, corrispose un aumento di quelle americane, che incrementarono, in relazione al mercato argentino, brasiliano e cileno, del 3, 4
e 5%, mentre quelle tedesche, salirono del 4% per Argentina e Brasile e rimasero invariate per il Cile. Nella Repubblica Dominicana, in Paraguay e Venezuela la Gran Bretagna decrementò la propria quota di mercato, che scese al 9, 28 e 21%, mentre in Uru-
92
Minister John B. Jackson to the Secretary of State, March 20, 1911, cit. in M. SMALL, The United
States and the German “Threat” to the Hemisphere, 1905-1914, in «The Americas», XXVIII, 3, January
1972, p. 255.
93
Cit. in O. MORGENSTERN, On the Accuracy of Economic Observations, Princeton, N.J., Princeton University Press, 1963, p. 172.
94
Cfr. ibid.
95
Cfr. ibid., p. 174.
96
Cfr. ibid., p. 175.
101
Lucio Tondo
guay salì dell’1%. Nella Repubblica Dominicana, gli Stati Uniti segnarono un -1%,
mentre aumentarono le esportazioni del 2% in Paraguay e Uruguay e del 4% in Venezuela. Il Reich, al contrario, fece segnare un sostanziale ampliamento delle importazioni
che, nella Repubblica Dominicana aumentarono del 6%, in Paraguay dell’1%, in Uruguay del 5% e in Venezuela del 9%.97 Il dato più rappresentativo, tuttavia, si ebbe relativamente al Messico: qui, a una sostanziale tenuta dell’import britannico, si ebbe un
aumento dell’1% di quello tedesco e una diminuzione del 6% di quello statunitense.98 In
sostanza, una lettura analitica dei dati, seppur non totalmente comprendenti la totalità
degli Stati del Sud America, lasciava intendere chiaramente come l’unica nazione a essersi avvantaggiata dall’instabilità politico-economica dell’emisfero meridionale in generale e di quella messicana in particolare fosse stata la Germania.99
Di fronte all’inequivocabilità di tali dati, il già diffuso sentimento anti-tedesco negli
Stati Uniti si alimentò ulteriormente, penetrando a fondo nell’ambiente politicodiplomatico ed elevando il livello della “german threat” presso ampi strati dell’opinione
pubblica e della stampa americana. Emblematicamente, alcuni osservatori coevi notarono come «ormai delusa in Marocco, la Germania sia l’unica potenza europea probabilmente in grado di sfidare la “dottrina Monroe” nel prossimo futuro»,100 come «il sentimento diffuso dal lato atlantico del Sud America sia che la Germania intenda possedere
della terra nell’emisfero occidentale e che, se non ci riuscisse mediante il negoziato,
combatterebbe per essa»;101 e come «i tedeschi possiedano una visione imperialistica
del mondo, simile a quella di Atene, capace di fornire loro tutte le energie [di cui abbisognano] e le case per i propri cittadini in esubero, i quali, in tal modo, potrebbero preservare la propria nazionalità invece di diventare dei semplici “fertilizzatori” d’altri popoli».102 Un approccio di questa natura non era diffuso solo tra gli strati popolari, ma si
97
Cfr. ibid., p. 176.
Cfr. ibid., p. 177.
99
Per un quadro più completo delle relazioni politico-economiche del Kaiserreich nel periodo precedente
la prima guerra mondiale, si vedano, tra gli altri, M. BRECHTKEN, Scharniezeit 1895-1907. Persönalischkeiten und internazionale Politik in den deutsch-britischen-amerikanischen Beziehungen vor dem Ersten Weltkrieg, Mainz, Verlag Philipp von Zabern, 2006; A. ETGES, Wirtschaftnationalismus. USA und
Deutschland im Vergleich (1815-1914), Frankfurt am Main, Campus Verlag, 1999.
100
J. CHAMBER, The Monroe Doctrine in the Balance, in «Forum», XLVI, November 1991, p. 535.
101
A. HALE, The Germans in South America, in «Reader», IX, 6, May 1907, p. 631.
102
A.C. COOLIDGE, The Unted States as a World Power, New York, Macmillan, 1910, p. 211.
98
102
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
stava radicando anche tra gli ambienti dell’upper class, della diplomazia e della difesa.
Furono soprattutto i militari a richiamare l’attenzione sulla crescente influenza tedesca nei paesi latino-americani. Nel 1911, in un report, il generale Witherspoon evidenziò il ruolo dell’apparato bellico del Kaiserreich nei “paesi A.B.C.”. L’estensore del
documento rilevava che le missioni militari tedesche, notevolmente incrementate, «dovrebbero essere viste da noi con un alto grado d’interesse, se non con sospetto. […] Non
è affatto credibile che la Germania fornisca consiglieri militari a questi Stati senza sperarne in qualche modo alcun guadagno o ritorno».103 Una relazione dal tono ancora più
allarmato fu inviata nel 1912 al dipartimento di stato dal capitano Constant Cordier, attaché militare presso l’ambasciata in Perù. Nel suo rapporto, l’ufficiale sottolineava
come i tedeschi stessero inviando in America Latina centinaia di lavoratori e prevedeva
che «un giorno, essi avranno la supremazia commerciale nell’America del Sud, perché
sono una razza frugale, costruttiva e laboriosa e si aiutano vicendevolmente l’un con
l’altro nella lotta commerciale con i cittadini d’altra nazionalità».104 La solidarietà e il
senso d’appartenenza si evidenziavano, secondo l’analisi di Cordier, anche nella gestione della vita privata poiché gli emigranti tedeschi, anche se sposavano degli autoctoni,
non tendevano a integrarsi con gli usi e i costumi dello Stato ospite, ma rimanevano legati alla madrepatria. La ragione di tale modus operandi, pubblico e privato, dei lavoratori e dei commercianti tedeschi era la risultante finale della strategia politica di Berlino
finalizzata alla dominazione dell’emisfero meridionale: «Dietro tutto ciò c’è il costante
supporto del governo tedesco, che invia [in America Latina] agenti diplomatici, consolari e commerciali, ben addestrati nel proprio lavoro, per spianare la strada ai coloni e ai
mercanti, per assisterli, qualora vi si siano già stabiliti, e per proteggerli, se necessario,
dagli abusi cui gli stranieri sono frequentemente sottoposti nei paesi latinoamericani».105
Le ansie degli ambienti militari e diplomatici statunitensi circa la volontà di dominio
tedesca, per quanto enfatizzate, trovavano una corrispondenza nell’attivismo militare
103
Memorandum from General Whiterspoon, January 16, 1911, cit. SMALL, The United States and the
German “Threat” to the Hemisphere, 1905-1914, cit., p. 253.
104
Report from Captain Cordier to War College: “The German Military Mission to Bolivia”, October 15,
1912, cit. ibid.
105
Ibid.
103
Lucio Tondo
che il Kaiserreich teneva in Messico. Guglielmo II, nonostante le ritrosie di von Bülow,
non aveva abbandonato la propria strategia, finalizzata al controllo delle forze armate
messicane, continuando a favorire l’invio dei consiglieri militari tedeschi che avrebbero
dovuto formare il quadro ufficiali del paese centramericano. Nel 1910, in effetti, la
Germania aveva raggiunto l’apice del numero delle unità d’addestramento inviate in
Messico, sino ad assumere il quasi totale controllo del processo di modernizzazione
dell’esercito.106 Ciò era stato reso possibile dalla persistenza al potere da parte di Porfiro
Díaz e dalla convinzione dell’apparato politico-diplomatico tedesco che il presidente
messicano avrebbe continuato a governare ancora a lungo, soprattutto a causa
dell’incapacità dei suoi oppositori di poterlo sfidare apertamente, perché inadatti a coordinare un popolo considerato apatico e poco incline all’azione che, emblematicamente, Elizabeth von Heyking, moglie del ministro tedesco a Città del Messico dal 1898 al
1902, aveva definito «una brulicante e bestiale massa umana […] di un livello solo parzialmente più elevato rispetto a quello delle bestie».107 In tal senso, la rivoluzione del
1910, che mise fine alla dittatura di Díaz, costituì un vero e proprio shock per l’apparato
diplomatico tedesco, anche se Berlino «diede per scontato che chi lo aveva sostituto,
Francisco Madero, si sarebbe presto trasformato in un altro Díaz che ancora una volta
avrebbe governato il Messico con il ferro»,108 non mettendo fine alla Special Relationship politica, economica e commerciale con il Reich. Tale convinzione era dovuta sia
all’appartenenza di Madero a una delle famiglie più ricche del paese, sia ai rapporti di
essa con la Deutsch-Sudamerikanische Bank, uno dei maggiori istituti di credito tedeschi operanti in Messico.109 Tuttavia, tranne alcune collaborazioni di tipo economicofinanziario, tra il 1911 e il 1913 gli interessi tedeschi in Messico subirono un
106
Cfr. W. SCHIFF, German Military Penetration into Mexico During the Later Díaz Period, in «Hispanic
American Historical Review», XXIV, 4, November 1959, pp. 575-576.
107
Cit. in F. KATZ, The Secret War in Mexico: Europe, the United States, and the Mexican Revolution,
Chicago, IL, University of Chicago Press, 1981, pp. 71-72. Sulla figura di Paul von Hintze, si vedano, tra
gli altri, J. HÜRTER, Hrsg, Paul von Hintze: Marineoffizier, Diplomat, Staatssekretär. Dokumente einer
Karriere zwischen Militär und Politik, 1903-1918, München, Bolt im Oldenbourg Verlag, 1998; G.G.
VON LAMBSDORFF, Die Militärbevollmächtigten Kaiser Wilhems II am Zarenhofe, Berlin, Schlieffen Verlag, 1937.
108
KATZ, The Secret War in Mexico, cit., p. 72.
109
Cfr. ibid., p. 74.
104
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
rapido declino.110
Il regresso delle relazioni tedesco-messicane durante la presidenza di Madero non si
verificò solo nel campo economico-commerciale, ma soprattutto in quello politicodiplomatico. Berlino rifiutava di accettare il modus operandi del nuovo presidente, accusandolo di aver improntato la propria politica sulla promozione delle libertà democratiche, civili e personali, invece di proseguire sulla strada tracciata da Díaz, stroncando
ogni progetto dei propri oppositori. L’esperimento politico che Madero cercava di attuare, secondo la diplomazia tedesca, possedeva un vulnus iniziale, fondato sull’eccessiva
fiducia nelle presunte qualità civili del popolo messicano. Paul von Hintze, a tal riguardo, non usò troppe perifrasi quando sostenne, nel novembre 1912, che l’errore primordiale di Madero era «rinvenibile nella sua convinzione di poter governare il popolo
messicano come se ne dirigesse uno dei più avanzati, come quello tedesco. Questo popolo rozzo, mezzo barbaro, senza religione, con la sua ridotta capacità di giudizio propria dei meticci solo superficialmente civilizzati, non può vivere se non sotto un regime
di dispotismo illuminato».111 In sostanza, ciò che von Hintze e l’Auswärtiges Amtes peroravano per il Messico era che fosse attuato un golpe in grado di rovesciare Madero e
instaurare una dittatura “tradizionale” che garantisse al Reich la ripresa di quel ruolo di
preminenza di cui aveva goduto in precedenza.
Quando, nel febbraio 1913, il putsch di Victoriano Huerta spodestò Francisco Madero, le aspettative tedesche parvero inverarsi. In quel frangente, Paul von Hintze instaurò
una stretta collaborazione con l’ambasciatore statunitense a Città del Messico, Henry
Lane Wilson. I due diplomatici salutarono la deposizione di Madero e si attivarono a
perorare la causa dei golpisti. Le simpatie dello statunitense si rivolsero immediatamente verso Felix Díaz, nipote di Porfirio, considerato più filo-americano rispetto all’alto
ufficiale e in grado di offrire maggiori garanzie di continuità con le politiche dell’ex dit-
110
La Deutsch-Sudamerikanische Bank fornì a Madero un sostegno finanziario nel suo tentativo di spodestare Díaz anche attraverso un’intermediazione finanziaria finalizzata all’acquisto di armi per i rivoluzionari. Una volta eletto presidente, Madero permise alla banca di supportare il governo nelle sue relazioni
finanziarie e di consigliarlo nella stesura di accordi internazionali. Cfr. ibid., pp. 85-86. Per una disamina
più completa del ruolo della finanza tedesca nel campo della politica estera si veda, tra gli altri, B.
BARTH, Die Deutsch Hochfinanz und die Imperialismen. Banken und Außenpolitik vor 1914, Stuttgart,
Franz Steiner Verlag, 1995.
111
Cit. in KATZ, The Secret War in Mexico, cit., p. 89.
105
Lucio Tondo
tatore.112 Nei giorni della Decena Trágica, le differenze tra von Hintze e Lane Wilson
nell’approccio politico-diplomatico della gestione della crisi si acuirono. Lo statunitense, che non aveva mai fatto mistero del proprio appoggio a un eventuale intervento armato di Washington, si attivò perché fosse raggiunto un cessate-il-fuoco nella capitale,
al fine di favorire l’evacuazione dei propri concittadini.113 Nel farlo, omise d’avvisare il
corpo diplomatico presente a Città del Messico perché non sopraggiungesse un calo della tensione, cosa che avrebbe impedito un’eventuale azione militare dei marines da lui
caldeggiata. Von Hintze intese l’atto alla stregua di una scorrettezza diplomatica e, determinando un’incrinatura nei rapporti con Wilson, assunse in prima persona l’iniziativa
per promuovere la presa del potere da parte di Huerta.114 Tenendo all’oscuro Wilson,
l’ambasciatore tedesco organizzò un meeting con il ministro degli esteri di Madero, Pedro Lascurain, proponendogli, allo scopo di far cessare le violenze che si stavano perpetrando a Città del Messico, «l’instaurazione del generale Huerta come governatore generale, dotato di pieni poteri in modo da mettere fine alla rivoluzione in base alle proprie valutazioni».115 Di fatto, celandosi dietro la necessità di pacificare il paese, von
Hintze chiese apertamente a Madero di abdicare alla presidenza e di avallare il passaggio da una forma democratica a una dittatura. Successivamente al rifiuto di Madero di
aderire alla proposta, a cui seguì il suo arresto, von Hintze si adoperò affinché fosse
raggiunta un’intesa tra Huerta e Díaz, assicurando a quest’ultimo che il generale sarebbe
stato nominato governatore pro tempore e che lui ne avrebbe rilevato l’incarico quanto
prima. Il compromesso favorì il riavvicinamento tra von Hitze e Wilson nel tentativo di
persuadere Huerta a consentire a Madero di partire in esilio in Europa, permettendogli
in tal modo di salvare la vita.116
L’esecuzione di Madero117 e il conseguente consolidamento del potere dittatoriale di
112
Cfr. H.L. WILSON, Diplomatic Episodes in Mexico, Belgium, and Chile, Garden City, NY, Doubleday
Page, 1927, p. 281.
113
Cfr. ibid., p. 282.
114
Cfr. ibid., p. 283.
115
Ibid., p. 284.
116
Riferendosi al periodo trascorso in Messico e, in particolar modo, al tentativo di salvare la vita a Madero, von Hintze si limitò a descriverne gli aspetti puramente personali, sostenendo che lui e Wilson avevano «trascorso un periodo davvero eccitante». Ibid., p. 28.
117
Una cronaca dettagliata delle ultime ore di vita di Madero è rinvenibile in M. MÁRQUEZ STERLING,
Los últimos días del Presidente Madero (mi gestíon diplomática en Mexico), La Habana, Imprenta «El
106
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
Huerta non crearono alcun imbarazzo alle cancellerie occidentali. Al contrario, le potenze europee aprirono immediatamente al governo di Huerta, essendo «soprattutto interessate alla stabilità, piuttosto che alle riforme e alla democrazia».118 Tra i maggiori beneficiari del nuovo corso huertista vi fu il Kaiserreich, che, mediante il golpe, poté riconquistare un ruolo di primo piano nella vita politica, economica e commerciale messicana. Tra i più entusiasti supporters di Huerta vi furono i businessmen tedeschi, convinti che il dittatore messicano fosse pronto ad abbandonare i progetti riformatori e modernizzatori in chiave nazionalista avviati da Madero, per ritornare nell’alveo delle politiche di apertura alle imprese estere di Porfirio Díaz. In particolare, i proprietari di piantagioni di caffè del Chiapas manifestarono la loro approvazione, certi che Huerta avrebbe reintrodotto il vecchio sistema della servitù obbligata che, nel periodo di Díaz, aveva
contribuito all’aumento di produttività delle loro aziende.119
Il consenso espresso dal mondo imprenditoriale tedesco alla dittatura di Huerta spinse Berlino al riconoscimento, se non de jure, quantomeno de facto del nuovo governo
messicano. Una presa di posizione politico-diplomatica netta che, di fatto, si rafforzò
nel momento in cui Huerta concluse con le case produttrici di materiale bellico tedesche
degli accordi per rifornire i propri sostenitori dell’armamento necessario a contrastare
l’azione degli oppositori.120 In tale frangente, e più precisamente il 15 maggio 1913, nel
momento in cui le sue scelte politico-diplomatiche stavano determinando una cesura
netta con la politica estera wilsoniana, la vicinanza di Huerta con il Kaiserreich si rinsaldò mediante il riconoscimento ufficiale tedesco della sua presidenza.121 La scelta di
Berlino condusse implicitamente a un contrasto con Washington, poiché il neo-insediato
Wilson, pur adottando un cauto atteggiamento di disamina dell’evoluzione politica messicana – che si formalizzò nel “Watchful Waiting” –, si era ufficialmente dichiarato contrario al riconoscimento di Huerta. Le differenti prese di posizione, quasi cristallizzate,
giunsero a un punto critico quando Paul von Hintze, fisicamente indisposto, era stato
costretto a cedere gli uffici diplomatici allo Chargé d’Affaires, Rudolf von Kardorff.
Siglo XX», 1917.
118
SMALL, The United States and the German “Threat” to the Hemisphere, 1905-1914, cit., p. 264.
119
Cfr. KATZ, Deutschland, Diaz und die mexikanische Revolution, cit., p. 339.
120
Cfr. ID., The Secret War in Mexico, cit., pp. 203-204.
121
Cfr. ibid., pp. 205-206.
107
Lucio Tondo
Egli, «a differenza dell’abilissimo e accomodante [von] Hintze, magistralmente capace
di operare dietro le quinte una politica anti-americana e, allo stesso tempo, di manifestare in pubblico un atteggiamento amichevole verso gli Stati Uniti, era un diplomatico
rozzo […], che divenne presto un portavoce dei sostenitori più estremisti di Huerta».122
La sua condotta trovò nel Kaiser un profondo estimatore. Guglielmo II «sottolineava
reiteratamente sui dispacci inviati da von Kardorff i passaggi anti-americani e quelli che
si riferivano alle tendenze dittatoriali di Huerta e lasciava annotazioni a margine come
“bene”, “buona osservazione”, “telegrafare la mia approvazione”».123 Von Kardorff, che
al contrario di von Hintze, considerava inevitabile uno scontro con gli Stati Uniti a causa della loro presunta volontà di mantenere inalterata l’influenza nell’emisfero meridionale,124 nel giugno del 1913, per rendere più tangibile la vicinanza della Germania al
regime di Huerta, chiese e ottenne che Berlino inviasse a Veracruz la corazzata Bremen
poiché «era fondamentale spiegare la bandiera tedesca sulla situazione attuale».125 Non
appena la nave raggiunse Veracruz, le proteste ufficiali dell’ammiraglio Frank Friday
Fletcher, nominato nel febbraio 1913 comandante delle forze navali degli Stati Uniti
sulla costa orientale del Messico,126 furono immediate. Lo stesso comandante della corazzata tedesca telegrafò direttamente a Guglielmo II, asserendo di aver avuto
«l’impressione che l’apparizione della Bremen non sia stata del tutto gradita
all’ammiraglio americano [di stanza] a Veracruz. Egli ha inviato un saluto alla Bremen
molto cordiale dal punto di vista personale. Tuttavia, entro una settimana, il suo atteggiamento si è fatto più freddo, specie nel momento in cui non ho potuto più fornire nessuna data precisa del ritiro della Bremen […]. La mia spiegazione di essere giunto [a
Veracruz] solo per tranquillizzare i residenti tedeschi è divenuta sempre meno credibile
perché quotidianamente sui giornali erano pubblicate notizie sulle feste organizzate dalla nostra colonia della capitale».127
Durante la breve permanenza della Bremen, von Kardorff non limitò la propria azio122
Ibid., p. 207.
Ibid.
124
Cfr. ibid., p. 207.
125
Ibid., p. 208.
126
Cfr. J. SWEETMAN, American Naval History: An Illustrated Chronology of the U.S. Navy and Marine
Corps, 1775-Present, Annapolis, MD, Naval Institute Press, 2002, p. 116.
127
Cit. in KATZ, The Secret War in Mexico, cit., p. 213.
123
108
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
ne a una mera esibizione della forza militare tedesca, ma si attivò presso le sedi diplomatiche europee in Messico perché i rispettivi governi premessero sull’amministrazione
Wilson al fine di favorire il riconoscimento di Huerta.128 Di fronte alla fermezza della
linea politico-diplomatica di Washington – che, dopo le notizie circa la scarsa propensione democratica di Huerta, provenienti dai consiglieri speciali inviati da Wilson, si
stava progressivamente avviando a fornire pieno appoggio alle forze d’opposizione dei
costituzionalisti – la diplomazia tedesca ritornò a un atteggiamento più cauto. Paul von
Hintze, rientrato in Messico nel settembre 1913, abbandonò immediatamente
l’atteggiamento di sfida nei riguardi degli Stati Uniti esplicitato da von Kardorff, anche
se continuò a garantire a Huerta l’appoggio diplomatico tedesco, fornendogli, in tal modo, quella sponda politica necessaria per resistere alle sempre più pressanti richieste statunitensi di dimissioni.129 La moderazione diplomatica di von Hintze nei riguardi
dell’amministrazione Wilson rispondeva sia a una precisa direttiva dell’Auswärtiges
Amtes, intenzionata a evitare un confronto diretto con gli Stati Uniti,130 sia all’esigenza
di non precludere totalmente a Huerta la possibilità di ottenere un riconoscimento de
facto della propria leadership sul paese centramericano. Ciononostante, l’allentamento
delle tensioni germano-americane fu solo temporaneo131 e si ruppe definitivamente l’11
ottobre 1913, nel momento in cui Huerta annullò le elezioni democratiche appena celebratesi. In quel frangente, di fronte al fermo atteggiamento statunitense, che stava rapidamente conducendo al definitivo abbandono della politica del “Watchful Waiting” e
all’appoggio alle forze d’opposizione, il Kaiserreich rifiutò di seguire la strada che Wil-
128
Cfr. ibid., pp. 214-215.
Cfr. ibid., p. 215.
130
Appena rientrato in Messico, a von Hintze era stato telegrafato da Berlino di «evitare ogni ulteriore
contrasto con gli Stati Uniti e di opporsi a ogni interpretazione della nostra politica in senso aggressivo.
L’unico interesse della Germania è il rapido ristabilimento dell’ordine e dei rapporti normali tra gli Stati
Uniti e il Messico». Cit. in ibid., p. 217.
131
A ottobre, i rivoluzionari di Pancho Villa, dopo una lunga serie d’incursioni presso la comunità occidentale presente a Torreón, presero in ostaggio alcuni cittadini di varia nazionalità. Nelson
O’Shaughnessy, inviato da Wilson a ricoprire temporaneamente le funzioni diplomatiche a Città del Messico, si attivò perché fossero rilasciati gli statunitensi. La pressione del diplomatico americano condusse a
un immediato successo, anche perché Villa non intendeva alienarsi le simpatie di un’amministrazione che
si rifiutava di riconoscere Huerta. Il loro rilascio portò a una reazione veemente di von Hintze, che, oltre a
lamentarsi del fatto che lo stesso trattamento non fosse stato riservato ai cittadini tedeschi, arrivò a minacciare uno sbarco delle truppe in Messico. Cfr. SMALL, The United States and the German “Threat” to
the Hemisphere, 1905-1914, cit., p. 264.
129
109
Lucio Tondo
son stava cercando d’imporre alle cancellerie occidentali,132 cosa che produsse una
maggiore vicinanza al dittatore messicano. Ciò nasceva da una precisa scelta realistica.
Come sostenne lo stesso von Hintze in un documento inviato direttamente a Guglielmo
II:
«Rimango convinto della bontà della mia opinione che una dittatura militare sia la forma di governo più appropriata alla situazione [messicana], l’unica che possa renderci il massimo risultato e che Huerta, nonostante il suo alcolismo e le sue razzie del tesoro nazionale, sia il miglior
133
dittatore possibile».
Una presa di posizione netta che, di fatto, allontanava quasi definitivamente ogni possibilità di evitare un confronto tra il Kaiserreich e gli Stati Uniti e che condusse direttamente alla crisi diplomatica dell’aprile 1914.
3. Wilson e l’incidente di Tampico
Il cristallizzarsi delle opposte posizioni tra tedeschi e statunitensi si rese evidente quando, il 3 febbraio 1914, Wilson ritirò l’embargo sul commercio delle armi verso il paese
centramericano. Come già accennato, l’indirizzo che il presidente intendeva fornire alla
politica statunitense si era manifestato sin dall’estate 1913. E, nel novembre dello stesso
anno, tale linea politico-diplomatica era stata affermata con forza dallo State Department. Per conto di Wilson, William Jennings Bryan dichiarò che «usurpazioni come
quella del generale Huerta minacciano la pace e lo sviluppo del continente americano».134 Una presa di posizione netta, che conduceva l’amministrazione Wilson a dichiarare che «l’attuale politica del governo degli Stati Uniti è quella d’isolare totalmente il
generale Huerta e di alienargli qualunque simpatia e aiuto, sotto forma [di supporto] sia
morale che materiale proveniente dall’estero, forzandolo al ritiro».135 La dichiarazione,
oltre a costituire un punto fermo dell’atteggiamento statunitense, era un’aperta dissuasione a quei paesi europei, come Francia e Gran Bretagna, che, sino a quel momento,
avevano continuato a rifornire Huerta militarmente e finanziariamente.136 Negli ultimi
132
Cfr. ibid., p. 265.
Ibid.
134
The Secretary of State to Chargé O’Shaughnessy, November 24, 1913, in FRUS, 1914, cit., p. 443.
135
Ibid.
136
Cfr. KATZ, The Secret War in Mexico, cit., p. 233.
133
110
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
giorni di gennaio 1914, quando il proclama di ritiro dell’embargo d’armi verso il Messico stava per essere reso pubblico, tale condotta nei confronti d’inglesi e francesi si tradusse in una richiesta pressante d’adesione ai princìpi wilsoniani137 e, allo stesso tempo,
nella manifestazione di una ferma volontà decisionale. Il 31 gennaio, Bryan inviò ai
rappresentanti diplomatici americani la già citata nota, con cui Wilson dichiarava la
propria volontà di schierarsi a fianco dei costituzionalisti e anticipava di pochi giorni la
proclamazione della rimozione dell’embargo sulle armi e munizioni.138
La revoca wilsoniana del 3 febbraio 1914 del divieto d’introdurre armi in Messico139
traeva origine dalla consapevolezza che, sino a quel momento, l’unico beneficiario del
mancato commercio di materiale bellico con le opposte fazioni messicane fosse stato il
solo Huerta. Il dittatore, infatti, tra l’estate del 1913 e i primi del 1914, pur agendo sui
canali diplomatici statunitensi per perorare la revoca del divieto commerciale, aveva
cercato di aggirare l’embargo e di rifornirsi sfruttando tutti i canali, legali e non, a sua
disposizione. Il primo passo era stato quello di ingaggiare un’équipe di contrabbandieri
per cercare di procurarsi le armi nel Nord, negli Stati Uniti, e importarle in Messico.140
Successivamente, l’invio dei rifornimenti bellici era stato effettuato partendo da Cuba e
da qui, lungo il Golfo del Messico, si era cercato di farli attraccare nei porti di Tampico
e di Veracruz, per poi spostarli a Città del Messico per via ferroviaria.141 Il rischio
d’incappare nelle maglie della flotta americana che vigilava sul mantenimento
dell’embargo – e che avrebbe sequestrato l’intero carico – spinsero Huerta, a non rischiare di far navigare i piroscafi in acque controllate dagli statunitensi. Per ovviare,
nell’autunno 1913, il dittatore messicano utilizzò alcuni rappresentanti di propria fiducia
per rinvenire, contrattarne il costo e gestire la spedizione delle armi. Tale ufficio fu affidato al vice console russo a Città del Messico, Leon Raast, che viveva nel paese centramericano da alcuni anni e aveva incontrato Huerta già all’indomani del golpe, strin137
Cfr. The Secretary of State to the Ambassador W. H. Page, January 29, 1914, in FRUS, 1914, cit., pp.
443-444.
138
Cfr. The Secretary of State to All Diplomatic Missions of the United States, January 31, 1914, ibid., p.
447.
139
Cfr. Proclamation Revoking the Proclamation of March 14, 1912, Prohibiting the Exportation of Arms
or Munitions of War in Mexico, Febraury 3, 1914, ibid., pp. 447-448.
140
Cfr. M.C. MEYER, The Arms of the Ypiranga, in «The Hispanic American Historical Review», L, 3,
August 1970, pp. 545-546.
141
Cfr. ibid., p. 546.
111
Lucio Tondo
gendovi un forte legame d’amicizia. A novembre, il diplomatico si era imbarcato per
New York, portando con sé una somma di un milione e mezzo di pesos. Dopo aver effettuato il carico sulla Brikburn, di proprietà della Gans Steamship Line, Raast era stato
convinto dal presidente della compagnia navale a destinare il carico dapprima in Russia
a Odessa, via Costantinopoli, per smistarlo in seguito su una nave di proprietà tedesca e
da lì farlo arrivare in Messico, eludendo i controlli della flotta americana.142 Poiché Raast non aveva seguito la Brikburn a Odessa, ma da New York era rientrato a Città del
Messico, non aveva effettuato il pagamento pattuito e Charles Gans, proprietario
dell’omonima compagnia di navigazione, aveva bloccato il carico d’armi nel porto russo. Dopo aver subito un sequestro da parte delle autorità zariste, convinte che il materiale fosse destinato ai rivoluzionari armeni,143 Gans era riuscito a ottenerne il rilascio e
l’aveva fatto imbarcare sul Pernau alla volta di Amburgo. Nel marzo 1914, quando il
Pernau attraccò nella città tedesca, dopo che alla Gans Steamship Line era stato corrisposto il prezzo stabilito, il carico di armi fu imbarcato sull’Ypiranga, di proprietà della
compagnia Hamburg-Amerika, per essere consegnato ai messicani.144
Di fronte all’eventualità che Huerta potesse ricevere rifornimenti bellici, la presenza
statunitense nelle città portuali di Tampico e Veracruz assumeva una valenza strategica,
dal punto di vista militare, e simbolica, da quello politico-diplomatico, in quanto esprimeva concretamente la vicinanza wilsoniana ai costituzionalisti di Carranza. Tampico,
che, alla fine del XIX, secolo «non era niente di più se non un villaggio»,145 con la scoperta di alcuni giacimenti petroliferi nel proprio sottosuolo, avvenuta nei primi del
1900, si era trasformata rapidamente in una boomtown, arrivando a contare più di
30.000 abitanti. Le politiche di apertura agli investimenti stranieri operate da Porfirio
Díaz, prima, e da Francisco Madero, poi, avevano permesso alle compagnie petrolifere
statunitensi e britanniche di ottenere delle vantaggiose concessioni governative per
l’estrazione e la raffinazione del greggio. La presenza delle aziende occidentali contribuì allo sviluppo infrastrutturale della città, che, con la costruzione di una linea ferroviaria, fu collegata col Nord (Victoria e Monterey), con l’Ovest (Valles) e col Sud (San
142
Cfr. ibid., p. 548.
Cfr. ibid.
144
Cfr. ibid., p. 549.
145
QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 6.
143
112
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
Luis
Potosí).
Inoltre,
la
necessità
di
smistamento
del
petrolio
condusse
all’ammodernamento della città, in cui sorsero oleodotti che portavano verso l’interno
del paese il prodotto finale della raffineria che la Standard Oil vi aveva edificato in
prossimità della rinnovata zona portuale.146 L’alto numero degli occupati di origine occidentale e delle rispettive famiglie fece crescere quantitativamente le colonie angloamericane nella città, seconde solo a quelle presenti a Città del Messico. La sicurezza di
un agglomerato che tendeva a uno sviluppo così rapido era stata assegnata a una guarnigione composta da circa 2000 unità e comandata da un governatore militare, il generale
Ignacio Morelos Zaragoza, fedele a Huerta. Egli, nonostante l’ottimismo dimostrato
pubblicamente, era conscio della difficoltà di difendere un sito come Tampico, anche
perché la città, a nord e a est, era circondata da colline, alle cui spalle si sarebbero potute facilmente concentrare le forze costituzionaliste di Carranza. L’unica mossa in grado
di garantire un minimo di sicurezza ai federalisti era di utilizzare la potenza di fuoco
della cannoniera Veracruz, alla fonda nella baia di Tampico, con il rischio concreto di
colpire i cittadini americani e le loro proprietà.147
In un simile scenario, l’indirizzo politico-diplomatico wilsoniano d’opposizione a
Huerta si tradusse in un rafforzamento della presenza navale americana. Nella baia di
Tampico erano ancorate le navi Connecticut e Minnesota, sotto il comando
dell’ammiraglio Henry Mayo,148 che fungevano da supporto alla flotta di Fletcher, alla
fonda a Veracruz. Ai primi di marzo, nel momento in cui la situazione politica messicana si fece più incerta, Mayo chiese a Fletcher di dislocare a Tampico la Dolphin, che
divenne il proprio Headquarter, al posto della meno robusta Connecticut, per rinvigorire la forza statunitense in acque in cui erano ancorate anche la tedesca Dresden e la britannica Hermione. In effetti, le ansie statunitensi trovavano un fondamento nel crescendo delle operazioni militari che i costituzionalisti stavano lanciando per la conquista
146
Cfr. ibid., pp. 6-7.
Cfr. ibid., p. 7.
148
Mayo era stato promosso ammiraglio direttamente da Josephus Daniels, segretario alla marina di Wilson, che lo aveva destinato al suo ufficio a Washington, come proprio consigliere personale. Quando
l’involuzione politica messicana toccò il suo apice, alla fine del 1913, Daniels gli affidò il comando della
IV divisione navale con il compito di vigilare sulla città di Tampico, «sulle vite e le proprietà statunitensi
e, se necessario, […] di essere pronto a sbarcare truppe armate per prevenire ogni disordine». Cit. ibid., p.
10.
147
113
Lucio Tondo
della città. Il 25 marzo, il generale Luis Caballeros riuscì a prendere il controllo di un
lungo tratto di ferrovia nella zona nord di Tampico, tagliando in tal modo le vie di comunicazione agli uomini di Huerta e il giorno seguente insediò il suo quartier generale a
Laguna Puerta, a poco più di 10 miglia da Tampico.149 Dal 27 al 31 marzo, dalla Veracruz e dalla Zaragoza, i federalisti cominciarono a cannoneggiare le forze di Caballeros
sino a quando, il 6 aprile, questi non lanciò un attacco dal fronte nord. La scarsa resistenza opposta dalle truppe di Huerta permise ai costituzionalisti di occupare militarmente La Barra, Doña Cecilia e Arbol Grande, zone della città vicine alle raffinerie petrolifere della Standard Oil. Mayo, per evitare che i combattimenti potessero danneggiare irreparabilmente il sito, avviò dei primi colloqui con Zaragoza e Caballeros, chiedendo loro di fornire precise garanzie circa la salvaguardia della raffineria e dei cittadini
americani che vi operavano.150 Dal 6 all’8 aprile, le azioni dei costituzionalisti si fecero
più pressanti e le risposte degli huertisti non si fecero attendere: per tutto il giorno, la
Veracruz e la Zaragoza aprirono il fuoco per coprire lo sbarco di ulteriori 300 uomini
dalla nave mercantile Libertad, destinati a rinforzare le linee federaliste.151 L’incertezza
degli sviluppi delle azioni militari e i rischi cui erano sottoposti i civili statunitensi spinsero Mayo a offrire loro protezione a bordo degli incrociatori ancorati a Tampico. L’alto
ufficiale, inoltre, richiese con una certa urgenza al dipartimento di stato l’invio di un
carico d’armi da destinare alle forze costituzionaliste, ottenendo un immediato rifiuto da
parte di Bryan, che si era preventivamente consultato con Wilson.152
L’atteggiamento wilsoniano, legato ancora a una sorta di cautela diplomatica, divenne apertamente filo-costituzionalista il 9 aprile 1914. A causa delle continue scaramucce, la gran parte dei negozi e dei magazzini di Tampico erano rimasti chiusi, compresi i
distributori di benzina, materia che stava cominciando a scarseggiare anche a bordo del-
149
Cfr. ibid., p. 11.
Cfr. ibid., pp. 12-13.
151
Cfr. ibid., pp. 16-17.
152
Cfr. ibid., p. 18. Wilson commentò la richiesta di Mayo con il suo medico personale, Cary Traves
Grayson, sostenendo: «Ogni tanto mi devo fermare per ricordare a me stesso di essere il presidente di tutti
gli Stati Uniti e non solo di uno sparuto gruppo di industriali che si trovano nella repubblica messicana».
Cit. in C.T. GRAYSON, Woodrow Wilson: An Intimate Memoir, New York, Rinehart and Winston, 1960,
p. 30.
150
114
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
la Dolphin.153 Per tale ragione, in quella data, Mayo incaricò il capitano Ralph Earle,
che era riuscito a rinvenire dal grossista tedesco Max Tyron alcuni bidoni di carburante,
di far sbarcare degli uomini perché li portassero a bordo, insieme alle derrate alimentari
di cui l’equipaggio abbisognava. Earle inviò da Tyron una lancia, con a bordo il portabandiera Copp, il timoniere Siefert e il marinaio Harrington, ma non tenne presente che,
a causa degli scontri con i costituzionalisti, i federalisti avevano interdetto il passaggio
dal ponte Iturbide, il cui attraversamento era necessario per raggiungere il deposito da
cui gli statunitensi avrebbero dovuto approvvigionarsi.154 Nel canale che la lancia della
Doplhin aveva dovuto attraversare (e al quale aveva attraccato, per permettere a Copp di
sbarcare e recarsi al magazzino di Tyron), stazionava uno scafo con un ufficiale e alcuni
soldati federalisti. Costoro si avvicinarono a Siefert e a Harrington, rimasti a bordo per
sistemare i bidoni di carburante, e intimarono loro, sotto la minaccia delle armi, di sbarcare. Appena abbandonarono la lancia, i due marinai, insieme a Copp, furono circondati
dai federalisti, che, dopo averli fatti sfilare per le vie della città, li condussero in stato
d’arresto nel proprio quartier generale.155 Dopo essere stati interrogati dal colonnello
Ramón Hinojosa, comandante del settore di Tampico in cui si erano svolti i fatti, i militari statunitensi furono rilasciati nell’arco di pochi minuti e venne permesso loro di ritornare alla lancia per completare il carico dell’approvvigionamento interrotto.156
Non appena Mayo fu informato dell’accaduto, inviò una nota al governatore di Tampico, Zaragoza, in cui, senza eccessive perifrasi mise in evidenza che «prelevare degli
uomini da una lancia battente bandiera americana è un atto d’ostilità inaccettabile».157
Per considerare chiuso l’incidente, Mayo chiese a Zaragoza che gli fossero rivolte «dai
membri più alti in grado del suo staff una disapprovazione e delle scuse formali per
l’accaduto, insieme all’assicurazione che l’ufficiale responsabile di quanto successo [avrebbe] ricev[uto] una severa punizione».158 A tali richieste, che le autorità huertiste
erano pronte – seppur formalmente – a accettare, Mayo aggiunse una clausola (da in-
153
Cfr. QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 20.
Cfr. ibid., p. 22.
155
Cfr. ibid.
156
Cfr. ibid., p. 23.
157
Admiral Mayo to General Zaragoza, April 9, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 448.
158
Ibid.
154
115
Lucio Tondo
tendersi come un’equa riparazione all’affronto subito), pretendendo che i federalisti
«iss[assero] pubblicamente la bandiera americana in una posizione prominente sulla costa e che la salut[assero] con ventuno salve di cannone, saluto che debitamente sar[ebbe
stato] ricambiato da questa nave [Dolphin]».159 A Zaragoza, che aveva espresso «le sue
scuse in maniera verbale»,160 Mayo impose un vero e proprio ultimatum per accettare le
sue condizioni, concedendogli 24 ore di tempo per soddisfarlo.161
Mayo era conscio che, nel momento in cui formulava la richiesta di riparazione, concedendo un limite di tempo ristretto per il suo soddisfacimento, la questione cessava di
essere una mera materia militare e assumeva i contorni di un vero e proprio affare internazionale. La veemenza delle richieste dell’alto ufficiale era giustificata dal fatto che
egli era a conoscenza dell’appoggio che Wilson aveva fornito immediatamente alle sue
azioni. Il presidente, in effetti, aveva interpretato l’incidente come una possibilità di
mettere in difficoltà Huerta, preparando il terreno per il definitivo showdown. Il 10 aprile, mentre stava trascorrendo il weekend in compagnia della famiglia e di alcuni invitati
– tra il cui il segretario al tesoro, William McAdoo – a White Sulphur Springs, West
Virginia,162 Wilson, inviò un messaggio a O’Shaughnessy perché lo reindirizzasse alla
diplomazia huertista «con la massima fermezza, gravità e franchezza, rappresentando[le] l’estrema serietà della situazione e la possibilità che da essa possano scaturire le
più gravi conseguenze, a meno che i colpevoli non siano prontamente puniti».163
La nota del presidente nacque da un’iniziativa personale, assunta senza che egli si
consultasse nemmeno con quegli esponenti del governo fisicamente presenti nella sua
stessa località di villeggiatura. Con ciò, egli evidenziava inequivocabilmente le propensioni ad avocare alla Casa Bianca un ruolo preminente nella gestione della politica estera e ad affidarsi alle impressioni provenienti dai propri consiglieri, indipendentemente
se essi fossero inquadrati o meno all’interno dei canali diplomatici. Nella fase iniziale
159
Ibid.
The Secretary of State to President Wilson, April 10, 1914, ibid., p. 449.
161
Cfr. ibid.
162
Wilson si era recato nella località turistica per poter offrire sollievo alla moglie, Ellen Louise Axson
Wilson, che era nella fase terminale della sua malattia – il morbo di Bright –, con la speranza che un allontanamento dalla vita frenetica di Washington le potesse giovare. Cfr. QUIRK, An Affair of Honor, cit.,
p. 29.
163
The Secretary of State to Chargé O’Shaughnessy, April 10, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 450.
160
116
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
della crisi con il Messico, Wilson fondò la propria azione facendo affidamento sulle notizie riportategli dallo Chargé d’Affaires a Città Messico, Nelson O’Shaughnessy. Questi era arrivato nel paese centramericano nell’estate del 1913, in sostituzione di Henry
Lane Wilson, allontanato per il suo imbarazzante coinvolgimento nel golpe di Huerta.
O’Shaughnessy, che proveniva da una famiglia agiata, aveva iniziato la propria carriera
diplomatica sotto la presidenza Roosevelt, dapprima a Copenaghen e, in seguito, a Berlino per giungere, infine, a Vienna, come secondo segretario d’ambasciata e, insieme
alla moglie, aveva sviluppato un modus vivendi più assimilabile a un aristocratico, che
non a un diplomatico.164 Tale stile di vita dispendioso165 si arrestò bruscamente quando
O’Shaughnessy non fu più in grado d’onorare i propri debiti e la coppia si ridusse a vivere ai limiti dell’indigenza. In una tale situazione, quando Wilson lo destinò a Città del
Messico, egli si trovò al centro di un’intricata vicenda politico-diplomatica, che lo fece
assurgere immediatamente al rango «di più importante diplomatico in Messico».166 In
virtù del ruolo di medium che poteva esercitare tra Wilson e Huerta, in cerca del riconoscimento de jure statunitense della propria legittimità a governare, il diplomatico divenne progressivamente il centro dell’adulazione e dell’irretimento da parte del dittatore
messicano, che lo inserì nei circoli più esclusivi della capitale. Huerta cominciò a chiamarlo apertamente «“figliolo”, dispensandogli pubblicamente degli abrazos, gli abbracci e le pacche sulle spalle con cui i messicani attestano la propria stima per un uomo».167
Nel momento in cui ebbe luogo l’incidente a Tampico e il presidente confermò
l’ultimatum lanciato da Mayo a Zaragoza, O’Shaughnessy fu fatto oggetto delle pressioni huertiste. Per venire incontro alle richieste del dittatore, nonostante non avesse mai
contestato apertamente la linea di Wilson, pur ritenendone alcune scelte del tutto sba-
164
Nelle sedi nelle quali fu accreditato, O’Shaughnessy amplificò la sua tendenza alla mondanità: «La sua
vita diplomatica ideale era un vortice folle di ricevimenti, feste vivaci, bridge con i membri più importanti
della nobiltà locale, caccia al capriolo con i principi russi nei Carpazi o nel Caucaso o ritemprare le forze
in Boemia, nelle esclusive terme di Karlsbad e Marienbad». QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 34.
165
Cfr. ibid., p. 35. Nella capitale dell’impero asburgico, O’Shaughnessy «trascorreva quattro o cinque
ore alla sua scrivania e il resto del giorno giocando a golf o al The Club. […] Sperperava denaro in abbigliamento, ordinando cappotti, panciotti, pantaloni, bellissimi smoking e giacche da caccia dai più cari e
esclusivi sarti di Londra». Ibid.
166
Ibid., p. 37.
167
Ibid.
117
Lucio Tondo
gliate,168 il diplomatico cercò di ridimensionare la gravità dell’intera vicenda, operando
dei sottili distinguo, tesi a ridurre le responsabilità dei militari messicani.169 Ciò che
O’Shaughnessy paventava era che, come in effetti stava accadendo, Huerta utilizzasse la
minaccia dell’ultimatum statunitense per ricompattare in senso patriottico la popolazione e le fazioni messicane che si stavano combattendo, mettendo i propri oppositori nella
condizione piuttosto imbarazzante, qualora avessero appoggiato la posizione wilsoniana, di poter essere accusati di collaborazionismo con un eventuale invasore. Proprio per
evitare la realizzazione di un tale paradosso, O’Shaughnessy si spese per perorare la
causa di Huerta, sottolineando in modo realistico che il generale, pur non essendo disposto a accettare l’ultimatum di Mayo, era pronto a ribadire le proprie scuse ufficiali
oltre a ordinare l’arresto del colonnello Hinojosa.170 Il diplomatico, quando si rese conto
che gli Stati Uniti non avrebbero indietreggiato, per scongiurare la possibilità di
un’ulteriore recrudescenza della tensione politico-diplomatica tra i due Stati, cercò di
convincere dapprima il sottosegretario agli esteri di Huerta, Roberto Esteva Ruiz, e, in
seguito, lo stesso dittatore dal recedere dalla propria posizione.171 O’Shaughnessy era
convinto di poter aver successo nel suo tentativo, perché era certo di esercitare un certo
ascendente sul dittatore. In base a tale presupposto, il diplomatico chiese e ottenne un
incontro con Esteva Ruiz, il 12 aprile. Questi ribadì la volontà di Huerta di non accettare
le condizioni poste da Mayo, ritenendo ingiustificate le proteste statunitensi, dal momento che i «marinai erano stati sbarcati in un determinato luogo senza alcun permesso
delle autorità militari messicane»,172 e, di fatto, contestando apertamente la sovranità
territoriale di uno Stato. O’Shaughnessy replicò, evidenziando come «l’atteggiamento
assunto dal generale Huerta [fosse] latore delle peggiori possibilità […] anche perché il
popolo [americano] potrebbe forzare l’amministrazione a difendere la nostra dignità nazionale se necessario anche con l’utilizzo della forza».173 Esteva Ruiz non recedette dal
sostenere un punto di vista esattamente contrario:
168
Cfr. O’SHAUGHNESSY, A Diplomat’s Wife in Mexico, cit., p. 258.
Cfr. Chargé O’Shaughnessy to the Secretary of State, April 10, 1914, in FRUS, 1914, cit., pp. 449-450.
170
Cfr. Chargé O’Shaughnessy to the Secretary of State, April 11, 1914, ibid., p. 450.
171
Cfr. Chargé O’Shaughnessy to the Secretary of State, April 12, 1914, ibid., p. 453.
172
Chargé O’Shaughnessy to the Secretary of State, April 12, 1914, ibid., p. 454.
173
Ibid.
169
118
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
«Il governo messicano, in conformità con le leggi internazionali, non si
sente in obbligo di accettare le richieste rivoltegli e ritiene che aderire a
tali punti equivalga ad accettare la sovranità di uno Stato estero, a scapi174
to della dignità e della sovranità nazionale».
La minaccia di un intervento armato non rappresentava un mero mezzo diplomatico
per operare delle pressioni finalizzate a una risoluzione incruenta della crisi, ma era un
atto politico ben definito. In effetti, di fronte all’evidenza del rifiuto di Huerta, il segretario alla marina s’informò, tramite Fletcher, se Mayo disponesse di mezzi e uomini sufficienti per prendere e tenere Tampico, controllandone gli accessi portuali e terrestri.175
Daniels autorizzò immediatamente lo spostamento di alcune unità della flotta statunitense per supportare l’eventuale azione militare,176 anche se, Mayo, dopo un’analisi dei
rischi a cui le imbarcazioni sarebbero state sottoposte nel corso del raid, parve optare
per un bombardamento navale di Tampico.177 Ma anche quest’ultima possibilità fu abbandonata, poiché, anche se un cannoneggiamento avrebbe fornito agli Stati Uniti la
soddisfazione per il mancato saluto messicano alla bandiera, non avrebbe apportato alcuna conseguenza diretta sulla permanenza di Huerta al potere e avrebbe potuto mettere
a repentaglio la sicurezza delle proprietà e delle vite dei cittadini americani operanti in
città.
Appena Wilson rientrò alla Casa Bianca da White Sulphur Springs, il 13 aprile, impresse una forte spinta decisionista alla sua azione politica anti-huertista. Egli, non solo
appoggiò incondizionatamente la posizione di Mayo, ma scrisse personalmente il di174
Ibid., p. 455.
Cfr. Admiral Fletcher to the Secretary of the Navy, April 14, 1914, ibid., pp. 458-459.
176
Cfr. The Secretary of State to Chargé O’Shaughnessy, April 14, 1914, ibid., p. 459. Il segretario alla
marina ordinò l’immediato dislocamento nelle acque messicane della Michigan, della Louisiana, della
New Hampshire, della South Carolina, dell’Arkansas, della Vermont, della New Jersey, della Tacoma,
della Nashville e della Hancock.
177
Mayo e Fletcher avevano inizialmente approntato un piano d’attacco che prevedeva il blocco della
baia di Tampico, utilizzando le unità navali più piccole, mentre l’equipaggio della Dolphin avrebbe dovuto occupare la dogana e la Chester e la Des Moines avrebbero dovuto prendere o affondare le navi messicane. Le due navi statunitensi, insieme alla San Francisco, avrebbero dovuto formare un blocco, ancorandosi alla fonda all’ingresso della baia, per favorire lo sbarco delle truppe ed evitare qualunque reazione
esterna. Il progetto fu abbandonato a causa del basso pescaggio delle acque della baia: nessuna delle navi
avrebbe potuto attraversarla senza rimanervi incagliata. I marines avrebbero potuto sbarcare solo con
delle scialuppe e, quando queste fossero entrate nel canale che conduceva al molo e alla città, sarebbero
state un bersaglio esposto alla risposta militare messicana. Cfr. QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 47.
175
119
Lucio Tondo
spaccio che Bryan inviò a O’Shaughnessy, dispaccio in cui, oltre a ribadire la validità
della richiesta dell’ammiraglio, dichiarava che «il presidente si aspetta[va] una pronta e
totale accettazione dei termini [dell’ultimatum di Mayo]».178 Inoltre, per fornire maggiore incisività politica all’impostazione, Wilson convocò il gabinetto, chiedendo – e
ottenendo – un’adesione unanime alla propria linea. Mediando tra le posizioni di McAdoo, che perorava un intervento armato immediato, e di Bryan, che consigliava maggiore cautela, in quanto paventava le possibili conseguenze della reazione americana, Wilson chiese a Robert Lansing, all’epoca sottosegretario, di rinvenire negli archivi dello
State Department un precedente simile alla crisi attuale.179 Ciò, per avallare legalmente
di fronte all’opinione pubblica un’eventuale escalation militare del contrasto
con Huerta.
Non appena Lansing rinvenne nella spedizione in Nicaragua l’appiglio legale180 necessario per giustificare il sempre più probabile intervento militare di fronte al congresso e all’opinione pubblica, Wilson ordinò alla flotta atlantica di raggiungere le acque
messicane e di porsi sotto il comando di Mayo. Nonostante la notizia avesse immediatamente raggiunto Huerta, questi, il 14 aprile, in un incontro con O’Shaughnessy, tenutosi all’interno della sua vettura privata, oltre a mostrarsi, «come al solito, molto cordiale e molto comunicativo»,181 rimase fermo nel proprio rifiuto dell’ultimatum di Mayo. Il
fatto che Huerta proponesse al diplomatico di rimettere la questione nelle mani del tribunale internazionale dell’Aja,182 nel chiaro tentativo di ottenere un implicito riconoscimento internazionale de jure della propria legittimità, non lasciava presagire
l’intenzione di dirimere pacificamente la questione. Al contrario, secondo
O’Shaughnessy, Huerta stava operando per porre gli Stati Uniti nella condizione di passare alle vie di fatto, al fine di superare le divisioni e cementare il consenso interno in
funzione patriottica: «Il vecchio indio è stato più eloquente di quanto non l’abbia mai
visto e sono rimasto impressionato dal fatto che egli abbia immesso un’enorme quantità
178
The Secretary of State to Chargé O’Shaughnessy, April 14, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 460.
Cfr. QUIRK, An Affair of Honor, cit., pp. 49-50.
180
Negli archivi dello State Department, Lansing trovò dei documenti relativi al bombardamento, autorizzato dal presidente Franklin Pierce nel 1854, della città nicaraguense di San Juan del Norte come rappresaglia a un insulto rivolto al console statunitense di quella città. Cfr. ibid., p. 50.
181
The Chargé O’Shaughnessy to the Secretary of State April 14, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 460.
182
Cfr. ibid.
179
120
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
di patriottismo nelle sue dichiarazioni».183
La fermezza del dittatore messicano cominciò a vacillare il giorno seguente, quando
Wilson convocò i membri delle commissioni esteri della camera dei rappresentanti e del
senato per illustrare le posizioni dell’amministrazione. Egli elencò i vari episodi che avevano generato il contrasto con Huerta e, pur ammettendo che essi «fossero di scarso
peso in se stessi», sostenne che assumevano la massima importanza se considerati alla
luce della «condotta generale del governo messicano nei riguardi degli Stati Uniti e dei
loro cittadini».184 Ottenendo un consenso bipartisan, il presidente illustrò ai Congressmen la possibilità di procedere all’occupazione dei porti di Tampico e Veracruz, che
sarebbe stata interrotta solo nel momento in cui Huerta avesse accettato le richieste di
Mayo, «soddisfacendo l’onore americano».185 Contando anche sulla propensione
dell’opinione pubblica a sostenere un eventuale intervento militare, Wilson, di fatto,
preparava il terreno per ottenere una risoluzione congiunta da parte del congresso, al
fine di arrivare allo showdown con Huerta.186 Alla luce di una possibilità che diveniva
progressivamente più concreta, il generale, il 15 aprile, fece sapere a O’Shaughnessy di
essere pronto a recedere dalla propria posizione di fermezza sino a quel momento tenuta. L’ultimatum di Mayo era sostanzialmente accettato, con la sola richiesta che le scariche di artiglieria a salve fossero fatte esplodere in contemporanea, per evitare che gli
statunitensi non rendessero l’onore ai messicani e li umiliassero.187
Il segnale d’apertura di Huerta non fece arretrare Wilson dalle sue posizioni, che liquidò la proposta del generale come irricevibile: «Un saluto contemporaneo toglierebbe
qualunque significato all’azione».188 L’intransigenza wilsoniana trovava la propria ragion d’essere non solo nell’alta carica simbolica del gesto del saluto alla bandiera, ma,
soprattutto, nella volontà di chiudere definitivamente i conti col dittatore messicano.
Non fu casuale che, il 17 aprile, in una conferenza stampa, egli dichiarasse senza troppe
183
Cfr. ibid., p. 461. Riguardo a tali impressioni, la moglie di O’Shaughnessy riportò nelle sue memorie
che, non appena Huerta fu informato della dislocazione della flotta atlantica nelle acque messicane, esclamò: «È una calamità? No. È la cosa migliore che potesse mai capitarci». O’SHAUGHNESSY, A Diplomat’s Wife in Mexico, cit., p. 266.
184
Cit. in QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 57.
185
Ibid., p. 58.
186
Cfr. The Secretary of State to Chargé O’Shaughnessy, April 18, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 468.
187
Cfr. The Secretary of State to Chargé O’Shaughnessy, April 16, 1914, ibid., p. 465.
188
Cfr. The Secretary of State to Chargé O’Shaughnessy, April 17, 1914, ibid., p. 466.
121
Lucio Tondo
perifrasi che, a prescindere dall’accettazione dell’ultimatum, la flotta sarebbe rimasta
nelle acque messicane per non consentire alcuna ripetizione «delle innumerevoli manifestazioni di cattiva volontà e di disprezzo verso gli Stati Uniti che Huerta ha evidenziato nel passato».189 Per tale motivo, il giorno seguente, Wilson rilasciò una nota diplomatica, in cui, oltre ad asserire che «il generale Huerta sta[va] ancora insistendo nel fare
qualcosa di meno di quanto richiesto e qualcosa di meno di quanto costituirebbe un riconoscimento che i propri rappresentanti sono nel torto»,190 impresse una svolta decisionista alla vertenza, dichiarando che, «se il generale Huerta non [avesse accettato] [le
condizioni dell’ultimatum] entro le sei di sabato pomeriggio, lunedì egli [avrebbe posto]
la questione nelle mani del congresso».191 E, con un consenso parlamentare pressoché
unanime, ciò avrebbe significato l’avvio delle ostilità.
Tale volontà fu ribadita più decisamente il giorno seguente in risposta a
O’Shaughnessy, che aveva inviato a Washington una bozza di protocollo d’intesa stilata
da Huerta e contenente le sue richieste per accettare l’ultimatum di Mayo.192 In tale
frangente, Wilson rispose sprezzantemente, sostenendo non solo che «non sarebbe stata
fatta alcuna concessione di alcun genere e per nessuna ragione», ma anche ribadendo
«piuttosto enfaticamente il proprio rifiuto di firmare qualunque accordo o protocollo».193 E ciò soprattutto per evitare di concedere implicitamente quel riconoscimento de
jure che Huerta cercava di ottenere da tempo dagli Stati Uniti:
«In particolare, il protocollo […] è totalmente irricevibile, poiché è
formulato in modo tale che il generale Huerta potrebbe interpretarlo
come un riconoscimento del proprio governo, mentre il presidente ha
194
reso noto […] che non intende riconoscerlo».
L’unico modo per uscire dall’impasse determinatasi era quello di far mettere a punto
dal gabinetto le richieste che Wilson avrebbe rivolto al congresso e per chiedere sostan189
Cit. in QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 62.
The Secretary of State to certain American Diplomatic Missions, April 18, 1914, in FRUS, 1914, cit., p.
469.
191
Ibid.
192
Cfr. Draft Protocol, enclosure to Chargé O’Shaughnessy to the Secretary of State, April 18, 1914, in
FRUS, 1914, cit., p. 470.
193
The Secretary of State to Chargé O’Shaughnessy, April 19, 1914, ibid., p. 471.
194
Ibid.
190
122
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
zialmente carta bianca nell’azione contro Huerta. Il presidente, dopo essersi consultato
con i propri consiglieri militari, era arrivato alla conclusione che, per dirimere la questione, fosse necessario mettere Huerta sotto pressione dal punto di vista militare. Per
tale motivo, intendeva chiedere al congresso di autorizzare l’occupazione militare di
Tampico e Veracruz e di stabilire un blocco militare nelle acque del Messico.195 Poiché
a Tampico erano state dislocate la gran parte delle unità navali presenti nelle acque
messicane, Mayo aveva provveduto a stilare un particolareggiato piano di sbarco e di
occupazione dei centri nevralgici di Tampico. L’alto ufficiale era fiducioso nella buona
riuscita dell’azione, poiché i punti scelti per lo sbarco dei marines non possedevano
un’adeguata copertura militare e l’esigua guarnigione huertista di stanza era insufficiente a contenere la forza d’interdizione statunitense.196 Proprio perché le possibilità di un
esito positivo erano alte, l’establishment politico-militare di Washington parve orientato
a preferire uno sbarco a Tampico, invece che a Veracruz. Quest’ultima, infatti, possedeva un’efficace difesa militare del porto e la guarnigione messicana aveva ricevuto rinforzi, in uomini e mezzi, per contrastare la probabile offensiva dei costituzionalisti, appostati alle spalle delle alture della città. Se lo sbarco fosse stato autorizzato a Veracruz,
i marines avrebbero rischiato non solo di essere respinti, ma anche di trovarsi sotto il
tiro incrociato di huertisti e costituzionalisti.197 In base a tali considerazioni, Josephus
Daniels, il 20 aprile, ordinò alla flotta atlantica di sgomberare tutte le imbarcazioni civili
e commerciali statunitensi dalle vie fluviali di Tampico, considerando ormai imminente
l’avvio delle operazioni.198
4. L’occupazione di Veracruz e la crisi diplomatica con il Kaiserreich
Pur non avendone ancora la certezza, la possibilità sempre più concreta di uno scontro
contro Huerta spinse Wilson a cercare preventivamente la più ampia adesione alla dichiarazione che, di lì a qualche ora, avrebbe reso di fronte al congresso riunito in seduta
congiunta. Nel primo pomeriggio del 20 aprile, egli ricevette alla Casa Bianca il leader
repubblicano Henry Cabot Lodge, Chairman del Senate Committee on Foreign Rela195
Cfr. QUIRK, An Affair of Honor, cit., pp. 68-69.
Cfr. ibid., p. 68.
197
Cfr. ibid., p. 69.
198
Cfr. ibid.
196
123
Lucio Tondo
tions, per chiedere l’appoggio del Grand Old Party. Lodge trovò le argomentazioni di
Wilson «deboli, nonostante fossero ben espresse».199 Anticipando di qualche tempo
l’opposizione all’impianto idealistico del wilsonismo – che l’avrebbe portato a essere il
principale fautore della mancata ratifica del covenant della Società delle Nazioni –, Lodge, pur dichiarando il proprio sostegno all’intervento militare in Messico, prese le distanze dalle giustificazioni morali del presidente.200
Dopo l’incontro con il leader repubblicano, Wilson tenne una conferenza stampa in
cui chiese esplicitamente ai reporters di non allarmare l’opinione pubblica, sostenendo
che gli Stati Uniti stessero per dichiarare guerra al Messico. Al contrario, utilizzando dei
toni prettamente idealistici, evidenziò che egli si stava limitando a presentare al congresso l’evolversi della questione messicana per ottenere dalle camere il placet per una
soluzione ottimale. Ammantando di valori ideali uno showdown con Huerta che riteneva
ormai improrogabile, Wilson sostenne: «Io non sono per niente esaltato dall’idea della
guerra. Ho entusiasmo per la giustizia e per la [difesa della] dignità degli Stati Uniti,
non certo per la guerra. E tale desiderio di non combattere sarà realizzato solo se noi
agiremo con prontezza e con fermezza».201
Immediatamente dopo, Wilson si presentò di fronte al congresso per pronunciare il
proprio discorso. Pur non aggiungendo alcun elemento di novità, egli, utilizzando uno
stile enfatico e anticipando un’impostazione utilizzata in seguito tanto a Versailles
quanto nei riguardi del bolscevismo, sottolineò come l’azione militare degli Stati Uniti
fosse rivolta contro Huerta e non contro il popolo messicano. Dopo aver riepilogato i
fatti che avevano condotto all’incidente di Tampico, il presidente sostenne che
«sfortunatamente, esso non era stato un caso isolato. Precedentemente,
si erano verificati degli incidenti che non potevano non creare
l’impressione che i rappresentanti del generale Huerta avessero la volontà di non tenere conto della dignità e dei diritti di questo governo e di
sentirsi pienamente in dovere di compiere ciò che più gli piacesse, ma202
nifestando [verso di esso] tutto il proprio disprezzo e irritazione».
199
H. CABOT LODGE, The Senate and the League of Nations, New York, Charles Scribners & Sons, 1925,
p. 13.
200
Cfr. ibid., pp. 13-14.
201
Remarks of President Wilson at a Press Conference, April 20, 1914, in PWW, vol. 29, cit., p. 471.
202
Address of the President delivered at a Joint Session of the Two Houses of Congress, April 20, 1914,
on “The Situation in our Dealings with General Victoriano Huerta at Mexico City”, April 20, 1914, in
124
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
Proprio per tale ragione, dopo l’arresto dei marinai a Tampico, Wilson si era sentito
«in dovere di sostenere tutte le richieste dell’ammiraglio Mayo e
d’insistere affinché la bandiera degli Stati Uniti ricevesse i dovuti ono203
ri».
Il rifiuto reiterato del dittatore messicano di accettare l’ultimatum stava «conducendo
direttamente e inevitabilmente alla guerra».204 Un conflitto che gli Stati Uniti
«in nessuna circostanza avrebbero combattuto contro il popolo messicano, ma che […] erano pronti a combattere contro il solo generale Huerta
205
e coloro che lo seguono e lo appoggiano».
Per ottenere dal «generale Huerta e dai suoi accoliti il pieno riconoscimento dei diritti e della dignità degli Stati Uniti»,206 Wilson chiese un pieno sostegno:
«Non agirei mai in una materia gravida delle più gravi conseguenze se
non in piena collaborazione e cooperazione con il senato e la camera
207
[dei rappresentati]».
E, quando, successivamente alla propria dichiarazione, si aprì il dibattito, a quei congressmen che gli chiesero chiaramente «se lo scopo delle sue dichiarazioni [fosse]
l’eliminazione fisica di Huerta», Wilson reiterò le rassicurazioni. Pur non eliminando
aprioristicamente la possibilità di uno scontro, pose in evidenza le ragioni morali che
stavano spingendo l’amministrazione ad autorizzare un intervento armato in Messico:
«Tutto ciò che vogliamo è il pieno riconoscimento della dignità nazionale e
l’assicurazione che ciò costituirà la garanzia che tali fatti non si verifichino
208
mai più».
Il congresso approvò la mozione di Wilson con 337 voti a favore e soli 37 contrari:
FRUS, 1914, cit., p. 475.
203
Ibid.
204
Ibid.
205
Ibid., p. 476.
206
Ibid.
207
Ibid.
208
Cit. in L. FISHER, Presidential War Power, Lawrence, KS, University Press of Kansas, 1995, p. 51.
125
Lucio Tondo
un appoggio pressoché unanime alla sua posizione, con alcune voci dissonanti solo al
senato.209 Di fatto, il congresso gli dava mano libera per ordinare le operazioni militari a
Veracruz. L’occasione per impartire l’ordine gli fu fornita alle prime ore del 21 aprile,
quando lo State Department ricevette il telegramma cifrato dal console a Veracruz, William Canada. Questi avvertiva, in tono piuttosto allarmato, che
«la nave Ypiranga, appartenente alla compagnia Hamburg-Amerika,
[sarebbe arrivata] l’indomani dalla Germania con 200 mitragliatrici e
15.000.000 di munizioni e [avrebbe attraccato] al molo n. 4, avviando le
operazioni di sbarco alle 10:30. Ci [sarebbero stati] 30 autocarri sul molo per caricare le munizioni scaricate dalla nave. Dei treni, composti da
10 vagoni ognuno, [sarebbero partiti] il prima possibile dalla Mexican
210
Railway».
Il documento costituiva un vero e proprio incentivo all’azione che i funzionari posero immediatamente all’attenzione di Bryan. Questi, dopo essersi consultato con Daniels,
telefonò alla Casa Bianca, intimando al personale – poco incline a disturbarne il sonno –
di svegliare Wilson.211 Quando questi chiese a Daniels, aggiuntosi alla conversazione,
di esprimere la propria opinione, il segretario alla marina rispose laconicamente che
«non dovremmo permettere che le armi arrivino a Huerta».212 Chiese poi
l’autorizzazione a ordinare a Fletcher di prendere possesso della dogana del porto di Veracruz per impedire l’attracco dell’Ypiranga, ottenendo dal presidente un perentorio:
«Prendete immediatamente Veracruz».213
La decisione di Wilson non era stata troppo difficile da assumere, data l’ostilità poco
velata nei riguardi di Huerta e la certezza di supportare i costituzionalisti nella loro lotta
contro il dittatore. Alla stessa stregua, anche l’entourage politico-diplomatico era certo
209
Cfr. P. JESSUP, Elihu Root, New York, Dood, Mead & Co, 1938, vol. II, p. 253. Un esiguo gruppo di
repubblicani, guidati dall’ex segretario di stato, Elihu Root e Henry Cabot Lodge, presentò una mozione
che, pur prevedendo l’uso della forza militare in Messico, esulava dall’idealismo wilsoniano e puntava
alla difesa della vita e delle proprietà americane.
210
Consul Canada to the Secretary of State, April 20, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 477.
211
Cfr. R.S. Baker, Woodrow Wilson: Life and Letters, Garden City, NY, Doubleday, Doran & Co., 1931,
vol. IV, pp. 328-329.
212
Ibid., p. 329.
213
Ibid. L’ordine, tassativo, come lo stesso Wilson confidò al proprio segretario personale, Joseph Tumulty, nasceva dall’urgenza di evitare un rafforzamento delle posizioni di Huerta: «È abbastanza duro,
ma non potremmo permettere a quel cargo di attraccare. I messicani intendono usare quelle armi contro i
nostri ragazzi […]. Non c’è alternativa». Cit. in J.T. TUMULTY, Woodrow Wilson as I Know Him, Doubleday, New York, Page & Company, 1921, p. 152.
126
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
che i messicani avrebbero accolto i marines come dei liberatori.214 Anche per tale ragione, le operazioni di sbarco degli statunitensi furono accelerate. Josephus Daniels, che
già il 20 aprile aveva ordinato a Mayo di lasciare nel porto di Tampico la sola Dolphin e
di muovere con le restanti navi a Veracruz, alle prime ore del 21, intimò a Fletcher di
«prendere la dogana. Non consentire che il materiale bellico sia consegnato a Huerta o a
qualunque altra fazione».215 Per eseguire l’ordine, l’ammiraglio poteva contare sul contingente di marines presenti sul Praire, sulla Florida e sullo Utah per un totale di 787
uomini, tra ufficiali e marinai, le cui azioni erano direttamente coordinate da lui, rimasto
a bordo dello Utah, dove aveva fissato il proprio quartier generale, e poste al comando
del tenente William Rush. Parallelamente alle azioni preliminari di sbarco dei militari, il
console Canada si era recato dal generale Maas, comandante della guarnigione delle
truppe huertiste di stanza a Veracruz per chiedergli di «cooperare con le forze navali
[statunitensi] per il mantenimento dell’ordine».216 L’alto ufficiale centramericano, al
contrario di quanto gli statunitensi si aspettassero, cominciò a preparare i piani per la
resistenza delle proprie forze allo sbarco degli americani, già definiti “invasori”. Per
integrare il numero delle proprie forze d’interdizione – poco meno di 100 unità –, Maas
arrivò al punto di aprire le porte della prigione di San Juan de Ulua e reclutarvi forzatamente i prigionieri, la gran parte dei quali era costituita da coloro che si erano rifiutati di
servire nell’esercito di Huerta. Inoltre, egli provvide a distribuire alla popolazione civile
armi di precisione, come i fucili Mauser e Winchester.217
Ignari della resistenza civile e militare organizzata da Maas, i marines sbarcarono
dalla lancia del Praire sul molo di Veracruz e avviarono le operazioni «come se si stessero recando a una festa di gala».218 Essi non furono in grado di riconoscere alcuni segnali piuttosto chiari dell’opposizione che i messicani stavano riservando loro, come il
fatto che la piccola folla di curiosi che si era accalcata al loro arrivo divenisse dapprima
214
Il colonnello House, consigliere personale di Wilson, non appena fu informato dell’ordine impartito a
Fletcher, commentò la notizia con una metafora alquanto ottimistica: «Se la casa di un uomo stesse bruciando, egli dovrebbe essere felice di avere dei vicini che arrivassero a soccorrerlo e che provvedessero a
non intaccare le sue proprietà. Dovrebbe essere così anche tra le nazioni». Cit. in QUIRK, An Affair of
Honor, cit., p. 77.
215
Cit. in ibid., p. 85.
216
Cit. in ibid., p. 87.
217
Cfr. ibid., p. 90.
218
Ibid., p. 93.
127
Lucio Tondo
silenziosa e in seguito si disperdesse nelle impervie viuzze interne adiacenti al porto.
Appena sbarcati, i marinai occuparono l’ufficio postale e la dogana e si diressero immediatamente a nord per prendere possesso del terminale della ferrovia di Veracruz.219
Mentre i vari reparti convergevano verso il centro cittadino, i soldati americani furono
colpiti dal fuoco dei militari messicani, arroccati nel loro fortino. Al contempo, anche i
civili e gli ex prigionieri messicani cominciarono a sparare dalle finestre e dai pianerottoli delle abitazioni e dai campanili delle chiese, costringendo i marines a rifugiarsi in
alcuni magazzini. Da qui, i militari prelevarono alcuni sacchi contenenti derrate alimentari – come caffè, zucchero e riso – e li ammassarono nell’intersezione delle strade prospicienti il consolato americano, formandovi delle barricate armate con mitragliatrici.220
Nonostante il pronto ripiego delle truppe statunitensi, la resistenza messicana, per quanto male organizzata, provocò 4 morti e 20 feriti tra i marines. Nel tentativo di mettere
fine alla battaglia, Fletcher autorizzò l’immediato sbarco di un battaglione di stanza sullo Utah, al fine di rinforzare le posizioni statunitensi. E da Washington, dove seguiva in
tempo reale l’evolversi della situazione, Wilson – in riunione permanente con Bryan,
Daniels e Lindley Garrison, il segretario alla guerra –, per imprimere una svolta ai combattimenti, impartì l’ordine di utilizzare contro i messicani tutta la potenza di fuoco delle navi.221 A quel punto, Fletcher fece puntare i cannoni da 76 millimetri del cacciatorpediniere Praire, ancorato al largo della città, contro le finestre delle abitazioni messicane da cui provenivano la gran parte degli spari contro gli statunitensi.
Appena il cannoneggiamento navale ebbe fine, si contarono 12 morti tra i marines e
oltre 100 tra i messicani. Fletcher stilò un proclama in cui dichiarava che, per gli statunitensi, si era reso necessario «sbarcare e assumere il controllo militare della dogana di
Veracruz».222 Inoltre, nel tentativo di tranquillizzare i locali, aggiungeva che «non è intenzione della marina militare degli Stati Uniti intromettersi nell’amministrazione degli
affari civili di Vera Cruz [sic] più di quanto non si renderà necessario per garantire una
condizione di legalità».223 Fletcher incaricò un proprio ufficiale di notificare il proclama
219
Cfr. Consul Canada to the Secretary of State, April 21, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 479.
Cfr. The Secretary of State to all American Consuls in Mexico, April 22, 1914, ibid., p. 671.
221
Cfr. Consul Canada to the Secretary of State, April 22, 1914, ibid., p. 480.
222
Admiral’s Fletcher Proclamation, April 22, 1914, ibid., p. 481.
223
Ibid.
220
128
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
sia a Maas, sia alle autorità cittadine di Veracruz per cercare d’avviare dei negoziati per
un cessate-il-fuoco. Per questa ragione, l’ufficiale incaricato e il console Canada si mossero immediatamente alla ricerca di Maas, ma, non essendo riusciti a trovarlo, perché
fuori città, cercarono d’incontrare il sindaco di Veracruz o qualunque altra personalità
politica cittadina che avesse l’autorità necessaria per ratificare, rendendolo esecutivo, il
proclama. Dopo una lunga ricerca, i due statunitensi riuscirono a trovare l’Alcalde, Roberto Díaz, «barricato a casa sua, all’interno della propria stanza da bagno».224 Ma il
sindaco si rifiutò di ratificare il proclama di Fletcher, accampando il pretesto di non
possederne l’autorità e, nel tentativo di guadagnar tempo, chiese agli statunitensi di discuterne con il generale Maas.
Quasi in contemporanea con il tentativo di Canada di far ratificare agli huertisti il
proclama di Fletcher, il piroscafo mercantile tedesco Ypiranga raggiunse le acque del
porto di Veracruz. All’ingresso della baia, il passo gli fu sbarrato dall’incrociatore Utah
e un ufficiale statunitense, il tenente Lamar Leahy, salì a bordo, riportando al comandante tedesco Bonath che le truppe americane erano sbarcate a Veracruz.225 Leahy continuò asserendo che l’ammiraglio Fletcher, a conoscenza del carico di armi e munizioni
trasportato dal cargo, aveva ordinato all’Ypiranga di non entrare nel porto a causa del
protrarsi dei combattimenti.226 Qualche minuto più tardi, un secondo ufficiale statunitense salito a bordo dell’Ypiranga, aggiunse che Fletcher si era reso disponibile a concedere l’attracco nel porto, ma che non avrebbe consentito lo scarico delle armi.227 Il
comandante tedesco, dopo aver fatto prendere visione agli ufficiali dei documenti che
attestavano la provenienza americana – e non tedesca – del carico, dichiarò la propria
preferenza a rimanere ancorato nella baia di Veracruz.228 Immediatamente dopo, Bonath
inviò un telegramma al comandante dell’incrociatore tedesco Dresden (ancorato
anch’esso nella baia), Erich von Köhler, in cui, oltre a informare che «l’Ypiranga è [stato] costretto a fermarsi al largo dietro ordine dell’ammiraglio Fletcher»229 e che «qua224
Consul Canada to the Secretary of State, April 22, 1914, ibid., p. 481.
Cfr. Consul Canada to the Secretary of State, April 21, 1914, ibid., p. 479.
226
Cfr. QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 98.
227
Cfr. TH. BAECKER, The Arms of Ypiranga: The German Side, in «The Americas», XXX, 1, July 1973,
p. 7.
228
Cfr. Consul Canada to the Secretary of State, April 21, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 480.
229
Cit. in BAECKER, The Arms of Ypiranga, cit., p. 7.
225
129
Lucio Tondo
lunque continuazione del viaggio è interdetta»,230 chiese al Reichsoffizier: «Ora cosa
devo fare?».231 La risposta non tardò a giungere: von Köhler ordinò all’Ypiranga di
mettersi a disposizione per caricare a bordo i cittadini tedeschi presenti a Veracruz e, in
tal modo, pose il piroscafo sotto la diretta protezione della marina del Reich, di cui, da
quel momento, entrò legalmente a far parte. Inoltre, proprio per sottolineare il nuovo
status del piroscafo, von Köhler informò Borath che aveva telegrafato a Fletcher, mettendolo al corrente della sua requisizione
«sotto il servizio del Reich al fine di accogliere i rifugiati. Ho richiesto
232
all’ammiraglio americano di facilitare tale compito».
Lo stazionamento dell’Ypiranga al largo permise alle truppe statunitensi di non disperdere le proprie energie e di concentrare le forze nella continuazione delle operazioni
di occupazione di Veracruz. Nonostante l’alto numero di perdite subite negli scontri a
terra e dal cannoneggiamento statunitense, i messicani, durante la notte, non avevano
cessato di colpire.233 Oltre al fuoco di risposta dei marines, alle prime ore del mattino, si
aggiunse quello dei cannoni del Praire, che fu concentrato soprattutto nelle zone da cui
proveniva la maggiore opposizione messicana. All’interdizione del Praire, si aggiunse
quella dell’incrociatore San Francisco,234 che, dopo essersi ancorato nella baia, cominciò a sbarcare un nutrito numero di uomini destinati a incrementare le unità combattenti.
Il fatto che i militari e i civili messicani agissero in modo quasi del tutto autonomo e
disorganizzato – per la mancanza di un coordinamento generale – non costituì un vantaggio strategico per i marines. Al contrario, essi continuarono a subire il fuoco dei cecchini e delle mitragliatrici provenienti dai piani superiori delle abitazioni e dai campanili e furono costretti ad
«avanzare attraverso gli isolati, casa per casa, aprendosi la strada attraverso i muri diroccati e bonificando ogni edificio prima di accedere a
235
quello successivo».
230
Ibid.
Ibid.
232
Cit. in KATZ, The Secret War in Mexico, cit., p. 235.
233
Cfr. Consul Canada to the Secretary of State, April 22, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 480.
234
Cfr. ibid., p. 481.
235
QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 100.
231
130
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
Per consentire un più veloce avanzamento all’interno della città, dal New Hampshire,
South Carolina e Vermont fu fatto sbarcare il II reggimento di seamen che, avanzando
dal lungomare, avrebbe dovuto proteggere il fianco sinistro dello schieramento dei marines.236 La scarsa copertura cui erano soggetti, li fece diventare dei
«bersagli invitanti. Immediatamente, dalle finestre dell’edificio scolastico, arrivò il crepitio di una mitragliatrice, a cui seguirono molti altri e
237
un certo numero di bluejackets cadde morto o ferito».
La carneficina fu evitata solo per l’intervento del capitano Edwin Anderson, che, dal
New Hampshire, segnalò l’accaduto e consentì al Praire, al San Francisco e al Chester
di scaricare sulla scuola tutta la potenza dei propri cannoni, riducendola in macerie in
pochi minuti.238 Ciò permise alle truppe statunitensi di completare l’occupazione della
città e ai marines di eliminare definitivamente le ultime sacche di resistenza, stanando e
disarmando i cecchini da ogni edificio e aprendo la strada allo sbarco di un alto numero
di bluejackets. Sino a tarda serata, oltre 600 uomini, su ordine di Fletcher, entrarono a
Veracruz e procedettero alla totale bonifica della città.239 I militari provvidero anche a
una prima, sommaria messa in stato di sicurezza igienico-sanitaria della città: nelle
piazze furono ammonticchiati oltre 200 cadaveri di civili e di militari messicani, tra cui
donne e bambini.240 I corpi dei 19 caduti statunitensi, invece, furono trasportati sulle
navi ancorate nella baia della città, insieme ai 47 feriti.241 Di tali operazioni si fece carico anche il console Canada, che, dopo la fine delle ostilità, fece ratificare dall’Alcalde
Díaz il proclama con il quale Fletcher ordinava l’occupazione militare di Veracruz e la
sua temporanea amministrazione da parte statunitense.242
Nelle prime ore del 22 aprile, mentre i marines erano impegnati a combattere per
l’occupazione di Veracruz, il dipartimento di stato dovette fronteggiare una schermaglia
di natura diplomatica. L’ambasciatore tedesco a Washington, conte Johann Heinrich
236
Cfr. Consul Canada to the Secretary of State, April 22, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 481.
QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 101.
238
Cfr. Consul Canada to the Secretary of State, April 22, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 481.
239
Cfr. Telegram from American Consulate in Veracruz, April 22, 1914, ibid., p. 481.
240
Cfr. ibid.
241
Cfr. ibid.
242
Cfr. Admiral’s Fletcher Proclamation, April 22, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 481.
237
131
Lucio Tondo
von Bernstorff,
«un diplomatico della vecchia scuola e un raffinato cosmopolita con un
considerevole range d’esperienza diplomatica […] che apparteneva decisamente all’ala filo-occidentale dei diplomatici nel ministero degli e243
steri tedesco»,
dopo averne ricevuto mandato direttamente dal kaiser il giorno precedente, si recò
nell’ufficio di Bryan e elevò una protesta ufficiale del Reich contro la temporanea detenzione dell’Ypiranga da parte della marina statunitense. Von Bernstorff, legato al segretario di stato anche da amicizia personale,244 dichiarò che l’azione statunitense era da
considerarsi una «violazione del diritto internazionale, dal momento che gli Stati Uniti e
il Messico non erano in stato di guerra e non era stato imposto alcun embargo».245 Dopo
aver congedato il diplomatico tedesco, Bryan si recò alla Casa Bianca ed espose a un
Wilson quasi incredulo246 le ragioni addotte da von Bernstorff. Il presidente incaricò
Robert Lansing, vice segretario di stato e consigliere giuridico dello State Department,
di verificare se l’Auswärtigen Amtes avesse dalla propria parte le norme del diritto internazionale.247 Quando, dopo poche ore, Lansing confermò l’esattezza delle posizioni
tedesche a un Wilson ormai furioso,248 Bryan fu costretto a riconvocare von Bernstroff
nel proprio ufficio. Alla presenza del Reichsdiplomat, Bryan scrisse di suo pugno un
memorandum con il quale, di fatto, gli Stati Uniti inoltravano al Kaiserreich le proprie
scuse ufficiali. Per evitare l’apertura di una crisi diplomatica formale, il segretario di
stato addossò a un misunderstanding l’aver impedito all’Ypiranga di attraccare a Vera243
R. DOERRIS, Imperial Berlin and Washington: New Lights on Genrmany’s Foreign Policy and America’s Entry into World War I, in «Central European History», XI, 1, March 1978, p. 27.
244
Cfr. ibid. Von Bernstorff, pur essendo legato per ragioni familiari e culturali alla dinastia degli Hohenzollern e alla tradizione militare prussiana, essendo nato a Londra e avendo sposato una cittadina americana, non aveva mai fatto mistero di nutrire delle simpatie liberali. Cfr. ibid. Sulla vita e l’azione diplomatica di von Bernstorff negli Stati Uniti, si veda R. DOERRIS, Washington-Berlin, 1908-1917, Die Tätigkeit des Botschafters Johann Heinrich von Bernstorff in Washington, Düsseldorf, Pädagogischer Verlag
Schwann, 1975.
245
Cfr. Der Staatssekretär des Auswärtigen Amtes von Jagow an Kaiser Wilhelm II., z.Z. in Korfu, 25.
April 1914, in Die Diplomatischen Akten des Auswärtigen Amtes, 1871-1914 – Herausgegeben im
Auftrage des Auswärtigen Amtes – (d’ora in poi, DAAA), 39. Band, Das Nahen des Weltkrieges, 19121914 (d’ora in poi, DNW), Berlin, Deutsche Verlagsgesellschaft für Politik und Geschichte, 1926, p. 99.
246
Cfr. J. DANIELS, The Wilson Era: Years of Peace 1910-1917, Chapel Hill, N.C., University of North
Carolina Press, 1944, p. 199.
247
Cfr. ibid., p. 200.
248
Cfr. ibid., p. 201.
132
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
cruz e aggiunse che «l’ammiraglio Fletcher è stato autorizzato a convocare il capitano
della nave e a presentare le proprie scuse e spiegazioni».249 Ma, al di là delle mere formalità, Bryan cercò di ottenere un risultato positivo dalla situazione che si era determinata. Chiese al Reich, tramite von Bernstorff, l’assicurazione che le armi dell’Ypiranga
non fossero consegnate a Huerta, dichiarando la disponibilità degli Stati Uniti a non estendere su di esse un controllo diretto:
«Da un lato, gli Stati Uniti sperano che le munizioni destinate al generale Huerta siano sbarcate alla dogana di Veracruz, dopo che questa è passata sotto il controllo del governo statunitense; dall’altro, questo governo assicura che non si arrogherà il diritto – poiché non esiste uno stato
di guerra – d’interferire con la partenza della nave o di esercitare un
controllo sulle suddette munizioni sino a quando esse saranno custodite
250
presso la dogana controllata dagli Stati Uniti».
La posizione espressa da Bryan, di fatto, riusciva quasi a ribaltare una capitolazione
e un’umiliazione degli Stati Uniti, che sembravano inevitabili. Evitando una forzatura
diplomatica che poteva condurre a uno scontro militare, lo State Department conseguiva
il risultato di contenere la propensione del Reich a rifornire militarmente Huerta, non
permettendogli di rafforzarsi contro i costituzionalisti. Alcuni giorni dopo la nota di
scuse formali dell’amministrazione Wilson, i funzionari dell’Auswärtigen Amtes si resero conto della manovra diplomatica statunitense e furono costretti ad ammettere che,
«dal punto di vista del diritto internazionale, la posizione americana è
inattaccabile e ogni ulteriore protesta tedesca sarebbe del tutto ingiusti251
ficata».
Il 23 aprile, Bryan si recò personalmente presso l’ambasciata tedesca per richiedere a
von Bernstorff l’assicurazione formale che l’Ypiranga non avrebbe consegnato il carico
d’armi nelle mani di Huerta.252 Non appena von Bernstorff inoltrò a Berlino la richiesta
ufficiale dello State Department, il primo ministro prussiano – ex cancelliere –,
249
Botschafter Johann Heinrich von Bernstorff dem Auswärtigen Amtes, 22. April 1914, in DAAA, DNW,
p. 102.
250
Ibid.
251
Cit. in KATZ, The Secret War in Mexico, cit., p. 236.
252
Cfr. Botschafter Johann Heinrich von Bernstorff dem Auswärtigen Amtes, 23. April 1914, in DAAA,
DNW, p. 109.
133
Lucio Tondo
Bernhard von Bülow, incontrò Albert Ballin, il direttore generale della compagnia
navale Hamburg-Amerika.253 Lo statista, autorizzato dal Reichskanzler, Theobald von
Bethmann-Hollweg, espose a Ballin le preoccupazioni circa il rischio concreto di uno
scontro militare con gli Stati Uniti qualora la compagnia avesse voluto onorare in toto
gli impegni assunti con Huerta. Di fronte alla pressione politica proveniente dai vertici
istituzionali, Ballin sostenne che, per evitare una recrudescenza dei rapporti con gli Stati
Uniti, «la sua compagnia era disposta a far in modo che il carico [dell’Ypiranga]
costituito da armi e munizioni, da Veracruz ritorn[asse] in Germania».254 Con la tacita
assicurazione della compagnia navale, von Bethmann-Hollweg autorizzò l’Auswärtigen
Amtes a trasmettere al dipartimento di stato la volontà tedesca di non consegnare a
Huerta il materiale bellico.255 Von Bernstorff fece giungere la decisione della
cancelleria a Bonath tramite von Hintze e il comandante si mosse immediatamente dalla
baia verso il porto di Veracruz per sbarcare tutta la merce stivata di natura non militare
e per caricare a bordo tutti i sudditi tedeschi che intendevano abbandonare la città.256 Da
Veracruz l’Ypiranga fece rotta verso Tampico, ma qui fu letteralmente costretta dai
cittadini americani a lasciare il molo, perché preoccupati che un assalto delle fazioni
messicane per entrare in possesso delle armi conservate nella sua stiva potesse riportare
il caos nella città. L’Ypiranga fece ritorno a Veracruz e lì stazionò, sotto il controllo
diretto della Dresden, sino a fine maggio, quando, su pressione di Martin Schröder,
inviato in Messico dalla sede centrale della compagnia marittima, salpò alla volta di
Puerto México, a circa 200 miglia a sud, dove scaricò le armi e le consegnò a Huerta. Il
fatto, nonostante determinasse una protesta formale di un Josephus Daniels adirato,257
253
Cfr. Preußischer Kanzker Bernhard von Bülow dem Reichskanzler Theobald von Bethmann-Hollweg
23. April, 1914, in DAAA, DNW, pp. 112-113.
254
Ibid., p. 113.
255
Cfr. Botschafter Johann Heinrich von Bernstorff dem Auswärtigen Amtes, 25. April 1914, in DAAA,
DNW, p. 118.
256
Cfr. MEYER, The Arms of the Ypiranga, cit., p. 553.
257
Nelle sue memorie, Daniels descrisse la consegna delle armi a Huerta, mettendo in evidenza la sua
discordanza con l’atteggiamento piuttosto cauto mantenuto dal dipartimento di stato. Egli sostenne che
era stato «assalito da un senso di frustrazione e d’indignazione quando avevo saputo che […] le armi e le
munizioni, negli ultimi giorni di maggio, erano state scaricate a Puerto México e, presumibilmente, erano
state consegnate alle forze di Huerta. Per la marina fu come ricevere una botta in testa. Quando avevamo
conquistato la dogana [di Veracruz], il nostro scopo principale era stato quello di prevenire che le armi
fossero rese disponibili all’impresentabile Huerta. […] Naturalmente, in tutte le questioni concernenti la
diplomazia e il diritto internazionale, lo State Department era supremo. Io ero del tutto impotente». DA-
134
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
destò preoccupazione anche a Berlino. Paul von Hintze, che non poteva essere accusato
di filo-americanismo, inoltrò all’Auswärtigen Amtes un memorandum che esternava
tutta la propria preoccupazione circa il possibile inasprimento dei rapporti con gli Stati
Uniti:
«I nostri rivali in Messico non esiteranno a descrivere la consegna delle
armi e delle munizioni come la violazione di un accordo assunto
precedentemente e Washington ne approfitterà per descriverci come
258
“ambigui” e “ipocriti”».
Le stesse parole di von Hintze, di fatto, dimostravano che, nonostante Huerta avesse
ricevuto il carico d’armi, l’amministrazione Wilson era riuscita a ridimensionare
notevolmente la capacità politico-militare del Kaiserreich d’influenzare le dinamiche
interne della politica messicana e di mettere in discussione il primato americano
nell’emisfero meridionale.
L’interdizione statunitense all’attracco dell’Ypiranga a Veracruz e la crisi politicodiplomatica sfiorata con il Reich guglielmino erano state affrontate da Wilson con la
certezza che ciò avrebbe fornito un supporto concreto alle forze costituzionaliste di Carranza. Al contrario, già il 21 aprile, mentre i marines erano impegnati a combattere a
Veracruz, dalle forze componenti lo schieramento anti-huertista si levarono delle proteste veementi contro l’azione degli Stati Uniti, e alcune città – che, nelle intenzioni
dell’amministrazione Wilson, avrebbero dovuto ribellarsi a Huerta – si sollevarono apertamente contro le istituzioni americane. Fomentati dalla propaganda dei giornali filohuertisti,259 il 21 aprile, alcuni gruppi cominciarono a marciare per le strade di Città del
Messico, preceduti da alcuni scolari che inneggiavano alla morte dei “Gringos” e, in
una piazza del centro cittadino, abbatterono la statua dedicata di George Washington
sostituendola con un piccolo busto raffigurante frate Miguel Hidalgo, un eroe nazionaNIELS,
The Wilson Era, cit., pp. 200-201.
Konsul Paul von Hintze dem Reichskanzler Theobald von Bethmann-Hollweg, 3. Juni 1914, in DAAA,
DNW, pp. 143-144.
259
Il 21 aprile, il quotidiano di Città del Messico «El Imparcial», scrisse che «il suolo della patria è contaminato dall’invasione straniera! Potremmo morire, ma dobbiamo ucciderli tutti». Cit. in QUIRK, An
Affair of Honor, cit., p. 107. Il titolo in prima pagina di un altro giornale, l’«El Indipendiente», recitava:
«Mentre i messicani erano massacrati dai porci gringos, le campane suonavano per la loro gloria» (ibid.)
e «La Patria» scriveva un laconico «Vendetta! Vendetta! Vendetta». Ibid.
258
135
Lucio Tondo
le.260 La folla si spostò, poi, presso una sede consolare statunitense, dove, dopo esser
penetrata all’interno, riuscì a impadronirsi di alcuni fucili. Un altro gruppo di facinorosi
prese d’assalto l’American Club, l’American Photo Supply Company e il Porter Hotel,
la cui Tea Room era un tradizionale luogo di ritrovo dei cittadini statunitensi.261 Preoccupato per la loro l’incolumità, O’Shaughnessy distribuì ai connazionali delle armi per
permettere loro di difendersi dagli attacchi personali, anche se il governatore del distretto federale, Eduardo Inturbide, ne scongiurò l’eventualità, ponendoli sotto la protezione
delle sue truppe.262
Manifestazioni anti-americane si verificarono anche in altre aree del paese poste sotto il diretto controllo di Huerta. A Progreso e a Mazatlán, le residenze di alcuni cittadini
statunitensi furono attaccate e, in seguito, la folla si spostò presso la sede del consolato
americano, dove fu dispersa dalla polizia locale.263 A Tampico, la situazione fu più
complicata a causa della precedente crisi e della presenza tangibile della forza militare
degli Stati Uniti. All’imbocco del fiume Pánuco stazionavano ancora alcune delle navi
da guerra impiegate durante l’incidente precedente e i locali paventavano che da esse
potessero sbarcare i marines per procedere all’occupazione della città dopo la presa di
Veracruz. Il pomeriggio del 21 aprile, il governatore della città, Morelos Zaragoza,
pubblicò un proclama, in cui invitava i suoi cittadini a opporsi con la forza a ogni tentativo d’occupazione.264 Nell’arco di pochi minuti, una folla inferocita si assemblò sulla
piazza principale dove fu arringata da oratori che incitavano alla violenza e da lì raggiunse lo Stamborn’s Restaurant, concentrandosi presso il consolato americano dove,
tra urla e tentativi d’assalto, stazionò tutta la notte.265 Il mattino successivo, il governo
di Huerta convocò O’Shaughnessy e, dopo averlo dichiarato persona non grata, gli intimò di lasciare il paese entro il 24 aprile, rompendo ogni tipo di relazione diplomatica
con gli Stati Uniti.266
A causa della partenza di O’Shaughnessy, che, ad eccezione d’una missione in Au260
Cfr. ibid., p. 108.
Cfr. ibid., p. 109.
262
Cfr. Chargé O’Shaughmessy to the Secretary of State, April 22, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 484.
263
Cfr. QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 109.
264
Cfr. ibid., p. 110.
265
Cfr. Chargé O’Shaughmessy to the Secretary of State, April 22, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 484.
266
Cfr. ibid.
261
136
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
stria, non ricevette nessun altro incarico di rilievo, Wilson, dopo aver affidato le cure
degli affari diplomatici al ministro brasiliano Cardoso de Oliveira,267 per comunicare
con Carranza e i costituzionalisti si affidò agli uffici dello Special Agent del dipartimento di stato in Messico, George Carothers. Wilson, già il 21 aprile, aveva chiesto
d’incontrare Carranza «per fargli conoscere le reali intenzioni del presidente» e per evidenziare come lo sbarco delle truppe a Veracruz fosse stato effettuato solo «per costringere [Huerta] a una particolare riparazione».268 Wilson, continuava Carothers, «era
sempre stato attento a distinguere tra il generale Huerta e i suoi supporters da un lato, e
il resto del popolo messicano, dall’altro»269 e sperava «che il popolo messicano e i costituzionalisti non interpretassero male le sue azioni».270 Per tutta risposta, Carranza replicò con una lettera in cui, dopo aver elencato minuziosamente tutti i misfatti
«dell’usurpatore Huerta»,271 asseriva che essi non sarebbero «mai stati sufficienti per
trascinare la nazione messicana in una guerra contro gli Stati Uniti».272 Ma, piuttosto
che accettare una tacita alleanza con gli Stati Uniti, che, agli occhi dei messicani, avrebbe reso lui e la sua fazione politica connivente con “degli occupanti”,273 denunciò che
«l’invasione del nostro territorio e la permanenza delle vostre forze nel
porto di Vera Cruz [sic], sono una violazione dei diritti che rendono
possibile la nostra esistenza come un’entità libera e con una sovranità
274
indipendente».
Proprio per tale ragione, Carranza, dichiarandosi
«interprete del sentimento della maggioranza del popolo messicano, così geloso dei propri diritti e rispettoso dei diritti dei popoli stranieri, invit[ava gli statunitensi] a sospendere ogni azione ostile già intrapresa e
abbandonare e ordinare alle vostre forze di evacuare tutti i luoghi occu275
pati nel porto di Vera Cruz [sic]».
267
Cfr. ibid., p. 485.
The Secretary of State to Special Agent Carothers, April 21, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 484.
269
Ibid.
270
Ibid.
271
Special Agent Carothers to the Secretary of State, April 22, 1914, ibid., p. 484.
272
Ibid., p. 485.
273
Ibid.
274
Ibid.
275
Ibid.
268
137
Lucio Tondo
Al contrario di quello manifestato da Carranza, l’atteggiamento di Francisco (Pancho) Villa nei confronti dell’amministrazione Wilson fu più conciliante. Ciò era dovuto
essenzialmente al fatto che Villa contendeva apertamente la leadership politica del fronte anti-huertista a Carranza, al fine di imprimere una svolta più radicale alla lotta di liberazione dal dittatore. A ciò si doveva aggiungere un aspetto prettamente strategicomilitare: la presenza delle truppe statunitensi a Veracruz e a Tampico avrebbe costretto
Huerta a stornare gran parte delle proprie truppe contro gli americani, favorendo
l’avanzata di Villa e Zapata. Il 23 aprile, Villa incontrò Carothers e, utilizzando un linguaggio alquanto colorito, dichiarò d’essere
«uno dei nostri migliori amici e che ci considera tra i suoi migliori amici perché ci stiamo impegnando in una guerra che non desiderava276
mo».
Aggiunse in seguito che,
«per quanto la cosa lo potesse preoccupare, egli desidera[va] che
prend[essimo] Veracruz e la ten[essimo] in modo così ferreo da non
277
permettere mai a Huerta di poterla raggiungere».
Carothers si disse fiducioso del fatto che gli Stati Uniti avrebbero potuto utilizzare
Villa come elemento utile a scardinare l’atteggiamento di chiusura di Carranza: «La mia
impressione è che egli sia sincero e che forzerà Carranza a accettare la nostra amicizia».278 Una speranza fatta propria anche da Bryan, che autorizzò Carothers a continuare
a mantenere i contatti con Villa, al fine di evitare che l’opinione pubblica statunitense –
di cui il partito repubblicano si fece portavoce – accusasse Wilson di aver sacrificato
invano le vite dei soldati:
«L’opinione pubblica statunitense è stata profondamente disturbata
dall’atteggiamento dimostrato dal generale Carranza e ha manifestato
279
un profondo risentimento nei suoi riguardi».
276
Special Agent Carothers to the Secretary of State, April 23, 1914, ibid., p. 485.
Ibid.
278
Ibid.
279
The Secretary of State to Special Agent Carothers, April 24, 1914, ibid., p. 487.
277
138
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
Conclusioni
Il rifiuto di Carranza del concreto aiuto politico-militare offerto dagli Stati Uniti rischiò
di vanificare le ragioni stesse che avevano mosso Wilson a sostenere la causa della
compagine anti-huertista, a ritirare l’embargo delle armi, a occupare Veracruz e a sfiorare la crisi con il Reich. Per ottenere un minimo risultato politico-diplomatico
dall’impegno profuso, Wilson acconsentì all’offerta di mediazione tra le parti, proveniente da Argentina, Brasile e Cile.280 Carranza accettò l’invito con una certa riluttanza
e solo in via di principio, rifiutandosi d’inviare dei propri delegati alla conferenza, per
ergersi a difensore dell’indipendenza e dell’autonomia decisionale messicana. Ciò soprattutto per evitare che, di fronte ai propri connazionali, Huerta potesse interpretare il
ruolo di unico resistente all’invasione dei gringos e per riaffermare la sovranità messicana contro qualunque ingerenza straniera negli affari interni.281 Huerta, al contrario,
decise di prendere parte alla conferenza, convinto che ciò, oltre a condurre a un accordo
con i suoi oppositori – che si sarebbe potuto tradurre in una tregua e in un congelamento
delle rispettive posizioni raggiunte sul campo –, avrebbe consentito di normalizzare i
rapporti con gli Stati Uniti.282 Proprio per evitare il verificarsi di una tale eventualità,
Wilson, dopo aver fornito il placet statunitense all’iniziativa dei paesi latino-americani,
rimase fermo nel proposito di evitare che gli Stati Uniti vi svolgessero un ruolo attivo.
La conferenza, come dichiarò a una press conference, avrebbe dovuto limitarsi «alla
discussione della situazione interna messicana, per tentare di rinvenire un regime in
grado di soddisfare tutte le fazioni messicane».283
La conferenza avviò i suoi lavori il 21 maggio presso la Niagara Falls’ Clifton
House, sul lato canadese delle cascate, e gli Stati Uniti inviarono dei delegati che vi presero parte in qualità di meri osservatori, e non come parti in causa.284 I mediatori argentini, brasiliani e cileni cercarono per oltre un mese di riuscire a ottenere una formula capace di soddisfare Huerta, i costituzionalisti di Carranza e gli Stati Uniti. Il dittatore si
rifiutò di riconoscere come presidente della riunione un “rivoluzionario” e i costituzio280
Cfr. Minister Fletcher to the Secretary of State, April 24, 1914, ibid., p. 487.
Cfr. Special Agent Carothers to the Secretary of State, April 25, 1914, ibid., p. 488.
282
Cfr. Chargé Lorillard to the the Secretary of State, April 27, 1914, ibid., p. 491.
283
Cit. in QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 118.
284
Cfr. The Special Commissioners to the Secretary of State, May 21, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 503.
281
139
Lucio Tondo
nalisti esclusero aprioristicamente anche solo di ascoltare le richieste provenienti dai
delegati di Huerta.285 Con tali premesse, la conferenza nasceva già con un handicap originario e i lavori proseguirono a rilento sino a fine giugno, quando si arenarono definitivamente di fronte all’impasse rappresentata dal perdurare delle posizioni raggiunte sul
campo da ognuna delle parti. I marines occupavano ancora Veracruz e Wilson non avrebbe ordinato l’evacuazione della città almeno sino a quando Huerta avesse detenuto
il potere. Da parte sua, il dittatore intendeva resistere a oltranza all’avanzare delle armate di Carranza verso Città del Messico. La soluzione arrivò quando le truppe di Pancho
Villa, Alvaro Obregón e Pablo Gonzáles, dopo aver sconfitto in più riprese le truppe di
Huerta, obbligarono il dittatore, posto sotto la diretta protezione del Kaiser, a scappare
in Giamaica a bordo dell’incrociatore Dresden.286
Al di là dell’atteggiamento tenuto successivamente dall’amministrazione Wilson nei
riguardi dei vincitori di Huerta e dell’involuzione della dinamica politica messicana, il
primo approccio diplomatico nei confronti di un paese su cui gli Stati Uniti avevano esteso le prerogative garantite dalla “dottrina Monroe” mise in evidenza alcuni aspetti
peculiari della politica estera statunitense non solo nei confronti del Messico, ma soprattutto delle potenze europee. Inoltre, ciò testimoniava direttamente che, come ha osservato Thomas J. Knock, «con la possibile eccezione di Franklin D. Roosevelt, nessun altro
presidente ha esercitato un maggior controllo personale sulla politica estera».287 Una
tendenza questa che, nonostante appena insediatosi, avesse dichiarato a un amico di
Princeton che «sarebbe ironico se fossi costretto a confrontarmi con questioni di politica
estera»,288 egli evidenziò immediatamente già all’avvio della crisi politico-diplomatica
che si stava conclamando tra gli Stati Uniti e il Messico. Una conferma diretta a tale
modus operandi, in effetti, era già scritta in nuce nella stessa scelta del segretario di stato della sua prima amministrazione. William Jennings Bryan
«era stato impegnato in politica lungo tutta la sua vita adulta […], ma le
sue qualità amministrative erano minime e la sua conoscenza degli affari pubblici era ristretta e parrocchiale, esattamente come il suo orizzonte
289
scientifico».
Proprio per tale ragione e, anche per bypassare un’impostazione ideologica di piena a285
Cfr. The Special Commissioners to the Secretary of State, May 22, 1914, ibid., pp. 504-505.
Cfr. KATZ, The Secret War in Mexico, cit., pp. 247-249.
287
KNOCK, To End All Wars, cit., p. 20.
288
BAKER, Woodrow Wilson, cit., vol. IV, p. 55.
289
QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 31. Sulla vita e l’azione politica di William Jennings Bryan, si
vedano, tra gli altri, G.N. MAGLIOCCA, The Tragedy of William Jennings Bryan: Constitutional Law and
the Politics of Backlash, New Haven, CT, Yale University Press, 2011; M. KAZIN, A Godly Hero: The
Life of William Jennings Bryan, Norwell, MA, Anchor Press, 2007; R.W. CHERNY, A Righteous Cause:
The Life of William Jennings Bryan, Norman, OK, University of Oklahoma Press, 1994.
286
140
Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz
desione al pacifismo più radicale (che si evidenzierà a partire dallo scoppio delle ostilità
in Europa), Bryan, nel 1915, fu allontanato dal suo incarico.290 Tale approccio, che con
gli anni divenne sempre più personalistico, lasciava presupporre la volontà di non tenere
in considerazione alcun elemento tecnico-burocratico che potesse frapporsi al delineamento e alla gestione della politica estera. Nel caso politico-diplomatico che si aprì con
l’affaire Tampico, il cui culmine si raggiunse con la crisi di Veracruz, ciò si tradusse in
una scarsa disponibilità a prestare ascolto alle notizie e alle impressioni provenienti dai
canali diplomatici ufficiali, ritenuti o collusi con gli antagonisti messicani e tedeschi, o
tendenti all’assunzione d’iniziative diplomatiche aderenti alle linee guida della Old Diplomacy. Wilson preferì affidarsi, al contrario, al parere e alle percezioni dei propri consiglieri personali, che, secondo la sua analisi, potevano garantire un’adesione quasi acritica all’impianto ideologico della New Diplomacy che si era già chiaramente delineato
all’indomani del proprio insediamento alla Casa Bianca.
In riferimento ai paesi vicini, già nel 1913, Wilson aveva palesato chiaramente come
la politica statunitense avrebbe dovuto assumere i contorni di una missione di civiltà
democratica. Il 4 marzo 1913, nell’assise del senato, egli sostenne poco velatamente che
i paesi latino-americani avrebbero dovuto organizzarsi sugli stessi princìpi democratici
degli Stati Uniti:
«Uno dei principali obiettivi della mia amministrazione sarà di coltivare
l’amicizia e di meritare la fiducia delle repubbliche nostre sorelle del
Centro e Sud America. […] Riteniamo […] che il giusto governo si basi
sempre sul consenso dei governati, che non esista la libertà senza
l’ordine fondato sulla legge e sulla pubblica approvazione. Renderemo
questi princìpi la base di un mutuo rapporto, rispetto e disponibilità tra
291
di noi e le nostre repubbliche sorelle».
Di fatto, Wilson aveva enunciato una presa di posizione netta, un assunto ideale e politico, il cui corollario che ne discendeva fu reso noto senza mezzi termini nel novembre
dello stesso anno, quando il presidente dichiarò a William Tyrell, ambasciatore britan-
290
Sulla politica estera di Bryan e sui successivi dissidi con Wilson si vedano, tra gli altri, P.E. COLETTA,
William Jennings Bryan: Political Evangelist, 1860-1908, Lincoln, NE, University of Nebraska Press,
1964; ID., William Jennings Bryan: Progressive Politician and Moral Statesman, 1909-1915¸ Lincoln,
NE, University of Nebraska Press, 1969; W.H. SMITH, The Social and Religious Thought of William
Jennings Bryan, Lawrence, KS, Coronado Press, 1975.
291
Statement on Relations with Latin America, March 4, 1913, in PWW, vol. 27, cit., p. 172.
141
Lucio Tondo
nico a Washington: «Sto andando a insegnare alle repubbliche sudamericane a eleggere
degli uomini degni».292
Letta in una tale ottica, la crisi politico-diplomatica e la seguente occupazione militare di Veracruz, nella primavera del 1914, è rappresentativa tanto della gestione dei rapporti politico-diplomatici statunitensi a carattere regionale, quanto di quelli a livello internazionale. Per Wilson, l’invio dei marines a Veracruz, infatti, non rappresentò solo
l’evoluzione della propria Weltanschauung, maturata nell’esperienza accademica, e
l’affermazione del posto che nel mondo doveva spettare agli Stati Uniti come latori della democrazia e della libertà. Essa costituì il momento in cui l’approccio idealistico della New Diplomacy – innestata sul realismo della difesa della “dottrina Monroe” – si
contrappose, in anticipo di pochi anni, seppur ancora solo a livello diplomatico, alla
Weltpolitik tedesca. Pochi mesi prima di scatenare la guerra in Europa, il Kaiserreich
aveva manifestato tutta la propria lontananza dai princìpi liberal-democratici, fornendo
un riconoscimento de jure al governo dittatoriale e sanguinario di Victoriano Huerta,
giunto al potere con un golpe dopo l’omicidio di Francisco Madero, presidente eletto
con libere elezioni. Tale commistione di eventi politico-diplomatici condusse Wilson ad
assumere un atteggiamento fermo, che, come ha sottolineato Alvin Josephy, permise
all’«idealismo di Wilson di acquisire il carattere di un auto-giustizialismo rigido, da
crociata, evidente, per paradosso, nelle prepotenti interferenze imperialistiche negli affari degli altri paesi».293 “Interferenze imperialistiche” che, pur traducendosi in aperti
interventi militari, traevano origine da un profondo senso idealistico, che poneva
l’impianto democratico statunitense come termine di paragone istituzionale con cui misurare l’avanzamento sociale, culturale e politico dell’emisfero meridionale.
292
Cit. in A.S. LINK, Woodrow Wilson and the Progressive Era, 1910-1917, New York, Harper &
Brothers,1954, pp. 190-191.
293
A.M. JOSEPHY, JR., The American Heritage: History of the Congress of the United States, New York,
American Heritage Publishing Co., Inc., 1975, p. 323.
142
Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali
Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 143-156
e-ISSN 2280-8949
DOI 10.1285/i22808949a3n1p143
http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento
IDA LIBERA VALICENTI
Un episodio poco conosciuto degli anni della seconda guerra mondiale:
l’eccidio dei pugliesi di Crimea (1942-1945)
Abstract: In the mid-nineteenth century, a community of sailors and farmers of Puglia emigrated to the
shores of the Black Sea. They settled on the Strait of Kerch, a crucial trading node between the Russian
Empire and the Mediterranean. The history of this small community is intertwined with Soviet Communism. Many of the Apulian immigrants were accused of collaboration with Fascism and they were arrested, tortured and deported to the gulag in Siberia. Most of them died because of hunger and hardship
cold. The survivors, after twenty-five years since the collapse of Soviet Communism, have not recognized
by the competent authorities for what they have suffered. They have experienced a terrible deportation
but no one knows.
Keywords: Deportation; Minorities; Crimea.
1. La minoranza italiana in Crimea: il contesto storico
Al termine di lunghe guerre con l’impero ottomano e i suoi vassalli, i Khan di Crimea,
nel 1787 la Russia conquistò il canato di Crimea e il litorale settentrionale del Mar Nero.1 Essa consolidava così il suo avvicinamento al mare e la sua apertura verso occidente. La Nuova Russia, proiettata verso il Mediterraneo,2 fu rapidamente popolata da flussi
migratori provenienti da paesi diversi – Serbia, Germania, Polonia, Bulgaria, Grecia,
Armenia, Romania, Italia3 – attratti dagli ingenti benefici promessi dalla zarina Caterina
II. Questi collaborarono allo sviluppo della Nuova Russia, lasciando importanti testimonianze archeologiche e artistiche e contribuendo a costruire quella struttura multietnica e multiculturale che caratterizzò significativamente l’impero russo.4
Si veda, sull’argomento, A.W. FISHER, The Russian Annexion of the Crimea, Cambridge, Cambridge
University Press, 1970.
2
Cfr. L. MASCILLI MIGLIORINI - M. MAFRICI, a cura di, Mediterraneo e/è Mar Nero: due mari tra età
moderna e contemporanea, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2012, pp. 139-162.
3
Cfr. A. MAKOLKIN, One Hundred Years of Italian Culture on the Shores of the Black Sea (1794-1894),
Lewiston-Queenstown-Lampeter, The Edwin Mellen Press, 2000, pp. 27, 29, 42-44, 174-197, 204-216,
220-225.
4
Cfr. A. KAPPELER, La Russia. Storia di un impero multietnico, Roma, Edizioni del Lavoro, 2006, pp.
IX-XXI.
1
Ida Libera Valicenti
Posta sulle sponde del Mar Nero, la Crimea acquisì un significato particolare
all’interno dell’impero,5 una sorta di Costa Azzurra propaggine del Mediterraneo e legame culturale con l’antichità classica. I decenni successivi alla conquista russa furono
di progressivo insediamento di comunità tatare,6 di musulmani di religione sunnita e di
comunità cristiane, tra cui una piccola comunità italiana, di origine pugliese,7 insediamento che determinò un rapido mutamento del quadro etnico-culturale della regione.8
Giacinto Fossati-Reyneri, regio applicato presso il consolato generale di Odessa, redasse, nel dicembre 1876, un importante documento storico sui flussi di migrazione italiana nella Nuova Russia.9 Dal suo memoriale emerge che gli italiani lì residenti erano
numericamente inferiori alle altre comunità – quelle più consistenti, infatti, erano la greca e la tedesca – ma
«gruppo da ogni altro separato e distinto, da meritare di venire segnalato agli studi ed alle considerazioni di quanti prendono a cuore gli in10
teressi degli Italiani fuori patria».
Questa piccola comunità italiana arrivò a Kerch11 tra il 1830 e il 1870, attratta «dalle
promesse di buoni guadagni e dal miraggio di fertili terre quasi vergini»,12 offerte dallo
zar a buon prezzo, per ripopolare e rivitalizzare i nuovi territori conquistati. Nel 1884, il
console di Odessa, Salvatore Castiglia, scriveva così al ministro italiano:
«L’importanza numerica di quella nostra colonia e varie circostanze che
mi accingo ad esporre a V.E. rendono necessario non solamente di porre
un termine all’attuale sistema provvisorio, occasionato dalla vacanza
Si veda, al riguardo, N. ASCHERSON, Mar Nero. Storie e miti del Mediterraneo d’Oriente, Torino, Einaudi, 1999.
6
Sull’argomento, si veda A.W. FISHER, Between Russian, Ottomans and Turks: Crimea and Crimean Tatars, Istanbul, Isis Press, 1998.
7
Cfr. G. GIACCHETTI BOICO - G. VIGNOLI, L’olocausto sconosciuto. Lo sterminio degli italiani di Crimea, Roma, Edizioni il Settimo Sigillo, 2008, p. 7.
8
Cfr. M. KOZELSKY, Christianizing Crimea: Shaping Sacred Space in the Russian Empire and Beyond,
Dekalb, Northern Illinois University Press, 2009, pp. 41-46.
9
Cfr. Immigrazioni, Emigrazioni e Colonie nella Russia Meridionale – Memoria dell’Avv. Giacinto Fossati-Reyneri, R. Applicato al Consolato Generale d’Italia in Odessa, dicembre 1876, in «Bollettino Consolare», XIII, parte I, 1877, Biblioteca Ministero Affari Esteri di Roma.
10
Ibid.
11
La città di Kerch si trova nello stretto di Jeni-Kalé, l’antica Panticapea. Stretto davvero, poco più di
quattro chilometri, dove il Mar Nero si confonde con le acque del Mare di Azov. All’inizio del XIX secolo, la popolazione era al di sotto dei ventimila abitanti, ma si raddoppierà coi flussi migratori di metà Ottocento.
12
G. VIGNOLI, Gli italiani dimenticati, Milano, Giuffré, 2000, p. 318.
5
144
L’eccidio dei pugliesi di Crimea (1942-1945)
del posto di agente, ma mi spingono a sottomettere a V.E. un progetto
atto, a mio avviso, a portare un completo assetto negli affari di
quell’ufficio consolare. La colonia nazionale di Kertch [sic] conta per la
maggior parte di italiani della costa adriatica del regno, dediti al cabotaggio e come padroni e come marinai, supera il migliaio. Composta da
elementi attivi, intraprendenti che, bene consigliati ed indirizzati, potrebbero dare i migliori risultati, lasciati oggigiorno sotto molti rispetti
13
non poco a desiderare».
Essi provenivano soprattutto dalla Puglia: molti agricoltori, frutticoltori, orticoltori,
viticoltori e marinai di Bisceglie, Molfetta, Trani e Bari,
«che l’unica ragione del lucro spinse a espatriare, appartenenti alle ultime classi della gente di mare, senza coltura e con un concetto ben
indefinito dei loro doveri di cittadini, non ebbero e non hanno che un
solo scopo: far denari e partirsene. Mezzo la navigazione di piccolo
cabotaggio che esercitano nel Mare di Azoff [sic] e nei fiumi affluenti, nonché alcuni altri mestieri attinenti al caricamento dei bastimenti
ed allo alleggerimento che si fa dei medesimi nelle acque basse presso
14
Kertch, allorché si accingono a far rotta per Mar Nero».
La comunità pugliese, ben presto, si distinse per le sue abilità, contribuendo al fiorire
dell’agricoltura e del commercio di Kerch con gli altri porti del Mar d’Azov e del Mar
Nero, soprattutto nell’ambito delle esportazioni di carbone e grano del Donec con
l’Italia, creando ditte commerciali che s’imposero, per la loro importanza, in tutta la penisola.15 Tuttavia, mentre i contadini dediti all’agricoltura, alla frutticoltura, orticoltura e
viticoltura poterono mantenere la cittadinanza italiana, gli addetti alla navigazione – marinai dipendenti delle navi russe e proprietari delle imbarcazioni di trasporto delle merci
nei porti del Mar d’Azov e del Mar Nero, da Taganrog a Odessa – dovettero acquisire la
cittadinanza russa:
«Il cabotaggio delle coste dell’impero essendo riservato esclusivamente alla bandiera russa, russi debbono essere i padroni ed i regolamenti
marittimi prescrivono in quale proporzione gli stranieri possono entraCastiglia al Ministro, n. 1065 del 5 luglio 1884, in ARCHIVIO STORICO DEL MINISTERO DEGLI AFFARI
ESTERI (d’ora in poi ASMAE), Archivio Personale (d’ora in poi AP), serie III, Agenzie Consolari Odessa,
Kertch b. 28. Kerch, nei documenti ufficiali, come nella relazione del console Castiglia, risulta “Kertch”.
Qui usiamo la denominazione comune attuale, Kerch, lasciando invariata quella dei documenti citati.
14
Ibid. “Mare di Azoff”, Mare d’Azov, nella denominazione attuale.
15
Cfr. S. GALLON - G. GIACCHETTI BOICO - E. CANETTA - T.M. ALTOMARE - S. MENSURATI, Gli italiani
di Crimea. Nuovi documenti e testimonianze sulla deportazione e lo sterminio, a cura di G. VIGNOLI,
Roma, Edizioni Settimo Sigillo, 2012, pp. 20-21.
13
145
Ida Libera Valicenti
re a far parte dell’equipaggio di un legno della marina mercantile del
paese. Di fronte a queste prescrizioni, la maggior parte dei padroni di
Trani, Bisceglie, venuti a Kertch colle loro paranze, non solo assunsero la nazionalità russa con atto passato nanti le locali autorità nello
scopo di essere abilitati al comando dei legni di cabotaggio, ma previo
un atto di finta vendita del legno di loro proprietà ad un suddito locale,
compiute le formalità di cui all’art. 48 del codice per la marina mercantile, per la dismissione di bandiera, issarono ed issano la russa sui
16
loro legni».
Nel 1930, il parroco di Kerch, padre Emmanuele Maschur, iniziò a rilasciare certificati di battesimo e matrimonio, in modo che le autorità italiane registrassero la cittadinanza degli emigranti pugliesi, allegando ad essi un elenco di cittadini italiani che erano
passati alla cittadinanza russa, per i motivi di cui parla il console, ritendendo necessaria,
per il riconoscimento della cittadinanza italiana di questi ultimi, l’istituzione di un viceconsolato proprio nella città di Kerch.17 Lo stesso Castiglia scriveva nelle sue relazioni
al ministro italiano:
«Il governo russo non avrà di certo lo stesso interesse che noi a sistemare tali irregolarità conciossiaché la Russia, più che di soldati, ha bisogno anzi tutto di acquistare sempre nuovi sudditi per popolare
l’immenso impero e russificare per quanto più è possibile la popola18
zione delle sue città marittime»,
e continuava:
«Da quanto ho avuto l’onore di esporle, l’E.V. può essersi formata un
concetto di ciò che è sotto il rapporto nazionale e morale la nostra colonia di Kertch; ne furono causa la natia ignoranza e degli elementi
marinareschi che la compongono e la mancanza dell’azione viva, vigilante, conservatrice di un ufficiale consolare di carriera. […] Si sop19
prima il R. vice-consolato di Berdiansk e lo si eregga in Kertch».
La necessità di cambiare cittadinanza per lavorare sul mare e l’assenza di una sede
fisica del consolato italiano nella città crearono seri problemi diplomatici con lo Stato
ucraino, nel momento del riconoscimento dello sterminio che i connazionali pugliesi di
Kerch subirono durante le purghe staliniane. Unica istituzione italiana veramente attiva
Castiglia al Ministro, n. 1065 del 5 luglio 1884, cit.
Cfr. S. GALLON, et al., Gli italiani di Crimea, cit., pp. 64-65.
18
Castiglia al Ministro, n. 1084 del 24 settembre 1884, ASMAE, AP, serie III, Agenzie Consolari Odessa,
Kertch b. 28.
19
Castiglia al Ministro, n. 1065 del 5 luglio 1884, cit.
16
17
146
L’eccidio dei pugliesi di Crimea (1942-1945)
nella difesa del diritto di cittadinanza italiana per la comunità pugliese fu la chiesa cattolico-romana, costruita dagli stessi operai italiani nel marzo del 1840: essa costituisce
oggi una fonte storica per il censimento della nostra comunità.20 Inoltre, contribuì fortemente anche alla conservazione delle tradizioni originarie, sia nel campo culinario,
che della lingua,21 attraverso la liturgia della messa e la trasmissione orale di racconti
evangelici, di fiabe e racconti popolari.22
Nel 1920, come conseguenza della rivoluzione bolscevica, i connazionali di Kerch
furono costretti a subire la collettivizzazione forzata delle campagne. Molti emigrati politici antifascisti si rifugiarono nell’URSS, alcuni di loro giunsero a Kerch e qui vennero
in contatto con la comunità pugliese. Nel 1923, le comunità comuniste italiane costituirono un kolchoz23 italiano, chiamato “Sacco e Vanzetti”,24 che fu situato nelle strette vicinanze di Kerch. La piccola comunità pugliese fu requisita ed epurata: alcuni dei suoi
membri fecero rientro in Italia; altri furono privati dei documenti di riconoscimento e
identificati con i libretti di lavoro come trudodni,25 servi della gleba statali, a cui era
vietato di uscire dal kolchoz.26 Nel censimento del 1933, si registrò un calo dello 0,7%
della popolazione italiana a Kerch. Il partito comunista prese il controllo della città e la
20
Secondo documenti forniti dal Comitato statale ucraino per le nazionalità, gli italiani costituivano
l’1,8% della popolazione della provincia di Kerch nel censimento del 1897, il 2% in quello del 1921. Cfr.
GIACCHETTI BOICO - VIGNOLI, L’olocausto sconosciuto, cit., p. 6.
21
La comunità pugliese conservò fortemente le radici dialettali della lingua parlata. Si veda, a tal proposito, il libro del linguista sovietico V.F. SISMAREV, La lingua dei pugliesi di Crimea, Galatina, Congedo,
1978.
22
Cfr. VIGNOLI, Gli italiani dimenticati, cit., cap. 11.
23
In russo, il колхоз era una cooperativa agricola che aveva lo scopo di collettivizzare le terre dei contadini sovietici, nel contesto della statalizzazione dell’economia e dell’annientamento della classe sociale
dei contadini proprietari (kulaki) e dei piccoli imprenditori terrieri che da sempre costituivano ostacolo
alla sovietizzazione della società.
24
La cooperativa agricola fu costituita dal comunista Anselmo Marabini. Il nome commemora i due anarchici italiani giustiziati negli Stati Uniti.
25
Si trattava di categorie sospette, cioè kulaki o minoranze nazionali, obbligati alla schiavitù dalla Tudarmia, denominazione dell’Armata Rossa del Lavoro.
26
In Crimea, le autorità comuniste crearono sedici kolchoz, uno per ogni gruppo di minoranza. Il kolchoz
più grande era quello armeno, immediatamente seguito da quello italiano, il cui patrimonio zootecnico era
costituito da ottanta mucche, duecento pecore e maiali e una decina di cavalli, in ottocentosettanta ettari
di terra. Il kolchoz era specializzato nella lavorazione del grano e nella produzione del vino; era costituito
da più di cento famiglie di origine quasi tutta pugliese ed era gestito dal partito bolscevico di rappresentanza italiana. Cfr. E. DUNDOVICH - F. GORI - E. GUERCETTI, L’emigrazione italiana in URSS: storia di
una repressione, in www.guariwo.net.
147
Ida Libera Valicenti
propaganda marxista portò all’ateizzazione della società, con conseguente chiusura della
chiesa e allontanamento del parroco.27
2. La deportazione in Siberia
La prima guerra mondiale e la rivoluzione bolscevica spezzarono l’incantesimo della
nostra piccola comunità pugliese.28 La Crimea entrò a far parte della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa (RSFSR), conoscendo un momento particolarmente duro
della sua storia durante la seconda guerra mondiale, fatto di violente operazioni belliche
e di deportazioni, che colpirono le popolazioni locali sospettate di collaborare con gli
invasori, tra le quali quella bulgara, greca e anche quella pugliese di Kerch.29 La città fu
occupata dall’esercito tedesco il 16 novembre 1941, ma, dopo sei settimane di occupazione tedesca, i sovietici riuscirono a riconquistarla il 30 dicembre. Tra il 29 e il 30 gennaio, la minoranza italiana, accusata di tradimento, spionaggio e complotto fascista, fu
arrestata, molti furono torturati, alcuni fucilati e altri deportati in Siberia. Di loro non si
saprà più nulla, si dissolveranno nel freddo gelido della Russia asiatica.30 Deportati nei
carri di bestiame, il loro viaggio
«traversò il territorio di sette Stati, ora indipendenti: Ucraina, Russia,
Georgia, Azerbaigian, Turkmenistan, Uzbechistan e Cazachistan. La
deportazione avvenne parte per via mare e parte per via terra: via mare
da Kerc e Novorossijk, sulla sponda orientale del Mar Nero, poi nei vagoni piombati fino a Bachu, quindi fu attraversato il mar Caspio fino a
Krasnovodsk e infine, nuovamente con la ferrovia, sono ad Atbasar in
Cazachistan, dove vennero sistemati parte a Caragandà e parte a Akmolinsk ed altri centri attorno in baracche e locali di fortuna. Là nelle ba27
Come racconta nelle sue memorie lo stesso Paolo Robotti, attivista del PCI e cognato di Palmiro Togliatti, che, negli anni Trenta, entrò in contatto con la comunità pugliese di Kerch. Cfr. P. ROBOTTI, La
prova, Bari, Leonardo Da Vinci, 1965, pp. 47-54.
28
Sulle responsabilità del PCI per i crimini di Stalin contro la minoranza italiana in URSS, si veda D.
CORNELI, Il dramma dell’emigrazione italiana in Unione Sovietica, Tivoli, Tip. Ferrante, 1980, pp. 8992; ID., Elenco delle vittime italiane dello stalinismo (dalla lettera A alla L), Tivoli, Tip. Ferrante, 1981.
Dante Corneli fu uno delle vittime italiane dello stalinismo. Egli rimase 24 anni in Siberia, torturato e costretto ai lavori forzati; rientrato in patria, denunciò gli orrori delle deportazioni e accusò di complicità i
dirigenti del PCI, che collaborarono all’epurazione della minoranza italiana in URSS, compresa quella pugliese di Kerch.
29
Cfr. L.D. ANDERSON, Federal Solution to Ethnic Problems: Accomodating Diversity, New York,
Routledge, 2013, p. 234.
30
Cfr. S. COURTOIS et al., a cura di, Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, Milano,
Mondadori, 1998, p. 93.
148
L’eccidio dei pugliesi di Crimea (1942-1945)
racche furono abbandonati e cercarono erbe e radici commestibili per
nutrirsi, usando i tramezzi e le assi delle baracche come legna da ardere
per non lasciarsi morire dal freddo. Si sa di alcuni che, cercando da
mangiare, si sono smarriti nella steppa e sono morti dal freddo o anche
31
per gli attacchi dei lupi».
Deportati d’inverno, perirono per malattia, fame e freddo,
«i cadaveri vennero abbandonati nelle stazioni dove il convoglio sostava. Il viaggio durò così a lungo perché questi carri non furono che un
terribile carcere con le ruote che lasciava passare tutti gli altri treni,
dunque per la maggior parte del viaggio il treno sostò in mezzo alla
steppa. Solo una volta al giorno era permesso scendere dai vagoni per i
bisogni corporali e il candore delle nevi abbagliava la vista dei deportati
32
abituati a rimanere sempre al buio».
Più di cinquecento italiani di Kerch vennero trasportati in Kazachistan e Uzbechistan:
«Giunti nei luoghi di deportazione, furono sempre sotto la sorveglianza
speciale del NKVD (Commissariato del popolo per gli affari interni) e fu
quasi impossibile eluderla. Fu proibito traslocare senza permesso, anche
cambiare casa nella località, tutto questo sarebbe stato considerato come
un tentativo di evasione punito col gulag. Se qualcuno scompariva nella
steppa e il cadavere non veniva ritrovato, era ricercato come fuggitivo.
Vi furono molti tentativi di fuga falliti, tranne, sembra, uno solo riusci33
to».
Si tratta di una donna italiana, che riuscì a rubare il passaporto di una donna russa morta
e a scampare con i suoi bambini alla tragedia della deportazione. Probabilmente, si tratta
di Paolina Evangelista, di cui riportiamo una testimonianza delle purghe staliniane, nel
paragrafo che segue.
3. Le purghe staliniane: alcune testimonianze dei pugliesi superstiti di Kerch
Riportiamo in questo paragrafo quattro significative testimonianze della deportazione
subita dagli italiani di Crimea negli anni trenta del secolo scorso.
Probabilmente fuggita dal treno che la conduceva in Siberia insieme agli altri connazionali, la testimonianza di Paolina Evangelista:
GIACCHETTI BOICO - VIGNOLI, L’olocausto sconosciuto, cit., p. 13.
Ibid., pp. 11-12.
33
Ibid., p. 12.
31
32
149
Ida Libera Valicenti
«Era il 29 gennaio 1942, ricordo molto bene quel giorno. Venne una
macchina della polizia speciale, dissero che ci davano un’ora e mezza
di tempo e poi ci avrebbero deportati. Potevamo portare con noi solo 8
kg. di roba a testa […]. Il maggiore Khvatov aveva un elenco di italiani, anche di famiglie miste […]. Ci radunarono in vari punti: scuole,
mense. Ci portarono a Novorossijsk, ci fecero il bagno. Poi ci misero
in dieci vagoni bestiame. Su questo treno facemmo un lungo viaggio
che durò due mesi. Morivano i bambini. I miei figli di 2 e 5 anni morirono, come tutti, di tifo petecchiale e di polmonite. Quando arrivammo nel Kazakistan ci dissero: vi hanno mandato qui perché moriate
tutti! Sul nostro documento d’identità c’era scritto “deportato specia34
le”».
Testimonianza di Angelina Cassinelli, originaria di Bisceglie:
«Siamo rimasti nel Cazachistan fino al 1947. Con me c’erano il nonno, Benedetto Salvatore, mia madre e mio fratello. Siamo partiti con
soli 32 chilogrammi di roba. Otto a testa. Ci hanno tolto le nostre case
e non ce le hanno mai restituite. Siamo arrivati in marzo e laggiù nessuno ci attendeva. Tutti ci temevano e ci evitavano come fossimo appestati. Non avevamo vestiti per cambiarci. Il presidente del kolkoz diceva: “Volete pane, andate da Mussolini”. Tutti si ammalarono di tifo
petecchiale e molti morirono. Chi non morì di malattia, morì di fame e
per le offese continue. Una volta finita la guerra, raggiungemmo la città di Akmolinsk. Ma anche lì ci negavano il lavoro. Noi, però, siamo
sempre stati ostinati nel dire che “eravamo e siamo italiani”. A tutti
35
hanno dato medaglie; a noi non hanno dato nulla!».
Testimonianza di Talocka De Lerno, originaria di Trani:
«Talocka, Talusia, Natusia – così mi chiamavano i miei carissimi
mamma Paolina e il babbo Vasily, che amavano infinitamente la loro
figlia. E provvedevano per me soltanto gioia e felicità. E non potevano
immaginare neanche nei sogni terribili quel destino che aspettava la
loro simpatica bambina con un sorriso fiducioso.
Il 22 giugno 1941 finì l’infanzia di questa bambina di due anni e di
tutti i bambini dell’Unione Sovietica: cominciò una guerra, la più
cruenta tra tutti quelli che conosce il genere umano. In agosto gli abitanti di Kerch hanno sentito l’orrore del primo bombardamento forte.
Qualche bomba colpì la nostra casa ad appartamenti, ma nessuno di
noi fu ferito, mentre tutta la famiglia dei nostri vicini perì. Mio nonno
assieme al mio babbo hanno cominciato a costruire un rifugio o, come
lo chiamavano in quei tempi, “trincea” (per fortuna nel cortile trovatosi presso una montagna era possibile farla). La trincea serviva soltanto
34
Testimonianza raccolta da Giulia Boico Giacchetti, nipote di deportati, che da anni lavora per la ricostruzione storica di ciò che accadde ai nostri connazionali di Kerch. Ibid., p. 26.
35
Ibid., p. 25.
150
L’eccidio dei pugliesi di Crimea (1942-1945)
per soprassedere durante il bombardamento e non poteva proteggere
dagli occupanti. Il 16 novembre 1941 le truppe tedesche entrarono
nella città. Dai primi giorni dell’occupazione di Kerch cominciarono
le fucilazioni della popolazione. Con la maggior tenacia cacciarono gli
ebrei, li uccisero e li buttarono nel fosso di Bagherovo. Le pattuglie
tedesche fecero retate, entrarono nelle case, fucilarono in loco gli uni,
arrestarono gli altri. Vennero anche a casa nostra. Vista la trincea, ordinarono tutti ad uscire. C’erano alcuni soldati sovietici, tra quali anche due gravemente feriti, gli spararono subito. Poi rivolgerono
l’attenzione a mia madre che mi stringeva al petto. E con il grido “Jude, Jude!”, ci ebbero trascinate al muro per fucilare. Però, una nostra
vicina di nome Olga, che conosceva un po’ il tedesco, ebbe il coraggio
di gridare: “No, no, è italiana!”. E i tedeschi ci ebbero lasciati. Mio
nonno si gettò in ginocchia, mi abbracciò, mi strinse a sé e con i baci
asciugò le lacrime del piccolo volto spaventato della nipotina. I vicini
piangevano sbalorditi e ammutoliti.
Il 30 dicembre le truppe sovietiche con lo sbarco liberarono Kerch.
Gli abitanti vivi uscirono dai scantinati e trincee e cercarono di togliersi dalla mente gli orrori dell’occupazione. La mamma con il miracolo sfuggita dalla fucilazione finalmente tirò un respiro di sollievo.
Ma all’improvviso la gioia finì terribilmente. Il 29 gennaio 1942 gli
agenti del NKVD bussarono nella porta ed ordinarono la mamma di
prepararsi: “Italiana, sei soggetta di deportazione”. Tutto quello che
successe dopo trasformò in un terribile caleidoscopio. Il porto di Kamish-Burun, un vento penetrante, le onde fredde e nere del mare invernale, e la folla degli italiani non comprendenti perché li fecero salire su questa nave, scendere nella stiva…il pianto di bambini e le preghiere di vecchi, tutto fu mescolato in un orrore comune con
l’incursione degli aerei tedeschi che bombardarono le navi con la gente. E non era da chi aspettare l’aiuto, bisognava solamente sperare un
miracolo. E il miracolo successe, la nostra nave arrivò intatta a Novorossijk da dove cominciò un lungo tragitto nelle steppe Kasake coperte
di neve tra i quali i deportati dovettero superare le prove non meno dure: gelo, fame e malattie.
La mamma mi proteggeva come poteva. Quando nel primo periodo
dell’esilio abitammo in un villaggio barattava i vestiti con gli alimentari. Fu proprio felice quando riusciva a prendere un po’ di latte o due
patate. A volte portava della granaglia che fu così amara come assenzio. La mamma non notava l’amarezza, ma io non potevo mangiarla.
Le forze mi lasciavano gradualmente, quasi tutto il tempo, quasi tutto
il tempo stavo sdraiata e mi sembrava che su di me cadano sacchi, fagotti, valige. Non piangevo più e non pregavo niente. […]
In Kazakistan è venuta la primavera. Tutti i campi erano coperti dai
tulipani lanuginosi di colore viola-blu. Era molto bello. Ma per noi,
per i bambini di guerra era una gioia anche perché è stato possibile
scavare i bulbi di tulipani e mangiarli. Erano molto nutrienti, dal gusto
dolciastro. Non abbiamo sentito dire di vitamine, e non abbiamo mangiato mai niente di così buono. I bambini della baracca andavano uniti
per raccoglierli. Avevo tanta voglia anch’io, ma ero molto debole e
151
Ida Libera Valicenti
non potevo andare lontano, così i bambini maggiori mi portavano addosso a un posticino asciutto per farmi stare insieme a tutti e gustare la
“frutta” perfetta.
La giornata del 9 maggio 1945 abbiamo visto una salva della vittoria, la gente era lieta che la guerra era finita. Tutti sono usciti dalla baracca per partecipare alla gioia, sono rimasta da sola e piangevo in
quella stanzetta piccola e cercavo di vedere i fuochi della salva dal finestrino.
Certamente queste lacrime non erano simili a quelle che erano prima. Non c’era ancora gioia ma non c’era neanche quel dolore che pro36
vò Talocka durante quei quasi 4 anni d’infanzia non riuscita».
Testimonianza di Vladimir Dmitriev Dell’Olio, originario di Bisceglie:
«Io, Vladimir Dmitriev dell’Olio, sono nato nel 1951 a Krasnodarskijkraj (Staniza Saporogskaja). Non ricordo mio padre. Mia madre Teresa
Dell’Olio era italiana. I suoi nonni son venuti in Crimea dalla città di
Bisceglie di Puglia. I genitori di mia madre si chiamavano Vincenzo
Dell’Olio e Marta Maria Maffione.
Prima della guerra mia madre con i genitori, sorella Maria, fratello
Francesco e nonna Teresa abitava a Kerch in via Agimuskajskaja, vicino al porto mercantile. In questo quartiere abitavano molti italiani. Tra i
nostri vicini c’erano le famiglie Barone, Botto, Gianuzzi, De Benedetto,
De Fonzo, Scolarino, De Martino, Di Pinto, De Melo, Mezzino. Mio
nonno Vincenzo tutta la vita faceva marinaio.
In febbraio 1942 la nostra famiglia tra gli altri italiani è confinata nei
regioni settentrionali del Kasakstan. Durante il viaggio è morta dal
freddo mia bisnonna Teresa. Aveva 80 anni. La mamma diceva tante
volte, che moltissime persone soprattutto vecchi e bambini, sono morti a
causa delle condizioni disumani.
La mamma raccontava sull’esilio a malavoglia. E tutti loro, superstiti
di quella tragedia, preferivano di non menzionarne. Ma son sicuro che
non la dimenticavano mai. Al momento della deportazione mia madre
aveva diciannove anni, e rifletto spesso su tutto quello che ha sofferto.
Abbandonando la loro casa, non sapevano chi sarebbe tornato e per chi
sarebbe un viaggio solo andata.
In esilio mia madre ha vissuto fino all’anno 1946, e poi riuscì a fuggire dal Kasakstan. Ma alle famiglie italiane era ancora proibito vivere a
Kerch, per questo si sono stabiliti in Kuban’, alla riva apposta dello
stretto di Kerch. E solo dopo la morte di Stalin sono potuti tornare a
Kerch.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica la mamma insieme ad alcuni
deportati italiani ha cercato di ottenere la giustizia e per questo si sono
rivolti al tribunale. Hanno fatto richieste alle autorità giudiziarie, hanno
descritto brevemente quello che hanno vissuto. […]
Purtroppo il tribunale non ha risolto il problema. Poi la mamma si
rivolgeva agli altri organi del potere, ma senza risultato.
36
Gli italiani di Crimea, cit., pp. 118-122.
152
L’eccidio dei pugliesi di Crimea (1942-1945)
In dicembre 2006 la mamma è deceduta.
La deportazione degli italiani non è ufficialmente riconosciuta tutto37
ra».
4. La comunità italiana in Crimea oggi
Dopo la morte di Stalin, il 5 marzo 1953, alcuni italiani deportati fecero ritorno nelle loro città, ma qui trovarono tutti i loro beni confiscati, non venne loro restituito nulla di
ciò che era stato tolto, ma continuarono a subire accuse e discriminazioni.38 Nel 1954, in
occasione del terzo centenario del trattato di Perejaslav, con il quale molti territori ucraini passarono all’URSS, la Crimea venne trasferita dalla Russia di Nikita Kruscev
all’Ucraina, come segno dell’amicizia che legava le due nazioni e come pegno per quello che il popolo ucraino, comprese le minoranze, aveva subito per le efferatezze commesse da Stalin.
La Crimea è unita all’Ucraina unicamente dal sottile istmo di Perekop e non ha nessun collegamento geografico col territorio russo.39 Al momento della dissoluzione
dell’URSS, quindi, la Crimea si ritrovò all’interno dello Stato ucraino. Essa cercò la
strada dell’indipendenza, prima ancora dell’implosione dell’Unione Sovietica. Nel gennaio del 1991, un referendum popolare sancì l’autonomia della Repubblica di Crimea,
che si proclamò Repubblica Autonoma Socialista Sovietica (RASS). Le istanze indipendentistiche ripresero vigore nel 1993, quando venne deciso di istituire il ruolo inedito di
presidente della Crimea. Le elezioni si tennero nel gennaio del 1994; vinse il leader della coalizione separatista filo-russa Jurij Meškov.40
Con il crollo del blocco sovietico, i neo-Stati indipendenti dovettero affrontare il risveglio etnico-culturale. La popolazione della Crimea è suddivisa etnicamente fra russi,
ucraini, tatari e altre minoranze, tra cui quella italiana. Attualmente, gli italiani in Cri-
Ibid., pp. 122-124.
Cfr. S. STEWART, Explaining the Low Intensity of Ethnopolitical Conflict in Ukraine, Münster, Lit
Verlag, 2005, p. 64.
39
Con il referendum del 16 marzo scorso, la Crimea ha scelto di essere parte della Russia. Si sta valutando la costruzione di un ponte di collegamento, che porterebbe proprio dalla cittadina abitata dai pugliesi,
Kerch, alla Russia. Si consulti a questo proposito il sito ria.ru/economy/20140305/998246428.html.
40
Cfr. Law of Ukraine on Approval of the Constitution of the Autonomous Republic of Crimea, in
www.rada.crimea.ua/en/bases-of-activity/konstituciya-ARK.
37
38
153
Ida Libera Valicenti
mea, accentrati a Kerch, sono poco più di trecento.41 Molti di loro sono figli e nipoti dei
deportati degli anni Trenta, ma non sono riconosciuti dallo Stato italiano quale minoranza etnica vittima delle purghe staliniane; a molti di loro non è stata riconosciuta la
cittadinanza italiana:
«Dal 1992 al 1997 l’ambasciata d’Italia in Ucraina ha ricevuto 47 domande per riottenere la cittadinanza italiana: solo due hanno avuto riscontro positivo (in base all’ultima legge sulla cittadinanza del 1992).
Sussiste, infatti, la difficoltà di reperire i documenti richiesti dalle autorità diplomatiche italiane, documenti personali che sono andati dispersi o distrutti nella maggior parte dei casi durante la deportazione o
anche sequestrati, costituendo, secondo le autorità sovietiche, la “pro42
va” del loro essere spie».
I documenti personali dei connazionali pugliesi vennero distrutti durante la tratta in
Siberia, e molti di loro, una volta giunti sullo stretto di Kerch, dovettero cambiare cittadinanza, russificarsi, per poter lavorare come marinai o con le loro navi da trasporto,
come abbiamo avuto modo di sapere dai documenti del consolato di Odessa.43 In assenza di tali documenti, lo Stato ucraino non riconosce lo sterminio dei pugliesi di Kerch:
«È riconosciuta la deportazione dei tatari, dei tedeschi, dei bulgari, degli
armeni e dei greci, non quella degli italiani. C’è il giorno della memoria
dei deportati (18 maggio) al quale gli italiani non possono partecipare. È
come se si fossero persi nel conto immane dei crimini del comuni44
smo».
Natale De Martino è uno dei superstiti della deportazione degli italiani di Crimea;
egli racconta
«di quanto sarebbe utile per la casa, la pensione, i farmaci avere lo sta45
tus di deportato che anche i tedeschi e armeni hanno ottenuto».
Come emerge anche dalle testimonianze riportate nel paragrafo precedente, il ricordo
delle deportazioni ordinate da Stalin è evocato continuamente, velato da una reticente
indignazione per l’accusa di collaborazionismo con i fascisti. L’evoluzione politica che
Cfr. All-Ukrainian Population Census, in STATE STATISTICS COMMITTEE OF UKRAINE, 2001,
gov.ua/eng/results/general/nationality/Crimea.
42
GIACCHETTI BOICO - VIGNOLI, L’olocausto sconosciuto, cit., p. 16.
43
Si veda Castiglia al Ministro, n. 1065 del 5 luglio 1884, cit.; Castiglia al Ministro, n. 1084 del 24 settembre 1884, cit.; Memoria dell’Avv. Giacinto Fossati-Reyneri, R. Applicato al Consolato Generale
d’Italia in Odessa, cit.
44
Cfr. GIACCHETTI BOICO - VIGNOLI, L’olocausto sconosciuto, cit., p. 16.
45
A. CASSIERI, Diario di Crimea, in «Limes», 4 aprile 2014, p. 161.
41
154
L’eccidio dei pugliesi di Crimea (1942-1945)
ha portato la Crimea alla secessione dall’Ucraina e all’annessione della stessa alla Russia, con il referendum del 16 marzo (passato con il 96% dei votanti a favore e con
un’affluenza pari all’84%), rappresenta una nuova fase anche per le minoranze etniche
che vi vivono, compresa la minoranza italiana di Kerch.
Appendici
a) Elenco deportati46
b) Albrizio (Albriccio, Albrize, Albruze, Albruzo);47 Aleviro; Alpino; Angeli (Angelo); Arpino; Autuori; Bardo; Barone (Baroni); Bartololi; Bassi (Basso); Beltrande
(Belotrande); Benetto (Beneto, Beneta, Binetto, Bineto, Binetti); Biancani; Bianco;
Biocino (Biocini, Biozino); Bisceglie; Bodano; Borisano; Botto; Brize; Bruno (Bruni, Brune); Bucolini (Buccolini); Budani; Bulato; Calangi; Cambani; Canari; Capuleti; Carbone (Carboni); Cardone (Cardoni); Carlilo; Caspani; Cassanelli (Cassanello, Casanelli, Casaneli, Cassinelli); Chichizolo; Cinbata; Cocolo; Colangelo; Copo;
Coronelli; Coruto; Croce; Cuppa; Cutto; De Celis; De Doglio; De Martino (DeMartino, Demartino); De Melo (Demelo); De Pasquale; De Pinda; De Stefano;
Dell’Oglio; De Steano (De-Steano, Desteano, De-Ste Ano); Di Balzo; Di Benedetto
(Di-Benedetto, De Benedetto, De-Benedetto, Debenedetto); Di Fonso (Di-Fonso,
DiFonzo, Di-Fonzo, Di Fonzio, Di-Fonzio, De Fonzo, De Fonso, Defonso); Di Giovanni (Di-Giovanni); Di Mario (Di-Mario, Dimario); Di Marzo (Di-Marzo, Dimarzo); DiPiero (Di-Piero, De Piero, De-Piero); Di Pilato(Di-Pilato); Di Pinto (DiPinto, De Pinto, De-Pinto); Digbi; Docelis (De Celis?); Ducia; Evangelista; Fabiano
(Fabiani); Ferante (Firante); Ferretti; Ferro (Ferri); Fioli; Flisani; Foschi; Francesco;
Fursa; Galante; Gamma; Garibaldi; Giacchetti; Gianuzi (Gianuzzi); Giorgi; Icino;
Lago; Lagoluso (Logaluso, Logoliso); Lagorio; Larocco; Laurore; Leconte (Le Conte, LeConto, Li Conto, Le-Conte); Lernio; Lerio; Mafioni (Maffione, Mafione);
Magni; Merce; Minetto; Miona; Misiano (Misiani); Mizino (Mezzin); Mueti; Nenno
(Nenni); Palmento; Parenti; Pergalo (Pergolo); Perio; Petrincio (Petrinco, Petringo);
Piazolo (Piazollo); Piero; Pleotino; Porcelli (Parcelli, Parceli, Porceli, Parcele, Porcele); Protero; Puglia; Puppo; Ranio; Romano (Romani); Rossetti (Rosseti); Ruba;
Cfr. G. GIACCHETTI BOICO - G. VIGNOLI, La tragedia sconosciuta degli italiani di Crimea, in «ItalianiNelMondo.com», p. 60.
47
In parentesi si riportano eventuali variazioni subite del cognome.
46
155
Ida Libera Valicenti
Sardeli; Savv; Scamarino; Scaringi ; Scoccemarro (Scacemaro, Scucemaro, Scozimaro); Scolarino (Scolarini); Serenti; Servuli; Sesoro; Simone; Spadavecchia; Spadoni; Spartaco; Talasini; Tarabochio; Terlizo; Trieste; Vinanti; Vlastari; Zingarelli;
Zitarelo.48
b) Mappa del viaggio della deportazione49
48
È possibile consultare l’elenco delle famiglie italiane che hanno abitato o abitano in Crimea in ASMEA,
Ambasciata Italiana in Russia, 1861/1950, b. 44, in cui è riportato un elenco scritto a mano ed uno scritto
a macchina, in cui vengono elencati le famiglie “molto bisognose”. Si veda anche GALLON, Gli italiani di
Crimea, cit., pp. 43-59.
49
Immagine tratta da GIACCHETTI BOICO - VIGNOLI, La tragedia sconosciuta degli italiani di Crimea,
cit., p. 61.
156
Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali
Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 157-168
e-ISSN 2280-8949
DOI 10.1285/i22808949a3n1p157
http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento
ENTELA CUKANI
Consociational Power Sharing Arrangements as a Tool for Democracy:
The Experiences of Macedonia and Kosovo
Abstract: The protection of the different communities involved in the ethnic conflicts and power sharing
arrangements among them have become necessary corollaries to democracy in the western Balkan
region. In the case of Macedonia and Kosovo, power sharing arrangements have been imposed by the
international actors through the peace agreements, in order to initially reach the goal of establishing
peace in the countries. However the establishment of real democratic participation through power
sharing settlements still remains a prerogative. Based on the analysis of the different power sharing
mechanisms adopted by Macedonia and Kosovo, the article provides evidences that incrementing the
political participation of the different communities in the central and local state institutions helps
countries to decrease the tensions between host state and main non dominant group. The paper also
demonstrates that by sharing the power between the several groups present on the territory, leads to a
consociational democratic participation form.
Keywords: Minorities; Power sharing; Consociationalism; Macedonia; Kosovo; Kin State; Host State.
Introduction
After the fall of the Berlin wall and the dissolution of the former Soviet Union and of
the RFY, the lack of contrast between the liberal and communist ideologies,
accompanied with an increasing confidence in the ethno-linguistic affiliation state,
culminated with several ethnic conflicts and civil wars, especially in the western Balkan
area. Hence, the protection of the different communities involved in the conflicts and
power sharing among them have become a compulsory corollaries to democracy. For a
long time, international community mediators and facilitators, through the peace
agreements reached or “imposed” in the area, have been involved in the first stage of
power sharing with the aim to establish peace in the region.
The different States that came up after the fall of the communist block have formally
applied for EU membership. Before joining the EU prospective applicants have to meet
the so-called Copenaghen criteria. They are also required under the EU conditionality, to
Entela Cukani
change their policies in order to be eligible for EU admission.1 Minority rights
protection have become a central issue, a parameter through which to measure the
“democratization” and the political stability of the applicant State.
The guiding principle of equal power-sharing among conflicting groups, in a second
phase, needs to be legitimated through democratic participation into democratic and
independent institutions. While it is still not clear what a minority is,2 since the
beginning of the Balkan wars (1990-1998) it comes up with clarity that ethnic power
sharing and territorial autonomy often have to go along. This is the case of the different
entities that form the BiH union, but also the case of territorial decentralization as in
Macedonia and in Kosovo. Thus, minority rights, political power sharing and forms of
territorial autonomy in Macedonia and Kosovo will be taken in consideration in the
present research paper in order to analyze how the “second phase” of power sharing,
dealing with the implementation of the reached peace agreements, is being translated
into democratic institutions.
Although we acknowledge that it is not possible here to deal comprehensibly with all
the elements and forms of power sharing, the present paper examines the constitutional
plan for power sharing in each of the two countries. On the other side, the bargaining
power of the minority groups depends on the host state and kin state role; thus, this
further aspect will be also taken in consideration.
1
On the EU conditionality, see L. APPICCIAFUOCO, Integrazione dei Balcani occidentali nell’Unione
europea e principio di condizionalità, in «Diritto Pubblico Comparato ed Europeo», 2, 2007, pp. 547582.
2
For the Sub-Commission on Prevention of Discrimination and Protection of Minorities, a minority is:
«A group numerically inferior to the rest of the population of a State, in a non-dominant position, whose
members-being nationals of the State- possess ethnic, religious or linguistic characteristics differing from
those of the rest of the population and show, if only implicitly, a sense of solidarity, directed towards
preserving their culture, traditions, religion or language». United Nations Human Rights, Minorities
Under International Law, in http://www.ohchr.org/EN/Issues/Minorities/Pages/internationallaw.aspxn.
For a controversial vision of the term minority, see: G. POGGESCHI, Language Rights: A Comparative
Analysis (I diritti linguistici. Un'analisi comparata), Roma, Carocci, 2010, pp. 25-27; F. PALERMO - J.
WOLEK, Comparative Constitutional Law of Groups and Minorities (Diritto costituzionale comparato dei
gruppi e delle minoranze), Padova, CEDAM, 2011, pp. 11-34.
158
The Experiences of Macedonia and Kosovo
1. Power Sharing as a Tool for Democracy
Both the Ohrid Peace Agreement and the Ahtisaari Proposal for Kosovo (CSP)3 foresee
elements of consociational power sharing aiming to accommodate, first of all, the
principal non dominant group claims in both countries: Albanians in Macedonia and
Serbs in Kosovo. Before stopping on the specific mechanisms of sharing the power in
both countries, some general considerations are needed.
Scholars4 have appointed that consociational power sharing consist in a range of
measures that aim to accommodate ethnic diversity in divided societies. While a
complete and comprehensive definition of minority is still lacking,5 since the beginning
of the Balkan wars (1990-1998) it comes up with clarity that power sharing and
territorial autonomy often have to go along. This is the case of the different entities that
form the BiH union, but also the case of territorial decentralization in Macedonia and in
Kosovo.
It must be stressed that more than ethnic power sharing, the western Balkan
experience shows that the play is between (national) minorities that have a significant
number population, mostly concentrated in a territory (when they form the majority of
the population) near the boundaries’ of their kin state. Thus, if at the beginning the
power sharing arrangements have been foreseen as a mechanism of consociational
arrangements, their implementation suffers from the “leverage power” of the main non
dominant ethnic group. Such situation, in a first phase, can change the features from a
consociational to a pure dualistic system.
3
Power sharing arrangements existed also in the 2001 Constitutional Framework of Kosovo but the
present article will focus only on the power sharing arrangements of the CSP and the 2008 Constitution.
4
See F. BIEBER, Power Sharing after Yugoslavia: Bosnia, Macedonia and Kosovo, in S. NOEL, eds.,
From Power Sharing to Democracy: Post-Conflict Institutions in Ethnically Divided Societies, Montreal,
McGill-Queen’s University Press, 2005, pp. 85-104.
5
An “open” and well-formulated definition is that of R. TONIATTI, Minoranze e minoranze protette, in T.
BONAZZI - M. DUNNE, eds., Cittadinanza e diritti nelle società multiculturali (Bologna, Il Mulino, 1994,
p. 283), which holds that «minorities as such do not exist. Instead there are social groups – each endowed
with its own identity – small and large, with many members and few members». For more on the problem
of definitions, see, among others, G. PENTASSUGLIA, Minorities in International Law
Strasbourg/Flensburg, Council of Europe and ECMI, 2002, p. 15 sgg.; T.W. SIMON, Ethnic Identity and
Minority Protection: Designation, Discrimination, and Brutalization, Plymouth, UK, Lexington Books,
2012, pp. 69-81.
159
Entela Cukani
The consociational model theorized by Lijphart6 is defined by four basic
characteristics: 1) grand coalition – the political leaders of all significant communities
are included in the executive; 2) all relevant groups are proportionally represented in the
parliament and public administration; 3) veto rights in matters of vital interests; 4)
segmental autonomy. The main idea is that only by sharing the power between the main
ethnic groups and accommodating the ethnic diversity by democratic participation into
state institutions, multiethnic states will reach stability.
The western Balkans experience has shown that if at the beginning the
consociational power sharing guidelines have been drown in the Peace Agreements by
the international actors, subsequently consociational settlements have to be negotiated.
Practice shows that what mostly influences the power sharing arrangements is the
political participation of the minorities, which at the beginning suffers from the numeric
and nationalist situation of the “main” non-dominant ethnic group, whose members will
vote (at least in the first phase) exclusively for their ethnic parties.
In this step, the lobbing role of the kin state becomes a crucial factor for the
negotiation power of the minority community. If the kin state assumes an intervention
role, the political leaders of the minority community tend to radicalize their claims in
the host state. The example in this case may be offered by the Serb community in
Kosovo, whose leaders intensity claims over that Kosovo’s government depend on the
Belgrade’s politic: more intensive is the intervention role of Belgrade in the Serbian
enclaves (by enforcing the parallel structures) more incentivized are Serbian minority
political elites to play the “Serbian nationalist card” aiming to gain more electoral votes.
As stated above, ordinarily the power sharing arrangements are designed for the
accommodation of the principal non dominant group claims7 in order to own equally
and proportionally seats in the parliament, and to have the possibility to use veto power
6
See A. LIJPHART, Democracy in Plural Societies: A Comparative Exploration, New Haven, CT and
London, Yale University Press, 1977, pp. 25-44.
7
For a long time the minority policy and the minority question in Serbia has been identified with the
Kosovo issue, since 1999 the minority issue in Kosovo has been identified with the Serbian community
demands and since 2001 the minority issue in Macedonia goes along with the Albanian community
claims. The destiny of the other communities suffers the solution of the most numerous (problematic)
minority claims.
160
The Experiences of Macedonia and Kosovo
more convincingly. This could be translated in political and legislative stalemate for the
host State.
While what is observed in practice in the Macedonian case, the Ohrid Agreement did
not establish reserved seats for each minority, instead, it offers collective rights for all
minority groups, but de facto the required 20% is possible only for the Albanians. Such
situation instead of the desirable consociationalism between the different communities
led to a dualism between Albanian and Macedonian parties which are increasingly
becoming national parties. The requested “double majority” becomes an exclusive veto
power of the Albanian community.
In order to overcome this situation, the only possibility for the host state remains the
necessity to increase the political participation of the other minority communities. In the
Kosovo case the political participation of the different minority groups is safeguarded
by the established minimum strict quotas; in the Macedonian case a similar situation
was advanced by the central government in the 2007 law proposal.
Incrementing the political participation of the different communities in the central
and local state institutions, helps in decreasing the tensions between host state and main
non dominant group. Moreover by sharing the power between the several groups on the
territory, will lead toward a consociational democratic participation form. The
impossibility for minor ethnic political parties to pass the required percentage foreseen
by the electoral laws, incite political elites to form alliances between them. In the long
lasting period, the necessary consociational political parties that will be formed by these
alliances, will be traduced in a decreasing confidence of the population in the ethnic
parties and in an increasing entrust in parties with a more comprehensive national
breathing.
2. Ethnic Composition and Power Sharing in Kosovo
At the end of negotiations to settle its status, Kosovo declared independence on 17
February 2008, ending nine years’ of endeavor since the beginning of the war in 1999,
to resolve its status. Power sharing between the two main communities, Albanians and
Serbs, has been a leitmotiv enshrined in all international plans and acts that concerns
161
Entela Cukani
with the Kosovo issue,8 and it is still one of the main issues in the ongoing talks
between Pristina and Belgrade.9
Power sharing and territorial decentralization, as foreseen in the Ahtisaari plan,10 are
enshrined in the Constitution11 and in other relevant local laws.12 Moreover, Article 143
of the Constitution states that the Constitution itself and other legal acts of Kosovo shall
be interpreted in compliance with the CSP and in case of inconsistency the latter (CSP)
shall prevail.
The Constitution addresses the multi-ethnic nature of the new state.13 The term
community is used to refer to the different minorities living in the territory. The main
ethnic groups living in Kosovo are: Albanians (over 90% of the population), Serbs
(5%), Roma/Ashkali/Egyptians - REA, Bosnians, Gorani, Turks, Croats and
Montenegrins (5%). Community rights in the legislative process are protected by the
Constitution. In order to implement national-level integration, the Constitution, in
accordance with the CSP provisions, established that at least 20 of the 120 seats of the
Assembly of Kosovo should be reserved for the representatives of non-majority
communities: 10 seats are reserved to the Serb community, 1 for the Roma, 1 for the
8
With the Kumanovo Agreement signed between NATO and the RFY, the war in Kosovo ended on 9 June
1999. The United Nations Security Council Resolution 1244, adopted on 10 June 1999, placed Kosovo
under the UNMIK administration. On 15 May 2001 a “Constitutional Framework for Provisional SelfGovernment in Kosovo” was approved.
9
On this, see E. CUKANI, Ongoing Pristina-Belgrade Talks: From Decentralization to Regional
Cooperation and Future Perspectives, European Diversity and Autonomy Papers-EDAP, 4, 2012, in
www.eurac.edu/edap.
10
Ahtisaari developed the CSP (Comprehensive Proposal for the Kosovo Status Settlement) during the
Vienna negotiations and the proposal was presented to Belgrade and Pristina on 2 February 2007. Even if
the proposal did not explicitly include independence, it opened the way for the future independence of
Kosovo. High level talks took place in March 2007, and in the same year Ahtisaari presented his final
proposals to the UN Security Council, including a recommendation for Kosovo’s independence for a
specified period of international supervision. This final proposal, accepted by Pristina and refused by
Belgrade, met the strong opposition of Russia. Under the threat of a Russian veto, the UN Security
General launched another time limited round of negotiations led by a troika of US, EU and Russian
negotiators. When the Troika’s negotiations closed without any result on 10 December 2007, under the
threat of Russia’s UN veto power, Kosovo’s leaders declared unilateral independence on 17 February
2008. Full text of the proposal is in http://www.unosek.org/unosek/en/statusproposal.html.
11
The Constitution of the Republic of Kosovo, adopted by the Assembly of Kosovo on 9 April 2008,
came into force on 15 June of the same year, after the end of the transitional period.
12
The Law on Local Self-Government, n. 3/L-040, specifically determines the “decentralization of the
powers” from central to local governments or from the matrix to the new municipalities. The full text of
the law is in http://www.assembly-kosova.org/common/docs/ligjet/2008_03-L040_en.pdf.
13
See Articles 3, 5, 6, Chapter 1 of the Constitution.
162
The Experiences of Macedonia and Kosovo
Ashkaly, 1 for the Egjyptian community, 3 for the Bosnian community, 2 for the
Turkish one, and 1 for the Gorani community.14
Power sharing is reflected also in the Government composition: the Serb community
will be represented at least by one minister, and another one from the non-majority
community, and if the Kosovo government has more than 12 ministers, three must be
appointed from communities. In addition, it is foreseen the presence of 2 Deputy
ministers from the Serb community and 2 other Deputy Ministers from the non-majority
communities.15
Furthermore, in the judicial system as a tool for increasing integration: 15% of the
judges at the Supreme Court of Kosovo should be from the minority communities16 the
same percentage is foreseen also for the composition of any other court established with
appeal jurisdiction.17 In accordance with the importance of community rights in
Kosovo, Article 78 of the Constitution requires the creation of the Assembly Committee
on the Rights and Interests of Communities. Additionally, in case of legislation of vital
interest it is required a double majority in order to adopt, amend or repeal certain issues
of particular interest, that is, both the Assembly majority and the majority of the
deputies holding seats guaranteed for communities.18
At the local level, if at least 10% of the residents belong to communities not in
majority in those municipalities, a post should be reserved to the vice president of the
Municipal Assembly for Communities for a representative of these communities.19
Undoubtedly, the size of the minority community is an important benchmark in
influencing the determination of power-sharing, but sometimes, more than numbers,
what mostly influences the determination of the power to be share (ex. seats reserved in
the several institutions) are the historical and political matters.
Even the Serb community in Kosovo is only 5% of the total number, as it has been
14
See Article 64, Chapter IV, Constitution of Kosovo.
See Article 96, Chapter VI, ibid.
16
Article 103.3 states: «At least fifteen per cent (15%) of the judges of the Supreme Court, but not fewer
than three (3) judges, shall be from Communities that are not in the majority in Kosovo». Ibid.
17
See Article 103. 6, ibid.
18
See Article 81, ibid.
19
See Article 62, ibid.
15
163
Entela Cukani
underlined in all legal acts, they have more power compared to the other communities.
Indeed it must be stressed that the minority agenda in the case of Kosovo has been
identified with the issues between Kosovo Albanians and Kosovo Serbs which continue
to derecognize each other like the predominant population.20 Such confusion is fed by
the role hired by the host state and the kin state. In the Kosovo’s case, even the Serbian
state does not recognize Kosovo like an independent republic,21 the “arm wrestling” is
for more territorial autonomy in areas where the Serb community constitutes the
majority.
In conclusion, it must be highlighted that the several criteria as foreseen in the
implementation of the decentralization, makes such process more similar to the federal
than to the consociational model.22
3. Ethnic Composition and Power Sharing in Macedonia
After the dissolution of RFY, the 1991 Constitution defined Macedonia as the “nationstate of Macedonians”23 thus marginalizing the other communities like Turks, Roma,
Serbs and Muslims, but above all by rising discontentment among the large Albanian
minority community. Concomitantly with the war in Kosovo, on 2001 veins outside the
Albanian National Liberation Army (NLA), the advanced demand for self-determination
and the ethnic conflicts brought the Macedonian ethnic issue under the attention of the
international community.
Under the international mediation and the coordination of Robert Badinter on August
13, 2001, in Vodno, Skopje, near Ohrid–Macedonia, the Ohrid Framework Agreement24
20
On this, see CUKANI, Ongoing Pristina–Belgrade Talks, cit.
The preamble of the Constitution of Serbia, approved after the referendum held on 28 October, 2006,
states that «Kosovo is an autonomous province of Serbia with significant autonomy». The full text of the
preamble of the 2006 Serbian Constitution is in http://www.wipo.int/wipolex/en/details.jsp?id=7378.
22
See J. MCGARRY - B. O’LEARY, Federation as a Method of Ethnic Conflict Regulation, in S. NOEL,
ed., From Power Sharing to Democracy: Post-Conflict Institutions in Ethnically Divided Societies,
Montreal, McGill-Queen’s University Press, 2005, pp. 263-297. For the similitaries between the
decentralization in Kosovo and the federal model, see SELF-DETERMINATION MOVEMENT, One Step
Forward
–
Three
Steps
Back,
15
June
2010,
at
http://www.vetevendosje.org/repository/docs/One_step_forward_three_steps_back.pdf.
23
See
Preamble
of
the
1991
Macedonian
Constitution.
Full
text
at
http://www.servat.unibe.ch/icl/mk00000.html.
24
For more on the negotiations that brought to the Ohrid Framework Agreement, see M. LEBAMOFF - Z.
21
164
The Experiences of Macedonia and Kosovo
(OFA) was signed which sets out a substantial agenda for constitutional and legislative
reforms of the state by drawing the power sharing arrangements between the different
communities and establishing the cessation of the hostilities.25
According to the 2002 census, the ethnic composition of Macedonia is as follows:
approximately 64.8% is composed by Macedonian Slavs that belong to the Christian
religion and speak the Macedonian language; Albanians represent over 25.17% of the
population: they belong mostly to the Muslim religion, speak the Albanian language and
are concentrated around the boundaries with Kosovo and Albania; the remaining 10%
of the population is composed by smaller ethnic groups like Turkish 3.58%, Roma
2.66%, Serb 1.78%, Vlach 0.48%, Bosniac 0.84% and other 1.04%.26 According to the
2002 census, 16 municipalities of the 84 ones have Albanian majority population.
The minority issue in Macedonia and also the power sharing reforms as foreseen by
the OFA, are intended, for a better accommodation of the demands and concerns of the
several communities present in the Macedonian territory, but above all for the Albanian
community. This seems to be obvious by the required limit of «at least 20% of the total
population of the state» that is foreseen by the OFA and by the Constitution in order to
gain
«official recognition of its language with specific modalities regarding
its use, guaranteed equitable representation at all central and local
public bodies and all levels of employment, enhanced local selfgovernment through decentralization processes, veto powers on matters
involving culture, use of language, education, personal documentation,
use of symbols, laws on local finances, local elections, and boundaries
of municipalities, as well as state-funded university education in their
27
mother tongue»,
offering collective rights for all minority groups, but de facto the required percentage is
ILIEVSKI, The Ohrid Framework Agreement in Macedonia: Neither Settlement nor Resolution of Ethnic
Conflict?, International Studies Association Conference San Francisco, California, March 26-29, 2008, in
http://humansecuritygateway.com/documents/ISA_Ohridframework.pdf.
25
See Ohrid Framework Agreement, Basic provisions, Article n. 2, ibid.
26
The 2011 census failed as consequence of irregularities. For the final data of the 2002 census, visit the
official website in http://www.stat.gov.mk/Publikacii/knigaXIII.pdf.
27
Z. ILIEVSKI, Conflict Resolution in Ethnically Divided Societies: The Case of Macedonia, Master
Thesis, University of Graz, 2006; also see D. TALESKI, Minorities and Political Parties in Macedonia, in
Political Parties and Minority Participation, Skopje, Friedrich Ebert Stiftung - Office Macedonia, 2008,
pp. 127-153.
165
Entela Cukani
possible only for the Albanians.
Some of the more important matters regulated by the OFA and receipted by the
Constitution28 are: Development of Decentralized Government; Non-Discrimination and
Equitable Representation; Special Parliamentary Procedures to be used for adopting a
number of constitutional amendments and other laws affecting matters of vital interest29
for the non-majority communities; Education and Use of Languages;30 Expression of
Identity, providing the possibility for local authorities to use (next to the emblem of the
Republic of Macedonia) emblems marking the identity of the community in the
majority in the municipality.31
According to Macedonia's Constitution, laws affecting matters of vital interest may
only be passed by double majority vote in the Macedonian Assembly, namely, a
majority within the Assembly as a whole that includes a majority of the votes of the
Assembly members attending who «claim to belong to the communities not in the
majority in the population of Macedonia».32 The OFA and the Constitution do not
provide for “strict quotas” for representatives of the non-majority communities, as for
example is established in the case of Kosovo or in the case of BiH. While the
representation in the Parliament and in the Government, central and local one, is not a
problem for the Albanian community,33 the problem has been raised for the other
minority groups and a legislative proposal was advanced in 2007 proposing: four
28
The Constitution of the former Yugoslav Republic of Macedonia was adopted on November 17, 1991,
and has been amended 31 times, most recently on April 12, 2011.
29
Matters of vital interest include: the Law on Local Self-Government, the city of Skopje and boundaries
of municipalities, as well as laws that directly affect culture, use of language, education, personal
documentation, use of symbols, laws on local finances and local elections.
30
It is foreseen that any language spoken by at least 20% of the population is also an official language in
Macedonia. Minority language is regulated in derogation of the official Macedonian language by Article
7 as amended by the V amendment.
31
See Article 8 of the Constitution of Macedonia. The free expression of national identity is insert into
the fundamental principles of the ordainment. For a comprehensive analysis of the most important
provisions of the Constitutions of the western Balkan countries, see R. TONIATTI, Minoranze e minoranze
protette, cit., pp. 311-337.
32
Articles 69 (2) and 114 (5) of the Macedonian Constitution (as amended in 2001).
33
It has been estimated that since 1991 to present, the political parties representing minorities have had
21 to 33 seats from the 120 total seats of the Macedonian Parliament. For more information on the
Albanian political parties and on the election results consult Bertelsmann Stiftung, BTI 2012 - Macedonia
Country
Report,
Gütersloh,
Bertelsmann
Stiftung,
2012,
in
http://www.btiproject.de/fileadmin/Inhalte/reports/2012/pdf/BTI%202012%20Macedoni.pdf.
166
The Experiences of Macedonia and Kosovo
reserved seats for the Turk community, two for the Serb community, two for the Roma
community, one for the Bosniaks and one for the Vlachs.34
The last local elections held on March 2013 have marked a turnaround in the internal
electoral and territorial subdivisions: the Albanian party, Democratic Union for
Integration (BDI), has won 12 districts on the total number of 54. For the first time after
over 70 years the BDI has won the Kercove district but what stands out more is the fact
that the BDI has lost the electoral competition in the Struge district, where the Albanian
community represents the majority of the population. In other main urban centers,35
where the majority of the population is presented by the Albanian community, the BDI
was balloting.
Another crucial point of the 2013 elections is the fact that differently from the other
elections, there was not a single “Albanian party” but some forms of “consociational
political parties”36 that helped in changing the route of the crated nationalist dualism.
This demonstrates that only by increasing the political presence of other minorities in
the Parliament, there will be possible to decrease the created dualism between Albanian
and Macedonian parties which are increasingly becoming national parties. Furthermore,
if the other minorities are presented into the Parliament by the reserved seats, the
requested “double majority” needed in order to change some laws of vital interests for
the communities, will not be an “exclusive” veto power exercised by the Albanian
electoral parties. Scholars37 have appointed that such changes of the electoral law will
decrease tensions between Macedonian and Albanian parties, but will increase tensions
between Albanians and other non-majority communities.
As a further element of integration by power sharing arrangements, the Constitution
establishes a Parliamentary Committee for Inter-Community Relations,38 comprised of
34
See MINISTRY OF JUSTICE OF MACEDONIA, Proposal for Changes and Amendments to the Election Law,
June 2007.
35
Tetova, Tearca, Gostivari, Struga, Haracina, Dollnen Vracishti, Studenican. For more information on
the electiones in Macedonia consult the OSCE official page at http://www.osce.org/odihr/elections/99772.
36
The examples may be given by the PDSH (the Serbian minority party with an Albanian candidate in the
above mentioned districts) and LSDM parties. Also the Roma and the Turkish minority parties have won
the elections in some districts.
37
See TALESKI, Minorities and Political Parties in Macedonia, cit., p. 127-153.
38
See Article 78 of the Macedonian Constitution.
167
Entela Cukani
seven representatives of ethnic Macedonians, seven representatives of ethnic Albanians,
and five representatives of the smaller ethnic minorities.
The experience of Macedonia shows that increasing the politic participation of the
other minority groups remains the only possibility for the consociational democratic
form to work, otherwise, the risk is that the power sharing arrangements will degenerate
in a dualistic model.
4. Conclusions
Consociational power sharing arrangements were imposed in a first phase by the
international actors like a necessary tool for reaching peace in both countries taken in
consideration: Kosovo and Macedonia. Although this first intent was “strictly” imposed
by the international community, achieving democracy through power sharing
settlements still remains a prerogative.
The above overview of the different mechanisms foreseen by the relative
International Agreements, and subsequently by the constitutional arrangements, put in
evidence the variety of the adopted mechanisms that aim to make the political system
workable and democratic. What has been put in evidence is the fact that if in the first
phase the power sharing arrangements suffers from the “main non dominant minority”
kin state role, by assuming a dualistic role form, the only possibility for the host state
stands on its capability to increase the representation of the other non-dominant groups.
Thus, representation becomes a principal tool for participation into the state institutions.
In deeply divided societies, like the ones taken in consideration, political
representation of all several groups as a principal characteristic of consociational power
sharing, have more possibilities to be achieved if foreseen by the Constitution. This
seems to be crucial in the first phase, where the game played between central state and
political elites of the main non majority community, can degenerate from a
consociational to a dualistic system, like in the Macedonian case. At last, the European
Union integration perspective of both host and kin state, remains a principal tool for a
democratic accommodation of the minority claims and for reaching stability in the
region.
168
Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali
Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 169-191
e-ISSN 2280-8949
DOI 10.1285/i22808949a3n1p169
http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento
SABRINA SERGI
Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger
Abstract: This article is a comparison between Austrian Chancellor Metternich and American National
Security Adviser Henry Kissinger. The analysis is based on the study of A World Restored, Kissinger’s
Ph.D. dissertation, in which he wrote about the Concert of Europe in the early nineteenth century. Both
the statesmen are considered from the historians as “realpolitiker”, mostly because of their geopolitical
approach to the foreign policy. The center of the comparison, in this work, is the so-called strategy of triangular diplomacy: the two cases examined are the Saxon Question, involving Austria, Prussia and
France and the opening to China in the contest of Soviet-American détente.
Keywords: Triangular Diplomacy; Metternich; Kissinger.
Introduzione
Nel 1954, Henry A. Kissinger conseguì il dottorato presso il dipartimento di studi sul
governo all’Università di Harvard, con una tesi di laurea intitolata Diplomazia della Restaurazione. Al centro della sua discussione vi era l’operato politico di Klemens W. Lothar, principe di Metternich, dalle guerre napoleoniche al congresso di Vienna. Dopo
vari anni trascorsi nell’ambito accademico, costellati da sporadiche e infruttuose consulenze per il governo, nel 1969, nell’ambito della prima amministrazione Nixon, Kissinger fu nominato consigliere alla sicurezza nazionale. Egli si apprestava, dunque, a effettuare un balzo dalla teoria alla pratica: se fino ad allora aveva dedicato la propria attività
di ricerca allo studio del potere, le circostanze lo misero nelle condizioni di doverlo esercitare.
Con il presente saggio si è inteso mettere a confronto i metodi dei due statisti, Metternich e Kissinger, cercando di comprendere in che misura gli studi di quest’ultimo abbiano potuto influenzare il suo stesso operato politico. Per tale ragione, il punto di partenza è stato l’esame dell’azione di Metternich attraverso l’analisi del libro di Kissinger,
Diplomazia della Restaurazione, messo a confronto con Gli anni della Casa Bianca, in
cui lo stesso Kissinger descrive lo svolgimento e gli esiti del suo lavoro diplomatico so-
Sabrina Sergi
prattutto accanto al presidente Nixon. Da tale accostamento è emerso l’approccio realista in politica estera da parte di entrambi gli statisti; il culmine del confronto è stato identificato,
in
particolare,
con
la
strategia
della
“diplomazia
triangolare”.
L’applicazione di tale strategia si verificò, nel caso di Metternich, a proposito della soluzione della questione sassone, occorsa durante il congresso di Vienna, dove il cosiddetto “triangolo” era costituito dall’Austria, dalla Prussia e dalla Francia. Per quanto riguarda la diplomazia triangolare di Kissinger, sono state prese in considerazione le relazioni tra Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina, il cui sviluppo si dimostrò determinante
per il raggiungimento della détente russo-americana.
1. La strada verso il congresso di Vienna
Dal 1803 al 1815 l’assetto geopolitico europeo fu sconvolto dalle guerre napoleoniche,
che portarono la Francia ad assumere il controllo della maggior parte dei territori continentali. Fino al 1812, al territorio francese erano stati annessi l’Olanda, la Germania settentrionale fino a Lubecca, un terzo dell’Italia, la Catalogna. Oltre a ciò, l’impero napoleonico esercitava il proprio dominio sulla Confederazione elvetica, sulla Confederazione renana e sul ducato di Varsavia. Nel giugno 1812, Napoleone intraprese la campagna
di Russia, durata meno di cinque mesi e il cui esito si rivelò catastrofico.1
La ritirata che seguì l’invasione dell’impero zarista rappresentò l’inizio del declino
della Francia napoleonica, che il 18 ottobre del 1813 subì una nuova e definitiva sconfitta a Lipsia, da parte della coalizione costituita da Russia, Prussia, Gran Bretagna e Austria: tale evento spianò la strada alla marcia dello zar su Parigi. Tra il marzo e l’aprile
del 1814 fu restaurata la monarchia borbonica e con il trattato di Fontainebleau fu decretata la fine politica di Napoleone, che fu esiliato sull’isola d’Elba.2 Successivamente, fu
firmato il trattato di Parigi, con il quale i vincitori si occuparono del ridimensionamento
della Francia. Secondo la clausola degli anciennes limites, l’impero veniva dissolto; per1
Cfr. J. GODECHOT, La Francia durante le guerre (1793-1814), in C.W. CRAWLEY, a cura di, Le guerre
napoleoniche e la Restaurazione, vol. IX della Storia del mondo moderno, Milano, Garzanti, 1969, pp.
361-364.
2
Cfr. R. DE METTERNICH - M.A. KLINKOWSTROEM, par, K.W.L., DE METTERNICH, Mémoires, documents
et écrits divers laissès par le Prince de Metternich, Chancelier de Cour et d’État, Tome Premier, Paris, E.
Plon et Cie, 1880, pp. 160-195.
170
Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger
tanto, i Borbone dovevano rinunciare ai territori comprendenti Olanda, Belgio, Germania, Italia e Svizzera. Il trattato, comunque, escludeva qualsiasi genere di clausola vessatoria, come ad esempio le pretese riparazioni, in quanto l’obiettivo della pace di Parigi
non era tanto di punire la Francia, quanto quello di raggiungere una stabilità a lungo
termine.
Le guerre napoleoniche erano state considerate un’estensione della rivoluzione francese3 e avevano, così, generato la convinzione, da parte di alcuni statisti europei, che il
vero nemico fosse il giacobinismo, come sostenne, ad esempio, il ministro degli esteri
britannico Robert Stewart, visconte di Castlereagh:
«Quanto alla massa della nazione francese, il grande desiderio degli
alleati era di agire verso di essa, non in ragione dei suoi errori […] ma
ispirandosi ai principi liberali la cui applicazione testimoniasse che si
4
era fatta la guerra […] alla Francia rivoluzionaria […]».
Lo strascico del disordine napoleonico si manifestava soprattutto a livello geopolitico. I territori che la Francia si apprestava ad abbandonare dovevano essere redistribuiti
in modo tale da garantire la stabilità interna (contro i fermenti rivoluzionari) e secondo
il “principio delle restituzioni”.5 La pace di Parigi, all’articolo XXXII, prevedeva la riunione di un congresso, a Vienna, per la definizione del nuovo equilibrio europeo.
Il cancelliere Metternich si allineava al pensiero del ministro britannico solo parzialmente. Egli non credeva, infatti, che la sicurezza europea potesse dipendere esclusivamente dall’eliminazione di Napoleone in Francia. Kissinger stesso, nella propria opera, ha sottolineato il ragionamento di tipo geopolitico che ha portato Metternich ad effettuare determinate scelte in seno al congresso.6 Come Castlereagh, anche Metternich caldeggiava una pace non vessatoria nei confronti della Francia, ma le ragioni di tale atteggiamento risiedevano nella necessità di impedire la creazione di un nuovo squilibrio europeo. In particolare, il vuoto lasciato dal ridimensionamento della Francia creava un
3
Tanto da valere a Napoleone l’aggettivo di “roi des peuples”. Cfr. F. MARKHAM, L’avventura napoleonica, in CRAWLEY, Le guerre napoleoniche e la Restaurazione, cit., p. 399.
4
G. GIGLI, Il Congresso di Vienna, Firenze, Sansoni, 1938, p. 264.
5
Cfr. Mémoires, documents et écrits divers laissès par le Prince de Metternich, Chancelier de Cour et
d’État, Tome Premier, cit., p. 201.
6
Cfr. H.A. KISSINGER, Diplomazia della Restaurazione, Milano, Garzanti, 1973, pp. 159-191.
171
Sabrina Sergi
nuovo problema ad oriente, dove il pericolo era rappresentato dalla Russia e dalla Prussia. La minaccia costituita dall’impero zarista era legata al fatto che, durante il corso
dell’ultima guerra napoleonica, questo aveva spinto le proprie armate fin nel cuore
dell’Europa, occupando le province polacche. Metternich, comunque, era intimorito ancor di più dalla Prussia. Il rapporto tra l’impero di Francesco I e la corte di Federico
Guglielmo IV era ambiguo: da un lato, l’Austria aveva bisogno di un alleato per rafforzare l’Europa centrale in funzione anti-russa; dall’altro, però, Metternich era consapevole che la comune aspirazione egemonica nei confronti dei piccoli regni tedeschi rappresentava un motivo di profonda discordia. L’obiettivo prussiano era quello di aggregare
il proprio territorio frammentario a spese del regno di Sassonia, in nome delle comuni
radici etnico-linguistiche germaniche. La realizzazione di tale scenario avrebbe comportato
delle
conseguenze
doppiamente
dannose
per
l’Austria:
innanzitutto,
l’accrescimento sproporzionato dell’estensione prussiana, ma anche la creazione di un
precedente che avrebbe incoraggiato le spinte nazionalistiche tedesche negli altri regni
della Germania.7
L’apertura del congresso fu fissata per il primo ottobre, anche se l’inizio dei lavori
dovette attendere la soluzione delle questioni di procedura. Fu stabilito un iter costituito
da tre fasi: le decisioni sarebbero state prese dai quattro vincitori, Gran Bretagna, Russia, Austria e Prussia, e in seguito approvate da Francia e Spagna; infine, la ratifica sarebbe avvenuta in seno al congresso riunito in seduta plenaria.8
2. La questione polacca e la questione sassone
Il riordino territoriale del continente si basava, dunque, sul principio della restaurazione
della legittimità nelle regioni e nelle province cadute in mano alla Francia napoleonica.
Per tale ragione, le tematiche più importanti riguardavano il territorio polacco, ribattezzato ducato di Varsavia in epoca napoleonica, ma precedentemente legato alla Russia; il
7
Cfr. L.M. MIGLIORINI, Metternich. L’artefice dell’Europa nata dal Congresso di Vienna, Roma, Salerno
Editrice, 2014, pp. 137-138.
8
Cfr. G. FERRERO, Ricostruzione. Talleyrand a Vienna (1814-1815), Roma, Corbaccio, 1999, pp. 168169.
172
Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger
ripristino dell’estensione della Prussia, che era stata ridimensionata dopo la sconfitta di
Jena nel 1806.
Contestualmente all’ingresso di ciascuno Stato nella coalizione anti-napoleonica, erano state stipulate delle intese che avevano previsto alcune spartizioni territoriali. In
particolare, attraverso la convenzione di Reichenbach e l’accordo di Teplitz, stipulati tra
Russia, Austria e Prussia, era stato pattuito che il ducato di Varsavia sarebbe stato suddiviso tra le tre corti,9 rispettivamente secondo “accomodamenti” reciproci, ovvero in
base ad ordinamenti “amichevoli”.10 Il trattato di Kalisz, invece, legava la Russia e la
Prussia e stabiliva la restaurazione territoriale della corte degli Hohenzollern, senza specificare, tuttavia, quali sarebbero state le zone che ne avrebbero realizzato l’estensione.
Quest’ultimo patto, ad ogni modo, implicava la cessione di alcune province polacche da
parte dello zar a beneficio della Prussia.11 La portata legittimante dei trattati, però, contrastava con la realtà dei fatti: la Russia aveva assunto una posizione di vantaggio grazie
all’occupazione della Polonia durante il corso della guerra.12 Ai primi di novembre, nella prima conferenza di Vienna, il ministro degli esteri russo Nesselrode chiedeva «[…]
come giusta indennità dei sacrifici russi, tutto il ducato di Varsavia».13
La posizione dello zar era irremovibile e la sua intransigenza si spinse fino al punto
di precisare, in una lettera destinata a Castlereagh, che la propria posizione era quella
del vantaggio assoluto, legato proprio all’occupazione militare.14 I piani di Metternich,
volti a contenere la Russia e la Prussia, vennero sconvolti: infatti, un’eventuale asse tra
le due corti orientali avrebbe provocato l’isolamento e l’indebolimento del già precario
impero multinazionale austriaco. La posizione dello zar portò la Prussia a cercare altrove i territori per la propria restaurazione e questo metteva a repentaglio l’equilibrio tedesco.
9
Cfr. ibid., p. 204.
Cfr. la nota del 2 novembre 1814 di Metternich, destinata al principe di Hardenberg, cit. in GIGLI, Il
Congresso di Vienna (1814-1814), cit., p. 68.
11
Cfr. KISSINGER, Diplomazia della Restaurazione, cit., p. 64.
12
Cfr. ibid., p. 169.
13
Cit. in GIGLI, Il Congresso di Vienna (1814-1814), cit., p. 65. Il corsivo è mio.
14
Cfr. KISSINGER, Diplomazia della Restaurazione, cit., p. 170. Tale asserzione, nel linguaggio diplomatico, assume il significato di minaccia di guerra. Quest’allusione è confermata anche dalle istruzioni segrete del ministro russo Nesselrode inviate all’ambasciatore in Francia Pozzo di Borgo. Cfr. GIGLI, Il
Congresso di Vienna (1814-1815), cit., p. 66.
10
173
Sabrina Sergi
Il 9 ottobre, il ministro prussiano Hardenberg inviò un memorandum a Metternich:
egli si diceva disponibile a contribuire al contenimento delle ambizioni russe, ma condizionava la propria posizione al consenso dell’Austria relativamente all’annessione della
Sassonia. Come garanzia dell’osservanza di tale accordo, egli proponeva l’occupazione
provvisoria di tale regno. Secondo Kissinger, lo scopo della proposta di Hardenberg era
ottenere un beneficio materiale legittimato, così da salvaguardare l’amicizia con
l’Austria e fondare l’equilibrio tedesco sul presupposto di una Sassonia prussiana.15
Metternich rispose affermativamente alla proposta di annessione, legando, però, tale
questione a condizioni ben precise: la questione polacca non doveva essere gestita in
maniera separata e, soprattutto, l’assenso austriaco si sarebbe materializzato soltanto nel
caso in cui la resistenza anti-russa avesse avuto successo.16 Il 23 ottobre, Metternich e
Hardenberg incontrarono Castlereagh per definire la piattaforma d’azione comune da
presentare allo zar. Insieme redassero un documento sotto forma di ultimatum: se la soluzione della questione polacca non fosse stata raggiunta tramite le trattative dirette, il
tema avrebbe costituito un ordine del giorno in occasione dell’assemblea plenaria del
congresso. Gli alleati avevano proposto tre scenari: l’indipendenza assoluta della Polonia; la definizione dello Stato polacco antecedente al 1791; la restaurazione tripartita dei
possessi appartenenti alle tre corti prima delle guerre napoleoniche. Quando Metternich
presentò tale proposta allo zar, costui lo sfidò a duello; nei giorni successivi il sovrano
russo, in un incontro tra i tre imperatori in Ungheria, diffidò i rispettivi ministri, accusandoli di tramare attività segrete. Solo Federico Guglielmo accolse la sua disapprovazione, ordinando a Hardenberg di rinunciare a qualsiasi incontro separato con gli altri
due.17
Secondo Kissinger, le intenzioni reali di Metternich nella gestione della questione
polacca sarebbero state quelle di isolare la Prussia a proposito del problema sassone. La
prova della sua malafede consisterebbe, secondo lo studioso americano, nel fatto che,
15
Cfr. KISSINGER, Diplomazia della Restaurazione, cit., pp.171-175.
Cfr. ibid.
17
Cfr. ibid.
16
174
Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger
fino ad allora, Metternich non aveva mai subito un grave smacco e non aveva mai abbandonato i negoziati senza ulteriori tentativi di resistenza.18
L’intransigenza dello zar ebbe comunque la meglio e la questione polacca si concluse con la disfatta dei tre alleati. Metternich, però, poteva sollevarsi dal vincolo con la
Prussia in maniera legittima, dal momento che erano venute a cadere entrambe le clausole che legavano il consenso austriaco all’annessione della Sassonia. Il 7 novembre
Hardenberg annunciò agli austriaci che il proprio kaiser aveva ordinato di bloccare il
piano polacco. Il giorno successivo ottenne dai russi l’amministrazione militare provvisoria della Sassonia.19 Questo evento provocò le proteste di Metternich, che il 10 dicembre rispose ai prussiani che le loro ambizioni cozzavano con i principi
dell’equilibrio europeo, già inficiato dall’egemonia dello zar in Polonia. Tuttavia, in
nome della loro amicizia, il principe si diceva disposto a raggiungere un compromesso
al riguardo: la Prussia avrebbe potuto acquisire una parte della Sassonia, sommata ad
altri possessi in Renania.20
Il dissenso dell’Austria provocò violente reazioni negli ambienti governativi e militari della Prussia. I toni del cancelliere suggerivano che si sarebbero prese in considerazione le misure necessarie per risolvere la situazione, confermando le intenzioni bellicose dei militari, che già parlavano di guerra. Metternich riferì che «il gabinetto prussiano
riguardava la nota del 10 dicembre come un insulto».21 Il ministro di Francesco I colse
tale occasione per accrescere la forza morale del proprio paese. Considerate
l’irragionevolezza e la prepotenza del regno di Federico Guglielmo, Metternich coinvolse gli Stati minori nella creazione di una lega tedesca anti-prussiana, nell’eventualità di
uno scontro armato. Il passo più azzardato fu l’inclusione della Francia, considerata, fino ad allora, la principale nemica dell’equilibrio europeo.22
3. L’apertura alla Francia quale chiave risolutiva della questione sassone
18
Cfr. ibid.
Cfr. ibid., p. 178.
20
Cfr. GIGLI, Il Congresso di Vienna (1814-1814), cit., p. 30.
21
Cit. ibid., p. 33. In corsivo nel testo.
22
Cfr. KISSINGER, Diplomazia della Restaurazione, cit., p. 182.
19
175
Sabrina Sergi
La posizione della Francia nel contesto del congresso di Vienna, nonostante la caduta di
Napoleone, rimaneva di sostanziale isolamento. I regolamenti di procedura, come già
specificato, prevedevano l’esclusione dei francesi dalle decisioni principali.
La prima iniziativa in favore dell’ex nemico, da parte di Metternich, fu quella di inviare il memorandum del 10 dicembre al ministro borbonico Talleyrand, per portarlo a
conoscenza delle discordie interne all’alleanza. Costui rispose comunicando la propria
indignazione relativamente allo squilibrio che la questione sassone rischiava di generare
nel continente. Egli sosteneva con forza la causa della Sassonia in nome della pace, ma
soprattutto della legittimità.23
L’opportunità di concretizzare il sodalizio austro-francese in funzione anti-prussiana
si presentò quando Castlereagh propose una soluzione tecnica per la questione sassone.
Questa consisteva nell’istituzione di una commissione statistica ad hoc per
l’elaborazione di un’indagine sulle popolazioni germaniche residenti nei territori da assegnare alla Prussia.24 Talleyrand riuscì ad accedere alle riunioni della commissione con
il tacito accordo dei ministri britannico e austriaco; proprio questi ultimi, il 29 dicembre,
chiesero che il principe di Benevento fosse ammesso alle riunioni del consiglio di vertice dei ministri. In questo modo, l’esito delle votazioni avrebbe certamente messo in minoranza la Prussia, insieme all’alleata russa.25
Il 30 dicembre la Russia, presa dall’ansia di non inimicarsi le altre potenze, scese a
patti con l’Austria nella ritrattazione della frontiera occidentale della Polonia.26 La Prussia era definitivamente isolata cosicché, nel corso della riunione del 31 dicembre, Hardenberg dichiarò di essere disposto a entrare in guerra pur di ottenere la Sassonia. Una
minaccia così esagerata non poteva che sortire un effetto contrario al suo obiettivo reale:
anziché impaurire gli avversari e portarli a cedere, la provocazione contribuì a indispettirli. Il 3 gennaio, Castlereagh promosse una coalizione anti-prussiana insieme a Metter-
23
Cfr. GIGLI, Il Congresso di Vienna (1814-1814), cit., p. 38.
La commissione si sarebbe avvalsa della collaborazione di uno dei più importanti studiosi di statistica
dell’epoca, il prussiano Johann Gottfried Hoffmann. Cfr. E.V. GULICK, L’ultima coalizione e il Congresso di Vienna (1813-1815), in CRAWLEY, Le guerre napoleoniche e la Restaurazione, cit., p. 784.
25
Cfr. ibid., pp. 784-786.
26
In particolare, secondo Guglielmo Ferrero, la Russia temeva un riavvicinamento tra l’Austria e la Francia. Cfr. FERRERO, Ricostruzione. Talleyrand a Vienna, cit., p. 308.
24
176
Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger
nich e Talleyrand.27 Quest’ultimo scrisse al proprio re: «Ora, sire, la coalizione è sciolta
[…]. Non solo la Francia non è più isolata in Europa, ma è unita a due delle maggiori
potenze […]».28
Consapevole dell’accerchiamento e del fatto che senza Talleyrand gli alleati non avrebbero trattato, Hardenberg accettò la partecipazione del plenipotenziario francese ai
negoziati. Il pericolo di guerra era stato superato e per tutto il mese successivo le potenze lavorarono a un piano per cercare una soluzione definitiva dell’intricato caso.
L’accordo definitivo fu raggiunto l’11 febbraio. Gli alleati stabilirono la divisione in
due della Sassonia: due quinti del regno tedesco furono assegnati alla Prussia, con
l’esclusione dell’importante piazzaforte di Lipsia; il restante nucleo fu mantenuto indipendente. La soluzione della questione sassone, in questo senso, servì anche a ridurre la
portata dei possedimenti russi; il ministro britannico chiese allo zar, come compensazione per i limitati acquisti prussiani in Sassonia, di cedere la città di Toruń. Altri territori aggiuntivi per la Prussia furono il ducato di Vestfalia e la maggior parte dei territori
sulla riva sinistra del Reno. Lo zar, invece, ottenne di porre sotto la propria corona il
neonato regno di Polonia, comprendente il nucleo dell’ex ducato di Varsavia.
La trama ordita da Metternich, dunque, raggiunse il risultato da lui sperato, nonostante le mutate circostanze sopravvenute durante il congresso. Secondo Kissinger, il
ministro austriaco avrebbe coinvolto Talleyrand principalmente per deresponsabilizzare
il proprio paese rispetto a qualsiasi azione o affermazione che potesse apparire ostile alla Prussia. La sua strategia aveva reso possibile contrastare il regno di Federico Guglielmo, senza scalfire il rapporto di amicizia austro-prussiana, necessario per la sopravvivenza dell’impero.29 Lo studioso americano ha sostenuto che l’alleanza del 3
gennaio fu il culmine della capacità del ministro austriaco
«[…] di isolare gli avversari non in nome della ragion di stato, ma di
una ragione universale. […] Metternich aveva la grandezza politica di
chi comprende il valore delle sfumature, e capire che il modo in cui si
27
Cfr. MIGLIORINI, Metternich. L’artefice dell’Europa nata dal Congresso di Vienna, cit., pp. 140-141.
Cit. in GULICK, L’ultima coalizione e il Congresso di Vienna (1813-1815), cit., p. 787.
29
Cfr. KISSINGER, Diplomazia della Restaurazione, cit., pp. 182-183.
28
177
Sabrina Sergi
ottiene qualcosa è importante quanto il fatto di ottenerla, e talvolta an30
che di più».
Il 9 giugno tutti i paesi europei ratificarono l’atto finale di Vienna;31 esso era il risultato di negoziati che si erano svolti nell’arco di un intero anno, ma la riunione che ne vide l’approvazione fu l’unica ufficiale di tutto il congresso.
4. Nixon, Kissinger e la necessità della distensione
Il 20 gennaio 1969 ebbe luogo la cerimonia d’insediamento del presidente americano
neo-eletto, Richard Milhous Nixon. Costui pronunciò il proprio discorso, sottolineando
il ruolo degli Stati Uniti a livello internazionale e affermò: «Dopo un periodo storico caratterizzato dal confronto, l’America è pronta ad affrontare una nuova era di negoziati».32 Con tali parole, egli segnava uno spartiacque tra il periodo della “coesistenza
competitiva”, che fino a quel momento aveva portato i due blocchi a scontrarsi
nell’ambito di conflitti locali,33 e quello della “distensione”. In particolare, attraverso
questo nuovo approccio, egli intendeva creare un clima di collaborazione russoamericana, tale da definire un nuovo equilibrio mondiale che guardasse oltre la retorica
della guerra fredda.34
In un saggio redatto nell’estate 1968 per la rivista «Foreign Affairs», anche Kissinger sottolineò l’importanza di pervenire a un rapporto distensivo tra le due superpotenze. Nella sua analisi, egli prospettava un processo diplomatico lungo, e pertanto sosteneva che gli Stati Uniti avrebbero dovuto superare lo sterile dibattito interno in corso tra
i cosiddetti “falchi” e “colombe”.35 La strada da percorrere, invece, secondo il professo30
Ibid., p. 185. In corsivo nel testo.
«Esso è anche l’atto di nascita dell’Europa di Metternich». M. MAGNO, Il Restauratore, in «Il Foglio»,
XIX, 133, 7 giugno 2014, p. 4.
32
Richard Nixon Inaugural Address, January 20, 1969, in The American Presidency Project, Collection:
Public Papers of the Presidents, in http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=1941.
33
Come avveniva, ad esempio, in Vietnam. Cfr. E. DI NOLFO, Storia delle relazioni internazionali, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 998-999.
34
Cfr. M. TRACHTENBERG, The Cold War and After: History, Theory and Logic of International Politics,
Princeton, NJ, Princeton University Press, 2012, p. 179.
35
I “falchi”, perlopiù repubblicani conservatori, erano gli strenui oppositori dell’approccio distensivo,
mentre le “colombe”, tra le quali molti sovietologi, erano coloro che si mostravano ansiosi di creare un
clima di armonia nei rapporti tra le superpotenze. Cfr. Essay by Henry A. Kissinger, Document 4, in U.S.
DEPARTMENT OF STATE, Foreign Relations of the United States (d’ora in poi FRUS), 1969-1976, Founda31
178
Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger
re americano, era quella dell’interesse nazionale: valutando i benefici che l’America avrebbe potuto trarre dai negoziati, occorreva bilanciare una politica di rigore con un approccio conciliatorio: «In assenza di misure che penalizzino l’intransigenza
dell’avversario non vi è incentivo per la conciliazione».36 Tale asserzione rispecchiava
la mappa delle problematiche russo-americane che impediva, in effetti, la realizzazione
di un assetto internazionale più equilibrato. Gli scenari internazionali nei quali Stati Uniti e Unione Sovietica rivaleggiavano erano molteplici: Berlino, il Vietnam, il Medio
Oriente. Tra i temi che potevano far convergere gli interessi americani e quelli sovietici
v’era la questione della limitazione degli armamenti nucleari (Strategic Armaments Limitation Talks) e la possibilità di un incontro al vertice tra Nixon e Brezhnev.
Secondo Kissinger, dal punto di vista degli Stati Uniti, l’accordo SALT rappresentava
la possibilità di porre un freno all’arsenale sovietico, in crescita dal 1962; i sovietici, dal
canto loro, intendevano i colloqui come un espediente per riacquistare la rispettabilità
dell’Occidente.37 Alla luce di ciò, Nixon si proponeva di utilizzare i negoziati SALT come moneta di scambio per la risoluzione degli altri problemi politici internazionali.38
Come ha affermato Kissinger nelle sue memorie, l’obiettivo principale degli americani
doveva essere quello di «impedire ai sovietici di poter usare la cooperazione in un solo
ambito come una valvola di sicurezza, pur cercando contemporaneamente di ottenere
altrove vantaggi unilaterali».39
Il dipartimento di stato, però, non si allineava a tale approccio: il segretario di stato,
William Rogers, desiderava avviare al più presto i colloqui. Tale discordanza di vedute
portò Nixon a promuovere l’istituzione di un canale per la diplomazia segreta, così da
assicurarsi il controllo diretto dei negoziati.
Il primo dei numerosi incontri collaterali ebbe luogo un mese dopo l’insediamento
del neo-presidente. La gestione del canale segreto fu affidata a Kissinger, il quale aveva
tion of Foreign Policy 1969-1972, vol. I, Washington, D.C., U.S. Government Printing Office, 2003, pp.
21-48.
36
Cfr. ibid., p. 43.
37
Cfr. H.A. Kissinger, Gli anni della Casa Bianca, Milano, SugarCo, 1980, pp. 115 e 171.
38
Cfr. R.M. NIXON, The President’s News Conference, January 27, 1969, in
http://www.presidency.ucsb.edu/ws/index.php?pid=1942.
39
KISSINGER, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 116.
179
Sabrina Sergi
il compito di interloquire direttamente con l’ambasciatore sovietico a Washington, Anatoly Dobrynin, in maniera «altamente confidenziale».40
La questione SALT intersecava un tema caldo per la politica interna degli Stati Uniti:
quella dei tagli al bilancio della difesa, sostenuti strenuamente dalla maggioranza del
congresso. I sovietici, consapevoli di tale problematica, non avevano fretta di fissare
una precisa data d’inizio dei colloqui, contando su eventuali limitazioni che gli Stati Uniti si sarebbero autoinflitti nel frattempo. Nel corso della prima metà del 1969, gli incontri tra Dobrynin e Kissinger non portarono ad alcuna ragguardevole svolta, a causa
dell’evasività dell’ambasciatore sovietico. Come ha fatto notare Kissinger, uno dei
maggiori ostacoli al riguardo era la diffidenza reciproca:
«Tutti e due i giocatori volevano soprattutto evitare di commettere errori irreparabili: le mosse erano più che caute: ognuno voleva tener celate il più possibile le proprie intenzioni, e induceva, di conseguenza,
41
il suo avversario a una prudenza ancora maggiore».
Il cuore del problema risiedeva nel vantaggio comparato che ciascun paese possedeva nell’ambito degli armamenti. Fino al 1968, il Cremlino aveva accelerato la corsa
nell’ambito degli armamenti offensivi, mentre era in netto svantaggio rispetto a quelli
difensivi. L’obiettivo degli Stati Uniti, dunque, era quello di raggiungere un accordo tale da congelare la produzione dei vettori offensivi, dal momento che i tagli alla difesa,
comunque, impedivano un incremento dei propri. Dal punto di vista delle armi difensive, invece, qualsiasi limitazione avrebbe danneggiato unilateralmente i sovietici, data la
superiorità americana.42
5. Il conflitto sino-sovietico e l’atteggiamento americano
Il 2 marzo del 1969, soldati cinesi e guardie di frontiera russe si scontrarono presso
l’isola di Zhenbao/Damansky, al centro del fiume Ussuri, che scorre tra il territorio cinese in Manciuria e quello russo nella regione di Sihote-Alin’. Questo episodio diede
40
Document 8: Their First “One-on-One”: Dobrynin’s Record of Meeting with Kissinger, February 21,
1969, pp. 20-25, in W. BURR, ed., National Security Archive Electronic Briefing Book No. 233, postedNovember 2, 2007, in http://www2.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB233/index.htm.
41
KISSINGER, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 419.
42
Cfr. H.A. KISSINGER, L’arte della diplomazia, Milano, Sperling Paperback, 2004, p. 582.
180
Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger
seguito a un’escalation militare per tutto il corso del 1969. Tale rivalità costituiva la
manifestazione di una frattura latente nel blocco comunista, considerato monolitico dagli occidentali. La breccia nelle relazioni sino-sovietiche aveva radici negli anni Cinquanta quando, dopo la morte di Stalin, Mao Zedong giudicò negativamente la politica
di destalinizzazione inaugurata da Kruscev. Da allora in poi, la Cina accrebbe la diffidenza nei confronti dell’alleato, sia dal punto di vista ideologico, sia da quello politico.
Nel 1962, per esempio, Mosca negò il proprio supporto a Pechino nella questione degli
scontri sul confine sino-indiano, invocando la neutralità in nome della coesistenza competitiva. Il rifiuto fu interpretato dai cinesi come un tradimento dell’ideologia comunista.43 Secondo Kissinger, questo progressivo deterioramento dei rapporti sino-sovietici
si configurava come «una lotta per l’esistenza».44
Le preoccupazioni sovietiche per gli incidenti sul fiume Ussuri erano profonde, tanto
che l’11 marzo Dobrynin riferì l’episodio a Kissinger. Egli mise in risalto gli aspetti più
cruenti degli scontri, addossandone la responsabilità ai cinesi; era interessato soprattutto
a conoscere le opinioni e le eventuali reazioni americane in merito. Kissinger si mostrò
distaccato rispetto alla questione e affermò che gli Stati Uniti erano e rimanevano estranei agli affari bilaterali legati al confine sino-sovietico. In realtà, il consigliere americano era tutt’altro che indifferente, non perché gli stesse a cuore una zona così remota
dell’Estremo Oriente, ma in ragione della concitazione dell’ambasciatore sovietico nel
parlarne. Discorrendo al telefono con il presidente, egli sottolineò che anche il fatto
stesso che Dobrynin avesse riferito la vicenda nel contesto di un incontro a così alto livello faceva nascere il sospetto dell’importanza strategica della questione.45 Tale ipotesi
fu confermata dalle successive operazioni di propaganda sovietica finalizzata a isolare
la Cina nell’ambito dei paesi comunisti: l’appello agli alleati del patto di Varsavia per
condannare l’atteggiamento cinese, l’inclusione della Cina nell’elenco dei paesi avversari dell’Unione Sovietica, la proposta di costituire un sistema di sicurezza collettiva in
43
Cfr. ID., Cina, Milano, Mondadori, 2011, pp. 149-200.
Ibid., p. 158.
45
Cfr. Nixon Presidential Material Project, National Security Council Files, Box 489.
Dobrynin/Kissinger 1969 (Part I), Nixon and Kissinger, 11 March 1969, c. 10:00 p.m., p. 4, in W. BURR T. BLANTON, eds., National Security Archive Electronic Briefing Book No. 123, posted May 26, 2004, p.
4.
44
181
Sabrina Sergi
Asia. In maniera parallela, Mosca continuava le offensive militari, tanto che nel mese di
giugno il conflitto si estese anche al confine sino-sovietico occidentale, tra la regione
dello Xinjiang e l’attuale Kazakistan.
Quando Allen Whiting della Rand Corporation presentò a Kissinger uno studio strategico sugli scontri di giugno, il consigliere notò che essi si erano svolti in zone vicine
alle basi di rifornimento russe e non cinesi. Kissinger valutò tale situazione come un
“problema e un’opportunità” per gli Stati Uniti. L’eventuale invasione sovietica della
Cina avrebbe sconvolto l’equilibrio globale e allo stesso tempo l’intervento americano
si prospettava difficile, sia per l’ideologia comunista del paese, sia perché non intercorreva alcun rapporto diplomatico con esso. D’altro canto, la necessità cinese di rompere
l’isolamento diplomatico si presentava come un’occasione per gli Stati Uniti di instaurare un dialogo con Pechino, frenando, di conseguenza, l’aggressività sovietica.46 Nel tentativo di risolvere il dilemma, ai primi di luglio Kissinger diramò un memorandum ai
segretari di stato e alla difesa e al direttore della CIA, nel quale chiedeva di considerare
le implicazioni della rivalità tra i due paesi comunisti «sul triangolo costituito dagli Stati
Uniti, dai sovietici e dai cinesi».47 Tali valutazioni si sarebbero dovute basare, oltre che
sul rapporto Whiting, anche su quello di William Hyland, membro dell’NSC Staff. In
esso venivano esposte le due possibili politiche che gli Stati Uniti avrebbero potuto scegliere: l’imparzialità, che avrebbe potuto essere interpretata dai cinesi come collusione
con i sovietici; la parzialità verso la Cina, che al contrario avrebbe permesso di esercitare pressioni sull’Unione Sovietica e di prevenire uno sbilanciamento dell’equilibrio asiatico. Le conclusioni di Hyland, però, indicavano che un’eventuale guerra circoscritta
russo-cinese sarebbe stata «tutt’altro che un disastro per gli Stati Uniti, rappresentando
anzi una soluzione al problema nucleare cinese».48
46
Cfr. KISSINGER, Cina, cit., pp.197-199; ID., Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 155.
H.A. KISSINGER, National Security Study Memorandum 63, July 3, 1969, U.S. Policy on Current SinoSoviet Differences, in National Security Council Institutional Files, Box H-207, in
http://www.nixonlibrary.gov/virtuallibrary/documents/nssm/nssm_063.
48
Memorandum from William Hyland of the National Security Council Staff to the President’s Assistant
for National Security Affairs (Kissinger), Document 27, August 26, 1969, in FRUS, 1969-1976, vol. XVII,
China 1969-1972, Washington, D.C., U.S. Government Printing Office, 2006, p. 71.
47
182
Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger
Alla fine, la strada scelta da Nixon fu quella della neutralità, con una propensione
verso la Cina. Le considerazioni che portarono a tale scelta furono sostanzialmente geopolitiche: infatti, Kissinger, in qualità di consigliere alla sicurezza nazionale, affermò
che in quella situazione «la scelta più logica risultava quella di appoggiare il più debole
contro il più forte».49 Inoltre, il presidente era del parere che l’eventuale fine della Cina
in un conflitto sino-sovietico non rientrava comunque negli interessi strategici americani. Secondo Kissinger, asserire che l’interesse nazionale americano si fondava sulla sopravvivenza di uno dei più importanti paesi comunisti, con il quale non si avevano rapporti diplomatici da quasi vent’anni, segnava una svolta “rivoluzionaria” nella politica
estera degli Stati Uniti.50
Il 20 ottobre, pochi mesi dopo l’inasprimento delle tensioni russo-cinesi, il canale
Kissinger-Dobrynin diede i primi risultati. L’ambasciatore sovietico annunciò che il
proprio governo suggeriva di aprire i negoziati SALT il 17 novembre successivo, a Helsinki. Egli aggiungeva alla propria dichiarazione la lettura dell’aide mémoire stilato dal
suo governo, nel quale ammoniva gli americani a non sostenere alcun genere di riavvicinamento sino-americano:
«Se negli Stati Uniti vi fosse la tentazione di trarre profitto dalle relazioni sino-sovietiche a spese dell’Unione Sovietica, […] allora noi
vogliamo avvisare subito e in maniera molto franca che questa linea di
condotta […] non è in alcun modo coerente con l’obiettivo del miglio51
ramento delle relazioni con l’Unione Sovietica».
Secondo Kissinger, queste parole erano il chiaro segnale che la proposta sovietica fosse
un espediente per aumentare l’isolamento della Cina, sfruttando l’apparente collusione
russo-americana.52
49
Minutes of the Senior Review Group Meeting, Document 36, Washington, September 25, 1969, ibid., p.
94.
50
Cfr. KISSINGER, Cina, cit., p. 199.
51
Memorandum of Conversation, Document 93, Washington, October 20, 1969, in FRUS, VOL. XII, Soviet Union, January 1969-October 1970, Washington, D.C., U.S. Government Printing Office, 2006, p.
285.
52
Cfr. KISSINGER, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 143.
183
Sabrina Sergi
6. L’apertura alla Cina come incentivo alla distensione
La decisione di promuovere un nuovo approccio diplomatico tra gli Stati Uniti e la Cina
venne messa in pratica in due modi: il primo, più duraturo e proficuo, fu quello esterno
ai canali ufficiali, tramite la mediazione di altri paesi; il secondo coinvolgeva la diplomazia ufficiale, a Varsavia, già sede di centotrentaquattro inconcludenti incontri dal
1958.53
Nel corso dell’estate 1969, Nixon aveva intrapreso un viaggio intorno al mondo. Il
presidente aveva colto tale occasione per cercare di stabilire dei contatti con i leaders
cinesi, avvalendosi della mediazione del presidente rumeno Nicolae Ceausescu e di
quello pakistano Yahya Khan. Per guadagnarsi la fiducia di Pechino, egli smentì qualsiasi ipotesi circa un tacito condominio russo-americano. La manifestazione di buona fede
fu seguita da un atto concreto, ossia il ritiro di un pattugliamento permanente presso
l’isola di Taiwan. La gestione dei canali segreti, dei quali quello pakistano risultò essere
il più produttivo, fu affidata a Kissinger, il quale svolgeva periodici incontri con
l’ambasciatore Agha Hilaly. Il consigliere, inoltre, aveva esortato l’ambasciatore americano a Varsavia, Walter Stoessel, a ristabilire dei contatti con l’incaricato d’affari cinese
in Polonia, Lei Yang.54 La sinergia dei due canali produsse un primo incontro ufficiale
tra Stoessel e Lei, il 20 gennaio 1970: il primo ribadì le rassicurazioni circa i rapporti
russo-americani, esplicitando la volontà del governo di stabilire rapporti diplomatici ad
alto livello, attraverso l’invio o la ricezione di un rappresentante del governo nelle rispettive capitali; la posizione cinese formulava la medesima proposta.55
La mattina di quello stesso 20 gennaio, Dobrynin chiese la fissazione di un nuovo
appuntamento con Kissinger, per riferirgli alcune questioni impellenti; gli premeva conoscere ciò che stava avvenendo a Varsavia. Quando il consigliere americano gli rispose che non era ancora pervenuto alcun rapporto scritto, l’ambasciatore sovietico insistette chiedendo che qualche informazione gli fosse riferita, almeno oralmente, da lui stesso. Kissinger, a questo punto, affermò che tale argomento esulava da quelli legati al ca-
53
Cfr. ID., Cina, cit., p. 148.
Cfr. ID., Gli anni della Casa Bianca, cit., pp. 157-164.
55
Cfr. ibid., pp. 553-554; ID., Cina, cit., p. 204.
54
184
Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger
nale segreto. Dobrynin, allora, riprese il discorso sulla problematicità della questione
cinese per i sovietici, definendola un “punto nevralgico”. Oltre a ciò, egli riprese la questione dei colloqui SALT, giunti a una fase di stallo il mese precedente, proponendo di
riaprire i negoziati la successiva primavera.56 L’atteggiamento del legato russo svelava i
timori sovietici per l’avvicinamento sino-americano, benché proprio questo li rendesse
più vulnerabili agli occhi degli Stati Uniti.
Entrambe le questioni rimasero in sospeso per alcuni mesi, a causa delle azioni americane in Vietnam, che videro l’estensione del conflitto nel territorio cambogiano;
quest’intervento segnò la chiusura definitiva del canale di Varsavia. L’esito positivo di
alcune crisi, occorse nel mese di settembre in Giordania e a Cienfuegos, contribuì comunque a migliorare la posizione internazionale degli Stati Uniti.
La fine dei colloqui d’ambasciata non coincise con la conclusione dei contatti sinoamericani: la loro prosecuzione fu garantita dal canale pakistano. Il 25 ottobre 1970, infatti, Nixon incontrò il presidente Yahya nello Studio Ovale, avanzando l’ipotesi di inviare un rappresentante americano a Pechino per instaurare dei contatti segreti.57 Due
mesi dopo, l’ambasciatore Hilaly riferì il messaggio affermativo del primo ministro cinese Zhou Enlai; ancora una volta, alle buone intenzioni seguirono atti concreti, come le
liberalizzazioni nei confronti del commercio cinese. Anche Pechino teneva a dimostrare
la propria buona fede e lo fece nell’aprile del 1971, invitando la squadra americana di
ping-pong nel proprio paese.58 Gli indugi vennero definitivamente rotti quando Zhou rivolse un invito diretto al presidente degli Stati Uniti o, in alternativa, ad un suo delegato, specificando il nome di Kissinger.59 Nixon decise, così, di organizzare un incontro
preliminare segreto con i cinesi, inviando il proprio consigliere alla sicurezza nazionale,
che avrebbe preparato il terreno per il vertice pubblico.
56
Cfr. Memorandum of Conversation, Document 118, January 20, 1970, Washington, in FRUS, vol. XII,
cit., p. 355.
57
Cfr. Memorandum of Conversation, Document 90, Washington, October 25, 1970, in FRUS, 1969-1976,
vol. E-7, Documents on South Asia, 1969-1972, Washington, U.S. Government Printing Office, 2005, pp.
1-3.
58
Cfr. KISSINGER, Cina, cit., pp. 210-212.
59
Cfr. Message from the Premier of the People’s Republic of China Chu En-Lai to President Nixon, Document 118, Beijing, April 21, 1971, in FRUS, China, 1969-1972, vol. XVII, cit., pp. 300-301.
185
Sabrina Sergi
Nel frattempo, le trattative SALT contestuali al filo diretto avevano portato l’Unione
Sovietica ad accogliere la proposta di negoziare simultaneamente tanto gli armamenti
offensivi, che quelli difensivi. Nel corso delle sedute ufficiali, però, il negoziatore russo,
Vladimir Semenov, aveva insistito nel proporre una bozza che anteponeva l’accordo
sulle seconde rispetto a quello sulle prime. Dopo un iniziale inasprimento dei toni, Dobrynin rassicurò Kissinger riguardo all’accordo raggiunto in sede collaterale, fissando
insieme a lui la data dell’annuncio ufficiale al 20 maggio. La conferma di tale accordo
attraverso la firma sarebbe dovuta avvenire nell’ambito di un incontro al vertice, per il
quale i sovietici continuarono a temporeggiare per tutto il corso del mese successivo. Il
5 luglio fu inviata una nota tramite il sostituto di Dobrynin, nella quale si dichiarava
sfumata l’eventualità di un incontro al vertice per l’autunno successivo e si annunciava
una serie di condizioni alle quali essa poteva rimanere ancora legata.60
Al momento della ricezione della nota sovietica, Kissinger si trovava a Bangkok, una
delle tappe asiatiche del suo giro del mondo. Pochi giorni dopo, si diresse in Pakistan,
dove, con la complicità del presidente Yahya, si sottrasse ai pubblici incontri per due
giorni, giustificando la sua assenza con motivi di salute. In realtà, insieme a un ristretto
gruppo di collaboratori, egli si era messo in volo per Pechino: il 9 luglio 1970, il consigliere alla sicurezza nazionale fu il primo funzionario americano ad avere un colloquio
con uno dei più importanti leaders cinesi, dopo più di vent’anni di ostilità tra i due paesi.61 L’incontro tra Zhou e Kissinger ebbe successo: infatti, fu coronato dalla redazione
di un comunicato congiunto riguardante l’annuncio ufficiale dell’invito cinese al presidente americano. Il 15 luglio, Nixon svelò al mondo l’incontro segreto avvenuto tra il
proprio consigliere e il primo ministro cinese e annunciò la «normalizzazione dei rapporti tra i due paesi».62
Due giorni dopo la sconvolgente dichiarazione americana, Dobrynin inviò al proprio
ministro degli esteri un cablogramma definito “urgente”. Egli dichiarava che la concordia sino-americana influenzava significativamente contesti geopolitici quali il Sudest asiatico, l’Estremo Oriente, ma, soprattutto,
60
Cfr. KISSINGER, Gli anni della Casa Bianca, cit., pp. 642-663.
Cfr. ibid., pp. 587-591.
62
Ibid., p. 607.
61
186
Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger
«la relazione triangolare tra l’Unione Sovietica, la Cina e gli Stati Uniti. […] Dobbiamo continuare […] ad utilizzare tutti i fattori oggettivi e
soggettivi che determinano l’interesse americano a sviluppare relazioni con l’Unione Sovietica, tenendo sotto controllo la possibilità che la
costruzione della relazione con Pechino, da parte degli Stati Uniti, non
63
scivoli verso il comune sentimento dell’anti-sovietismo».
Gli Stati Uniti avevano realizzato l’essenza della strategia triangolare, ponendosi al
centro di un sistema nel quale gli altri due membri si contendevano la partnership americana. Il primo risultato positivo che seguì l’apertura alla Cina fu l’ammorbidimento
delle posizioni sovietiche nella questione di Berlino. Mosca accettò il principio del legame tra la città e la Repubblica Federale Tedesca, fino ad allora negato ed ampiamente
osteggiato.
Il 10 agosto, i russi invitarono formalmente Nixon a visitare Mosca in una data compresa tra maggio e giugno del 1972; gli americani accettarono l’invito una settimana
dopo. Ad ogni modo, i cinesi li avevano preceduti e la storica visita del presidente americano in Cina ebbe luogo nel mese di febbraio.
In occasione del vertice di Mosca, finalmente furono firmati gli accordi SALT. Essi
prevedevano il congelamento bipartisan delle armi offensive e la limitazione della costruzione di sistemi ABM alle sole rispettive capitali. Inoltre, fu redatta la dichiarazione
intitolata “Princìpi fondamentali delle relazioni fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica”,
che sanciva il valore internazionale della coesistenza pacifica, in nome della quale seguì
poi una serie di aperture economiche e scambi commerciali tra Unione Sovietica e Stati
Uniti.64
7. Kissinger, moderno Metternich?
All’indomani dell’annuncio ufficiale del viaggio segreto di Kissinger in Cina, le attenzioni della stampa americana si concentrarono sulla personalità del consigliere del presidente. Numerosi settimanali gli dedicarono articoli, definendolo «il Metternich dei
63
Documents 177-180: The American and the Chinese Will Intensify their Game: Dobrynin Cable on
U.S.-China Rapprochement and Kissinger and Dobrynin Records of Meeting, 19 July, 1971, pp. 401-414,
in W. BURR, ed., National Security Archive Electronic Briefing Book No. 233, posted-November 2, 2007,
in http://www2.gwu.edu/~nasarchiv/NSAEBB/NSAEBB233/7-71%20China.pdf.
64
Cfr. DI NOLFO, Storia delle relazioni internazionali, cit., pp. 1167-1170.
187
Sabrina Sergi
giorni nostri».65 In un’intervista rilasciata alla giornalista italiana Oriana Fallaci, che lo
aveva paragonato al consigliere fiorentino Niccolò Machiavelli, egli precisò:
«La gente mi associa piuttosto al nome di Metternich. Il che è addirittura infantile. Su Metternich io ho scritto soltanto un libro […]. Non
può esserci nulla in comune tra me e Metternich. […] Come si può pa66
ragonare ciò al mondo d’oggi?».
Walter Isaacson, che ha dedicato a Kissinger una biografia, ha aggiunto che costui
aveva dichiarato più volte che il ministro austriaco non era di certo il suo “eroe”.67 Secondo il biografo, però, l’opera Diplomazia della Restaurazione conterrebbe le premesse del realismo politico di Kissinger, oltre che le sue convinzioni sull’arte del governo.
Egli ha sostenuto che molte descrizioni relative ai metodi diplomatici di Metternich potrebbero essere correlate ad alcune condotte assunte durante la sua carriera di politico.68
Lo storico Jussi Hanhimäki è giunto alle stesse conclusioni al riguardo, affermando
che l’opera di Metternich racchiuderebbe i fondamenti del realismo kissingeriano. In
particolare, egli li ha identificati nel primato della geopolitica, nel concetto
dell’equilibrio delle potenze, ma anche nella manipolazione delle relazioni internazionali da parte di un ristretto numero di diplomatici.69
Lo storico italiano Mario Del Pero è dell’opinione che la tesi di Kissinger sia stata il
primo passo verso un’“auto-rappresentazione”, attraverso la quale costui avrebbe delineato la propria immagine di realista, utile prima nell’ambiente accademico e, poi, in
quello politico. L’analisi dell’Europa del diciannovesimo secolo, quindi, era stata un
mezzo per lanciare un messaggio all’America contemporanea, indicando «quali possibilità si aprono allo statista, laddove egli conosca codici e regole […] del sistema internazionale e della politica di potenza».70 In effetti, lo stesso Kissinger, in un passo di Di-
65
Tra le riviste più celebri, «Time», «Newsweek», «U.S. News and World Report». Cfr. J. HANHIMÄKI,
The Flawed Architect: Henry Kissinger and American Foreign Policy, New York, Oxford University
Press, 2004, p. 144.
66
O. FALLACI, Intervista con la storia, Milano, Rizzoli, 2011, p. 39.
67
Cfr. W. ISAACSON, Kissinger: A Biography, London, Faber and Faber, 1992, p. 77.
68
Cfr. ibid., pp. 75-76.
69
Cfr. HANHIMÄKI, The Flawed Architect, cit., p. 7.
70
M. DEL PERO, Henry Kissinger e l’ascesa dei neoconservatori. Alle origini della politica estera americana, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 42.
188
Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger
plomazia della Restaurazione, aveva precisato che «i filosofi possono discutere e polemizzare sulla statura morale della politica di Metternich, ma gli statisti non possono che
studiarla con profitto».71 Nel periodo in cui scrisse tali parole, non poteva sapere che un
giorno egli stesso si sarebbe aggiunto alla schiera di quegli statisti.
John Lewis Gaddis ha stabilito un collegamento tra le opinioni di Kissinger in Diplomazia della Restaurazione e il suo operato politico di consigliere alla sicurezza nazionale dell’amministrazione Nixon, nel raggiungimento dell’obiettivo della distensione. In particolare, egli ha paragonato l’equilibrio del potere raggiunto dopo il 1815, che
previde l’inclusione di tutti i membri del panorama internazionale, con quello del 1975,
che legittimò tanto l’Unione Sovietica, quanto la Cina. Alla base di tale parallelismo, vi
sarebbe il principio del consenso di tutti i membri interessati alla sopravvivenza di un
determinato sistema internazionale concordato, escludendo il ricorso a conflitti
allargati.72
Nel presente saggio, comunque, si è tentato di approfondire un particolare aspetto
strategico che ha accomunato le politiche di Metternich a quelle di Kissinger, ovvero la
diplomazia triangolare. Entrambi gli statisti si trovarono nelle condizioni di includere
degli alleati “inaspettati”: la Francia e la Cina. Nel primo caso, il ministro austriaco era
riuscito a scongiurare il rischio di un accomodamento geopolitico foriero di nuovi conflitti grazie all’apertura nei confronti dello stesso Stato che aveva provocato il sovvertimento dell’ordine europeo. La sua strategia fu quella di “usare” la Francia come schermo, per instaurare una politica che inficiasse gli interessi del suo alleato più ingombrante, il regno di Prussia. Essendo, al contempo, indispensabile e pericoloso per gli interessi austriaci, il paese di Federico Guglielmo IV doveva essere isolato e portato a credere
che un’alleanza con l’Austria fosse la migliore politica perseguibile. La mossa di Metternich, che segnò il ritorno della Francia sulla bilancia dell’equilibrio europeo, permise
all’impero di Francesco I di porsi al centro di un sistema attrattivo tanto per la Francia,
quanto per la Prussia, entrambe in cerca di legittimazione.
71
KISSINGER, Diplomazia della Restaurazione, cit., p. 95.
Cfr. J.L. GADDIS, Rescuing Choice from Circumstance: The Statecraft of Henry Kissinger, in G.A.
CRAIG - F.L. LOEWENHEIM, ed., The Diplomats 1939-1979, Princeton, NJ, Princeton University Press,
1994, p. 575.
72
189
Sabrina Sergi
Nel secondo caso, Kissinger sfruttò l’inaspettata frattura sino-sovietica per dare una
svolta al rigido sistema bipolare. Anche per il consigliere americano si trattava di includere nella propria orbita un paese che fino ad allora era stato considerato nemico e ostile. Indipendentemente dalla differenza ideologica, Kissinger valutò che l’avvicinamento
alla Cina rappresentasse un incentivo per ammansire i sovietici riguardo alla necessità di
raggiungere un accordo distensivo. In questo caso, anche gli Stati Uniti si posero come
il fulcro di un sistema attorno al quale ruotavano l’Unione Sovietica e la Cina, creando
una situazione nella quale i due ex-alleati comunisti gareggiavano per ottenere il consenso del paese considerato come il maggior rappresentante del capitalismo.
È possibile cogliere alcuni ulteriori elementi che hanno accomunato i due statisti,
lungi dall’azzardare improbabili e forzati paragoni. Entrambi si ritrovarono al governo
in un momento in cui la coesione interna del proprio paese era corrosa da una congiuntura storica critica. L’Austria del 1815 era un impero multietnico, sopravvissuto alle
guerre napoleoniche che avevano contribuito a diffondere il pensiero rivoluzionario. Gli
Stati Uniti del 1970 erano una democrazia in crisi di coscienza, i cui vertici decisionali
non trovavano più il largo consenso di cui avevano goduto nei decenni precedenti, a
causa del dibattito scatenato dalla guerra del Vietnam. Entrambi gli Stati, quindi, dovevano affrontare un mondo in trasformazione, partendo da una posizione di debolezza interna, ed erano alla ricerca di una politica che potesse restituire il senso di sicurezza
perduto. Sia a Metternich, che a Kissinger era stato affidato il compito di affiancare e
consigliare i rispettivi capi di stato nella gestione di tale situazione, considerando la posizione internazionale del proprio paese.
La capacità di collegare diversi eventi tra loro, l’abilità di tessere una rete diplomatica complessa, la solidità dell’obiettivo da perseguire, ossia l’interesse nazionale, nonché
la flessibilità della strategia rispetto al mutamento delle circostanze, sono altre caratteristiche che hanno accomunato i due statisti. In generale, esse rientrano nell’approccio realista attraverso il quale i due consiglieri hanno portato avanti le loro strategie, insieme
all’attenzione per la geopolitica e all’analisi dei rapporti di forza tra gli Stati.
Un’altra peculiarità condivisa è sicuramente la prudenza rispetto all’uso della forza e
il ricorso massiccio al negoziato, anche attraverso metodi non convenzionali. In partico-
190
Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger
lare, lo strumento della diplomazia segreta è uno degli elementi che più risalta tra gli
svariati modi operandi dei due statisti.73 Se, nel contesto storico nel quale viveva Metternich, tale atteggiamento poteva suscitare l’ira di qualche sovrano insoddisfatto, negli
Stati Uniti del XX secolo tale strumento risultava anacronistico nonché immorale.74 Eppure esso è stato il mezzo, tanto per Metternich quanto per Kissinger, che ha costituito
la chiave di volta di tutta un’intera strategia politica. L’approccio diretto con
l’avversario ha implicato, infatti, l’addizione del fattore umano-emotivo al novero delle
possibilità da considerare in merito alla migliore scelta da effettuare. Esso ha contribuito
a una conoscenza più approfondita delle intenzioni nemiche. Metternich ha potuto giocare la carta dell’irrequietezza di Hardenberg nella questione sassone e, allo stesso tempo, ha potuto cogliere la propensione francese verso l’Austria, mentre Kissinger ha intuito le preoccupazioni sovietiche nei confronti di un eventuale appeasement sinoamericano nel corso dei colloqui con Dobrynin.
Sia Metternich, che Kissinger hanno saputo rispondere alla trasformazione delle circostanze adattandovi la propria strategia in maniera vincente e hanno messo da parte le
crociate ideologiche, pur di raggiungere il proprio obiettivo, coincidente con l’interesse
nazionale. Entrambi gli statisti, inoltre, non hanno mai perso di vista il contesto mondiale di riferimento, ponendo quale presupposto della stabilità interna l’ordine e
l’equilibrio internazionali.
73
«La “via confidenziale” [nel contesto del congresso di Vienna] sembra sia stata un’idea di Metternich».
FERRERO, Ricostruzione. Talleyrand a Vienna (1814-1815), cit., p. 200.
74
Prima di Kissinger, il ricorso alla diplomazia segreta negli Stati Uniti è stata registrata durante due sole
presidenze, quella di George Washington e quella di John F. Kennedy, quale misura di emergenza. Cfr.
HANHIMÄKI, The Flawed Architect, cit., p. 34. Inoltre, l’art. 102, par. 1 della Carta dell’ONU, ispirato a
uno dei quattordici punti propugnati dal presidente americano Woodrow Wilson, rende ufficiale la condanna di tale immorale consuetudine internazionale in favore di una diplomazia aperta. Cfr. S. MARCHISIO, L’Onu. Il diritto delle Nazioni Unite, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 305.
191
NOTE E DISCUSSIONI
Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali
Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 195-211
e-ISSN 2280-8949
DOI 10.1285/i22808949a3n1p195
http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento
MICHELE CARDUCCI
Sull’ipotesi di istituzione di una corte costituzionale internazionale:
per il “diritto alla democrazia” e la tutela contro i mutamenti incostituzionali
Abstract: The article analyzes the proposal to institutionalize an International Constitutional Court, developed by the African Union Heads of State Summit and introduced to the General Assembly of the United Nations. The initiative is based on two very important elements for the future of constitutionalism: the
recognition of a human right to democracy as a right for participation and social inclusion; the judicial
review on the basis of international standards and constitutional changes within the States. In this perspective, the existence of an International Constitutional Court should also avoid the interference of any
State in the domestic affairs of another State, justified by abstract democratic values.
Keywords: International Constitutional Court; right to democracy; unconstitutional changes; universal
protection.
1. Premessa
Il 28 gennaio 2013, la ventesima conferenza dei capi di stato e di governo dell’Unione
africana, su impulso della Tunisia, ha formalizzato la richiesta d’istituzione di una corte
costituzionale internazionale sotto l’egida dell’ONU. 1 Più precisamente, la conferenza ha
incaricato la commissione sul diritto internazionale della stessa Unione (l’AUCIL) a impostare i contenuti di una risoluzione da far votare in una successiva riunione, per poi
trasmetterla al segretario generale dell’ONU e permetterne l’inserimento all’ordine del
giorno della sessantanovesima sessione dell’assemblea generale, programmata per settembre 2014, con la qualificazione della corte costituzionale come nuovo organo
dell’ONU ai sensi dell’art. 22 dello statuto. Già nel corso della sessione del settembre
2012, il presidente della Repubblica di Tunisia, Mohamed Moncef Marzouki, ne aveva
preannunciato l’avvio, con un suo intervento in assemblea generale, al quale egli stesso
ha fatto seguire, nel maggio 2013, un congresso internazionale di diritto costituzionale
tenutosi sempre in Tunisia, a Cartagine, per verificare limiti e potenzialità di questo
possibile strumento di giustizia costituzionale universale, nel confronto, tra l’altro, con
1
Cfr. doc. Assembly/AU/12 (XX) Add.1.
Michele Carducci
gli obiettivi dell’Agenda post 2015 che l’ONU vorrebbe attivare anche sul fronte del rafforzamento globale dello Stato di diritto.
La proposta di risoluzione, che dovrebbe preludere al percorso istitutivo del nuovo
organo, fonda l’istanza su una serie di riferimenti normativi, così di seguito sintetizzabili: esistenza di un impegno formale universale di tutti gli Stati aderenti alle Nazioni Unite a rispettare i valori universali della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti umani, sanciti negli strumenti internazionali, sulla base del principio di buona fede; accettazione del principio dell’autodeterminazione dei popoli; richiamo al patto internazionale
sui diritti civili e politici, alla convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne e alla convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le
forme di discriminazione razziale, come fonti di legittimazione di una partecipazione
democratica inclusiva e paritaria, da garantire attraverso meccanismi di contenzioso universale e uguale per tutti i cittadini e le associazioni politiche e sociali degli Stati.
L’iniziativa, pertanto, presenta la significativa caratteristica di collegare l’idea di una
corte costituzionale internazionale non tanto (o non solo) al rafforzamento unitario della
tutela dei diritti umani come situazioni soggettive individuali e collettive, né certamente
all’attribuzione di una specifica potestà di “interferenza” interstatale, bensì alla garanzia
della democrazia come forma di governo universalmente riconosciuta nei suoi caratteri
distintivi a base della pace tra i popoli e tra gli individui e come tale tutelabile in modo
unitario da un unico organo internazionale ad accesso plurale e non solo statale. Non a
caso, il documento evoca precedenti risoluzioni ONU in tema di consolidamento delle
nuove o ripristinate democrazie, come le nn. 64/155 del 18 dicembre 2009 e 66/163 del
19 dicembre 2011.
In questa sede, si vogliono richiamare alcuni spunti di tale inedita prospettiva, nella
presa d’atto della disattenzione generale che la dottrina costituzionalistica italiana ha
mostrato verso questo coraggioso esperimento: esperimento tutto di origine e ispirazione africane e proprio per questo ancor più degno di nota, perché sposta l’asse del dibattito sul costituzionalismo globale dalla dimensione, non poche volte retorica e ridondante,
del cosiddetto “dialogo” tra i giudici, incentrato esclusivamente sulla tutela dei diritti
umani di contenuto individuale e marginalmente influente sulle forme politiche di con-
196
Sull’ipotesi di istituzione di una corte costituzionale internazionale
vivenza dei singoli contesti statali, alla dimensione della giustiziabilità, unica e universale, delle prassi democratiche di partecipazione deliberativa e di inclusione sociale, al
fine di costruire un vero e proprio “diritto alla democrazia” come accesso unico e uniforme alla giustizia per l’effettività di tutti i diritti umani, a partire da quelli politici. 2
Nel 1999, proprio Mohamed Moncef Marzouki aveva pubblicato, sul quotidiano
francese «Liberation», un articolo in cui suggeriva l’attivazione di meccanismi giudiziari internazionali di tutela costituzionale delle giovani democrazie. Nel 2006, il professore tunisino Yadh Ben Achour ha ripreso lo spunto, proponendolo all’attenzione
dell’Accademia Internazionale di diritto costituzionale e consentendo così di arrivare,
nel 2011, all’avvio di un gruppo di lavoro composto, oltre che dallo stesso Yadh Ben
Achour, dai professori Monique Chemillier Gendreau (Francia), Ghazi Gherairi e Ferhat
Horchani (Tunisia), Maurice Kamto (Camerun), Laghmani Slim (Tunisia), Ahmed Mahiou (Algeria), Christian Tomuschat (Germania), incaricati di impostare le basi per la
progettazione di un modello di corte costituzionale internazionale. A seguito di questa
prima istruttoria, si è deciso di istituire un vero e proprio “comitato ad hoc”, coordinato
da Ahmed Ouerfelli, consigliere giuridico del presidente tunisino, con il compito di diffondere, nei dibattiti scientifici nazionali e internazionali, l’idea della corte costituzionale internazionale e definire le linee portanti di un suo possibile statuto.
2
Sul tema del “diritto alla democrazia”, bisogna ricordare il dibattito esistente a livello internazionale,
incentrato su quattro linee di analisi e confronto. La prima è più spiccatamente di natura filosofico-morale
e si può far risalire all’impostazione di J. RAWLS (The Law of Peoples, Cambridge, MA, Harvard
University Press, 1999, specialmente le pp. 77 ss.) e al dibattito suscitato intorno alle sue tesi (A. BERNSTEIN, A Human Right to Democracy? Legitimacy and Intervention, in D. REIDY and R. MARTIN, eds.,
Rawls’s Law of Peoples: A Realistic Utopia?, Oxford, Blackwell, 2006, e A. BUCHANAN, Justice, Legitimacy and Self-Determination: Moral Foundations for International Law, Oxford, Oxford University
Press, 2004, specialmente le pp. 145 ss.). La seconda discute della qualificazione del “diritto alla democrazia” come diritto umano individuale e collettivo eventualmente giustiziabile (J. COHEN, Is There A
Human Right to Democracy?, in CH. SYPNOVICH, ed., The Egalitarian Conscience, Oxford, Oxford University Press, 2006, pp. 226-248; J. NICKEL, ed., Making Sense of Human Rights, Oxford, Blackwell,
2006; J. MANDLE, Global Justice, London, Polity Press, 2006). La terza approfondisce il nesso tra composizione delle istituzioni internazionali e rivendicabilità del “diritto alla democrazia” (D. MILLER, National Responsibility and Global Justice. Oxford, Oxford University Press, 2007, e TH. FRANCK, Fairness
in International Law and Institutions, Oxford, Oxford University Press, 1996). La quarta, infine, distinguendo tra diritto all’autodeterminazione e “diritto alla democrazia”, qualifica quest’ultima come elemento costitutivo del principio di non discriminazione (T. MIKETIAK, Nondiscrimination and the Human
Right to Democracy, in «Gnosis», XII, 1, 2011, pp. 30-40). Si veda anche J.A. GEEVER-OSTROWSKY,
Considering a Human Right to Democracy, Thesis, Georgia State University, 2011,
http://scholarworks.gsu.edu/philosophy_theses/87.
197
Michele Carducci
2. Una corte garante del “diritto alla democrazia”
Come accennato, la corte servirebbe ad attivare un sistema unico ed unitario di accesso
ad una giustizia costituzionale di tutela del “diritto alla democrazia”, inteso sia come diritto formalmente stabilito e sancito in molti strumenti internazionali, tanto universali
quanto regionali, sia come prassi di partecipazione, inclusione sociale e soprattutto non
elusione di tutti i meccanismi di contorno alle deliberazioni democratiche (dal diritto
all’informazione alla tutela delle minoranze e delle opposizioni, alla trasparenza dei finanziamenti, al lobbing, ecc.).
Non sembra, infatti, plausibile predicare una “costituzionalità internazionale”, spesso
riconosciuta anche a livello formale delle “clausole di apertura” di molte costituzioni
verso gli strumenti internazionali di tutela dei diritti umani, che operi asimmetricamente
sul fronte dell’omogeneità degli standard di tutela di quei diritti partecipativi e politici
interni alle procedure di decisione pubblica. Da tale angolo di visuale, il cosiddetto “dialogo” tra i giudici risulta ancora oggi molto poco “cosmopolita”, dato che non solo le
corti costituzionali domestiche, ma anche i giudici internazionali, a partire dalle tre corti
convenzionali sui diritti umani (europea, interamericana e africana), preferiscono “arginare” gli effetti delle loro sentenze sugli assetti domestici delle forme di governo, attraverso tecniche di “contestualizzazione” degli argomenti e delle regole prodotte.
Valgano alcuni esempi: dal richiamo al “margine di apprezzamento” nella giurisprudenza della corte europea dei diritti dell’uomo, 3 alla giustificazione, esplicitamente formalizzata nel caso Gelman vs. Uruguay del 2011, del “controllo di convenzionalità”
sulle procedure deliberative democratiche da parte della corte interamericana dei diritti
umani; 4 dal caso Tanganika Law Society et al. vs. Tanzania, 5 risolto dalla corte africana
3
Anche se il ricorso al “margine di apprezzamento” ha risposto ad esigenze e argomenti diversi nella giurisprudenza CEDU: ora giustificandosi per l’assenza di “concezioni uniformi” o di un “terreno comune” di
confronto fra gli Stati; ora fondandosi sulla presenza, all’interno dello Stato coinvolto, di una “maggioranza politica e ideologica” che racchiude e interpreta l’identità costituzionale di un paese o le sue “tradizioni nazionali”; ora riferendosi alla riscontrabile “razionalità” delle scelte legislative nazionali. Cfr., per
tutti, S. GREER, The Interpretation of the European Convention on Human Rights: Universal Principle or
Margin of Appreciation?, in «UCL Human Rights Review», III, 2010, pp. 1-14.
4
J.M. MOCOROA, Justicia transicional, amnistia y Corte Interamericana de derechos humanos: el caso
“Gelman” y algunas inquietudes, in M. CARDUCCI – P. RIBERI, a cura di, La dinamica delle integrazioni
regionali latinoamericane. Casi e materiali, Torino, Giappichelli, 2014, pp. 88-102. Pertanto, a differenza
198
Sull’ipotesi di istituzione di una corte costituzionale internazionale
dei diritti dell’uomo e dei popoli nel 2013 in base allo specifico contesto del singolo paese, alla decisione della corte suprema messicana n. 82/2001 (decisione di rigetto) sulla
partecipazione delle comunità indigene ai procedimenti di riforma della costituzione. 6
L’apertura universalistica, che la famosa decisione della corte internazionale di giustizia del 1986 (Nicaragua vs. Stati Uniti d’America) sembrava aver tracciato sulla via
dell’affermazione di un principio di “libera scelta del sistema politico, economico e sociale” come vera e propria “autonomia costituzionale” garantita per via giudiziale, 7 non
ha ancora prodotto un’uniformazione di regole e principi a fondamento di un’effettiva
universalizzazione dei contenuti e delle procedure della democrazia a garanzia dei diritti. Eppure gli strumenti internazionali, cui comunque le costituzioni di molti Stati si richiamano e le stesse giurisprudenze “dialoganti” invocano a giustificazione del “dialogo” stesso, sembrerebbero suggerire una declinazione diversa. Basti pensare all’art. 21
della dichiarazione universale dell’ONU e all’art. 25 del patto sui diritti civili e politici.
Proprio per la consapevolezza di questa asimmetria, l’ipotesi di corte costituzionale
internazionale è stata configurata, dagli artefici dell’iniziativa africana, nell’attribuzione
di una duplice funzione, sia preventiva consultiva che successiva giurisdizionale, attivabile da parte non solo degli Stati ma anche di altri componenti della società politica,
come organizzazioni internazionali, ONG, partiti politici, associazioni nazionali e organizzazioni professionali. Se l’obiettivo è quello di universalizzare l’apprendimento delle
prassi, e non solo delle forme, della democrazia in termini di effettiva partecipazione e
del contesto europeo, dove comunque l’“identità costituzionale” di uno Stato è rispettata sia formalmente
(art. 4.2 del Trattato dell’Unione europea) sia sul piano sostanziale degli argomenti da utilizzare nella soluzione del caso concreto (attraverso il ricorso alla tecnica argomentativa del cosiddetto “margine di apprezzamento” da parte della Corte europea dei diritti umani), nel contesto americano, secondo la decisione “Gelman”, «la legittimazione democratica di determinati fatti o atti è limitata dalle norme e dai vincoli
internazionali di protezione dei diritti umani», sicché spetterà comunque al giudice internazionale sancire
la sussistenza di un «vero regime democratico nelle sue caratteristiche formali e sostanziali», dovendo
qualsiasi istanza democratica nazionale, sia rappresentativa che partecipativa e diretta, sottostare comunque alla condizione del «controllo di convenzionalità […], funzione e compito di qualsiasi autorità pubblica, non solo giudiziale».
5
Cfr. V. PIERGIGLI, La corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli giudica sulla violazione dei diritti
di partecipazione politica e delle regole democratiche in Tanzania, in «Federalismi.it», Focus Africa, 6,
2014 pp. 1-17.
6
Cfr. J.A. GONZÁLEZ GALVÁN, La Corte y los indígenas, in «Boletín Mexicano de Derecho Comparado»,
XXXVI, 107, 2003, pp. 725-733.
7
Cfr. M. KAMTO, Constitution et principe de l’autonomie constitutionnelle, in Recueil des cours de
l’Académie internationale de droit constitutionnel, VIII, Tunis, Cedex, 2000, pp. 141-146.
199
Michele Carducci
inclusione, non è ammissibile che l’accesso sia riservato alla sola finzione formale che
contiene quella prassi (lo Stato) e non invece ai suoi attori reali che la vivono e
l’alimentato (cittadini organizzati, partiti, associazioni, ecc.).
La sfida, pertanto, è radicalmente innovativa: dall’ingerenza interstatale sulle questioni costituzionali interne, dichiarata illegittima dalla decisione della corte internazionale di giustizia nel 1986, si passerebbe alla socializzazione del principio di autodeterminazione, attraverso l’accesso diffuso ad un giudice universale della democrazia. Del
resto, in sede giurisdizionale, la corte dovrebbe essere chiamata a verificare le violazioni dei principi e delle regole democratiche all’interno degli Stati, proprio a tutela dei loro attori sociali. Ecco allora che il “diritto alla democrazia”, da semplice autonomia volitiva (ovvero da “autoctonia costituzionale” non condizionata dall’esterno 8), verrebbe
ad essere riconosciuto come vera e propria situazione soggettiva che potremmo definire
“procedimentale”, ossia funzionale alla regolarità e correttezza delle procedure democratiche quali basi universali di qualsiasi altro diritto umano.
Nella ipotesi fatta propria dall’Unione africana, la corte dovrebbe essere composta di
21 giudici eletti dall’assemblea generale delle Nazioni Unite, sulla base di una lista di
persone designate da un collegio composto dai giudici della corte internazionale di giustizia, della corte penale internazionale e dei componenti della commissione di diritto
internazionale. Le norme parametro del suo giudizio si estenderebbero a tutti gli strumenti internazionali, universali e regionali, che riguardano i diritti dell’uomo, in quanto
la prospettiva di tutela e giustiziabilità investirebbe appunto l’effettività di quei diritti
grazie all’effettività delle regole e delle prassi democratiche interne a ciascuno Stato. Le
costituzioni domestiche, dal canto loro, opererebbero da una sorta di norma interposta 9.
Riemergerebbe, in questo modo, quella visione del “diritto costituzionale internazionale” comprensiva delle due anime originarie dei due campi di disciplina: la “tecnica
8
M. HERRERO DE MIÑON, Autoctonía constitucional y poder constituyente, in «Revista de Estudios
Políticos», 169-170, 1970, pp. 79-122.
9
Tra l’altro, è interessante osservare che tale ipotesi sembra essere proprio quella che ispira le disposizioni degli articoli da 20 a 26, in combinato disposto con gli artt. 60 e 61, della Carta africana dei diritti
dell’uomo e dei popoli, nella misura in cui l’“autonomia costituzionale” – come attributo
dell’“autodeterminazione dei popoli” ivi riconosciuta – è coniugata con standard internazionali di tutela
della stessa attraverso i diritti umani.
200
Sull’ipotesi di istituzione di una corte costituzionale internazionale
della libertà” (per il diritto costituzionale) e la “tecnica della pace” (per il diritto internazionale), dove la pace non si traduce nella sola dimensione interstatale “indifferente” alle dimensioni domestiche di convivenza pacifica, ma includa, come avevano intuito le
prime teorizzazioni sul “diritto costituzionale internazionale”, 10 un insieme di regole e
principi comuni sul funzionamento delle istituzioni e sulla limitazione dei poteri dentro
e fuori degli Stati: ossia come difesa internazionale della costituzione e non solo dello
Stato; Verfassungsschutz e non solo Staatsschutz.
3. Un controllo universale sui mutamenti costituzionali incostituzionali, prendendo
spunto dai casi di Honduras e Niger
La funzione garante della corte costituzionale internazionale, così congegnata, non metterebbe in discussione l’infungibilità dei ruoli, sia tra organi che tra atti, all’interno degli
Stati, a partire dal principio della separazione dei poteri. Enfatizzerebbe, al contrario, la
sovranità democraticamente esercitata in una legalità conforme a principi e standard universali, sottesi ai documenti internazionali accolti dalla stragrande maggioranza degli
Stati e così sottratti all’alibi domestico dell’insindacabilità per “questione politica”.
Del resto, che questo compito di “standardizzazione” possa essere affidato a un giudice “materialmente” costituzionale – come l’ipotizzata corte internazionale – è possibilità già accettata da molti Stati all’interno delle loro dinamiche tra legislazione e giurisdizione, in quanto è da tempo in atto un processo di progressivo avvicinamento, in
struttura e funzione, delle due attività, chiamate entrambe a farsi carico dell’“impatto”
nell’esperienza dei rispettivi procedimenti in termini di legittimazione e di tutela dei diritti. Quindi, la promozione di una giurisprudenza costituzionale internazionale mirerebbe prioritariamente non alla “inclusione giurisprudenziale” (come accertamento di
diritti fondamentali negati in qualche contesto nazionale), bensì alla vera e propria “integrazione politica” dei soggetti sociali ormai operanti in tutti i livelli nazionali, regionali o internazionali della mobilitazione politica e sociale (dalle ONG alle associazioni,
ai partiti politici, ecc.).
10
Mi riferisco agli importanti scritti di Y. GOUET, La consuetudine nel diritto costituzionale interno e internazionale (1932), Lecce-Cavallino, Pensa, 2007, e B. MIRKINE-GUETZÉVITCH, Droit Constitutionnel
International, Paris, Librairie du Recueil Sirey, 1933.
201
Michele Carducci
Si spiega da quest’angolo prospettico la circostanza che la proposta provenga proprio
dal contesto africano, dove l’intimo legame tra tutela dei diritti e consolidamento della
democrazia, da presupposto dei processi di integrazione sovranazionale e di dialogo internazionale come avviene in Europa, è assunto invece a obiettivo “diffuso” – ossia rivendicabile da più attori, sia istituzionali che sociali – di accesso al giudice sovranazionale. Ne offrono conferma l’Atto costitutivo dell’Unione africana (in vigore dal 2001,
con gli artt. 3 e 4) e la Carta africana sulla democrazia (in vigore dal 2012, specialmente
con gli artt. 2 e 3). 11 Tuttavia, le implicazioni aperte da questo nuovo scenario non si
limitano alla sola dimensione della tutela del diritto universale alla “integrazione politica”; finiscono con l’investire anche la validità delle costituzioni domestiche dei singoli
Stati, con riguardo specifico agli effetti di “rafforzamento” proprio della loro rigidità
costituzionale e dei limiti al mutamento costituzionale incostituzionale.
È necessaria una spiegazione. La giustiziabilità del “diritto alla democrazia” significa
anche la possibilità di rendere giustiziabili, e quindi affidabili ad argomenti giuridici di
conformità a regole e principi, i temi dei limiti al mutamento riferibili non solo al rispetto dei diritti inviolabili ma anche alla permanenza delle procedure e delle forme di legittimazione del potere, sancite da una costituzione. In genere, questo secondo compito è
sempre rimasto interno alle previsioni di ciascun ordinamento statale, attraverso la codificazione di clausole allo scopo dedicate, ora come “pietrificazione” di una determinata
forma di potere (si pensi alla clausola della “forma repubblicana” sancita dall’art. 139
della costituzione italiana), 12 ora come rivendicazione di specifici diritti soggettivi contro
i
mutamenti
incostituzionali
(come
nel
caso
del
cosiddetto
“diritto
all’insurrezione” 13), ora come limiti “logici” (il puzzle di Alf Ross) o “assiologici” (appunto i diritti “inviolabili”).
Tuttavia, questa tecnica di tutela, anche quando astrattamente giustiziabile, non ha
mai potuto scongiurare la forza del fatto incostituzionale all’interno dell’ordinamento
11
A. MANGU – B. MBATA, African Civil Society and the Promotion of the African Charter on Democracy,
Elections and Governance, in «African Human Rights Law Journal», XII, 2, 2012, pp. 348-372.
12
Sulle clausole di “pietrificazione”, cfr. I. COLOMBO MORÚA, Limites de las reformas constitucionales.
Teoría de las cláusulas pétreas, Buenos Aires, Astrea Depalma, 2011.
13
Cfr. E.A. SÁNCHEZ, El derecho constitucional a la insurrección, in Memoria del X Congreso
iberoamericano de Derecho constitucional, Tomo 2, Lima, Idemsa, 2009, pp. 130-136.
202
Sull’ipotesi di istituzione di una corte costituzionale internazionale
stesso. Lo dimostrano due vicende singolarmente tra loro parallele, ancorché con presupposti costituzionali domestici e sovranazionali internazionali molto diversi: il colpo
di stato in Honduras del 2009, in presenza di una costituzione che, più dettagliatamente
di qualsiasi altra al mondo, “pietrifica” limiti procedimentali e di forma del potere così
come codifica diritti fondamentali di “contrasto” al mutamento incostituzionale, ma in
assenza di una referenza sovranazionale o internazionale di “difesa” di quella costituzione; il colpo di stato in Niger nel 2010, in assenza di una costituzione altrettanto “pietrificata”, ma in presenza di determinati indirizzi sovranazionali e internazionali sulla
“difesa” della costituzione. 14
Con riguardo all’Honduras, ci si riferisce alla destituzione del presidente della repubblica, Manuel Zelaya, consumatasi nel 2009 in (apparente?) applicazione proprio di
specifiche disposizioni costituzionali. La costituzione dell’Honduras, con gli artt. 373,
374 e 375, costruisce un sistema super-rigido e super-“pietrificato” della costituzione,
per le seguenti caratteristiche:
a. impone la revisione formale solo per singoli articoli già inseriti nella stessa costituzione, con deliberazione a maggioranza di due terzi da ripetere per due legislature consecutive differenti (art. 373);
b. impone il divieto, “in qualsiasi caso”, di revisione del procedimento disciplinato,
evitando così il meccanismo della doppia revisione o della deroga/specialità (art.
374);
c. “pietrifica” autoreferenzialmente la previsione sub b, che non potrà “in nessun
caso” essere “riformata” (senza specificare se “modificata” o “abrogata”) (art.
374);
d. “pietrifica” gli articoli costituzionali (senza menzionarli esplicitamente), i cui
contenuti si riferiscono a forma di governo, territorio nazionale, durata del mandato presidenziale, divieto di rielezione presidenziale (art. 374);
e. “pietrifica”, quindi, la vigenza della costituzione intera non solo in caso di “abrogazioni” ma anche di “modificazioni” che procedano in violazione degli arti14
In ogni caso, per una rappresentazione delle diverse concettualizzazioni della “difesa” della Costituzione, cfr. P. COSTA, Gli istituti di difesa della Costituzione, Milano, Giuffrè, 2012.
203
Michele Carducci
coli prima indicati, aggiungendovi anche i casi di qualsiasi altra “modalità” non
contemplata dalle disposizioni precedenti, sia di tipo “formale” che “informale”,
come “atti di forza” e “qualsiasi altro mezzo o procedimento distinto da quelli
disposti dalla stessa costituzione” (art. 375);
f. non “pietrifica” contenuti sostantivi sui diritti o le loro garanzie, ma solo contenuti e procedimenti relativi alla competenza, sia essa “formale” che “informale”,
sia essa riferita alla “abrogazione” che alla “riforma”.
Si tratta, come si può vedere, di un sistema di disposizioni che racchiude tutte le tipologie di “irrigidimento” e “pietrificazione”, riscontrabili in altre esperienze di scrittura costituzionale. Del resto, esso impone:
-
la non riformabilità per modalità e casi non esplicitamente previsti;
-
la non modificabilità di una serie di articoli su assetti di funzioni e competenze;
-
l’inviolabilità di una serie di contenuti relativi a quegli assetti di funzioni e competenze;
-
l’irrevocabilità di alcune disposizioni;
-
la tassatività delle competenze, formali e informali, di riforma o abrogazione.
Inoltre, l’art. 375 prevede pure che, in caso di violazione di queste “pietrificazioni”,
qualsiasi cittadino, anche se “non investito di autorità”, sia chiamato a “collaborare al
mantenimento o ristabilimento della vigenza” della costituzione violata, mentre i “responsabili dei fatti” produttivi di tale violazione, potranno essere deferiti davanti alle
autorità giudiziarie ricostituire per rispondere dell’illecito costituzionale di “usurpazione
dei poteri pubblici”. Sembrerebbe la quadratura del cerchio sul tema dei limiti formali e
materiali al mutamento, estesi – tali limiti – dalle rigidità procedimentali alla “pietrificazione” con divieto di forme procedimentali “elusive” e persino dei mutamenti informali, quando realizzati con “atti di forza”, in nome, si potrebbe concludere, di un “diritto alla democrazia” nella gestione dei mutamenti costituzionali, giustiziabile per via penale attraverso la previsione dell’illecito di “usurpazione di potere”.
Ma è effettivamente così? È questo il modo più efficace e stabile per garantire il “diritto alla democrazia”? Invero, la vicenda del presidente Zelaya ha fatto insorgere inediti
interrogativi, rispetto alla “perfezione” previsionale di questi articoli: che cosa succede
204
Sull’ipotesi di istituzione di una corte costituzionale internazionale
nel caso di manifestazione di “intenzioni” o di mere “proposte” di modifica di questo
assetto “pietrificato”? Esiste un giudice che possa giudicare ragionevolezza e proporzionalità di simili “comportamenti”, non ancora sfociati in veri e propri atti costituzionali di mutamento effettivo delle forme di potere? È sempre legittima, indipendentemente dalle forme (e dunque sempre “democratica”) la “insurrezione” contro tali comportamenti? In che cosa può consistere l’illecito costituzionale di “usurpazione di potere” quando la stessa costituzione lo formalizza anche attraverso l’enunciato onnicomprensivo di “qualsiasi altro mezzo o procedimento distinto da quelli disposti dalla stessa
costituzione” (art. 375)? Zelaya, infatti, non aveva consumato uno specifico “atto di forza”, né proposto formalmente modifiche specifiche dei tre citati articoli. Quindi, egli
formalmente non aveva violato l’art. 375. Com’è noto, aveva semplicemente manifestato la “intenzione” di indire un referendum (competenza a lui spettante) avente ad oggetto una riforma costituzionale che modificasse quei limiti. Pertanto, ci si è trovati di fronte alla “intenzione” di promuovere la partecipazione popolare per il superamento dei limiti di cui all’art. 375 della costituzione. Tuttavia, per tale “intenzione” di partecipazione popolare, in nome della “legalità” dell’art. 375, Zelaya è stato destituito.
Come si pongono allora le “pietrificazioni” di fronte alle “intenzioni” di coinvolgimento popolare sul loro superamento? Si tratta davvero di “atti di forza”, per il semplice
fatto di non essere contemplate dalla stessa costituzione? E può il coinvolgimento popolare essere ricondotto all’“atto di forza”? 15 Siamo di fronte al classico dilemma
dell’autoreferenzialità costituzionale, che l’Organizzazione degli Stati Americani (OAS)
non ha saputo risolvere, perché priva di strumenti di “sdrammatizzazione” del dilemma
attraverso istanze e standard condivisi di valutazione e giudizio esterni allo Stato.
Anche il colpo di stato in Niger, nel febbraio 2010, ha riproposto lo stesso dilemma.
La destituzione del presidente nigerino Mamadou Tandja è una conseguenza del suo
tentativo, consumatosi l’anno precedente, di estendere il suo mandato oltre i limiti previsti dalla costituzione, attraverso lo scioglimento del parlamento, la nomina di una
nuova corte costituzionale e l’indizione di un referendum di prolungamento del suo
15
Sul cortocircuito determinatosi in Honduras, cfr. A. FRIEDMAN, Dead hand Constitutionalism: The
Danger of Eternity Clauses in New Democracies, in «Mexican Law Review», IV, 1, 2011, pp. 78-96.
205
Michele Carducci
mandato per altri tre anni. Tuttavia, a differenza di Zelaya, in Niger non si sono manifestate “intenzioni” nel formale rispetto della costituzione: la costituzione è stata apertamente violata, in assenza, tra l’altro, degli articolati meccanismi di “reazione” contemplati dal testo dell’Honduras. 16 Nel contempo, l’Unione africana, per condannare
l’evento, ha deliberato di ampliare la definizione di “cambiamento di governo incostituzionale”, contemplata nei suoi atti costitutivi, includendo anche i processi di trasformazione della costituzione imposti dai leaders in carica per restare al potere e, in questo
modo, inquadrare ex post la fattispecie domestica del Niger.
I casi di Honduras e Nigeria certificano, quindi, la limitatezza delle risposte interne
ad un unico ordinamento che pretende l’esclusività del proprio auto-fondamento di fronte al problema del mutamento in un quadro universale di riconoscimento dei diritti umani; 17 dimostrano altresì la possibilità di superamento solo nel momento in cui, dalla
qualificazione dei limiti in termini logici interni al sistema normativo stesso, si passa alla loro accettazione come elementi di un parametro universale di controllo delle procedure e delle forme di esercizio del potere, giudizialmente sanzionabili secondo standard
universali.
In questa seconda ottica, un intervento esterno in via consultiva o giudiziale di una
corte costituzionale internazionale non avrebbe sortito effetti di “interferenza” sulla sovranità, ma di verifica della correttezza, accettabile in quanto universalmente riconoscibile, delle soluzioni adottate nell’esercizio della propria sovranità costituzionalmente riconosciuta.
Tra l’altro, proprio gli atti costitutivi dell’Unione africana, ossia del soggetto promotore dell’iniziativa in commento, si collocano su questa linea. L’Unione africana opera
secondo i principi tanto della non ingerenza di uno Stato membro negli affari interni di
un altro Stato membro, quanto della condanna e del rifiuto di qualsiasi mutamento incostituzionale all’interno degli Stati membri per violazione delle costituzioni domestiche e
16
Sulla vicenda del colpo di Stato in Niger, cfr. V. BAUDAIS – G. CHAUZAL, The 2010 Coup d’État in Niger: A Praetorian Regulation of Politics?, in «African Affairs», CX, 439, 2011, pp. 295-304.
17
Sulla matrice storica e sui limiti della figurazione della “esclusività” (auto-fondata) come attributo “fisiologico” dell’ordinamento giuridico, cfr. l’importante contributo di A. SCHILLACI, Diritti fondamentali
e parametro di giudizio. Per una storia concettuale delle relazioni tra ordinamenti, Napoli, Jovene, 2012,
in particolare la parte prima.
206
Sull’ipotesi di istituzione di una corte costituzionale internazionale
per mancato rispetto degli standard di “diritto alla democrazia” desumibili dagli strumenti internazionali in materia di diritti umani. Essa, quindi, presuppone il mutamento
costituzionale incostituzionale come fattispecie illecita sanzionabile e giustiziabile a livello sovranazionale.
La sanzione, in altri termini, non deriverebbe dal giudizio o dalla volontà interna allo
Stato e ai suoi organi. Si allargherebbe alla sfera di tutela della società, attraverso il ricorso a un giudice “terzo” perché non statale e dunque non espressivo delle tensioni e
dei rapporti di forza coinvolti dalla crisi costituzionale domestica, così rafforzando la
dimensione conformativa della normatività costituzionale con standard “depoliticizzati”
perché universalmente applicabili. È stato questo, molto significativamente, l’ordito seguito dalla corte africana dei diritti umani e dei popoli, nel citato caso Tanganika Law
Society et al. vs. Tanzania.
Lo conferma la carta africana sulla democrazia del 2004, tematizzando ulteriormente
l’assunto e aggiungendo, con i suoi articoli 2, 3, 10, 15 e 16, che l’Unione promuove
l’adesione di ciascuno Stato membro ai valori universali della democrazia e del rispetto
dei diritti umani, attraverso il rafforzamento dei principi dello Stato di diritto, la separazione dei poteri, il rispetto della supremazia della costituzione e dell’ordine costituzionale dai parte dei poteri statali, il cambiamento legittimo e democratico del governo, il
rifiuto e la condanna dei mutamenti incostituzionali dei poteri, la promozione della pratica e della cultura democratica, del pluralismo e della tolleranza politica, ma soprattutto
indirizzando gli Stati membri su cinque fronti di “pietrificazione”:
- “rafforzare” il principio di supremazia della costituzione nella organizzazione del loro
potere politico;
- “vigilare” affinché i processi di mutamento o revisione delle loro costituzioni si basino
sul pluralismo del consenso e su consultazioni popolari dirette, anche tramite referendum;
- “adottare” misure legislative e regolamentari che sanzionino i responsabili dei tentativi
di mutamento incostituzionale;
- “garantire” che le loro costituzioni disciplinino l’indipendenza e l’autonomia di tutti
gli organi costituzionali, senza eccezioni o sospensioni;
207
Michele Carducci
- “collaborare a livello regionale e continentale” per il consolidamento della democrazia
attraverso lo scambio di esperienze che mettano in pratica tali impegni.
L’art. 23 della medesima carta, tra l’altro, definisce esplicitamente anche un sistema di
sanzioni in caso di violazione o mancata attuazione dei cinque obiettivi di “pietrificazione”, prefigurando poi, all’art. 44, un obbligo di cooperazione reciproca fra gli Stati,
per attivare meccanismi di effettività del controllo sul conseguimento degli obiettivi.
4. Per una prima conclusione
Pertanto, l’ipotesi di una corte costituzionale internazionale sembra collocarsi in
un’ideale linea di continuità con questa specifica visione “internazionalizzata” della
“pietrificazione” costituzionale, rappresentandone il completamento. Rispetto alla semplice proclamazione della democrazia come assiologia universale, riscontrabile già in
diversi altri documenti internazionali, dalla dichiarazione della conferenza mondiale di
Vienna sui diritti umani del giugno 1993 alla risoluzione dell’assemblea generale
dell’ONU del 2005, gli atti africani richiamati vanno oltre, con la definizione di una serie
di obblighi procedimentalizzati e di divieti assunti come veri e propri “illeciti costituzionali” a rilevanza non più solo interna (“sovrana”), ma internazionale (perché connessi alla effettività dei diritti umani), verso i quali l’obbligazione statale non consiste nella
semplice astensione da tali condotte istituzionali “illecite”, ma piuttosto nella elaborazione congiunta di misure che assicurino effettività, permanenza e controllo, attraverso
lo scambio di prassi attuative. Una corte costituzionale internazionale completerebbe
questo quadro, giacché offrirebbe strumenti esterni di apprendimento (con la prevista
funzione consultiva preventiva) e giudizio (con il contenzioso costituzionale vero e proprio) a efficacia universale.
Rispetto ad altri percorsi sovranazionali di affermazione del “diritto alla democrazia”, ora come mero criterio di idoneità politica e istituzionale per l’integrazione fra Stati
(i Political Criteria degli artt. 2, 8 e 49 del trattato dell’Unione Europea 18) e il dialogo
interstatale (le “identità” e le “tradizioni costituzionali comuni”, di cui parlano gli artt.
18
Ma, in generale, cfr. S. NINATTI, Giudicare la democrazia? Processo politico e ideale democratico nella giurisprudenza della Corte di giustizia europea, Milano, Giuffrè, 2004.
208
Sull’ipotesi di istituzione di una corte costituzionale internazionale
4.2 e 6 sempre del trattato europeo), ora come mera evocazione di principio, 19 ora come
garanzia di stabilità di un nascente processo regionale di convergenza, 20 la prospettiva
africana, proprio quella che più tardivamente e faticosamente di altre ha potuto manifestare autonomia di elaborazione e sperimentazione costituzionale, consegna al costituzionalismo globale l’opportunità di riflettere e agire per una edificazione universale di
tutte le garanzie costituzionali a tutela degli stati democratici di diritto in quanto stati
costituzionali.
Di fronte alle contraddizioni di un globalismo giuridico quasi esclusivamente declinato sul primato del conflitto (tra diritti o tra interessi), 21 la traccia dell’Unione africana
merita di essere presa sul serio, per tornare a discutere di un diritto costituzionale universale fatto di condivisioni altrettanto universali, perché azionabili davanti a un giudice
universale, sulle forme di potere e sul loro esercizio inclusivo e partecipato.
Se è vero che viviamo nell’epoca di mutamenti costituzionali incostituzionali, 22
spesso consumati per vie tacite di abuso, elusione o frode, invocare principi e regole di
salvaguardia della democrazia come acquisizione di un diritto umano giustiziabile significa salvaguardare la dimensione politica del costituzionalismo non più come mero rispetto della legittimazione consensuale dei poteri (quella dimensione al cui interno rivoluzioni e colpi di Stato sono stati sempre classificati come rottura delle competenze costituzionalmente prestabilite 23), ma finalmente come irreversibilità degli standard più
19
H. DOMÍNGUEZ HARO, Derecho a la Democracia. Repensando un modelo constitucional societario,
Lima, Grijley, 2008.
20
Ci si riferisce al Compromiso democrático dell’UNASUR, del 26 novembre 2010, che si pone in contiguità con disposizioni regionali più antiche, come l’art. 2 della Carta democratica dell’Organizzazione
degli Stati americani, l’art. 4 del Protocolo sobre Compromiso de la CAN con la Democracia, l’art. 5 del
Protocolo de Ushuaia del MERCOSUR, anche se le formule assai vaghe della UNASUR (l’art. 1 del Compromiso parla di «qualsiasi situazione che metta a rischio il legittimo esercizio del potere e la vigenza dei
valori e principi democratici) non si incontrano negli altri testi. Sui limiti del Compromiso, cfr. S. ABREU
BONILLA – A. PASTORI FILLOL, El Protocolo adicional al Tratado constitutivo de UNASUR sobre
Compromiso con la Democracia: otro ejemplo de desprolijidad jurídica en la integración
latinoamericana, in J. ROY, comp., Después de Santiago: integración regional y relaciones Unión
Europea-América Latina, Miami, Jean Monnet Chair, 2013, pp. 169-178.
21
Cfr. ora l’utile ricostruzione riflessiva, riferita all’Europa dell’integrazione “multilivello”, di M. DANI,
Il diritto pubblico europeo nella prospettiva dei conflitti, Padova, Cedam, 2013.
22
Cfr. T. STANTON COLLET, Judicial Independence and Accountability in an Age of Unconstitutional
Constitutional Amendments, in «Loyola University Chicago Law Journal», XLI, 96, 2010, pp. 327-349.
23
Si possono ricordare, in tale prospettiva, due esempi “classici” nella letteratura: sul piano della scienza
politica, il testo di E. LUTTWAK, Coup d’État: A Practical Handbook (1968), Cambridge, MA, Harvard
209
Michele Carducci
evoluti di partecipazione, inclusione, trasparenza, tutela della libertà di dissenso e opposizione.
È forse questa la via di ricongiunzione del diritto costituzionale “generale” del Novecento (e del suo costituzionalismo “politico” e “popolare”) con le acquisizioni attuali
del diritto costituzionale “comune” (e della sua fiducia nella forza “culturale” del Judicial Dialogue”). 24
University Press, 1979; sul piano della teoria generale del diritto e della Costituzione, il fondamentale
studio comparato di S. TOSI, Il colpo di Stato, Roma, Gismondi, 1951, con l’illuminante prefazione di W.
Cesarini Sforza.
24
Va, infatti, ricordato che diritto costituzionale “generale” (come diritto promanato da tutti gli organi di
un ente e dunque identificato nel sistema delle fonti) e diritto costituzionale “comune” (come diritto spiccatamente giurisprudenziale e dunque interpretativo) sono formule figurative europee, che non insorgono
come sinonimi nel costituzionalismo novecentesco. La prima, sostanzialmente, appartiene alla stagione
del cosiddetto “diritto politico”, mentre la seconda emerge dal quadro dell’avvento, soprattutto nella seconda metà del Novecento, del cosiddetto “diritto culturale”, consolidatosi a seguito del passaggio dallo
Stato di diritto allo Stato costituzionale, conseguentemente alla creazione dei sistemi di controllo di costituzionalità delle leggi. L’ideatore della formula “diritto costituzionale generale” è stato B. MIRKINEGUETZÉVITCH, Les nouvelles tendances du droit constitutionnel, Paris, Giard, 1931. Per la formula del
“diritto costituzionale comune”, bisogna pensare, tra gli altri, a Peter Häberle (per il quale sinteticamente
si rinvia a G. LUTHER, La scienza häberliana delle Costituzioni, in P. COMANDUCCI – R. GUASTINI, a cura di, Analisi e diritto 2001, Torino, Giappichelli, 2002, pp. 105-143) e P. KAHN, Lo studio culturale del
diritto (1999), Reggio Emilia, Diabasis, 2008. Invece, per una rappresentazione chiara ed efficace della
contrapposizione tra “diritto politico” e “diritto culturale”, cfr. A. PIZZORUSSO, Fonti “politiche” e fonti
“culturali” del diritto, in Studi in onore di Enrico Tullio Liebman, vol. I, Milano, Giuffrè, 1979, pp. 327336. La distinzione tra le due prospettive di diritto costituzionale riflette, in larga misura, la divergenza
che, nella letteratura angloamericana, si riscontra fra costituzionalismo “giuridico” (ossia fondato
sull’argomentazione dei giudici) e costituzionalismo “politico” e “Popular” (fondato sulle decisioni della
rappresentanza e la partecipazione politica). Si vedano, al proposito, M. GOLDONI, Il ritorno del costituzionalismo alla politica: il “Political” e il “Popular” Constitutionalism, in «Quaderni Costituzionali»,
XXX, 4, 2010, pp. 733-756, e P. RIBERI, Derecho y política: tinta y sangre, in R. GARGARELLA, coord.,
La Constitución en 2020, Buenos Aires, Siglo XXI, 2011, pp. 240-246, ed annessa bibliografia.
210
Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali
Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 213-239
e-ISSN 2280-8949
DOI 10.1285/i22808949a3n1p213
http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento
EMANUELE PIGNATELLI
Le “primavere arabe”: nascita e involuzione*
Abstract: Started with similar social backgrounds, the Arab Springs have soon showed their
peculiarities and differences. After the original requests for better living conditions, jobs opportunities
and the restraint of rapacious and corrupted bureaucracies, the post-revolutionary process has seen the
rise in power of the Islamic Brotherhood and other Islamic parties, but also their incapacity to control
internal economies, tribal powers and democratic dynamics. Their failure has produced dramatic
consequences: military restoration in Egypt, civil war in Syria, anarchy in Libya, while the dissolution of
national security systems has helped infiltration of jihadist and terrorist groups in the Sub-Saharian
Africa. The political and financial attention paid by Gulf Petro-monarchies and by Iran to Arab Springs
for enlarging their soft power in the Region has reactivated the ancient Sunni-Shia and Muslim
Brotherhood-Salafist confrontation. In spite of these competitions, new regimes in Maghreb have not, for
the moment, dramatically changed their regional and international relations.
Keywords: “Arab Springs”; Arab populations; Maghreb; Islam.
1. Una sola “primavera” o tante “primavere”?
Generalmente si sostiene che gli avvenimenti del 2011 nei paesi arabi del Mediterraneo
avrebbero messo in evidenza due gravi “debolezze” dell’Occidente: ieri, non essere stati
capaci di prevedere l’arrivo delle ribellioni e, oggi, a distanza di quasi tre anni dal loro
inizio, non riuscire a prevederne le possibili conclusioni. Quanto alla prima
“debolezza”, vale ricordare come con l’espressione “primavera araba” si sia
inizialmente tentato di riunire sotto un unico cappello i violenti movimenti di piazza
scoppiati quasi in contemporanea in alcuni paesi del Maghreb tra la fine del 2010 ed i
primi del 2011, che hanno sconvolto in poche settimane consolidati immobilismi
politici, mettendo fine a trentennali governi semi-dittatoriali e riportando alla ribalta
nuovi protagonisti sociali ed antichi mali delle società arabe. Solo con il passare del
tempo si è compreso che non era il caso di parlare genericamente di un’unica
“primavera araba”, ma di distinti fenomeni solo a fatica riassumibili come “primavere
Emanuele Pignatelli
arabe”, visto che ognuna di esse era il frutto di storie differenti e si evolveva secondo
dinamiche tra di loro indipendenti.
Pur tenuto conto delle evoluzioni di ognuna, le ribellioni del 2011 non sono mai state
delle vere rivoluzioni e non hanno mai avuto obiettivi di cambiamenti radicali della
società. Hanno piuttosto rappresentato richieste confuse di riforme e di trasparenza, di
lotta alla burocrazia e alla corruzione, ma non hanno avuto alcuna ambizione di dar vita
a progetti organici di cambiamento o a programmi politici realmente alternativi,
condivisi e coordinati. Le ultime rivoluzioni nel “Middle East and North Africa” (i
cosiddetti paesi MENA) appartengono, in effetti, agli anni ’40 e ’50, quando nuove
ideologie, sostenute dalla lotta contro il colonialismo, da un nascente nazionalismo
arabo e dalla ricerca di un più generoso e aperto sviluppo sociale, hanno dato vita in
Siria ed Iraq al movimento Baath ed in Egitto al nasserismo. La rivolta era, all’epoca,
contro l’invadenza politica ed economica delle potenze coloniali e tendeva a ricercare,
nei valori dell’Islam, temi comuni da contrapporre ai valori ritenuti eccessivamente
materialisti dell’Occidente e del suo capitalismo mercantile e finanziario.
Anche nel 2011, i protagonisti delle “primavere” non hanno mai pensato di ispirarsi
ai modelli occidentali di democrazia e le ribellioni sono state in ogni momento
“islamiche”, dominate cioè dai valori morali di un Islam pragmatico e politico, ma
fermamente ancorati alla convinzione che la sharia dovesse in ogni caso guidare tutte le
attività di governo. Questa immanenza della religione contribuisce a spiegare come mai,
pur animati da obiettivi sociali ed economici apparentemente tipici di uno Stato
moderno, i protagonisti delle prime fasi delle proteste si siano ritrovati sconfitti e
sostituiti, nel giro di un anno, dai rappresentanti di un Islam molto più radicale. In
Tunisia e in Egitto, i fratelli musulmani sono diventati una forza politica senza mai
scendere in piazza, riuscendo a vincere le elezioni per la formazione dei nuovi
parlamenti. In Libia, le forze profonde della tradizione etno-tribale, dopo aver
contribuito alla caduta di Gheddafi, hanno tentato in tutti i modi di mettere in sordina la
protesta sociale e di gestire la difficile transizione verso istituzioni più moderne,
ricorrendo all’Islam quale unico collante politico. Nello stesso arco di tempo, mentre in
Siria non si è riusciti a superare l’attuale fase dei violenti scontri tra ribelli e regime, che
214
Le “primavere arabe”: nascita e involuzione
non conosce né vincitori né vinti, gli altri paesi del Maghreb vivono ancora i violenti
sussulti della transizione verso la democrazia senza un’apparente linearità,
giustificando, così, la seconda accusa di “debolezza” rivolta agli occidentali, e cioè di
non riuscire a fare previsioni razionali sul futuro assetto politico della regione e, ancor
peggio, di non sapere come muoversi in quel magma incandescente.
2. I paesi coinvolti
Dei ventidue paesi che, dal Golfo Persico al Mediterraneo orientale e dal Sinai al
Marocco e alla Mauritania, appartengono alla Lega Araba, solo cinque o sei hanno
vissuto (o tuttora vivono) forme violente di ribellione: la Siria, l’Egitto, la Libia, la
Tunisia, lo Yemen e il Bahrein. Altri ne sono stati scossi di riflesso, come il Libano o la
Giordania, presi d’assalto da migliaia di profughi, e altri ancora hanno cercato di correre
ai ripari, approvando o promettendo in tutta urgenza qualche riforma di facciata per
scongiurare l’esplosione delle piazze, come ha fatto la monarchia marocchina. Se
relativamente pochi sono stati i paesi squassati dalle rivolte, nessuno si è tenuto estraneo
alla stagione dei cambiamenti, alcuni cercando di trarre vantaggio dall’indebolimento
dei vecchi regimi, altri di regolare antichi conti con qualche “paese fratello”, e altri
ancora di rafforzare gli strumenti repressivi a disposizione. Regimi e ribelli hanno, in
effetti, in più occasioni, goduto dell’appoggio più o meno interessato di altri paesi:
questi ultimi sono intervenuti in loro “soccorso” non solo per allontanare i rischi di
contagio nelle loro terre, ma anche per assicurarsi la supremazia dei rispettivi valori
religiosi (come nel caso di sunniti e sciiti, abbondantemente sostenuti dai paesi di
riferimento), o per estendere la lotta distruttiva a tutto campo dei jihadisti e della
frammentata ma ancora tragicamente efficace galassia di al Qaeda, saldamente ispirata
dalla sua utopia di ricreare ovunque possibile una nuova “umma di tutti i fedeli”, ovvero
un nuovo Stato islamico integralista al di sopra di frontiere e di sedimentazioni della
storia.
Gli interventi esterni hanno, così, finito per alimentare successive “guerre per
procura”, ma sono anche serviti ai paesi intervenuti per scrutare i possibili vincitori di
domani e per assicurarsi la loro amicizia in vista di una nuova carta geo-politica
215
Emanuele Pignatelli
regionale. Il caso più emblematico è forse quello dell’Egitto, dove, nei tre anni seguiti
alla caduta di Mubarak, il paese ha vissuto una prima fase di anarchia, terminata con le
elezioni politiche della primavera 2012; una seconda fase di potere legittimo dei fratelli
musulmani, guidati dal presidente Morsi; ed una terza strettamente controllata dalla
casta militare, in attesa della nuova costituzione (la terza in tre anni) e di nuove elezioni
politiche che le permetta di prevalere sul potere islamico dei fratelli musulmani.
In questo lungo e travagliato periodo, i differenti protagonisti della politica egiziana
sono stati sostenuti dall’Arabia Saudita, che, dopo aver inizialmente appoggiato i fratelli
musulmani del presidente Morsi, se n’è distaccata, preoccupata per i giri di valzer di
quest’ultimo con l’arci-nemico Iran sciita. Il vecchio re saudita Abdallah ha
immediatamente compreso i pericoli della situazione ed ha abbandonato la fratellanza
per appoggiare il più affidabile, ai suoi occhi, partito dei salafiti, molto vicino alle
posizioni wahabite, dominanti in Arabia e molto sostenute dalla casa regnante. Il
piccolo Qatar ha, invece, continuato a puntare sui fratelli musulmani, proprio in
antagonismo all’Arabia Saudita, investendo nel paese del Nilo quasi 5 miliardi di
dollari. La Libia è intervenuta a favore del Cairo con generose donazioni di greggio e gli
Stati Uniti hanno conservato l’usuale finanziamento annuale di 1,5 miliardi di dollari ai
militari, tranquillizzati dalle loro assicurazioni sul fatto che l’esautorazione del
presidente Morsi non configurasse un colpo di Stato. Il Fondo Monetario, da parte sua,
convinto assertore di un’economia di mercato senza interventi statali, conduce da mesi
un defatigante, quanto finora infruttuoso, negoziato per un prestito di circa 50 miliardi
di dollari da erogarsi in quattro anni, chiedendo una riduzione dei numerosi sussidi ai
carburanti, all’energia elettrica ed agli alimenti di base, che incidono per il 27% sul
bilancio statale. Pur se non con le caratteristiche estreme dell’Egitto, anche la breve
“primavera” del piccolo Bahrein ha sofferto nel 2011 il peso dei poderosi vicini sauditi
e della loro determinazione a stroncare sul nascere i moti di rivolta della minoranza
sciita per una maggiore libertà religiosa. L’Arabia Saudita, decisa a non correre rischi di
contagio nelle proprie provincie sciite confinanti, non ha esitato a richiedere l’intervento
del contingente militare del consiglio di cooperazione del Golfo (Peninsula Shield
Force) per sedare la rivolta, considerando quest’organismo una specie di “Santa
216
Le “primavere arabe”: nascita e involuzione
Alleanza” fra le monarchie del Golfo per la loro sicurezza, e addirittura ad offrire ai re
di Giordania e Marocco di entrare a far parte del club, anche se i rispettivi paesi non
sono produttori di petrolio, con lo scopo di poterli meglio controllare attraverso
generose e non disinteressate elargizioni di petrodollari per metterli al riparo dai soffi
delle ribellioni sociali.
3. Le spinte alle ribellioni
In queste condizioni, in cui le rivolte maghrebine hanno visto intrecciarsi rivendicazioni
sociali e principi confessionali, inimicizie regionali e sotterranee lotte di potere tra le
capitali, vi è da chiedersi quali possano essere le possibili chiavi di lettura di rivolte così
vaste e diffuse. Viste dal lato arabo – e se ci affidiamo alle riflessioni di Massimo
Campanini, 1 profondo conoscitore della storia e dell’attualità del pensiero islamico –
superate le fasi più violente delle rivolte, le “primavere” sembrano essersi affidate ad
una sorta di “utopia retrospettiva”, che, secondo il pensiero tradizionale islamico,
dovrebbe guidare le società non tanto verso una nuova tappa di evoluzione storica,
quanto verso quell’“età dell’oro” che il pensiero confessionale identifica con i primi
decenni dell’Islam, dominati dalle figure del profeta e dei quattro “califfi ben guidati”
suoi successori, che, per definizione, sarebbe stata un’epoca di pace, di benessere e di
felice coesistenza di tutte le genti (l’umma dei fedeli). 2
Lasciarsi guidare da questa “utopia retrospettiva” fa parte del patrimonio culturale e
dell’insegnamento dei fratelli musulmani che, nati al Cairo come organizzazione
caritativa attorno al 1920, 3 si sono rapidamente estesi nei paesi sunniti della penisola
arabica e del Medio Oriente con attività di assistenza materiale e religiosa alle
* Il presente testo sviluppa una relazione tenuta il 7 maggio 2013 presso l’Università del Salento.
1
Massimo Campanini, una delle autorità riconosciute a livello mondiale nello studio del pensiero
filosofico e politico dell’Islam, è stato docente di scienze islamiche presso le Università di Urbino,
Milano e l’Orientale di Napoli. È attualmente professore associato di Storia dei Paesi islamici presso
l’Università di Trento. Le riflessioni alle quali in quest’articolo ci ispiriamo sono per la maggior parte
contenute nel suo volume Il pensiero islamico contemporaneo (Bologna, Il Mulino, 2005).
2
Che l’epoca in questione non sia stata, però, delle più serene è dimostrato dal fatto che ben tre dei
quattro “califfi ben guidati” sono stati assassinati da quanti volevano prenderne il posto.
3
Tollerati dai precedenti regimi, i fratelli musulmani sono stati duramente repressi dalla nascente
ideologia nasseriana di sviluppo economico sul modello occidentale e costretti a rifugiarsi in Arabia
Saudita, dove lo stesso Nasser sperava avrebbero potuto indebolire le locali strutture assolutistiche della
dinastia regnante dei Saud.
217
Emanuele Pignatelli
popolazioni più emarginate delle campagne. L’attesa messianica di un’epoca di unione e
di fratellanza annunciata dall’Islam storico è stata diluita, a partire dagli anni ’70,
dall’irrompere, nelle società arabe, di almeno tre eventi nuovi che hanno costretto anche
i fratelli musulmani ad affiancare alle loro attività assistenziali una militanza politica più
attiva.
In primo luogo, il clero iraniano ha dimostrato, con la sua ribellione degli anni ’70
contro lo scià di Persia, che si può cambiare un regime giudicato troppo laico,
reintrodurre i valori islamici nello Stato e, soprattutto, riappropriarsi della gestione
politica del paese. In secondo luogo, la crescita in forza di al-Qaeda dopo il 9 settembre
2001 ha dimostrato alle fasce più estremiste arabe che è possibile fare dello jihadismo lo
strumento per colpire l’Occidente e per tentare di ricreare nuove entità statali totalmente
dominate dalla sharia islamica. Il terzo avvenimento ha visto gli islamisti turchi
accettare, agli inizi del 2000, le regole di uno Stato democratico e sedere in parlamento
accanto ai partiti tradizionali per guidare dall’interno il gioco politico del governo e per
interrompere, grazie all’abile guida di Erdogan, la lunga serie di colpi di stato militari.
Formati da queste esperienze, i fratelli musulmani hanno colto l’occasione delle
“primavere” per uscire dalle campagne e utilizzare, forti della loro organizzazione
interna, le prime consultazioni elettorali libere per imporsi su avversari divisi e
disorganizzati alla guida delle nuove istituzioni.
Nelle fasi iniziali delle ribellioni, la componente confessionale dell’Islam è stata in
effetti spettatrice pressoché passiva degli eventi, senza avvertire la necessità di scendere
nelle piazze. Il potere è stato offerto in modo quasi naturale nelle urne alla fratellanza
musulmana dalle fasce sociali più deboli, ma molto numerose, come riconoscimento del
suo ultradecennale impegno sociale e religioso, anche se, alla prova dei fatti, i neo-eletti
si sono rivelati incapaci di gestire in modo appropriato le leve politiche ed economiche
di un potere che avrebbe dovuto servire a far superare ai singoli paesi le drammatiche
crisi economiche in corso.
Vista dal lato occidentale, le fiammate delle “primavere” e l’emergere dei partiti
islamici hanno indotto gli esponenti della vecchia borghesia e quelli legati a una visione
più laica della società a coalizzarsi contro i rappresentanti dell’Islam politico, senza
218
Le “primavere arabe”: nascita e involuzione
peraltro mai superare i forti sospetti reciproci. La vecchia borghesia, detentrice per anni
delle chiavi del potere sotto i precedenti regimi, ha cercato in tutti i modi di riciclarsi nei
nuovi governi, offrendo patenti più o meno sincere di democrazia. Questi governi non
hanno, tuttavia, funzionato perché anche i sostenitori più illuminati di uno Stato
secolare hanno preteso cambiamenti politici ed economici troppo rapidi e radicali, senza
calcolare le resistenze e l’impatto che avrebbero avuto su economie estremamente
fragili e troppo a lungo iper-protette. Gli islamici hanno approfittato, da parte loro, del
largo appoggio popolare per applicare in modo indiscriminato, nella gestione del potere,
i precetti della sharia, convinti di poter comunque mettere elettoralmente a tacere ogni
voce contraria al mantenimento di uno Stato confessionale. 4
Come risultato di questa difficile convivenza fra componenti politiche antitetiche e
scarsamente abituate al dialogo, alcuni paesi, come la Tunisia, sono rimasti
immobilizzati in uno stallo parlamentare del tutto sterile ed incapace di far progredire il
paese. Altri, come l’Egitto, hanno registrato il rinascere della vecchia alleanza tra
esponenti del vecchio regime di Mubarak e vertici militari per estromettere con la forza
gli islamici dal potere, con l’approvazione silenziosa degli Stati Uniti, decisi a ridurre il
proprio impegno nella regione, e di quello molto più attivo dei sauditi, decisi a evitare
vuoti di potere nei quali potrebbero introdursi le ambizioni iraniane.
4. Le forze in campo nei vari paesi
4.1. La gente
Quando si cercano i protagonisti delle rivolte del 2011, generalmente si pensa ai
giovani, al popolo di Internet e al ceto medio urbano, divenuti insofferenti
dell’immobilismo economico e della mancanza di prospettive di sviluppo e d’impiego
imposti dai “presidenti a vita” locali. Si è pensato, in definitiva, alle sole aspettative
economiche e pragmatiche della media borghesia urbana e delle componenti mercantili
delle popolazioni della costa. Non sono state approfondite a sufficienza le aspirazioni ed
i rapporti tra fede islamica e Stato delle popolazioni contadine o seminomadi
4
Cfr. L. CARACCIOLO, Il rebus arabo, in «La Repubblica», 5 luglio 2013.
219
Emanuele Pignatelli
dell’interno e degli emarginati delle grandi città, che non sono stati protagonisti
significativi delle proteste, ma il cui attaccamento ai valori dell’Islam più tradizionale
ed integralista è emerso con forza al momento delle consultazioni elettorali per
rinnovare le istituzioni. Queste popolazioni, “dimenticate” anche all’epoca delle grandi
rivoluzioni nazionaliste degli anni ’50 e deluse dai falliti progetti di riforme agrarie,
sono state regolarmente tenute in disparte allo scopo di dare la precedenza alle priorità
rappresentate dalla formazione di una nuova classe media cittadina, che avrebbe dovuto
gestire le trasformazioni politiche ed economiche necessarie per far uscire i paesi dal
giogo coloniale.
4.2. I fratelli musulmani
Di queste fasce sociali si sono occupate organizzazioni assistenziali come la fratellanza
musulmana ed oggi il loro movimento trova in quegli stessi ambienti il più importante e
sicuro bacino di sostegno elettorale. La fratellanza ha approfittato della sua rendita di
posizione per ottenere risultati eclatanti nelle elezioni politiche e presidenziali in
Tunisia ed Egitto. Le battute d’arresto subite con la defenestrazione di Morsi e con
l’impasse politico del partito islamico Ennhada in Tunisia non hanno messo fine alla
volontà di mobilitazione popolare che anima il movimento, anche perché i suoi membri
sono consapevoli che l’alternativa alla propria presenza sulla scena politica sarebbe un
Islam ancora più radicale ed integralista, dominato dagli estremismi dei salafiti 5 e della
galassia di gruppi che ruotano attorno ad al-Qaeda, oppure – come sta accadendo in
Egitto – una vittoria della reazione e della repressione da parte dei militari.
In effetti, è in Egitto che si è consumato il rovesciamento della posizione politica dei
fratelli musulmani. Vincitori in cinque scrutini dal rovesciamento di Mubarak (due
referendum, due elezioni legislative e un’elezione presidenziale), il movimento è ormai
oggetto di una dura repressione da parte dei militari, che, nella sola estate 2013, è
costata la vita a un migliaio di sostenitori del destituito presidente Morsi. La nuova
5
La corrente salafita è un’antichissima scuola di pensiero sunnita che ritiene che l’età dell’oro islamica
non sia solo quella di Maometto e dei suoi immediati successori (i quattro “califfi ben guidati”), ma debba
anche comprendere le generazioni successive (“coloro che vengono dopo”, ovvero gli “antenati”), che
sono tutti considerati modelli esemplari di virtù religiose e di capacità di gestire l’Islam.
220
Le “primavere arabe”: nascita e involuzione
costituzione approvata per referendum nel gennaio 2014 non innova molto rispetto al
passato, anche se proibisce l’esistenza di partiti che s’ispirano a una religione e se apre
qualche spiraglio sui diritti delle donne. Le forze armate conservano le loro prerogative
economiche e militari, tanto che nessuna autorità civile è autorizzata a conoscere e
valutare il bilancio militare e i soldati conservano il diritto di deferire a tribunali
speciali, da loro stessi composti, qualsiasi persona accusata di attentato alla sovranità e
alla sicurezza dello Stato.
4.3. Il conflitto tra sunniti e sciiti
In aggiunta alle differenti caratterizzazioni dell’Islam, le rivolte iniziate nel 2010-2011
hanno riportato alla ribalta le divisioni tra sunniti e sciiti, nascondendo malamente
l’aggressivo gioco per ritagliarsi nuove egemonie dei regni sunniti della penisola
arabica riuniti nel Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) e dell’Iran dominato dalla
corrente sciita. Guardando con maggiore attenzione a questo confronto, si può notare
come esso sia diventato, con il passare del tempo, ancora più complesso e inestricabile,
perché ha finito per riguardare anche la contrapposizione tra l’Islam elettorale,
timidamente sostenuto dai fratelli musulmani (sunniti), e altre due concezioni dell’Islam
politico: quella dinastica, sostenuta dalle petro-monarchie del Golfo, restie a qualsiasi
evoluzione che possa mettere in discussione il potere assoluto delle case regnanti, e
l’Islam estremista dei salafiti e di al-Qaeda. Pur con le loro caute aperture alla
democrazia, i fratelli musulmani si sono trovati isolati e per di più imbottigliati fra
l’appoggio del GCC ai salafiti, decisi a combattere l’idea che Islam e democrazia (o
almeno Islam ed elezioni) possano coesistere, ed estremismi integralisti fomentati da alQaeda.
Anche il piccolo ma ricchissimo Qatar ha seguito con attenzione le “primavere
arabe”, deciso a ritagliarsi un ruolo diplomatico nella regione grazie all’appoggio
mediatico di «al-Jazeera» ed a rintuzzare in ogni modo possibile le pretese egemoniche
saudite ed iraniane. Il precedente emiro Khalifa al-Thani aveva puntato, per la sua
penetrazione diplomatica nei paesi arabi, sui fratelli musulmani e sulle loro aperture
verso forme di dialogo con altri raggruppamenti politici. L’emiro ha comunque avuto
221
Emanuele Pignatelli
l’accortezza di accompagnare il suo appoggio finanziario a un’abile ricerca di possibili
investimenti per acquisire nuove partecipazioni industriali in grado di sostenere la
propria politica di potenza nella regione. 6 L’inizio del riflusso per i fratelli musulmani
ha coinciso con l’abdicazione dell’emiro e con le preferenze dimostrate da suo figlio e
successore, Tamim al-Kalifa, per una maggiore prudenza politica nei paesi arabi e per
un’accresciuta attenzione verso gli investimenti finanziari delle proprie banche.
Il ritorno di Teheran sulla scena diplomatica, dopo l’intesa interinale del novembre
2013 con l’Occidente sul nucleare, ha riportato di attualità lo scontro per la soft power
regionale tra Arabia Saudita e altri paesi del Golfo, a motivo anche delle minoranze
sciite stanziate entro i propri territori e di quelle esistenti nel mai pacificato Iraq.
Spaventa anche il rischio che il pragmatico e abile presidente Rohani possa utilizzare la
soft power iraniana per arbitrare tra le tante tensioni regionali e spaventa anche il
controllo che Teheran ha sugli hetzbollah sciiti del Libano, con l’intervento dei quali
potrebbe facilmente interferire negli equilibri regionali, a cominciare dal futuro assetto
della Siria, dove gli hayatollah hanno un punto di forza negli alawiti di Assad.
4.4. Il ruolo delle altre forze islamiche, delle minoranze religiose e dei clan
Malgrado i successi elettorali, il sentiero dei fratelli musulmani è diventato, con il
passare dei mesi, sempre più stretto, soprattutto in Egitto (dove il movimento è nato) e
nei paesi del Golfo, dove negli anni è andato consolidandosi. A renderlo più angusto ci
hanno pensato, oltre ai militari, gli esponenti riciclati dei vecchi regimi e le aggressive
politiche fondamentaliste dei salafiti sponsorizzati dall’Arabia Saudita, la cui casa
regnante, di tradizioni waahbite, 7 vede in esse un antidoto alle istanze dell’Islam
politico della fratellanza e, quindi, una garanzia del potere assoluto del re.
6
Tra gli altri investimenti, il Qatar si è impegnato in Egitto in lavori di manutenzione e di ampliamento
del Canale di Suez, con l’obiettivo di poter svolgere un importante ruolo politico nella gestione di questa
primaria via di comunicazione intercontinentale.
7
Il waahbismo è il frutto di un “patto di fedeltà” giurato nel 1744 tra un pensatore arabo, M. al-Wahhab, e
il secondo esponente della dinastia degli al-Saud, il cui padre si era appena auto-proclamato emiro
dell’intera penisola arabica. Il patto sarebbe dovuto servire a realizzare un’azione comune orientata al
rinnovamento dei costumi morali e religiosi delle tribù soggette. Da esso trae origine quell’unione tra il
trono e l’Islam che sorregge la dinastia saudita.
222
Le “primavere arabe”: nascita e involuzione
In concorrenza con i salafiti si muove la galassia dei gruppi di al-Qaeda, decisi a
condurre una lotta senza quartiere a confessioni non in linea con il loro integralismo e a
modelli statali laici, ricorrendo al terrorismo, e ad espandere le proprie attività
dall’Afghanistan e Pakistan all’Iraq e alle nuove realtà dell’Africa centrale, come il
Mali, la Repubblica Centrafricana, il Sud Sudan, il Chad, ed altre ancora. Al-Qaeda ha
anche approfittato delle “primavere arabe” e dell’eliminazione, da parte degli americani,
di Osama bin-Laden per accelerare la sua trasformazione da organizzazione
centralizzata e monolitica in una specie di “franchising del terrorismo”, conservando per
sé compiti di strategia generale e di gestione delle basi di addestramento e logistiche ed
offrendo “santuari” agli attivisti. Alle organizzazioni locali è lasciata la scelta degli
obiettivi, delle tattiche e delle alleanze per la gestione delle proprie iniziative. Oggi si
possono contare almeno cinque grandi organizzazioni collegate tra di loro e sono queste
a portare a termine le più cruente attività terroristiche in Siria, Egitto, Iraq e nell’Africa
sub-sahariana. 8
Le numerose religioni minoritarie presenti in tutto il Medio Oriente hanno svolto
ruoli minori nei movimenti di ribellione e nell’organizzazione delle nuove istituzioni.
Benché i cristiani d’Oriente non superino oggi dodici milioni nell’intera regione fra
copti, greco-ortodossi, maroniti, melchiti armeni, siriaci latini e protestanti, la maggior
parte di loro si trova in Egitto, dove sono circa 8 milioni (pari ad un 10% dell’intera
popolazione). Circa 1,5 milioni vive in Siria ed altrettanti in Libano, dove peraltro da
prima della seconda guerra mondiale non si compie alcun censimento al fine di evitare
nuove tensioni tra le comunità. Del milione di cristiani che vivevano in Iraq fino alla
guerra del 2003, oggi si contano meno di 400 mila. La ridotta forza numerica e la lunga
sudditanza dei cristiani ai poteri “forti”, che per lunghi anni hanno assicurato forme di
stabilità sociale e di rispetto reciproco, hanno abituato queste minoranze ad affidarsi ai
regimi in carica, anche a costo di suscitare periodiche ondate di sospetti e di sfiducia sia
nel mondo islamico sia in quello laico. La sopravvivenza di queste minoranze appare
8
I cinque gruppi sono, con un largo margine di approssimazione: Aquim, cioè al-Qaeda per il Maghreb
Islamico; al-Aqap, cioè al-Qaeda per i paesi della penisola arabica; al-Shabaab, organizzazione nata e
operativa in Somalia; Boko Aram, gruppo attivo nel nord islamico della Nigeria; al-Nursia, gruppo
estremista attivo soprattutto in Siria.
223
Emanuele Pignatelli
oggi necessaria per impedire che la loro presenza nei paesi di nuova destinazione alteri
in modo irreversibile i già precari equilibri confessionali. Questo è il caso del Libano e
della Giordania, i cui governi considerano con profonda preoccupazione l’alterarsi del
fragile tessuto multi-etnico e multi-religioso nazionale per la presenza di oltre 7-800
mila profughi sciiti dalla Siria. Allo stesso modo, i grandi paesi sunniti del Medio
Oriente non vedono certo con favore l’eventuale ritorno dell’Iran sulla scena
mediorientale e il suo porsi come riferimento politico per le numerose minoranza sciite.
A tutto ciò si aggiunge la presenza di minoranze curde, azere e armene, polverizzate
all’interno di numerosi paesi arabi e caucasici, ma desiderose di tornare a riunirsi in
propri Stati nazionali.
La forza polarizzante dei clan, forte in tutti i paesi arabi, è diventata, con le
“primavere”, particolarmente decisiva in Libia. Se in altri paesi arabi la gente si sente
innanzitutto islamica e, solo in un secondo momento, avverte la propria appartenenza
allo Stato, in Libia la vita individuale è condizionata dalle principali Qabilie e dalle
decisioni dei locali consigli degli anziani. 9 Strettamente controllati e messi a tacere
durante il regime di Gheddafi, i consigli hanno rioccupato lo spazio a lungo perduto e
costituiscono oggi una forza con la quale lo Stato centrale deve quotidianamente
confrontarsi. Nel Fezzan, ad esempio, grazie alle locali milizie, i clan controllano i
ricchi giacimenti petroliferi del Sahara e sono in grado di sfidare apertamente il General
National Congress (GNC) e il fragile potere del governo centrale sulla ripartizione dei
proventi.
Milizie e clan sono stati in grado di paralizzare e polarizzare la vita politica del
governo entrato in carica nell’ottobre 2012 ed hanno reso impossibile la redazione di
una costituzione attenta alle nuove necessità del paese. Anche la soluzione di una Libia
divisa su base federale, proposta dalle Qabilie, non è facilmente applicabile, data la
contrarietà degli integralisti dell’Islam, legati a quella “utopia retrospettiva” che
conosce solo un’unica “umma di tutti i fedeli”.
9
La Libia è composta da tre regioni geografiche e storiche: Cirenaica, con capitale Benghasi;
Tripolitania, con capitale Tripoli; e Fezzan, con capitale Besha. Quest’ultima regione, che occupa la parte
sahariana del paese, è quella più ricca di petrolio ed è la terra di origine del clan cui apparteneva
Gheddafi.
224
Le “primavere arabe”: nascita e involuzione
4.5. Il petrolio
Anche se il petrolio e gli idrocarburi (a parte il caso libico) non sono stati tra le cause
scatenanti delle “primavere”, la gestione rentier attuata in politica e in economia da una
larga maggioranza di paesi arabi è stata comunque responsabile dell’immobilismo e del
pessimo apparato statale, contro il quale i giovani ed il ridotto settore imprenditoriale
privato hanno cercato di battersi. L’impostazione degli Stati rentier, applicata con
raffinata tecnica amministrativa fin dai tempi dell’impero ottomano e successivamente
ripresa dalle petro-monarchie del Golfo e dalle rivoluzioni nazionaliste del secondo
dopoguerra in Iran, Iraq ed Egitto, ha indotto anche i regimi più illuminati a puntare sui
ceti medi urbani, offrendo loro istruzione, impieghi pubblici, simulacri di democrazia e
servizi basilari ampiamente sussidiati, riservando alle fasce più emarginate delle
campagne forme meno intense di aiuti e di formazione professionale e ridotti accessi al
credito agricolo. Quando la crisi economica ha indebolito i governi, mettendo in crisi il
meccanismo dei sussidi e degli aiuti a pioggia, 10 la perduta capacità di dialogo politico
tra la gente ed il potere ha trovato solo la strada della ribellione e della lotta di tutti
contro tutti.
Oggi il petrolio divide i paesi che lo possiedono da quelli che ne sono privi, ma mette
anche contro sunniti e sciiti, la Turchia contro l’Iran, la Siria contro i paesi del Golfo e
sembra paradossalmente avvicinare Israele ai paesi arabi più moderati. Anche la
commercializzazione di gas e petrolio divide i paesi arabi, in quanto tutti vogliono
vendere i loro prodotti, ma tutti vorrebbero farlo con pipelines che attraversino solo
paesi amici o, comunque, strettamente controllati o controllabili. La probabile fine delle
sanzioni contro il petrolio iraniano e la recentemente acquisita superiorità produttiva
americana rispetto ai paesi del Golfo sono destinate a influire pesantemente sull’eredità
delle “primavere” e a dare vita ad un duro confronto planetario che va ben al di là dei
soli paesi arabi, dall’esito totalmente imprevedibile.
10
Solo in Egitto, paese dalle non imponenti capacità di produzione petrolifera, i sussidi agli alimenti di
base, all’energia elettrica, ai trasporti e ai carburanti pesa per oltre il 27% del PIL.
225
Emanuele Pignatelli
4.6. Il ruolo dei militari
La posizione dei militari nei rapporti di forza con il potere civile si è delineata già ai
tempi delle rivoluzioni del partito Baath e di Nasser, quando dalle loro file sono usciti i
capi dei rispettivi governi e l’intera casta è riuscita ad assicurarsi rendite economiche
sicure, in grado di metterla al riparo da eventuali voltafaccia governativi. Il modello a
lungo seguito è stato quello turco e gli alti gradi arabi, formati nelle scuole militari
dell’Occidente, si sono fatti a loro volta garanti di un laicismo di Stato in grado di
contrastare le spinte integraliste islamiche e di assicurare lunghi periodi di stabilità ai
vari paesi. Unica eccezione è stata la Libia, dove Gheddafi, consapevole della fedeltà
clanica di civili e militari, non ha mai voluto creare un esercito regolare, preferendo dar
vita ad una milizia fortemente armata, ai suoi diretti ordini e abbondantemente assortita
da elementi non libici.
Il ruolo dei militari nei momenti cruciali delle ribellioni del 2011 è stato variegato e
legato ai rapporti localmente intrattenuti dagli alti gradi con i regimi al potere.
Inizialmente ambigua e successivamente decisiva in Egitto, la posizione dei militari è
stata nulla in Tunisia e di fedele appoggio ad Assad ed a Gheddafi, rispettivamente in
Siria e Libia. Scoppiate le rivolte, si è subito posto – in Tunisia, Egitto e Siria – il
dilemma per i regimi al potere se servirsi dello strumento militare per sedarle o meno. In
Tunisia, il dubbio è stato di breve durata, dato che il presidente Ben Alì è stato
rapidamente defenestrato e costretto alla fuga, senza poter tentare alcuna reazione
organizzata. In Egitto, Mubarak si è trovato disorientato dalle iniziali ambiguità dei
vertici militari, che, durante le prime rivolte di piazza Tahir, si son guardati bene dal far
uscire le truppe dalle caserme, preferendo verificare prima la piega degli eventi. Quando
la piazza ha finito per prevalere e i fratelli musulmani hanno vinto le elezioni, l’esercito
si è rapidamente inserito per rivendicare il proprio posto tra le autorità provvisorie e tra
gli incaricati di procedere alla redazione di una nuova costituzione. Decisi a conservare
la loro autonomia economica e una gestione senza controlli delle proprie attività
commerciali e produttive, i militari non hanno esitato a proporre, come loro
rappresentanti nel nuovo organigramma governativo, personalità e ufficiali già potenti
sotto il regime di Mubarak, tanto che l’opponente più accreditato nella corsa alla
226
Le “primavere arabe”: nascita e involuzione
presidenza di Morsi è stato, nel 2012, il generale Tantawi, capo di stato maggiore e
ministro della difesa con Mubarak. Gli stessi militari, d’intesa con l’alta borghesia
egiziana, hanno anche appoggiato, nel luglio 2013, la defenestrazione del presidente
eletto Morsi, reprimendo duramente le violente reazioni dei fratelli musulmani e
giungendo a mettere fuori legge il partito della fratellanza e a rinviarne a giudizio
l’intera dirigenza. Malgrado la durezza delle repressioni, i militari non sottovalutano le
capacità di mobilitazione dei fratelli musulmani e hanno preferito concedere una serie di
rinvii al processo contro l’ex presidente Morsi per aver autorizzato la polizia, nel
novembre del 2012, a sparare sulla folla, che chiedeva le sue dimissioni. 11 Nel corso
dell’autunno 2013, il capo di stato maggiore dell’esercito, generale al-Sissi, prima
sostenitore di Morsi e poi responsabile della sua caduta, si è infine formalmente
candidato alla presidenza nelle elezioni previste nel 2014, inserendosi nella tradizione
egiziana che, da Nasser a Sadat e a Mubarak, ha visto solo generali al vertice dello
Stato.
Le forze armate sono state, invece, decisive nel mantenimento al potere della
famiglia Assad in Siria. L’esercito è stato utilizzato dal regime per militarizzare la
repressione, sopravvalutando a torto le forze dei ribelli. La Turchia di Erdogan e perfino
le case regnanti delle petro-monarchie del Golfo avevano, in effetti, suggerito ad Assad
di evitare l’uso dell’esercito e di procedere a qualche concessione nei confronti dei
dimostranti nel campo del rispetto dei diritti umani, della liberalizzazione dell’economia
e della riduzione delle più inaccettabili pratiche di corruzione. Ignorando questi
suggerimenti e facendo scendere in campo l’esercito, Damasco ha provocato una
radicalizzazione delle ribellioni, richiamando sul proprio operato la condanna del
mondo occidentale. Oggi Assad ha nell’esercito l’unico baluardo per la sua
sopravvivenza politica, benché possa realisticamente contare solo sul nucleo di alti
ufficiali alawiti posti ai vertici di comando e concentrati nell’arma aerea, sull’appoggio
esterno dei pasdaran iraniani e degli hetzbollah dal Libano, oltre che sulle forniture di
armi dall’Iran, dalla Russia e dagli altri paesi schierati al proprio fianco. Questo non ha
11
Secondo quanto indicato dall’Agenzia egiziana d’informazione, assieme all’ex presidente saranno
anche giudicati un’ottantina di attivisti di Hamas palestinese e di Hetzbollah, a conferma del carattere
internazionale del tentativo di Morsi di monopolizzare il potere.
227
Emanuele Pignatelli
impedito il proseguire dei feroci scontri che da oltre 30 mesi insanguinano la Siria e che
pongono una seria ipoteca sulle possibili iniziative di pace, che, come la sempre
annunciata e regolarmente rinviata conferenza “Ginevra 2”, dovrebbero innanzitutto
riuscire ad assicurarsi la partecipazione di tutti i gruppi pro e contro il regime (e quindi
anche dei militari) e convincerli a mettere da parte rancori, diffidenze e divergenti
visioni politiche sul “dopo Assad”. Al fondo delle posizioni politiche dei militari vi è
sempre il concetto islamico tradizionale di gestione del potere al di fuori dei
condizionamenti democratici tipici dell’Occidente, quali la divisione dei poteri e le
libere elezioni. In questo, i militari sono alleati naturali delle case regnanti arabe e in
esse trovano sostegni politici e generosi aiuti finanziari, che permettono loro di essere
meno sensibili ai condizionamenti politici degli occidentali.
Decisamente diverso è stato il comportamento delle milizie personali di Gheddafi in
Libia. Formate da elementi in buona parte non libici dell’Africa centrale, del Sahel,
della Penisola Arabica, dell’Afghanistan, dell’Iraq e dei paesi musulmani degli altipiani
asiatici, gli uomini delle milizie sono stati, fino all’ultimo, ferocemente fedeli al capo e
ciechi esecutori dei suoi ordini di annientare i gruppi ribelli. Ucciso Gheddafi
nell’ottobre 2011, le unità si sono sbandate e, consapevoli dell’odio popolare da cui
erano circondate, sono andate alla ricerca di nuovi padroni e di nuove occasioni di
arricchimento personale. Fortemente armati e ben addestrati, numerosi miliziani sono
rimasti in Libia, dando vita a brigate mercenarie al soldo di potenti personalità locali, o
si sono semplicemente riuniti in bande per condurre operazioni di criminalità comune.
Pochi hanno risposto agli appelli del consiglio nazionale di transizione per passare nelle
file dell’esercito regolare e molti si sono dispersi nei paesi a sud della Libia (per anni
infeudati al regime di Gheddafi), come il Chad, il Mali, il Centrafrica, il Niger, la
Mauritania e il Sud Sudan, dove la loro disponibilità, la solida preparazione alla
guerriglia e la totale mancanza di scrupoli ne hanno fatto esponenti apprezzati da alQaeda e combattenti di prima linea nelle ribellioni contro i poteri locali seguiti al crollo
della “pax libica”.
Oggi, il fenomeno delle kataeb (brigate armate), costituite su base localistica, è
ormai una realtà che pesa gravemente sul futuro della Libia e se, il 10 ottobre 2013,
228
Le “primavere arabe”: nascita e involuzione
alcune bande hanno realizzato un’azione dimostrativa di grande effetto con il rapimento
del primo ministro el-Zeidane per alcune ore (verosimilmente per patteggiare con lui
alcuni salvacondotti individuali), il successivo 15 novembre più di una quarantina di
persone sono morte ed oltre 500 ferite a Tripoli nel corso di violenti scontri tra bande
armate e popolazione civile, stanca delle angherie subite, che chiedeva il loro
scioglimento. La determinazione dei miliziani, consapevoli di non avere alternative al di
fuori della via delle armi, e la debolezza delle istituzioni sono oggi tra i più gravi
ostacoli sul percorso democratico della Libia.
5. Europa e Italia di fronte alle “primavere”
5.1. Il ruolo dell’Europa
L’atteggiamento dell’Europa verso le “primavere arabe” è stato incostante e fortemente
influenzato dalle differenti sensibilità dei vari Stati membri verso la regione
mediterranea. Mentre per i paesi nordici e di nuova ammissione il Mediterraneo non
costituisce una priorità, per quelli del sud costituisce, invece, parte della storia comune;
i paesi arabi sono, allo stesso tempo, importanti partner commerciali, fornitori di gas e
idrocarburi e punti di origine d’interminabili e incontrollati flussi migratori.
La crisi dei paesi arabi è purtroppo scoppiata in un momento di crisi dell’identità
politica dell’Unione Europea e di gravi difficoltà finanziarie per tutta l’Eurozona, che
hanno impedito di ricorrere a quelle forme di solidarietà economica che, agli inizi degli
anni ’90, era stato possibile offrire ai paesi dell’ex Unione Sovietica e dell’ex
Jugoslavia. Oltre al fatto di non aver potuto organizzare un “piano Marshall” per i paesi
del Mediterraneo, l’Europa si è anche trovata, nel 2011, priva di riferimenti politici
affidabili e impreparata ad affrontare i rapporti con le nuove istituzioni dominate dalle
forze islamiche. A queste difficoltà, si è aggiunta la non troppo velata ansia di
protagonismo di taluni Stati membri, intenzionati a modificare a proprio favore i
rapporti economici con i nuovi regimi.
L’annunciata volontà degli Stati Uniti di spostare l’asse della propria politica estera
in Asia e la mancanza di qualsiasi ambizione di imbarcarsi in nuovi interventi armati nel
Mediterraneo hanno finito anch’esse per favorire l’attivismo di Francia e Gran
229
Emanuele Pignatelli
Bretagna, portando Parigi a sollecitare con insistenza il consiglio di sicurezza delle
Nazioni Unite a deliberare un intervento umanitario armato in Libia nel marzo del 2011.
Dietro le formali preoccupazioni per la tutela dei valori democratici e il rispetto dei
diritti umani contro la feroce repressione ordinata da Gheddafi, per la Francia del
presidente Sarkozy vi è stato anche il non troppo nascosto desiderio di acquisire nuovi
contratti petroliferi con la Libia, a lungo giudicati sbilanciati a favore del nostro paese. 12
L’intervento multilaterale, condotto principalmente con raids aerei, ai quali con qualche
riluttanza si sono associati gli Stati Uniti e con molte maggiori reticenze anche l’Italia,
ha contribuito alla “vittoria” della galassia dei rivoltosi, che sono riusciti a sbarazzarsi di
Gheddafi, ma non è per nulla servito a far maturare nel paese un clima di collaborazione
politica, indispensabile a traghettarlo verso una reale democrazia. La constatazione del
fallimento delle finalità politiche di pacificazione della Libia, se non ha fermato la
Francia dall’insistere, nel 2013, per un intervento armato anche in Siria, dopo le
rivelazioni dei media mondiali sull’uso, da parte delle truppe governative, di armi
chimiche, ha indotto alla prudenza numerosi partner comunitari e gli stessi Stati Uniti,
divenuti assai critici sulle capacità dei gruppi ribelli di trovare, dopo l’eventuale caduta
del regime Assad, una qualsiasi intesa per riportare il paese alla normalità.
Il ruolo dell’Europa dovrebbe essere oggi differente da quello di spettatore inerte,
come in Egitto e Tunisia, o di protagonista d’interventi umanitari. La diplomazia
europea e quella bilaterale dei suoi membri dovrebbero approfittare delle crepe che
sembrano crearsi nelle posizioni massimaliste degli islamici e dei militari e tentare di
convincere i differenti protagonisti a impegnarsi in forme di dialogo politico che
chiudano l’epoca della criminalizzazione dei nemici e che s’impegnino in un compito
comune di ricostruzione del tessuto sociale. Considerazioni di soft power hanno ancora
una volta indotto nel 2013 la Francia ad attivarsi a New York per far approvare missioni
umanitarie di pacificazione a sud del Sahara, territori in precedenza controllati
dall’influenza libica attraverso cospicui aiuti finanziari e forniture petrolifere agevolate.
All’inizio del 2013, Parigi si è trovata a intervenire in Mali e nella Repubblica
12
Nel giustificare le ragioni di un intervento umanitario armato in Libia, il presidente Sarkozy ha
esplicitamente dichiarato all’assemblea nazionale che «il paese ha il diritto e il dovere di difendere i
propri interessi geo-strategici nel Mediterraneo».
230
Le “primavere arabe”: nascita e involuzione
centrafricana, solo formalmente accompagnata da contingenti internazionali degli Stati
membri dell’Unione dell’Africa occidentale, con l’obiettivo dichiarato di trovare una
soluzione ai conflitti tribali nei due paesi, di arginarvi l’espandersi dell’integralismo
islamico, di prevenire nuovi atti di terrorismo e di restaurare uno stato di diritto. Nessun
altro membro dell’UE partecipa per il momento a queste missioni, lasciando così l’intera
iniziativa militare, ma anche il peso finanziario delle due operazioni, alla sola Francia.
La mancanza di una direzione strategica nella politica estera, di sicurezza e di difesa
dell’UE e la debolezza di alcune strutture operative come il Servizio Europeo per
l’Azione Esterna (SEAE) vede l’Europa ancora fragile e poco attrezzata per far fronte
alle instabilità seguite alle “primavere arabe”. La prosecuzione di situazioni di grave
incertezza politica continua, così, a giustificare le reticenze anche degli investitori
europei a operare in quei territori, mentre prosegue la pressione migratoria verso l’Italia
e altri paesi dell’Unione, alimentata non solo dalle porose frontiere tra i paesi arabi e
l’Africa sub-sahariana, ma anche dal disinteresse e dall’incapacità dei poteri locali di
controllare le operazioni su vasta scala della grande criminalità organizzata.
5.2. La posizione dell’Italia
Il nostro paese si è trovato in prima linea a dover reagire all’esplosione delle
“primavere”, preso tra due fuochi. Da un lato, l’Italia è tradizionalmente tra i primi
esportatori verso i paesi del Nord Africa e tra i primi importatori di prodotti agricoli,
energetici e semilavorati. Dall’altro, il presidente Berlusconi aveva pazientemente
costruito negli ultimi anni del suo governo una rete di nuovi accordi per rafforzare le
relazioni commerciali con quei regimi e, nel caso della Libia, per garantirsi una
partecipazione privilegiata nella produzione d’idrocarburi e la chiusura del lungo
contenzioso post-coloniale e di quello altrettanto sostanzioso dei mancati pagamenti
libici alle imprese italiane per i lavori pubblici realizzati nel paese. 13 Le reazioni iniziali
alle rivolte di piazza nelle grandi città arabe, nei mesi di febbraio e marzo 2011, sono
state di cautela e di ricerca di una mediazione tra regimi e forze ribelli. Fallita questa
13
Il 30 agosto 2008 era stato firmato a Bengasi il trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra
Italia e Libia, al termine di un lungo negoziato per trovare una soluzione soddisfacente ai contenziosi
storici e per definire un nuovo e bilanciato partenariato tra i due paesi.
231
Emanuele Pignatelli
strategia a motivo della forza centrifuga ormai acquisita dalle rivolte e delle pressioni
per un intervento diretto di altri paesi dell’Unione, tra i quali la Francia, la nostra
diplomazia ha avviato contatti con le nuove autorità transitorie in Egitto, Tunisia e Libia
e si è dovuta adeguare alle decisioni del consiglio di sicurezza per un intervento armato
umanitario internazionale a sostegno dei ribelli libici. L’azione italiana è stata, di volta
in volta, ispirata dalla necessità di salvaguardare le attività dell’ENI in Egitto e in Libia,
da quella di sollecitare l’appoggio delle nuove autorità transitorie nell’arginare la
pressione migratoria e, soprattutto in Egitto, da quella di assicurare la continuità della
tolleranza religiosa tra islamici e minoranze religiose cristiane. Il governo Monti,
entrato in esercizio a fine 2011, ha proseguito lungo le stesse linee, estendendo le sue
offerte di mediazione anche al caso della Siria e ospitando a Roma alcune conferenze
internazionali di primo aiuto ai paesi maggiormente oppressi dalle crisi economiche
seguite alle rivolte. Desiderosa, d’altra parte, di meglio definire la propria posizione
diplomatica internazionale, nell’ottobre 2012 l’Italia ha votato a favore della richiesta
palestinese di ammettere la Palestina come Stato osservatore alle Nazioni Unite. La
decisione ha permesso di superare un’ambiguità da alcune parti rimproverata al nostro
paese nel conflitto israelo-palestinese e di inviare un segnale alle autorità palestinesi e a
quelle israeliane sulla necessità di avviare un dialogo senza pre-condizioni per la ricerca
di possibili soluzioni alla drammatica lotta tra i due popoli.
Oggi l’Italia guarda con apprensione agli ostacoli di ogni genere che sembrano far
scolorire le iniziali “primavere” in un lungo “autunno arabo”, auspicando che la timida
apertura dell’Iran al dialogo con l’Occidente riesca a contribuire, a partire dal caso
siriano, agli sforzi di quanti sono interessati a un superamento delle fasi più acute delle
crisi in corso. Il ministro Bonino è stato chiaro in questa direzione e nel corso della sua
visita ufficiale a Teheran a metà dicembre (la prima di una personalità di governo
occidentale dopo gli accordi interinali di Ginevra sul nucleare) ha invitato l’Iran a «una
assunzione di responsabilità» anche sulla crisi siriana, oltre che sul nucleare. 14 Limitato
nella sua azione diplomatica dalla riduzione delle risorse da destinare alla politica
14
Dichiarazione alla stampa del ministro degli esteri, Emma Bonino, 21 dicembre 2013, al momento di
iniziare una visita ufficiale di due giorni a Teheran, la prima di un membro del governo italiano in quel
paese negli ultimi 10 anni.
232
Le “primavere arabe”: nascita e involuzione
internazionale, il nostro paese preferisce intervenire non più con le forme ormai
superate dell’assistenzialismo, quanto attraverso la condivisione di responsabilità con
gli stessi paesi arabi nell’affrontare i principali problemi d’interesse comune. Le intese
sugli investimenti diretti e sulla protezione degli investimenti, gli accordi per lottare
congiuntamente contro i traffici illeciti di droga e di esseri umani, contro il terrorismo e
per garantire forme essenziali di tolleranza religiosa alle minoranze cristiane sono gli
strumenti ritenuti più utili per rimanere vicini alle nuove istituzioni che dovrebbero
provvedere a normalizzare le situazioni sconvolte dalle “primavere”.
6. Le eredità delle “primavere arabe” in alcuni paesi
Dopo le violenze del 2011 e le convulsioni elettorali e costituzionali del 2012, quali
sono le eredità lasciate dalle “primavere”? Se percorriamo una rapida lista dei paesi
maggiormente interessati, possiamo trarne un quadro a tinte cangianti, ma generalmente
dominato dall’incertezza.
a) Tunisia
Primo paese ad aver acceso la miccia della ribellione e ad essersi liberato, il 14 gennaio
del 2011, dal regime del presidente Ben Ali, la Tunisia ha sperimentato in questi tre
anni ben quattro governi transitori, di cui tre dominati dagli islamisti di Ennahda.
Impossibilitato a governare da solo, con 89 deputati su 217 nell’assemblea nazionale, il
partito islamico è stato costretto a scegliere l’alleanza con due partiti laici, senza tuttavia
riuscire a raggiungere forme di governo capaci di affrontare i gravi problemi sociali ed
economici del paese. Destabilizzato dall’assassinio, nel giugno 2013, di due deputati
laici dell’opposizione e dal risveglio della potente centrale sindacale Unione Generale
Tunisina del Lavoro (UGTT), il movimento di Ennahda ha dovuto accettare, nell’ottobre
2013, una tabella di marcia che prevede la cessione del governo a un gruppo di tecnici,
incaricato di approvare un nuovo testo costituzionale e l’indizione di nuove elezioni.
Istruiti dall’esempio dei fratelli musulmani egiziani, brutalmente scartati dal governo e
criminalizzati dai militari, gli islamisti tunisini hanno accettato di fare un passo indietro,
pur rimanendo la prima forza politica in parlamento e convinti che anche il nuovo
appuntamento elettorale dovrebbe comunque vederli vittoriosi su un’opposizione divisa
233
Emanuele Pignatelli
e inconcludente. Il 14 dicembre 2013 è stato nominato un nuovo primo ministro, Meda
Jomaa, che ha accettato una tabella di marcia su cui hanno influito alcune divisioni
all’interno della stessa Ennahda, i cui membri non sono tutti integralisti abituati alla
clandestinità, ma comprendono anche esponenti di una borghesia religiosa pragmatica e
disponibile al dialogo con le altre forze politiche.
Questi politici hanno dimostrato di comprendere lo scoramento della popolazione di
fronte all’eterno dibattito sul ruolo dell’Islam in politica, che continua a impedire
l’approvazione di riforme economiche concrete; perciò, essi si sono dichiarati
disponibili ad alcuni importanti compromessi sulla bozza della nuova carta
costituzionale. I due più importanti riguardano, all’art. 2, l’adozione del principio,
sorprendente per uno Stato islamico, secondo cui «lo Stato è garante della religione.
Esso garantisce la libertà di coscienza e di credo e il libero esercizio del culto». Dalla
bozza è anche sparito il concetto di complementarità della donna rispetto all’uomo e si è
introdotto il fondamentale concetto che «i cittadini e le cittadine sono uguali davanti alla
legge». Anche se la formula si riferisce per il momento solo ai diritti di cittadinanza – e
occorrerà vedere quale di questi diritti sarà garantito nel diritto privato, in quello di
famiglia ed in quello ereditario – il fatto che la cittadinanza sia stata accettata da 159
votanti su 169 denota che anche Ennahda non è così monolitica come inizialmente si
temeva.
b) Libia
La situazione nel paese si mantiene grave sul piano politico e su quello economico e
finanziario, benché continui a essere un grande produttore di petrolio. Dopo le ondate di
violenza ad opera dei numerosi ed incontrollati gruppi di miliziani creati dal vecchio
regime, le autorità transitorie libiche si trovano in grave difficoltà nell’esercitare la loro
azione politica, incapaci di sciogliere o assimilare gli appartenenti alle bande armate
nelle nuove forze armate nazionali.
Eletti nel luglio 2012 con il compito di approvare una nuova costituzione, i 200
membri del Congresso Generale Nazionale (CGN), il nuovo parlamento erede del
consiglio nazionale transitorio, si sono visti sottrarre questo incarico a favore di una
nuova assemblea elettiva, che non è stata ancora creata a motivo delle insanabili rivalità
234
Le “primavere arabe”: nascita e involuzione
inter-etniche. Nel frattempo, il primo ministro el-Zeidane ha perso buona parte della
propria credibilità politica, a causa sia del suo rapimento di alcune ore subito il 10
ottobre 2013 ad opera di alcuni gruppi dell’ex milizia, sia delle successive accuse di
sudditanza nei confronti degli Stati Uniti, dopo che si è saputo che il governo aveva
autorizzato l’operazione dell’intelligence americana conclusasi con l’uccisione in Libia
di un importante capo libico di al-Qaeda. In questa evoluzione degli eventi dominati
dalla confusione, la produzione e i proventi del petrolio sono drasticamente caduti,
colpiti dalle proteste e dagli scioperi dei lavoratori, dalle resistenze alla produzione da
parte dei capi tribali nelle zone di produzione (decisi a strappare al governo centrale
quote maggiori dei profitti) e dalla mancanza di nuovi investimenti, indispensabili per
aggiornare impianti e macchinari. Il governo è cosciente della gravità della situazione e
lo stesso primo ministro ha avvertito che la Libia potrebbe presto trovarsi in crisi
finanziaria e non essere in grado di far fronte a stipendi e sussidi alla popolazione.
c) Egitto
Il fallimento economico della fratellanza musulmana si è tradotto anche in Egitto nel
fallimento politico del partito islamico, inducendo i militari ad assumere il controllo del
potere. Il cambio ha fatto emergere con forza l’anima confessionale del paese, ancora
largamente maggioritaria, e ha radicalizzato la ricerca di stabilità politica dei partiti
islamici attraverso il ritorno a un passato utopico e irripetibile. Il risultato non è stato del
tutto inatteso e ha visto la casta militare sfidare il sentimento religioso delle masse
criminalizzando i fratelli musulmani, sostenitori del decaduto presidente Morsi, e
ricercare l’appoggio della vecchia borghesia cresciuta all’ombra di Mubarak per
esercitare assieme a essa il controllo del paese. I lunghi tempi necessari per elaborare la
nuova costituzione e il contenuto della nuova carta, che in più di un passaggio si limita a
riprendere principi e meccanismi politici del precedente assetto politico, tradiscono le
resistenze vive nel paese ad affidarsi a modelli di sviluppo troppo innovativi e
liberistici. 15 In aggiunta a queste resistenze, la scarsa affluenza alle urne in occasione
del referendum approvativo (il 36% contro il 41% per l’approvazione della costituzione
15
La nuova costituzione, approvata per referendum il 14 gennaio 2014, vieta i partiti religiosi, ma lascia
intatti i poteri dei tribunali speciali militari e introduce riforme economiche in senso liberale solo
cosmetiche.
235
Emanuele Pignatelli
2011) e il risultato “bulgaro” del voto (oltre il 95% ha votato sì), uniti alla fuga
all’estero o all’arresto dei massimi dirigenti della fratellanza musulmana, denunciano
l’esistenza di un duro scontro in atto tra le “forze profonde” confessionali e quelle laiche
della società egiziana che rischia, se non sarà abilmente controllato dai militari, di
portare il paese a nuove divisioni civili.
d) Siria
L’abisso in cui è precipitata la Siria a causa delle sanguinose lotte tra ribelli e regime e
tra le numerose bande non rende facile una previsione di rapida pacificazione del paese.
I continui rinvii della conferenza “Ginevra 2” confermano lo scarso interesse dei
protagonisti siriani per un esercizio in cui non vedono valori ideali da difendere, né
modelli politici condivisi ai quali ispirarsi. In queste condizioni, la conferenza è forse
più importante per i fiancheggiatori esterni dei combattenti siriani che per le stesse parti
in causa.
La Russia di Putin vede nella Siria l’occasione a lungo ricercata per bloccare nuovi
interventi armati ONU o NATO nella regione e per affermare le proprie capacità di
mediazione in Medio Oriente. Gli Stati Uniti sono impegnati sul fronte opposto a tenere
sotto controllo il dinamismo diplomatico dell’Iran, decisi a impedire che la
focalizzazione dei loro interessi politici verso l’Asia lasci troppo spazio politico a
Teheran a scapito dei tradizionali alleati del Golfo. L’Unione Europea vede con
preoccupazione nella continuazione degli scontri il pericolo che si creino spazi sempre
più ampi per l’affermarsi degli estremismi religiosi e del terrorismo internazionale,
tradizionali terreni di coltura per al-Qaeda. Analoghe paure sono condivise da Israele, il
quale vede con preoccupazione la salita sempre più evidente sulla scena regionale degli
hetzbollah e la rapida perdita del delicato equilibrio confessionale e politico del
confinante Libano. 16 Ugualmente preoccupate sono le petro-monarchie del Golfo,
strette tra la prosecuzione degli scontri in Siria, con i temuti rischi di ricadute entro i
propri confini, e l’emergere di una nuova potenza regionale come l’Iran, di cui si teme il
16
Un attentato suicida a Beirut, il 27 dicembre 2013, ha ucciso 8 persone, tra cui un ex ministro sunnita
particolarmente contrario alle attività di Hetzbollah in Libano e oltre 50 cittadini. L’attentato è stato
considerato dagli investigatori locali un avvertimento sciita in vista del processo che a breve dovrà
giudicare alcuni capi di Hetzbollah accusati di aver ucciso, nel 2005, l’ex primo ministro sunnita Rafic
Hariri.
236
Le “primavere arabe”: nascita e involuzione
potenziale economico legato al petrolio e la sua volontà di porsi quale punto di
riferimento delle minoranze sciite nella regione. Il rifiuto dell’Arabia Saudita di
accettare la proposta di invitare all’Iran a partecipare a “Ginevra 2” (chiesto
formalmente dalla Russia) tradisce questo nervosismo.
Le parti in causa non si aspettano molto dalla conferenza. Per Assad, la guerra in
corso continua a rimanere un problema di polizia per combattere i rivoltosi appoggiati
dall’esterno. Per questa ragione, i delegati del regime alla conferenza sono quasi tutti
diplomatici, incaricati di trattare alla pari con i paesi terzi e di chiedere loro di arrestare
l’appoggio ai ribelli e di sostenere il regime. La CNS, la principale associazione dei
gruppi ribelli, ha accettato con mille esitazioni la proposta di dare vita a un governo di
transizione di cui facciano parte esponenti dell’attuale regime. Il gruppo dei ribelli
islamici, del quale fanno parte i salafiti e i più accesi jihadisti, si è dichiarato fin dal
primo momento contrario ad una conferenza, convinto della sua inutilità e deciso a
proseguire fino in fondo il suo confronto mortale con il regime.
Sul tavolo di “Ginevra 2” si sta giocando una partita che va ben al di là della sola
Siria e riguarda fondamentalmente il ruolo dell’Iran nella regione ed i suoi rapporti con
l’Occidente. L’esclusione di Teheran dalla conferenza, chiesta dalle opposizioni e
avallata dagli americani sotto pressione dei sauditi e di Israele, è in controtendenza
rispetto agli sforzi fatti dallo stesso Occidente sul tavolo negoziale del nucleare. Non c’è
una logica tra le due decisioni, ma conferma le difficoltà della comunità internazionale
di accettare nel club dei potenti un altro membro, prima che abbia chiaramente
dimostrato le proprie patenti di affidabilità e di coerenza diplomatica, soprattutto in uno
scacchiere di vitale attualità come il Medio Oriente.
e) La crisi degli Stati rentier
Nell’aggravarsi delle crisi economiche arabe è la filosofia stessa degli Stati rentier a
essere messa in discussione. Nelle situazioni di emergenza, la formula di “comprare” il
consenso popolare, ampliando artificialmente una borghesia statale e parassitaria, e di
distribuire a pioggia rendite e sussidi, che solo marginalmente sostengono le classi più
povere, non funziona più, mettendo in evidenza lo smarrimento del senso del bene
237
Emanuele Pignatelli
comune da parte della popolazione e la perdita di impegno civile dei cittadini per una
politica di sviluppo sostenibile.
7. Conclusioni
Ormai è abbastanza chiaro che le “primavere” sono state delle ribellioni spontanee e
non delle rivoluzioni: è mancata una visione condivisa per un nuovo tipo di società e di
politica e sono mancati leader carismatici e riconosciuti in grado di incarnare
trasformazioni profonde nel rapporto tra sistema confessionale e sistema laico di
gestione dello Stato. Dopo i movimenti di piazza del 2011, i paesi coinvolti sembrano
tornati al “business as usual” e la caduta delle precedenti istituzioni non è stata seguita
da nuovi modelli politici ed economici realmente innovativi. Se ancora non si vedono
gli aspetti positivi delle rivolte, se ne vedono purtroppo quelli negativi che oggi
coinvolgono anche paesi come il Mali, la Repubblica centrafricana, il Sud Sudan e lo
stesso Libano, alle prese con l’aprirsi o il riacutizzarsi di antiche e profonde tensioni
interne.
Sul piano interno, a parte il caso della Siria (dove la sanguinosa lotta tra ribelli e
regime appare ancora lontana da una conclusione), nessuno degli altri paesi arabi ha
approvato testi costituzionali realmente innovativi rispetto al passato. Il rinvio di
processi elettorali per nuove istituzioni politiche ha visto la prosecuzione di regimi
transitori che non hanno l’energia necessaria per superare le irrisolte tensioni
confessionali, sociali o inter-etniche che ancora scuotono molti dei paesi arabi.
Sul piano regionale, i nuovi regimi non hanno portato a mutamenti di sostanza nei
rapporti regionali o a un riallineamento delle loro più tradizionali posizioni strategiche
internazionali. I fratelli musulmani non hanno mutato la politica estera dell’Egitto,
tradizionalmente equidistante tra Hamas e al-Fatah, anche se all’inizio si temeva che il
nuovo regime insediatosi al Cairo avrebbe potuto chiedere la rinegoziazione degli
accordi di Camp David con Israele. Nel Maghreb, le aperture politiche sostenute dai
nuovi regimi non hanno favorito l’auspicato rilancio della congelata Unione del
Maghreb arabo, né sono state superate le tensioni fra Marocco e Algeria sul Sahara
occidentale. Il Libano continua a essere terreno di scontro tra sunniti e sciiti ed è usato
238
Le “primavere arabe”: nascita e involuzione
da Arabia Saudita, Qatar e Iran per misurare le rispettive forze. La mancanza di governo
in Libia e la caduta della soft power di Gheddafi, legata alle forniture agevolate di
petrolio, ha aperto nuovi fronti di tensione tra i paesi della fascia sub-sahariana,
alimentata dalla diaspora dei miliziani libici.
Sul piano economico, le “primavere” hanno confermato che le nuove autorità hanno
potuto solo ripiegare su obiettivi di breve periodo, cioè creare impieghi pubblici e
concedere sussidi a pioggia. È mancata la ricerca di strumenti interni di crescita e di
valorizzazione di una maggiore partecipazione del settore privato e degli investimenti
stranieri alla crescita economica. Sicuramente, non c’è stato il tempo per tutto questo e
le tensioni confessionali ed etniche esplose alla caduta dei vecchi regimi non hanno
permesso di ipotizzare possibili operazioni di lungo termine. La “transizione araba”
seguita alle “primavere” ha messo a nudo le debolezze delle concezioni degli Stati
rentier. In paesi abituati ai benefici dei proventi del petrolio o ad altre rendite (vedi il
Canale di Suez per l’Egitto, il turismo, o la continua assistenza finanziaria da parte dei
paesi più ricchi mossi da motivazioni di soft power religiosa), le nuove istituzioni non si
sono allontanate dagli abusati meccanismi di distribuzione di fondi a pioggia, senza
promuovere una reale mentalità imprenditoriale locale e finendo ancora una volta per
rinviare l’occasione, per i partiti religiosi, di aprirsi al dibattito democratico e al
maturare di quella coscienza politica meno confessionale che le “primavere” del 2011
avevano lasciato sperare.
239
Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali
Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 241-254
e-ISSN 2280-8949
DOI 10.1285/i22808949a3n1p241
http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento
RICARDO RABINOVICH-BERKMAN
Game of Laws.
On the Creation of Fictitious Juridical Yesterdays
Abstract: All the fictitious pasts display or imply a juridical background, because a human society without law is simply unthinkable. In the past times transplanted from real history to an invented ground,
juridical aspects are involved. The paternity of this rich gender could be recognized to four English
tongue writers: Howard Ph. Lovecraft, Robert E. Howard, John R.R. Tolkien and Clive S. Lewis.
Keywards: Fiction; juridical aspects; Howard Ph. Lovecraft; Robert E. Howard; John R.R. Tolkien;
Clive S. Lewis.
“The man who passes the sentence should swing the sword.
If you would take a man's life,
you owe it to him to look into his eyes and hear his final words.
And if you cannot bear to do that,
then perhaps the man does not deserve to die.”
George R.R. Martin, A Game of Thrones
1. “Ex nihilo nihil fit”
It is not a recent thing the creation of completely fantastic past times. We may let aside
the Iliad, assuming their creators, as in the case of Greek classic tragedy, considered its
scenarios real. But we could trace that invention at least down to Moslem mediaeval
literature. In the Twentieth Century, though, and especially through cinema (and afterwards television), this gender arrived to peaks unexpected before.
“Ex nihilo nihil fit”. No creation of a past, as fictitious as it may be, could be made
without any consideration of the real yesterdays of mankind. And, of course, in that past
times transplanted from real history to an invented ground, juridical aspects are involved.
In its last and imposing growth, the paternity of this rich gender could be recognized
to four English tongue writers. Two Americans, Howard Phillips Lovecraft (1890-
Ricardo Rabinovich-Berkman
1937) and Robert Ervin Howard (1906-1936). A British born in South Africa, John
Ronald Reuel Tolkien (1892-1973). And an Irishman, Clive Staples Lewis (18981963). All of them had works taken to cinema.
2. Lovecraftian past
Howard Lovecraft was one of the most important terror writers of all time. Admired,
among others, by Jorge Luis Borges, he continued the stile of his compatriot Edgar
Allan Poe (1809 - 1849). He predominantly produced short stories. In them, laterally, he
created a dark and epic world, situated in a remote era, previous to any memory of present humanity. There, magicians and sorcerers shared with supernatural beings a monstrous and oppressive scenario.
In the Lovecraftian invented past, with an obvious smell of Nietzsche, wright is
given by force. Power, physical or obtained through witchcraft, turns licit the will of its
owner. Everything is allowed in the search of supremacy. Murders, robbery, torture, are
justified if their author succeeds.
Once the power is obtained, there are no forbidden things for its owner. His will is
the law, whatever he desires. There are no moral restrictions. Even the gods are evil and
they recognize no ethics. They are bloodthirsty deities, ready to acknowledge any atrocity as long as they are well served.
Overwhelming Lovecraftian fantasies are often narrated as dreams the characters
have. They appeared in «Weird Tales» magazine, and inspired the “sword and sorcery”
literary movement, also called “heroic fiction”, which gave subject for all kind of films.
Some of them met great success, but a lot were low quality movies, often made using
settings, makeups and ideas of the successful ones.
The movement’s fictitious juridical background is substantially Lovecraftian, with
variations. A Hobbesian viewpoint of human being and society is adopted. As in those
imaginary eras there are no states (only kingdoms or lordships with rulers concerned
with power and war) a situation of crude violence, where “naturally” the weak is submitted to the strong, prevails.
242
Game of Laws
In this picture, the only hope of the frail is to wait for a hero to come and defeat the
powerful lord who oppresses him. But this victor must be generous in order not to humiliate the poor as his predecessor, or even more. There are no religions of the Biblical
stock or anything like them, nor the moral principles associated to them. Only inebriating universes where the will runs free and blood, sadism and violent fantasies are canalized and encouraged.
3. Howardian past: Hyboria
Robert Howard was not a direct disciple of Lovecraft, but he was obviously influenced
by his inventions and ideas. He created his own heroic pre-historic world, very similar
to his teacher’s one. Juridical criteria were practically the same. He called it “Hyborian
age”. In that scenario, Howard put to action epic warrior characters, merciless, often
based in European or Mesopotamian myths. Some of these characters would become
thoroughly famous, and would find their way to the big screen, such as Kull of Atlantis
(Kull the Conqueror) and Conan the Barbarian.
Socio-juridical Howardian contexts do often reserve some despise towards commerce and those who practice it. Merchants are usually shown as some kind of helots.
They are weak, treacherous and mean beings, lurking in a society of heroic warriors.
Sometimes, they present characteristics, which in the Middle Ages were associated to
the Jewish archetype, relation occasionally reinforced by the clothing, and countenance,
which remembers those of ancient Hebrews.
Cities governed by merchants are displayed normally as fake democracies, where an
unscrupulous class of rich, lusty and effeminate men monopolizes power. Among them
word has no value (curiously) and treachery is common. Wives are bought and sold,
kept as sad merchandises subject to the dirty hands of their dubious husbands (while, of
course, they dream of being taken by a warrior).
On the other hand, heroes normally prefer monarchic systems, ruled by skilled fighters. Scarcely dressed, showing their cultivated muscles, they feast, eating and drinking
noisily all together. Slaves, often blacks, and comely servant girls whom they humiliate
and molest (but the maids seem to like it) as part of their fun and joy attend their com-
243
Ricardo Rabinovich-Berkman
mon large tables. They are manly, machos, rustic stallions, contrasting with the sexually
ambiguous sophistication of the merchants.
In what concerns what our societies normally consider crimes, homicide is permanently committed, and it fits in common day life of heroes as something natural. Raping
women is a normal conduct among the glorious warriors, and even an object of celebration, because these fierce fighters, who risk their lives permanently, need to unleash
their erotic fire. And ladies should be, anyway, honoured for the reception of such a
precious seed, which will enable them afterwards to bear giants. Of course, it’s a
Nietzschean world.
Thieves, declared enemies of private property, are severely persecuted in the merchant’s cities, and hardly punished if captured (what seldom happens, because they are
cunning in their hideaways and escapes). On the contrary, robbers are sympathetic,
though in a kind of contemptuous way, to the heroes, because, at last, they both share
despise for the merchants and their silly love for material goods. Not rarely, thieves that
are in the run from urban justice, or even already caught by it’s executors, are sheltered
or rescued, more or less as pets, by the warriors, who paternally mock at them, but end
by benefiting through some low service (as, for instance, the opening of a locked door)
rendered by the grateful saved robber in exchange.
Fictitious Lovecraftian and Howardian pasts are often racist. Heroes use to have the
characteristics of “Aryan” or “Nordic” archetype. They normally display beards and
blond or clear hairs. They are usually tall, strong and white skinned. Their names and
their culture bear predominantly ancient Germanic echoes, sometimes even Sanskrit
smell. Things related with Orient or Africa are normally related with whatever is low,
anti-heroic or degraded.
Of course, in the last quarter of the Twentieth Century, laws, judicial decisions or
practices, in a changing socio-political scenario, compelled the movie and television
makers to diminish or dissimulate the racism involved in these fictitious universes. So,
curiously, in another demonstration of the relation between law and cinema, juridical
and social modifications occurred in the real present world affected those remote imaginary landscapes. Surprisingly, black heroes appeared, even Japanese or Chinese warri-
244
Game of Laws
ors, armed with katanas, and fighting ferocious women multiplied (often preferring
bows and arrows as their weapons, which seemed to appear more feminine to movie
makers and writers). So, the evidently racist and discriminating context of the classic
novels and short tales of this gender, and of it’s first films, became more concealed,
more implicit sometimes, but dust is often shown under the carpet corners.
4. Tolkien’s Arda
Tolkien was an erudite English linguist scholar. He carefully created the fictitious universe of Arda. The name remembers ancient Germanic words referring to the Earth.
Even though, Arda could be our own planet in an archaic past, in Lovecraftian stile, or it
could represent another imaginary world.
Tolkien’s Arda goes through a heroic era. We do find human beings, but they coexist
with strange creatures, taken from different mythological traditions. So we will discover
in Arda the Elves, the Wizards or Istari, the Trolls, the Hobbits and the Orcs. The
Dwarves, curiously, are not human, and they have little in common with persons with
the condition known as “dwarfism” (they are of small height, of course).
Most of this species have a realm of their own, with a different juridical and political
system. We can trace a certain hierarchy between the races, where Elves occupy an undisputed summit (there are, notwithstanding, some differences between the culture and
characteristics of the diverse groups of Elves, and a graduation could also be drawn inside the species).
We may find a proportional relation between the superiority of a species and the respect that species pays to a juridical order conducting to social peace. Elves, for instance, are beings that hold a perfect and idyllic coexistence. They are ruled by customary immemorial principles that extremely seldom someone discuss or trespass.1 Orcs, in
the antipodes, live in a permanent state of discordance and violence. Their chiefs are
imposed by nude force. So, they constitute the lower step of all.
1
Tolkien himself writes about this Elvish customs in Morgoth’s Ring, 10th volume of The History of
Middle Earth (J.R.R. TOLKIEN, Morgoth’s Ring: The Legends of Aman, Boston, Houghton Mifflin, 1993,
pp. 209 ss). There’s only one real case of serious law trespass remembered by the Elves, that of Maeglin,
a character in the novel The Silmarillion.
245
Ricardo Rabinovich-Berkman
Underneath Elves and Wizards, human beings or “second people” (“Atani”, in the
carefully invented Elvish tongue) are superior to Hobbits (even though closely related to
them) and to Dwarves. These three races, anyway, together with Elves and Wizards,
share epic experiences, in an eminently mediaeval environment.
Tolkien works require, in order to be well taken to cinema, sophisticated resources.
Complicated makeup, imposing special effects, great scenography, difficult monumental exteriors, and a lot of extras, are unavoidably needed. This implies a very huge
budget. Maybe that was decisive in making cartoons one of the first ways for Tolkien’s
arrival to great screen. Cartoons allow resolving all those problems with a low cost. An
American director, Ralph Bakshi, concreted that in 1978, with J.R.R. Tolkien’s The
Lord of the Rings.
More than two decades were to be waited until in 2001, employing informatics technology, a non-cartoon movie could achieve the level required by the literary source. A
New Zealander, Peter Robert Jackson, directed the film. He developed a trilogy, with a
movie per year, each one of them named after the corresponding book of Tolkien. The
result gained a colossal economic success and harvested a lot of prizes (including 17
Oscars). Besides that, it probably constitutes the best example of monumental cinema of
all times.
5. Lewis and his Narnia
C.S. Lewis was a learned philologist and mediaevalist. He left a very vast production,
including The Chronicles of Narnia, written between 1950 and 1956. This work was
originally conceived for the young, but soon it proved of interest for all publics. Maybe
due to that initial destination, Narnia’s mythical past (shown as a parallel present) hasn’t
got the overwhelming charge of Lovecraft’s or Howard’s creations, not even that of
Tolkien’s Middle-Earth.
But in Lewis’ novels what appears very neatly is a mediaeval atmosphere, filled with
feudal elements taken from the real British juridical past. In the Narnian universe, human beings coexist with personalized animals, which often fall into traditional Euro-
246
Game of Laws
pean stereotypes, such as the lion-king, and completely fantastic entities (among whom
we can recognize classic figures like the fairies and the witches).
In Lewis’ fiction the cult of violence is extremely less than in the previously seen
expressions. On the contrary, moral messages are clear, and substantially coherent with
a current Christian and neo-gothic knightly Weltanschauung.
The Chronicles of Narnia had been taken several times to radio and television, before they finally reached monumental cinematographic production, when the three first
books of the series were taken to the movies. Another New Zealander, Andrew
Adamson, directed The Chronicles of Narnia: the Lion, the Witch and the Wardrobe in
2005. This same artist directed three years later The Chronicles of Narnia: Prince Caspian). And Michael Apted, from England, directed The Chronicles of Narnia: the Voyage of the Dawn Treader in 2010. Films of this gender flourished, as it can be seen, in
the last decades, because of the imposing special effects allowed by informatics. As a
matter of fact, in their monumentality, these productions became wonderfully functional
to the recovery of public for cinema theatres in face of the hard competence given by
new home-based exhibit devises, such as videocassettes, DVD and giant TV sets. So
directors full their movies with colossal scenes that can only be really enjoyed in the big
screen and with a very good sound.
The fact that these films aimed fundamentally on young public augmented their
pedagogic operation and their capacity to install behaviours. Both aspects were potentiated and continued outside the cinema halls by means of videogames and roleplaying,
feed-backed by the merchandising of products related to this movies (t-shirts, toys,
posters, weapons’ reproductions, etc.) Obviously, today we would rather find a hundred
20-year-old chaps who can lecture about political law in Gondor or Rohan (kingdoms of
Tolkien’s Middle-Earth) than one who can barely say what kind of government had
Anglo-Saxon Mercia.
Fictitious pasts featured in this gender could be divided, in general terms, in two
groups: “mediaeval” and “ancient”. The first ones fit normally in Tolkien or Lewis
lines. For instance, works inspired in the writings of American Ursula K. Le Guin, author of the Earthsea saga, initiated in 1964 with the short story The Word of Unbinding.
247
Ricardo Rabinovich-Berkman
“Mediaeval” fictitious pasts show castles, fortified towers, imposing walls. Countries
are ruled by kings, princes or warlords. Titles are often taken from European Middle
Ages (earl, duke, steward, regent). Warriors subject to the feudal lords ride on horses,
wear armour, helmets and shields. They fight with swords, spears, maces and other
weapons borrowed from mediaeval warfare. Characters typical of mediaeval folklore,
some of them also acquainted with repressive law of the time, are displayed, such as
wizards, sorcerers, witches and fairies. Guilds of magicians are formed, and also knight
orders. And the normal background juridical landscape for all this is a romantic negothic vision of feudalism.
“Ancient” fictitious pasts are more related to the creations of Lovecraft and Howard.
They often depict an entourage of empires and conquerors, where Mesopotamian elements are sometimes engaged with Egyptian, old Germanic and Greco-Roman influences. One must not be surprised if even Chinese or Japanese traces are found… and
maybe Native American factors!
6. A law of ice and fire
A very particular case is A Song of Ice and Fire, of American writer George R. R. Martin, which first volume, A Game of Thrones, appeared in 1996. For this extraordinary
saga includes elements of the “ancient” type over a predominantly “mediaeval” background. As it is clearly destined to adult public, though, it lacks the moral basements
which characterise fictitious medieval pasts.
This work of George Martin generated the television miniseries Game of Thrones,
whose first season was aired in 2011, and is now (2014) featuring it’s fourth. The success and popularity of this TV product is unparalleled, and experienced a remarkable
growth year after year. A lot of people read the books only after having watched the
series, which is probably the best release the gender gave for the small screen up to this
day.
It is quite interesting to see how in this masterpiece of the style the Nietzschean environment, proportional with the lack of a law system and the absence of ethical criteria
seem to grow as we go from the frozen North kingdoms to the warm South realms, in
248
Game of Laws
the imaginary map where action takes place. This gradation may be or not deliberated,
but if it were it could hide an amazing meta-message.
The question concerning the form of government (we could say, the constitution) of
a realm appears as a highlight of the First Season, mostly surrounding the functions of
the “King`s Hand”, a sort of prime minister, and it`s difficult relation with the monarch
(and also the bonds between sovereign and warlords). In the Second Season, the matter
of the succession to the throne, both in the principal kingdom and in the other minor
political unities, takes the juridical primacy. In the Third Season, through the story of
the unique character of the “Khaleesi”, the subject of slavery and the liberation of the
servants acquire paramount relevance, concluding in the unforgettable ending of the last
episode, maybe the best season closing ever made.
Even though Martin had been an active pacifist and conscientious objector during
Vietnam War, violence is proverbial in these books and in the miniseries, where it
reaches unprecedented levels. All kinds of atrocities are featured in an explicit manner,
with no regard for the sensibility of spectators. Rapes, torture, amputations, bloody fight
scenes, horrible assassinations; you have everything, an entire menu of sadism. Embryos of criminal law are sometimes shown, as is the general rejection directed against
the figure of the “Kingslayer”, a member of the royal guard who killed the monarch he
was supposed to protect. Certainly, the idea of a legal system and procedure concerning
crimes is more present in the books than in the TV series.
Questions related to marriage, the rights of husband and wife, the situation of out-ofwedlock children (particularly treated in this saga, and in a very curious way), inheritance of estates law, and other juridical issues appear throughout Game of Thrones, in a
collateral but attractive way.
Exquisitely rich in dealing with matters concerned with the exercise of power, this
production would merit a profound study for itself, both from the juridical-political and
philosophic viewpoints. Hope some brilliant young fan, as my own son Ezequiel (whom
I thank, by the way, for critically reading this paragraphs), will pick up the glove of this
challenge.
249
Ricardo Rabinovich-Berkman
7. A long time ago in a galaxy far, far away
The “mediaeval” universes created in science-fiction movies situated in outer space
show a very interesting variation of this gender. The origins of this form can be traced
up to the Flash Gordon comic, which arrived to cinema in 1936 and, in lesser measure,
it’s competitor Buck Rogers, in the big screen since 1933.
Probably the best-known example of the kind, and with all reason, is the saga Star
Wars (George Lucas, 1977 - 2005), composed by six extraordinary films perfectly capable of being interpreted as a political allegation (and maybe the best ever made) on
the transformation of democratic republics into totalitarian empires, without formally
loosing juridical republican appearance in the process (as in Augustus’ Rome or Hitler’s
Germany). This imposing films may be included in the gender of the fictitious pasts
from the very beginning, because Lucas expressly allows it when initiating the saga
with the phrase that became a classic quote: «A long time ago, in a galaxy far, far
away». So, even though in this case the past is declaredly extra-terrestrial, with no room
for doubts as in some of the previous examples, it remains as a “universe past”.
The greatest challenge this kind of productions pose to our classification is the overwhelming presence of high technology elements, characteristic of the futurist fiction.
But, notwithstanding those spaceships, sophisticated weapons and complex computers,
“mediaeval” environment is obvious. Titles taken from European history are there from
the first minute to the last: we find an Emperor, various Kings and Queens, Counts and
even a Princess in distress that needs rescue. Is there any doubt left?
Two rival knight orders fight the entire saga along. One of them embodies the Good,
and the other is inherently evil. Moral codes are very strong in this production (we
should remember this is a characteristic of the “mediaeval” sort). The good ones are the
Jedi knights. Their order requires vows of obedience, poverty and chastity, as the Templars (and as the Night’s Watch of Game of Thrones). Those vows are severely enforced, as we know by the story of knight Anakin Skywalker, who disobeys them.
In the middle of incredible technology devices, while crossing the universe in lightspeed vessels, this knights, who hold their gatherings in a round meeting, as the Holy
Grail ones did, insist in fighting with swords (with laser blades, but swords neverthe-
250
Game of Laws
less). Of course, they wear capes and have a rough apprentice period. And when they
win they receive medals and decorations.
The analysis Lucas achieves in this extraordinary saga about the political, social,
psychological and, of course, juridical tools and procedures by which a more or less
democratic republic may be transformed into a monolithic tyrannical state, while denominations and external forms are preserved, is really astonishing. These productions
should be exhibited seriously in all university courses concerning these matters, followed by a huge and open discussion in the classroom. No law-history treaty could
reach the same effect.
8. The problem of mixed pasts
When a past is clearly fictitious, the spectator or reader knows it. Notwithstanding, he
may connect, of course, the imaginary elements with real ones (as, for instance, in the
case of Star Wars). He will probably make conclusions; even arrive to some learning,
good or bad. But he is only deceived if he is completely uninformed of human history.
Even in that hypothesis, the presence of dragons, orcs, wizards and that sort of things
will ring a powerful bell awaking him or her from the sweet dream of ignorance.
But what happens if there is a deliberate intention of the creators of the fictitious past
to trick the public into confusion? That could be done, for example, by a subtle introduction of factors easily associated with well known cultures, such as pyramids or Doric
temples, or the employment of the names of historic peoples (i.e., Goths, Huns), or real
geographical data (for instance, Mesopotamia or the Atlantic Ocean).
The problem here lies in the fact that these pasts are and remain completely fictitious. Consequently, there is no concern for any kind of fidelity to historical records or
real sources. And, as cinema and TV have massive reach, arriving to millions of persons
throughout the entire world, and both have an undisputable pedagogical effect, the results may lead to a serious and preoccupying tergiversation of the knowledge of the
past, with complicated, and probably deleterious, impact in popular historical culture.
Let’s pick up a perfect specimen: the movie 10,000 BC (Roland Emmerich, 2008).
This film mixtures the monumental-history gender with the fictitious-pasts one, in its
251
Ricardo Rabinovich-Berkman
“ancient” line. Sub-estimation of the public arrives here to the level of naked rudeness.
Egyptian pyramids and the Sphinx are built under atrocious slavery regimes, ten millennia before Christ, with the aid of mammoths. In face of such a mess, the presence of
horsemen dozens of centuries before horse riding and of animals extinct more than a
million years ago, is a mere piece of cake.
Of course, we remember immediately the lamentable film One Million Years BC
(Don Chaffey, 1966), where human beings and dinosaurs coexist, as happened with it’s
predecessor One million B.C. (Hal Roach and Hal Roach Jr., 1940). Nevertheless,
10,000 BC met a remarkable economic success, which means that a huge quantity of
persons saw it. A lot of them, probably, lacked a solid historical basic formation. And
they received, without warning, this creation of a completely invented past, presented as
real.
For those who might think that dealing with pre-historic scenarios necessarily imposes a pathetic production, we could oppose French film Quest for Fire (La guerre du
feu, Jean-Jacques Annaud, 1981). This is, as a matter of fact, one of the most serious
movies ever made, from the anthropological viewpoint, in this fragile field. It housed at
least two luxury names. One was British linguist and writer Anthony Burgess, mostly
known for his profound and disturbing novel A clockwork orange. Burgess was in
charge of the confection of pre-historic languages, a task he developed in an extraordinary way. The other was the famous zoologist and ethologist Desmond Morris, author
of the famous essay The Naked Ape: a Zoologist’s study of the Human Animal. Morris,
also from England, supervised the character’s gestures and body movements.
Reconstruction of a hypothetic remote Palaeolithic law, even involving Neanderthals, is quite a challenge. Of course, that recreation is needed in a film like Quest for
Fire. The one this production delivered was very interesting. Perhaps it would be thoroughly revisited today, because the then prevailing idea of the Neanderthal as violent
and somewhat stupid beings is now loosing terrain. Presently, they tend to be considered as pacific and intelligent, probably even more than homo sapiens sapiens. But the
subject still remains in the house of hypothesis.
252
Game of Laws
Cinema is, firstly, an artistic expression. Therefore, no limits should be placed to the
freedom of creation, as were imposed by a lot of societies throughout the centuries, alleging religious, moral or political reasons. So, the invention of false pasts fits in that
frame of liberty that nowadays law tend, fortunately, to grant. The problem is the enormous power cinema possesses in the formation and diffusion of Weltanschauungen.
That pedagogical potency is incremented in films dealing with the past, because they
are received (wanting or not) as history lessons. This effect is stronger in the present
context of general poor treatment of history both in elementary and high schools. We
still live in a world where millions don’t even get a basic education. And it must be considered that movies reach those who cant read or, even knowing how to read, prefer, for
cultural reasons, unwritten transmission.
Mixture of highly fictitious pasts with real and easily identifiable data generates a
serious disturbing effect in that propaedeutic function of TV and cinema. Special effects
maker Ray Harryhausen, speaking of the success gained by One million B.C. (probably
by large due to famous Rachel Welch’s fur bikini), whose anachronic dinosaurs he had
created, answered to critics generated by the scandalous lacking of historical base of the
film, that he had not made it for professors who «probably don’t go to see this kinds of
movies anyway».2 Seldom are these ideas exposed with such sincerity. Prejudice sustaining that certain “kind of movies” are only for ignorant people (“non professors”) is
mixed with the conviction that such public may digest everything, without any sort of
complaint.
This is the perilous point where artistic freedom encounters lack of respect, and there
we can expect everything. Being cinema the most lucrative of arts, whatever makes
money to flow inwards is welcome. Surely, fights between dinosaurs and human beings
are very attractive, and so they sell. As do imposing scenes of Egyptian pyramids being
built by mammoths in a remote pre-historical frame. Money makes the rules and,
maybe, sometimes, also some ideological message is lurking down there too.
2
This caustic comment appears in the official DVD of the original film King Kong (Merian C. Cooper Ernest B. Schoedsack, 1933).
253
Ricardo Rabinovich-Berkman
This problem diminishes as the fiction of the past becomes evident. But then again,
“ab nihilo nihil fit”. So, Tolkien, for instance, played with words, as he did when he
called a monarch “Theoden”, an Anglo-Saxon word meaning “king”. Anyway, in his
mythical Middle-Earth English is spoken, and English happens to be a real language,
resulting from a linguistic authentic history, which took place in Britain, not in Gondor
nor in Rohan. But this kind of fictitious pasts bring minimal trouble compared with the
other ones, where both universes are intermingled.
9. The End
All those fictitious pasts display or imply a juridical background, because a human society without law is simply unthinkable. Seldom will that matters be the highlight in these
films. But we will be able to grasp at them whenever a criminal trial is displayed, or a
wedding ceremony, or the celebration of a contract, or when the legitimacy of a ruler is
discussed, or his or her justice is debated.
These juridical imaginary constructions will be based over real ancient (or present)
institutions. That ontological community, besides, accomplishes a function. It enables
the receiver to identify what he finds in the book or the screen, and thus decode the
messages. He must understand that the shown person is a judge, that those people there
form a jury, that this place is a jail, that the paper hanging in that wall bears a legal disposition, that the execution displayed is a criminal punishment. The reader or spectator
can only do that by referring to his or her own cultural parameters.
From the moment we jurists decided finally to understand that our field is extremely
wider than the mere study of laws and tribunal decisions, from the second we realized
that we had an entire and magnificent social world before us, waiting desperately to be
analysed with our tools and from our points of view, this enchanting panoramas appealed to our attention. Courage will be needed for young scholars to work their doctoral thesis harvesting fertile these lands, and for the older teachers to accept them willingly.
But we are not allowed any more to continue stolidly ignoring all these amazing
trails we must trek.
254
Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali
Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 255-262
e-ISSN 2280-8949
DOI 10.1285/i22808949a3n1p255
http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento
GIULIANA IURLANO
Line in the Sand.
Frontiera e frontiere negli Stati Uniti dell’Ottocento
FRIDA KHALO, Autoritratto al confine
tra Messico e Stati Uniti, 1932
«Puntò a nord il muso del cavallo, verso
le montagne di pietra che si stendevano sottili
lungo il margine del cielo, e cavalcò con le stelle
davanti agli occhi e il sole alto sul capo. Era un
paese che non aveva mai visto, e non c’era
una pista da seguire per addentrarsi fra quelle
montagne né per uscirne. Eppure, proprio nel
fitto di quelle rocce, incontrò uomini che
sembravano incapaci di tollerare il silenzio del mondo.
CORMAC MCCARTHY, Meridiano di sangue
«Our life should be so active and
progressive as to be a journey».
H.D. THOREAU, Journal, III, 240
Abstract: This article is a brief comment about the importance of the frontier in American history. Indeed, the American frontier in the 19th century is a whole of frontiers, in which the wilderness is a human
line, because in it are present all the aspects of the human will.
Keyword: American frontier; wilderness; human will.
Giuliana Iurlano
Con la scoperta del Nuovo Mondo, la frontiera atlantica fu completamente attraversata e,
con essa, finì accantonato anche il paradigma di una Terra più piccola e ridotta, come si
era pensato che fosse fino ad allora. In qualche modo, la colonizzazione inglese del
Nord America si svolse all’insegna di un limite da superare, di un oltrepassamento dei
valori europei, di un loro hegeliano “inveramento” nel continente americano, sull’onda
di quell’irruenza creativa whitmaniana che avrebbe dato al mondo un originale way of
life. L’American Way, infatti, è un tutt’uno con la frontiera e con il Manifest Destiny: è
l’identità stessa americana, l’atto fondativo di una nazione, che – con la dichiarazione
d’indipendenza del 1776 – ha soltanto ribadito ciò che essa era già diventata da tempo.
Non è un caso, infatti, che la storia americana sia intrisa dell’ideologia della frontiera,
di questo confine mobile che arretra davanti all’avanzare dei pionieri, che sfida la loro
resistenza e ne mette a dura prova il carattere:
«Nel temperamento americano – scrive Paul Claudel – c’è una qualità, chiamata resiliency, che abbraccia i concetti di elasticità, di rimbalzo, di risorsa e di buon umore […]. Ho visitato l’America alla fine della presidenza Hoover, in una delle ore più tragiche della sua
storia [la grande depressione], quando tutte le banche avevano chiuso i battenti e la vita economica era ferma. L’angoscia stringeva i
cuori, ma l’allegria e la fiducia splendevano nei volti di tutti. Ad ascoltare le frasi che si scambiavano, si sarebbe detto che era tutto un
enorme scherzo. E se qualche finanziere si gettava dalla finestra, non
posso impedirmi di credere che lo facesse nell’ingannevole speranza
1
di rimbalzare».
Ma la frontiera è anche un’apertura mentale, una capacità di guardare avanti e di superare paure e pregiudizi, di creare nuove istituzioni e nuove società, di resistere alla potenza della wilderness e di sconfiggerla ogni volta. La Frontier Thesis di Frederick J.
Turner – nonostante le critiche che ha ricevuto nel corso del tempo2 – resta un punto
nodale della storia americana, 3 perché rilegge l’espansione americana alla luce
dell’evoluzionismo spenceriano, attribuendogli significati e valori molto distanti dalla
1
P. CLAUDEL, Oeuvres en prose, Paris, Gallimard, 1965, p. 1205.
Sul dibattito aperto dalla tesi di Turner, cfr. T. BONAZZI, Frontiera, in Il mondo contemporaneo. Storia
del Nord America, a cura di P. BAIRATI, Firenze, La Nuova Italia, 1978, pp. 79-96.
3
Cfr. F.J. TURNER, The Frontier in American History [The Significance of the Frontier in American History, 1893], New York, Henry Holt & Co., 1953.
2
256
Line in the Sand
percezione europea. La frontiera, insomma, non come linea di demarcazione, di chiusura, ma come “area che invita a entrare”, per usare le parole di uno dei più noti discepoli
di Turner, Walter P. Webb.4
La frontiera, insomma, è indissolubilmente legata alla wilderness, a quella natura
selvaggia da cui dipende la “sopravvivenza del mondo”,5 come asseriva Henry David
Thoreau, uno dei primi ambientalisti che la storia ricordi:
«Il mio stato d’animo infallibilmente s’innalza in misura proporzionale all’essenzialità del paesaggio. Datemi l’oceano, il deserto, la natura incontaminata! [...] Per quanto mi riguarda, credo di vivere, rispetto alla Natura, una vita di frontiera, ai confini di un mondo entro
cui compio occasionali, fuggevoli incursioni, e il patriottismo e il
sentimento di fedeltà verso lo stato nei cui territori apparentemente
batto in ritirata, sono quelli di un imboscato. [...] La natura ha un carattere così vasto e universale da non consentirci di identificarne un
6
solo tratto».
La “natura” ha contraddistinto sin dall’inizio il Nuovo Mondo ed ha creato, essa stessa,
un confine, talvolta impenetrabile, dietro il quale s’intuivano l’ignoto e il mistero, che,
come calamita, affascinavano e attraevano l’uomo europeo, lo invitavano alla conquista
e all’addomesticamento di boschi, lande, paludi, deserti, per poi ricacciarlo indietro con
furia primordiale e distruttiva. La domanda di Emerson – «Perché non dovremmo sperimentare anche noi un rapporto originale con l’universo?»7 – risuona ancora vivida e
forte, ma la risposta è già implicita: l’età “retrospettiva” delle nuove generazioni, costruttrice di “sepolcri dei padri”, autrice di biografie, storia e critica, ha anch’essa il diritto di «contemplare Dio e la natura faccia a faccia».8 E la frontiera segna il livello di
quella contemplazione, marca il terreno sottratto all’ignoto, fruga in tutte le direzioni,
meno che in quella che si è lasciata alle spalle.
Quel “rapporto originale con l’universo” si è effettivamente realizzato con la nascita
degli Stati Uniti d’America, con la dichiarazione d’indipendenza del 1776 e con la costituzione federale, che hanno aperto improvvisamente uno squarcio di novità nelle realiz4
Cfr. W.P. WEBB, The Great Plains, Boston, Ginn, 1931.
H.D. THOREAU, Camminare, a cura di F. MELI, Milano, SE, 1989, p. 34.
6
Ibid., pp. 38 e 55.
7
R.W. EMERSON, Teologia e natura, a cura di P.C. BORI, Genova, Marietti, 1991, p. 7.
8
Ibid.
5
257
Giuliana Iurlano
zazioni dell’uomo. L’esperimento americano è stato sostanzialmente una “frontiera” superata, un mettersi alle spalle il Vecchio Mondo così com’era, per ricrearlo in una terra
diversa e difficile, per rielaborarne i valori alla luce di un confronto continuo con sé e
con gli altri, in un puzzle semantico9 e in una complessa costruzione sintetica, alcune
volte melting pot, altre volte salad bowl, altre volte ancora hyphenated American. «Da
qui veleggiare è facile»: queste le ultime parole dell’autore della Civil Disobedience,
pronunciate alla sorella Sophie prima di morire.10 “Da qui”, dai boschi di Concord, dalla
terra americana tutta, “veleggiare” era effettivamente facile: raggiungere e oltrepassare
le frontiere era parte integrante dell’identità americana, costruire villaggi e città nella
wilderness,
accanto
o
al
posto
degli
insediamenti
indiani,
era
implicito
nell’espansionismo genetico americano.11
Su quella linea mobile, il rapporto tra uomo e natura si disintegra e si reintegra continuamente; ma, avverte Marco Sioli,
«vedere il rapporto tra natura e metropoli come una relazione antitetica e conflittuale [....], come una dicotomia è però inesatto. Soprattutto
nel contesto americano, natura e metropoli hanno interagito e conti12
nuano a interagire sia nel mondo reale, sia in quello culturale».
Sin dall’inizio della fondazione urbana, lo spazio naturale selvaggio e incontaminato
veniva “riempito” dalle città, che ricreavano un ordine delle cose tipico della natura:
«In ogni città ogni cosa aveva un posto ben definito e si collocava
secondo un ordine prestabilito in una dimensione pubblica: le strade,
le piazze, le banchine lungo i fiumi che le attraversavano o che le
lambivano, e i parchi urbani che riportavano all’interno della città la
13
wilderness originariamente allontanata».
9
Cfr. T.M. PEARCE, The “Other” Frontiers of the American West, in «Arizona and the West», IV, 2,
Summer 1962, p. 105.
10
Cit. in P. SANAVÌO, Gli alfabeti di Henry D. Thoreau, in H.D. THOREAU, Walden ovvero vita nei boschi,
a cura di P. SANAVÌO, Milano, Rizzoli, p. 45. Si veda anche ID., Civil Disobedience (1849), in The Portable Thoreau, ed. by C. BODE, Middlesex - New York, Penguin Books, 1975, pp. 109-137.
11
Su tale argomento, si veda l’interessante numero monografico di «Storia Urbana», XXIII, 87, aprilegiugno 1999.
12
M. SIOLI, Introduzione, in Metropoli e natura sulle frontiere americane: dalle non-città indiane alla
città di Thoreau, dalle metropoli industriali alla città ecologica, a cura di M. SIOLI, Milano, Franco Angeli, 2003, p. 7.
13
Ibid.
258
Line in the Sand
L’edificazione urbana seguiva la frontiera: questa – dopo l’indipendenza – si spostò verso la Louisiana francese, acquistata da Jefferson nel 180314 e, successivamente, esplorata con quattro grandi spedizioni: la prima e più nota fu quella di Meriwether Lewis e
William Clark (1803-1806), a nordovest verso le sorgenti del Missouri;15 le tre successive a sudovest, con William Dumbar e George Hunter nel 1804-1805,16 con Thomas
Freeman e Peter Custis nel 1806,17 e, infine, con Zebulon Montgomery Pike nel 18051807.18 Non si trattava soltanto di “missioni esplorative”, ma di vere e proprie strategie
diplomatiche per intessere relazioni significative tra gli Stati Uniti e le nazioni indiane
dell’Ovest.19 Insomma, la frontiera conteneva in sé anche il bisogno di stabilire dei contatti diplomatici con le tribù occidentali – contatti che avrebbero reso l’avanzata dei coloni meno pericolosa20 –, oltre che di collegare l’Oceano Pacifico al “sistema” del fiume
14
Cfr. Treaty Between the United States of America and the French Republic, April 30, 1803, in The Public Statutes at Large of the United States of America, from the Organization of the Government in 1789,
to March 3, 1845, with References to the Matter of Each Act and to the Subsequent Acts on the Same Subjects, and Copious Notes of the Decisions of the Courts of the United States [...], ed. by R. PETERS, Esq.,
vol. II, Boston, Charles C. Little and James Brown, 1845, pp. 200-206.
15
Cfr. The Journals of the Lewis and Clark Expedition, in lewisandclarkjournals.unl.edu/index.html. Si
veda anche S.E. AMBROSE, Meriwether Lewis, Thomas Jefferson, and the Opening of the American West,
New York, Simon & Schuster, 2002.
16
Cfr. T. BERRY - P. BEASLEY - J. CLEMENTS, The Forgotten Expedition, 1804-1805: The Louisiana Purchase Journals of Dunbar and Hunter, Baton Rouge, Louisiana State University Press, 2006. Si veda,
inoltre, Expedition Journals, 1804-1806, in AMERICAN PHILOSOPHICAL SOCIETY (APS), Digital Library.
0.1 Linear feet, 1 vol., MSS. 917.7.D91.
17
La spedizione doveva risalire il Red River per scoprirne le sorgenti, oltre a raccogliere informazioni
sulla flora e la fauna dei luoghi visitati, ma fu intercettata dalle truppe spagnole e dovette essere sospesa
con grave imbarazzo dell’amministrazione Jefferson. Cfr. Southern Counterpart to Lewis & Clark: The
Freeman & Custis Expedition of 1806, ed. by D.L. FLORES, Norman, University of Oklahoma Press, 1984.
18
Cfr. The Expeditions of Zebulon Montgomery Pike to Headwaters of the Mississippi River through Louisiana Territory, and in New Spain, During the Years 1805-1806-1807, ed. by E. COUES, vol. I, Minneapolis, Ross & Haines, 1965.
19
Cfr. Y. KAWASHIMA, Forest Diplomats: The Role of Interpreters in Indian-White Relations on the Early American Frontier, in «American Indian Quarterly», XIII, 1, Winter 1989, pp. 1-14.
20
Cfr. TH. JEFFERSON, “Confidential” Message to Congress, January 18, 1803, pp. 1-4. Manuscript.
Manuscript Division, Library of Congress, in http://www.loc.gov/exhibits/lewisandclark/images/jpg.
21
È il caso di Dodge City, in Kansas. Cfr. R.R. DYKSTRA, Dodge City, Kansas: omicidi, discorso morale
e identità culturale, in Metropoli e natura sulle frontiere americane, cit., pp. 209-220.
22
Cfr. R. ST. JOHN, Line in the Sand: A History of the Western U.S.-Mexico Border, Princeton and Oxford,
Princeton University Press, 2013.
259
Giuliana Iurlano
Mississippi. In questa “rete”, le stesse città si trasformavano in un importante momento
d’integrazione con la natura, al punto da diventare un tutt’uno col mito della frontiera.21
Recentemente, Rachel St. John ha pubblicato un interessante volume sul confine tra
Messico e Stati Uniti,22 con particolare riguardo alla sua linea occidentale, artificialmente costruita sulla mappa dalla commissione congiunta messico-statunitense, riunitasi per
la prima volta a Tucson il 6 settembre 1851.23 Proprio quella striscia di terra, che costituisce il confine con il Messico, si estende da un oceano all’altro, toccando ben quattro
Stati americani; ma non si tratta di un confine come gli altri, perché è una linea che
cambia, si trasforma nel tempo, è attrattiva o selettiva, militarizzata o, in alcune fasi e in
alcune zone, edificata con palificazioni metalliche, che luccicano sotto il sole del deserto e vicino alle quali le Border Patrol jeeps lasciano profondi solchi sulla sabbia bollente. È l’emblema stesso della frontiera americana: un confine naturale a est, lungo il corso del Rio Grande, prolungato artificialmente verso ovest due anni dopo la guerra del
1846, con la firma del trattato di Guadalupe-Hidalgo.24 Una fascia di territorio, per così
dire, “ibrida”, un nuovo spazio nel West, popolato da coloro che i borderlands histrians
hanno definito come “peoples in between”,25 un miscuglio di case, saloon, negozi affollatissimi, in particolare lungo la linea che divide in due la città di Nogales (una parte in
Arizona e un’altra nello Stato messicano di Sonora), la land of plenty e la land of want.
Questo “space between” – per molto tempo “a sovranità limitata”, nel senso che i due
Stati-nazione non sempre sono riusciti ad affermarvi e a far rispettare le loro regole – è
23
I membri della commissione erano gli americani John Russell Bartlett ed Andrew B. Gray, e i messicani Pedro García Conde e José Salazar Ylarregui. Quest’ultimo dichiarò immediatamente la difficoltà del
compito da svolgere: «Sulla carta è facile tracciare una linea con la riga e la matita; ma sul terreno non è
la stessa cosa». SALAZAR YLARREGUI, Datos de los trabajos astronómicos y topográficos, in Entry in the
Official Journal of the U.S. and Mexican Boundary Commission, September 6, 1851, signed by Thomas
H. Webb and Francisco Jiménez, secretaries, BARTLETT PAPERS, Mexican Boundary Commission Reds,
reel IX, JOHN CARTER BROWN LIBRARY (JCBL), Providence, Rhode Island.
24
Cfr. Treaty of Peace, Friendship, Limits, and Settlement with the Republic of Mexico, February 2, 1848,
in The Laws of the United States. Public Acts of the Twenty-Ninth Congress of the United States, in Statutes at Large, 29th Congress, 1st Session, pp. 922-943.
25
Cfr. R. WHITE, The Middle Ground: Indians, Empires, and Republics in the Great Lakes Region, 16501815, New York, Cambridge University Press, 1991; S. TRUETT, Fugitive Landscapes: The Forgotten
History of the U.S.-Mexico Borderlands, New Haven, CT, Yale University Press, 2006; J. ADELMAN – S.
ARON, From Borderlands to Borders: Empires, Nation-States, and the Peoples in between in North
America History, in «American Historical Review», CIV, 3, June 1999, pp. 814-841.
260
Line in the Sand
un evolving space, uno spazio continuamente cangiante, un luogo non soltanto di uscita
verso il sogno americano, ma anche di entrata dei capitalisti transnazionali, che nel tempo lo hanno trasformato in frontiera vivente, costruendovi ranches, case, mercati, strade
e ferrovie. Ma esso è anche l’incontro con gli indigeni, un confine centrale che ha dato
vita anche a una cultura di mezzo, a una legislazione necessariamente condivisa, e non
soltanto imposta con la forza, oltre che a un controllo attento del traffico di droga.26
La frontiera occidentale era anche il Great West, l’Occidente “globale” di cui parla
David M. Wrobel, 27 ma anche il superamento del Pacifico per raggiungere l’Asia, 28
l’open door del libero mercato, molto più importante della vecchia Europa, o il luogo
privilegiato delle opportunità economiche.29 Ma la frontiera è pure quella del confine
canadese, una frontiera pacifica a partire dal 1817, da quando il Rush-Bagot Agreement
stabilì il reciproco disarmo nell’entroterra del bacino del San Lorenzo.30 Come ha sostenuto Susan Rhoades Neel, «cercare di comprendere l’Ovest dalla prospettiva della frontiera è come vedere il paesaggio da un’auto in movimento, in cui il posto che si attraversa è offuscato e distorto».31
Insomma, le varie anime della frontiera e le molteplici frontiere degli Stati Uniti: una
polifonia di voci e d’idee, di esperienze e di fatti reali, una “valvola di sicurezza”32 o un
26
La zona di frontiera col Messico è rimasta relativamente permeabile per la maggior parte del XIX e del
XX secolo, anche se il controllo è diventato più rigoroso a partire dal 1924, anno di fondazione della U.S.
Border Patrol (una sorta di polizia di frontiera), ma soprattutto dagli anni Ottanta, quando Reagan dichiarò guerra al traffico di droga e il confine si trasformò in una zona militarizzata per contrastare i potenti
cartelli dei trafficanti. Durante l’amministrazione Clinton, i controlli furono intensificati, furono eretti
muri e palizzate in cemento e fu incrementato l’uso dei droni e dei sensori di movimento.
27
Cfr. D.M. WROBEL, Global West, American Frontier, in «Pacific Historical Review», LXXVIII, 1, February 2009, pp. 1-26.
28
Cfr. A. DONNO, Gli Stati Uniti e il “Grande Ovest” del mondo. La Cina nella cultura politica americana dell’Ottocento, in «Nuova Storia Contemporanea», X, 5, settembre-ottobre 2006, pp. 117-140; ID., Cina, l’Occidente d’America, in «Ideazione», XIII, 3, maggio-giugno 2006, pp. 130-138.
29
Cfr. J.I. STEWART, Essays on the Economic History of the American Frontier, in «The Journal of Economic History», LXV, 2, June 2005, pp. 524-527.
30
«Da allora in poi, i nostri statisti, in tutte le occasioni più rilevanti, parlarono delle “nostre tremila miglia di frontiera indifesa”, per esprimere non un’idea militare, ma la soddisfazione di non avere interferenze reciproche di qualsiasi genere». A.G.L. MCNAUGHTON, Protecting the North American Frontier, in
«Proceedings of the Academy of Political Science», XXII, 2, Developing a Working International Order:
Political, Economic and Social, January 1947, p. 138.
31
S. RHOADES NEEL, A Place of Extremes: Nature, History, and the American West, in «The Western Historical Quarterly», XXV, 4, Winter 1994, p. 493.
32
E. VON NARDROFF, The American Frontiera s a Safety Valve: The Life, Death, Reincarnation, and Justification of a Theory, in «Agricultural History», XXXVI, 3, July 1962, pp. 123-142.
261
Giuliana Iurlano
luogo mitico, prediletto dalla letteratura e dalla cinematografia, in un percorso originale
che va da Melville, agli hoboes, a Thelma & Louise;33 ma anche la frontiera “elettronica”, quel “wild, wild web”,34 che rilegge i valori dell’individualismo e delle eguali opportunità alla luce dello spazio virtuale, in un confronto allargato e sempre più appagante del tradizionale “looked West”,35 che, però, non abbassa il livello di rischio e di incertezza, prima soltanto elementi tipici di una frontiera fisica.36
33
Cfr. R. MUSSAPI, L’interminabile epopea della “frontiera mobile”, in «Il Giornale», 18 novembre
2007; Hollywood’s West: The American Frontier in Film, Television, and History, edited by P.C.
ROLLINS – J.E. O’CONNOR, Lexington, University Press of Kentucky, 2005.
34
Cfr. H. MCLURE, The Wild, Wild Web: The Mythic American West and the Electronic Frontier, in «The
Western Historical Quarterly», XXXI, 4, Winter 2000, pp. 457-476.
35
Cfr. D.A. JOHNSON, American Culture and the American Frontier: Introduction, in «American Quarterly», XXXIII, 5, Special Issue: American Culture and the American Frontier, Winter 1981, p. 479.
36
Si veda l’importante contributo di M. SANFILIPPO, Storiografia e immaginario delle frontiere nordamericane, presentato al convegno internazionale Frontiere. Rappresentazioni, integrazioni e conflitti tra Europa e America, secoli XVI-XX, Università di Roma 3, 20-22 giugno 2013.
262
RECENSIONI
STEPHEN H. NORWOOD, Antisemitism and
the American Far Left, New York, Cambridge University Press, 2013, pp. 318.
Stephen H. Norwood, professore di storia e
studi giudaici nell’Università dell’Oklahoma, analizza le posizioni antisemite che,
dal 1920 sino ad oggi, hanno caratterizzato
la politica dei vari movimenti che possono
essere ricondotti all’interno della galassia
dell’estrema sinistra americana: comunisti,
trotzkisti, parti del movimento nero, i residui di quella che fu la nuova sinistra americana. Dall’antisemitismo propriamente detto all’anti-sionismo, fino alla condanna
senza appello di Israele come Stato razzista
e imperialista, l’estrema sinistra americana
ha rispecchiato tutti gli stereotipi tipici del
pregiudizio anti-ebraico, sia dal punto di
vista strettamente politico, che da quello
razziale.
Nel periodo tra le due guerre, i comunisti, e quindi anche quelli americani, abbracciarono posizioni fieramente anti-sioniste,
che spesso si confondevano con
l’antisemitismo: se, da una parte, essi erano
contro l’emigrazione ebraica in Palestina,
dall’altra condividevano le teorie basate
sulla cospirazione ebraica che giustificavano i processi di Mosca negli anni ’30. Scelte politiche e puro antisemitismo
s’intrecciarono, così, nell’ideologia comunista, inducendo i comunisti americani a sostenere gli attacchi terroristici arabi negli
anni ’20 e ’30; l’eredità antisemita di quegli
anni passò poi a connotare le posizioni di
parti della nuova sinistra americana degli
anni ’60 e delle Pantere Nere, che definivano il terrorismo palestinese come un fatto
rivoluzionario, anti-imperialista e anticapitalista.
Gli eventi che precedettero e accompagnarono gli anni della seconda guerra mondiale ben illustrarono la doppiezza dei comunisti americani anche nelle loro posizioni verso l’ebraismo. Quando fu firmato il
patto nazi-sovietico, i comunisti condivisero l’ideologia nazista, che considerava
l’ebraismo come la punta di diamante del
complotto imperialista e capitalista; ma, allorché i nazisti invasero la Russia, violando
il patto nazi-sovietico, i comunisti americani prontamente si allinearono alle direttive
di Mosca, favorevole all’alleanza con gli
imperialisti americani in funzione antinazista e, conseguentemente, mutarono il
loro atteggiamento verso l’ebraismo, ora
considerato la vittima della barbarie nazista.
Negli anni immediatamente successivi alla
fine del secondo conflitto, i comunisti americani, sempre al traino del comunismo sovietico, sostennero a spada tratta il movimento sionista e la sua rivendicazione di
uno Stato ebraico in Palestina. La nascita di
Israele, nel maggio del 1948, fu salutata dai
comunisti americani come il trionfo della
politica sovietica favorevole alla realizzazione del sogno ebraico del ritorno in Eretz
Israel e, in genere, la cultura ebraica fu entusiasticamente rivalutata. In quegli anni, il
motto dei comunisti americani fu “Two,
Four, Six, Eight, We Demand a Jewish State”.
La “luna di miele” tra comunisti ed ebrei
durò poco. Quando fu chiaro che il nuovo
Stato non aveva intenzione di porsi nel
blocco sovietico, iniziò in Unione Sovietica
una violenta campagna antisemita che coinvolse, nel loro piccolo, anche i comunisti
americani. Ora i paesi arabi non erano più i
residui di un mondo feudale, ma i gloriosi
combattenti contro un paese, Israele, denunciato come imperialista e razzista, al
soldo degli americani. Tale posizione si è
protratta nel tempo, segnando tutti i passaggi più significativi del contenzioso araboisraeliano-palestinese.
Gli anni che vanno dalla guerra dello
Yom Kippur (1973) sino ad oggi si sono caratterizzati come la prosecuzione degli stereotipi antisemiti, nella forma di un acceso
anti-sionismo. Scomparso il partito comunista americano, Norwood dimostra come
l’eredità di quelle posizioni sia passata a
connotare buona parte delle idee della New
Left americana degli anni ’60, dei movimenti terzomondisti presenti negli Stati Uniti e degli intellettuali liberal, sempre
265
pronti a sposare le cause degli “oppressi”,
anche quelle più smaccatamente antisemite.
Il libro di Norwood è un prezioso strumento per conoscere la storia della sinistra
americana nelle sue posizioni antisemite,
mascherate o meno da anti-sionismo, sia al
traino dell’ondivaga politica sovietica verso
l’ebraismo, sia in forma autonoma come
movimento d’idee genericamente anticapitalista e anti-imperialista, e perciò, per
definizione, anti-israeliano.
ANTONIO DONNO
YOHANAN PETROVSKY-SHTERN, The
Golden Age Shtetl: A New History of Jewish Life in East Europe, Princeton and
Oxford, Princeton University Press,
2014, pp. 431.
Si tratta di un lavoro fondamentale che si
pone all’avanguardia tra tutti gli studi sulla
storia della società ebraica nell’Europa orientale e nella Russia zarista tra Settecento
e Ottocento. La formidabile messe di fonti
d’archivio consente all’A. di analizzare in
profondità quella che è definita l’età
dell’oro dello shtetl ebraico tra il 1790 e il
1840, per specifiche ragioni che costituiscono l’impianto scientifico e, nello stesso
tempo, narrativo dell’opera.
Perché questo cinquantennio ha rappresentato il periodo più fulgido nella storia
della presenza ebraica in quelle regioni? Innanzitutto, è opportuno definire con precisione il territorio occupato dallo shtetl ebraico di cui parla il libro di PetrovskyShtern. Egli ha studiato un gran numero di
shtetl in Podolia, Volinia e Kiev, tre province dell’Ucraina che facevano parte della
Zona (Pale) di residenza ebraica in Russia,
cioè a dire un territorio che oggi si estende
tra Lituania, Bielorussia e Ucraina. Questi
luoghi e le loro economie erano controllati
da magnati cattolici polacchi, abitati in
grande prevalenza da ebrei e soggetti alla
burocrazia della Russia zarista. Ma, tutto
questo, lungi dal creare sovrapposizioni paralizzanti, afferma Petrovsky-Shtern, rendeva l’ambiente economico aperto e attivo,
266
conferendo allo shtetl mezzo secolo di prosperità e di stabilità, di opportunità economiche e culturali. Si trattava di un’ampia
zona di mercato libero, in cui lo scambio
produceva, di fatto, una parità tra i soggetti
scambianti. Nella sostanza, tra il 1790 e il
1840, lo shtetl non fu appartenente politicamente alla Polonia, né amministrativamente del tutto alla Russia: fu una zona di
libero scambio dominata dal commercio. In
questo milieu, gli ebrei dell’Europa orientale vissero la loro età dell’oro e la Russia zarista ebbe l’opportunità di integrare i suoi
ebrei, i quali, a loro volta, ben volentieri avrebbero accettato l’offerta d’integrazione.
Solo dopo il 1840, la Russia esercitò una
continua pressione politica e burocratica
sulle zone prese in considerazione dallo
studio di Petrovsky-Shtern. In sostanza, a
causa di una nuova ondata di nazionalismo
e sciovinismo, i governi russi persero una
grande
occasione
di
ammodernare
l’economia russa per mezzo del lavoro ebraico. L’A. sintetizza il processo in questi
termini: «Lo shtetl dell’età dell’oro fu la
manifestazione dell’incontro altamente produttivo e promettente tra l’impero russo e
gli ebrei, ma alla fine fu un incontro distrutto dall’amministrazione russa a causa della
sua visione ideologica e geopolitica» (p. 2).
L’evento che provocò la progressiva fine
della floridezza dello shtetl fu determinato
dall’inizio del processo di militarizzazione
della Russia e dalle sue mire espansionistiche, accompagnate da un crescendo di xenofobia e nazionalismo. L’intolleranza portò all’esclusione dei proprietari polacchi
dello shtetl e alla promulgazione di leggi
anti-ebraiche; lo stesso benessere dello
shtetl insospettiva il regime russo. In sostanza, afferma Petrovsky-Shtern, «[…] lo
shtetl prosperò finché il regime russo mantenne in vita l’eredità polacca [dello shtetl]
e iniziò a declinare quando lo stesso regime
russo la sradicò» (p. 3). Dopo il 1940, la
politica nazionalistica russa e la scelta protezionistica in economia decretarono la fine
del libero mercato nello shtetl e il suo inarrestabile impoverimento. La persecuzione
anti-ebraica fece il resto. Questa la conclusione di Petrovsky-Shtern: «Lo shtetl e i
suoi ebrei non sparirono, ma entrarono in
una nuova era, una nuova era di ferro, caratterizzata dalla violenza anti-ebraica,
dall’antisemitismo politico e pratico, da rivoluzioni, guerre e dalla totale estinzione
della presenza ebraica nello shtetl. […] Esso svanì, alla stregua di un’Atlantide
dell’Est europeo, con i suoi abitanti, le loro
conquiste, la loro cultura materiale e i loro
sogni» (p. 355).
In conclusione, il libro di PetrovskyShtern si presenta come un’opera veramente innovativa; elaborato con un attento studio sul campo, basato su una grande varietà
di fonti primarie, metodologicamente inappuntabile, esso è un contributo indispensabile per comprendere la storia dell’ebraismo
orientale e della vicenda stessa dello shtetl
ebraico.
FURIO BIAGINI
ARI SHAVIT, My Promised Land: The
Triumph and Tragedy of Israel, New
York, Spiegel & Grau, 2013, pp. 450.
Shavit, giornalista del noto quotidiano israeliano «Haaretz», ripercorre la storia del
sionismo e dello Stato di Israele alla luce
delle speranze e delle delusioni, dei successi e dei fallimenti di un’esperienza storica
ineguagliabile com’è quella di Israele. Lo fa
in prima persona, affidandosi non solo alla
storia, ma anche alla propria biografia, cioè
quella di un israeliano nato un anno dopo la
crisi di Suez, uno degli eventi decisivi nella
vicenda dello Stato ebraico. La riflessione
che è alla base di tutto di libro di Shavit può
essere riassunta nelle parole dello stesso autore: «Da una parte, Israele è l’unica nazione dell’Occidente che occupa un altro popolo. Dall’altra, Israele è l’unica nazione
dell’Occidente che è minacciata nella sua
esistenza. Sia l’occupazione sia la minaccia
rendono unica la condizione di Israele.
L’intimidazione e l’occupazione sono diventati i due pilastri della nostra condizio-
ne» (p. xii). Se Shavit avesse capovolto
l’ordine con cui ha posto i due problemi
fondamentali, probabilmente la questione
gli sarebbe apparsa in tutt’altra luce: Israele
è minacciato nella sua esistenza, Israele occupa un altro popolo. Quest’ultimo – insieme ad altri popoli arabi del Medio Oriente –
ha minacciato l’esistenza di Israele, scatenando guerre e terrorismo che hanno prodotto grandi lutti al popolo israeliano; Israele ha dovuto difendersi e contrattaccare:
l’occupazione è purtroppo parte della difesa
e del contrattacco messi in atto dallo Stato
ebraico.
Non è così? Non è vero che dalla nascita
di Israele il mondo arabo, in quasi tutte le
sue componenti, ha dichiarato che il suo
compito sarebbe stato quello di distruggerlo
e di buttare a mare gli ebrei? Non è vero
che il mondo arabo ha rifiutato pervicacemente qualsiasi soluzione che prevedesse
l’esistenza dello Stato ebraico? Non è vero
che nel fatidico 2000 Arafat rifiutò la proposta israeliana di dare vita ad uno Stato
palestinese accanto a quello ebraico, scatenando la seconda intifada? Shavit sembra
porre questi dati di fatto in una sorta di penombra, ponendo in luce, al contrario, la
questione dell’occupazione israeliana, senza mai porsi la domanda cruciale:
l’occupazione è frutto o no della decennale
minaccia portata allo Stato ebraico dai suoi
nemici? In sostanza, Shavit capovolge
l’ordine dei fattori, così che l’occupazione
israeliana appare come l’azione di uno Stato imperialista nei confronti di un popolo
inerme. Conclusione falsa.
Shavit non nega – né potrebbe essere diversamente – la grande vitalità della società
israeliana, i grandi progressi economici dello Stato: «Sì, la nostra vita continua ad essere intensa e ricca e felice da molti punti di
vista. Israele proietta un senso di sicurezza
che scaturisce dai suoi successi materiali,
economici e militari» (p. x). Ma tutto questo non gli è sufficiente. L’occupazione è
un rovello così forte da spingerlo a considerare il futuro di Israele in una luce funesta.
«[…] Israele sarà morale, progressista, coe-
267
so, creativo e forte» (p. 417), ma solo dopo
aver messo fine all’occupazione.
Eppure, per tutto il libro, Shavit mette in
chiaro che Israele ha corso e corre pericoli
molto grandi per la sua sopravvivenza, ora
soprattutto da parte del progetto dell’Iran di
estendere la propria influenza in tutta la regione mediorientale. Ciò gli appare grave,
ma non tanto quanto le conseguenze a lungo termine dell’occupazione delle terre palestinesi. In sostanza, i pericoli che provengono dall’esterno, dall’odio islamico verso
Israele gli paiono meno importanti rispetto
alle
spinte
interne
a
prorogare
l’occupazione per ragioni di auto-difesa.
Benché Shavit non lo dica esplicitamente,
la questione è che le sue convinzioni politiche – che sono quelle di un giornale come
«Haaretz», fortemente critico nei confronti
dei governi di destra, che dal 1977 sono al
potere in Israele, fino ad abbracciare talvolta le posizioni più estremistiche del movimento palestinese – gli impediscono una
chiara, obiettiva, imparziale visione della
situazione attuale di Israele.
VALENTINA VANTAGGIO
LESLIE STEIN, Israel since the Six-Day
War, Cambridge (U.K.) and Malden, MA,
Polity Press, 2014, pp. 441.
Il libro di Stein ripercorre la storia di Israele, a partire dalla fine della guerra del 1967,
analizzando prevalentemente le relazioni
internazionali e le vicende regionali dello
Stato ebraico, senza trascurare i fatti di politica interna, con particolare riferimento
alle questioni economiche. Alla fine della
guerra, stravinta da Israele, riferisce Stein,
il primo ministro israeliano, Levi Eshkol,
così comunicò a Johnson: «“Signor presidente, non nutro alcun sentimento di trionfo
e di vanagloria né mi accingo a trattare la
pace nel ruolo del vincitore. […] Il mio sentimento è di sollievo perché ci siamo salvati
dal disastro in giugno e per questo ringrazio
Dio”» (p. 29). In effetti, dal momento della
sua nascita, Israele è stato oggetto di continui tentativi di distruggerlo: questo è un da-
268
to di fatto che non può essere eluso. Così, il
libro di Stein si distingue nettamente dalla
prevalente produzione sull’argomento, perché parte da tale constatazione, ovvia per
chi non nutre pregiudizi, e legge la storia di
Israele dal 1967 ad oggi come la lotta dello
Stato ebraico per la sua sopravvivenza in un
ambiente ferocemente ostile.
Gli anni immediatamente successivi alla
fine della guerra videro lo sviluppo
dell’azione dell’ OLP di Arafat e della guerra di attrito alle frontiere israeliane da parte
di Egitto e Siria. In sostanza, come Stein
rileva con una prosa chiara e ben argomentata, nonostante la bruciante sconfitta, i paesi arabi rifiutarono la pace, intendendo
continuare l’assedio di Israele fino
all’agognata svolta finale. Questo, dunque,
è il leit-motiv del libro di Stein, un leitmotiv in sé difficilmente contestabile, perché l’A. giustamente allude al fatto che le
responsabilità di Israele nel mancato raggiungimento della pace con i paesi arabi e
con il movimento palestinese non possono
che rappresentare un aspetto secondario rispetto a quelle preminenti del mondo arabo,
che vedeva nello Stato ebraico l’odiato nemico da distruggere. Da questo punto di vista, secondo Stein, il processo di colonizzazione della West Bank, a parte gli importanti aspetti religiosi ebraici che pure contribuirono a determinarla, non può che essere
una conseguenza della pressione araba nei
confronti di Israele, una pressione – è importante ribadirlo – mai finalizzata ad ottenere concessioni da Gerusalemme, ma a
sottoporre lo Stato ebraico ad una usura
continua fino alla sua scomparsa. In sostanza, la colonizzazione della West Bank deve
essere considerata anche come un momento
importante dell’auto-difesa di Israele.
A partire dalla fine della guerra dello
Yom Kippur (1973), cui Stein dedica un intero, importante capitolo, Israele fu sottoposto ad un continuo, incessante assalto terroristico, mentre il suo legame con gli Stati
Uniti si rinsaldava e la sua economia, dopo
la presa del potere da parte della destra, nel
1977, cominciava a prosperare, a parte
qualche periodo di recessione, a motivo del
grande sviluppo del paese nel campo
dell’informatica, che più tardi vedrà lo Stato ebraico primeggiare a livello internazionale. La guerra del Libano, la prima intifada, e poi, negli anni ’90, gli accordi di Oslo,
segnarono tappe significative nella storia
del paese, stretto tra la pressione dell’OLP,
da una parte, e la crescente minaccia costituita da un nuovo nemico, l’integralismo
islamico di marca iraniana.
Gli inizi del nuovo secolo videro una recrudescenza dell’attacco terroristico. La cosiddetta intifada di al-Aqsa costrinse Israele
a una difesa ad oltranza. Come opportunamente afferma Stein, in quelle drammatiche
circostanze, i media internazionali «[…]
non dimostrarono di aver compreso veramente ciò che Israele stava vivendo. Poiché
nessun posto era immune dagli attacchi palestinesi in ogni momento – nel centro del
paese o nelle aree periferiche, nelle strade,
nei bus, nei negozi, nei mercati, nei ristoranti, negli alberghi, nei circoli, nelle università, ecc. – nessuno si sentiva sicuro nello svolgimento della propria vita quotidiana» (p. 277). Gli attacchi suicidi contribuivano ad aumentare il senso d’insicurezza.
Dopo la morte di Arafat, lo scoppio della
guerra civile in seno al movimento palestinese allentò considerevolmente la morsa del
terrorismo; infine, la profonda crisi del
mondo arabo ha di recente contribuito a
diminuire la pressione su Israele. Ma non è
detto che questa situazione di relativa calma
possa durare a lungo. Come lo stesso Stein
ha scritto nel suo precedente libro, The Making of Modern Israel, 1948-1967 [Polity
Press], Israele probabilmente sarà sempre
oggetto di inimicizia all’interno del proprio
contesto regionale, a meno che non cessi
l’odio anti-ebraico da parte del mondo islamico: cosa altamente improbabile, se
non impossibile, a causa del background
religioso che alimenta quest’odio.
PATRIZIA CARRATTA
GIUSEPPE BRIENZA - ROBERTO CAVALLO
- OMAR EBRAHIME, Mandela, l’apartheid
e il nuovo Sudafrica. Ombre e luci su una
storia tutta da scrivere, pref. di RINO
CAMMILLERI, Crotone, D’Ettoris Editori, 2014, pp. 138.
Il libro di Brienza, Cavallo e Ebrahime è un
viaggio politically incorrected a più voci
nella storia recente e tormentata del Sudafrica, una riflessione sulla complessità del
paese, spesso semplicemente “ridotto” alla
storia di Nelson Mandela. Indubbiamente,
non si può, e non si deve, prescindere dalle
vicende del leader dell’African National
Congress, ma occorre entrare contemporaneamente sia nel contesto molto più ampio
della guerra fredda, sia in quello più ristretto e locale del sistema demo-tribale e dei
suoi sanguinosi conflitti.
La decolonizzazione, infatti, segnò soltanto l’inizio dei problemi dell’Africa, anziché costituire la fine del tanto odiato colonialismo. I movimenti di “liberazione”
marxisti si appropriarono velocemente della
paternità del processo e, insieme ai castristi
cubani, diedero il via a un percorso democratico tormentato, tra colpi di stato, esodi,
massacri e dittature comuniste. L’unica via
per la democrazia africana sembrò essere,
paradossalmente, quella etnico-tribale. Il
Sudafrica, invece, non si accodò a quel difficile percorso africano, rimanendo come
una sorta di unicum nel continente, proprio
perché gli afrikaner governavano già da
due secoli.
Quando l’Unione Sovietica – bisognosa
di sostituire l’oro al rublo, che non aveva
nemmeno corso internazionale, per parare i
colpi dell’enorme apparato statale improduttivo – mise mano alla solita vecchia tattica del “far esplodere le contraddizioni in
atto”, il Sudafrica offrì la prima grande frattura tra i blacks e gli afrikaner. Una contraddizione, questa, emotivamente sentita
da tutti i paesi europei e immediatamente
sposata dai liberals americani, che però
continuavano a chiudere gli occhi sui con-
269
flitti tra le due principali etnie, Zulu e Xhosa, che martoriavano il paese.
Agli inizi degli anni ’90, insieme al crollo del comunismo, crollava pure il sistema
dell’apartheid. E non a caso. Frederik de
Klerk, il leader bianco che traghettò il paese verso il superamento della segregazione
razziale, legalizzò l’ANC e liberò dal carcere Mandela, che fu insignito del premio
Nobel. Cominciò da quel momento il mito
mandeliano, vale a dire quel processo di
messa tra parentesi del suo dichiarato comunismo, in favore dell’esaltazione dei diritti civili, processo giunto all’apice con la
nomina, nel 1994, di Mandela a presidente
della nuova Repubblica del Sudafrica. La
“rainbow nation” e la sua utopia della convivenza perfetta – di cui aveva parlato Desmond Tutu – non resisteranno, però, alla
prova dei fatti; lo dimostreranno i casi di
corruzione tra i vecchi compagni di lotta, le
contestazioni al successore di Mandela,
Thabo Mbeki (accusato di eccessiva apertura nel suo progetto di “Rinascita africana” e
di voler accreditare il Sudafrica come potenza regionale) e la lacerazione, durissima,
tra le due anime del Sudafrica postapartheid: quella dell’ampia borghesia nera, favorevole al liberismo economico, e
quella, invece, delle frange africaniste più
radicali e oltranziste, appoggiate dal partito
comunista sudafricano e dal sindacato.
Il dopo-Mandela presenta una serie di
problemi ancora irrisolti: la povertà non è
stata sconfitta, ma si è estesa anche a molti
afrikaner; l’economia è in recessione; le
necessarie strutture di base sono ancora insufficienti; la corruzione si è diffusa ulteriormente; l’islamismo sta tentando di sostituire, anche con metodi violenti, il cristianesimo e l’animismo tradizionali, mentre la
Cina, con la sua strategia dei “fili di perle”,
sta cercando spasmodicamente di acquisire
importanti risorse. Alla fine, si chiedono gli
Autori, «chi è stato davvero Nelson Mandela?» (p. 131). Certamente non un santo,
come talvolta lo si è voluto rappresentare,
ma un attivista non sempre coerente sostenitore del pacifismo e spesso collegato alla
270
variegata rete di alleanze con il comunismo
internazionale, e un leader che ha avvantaggiato soprattutto l’élite dell’ANC nel
processo di black empowerment. Insomma,
esaurita la forza simbolica di un mito, il
Sudafrica lasciato in eredità da Mandela ha
assunto contorni molto problematici e difficili da gestire per chiunque.
GIULIANA IURLANO
VITTORIO STRADA, Europe. La Russia
come frontiera, Venezia, Marsilio, 2014,
pp. 110.
In questo agile volume, Vittorio Strada raccoglie alcuni suoi saggi sul confine orientale di quella “penisola asiatica” («quel piccolo capo d’Asia», come lo aveva già definito Fernand Braudel) che è l’Europa, fiancheggiata da due mari e proiettata verso
l’Atlantico. Ma qual è la vera identità
dell’Europa? Intanto, si deve parlare di Europa, o di Europe, cioè «di aree diverse orientate verso un’unificazione ideale, anziché fuse in una compatta unità» (p. 14)? Le
stesse partizioni interne all’Europa non sono di ordine geografico, ma di natura storica e socio-economica. Una di queste linee
di partizione è quella orientale, che da nord
a sud (attraverso i segmenti russo, balcanico
e turco) si attacca all’Asia e vi sconfina. Ed
è proprio sul segmento più settentrionale
che si collocano la Polonia e l’Ucraina, fortemente europee, ma anche efficaci ponti
verso la Russia eurasiatica. Questa realtà
così complessa, composta da un «organico
insieme di Europe» (p. 25), che si evolve
verso un’unità dinamica, costituisce la civiltà comune europea, e, collegandosi con
l’America
settentrionale,
dà
vita
all’Occidente.
L’Europa, dunque, come «il continente
più intercontinentale» (p. 28), più aperto
agli altri e più proiettato verso la modernizzazione, verso quel lungo e complesso processo storico che avrebbe spinto la Russia
settecentesca a reagire alla sfida europea, a
europeizzarsi, pur di mantenere intatto il
suo impero autocratico. L’impresa petrina
non fu affatto semplice, soprattutto perché
portò alla nascita della intellighenzia, quella
«specifica forma di ceto intellettuale insieme affine e diverso rispetto a quello occidentale» (p. 38), ma, soprattutto, staccato
dal resto della popolazione russa, rimasta
fedele ai valori e alle tradizioni antiche.
Ciò che fece Kemal Atatürk nel segmento turco-ottomano richiama indubbiamente
l’opera di modernizzazione fatta due secoli
prima da Pietro il Grande, con la differenza
che questi aveva modernizzato la Russia
rafforzandone la struttura imperiale, mentre
Atatürk modernizzò autoritariamente il
nuovo Stato nazionale turco sulle rovine del
vecchio impero ottomano.
Significativo è il fatto – nota Strada –
che il crollo di uno dei tre imperi durante la
prima guerra mondiale, quello zarista, abbia
prodotto non uno Stato nazionale, bensì un
altro “impero”, quello sovietico, appunto,
diverso per natura, ma quasi coincidente
territorialmente col precedente e destinato
anch’esso alla “catastrofe”. Da qui, le difficoltà della Federazione russa, emersa dopo
il crollo del comunismo, a configurarsi come Stato nazionale con una sua nuova identità, sorto sui vecchi confini amministrativi
sovietici, confini arbitrari, del resto, com’è
testimoniato sia dal caso della Crimea –
“donata” nel 1954 da Krushev all’Ucraina
sovietica e ora appartenente, con le conseguenze ormai note, allo Stato sovrano ucraino –, sia dalla realtà micro-imperiale
dell’attuale Federazione, per l’80% formata
da russi e per il restante 20% da altre etnie,
riluttanti (com’è accaduto clamorosamente
per la Cecenia) a far parte della nuova entità politica.
A ciò s’aggiunge il terrorismo islamico
radicale, di cui è vittima anche la Russia, a
causa del separatismo delle sue regioni caucasiche. In tale situazione, scrive Strada, «la
Russia è con l’Occidente, e quindi con
l’Europa, senza identificarsi però con essi,
nutrendo anzi sentimenti e risentimenti antioccidentali, soprattutto nei riguardi
dell’America» (p. 91). Una posizione con-
troversa anche rispetto alla ricerca della
propria identità, in quanto la Russia, restando un territorio di frontiera, solleva il problema della difficile unità di Europa e nonEuropa.
GIULIANA IURLANO
BARBARA ZANCHETTA, The Transformation of American International Power
in the 1970s, New York, Cambridge University Press, 2014, pp. 329.
Il libro di Barbara Zanchetta è particolarmente importante perché analizza, con la
necessaria distanza temporale dagli avvenimenti, un decennio, gli anni ’70, fondamentale nella storia delle relazioni internazionali degli Stati Uniti nel secondo dopoguerra. Il decennio fu caratterizzato principalmente dalla politica di Richard Nixon e
del suo consigliere per la sicurezza nazionale, Henry Kissinger, poi divenuto segretario
di stato nel secondo mandato presidenziale
dello stesso Nixon. Le successive presidenze di Gerald Ford e di Jimmy Carter, per
quanto importanti, non cambieranno il segno dato da Nixon e Kissinger, ridefinendo
l’intera politica estera degli Stati Uniti, quale si era avuta dalla fine del secondo conflitto in poi.
Opportunamente, Zanchetta puntualizza
come, agli inizi del decennio in questione,
le dinamiche delle relazioni internazionali
avessero subito un mutamento così significativo, da imporre a Washington una ridefinizione dei propri obiettivi: la forza nucleare dell’Unione Sovietica, ma anche
l’allentamento della struttura bipolare – con
l’emergere della forza politica ed economica dell’Europa occidentale e la crisi del
blocco comunista, a causa del contrasto sino-sovietico – e le tensioni all’interno del
Terzo Mondo resero gli anni ’70 un decennio ricco di prospettive critiche per la stabilità del sistema globale. «In breve – scrive
Zanchetta – gli Stati Uniti dovettero adeguarsi a un contesto, in cui il loro predominio non era più dato per garantito» (p. 5).
271
Zanchetta contesta la corrente interpretazione degli anni di Nixon e Kissinger come
periodo caratterizzato dalla détente sovietico-americana. O meglio, nonostante il fitto
intreccio di colloqui e d’incontri (soprattutto quelli tra Kissinger e l’ambasciatore sovietico a Washington, Anatoly Dobrynin) e
la firma, nel 1979, del SALT II, il tentativo
di raggiungere una distensione tra le due
grandi potenze, secondo l’A., si arenò dopo
il 1973, a causa di numerosi fattori che emersero in occasione della guerra dello
Yom Kippur e che indussero Mosca, il cui
prestigio politico era crollato proprio a causa degli esiti di quella guerra, ad accentuare
la pressione politica su aree vitali del Terzo
Mondo, entrando in una più forte competizione con gli Stati Uniti. A ciò, occorre aggiungere che lo sviluppo delle relazioni sino-americane non produsse altro che un irrigidimento dell’atteggiamento sovietico
nei colloqui con gli americani. Nelle sue
memorie, lo stesso Dobrynin, nota Zanchetta, scrisse che «[…] l’Unione Sovietica era
[…] consapevole dell’inconsistenza esistente tra i proclami sulla cooperazione e la realtà della rivalità tra le due superpotenze»
(p. 138).
Il secondo punto di novità nel libro consiste nel ritenere, da parte di Zanchetta, che
le tre presidenze degli anni ’70 furono, a
differenza di quanto molti sostengono, in
continuità l’una con l’altra, perché tutte e
tre volte a ridefinire il ruolo internazionale
degli Stati Uniti. Quale sia stato l’esito di
questo progetto politico è uno dei punti di
discussione presenti nel libro. Il fatto che
Reagan, agli inizi degli anni ’80, abbia sostenuto energicamente che la sua politica
avrebbe puntato «[…] non a gestire il declino della potenza degli Stati Uniti, ma a rovesciarlo, riaffermando la forza e la determinazione americane nel mondo» (p. 294),
induce Zanchetta a ritenere che le politiche
dei tre presidenti americani durante gli anni
’70 abbiano fallito nel loro scopo principale: fare della détente sovietico-americana il
punto di conclusione della guerra fredda e il
punto di partenza, invece, di una co-
272
gestione pacifica del sistema politico internazionale.
FRANCESCA SALVATORE
LUIGI MASCILLI MIGLIORINI, Metternich. L’artefice dell’Europa nata dal Congresso di Vienna, Roma, Salerno Editrice,
2014, pp. 429.
Metternich fu uno dei principali artefici
dell’equilibrio europeo costruito faticosamente a Vienna, dopo la ventata rivoluzionaria che aveva demolito quell’“edificio
collettivo” – per usare una delle metafore
architettoniche del principe renano – durato
per circa un secolo e mezzo dalla pace di
Westfalia. Una “lunga età di mezzo” definirà, nelle sue Memorie, quell’epoca, che
«segna una divisione nella storia del mondo
[...], un periodo di transizione [in cui]
l’edificio del passato è in rovina [e] il nuovo edificio non è ancora in piedi» (p. 12).
Proprio la capacità di cogliere la portata ineluttabile della rivoluzione, la lucidità
d’analisi nel valutarne le conseguenze irreversibili in tutti gli ambiti della società, la
critica serrata a quella «catena ininterrotta
di errori e di calcoli sbagliati» (p. 33) attribuiti ai ministri austriaci, tutto ciò avrebbe
portato Metternich a riflettere profondamente sulla natura dell’ordine europeo da
ripristinare e sulla scelta tra equilibrio ed
egemonia. Ma ancora più importante,
nell’ottima analisi di Mascilli Migliorini, è
il fatto che Metternich sia stato in grado di
percepire in anticipo la crisi dell’impero austriaco, frammentato e lacerato al suo interno: a suo parere, è stata la scomparsa, non
ancora formalizzata, del Sacro romano impero, più che la rivoluzione francese, a creare un punto di non ritorno e a demolire,
col congresso di Rastadt, quella importante
“camera di compensazione” delle rivalità e
dei tentativi egemonici che era il variegato
e multiforme impero d’Austria.
Dopo la pace di Lunéville del 1801, che
sostanzialmente confermava i termini del
trattato di Campoformio, Metternich ebbe
la chiara consapevolezza che essa aveva
sovvertito il principio basilare delle relazioni internazionali, sostituendo all’equilibrio
l’idea di egemonia; di conseguenza, si trattava di una “pace cartaginese”, destinata a
breve vita, se non fosse stata sostituita da
un ordine internazionale che tenesse in debito conto anche le “corti del Nord” e il loro
ruolo specifico. Inoltre, Metternich – che ha
conosciuto, nel frattempo, lo scrittore prussiano Friedrich Gentz, con il quale ha modo
di riflettere sulla Germania, sulla sua natura
e sul suo futuro – sviluppa l’idea di una
Confederazione germanica nello spazio tedesco, una sorta di Bund, di unione (non di
unità) in cui la presenza dell’Austria asburgica potesse diventare un elemento indispensabile.
L’idea forte è il riavvicinamento con la
Francia, afferma perspicacemente Mascilli
Migliorini. Dapprima tentato con la politica
matrimoniale (1810), poi, con un’alleanza
alla vigilia della campagna di Russia (1812)
e, infine, dopo la sconfitta napoleonica, con
un’intesa con Talleyrand, tale riavvicinamento avrebbe potuto consentire di proseguire il programma di Kaunitz, contenendo
l’ascesa della Prussia nel mondo tedesco,
della Russia nell’Europa orientale e nel
Mediterraneo e, soprattutto, instaurando
con la Gran Bretagna un rapporto dinamico
e aperto. Con Talleyrand, del resto, Metternich condivideva anche il principio di legittimità, assolutamente non coincidente col
diritto di conquista, ma con un riconoscimento da parte della comunità internazionale, una comunità costituita da soggetti egualmente sovrani e, tuttavia, diversi rispetto alla loro potenza. Francia e Austria, allora, avrebbero avuto il compito di difendere
gli Stati minori, tenendo a bada le ambizioni egemoniche dei più forti e garantendo,
così, l’equilibrio europeo.
Nel suo Diario, Gentz sostenne che «solo l’Atto finale aveva dato vita al congresso
e che, dunque, era dai suoi risultati oggettivi, piuttosto che dai faticosi sentieri che avevano condotto a essi, che occorreva giudicarlo» (p. 136). Il problema più importan-
te, per Metternich, era quello relativo alla
questione tedesca: il congresso di Vienna,
non a caso, verterà soprattutto sulla configurazione da dare allo spazio tedesco, per
evitare sia le spinte democratiche, sia le «aspirazioni alla teutomania» (p. 138). Il principe renano era consapevole che il vero terreno di gioco dell’equilibrio europeo sarebbe stato costituito proprio dal destino della
Germania, centro vitale di tutto. Nell’area
tedesca, Austria e Prussia – le due potenze
maggiori – dovevano garantire l’equilibrio,
facendo in modo che non potessero scattare
le alleanze degli Stati minori contr una delle
due. Quell’equilibrio che si giocava nel
cuore dell’Europa sarebbe stato esteso alle
altre potenze periferiche, in una specie di
sistema a cerchi concentrici, in grado di garantire la stabilità del tutto. Metternich aveva intuito giustamente che la resistenza della balance of power dipendeva tutta dal
mantenerne in equilibrio il fulcro. Una situazione che, nella successiva storia europea, si sarebbe più volte ripetuta, afferma
Mascilli Migliorini, a conclusione del suo
eccellente lavoro.
GIULIANA IURLANO
ROBERT B. HORWITZ, America’s Right:
Anti-Establishment Conservatism from
Goldwater to the Tea Party, Cambridge
(U.K.) and Malden, MA, Polity Press,
2013, pp. 279.
Che cosa significa “Anti-Establishment
American Right”? Horwitz introduce
opportunamente nel suo libro questa
espressione per distinguere la Old Right
americana degli anni ’30 e ’40 – su cui
Murray
N.
Rothbard
ha
scritto
un’illuminante opera, The Betrayal of the
American Right [Auburn, AL, Ludwig von
Mises Institute, 2007, edited with an introduction by Thomas E. Woods, Jr.] – dalla
destra americana anti-establishment nata
negli anni ’60 sotto impulso di Barry
Goldwater. Horwith esamina i caratteri dei
due movimenti brevemente, ma con grande
precisione.
273
La Old Right americana, cioè il primo
conservatorismo, nacque sui fondamenti
della tradizione americana, basata sul sospetto nei confronti dello Stato. In sostanza,
«[…] il conservatorismo americano, nato
sulla base dell’individualismo proprio del
liberalismo classico, si è imperniato sulle
teorie della libertà e della proprietà. Da
questo punto di vista, libertà e proprietà sono inestricabilmente legate» (p. 4). La proprietà, perciò, è un valore morale sacro che
si oppone strenuamente alla nozione di eguaglianza tipica del moderno liberalism.
La Old Right americana, emersa tra la fine
dell’Ottocento e i primi anni del Novecento
ed erede del liberalismo classico, era ritenuta la più efficace difesa del capitalismo del
laissez-faire e dei diritti di proprietà, con
qualche caduta nel darwinismo sociale.
Fu la Grande Depressione e poi
l’avvento del New Deal, scrive Horwitz, ad
alterare il mainstream del liberalismo classico negli Stati Uniti. In realtà, occorre aggiungere che l’intervento dello Stato fu giustificato dall’introduzione di un nuovo tipo
d’individualismo, di cui s’incaricò John
Dewey nel suo Individualism Old and New
[New York, Minton, Balch & Co., 1930],
opponendo al vecchio individualismo, ovviamente ritenuto egoistico e fonte di ineguaglianze, un nuovo individualismo “sociale”, di cui il New Deal sarebbe stato espressione. Horwitz tralascia di sottolineare
che, conseguentemente, i newdealers si appropriarono indebitamente del termine liberalism, connotandolo ora di significati legati all’interventismo statale e slegandolo dalla sua matrice originaria.
Sul piano della politica estera americana,
la Old Right assunse posizioni isolazionistiche. Tra le due guerre mondiali i conservatori americani sostennero il disimpegno degli Stati Uniti soprattutto dalle questioni europee, ritenute «intrattabili» (p. 6). Le spese
militari comportavano alta tassazione e inflazione, oltre che il rafforzamento del nemico numero uno dei conservatori: la concentrazione del potere dello Stato. Ma, agli
inizi degli anni ’50, afferma giustamente
274
Horwitz, la Old Right, il cui rappresentante
più illustre era a quel tempo il senatore Robert A. Taft, venne a patti con il settore internazionalista del partito repubblicano e
condivise la politica del containment antisovietico e, quindi, il rafforzamento
dell’apparato militare. Fu quello il momento che Rothbard denuncia come il tradimento della Old Right americana.
Gli anni ’50 videro il declino del conservatorismo old style. Ma l’emergere di
una figura come quella di Barry Goldwater
lo ridisegnò in una forma nuova. Nonostante la secca sconfitta a opera di Lyndon B.
Johnson nelle elezioni del 1964, l’influenza
di Goldwater fu decisiva per la rinascita del
conservatorismo in veste anti-establishment, per usare il termine di Horwitz. Il
nuovo conservatorismo non si connotò soltanto nella consueta impostazione contro il
liberal consensus, ma soprattutto contro il
conservatorismo dell’establishment repubblicano, che si era associato alle politiche
liberal. Anche il blocco sociale che sosteneva il Grand Old Party (il partito repubblicano) si ridefinì: ora era costituito prevalentemente da piccoli imprenditori e radicato nel Midwest e nel West, culle della tradizione americana, deciso avversario delle
politiche newdealiste, fortemente anticomunista e pronto ad affrontare l’Unione
Sovietica anche sul piano dello scontro nucleare. Nella sostanza, il conservatorismo
anti-establishment messo in moto da Goldwater, pur riprendendo le posizioni antiNew Deal della Old Right pre-bellica, si distingueva sul piano dell’impegno internazionale degli Stati Uniti per il superamento
dell’isolazionismo e per un confronto deciso con il comunismo sovietico.
Il nuovo conservatorismo, nota Horwitz,
era libertario sul piano economico e tradizionalista cristiano su quello sociale. Era,
cioè, libertario perché, ponendosi sulle orme di John Locke, si fondava sui principi
delle libertà individuali, sulla limitazione
dei poteri dello Stato, sull’economia capitalista e sulla difesa strenua della proprietà
privata; ma era anche tradizionalista,
sull’esempio di Edmund Burke, in quanto
radicato nella cultura cristiana e nell’ordine
morale ad essa legato. In sostanza, il nuovo
conservatorismo operava una sorta di fusionism – per usare un termine in voga allora –
tra liberalismo classico e tradizione religiosa americana. L’anti-comunismo ne era il
collante.
Fu su questa nuova base che emerse, negli anni’70, il neo-conservatorismo americano, che troverà in George W. Bush il suo
massimo rappresentante istituzionale. Ma il
tutto fu preceduto dallo straordinario successo di Ronald Reagan e dal suo carisma;
grazie a Reagan, il conservatorismo antiestablishment di marca goldwateriana superò lo scoglio elettorale e si impose come
nuova veste del partito repubblicano. «[…]
La coalizione elettorale di Reagan – scrive
Horwitz – replicò la vecchia fusione antiestablishment tra tradizionalismo e libertarismo, ma ora in presenza di una nuova situazione storica» (p. 112).
Il neo-conservatorismo degli anni di George W. Bush si pose come erede del nuovo
mainstream inaugurato da Reagan. Horwitz
dedica pagine molto precise al fenomeno
del neo-conservatorismo, che, pur riprendendo in pieno l’impostazione antiestablishment inaugurato da Goldwater, se
ne distingueva nel modo in cui poneva
l’eccezionalismo americano al centro del
sistema politico internazionale, come motore della lotta contro i rogue States e per la
loro democratizzazione. Afferma Horwitz:
«Implacabilmente anti-comunista e realista
in politica estera, la prima generazione di
neo-conservatori si batté contro la détente e
gli accordi sul controllo delle armi per tutti
gli anni ’70 e mise in piedi organizzazioni
che reclamavano un massiccio riarmo americano» (p. 130). L’affermazione di Horwitz, per la verità, è fin troppo netta, ma
comunque indica la svolta che il neoconservatorismo impresse alle relazioni internazionali degli Stati Uniti. Il crollo
dell’Unione Sovietica privò Washington del
suo tradizionale nemico, ma il terrorismo di
matrice islamista, con i fatti dell’11 settem-
bre 2001, segnò un drammatico spartiacque
nella politica estera americana. Così, un
nuovo fusionism tra la tradizione conservatrice libertaria e la destra cristiana o evangelica formò il nucleo centrale del neoconservatorismo, che oggi si esprime soprattutto nel Tea Party.
ANTONIO DONNO
PAOLO ACANFORA, Miti e ideologia nella
politica estera DC. Nazione, Europa e Comunità atlantica (1943-1954), Bologna, Il
Mulino, 2013, pp. 253.
Nella parte iniziale del libro, l’A. evidenzia
la tensione morale-religiosa che anima gli
esponenti della democrazia cristiana negli
ultimi anni della seconda guerra mondiale.
C’è un forte richiamo alla civiltà mediterranea (greco-latino-cristiana), idea–forza capace di dar vita ad un umanesimo universalista rigeneratore dell’Europa e del mondo
dopo il disastro bellico. All’interno di questo contesto sono evidenziate tre aree principali d’azione, in parte fra loro convergenti
e in parte divergenti: blocco slavoortodosso, blocco anglo-statunitense protestante e quello latino-mediterraneo cattolico. Il passaggio di De Gasperi e di altri esponenti democristiani, attraverso una valutazione più cauta del “mito della civiltà latina”, a quello occidentale sarà graduale e
condizionato dall’evoluzione politica. C’è
in un primo momento la necessità di apparire agli occhi dei vincitori come i difensori
del popolo italiano ingannato dal fascismo;
purtroppo, quest’azione non ha successo in
quanto l’Italia deve sottoscrivere un trattato
di pace considerato iniquo e, alla conferenza di Parigi, si trova dalla parte degli altri
paesi europei sconfitti (Bulgaria, Romania,
Ungheria, Finlandia). V’è poi la difesa difficile, e per taluni versi anacronistica, delle
colonie conquistate in parte dai governi liberali postunitari ed in parte da quello fascista. Non si riscontra, secondo l’A.,
un’analisi del contrasto internazionale del
periodo (accordi Yalta-Potsdam, quadro a-
275
siatico, dottrina Truman, ecc.) ma prevale la
considerazione continentale; l’idea della patria-nazione evolve in una visione più ampia continentale che pare una naturale conseguenza dell’unità storica europea (“la
vecchia Europa cristiana”). Ben presto la
DC deve affrontare sfide politiche contingenti e la progressiva frantumazione del
“fronte dei vincitori” con la formazione di
raggruppamenti contrapposti (piano Marshall, non applicazione della dichiarazione
dell’Europa liberata, patto di Bruxelles,
ecc.). Prende corpo l’idea di promuovere
un’alleanza fra i paesi liberal-democratici
“atlantici”. De Gasperi, come osserva giustamente l’A., non ha dubbi sulla necessità
dell’adesione italiana sia per ragioni di sicurezza, che per l’affinità dei sistemi politici dei contraenti; fra polemiche e contrapposizioni con le opposizioni parlamentari,
l’Italia, pur non essendo fra i promotori, accetta l’invito e aderisce al patto atlantico
(1949). I pilastri della politica estera del paese diventano, in tal modo, l’atlantismo e
l’europeismo: il primo è di fatto compiuto,
almeno sul piano militare, mentre il secondo costituisce “una speranza, un mito”, un
traguardo da perseguire per il futuro. Sotto
questo profilo, l’impegno di De Gasperi sarà volto negli anni successivi a favorire il
federalismo e a superare la nazionalità in
favore di istituzioni sovranazionali (CECA).
Acanfora analizza il travaglio della CED e
CPE e il loro fallimento a causa, in prevalenza, del dissidio franco-tedesco e delle
posizioni intransigenti del “nazionalismo
francese”. Il libro esamina anche il lavoro
compiuto dai partiti e dai movimenti democristiani nelle Nouvelles Equipes Internazionales (NEI): anti-comunismo attivo, superamento della sovranità statale, “pilastro
orientale della civilizzazione cristiana”,
confronto con i partiti socialisti, manifesto
europeista. L’A. evidenzia, inoltre, con efficacia e precisione, le opposizioni interne
al partito nei confronti della maggioranza
degasperiana; si tratta, in prevalenza, di
forze di sinistra che contestano il metodo
“verticistico” del governo e le sue scelte
276
prevalentemente di carattere difensivodiplomatico-militare che lasciano in ombra
quelle socio-economiche e morali. Sono
ben tratteggiate le proposte di Gronchi, di
Dossetti, di Ardigò e di altri esponenti politici e sindacali (CISL). Emerge un quadro
ben definito dell’alternativa alle scelte del
governo; non si tratta, come osserva l’A., di
una contrapposizione, ma di una lettura diversa delle priorità strategiche nel confronto
con il mondo comunista interno e internazionale (questione sociale, “neutralismo attivo”, applicazione dell’art. 2 del patto atlantico, comunità atlantica non solo strategica e ideologica, ecc.). In realtà, il confronto De Gasperi-Dossetti non avrà né vinti, né vincitori, in quanto, prescindendo
dall’uscita dalla scena politica del politico
reggiano, gli obiettivi perseguiti da ambedue saranno raggiunti solo in parte: il patto
atlantico rimane una struttura a prevalente
carattere militare-difensivo e la costruzione
dell’unità europea un “mito e una speranza”. La battaglia europeista di De Gasperi
continua anche nei mesi successivi con i
governi Pella e Scelba; al congresso della
DC di Napoli (1954) non esita ad affermare
che la NATO è un’importante necessità ma
l’Unione Europea è una “priorità”. Poco
dopo prende corpo, con obiettivi integrativi
politici e militari, l’Unione dell’Europa occidentale (1954, UEO), che apre le porte a
Berlino
e
ne
agevola
l’ingresso
nell’alleanza atlantica (1955). In seguito di
questa decisione, Mosca passa dalla rete
delle alleanze con i paesi orientali alla costituzione del patto di Varsavia (1955). In
sostanza, l’esame del periodo evidenzia, secondo Acanfora, un’evoluzione dell’identità italiana: sotto la guida di De Gasperi e
della democrazia cristiana, tramonta l’idea
del vecchio nazionalismo e dell’impero, e
prende corpo quella di nazione legata alla
solidarietà europea, occidentale e internazionale. È bene non dimenticare che, in
questi anni, l’Italia entra nell’UNESCO e
nell’ONU (1955) e poco dopo a Roma sono
sottoscritti i trattati costitutivi della Comunità Economica Europea (CEE) e
dell’EURATOM, a conferma dei nuovi indirizzi della politica estera del paese a guida
democristiana. In sostanza, le scelte più importanti della politica estera italiana in questi anni possono essere riassunte in una trilogia significativa destinata ad affermarsi e
a durare fino ai nostri giorni: europeismo
(CEE, UEO, UE), atlantismo (Patto Atlantico), internazionalismo (ONU).
ALESSANDRO DUCE
LUCIANO GARIBALDI, Gli eroi di Montecassino. Storia dei polacchi che liberarono
l’Italia, Milano, Mondadori, 2013, pp.
175.
Il lettore è introdotto nei temi specifici del
libro da un ampio esame del quadro centroeuropeo dopo la prima guerra mondiale
(Versailles, Danzica, linea Curzon, pace di
Riga, ecc.) con la nascita della “grande Polonia”. La situazione è modificata dai trattati Ribbentrop-Molotov (1939) con la spartizione del paese e la fine della sua esistenza
statuale. In questo contesto, entra in scena il
generale Wladyslaw Anders, che, dopo aver
combattuto contro i tedeschi, è imprigionato dai sovietici per due anni prima in Ucraina e poi a Mosca. Per non diventare “collaborazionista”, rifiuta di assumere la guida
di un governo filo-sovietico e delle forze
armate. Guarda, pur in condizioni di prigionia “terribili”, al governo polacco in esilio a
Londra guidato da Sikorski. L’operazione
Barbarossa
modifica
questa
realtà;
l’accordo fra Londra e Mosca permette ad
Anders di dar vita ad un contingente polacco che, tuttavia, non può essere impegnato
sul fronte tedesco-sovietico. Di particolare
interesse l’esame dell’evoluzione moscovita
e il resoconto dei colloqui fra Anders, Stalin e Molotov.
I polacchi si trasferiscono in Persia, Iraq,
Siria, Palestina, Egitto e arriveranno in Italia per essere impegnati con l’VIII armata
britannica. L’A. mette in luce un episodio
interessante: durante il passaggio in Palestina, molti ebrei polacchi abbandonano An-
ders per unirsi ai contingenti ebraici che si
formano in quel territorio. In Italia, dopo la
concentrazione a Taranto, le forze armate
polacche (II corpo d’armata) sono impegnate contro la linea Gustav, nel gennaio del
1944 combattono ad Anzio e più tardi a
Montecassino, ove saranno le prime a salire
sulle rovine dell’abbazia. L’A. illustra con
chiarezza ed efficacia la feroce battaglia
condotta dagli alleati contro i tedeschi
(bombardamento, assalti, ritirata tedesca,
bilancio delle vittime civili e militari, ecc.).
Anders conduce in seguito l’armata polacca
a Roma, sul fronte orientale italiano, sulla
linea gotica, ad Ancona, Forlì, Predappio,
Bologna, fino alla resa germanica in Italia.
Luciano Garibaldi illustra anche i colloqui
di Anders con Churchill (1943-1944), nei
quali avanza richieste per i futuri confini
della Polonia, lamenta i mancati aiuti sovietici ai rivoltosi di Varsavia, rifiuta ogni ipotesi di cessioni territoriali. Gli accordi di
Yalta deludono Anders e i vertici politici
polacchi non allineati con Mosca (linea
Curzon, confine Oder-Neisse, trasferimenti
di popolazioni polacche, ecc.); la Polonia,
prima con il governo di Lublino e anche in
seguito, resta di fatto nell’orbita di Mosca,
inserita nel “blocco comunista”. Londra
promette ad Anders di accogliere nel Regno
Unito i combattenti polacchi che non vogliono rientrare nella “patria comunista”;
l’impegno non sarà mantenuto. Anders assume un ruolo nuovo di carattere “politico”;
organizza scuole d’apprendistato, opera per
l’inserimento nel lavoro, nelle università,
degli ex combattenti restati in gran parte in
Italia. In seguito molti, delusi dalle promesse inglesi, si recano negli USA, in Australia,
in Argentina e in altri paesi. Il corpo
d’armata polacco è sciolto nel settembre del
1946. Varsavia ritira la cittadinanza ad Anders e ai polacchi che rifiutano di rientrare
in Polonia; in Italia, il generale e i suoi
combattenti sono oggetto di violenze da
parte di esponenti del PCI. Per la liberazione
dell’Italia, il II corpo d’armata polacco, forte di circa 100.000 uomini, ha avuto oltre
277
4.000 caduti, 2.000 dispersi e migliaia di
mutilati e feriti.
I cimiteri di Montecassino, Loreto e Bologna San Lazzaro raccolgono i resti mortali di questi combattenti. Lo stesso Anders
vuole essere sepolto “accanto ai suoi soldati” (dopo il suo decesso nel 1970 a Londra)
a Cassino: sulla tomba compare l’iscrizione
“Dio, Italia, Polonia”. Emerge con forza dal
testo la figura centrale del libro, cioè il generale Anders: patriota, stratega, statista e
credente cattolico. La sua opera otterrà importanti riconoscimenti anche da diversi
pontefici (Pio XII, Benedetto XVI, Wojtyla). In realtà, il titolo del libro è riduttivo
rispetto al contenuto, che spazia, con autorevolezza e ricca documentazione, su un orizzonte più ampio e dà una misura adeguata del principale protagonista. L’introduzione di Massimo de Leonardis arricchisce l’opera con opportune valutazioni ed
inviti a riflettere sul ruolo giocato dalle forze democratiche polacche e occidentali contro “quelle del male” di matrice nazionalsocialista e marx-leninista in Polonia nel
contesto drammatico del conflitto. Non
mancano riferimenti all’eliminazione di
migliaia di ufficiali polacchi a Katyn ad opera dei sovietici; questo crimine vergognoso sarà riconosciuto soltanto più tardi dal
nuovo governo russo (Gorbaciov e Eltsin).
Il libro è ben scritto, appassionante, spiega
aspetti poco conosciuti dei combattenti polacchi, evidenzia la stretta collaborazione
con gli alleati, è fondato su solide basi documentarie, scritte e orali, e fa luce sui collegamenti fra i “risorgimenti” dell’Italia
dell’Ottocento e della Polonia del Novecento.
ALESSANDRO DUCE
278
GLI AUTORI
GIANLUCA BORZONI è ricercatore presso l’Università di Cagliari, dove insegna Storia
delle Relazioni Internazionali. Ha di recen te conseguito l’abilitazion e a profess ore
associato. I suoi tem i di rice rca riguardano la storia della politica estera ita liana, le
relazioni transatlantiche e la sicu rezza nel Mediterraneo. I suoi libri: Renato Prunas
diplomatico, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004; “Is it all going to be just words”? Le
difficoltà del neutralismo: gli Stati Uniti e le forniture di aerei alla Grecia nel 19401941, Milano, Franco Angeli, 2008; Dalle origini alla “primavera araba”. La Nato e le
crisi mediterranee tra passato e presente, Roma, Aracne, 2012.
MICHELE CARDUCCI è professore ordinario di Diri tto Costituzionale Comparato
nell’Università del Salento. In precedenza ha insegnato presso le Università di Parma e
Urbino. Ha svolto ricerche e ricoperto im portanti incarichi presso num erose Università
dell’America Latina. Tra le su e pubblicazioni più recenti: Atlante normativo di diritto
costituzionale comparato, Milano, Giuffrè, 2004; La cultura di Weimar e lo studio del
diritto costituzionale comparato, Lecce, Pensa Editore, 200 8; (con Beatrice Bernard ini
D’Arnesano), Turchia, Bologna, Il Mulino, 2008.
ENTELA CUKANI è dottoranda in D iritto Pubblico Com parato presso l’ Università del
Salento. I suoi interessi sono volti allo st
udio delle transizioni costituzionali, con
particolare riferimento ai diritti dei gruppi e delle m inoranze. Nel 2012 ha pubblicato
Ongoing Pristina-Belgrade Talks: From Decentralization to Regional Cooperation and
Future Perspectives, Eur.ac Research – Europ ean Diversity and Autonom y Papers
(EDAP), on-line.
JOAN DEL ALCÀZAR è full professor di Storia Contemporanea presso l’Università di
Valencia. Ha pubblicato libri e articoli in Sp agna, Messico, Argentin a, Cile e Brasile.
Nel 1998 è stato perito dell’accusa nel proces so contro Augusto Pinoch et davanti alla
Audiencia Nacional de España. È coautore di una Història Contemporània d’America,
València, Servei de Publicacions de la Universitat de València, 2003. Il suo ultimo libro
è Chile en la pantalla. Cine para escribir y para enseñar la historia (1970-1998),
València/Santiago de Chile, PUV, 2013.
GIULIANA IURLANO è ricercatrice di Storia delle Re lazioni Internazionali presso
l’Università del Salento. Ha di recente conse guito l’abilitazione a professore associato.
S’interessa della prima politica estera americana e della gu erra fredda, cui ha dedic ato
vari articoli e saggi. È autrice di Sion in America. Idee, progetti, movimenti per uno
Stato ebraico (1654-1917), Firenze, Le Lettere, 2004. Ha curato, insieme ad Antonio
Donno, l’opera collettanea Nixon, Kissinger e il Medio Oriente (1969-1973), Firenze,
Le Lettere, 2010.
EMANUELE PIGNATELLI è stato diplomatico di carriera dal 1969 al 2011. Al m inistero
degli esteri si è occupato
di cooperazione allo sviluppo , tutela dei diritti um ani,
diplomazia multilaterale e rapporti con i paes i africani. Ha prestato servizio nelle
279
ambasciate italiane a L agos, Città del Mess ico e Parigi, è stato cons ole aggiunto a
Zurigo e consigliere alla rappres entanza italiana presso la Com unità Europea. È stato
ambasciatore ad Asmara, in Eritrea, e a Quito, in Ecuador.
RICARDO D. RABINOVICH-BERKMAN è full professor di Storia del Diritto presso
l’Università di Buenos Aires e direttore del dipartim ento di Scienze Sociali. Tra le sue
numerose opere: Matrimonio incaico, Quito, Jurídica Cevallos, 2003; Derecho romano
para Latinoamérica, Quito, Cevallos, 2006; Derechos humanos. Una introducción a su
naturaleza y a su historia, Buenos Aires, Quorum, 2007.
LILIANA SAIU è professore ordinario di Storia
delle Relazioni Interna zionali
all’Università di Cagliari. Si è occup ata di origini ed evoluzione de lla guerra fredda, di
rapporti tra Stati Uniti e Italia e di politica es tera italiana. Attualmente i suoi interessi di
ricerca si incentrano sul tem a della sicure zza nel Mediterraneo. Tra le sue princ ipali
pubblicazioni: La politica estera italiana dall’Unità ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005;
Stati Uniti e Italia nella Grande Guerra, 1914-1918, Fondazione Luigi Einaudi,
Firenze, Olschki, 2003.
SABRINA SERGI ha conseguito la laurea m agistrale in Sc ienze della Politica pr esso
l’Università del Salento, con una tesi in Linguaggio Diplom atico, dalla quale è stato
tratto questo saggio. Attualmente è iscritta a l master in Diplomacy presso l’Istituto per
gli Studi di Politica Internazionale di Milano (ISPI).
LUCIO TONDO è dottore di ricerca nell ’Università di Pisa e pr ofessore a contratto di
Linguaggio Diplomatico presso l’U niversità del Salento. H a recentemente conseguito
l’abilitazione a professore a ssociato. Ha pubblicato articoli e saggi sulle relazioni degli
Stati Uniti con la Russia bolscev ica, il Giappo ne, l’Italia e l’ar ea mediorientale, e il
volume L’aquila e il Sol Levante. La politica degli Stati Uniti verso il Giappone (19201932), Galatina, Congedo, 2008. Attualm ente lavora ad un libro sui rapporti tra
l’amministrazione Nixon e il Libano.
IDA LIBERA VALICENTI è dottoranda di ricerca in Studi Politici (indirizzo di Storia
delle Relazioni Internazionali) pres so l’Università “Sapienza” di Ro ma. È borsista
presso la Facoltà di Storia dell’Università di Bucarest. Ha conseguito un master in Studi
Diplomatici presso la Società Italiana per l’Organizzazion e Internazionale (SIOI) di
Roma. Ha di recen te pubblicato: Dalla polis greca alla e-democracy, Roma, Edizioni
Nuova Cultura, 2014; Stanley Hoffman e il dilemma della guerra fredda, Roma,
Edizioni Nuova Cultura, 2014.
280
Eunomia
Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali
http://siba-ese.unisalento.it/index.php/eunomia
© 2014 Università del Salento – Coordinamento SIBA
http://siba2.unisalento.it