RASSEGNA STAMPA

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RASSEGNA STAMPA
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venerdì 16 gennaio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
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L’ARCI SUI MEDIA
Del 16/01/2015, pag. 1
Regime change per l’UE
Il voto in Grecia
Luciana Castellina
<<Il rischio per l’Europa non è Tsipras ma la Merkel». Questa verità espressa qualche settimana fa da Piketty mi ha dato una botta di ottimismo. Perché Piketty, pur non avendo
alcun potere deliberativo, si è accreditato come voce ascoltata e rispettata (basti pensare
alle astronomiche cifre raggiunte dalla vendita del suo ultimo libro); e, sia pure sempre
meno, l’opinione pubblica ancora conta un po’.
Piketty non è del resto il solo economista importante ad essersi espresso in questo senso
su Syriza: sui più importanti quotidiani europei e persino americani sono state non poche
le voci autorevoli che hanno analizzato con serietà il programma del partito che nei sondaggi appare vincente nelle prossime elezioni greche, e ne hanno tratto la conseguenza
che non si tratta di grida di un insensato estremismo, ma di proposte largamente
condivisibili. Se questo è accaduto è perché Tsipras non ha solo ottenuto l’appoggio di
così larga parte del popolo greco che chiede giustizia, ma anche di un bel nucleo di economisti del paese che sono diventati suoi consiglieri (e alcuni candidati a ministro
nell’ipotesi di conquistare la direzione del governo di Atene). Si tratta di ex studenti greci
che, come tantissimi, sono emigrati nel mondo per frequentare le università eccellenti del
Regno Unito, della Francia, della Germania; e anche di quelle americane. Per questo sono
conosciuti e ascoltati anche fuori dal loro paese.
Il potere deliberativo ce l’ha per ora questo esecutivo dell’Unione europea che proprio nel
suo ultimo vertice — sordo e cieco rispetto alla realtà greca – ha ribadito le solite posizioni:
no a ogni ristrutturazione del debito, ma solo un breve prolungamento dei tempi di restituzione. Del tutto insufficiente a impostare una politica di lungo periodo per garantire una
ripresa economica quale sarebbe necessaria. Né le annunciate promesse di aumento
della liquidità annunciate dalla Bce (il Qe, quantitative easing) sembra possano davvero
aiutare: l’esperienza di questi anni sta lì a dimostrare come ogni volta che le banche ottengono soldi si affrettano a darli ai big più sicuri e non ai protagonisti di una diffusa e minuta
economia autoctona. Quanto la Grecia chiede non è l’elemosina, ma i mezzi per impostare
un nuovo modello di sviluppo, che non sia la riproposizione di quello eterodiretto adottato
negli anni passati dagli speculatori stranieri in combutta con quelli locali, responsabile di
aver portato il paese alla catastrofe.
Senza neppure porsi qualche interrogativo autocritico l’esecutivo europeo, e i governi che
ne sostengono le posizioni, non intendono capire che non si uscirà dalla crisi se non con
un mutamento radicale, non limitandosi a consentire ai cittadini un po’ più di inutile consumo nelle catene dei supermarket internazionali (il modello degli 80 euro di Renzi). Una
vittoria di Syriza il prossimo 25 gennaio può aiutare tutti a riproporsi questo ordine di problemi. Speriamo.
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Da FirenzeToday del 16/01/15
La Notte Rossa dell'Arci: 200 eventi in
programma in Toscana
Oltre duecento Circoli e Case del Popolo daranno vita ad una maratona
di socialità e cultura. Da pomeriggio a sera, eventi e spettacoli dai centri
delle città alle piccole frazioni della Toscana
Una piazza Rossa ad Arezzo. Il torneo di bocce con gli ospiti del progetto SPRAR (servizio
richiedenti asilo e rifugiati) di Arci Toscana. Un viaggio nei fumetti gay e lesbici del mondo
tra stuzzichini, gossip e chiacchiere. La cena di solidarietà e gemellaggio con i Circoli
alluvionati di Genova. La mega tombolata da due maxiturni in stile “Berlinguer ti voglio
bene” con tanto di cena sociale per i partecipanti. I balli rossi, bianchi e verdi per il 150°
anno dalla realizzazione della Porrettana, nel circolo simbolo della prima ferrovia che unì
l'Italia attraverso l'Appennino. L'inaugurazione di una web radio.
E ancora: eventi dedicati inclusione sociale, progetti di solidarietà internazionale,
sostenibilità ambientale, teatro, libri, musica, esposizioni di giovani artisti, antimafia
sociale, memoria della Resistenza e all'Olocausto, lotta alle discriminazioni e alle violenze
di genere. Biliardo, carte, ballo liscio. Tante animazioni, merende e letture a voce alte per i
più piccoli.Sabato 17 gennaio 2015, ce ne sarà per tutte e per tutti.
Sarà la prima Notte Rossa delle case del popolo, delle associazioni, dei circoli Arci in
Toscana. Oltre 200 eventi e spettacoli tra cultura, socialità, divertimento, solidarietà,
inclusione sociale per una lunga maratona dal pomeriggio fino a tarda sera, dai grandi
centri alle piccole frazioni che mette insieme la semplicità e la complessità dell'azione
quotidiana delle basi associative Arci per rendere comunità, quartieri e città della Toscana
vivi e solidali.
Il programma completo della Notte Rossa
http://www.firenzetoday.it/eventi/notte-rossa-arci-17-gennaio-2015.html
Altre news dai siti locali sulle iniziative della Notte Rossa:
- http://www.sienafree.it/eventi-e-spettacoli/256-eventi-e-spettacoli/68746-arci-sienasabato-la-notte-rossa-fra-cultura-musica-impegno-sociale-e-solidarieta- http://www.antennaradioesse.it/anche-a-siena-la-notte-rossa-dellarci-toscana/
- http://www.gonews.it/2015/01/15/notte-rossa-al-circolo-arci-lalba-il-programmadellevento/
- http://www.toscananews24.it/wp/?p=21776
- http://iltirreno.gelocal.it/cecina/cronaca/2015/01/15/news/mostre-dibattiti-e-ballo-larci-lancia-la-notte-rossa-1.10673945
- http://iltirreno.gelocal.it/pistoia/cronaca/2015/01/15/news/notte-rossa-nei-circoli-arci1.10673448
Da Corriere Sociale del 16/01/15
Impatto Zero, il premio delle pratiche “green”
di Matteo Benedetti
PADOVA – Un’applicazione sviluppata da una startup di giovani per il recupero
dell’avanzo alimentare a favore di onlus e associazioni, un laboratorio di sartoria sociale
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per il riciclo e riuso creativo, un cittadino che presiede un comitato civico impegnato
nell’ecologia e nella lotta all’abbandono dei rifiuti e un’associazione studentesca attiva da
anni nella sensibilizzazione ai temi della sostenibilità: sono loro i vincitori della quarta
edizione del “Premio Impatto Zero”, iniziativa di Arci che valorizza le buone pratiche
sostenibili di cittadini, associazioni e cooperative.
Il premio, nato a Padova nel 2011, e cresciuto fino a raggiungere il livello nazionale, è
promosso da Arci e organizzato da Arci Padova, con il contributo di AcegasApsAmgasocietà del gruppo Hera, in collaborazione con Legambiente nazionale, Coordinamento
Agende 21 Locali Italiane, Progetto Life+Eco Courts, Legacoop Veneto, Centri Servizi
Volontariato di Padova, Verona, Vicenza, Rovigo, Treviso e Belluno e Confcooperative
Padova, con il patrocinio di EXPO Milano 2015, Ministero dell’Ambiente e Comune di
Padova.
Ai vincitori delle categorie sono andati in premio – offerti dagli sponsor Sammontana,
CiaoBio, Italwin, Selle Royal, Coop Adriatica, Fairtrade, EcoZema, Abano Ritz Hotel
terme, Consorzio imballaggi alluminio - articoli totalmente “green” tra cui una “ricicletta”,
city bike ottenuta dal riciclo di 800 lattine, un buono sconto per l’acquisto di una bici
elettrica e selle “eco-friendly”.
http://sociale.corriere.it/impatto-zero-il-premio-delle-pratiche-green/
Da Redattore Sociale del 16/01/15
Nella periferia est di Napoli scoppia di nuovo
la violenza. E il quartiere torna in piazza
A Ponticelli, nei giorni scorsi, incendi, sparatoria, intimidazioni, tentata
rapina e un accoltellamento. Nel silenzio istituzionale, il quartiere
reagisce scendendo in piazza lunedì 19 gennaio con una manifestazione
anticamorra
NAPOLI - A Ponticelli, periferie est di Napoli, torna a riaccendersi la violenza criminale.
Nei giorni scorsi, dopo l’incendio di un’abitazione privata e di un esercizio commerciale in
via De Meis, per cui non sarebbe stato pagato il pizzo, in pieno giorno sotto gli occhi
attoniti degli abitanti sul corso principale del quartiere orientale di Napoli si è consumata
una sparatoria e poco distante sono state fatte esplodere due bombe carta che hanno
distrutto sei automobili. Nella vicina Volla, a distanza di qualche giorno, un diciassettenne
è stato accoltellato dopo una tentata rapina. Nel silenzio istituzionale di questi giorni, in
risposta a questo susseguirsi di violenze, il quartiere reagisce scendendo in piazza lunedì
19 gennaio (a partire dalle 18.30).
La manifestazione anticamorra è organizzata dalle associazioni Arci Movie e Terra di
Confine, da sempre presenti sul territorio, in collaborazione con Libera attraverso il
presidio “Vittime 11 Novembre”. “Lo scopo – si legge nel volantino dell’iniziativa – è di
sensibilizzare i cittadini, portando ili a conoscenza di quanto accaduto e sollecitarli a non
farsi intimorire e a scendere sul territorio non lasciandolo a forze oscure e criminali, ma
anche di chiedere che Ponticelli sia sempre presidiato dalle forze dell’ordine,
intensificando i controlli a qualsiasi ora del giorno, e per evitare che altri episodi del genere
possano verificarsi ancora”.
“Sì alla solidarietà e no all’illegalità”, dicono dall’Arci Movie, associazione diventata un
punto di riferimento sul territorio che, proprio a Ponticelli, tiene aperto l’ultima sala
cinematografica rimasta nella periferia orientale di Napoli, il Pierrot. L’appuntamento per il
corteo è all’incrocio tra via De Meis e Corso Ponticelli. “Il quartiere sta reagendo a questa
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scia di eventi criminali – spiega Roberto Zabberoni, del presidio di Libera che coordina
l’iniziativa – Con la manifestazione andiamo a fare un’azione in un certo senso
‘coraggiosa’. Abbiamo avuto già un buon riscontro sui Social e confidiamo in una
partecipazione numerosa per rompere il muro di omertà e perché la gente si possa sentire
meno sola. Ponticelli è un quartiere difficile da vivere, chiediamo un maggior impegno da
parte delle forze dell’ordine e maggiori risorse”. (mn)
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ESTERI
Del 16/01/2015, pag. 2
Vanessa e Greta sono libere
ROMA
Libere. Finalmente libere, dopo 168 giorni in mano ai ribelli siriani. Vanessa Marzullo e
Greta Ramelli, le due volontarie italiane originarie la prima di Brembate, nella
Bergamasca, la seconda di Besozzo, Varese, 21 e 20 anni, rapite il 31 luglio scorso ad
Alabsmo, vicino ad Aleppo, sono partite ieri sera dalla Turchia o forse dal Libano, per il
viaggio che le riporta a Roma (dove verranno sentite dai magistrati). Ad accoglierle
all’aeroporto di Ciampino il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni.
Il 31 dicembre scorso le ragazze erano apparse su Youtube, in un video girato almeno
dieci giorni prima, coperte dall’hijab, velo e veste nera. Invocavano aiuto: «Supplichiamo il
nostro governo e i loro mediatori di riportarci a casa prima di Natale. Siamo in grande
pericolo e possiamo essere uccise». Il pm di Roma Sergio Colaiocco, titolare
dell’inchiesta, aveva confermato che la trattativa era entrata in una «fase delicata» in cui
bisognava mantenere «riservatezza e prudenza».
Nel pomeriggio di ieri, attorno alle 18, si sono rincorse le voci del loro rilascio, rimbalzate
anche suio media arabi. La liberazione era cosa fatta, hanno twittato account vicini alla
resistenza anti-Assad. Poi, la conferma di palazzo Chigi, sempre con un tweet: «Greta
Ramelli e Vanessa Marzullo sono libere, torneranno presto in Italia». Le famiglie sono
state avvisate al telefono dal premier.
Nel frattempo, in aula a Montecitorio, il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi ha
comunicato la notizia, accolta con un lungo applauso dalla Camera. «Una bella, bellissima
notizia che ci ha fatto tutti felici» sono state le parole del presidente di turno, Marina
Sereni, del Partito democratico. Tutti felici sì, ma neanche il tempo di applaudire ed è
scoppiato un caso politico, una dura polemica, sull’onda di un’indiscrezione diffusa dalla tv
araba Al Aan , secondo la quale sarebbe stato pagato un riscatto di ben 12 milioni di
dollari dal governo italiano. «Sarebbe una vergogna per l’Italia — si è ribellato il segretario
della Lega Nord Matteo Salvini — l’eventuale pagamento di un riscatto, anche di un solo
euro, che permetterebbe ai terroristi islamici di uccidere ancora; presenteremo oggi stesso
un’interrogazione al ministro degli Esteri Gentiloni». Salvini ha espresso «gioia immensa»
per la liberazione delle due giovani donne, la stessa gioia di Giorgia Meloni, presidente di
Fratelli d’Italia- An («è una splendida notizia»), che non ha tuttavia impedito a Massimo
Corsaro, sempre FdI, di criticare aspramente, come la Lega, l’eventualità del pagamento
di un riscatto. «Greta e Vanessa hanno esposto loro stesse e l’intero Stato italiano a una
situazione di rischio coscientemente, con la loro volontaria presenza in quel Paese. Serve
che il ministro Boschi ci dica se è in grado di escludere che sia stato speso un solo
centesimo per riportare le due ragazze a casa».
In aula, i gruppi di opposizione, Lega, Fdi, Forza Italia e Cinque Stelle, hanno chiesto la
sospensione della seduta per convocare subito Gentiloni e conoscere i dettagli
dell’operazione. Alla fine, la presidente Sereni ha concesso un minuto a gruppo per
commentare il rilascio delle volontarie, si è scusata e ha detto che oggi alle 13 il ministro
Gentiloni sarà alla Camera a riferire sui fatti.
Mariolina Iossa
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del 16/01/15, pag. 1/2
IL SEQUESTRO DELLE ITALIANE
Quei giorni di paura dopo la strage di Parigi,
poi un nuovo video sblocca la trattativa
CARLO BONINI
DAL NOSTRO INVIATO
ANTIOCHIA (TURCHIA) .
A poche decine di chilometri da qui, dalla linea di confine che separa Aleppo dalla
provincia meridionale turca di Hatay, il mattatoio siriano dal mondo dei vivi, Greta Ramelli
e Vanessa Marzullo tornano ad essere due donne libere. E ora, in una notte fredda e
fradicia di pioggia, un volo della Presidenza del Consiglio con a bordo gli uomini dell’Aise
— la nostra intelligence estera — che per sei mesi hanno lavorato alla trattativa, le riporta
in Italia, a Roma, dove questa mattina saranno interrogate in procura dal pm Sergio
Colaiocco e dai militari del Ros dei carabinieri.
Alle spalle, Greta e Vanessa lasciano una prigionia che è stata non solo lunghissima, ma a
tratti molto dura, di cui sarebbe testimone la richiesta dei mediatori nella fase finale del
negoziato di medicinali per curare un’infezione. Oltre duecento giorni di segregazione i cui
dettagli, oggi, saranno loro stesse a ricostruire e a cui il nostro Paese ha messo fine
pagando un prezzo che nessuna fonte ufficiale o ufficiosa, naturalmente, né in queste ore,
né nei prossimi giorni, si incaricherà mai di confermare o anche solo di smentire. «Dodici
milioni di dollari», sostiene la tv di Dubai “Al Aan” raccogliendo un tweet attribuito a
militanti dell’Is. Che tuttavia non ha avuto alcun ruolo nel sequestro e che dunque, nel
denunciare chi ha «venduto gli ostaggi», ha ora interesse ad aprire intorno alla liberazione
delle ragazze una partita che è insieme interna alla frammentata galassia di sigle che
combattono il regime di Assad, ma soprattutto esterna per la polemica che è in grado di
tornare a dividere i Paesi Occidentali sulla scelta del Diavolo che è quella se pagare o
meno per la vita dei propri cittadini.
È un fatto che, come sostiene una qualificata fonte della nostra intelligence, chi ha avuto
nelle mani la vita di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, siano stati «banditi verniciati da
islamisti». E che nella scelta accurata delle parole sia l’indicazione di come non ci sia stato
nulla di “politico” nella matrice del sequestro e, ragionevolmente, nella sua soluzione.
Almeno fino ai giorni a cavallo tra il 24 e il 31 dicembre scorsi, quando, improvvisamente, il
canale che dal luglio precedente aveva consentito alla nostra intelligence di mantenere
aperta la trattativa e ottenere solide prove in vita delle due ragazze, si interrompe
bruscamente. In rete viene infatti inopinatamente postato un video (quello in cui alle due
ragazze viene chiesto di leggere un messaggio che è una supplica al nostro governo ad
accelerare la trattativa che deve liberarle) e il prezzo sembra improvvisamente destinato a
salire. Anche perché sulla scena irrompono, con due diverse dichiarazioni pubbliche, i
luogotenenti di Al Nusra, la formazione di matrice qaedista che nel fronte degli oppositori
ad Assad è concorrente sia dei militanti neri del Califfato, sia dei “moderati” del Siryan
Free Army, l’Esercito Libero Siriano. Che, a quanto è possibile ricostruire in queste prime
confuse fasi, è per altro quello che, di fatto, ha offerto ai “predoni” autori del sequestro, che
ne erano sprovvisti, la logistica in grado di portare avanti una prigionia così lunga.
Gli ultimi quindici giorni di sequestro, sono diventati così una nuova, infernale partita a
scacchi. Dove il moltiplicarsi improvviso degli attori si temeva potesse essere l’incipit di un
nuovo e questa volte inestricabile negoziato. Anche perché, il 7 gennaio, Parigi e
l’Occidente entrano nell’incubo di sangue delle stragi di Charlie Hebdo e del supemercato
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kosher di Porte de Vincennes. Qualcuno, in quei frangenti, pensa infatti che si possa
alzare ancora il prezzo. Che un’Italia emotivamente assai fragile non reggerebbe
all’esecuzione di due giovani donne che appena due settimane prima hanno supplicato di
essere riportate a casa. La nostra intelligence chiede allora una nuova prova in vita. E i
sequestratori girano un secondo video che, tra sabato 10 e domenica 11 gennaio, diventa
il punto decisivo della trattativa. In quelle immagini — di cui non è dato conoscere il
contenuto — c’è a quanto pare la chiave per chiudere. Ma quelle immagini — questa la
richiesta della nostra Intelligence — stavolta, e a differenza del 31 dicembre, non devono
essere messe in rete. Tra i sequestratori c’è chi minaccia di fare il contrario. Il che
significherebbe che l’accordo stretto dai mediatori non soddisfa tutti. A cominciare dagli
uomini di Al Nusra. Gli ultimi ad aver messo il cappello sul sequestro. E tuttavia assai
influenti. Sono 48 ore complicatissime. In cui più di una volta l’intelligence teme di perdere
nuovamente il bandolo della matassa. Poi, a inizio della settimana, la svolta. E un’attesa
finita ieri nel primo pomeriggio di Roma, quando la notizia che le due ragazze sono libere
viene comunicata al presidente del Consiglio, dopo che il sottosegretario con delega alla
sicurezza nazionale, Marco Minniti, era stato informato dal direttore del Dis, Giampiero
Massolo, degli ultimi e definitivi dettagli della liberazione.
del 16/01/15, pag. 4
“Pagato un riscatto”. E scoppia la polemica
Secondo la tv di Dubai Al Aan, per il rilascio di Greta e Vanessa “ l’Italia
avrebbe versato ad Al Nusra 12 milioni di euro” La Farnesina non
conferma, ma il leader leghista Salvini attacca: “È uno schifo. Quei soldi
serviranno ai terroristi per uccidere”
GIAMPAOLO CADALANU
LA GIORNATA
ROMA .
Come per ogni sequestro in terra straniera, alla gioia per la liberazione degli ostaggi si
affianca la polemica sul presunto pagamento del riscatto. Secondo il Guardian , fonti di
intelligence hanno confermato che c’è stato un pagamento multimilionario. Ma a azzardare
una cifra è stata la tv di Dubai Al Aan: secondo l’emittente dodici milioni di dollari
sarebbero arrivati al Fronte Al Nusra per il rilascio di Greta e Vanessa. Ovviamente non ci
sono conferme.
Per Matteo Salvini l’indiscrezione è sufficiente: il segretario della Lega Nord ha affidato a
un breve messaggio su Twitter il suo giudizio: «È uno schifo».
Poi ha diffuso alle agenzie stampa una nota in cui rilevava: «La liberazione delle due
ragazze mi riempie di gioia, ma l’eventuale pagamento di un riscatto che permetterebbe ai
terroristi islamici di uccidere ancora sarebbe una vergogna per l’Italia». Salvini vuole
presentare immediatamente un’interrogazione al ministro degli Esteri «per appurare se sia
stato pagato un solo euro per la liberazione delle due signorine».
L’uscita di Salvini ha dato luce verde a una serie di interventi nello stesso senso. Il
vicepresidente del Senato Roberto Calderoli ha sottolineato che «qualora fosse stato
pagato un riscatto, quei soldi andrebbero a finanziare i sequestratori che ci sono dietro
questi episodi e quindi a chi attenta alla nostra civiltà». Insomma, «chi vuole dare sfogo ai
propri entusiasmi giovanili, può farlo anche a casa propria, aiutando i tantissimi anziani soli
e bisognosi di assistenza, i bambini in difficoltà e le tante famiglie che patiscono la crisi».
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Per Mariastella Gelmini, di Forza Italia, è importante «capire se chi ha rilasciato le due
ragazze è lo stesso soggetto che le aveva sequestrate oppure se, nel frattempo, le due
cooperanti sono state “cedute” da una banda di criminali a un’altra. Noi festeggiamo
esattamente una settimana dopo la strage di Parigi». Ed è «doveroso chiederci se un
eventuale riscatto pagato ai terroristi non sia una fonte di finanziamento per portare la
morte in Europa e altrove. Il governo e il ministro Gentiloni faranno bene a chiarire
rapidamente la vicenda».
Del 16/01/2015, pag. 1
Perché siamo felici per Greta e Vanessa
Libere. Le critiche e le calunnie non mancheranno, ma le due cooperanti
hanno resistito a sei mesi di prigionia e sapranno superare accuse
infamanti di chi specula sui riscatti pagati per gli ostaggi ma non
protesta per le spese molto più ingenti sostenute per comprare
armamenti e per alimentare le guerre che devastano paesi e provocano
esodi di massa di popolazioni
Giuliana Sgrena
Vanessa Marzullo e Greta Ramelli libere! «Presto saranno in Italia», nel pomeriggio la
conferma della Farnesina. Mentre scriviamo dovrebbero già essere in Turchia. Ma la notizia della liberazione era stata già diffusa prima da fonti dell’opposizione siriana, compreso
il Fronte al Nusra (citato da al Jazeera) che le aveva in ostaggio.
Alle prime indiscrezioni, l’esultanza per una notizia tanto attesa e desiderata è frenata
dalla consapevolezza della delicatezza dei momenti che precedono la liberazione. O forse
anche dall’angoscia che ci ha paralizzato di fronte alle azioni terroristiche di Parigi. È come
se quel dolore ci mantenesse in un limbo in cui è difficile provare gioia.
E invece la liberazione di Greta e Vanessa rappresenta quasi un riscatto per chi non vuole
rassegnarsi alla barbarie, all’orrore. Le due giovani erano state rapite il 31 luglio scorso,
durante una missione umanitaria, e solo alla fine di dicembre un video ci aveva rassicurate: erano ancora in vita. Ora sono anche libere, grazie evidentemente all’abilità di chi ha
condotto la trattativa.
Noi siamo felici perché abbiamo trepidato ogni giorno pensando all’orrore di una prigionia
nelle mani di gruppi jihadisti che ti potrebbero uccidere da un momento all’altro.
La generosità e l’altruismo che le aveva portate dentro l’inferno siriano per un’azione umanitaria sono un segno di distinzione dentro un mondo sempre più indifferente alle tragedie
che travolgono paesi tanto vicini al nostro. Persino la loro ingenuità – criticata da molti –
oggi ci appare sotto un’altra luce, perché sappiamo che non è costata loro la vita.
Non mancheranno le critiche di coloro che non vogliono la trattativa per salvare gli ostaggi,
di coloro che ritengono che le donne dovrebbero starsene a casa e non occuparsi di lavori
«da uomini». Sappiamo che le donne sono un obiettivo facile da colpire anche quando
hanno vissuto esperienze drammatiche. Le critiche e le calunnie non mancheranno, ma
Vanessa e Greta che hanno resistito a sei mesi di prigionia sapranno superare accuse
infamanti di chi specula sui riscatti pagati per gli ostaggi ma non protesta per le spese
molto più ingenti sostenute per comprare armamenti e per alimentare le guerre che devastano paesi e provocano esodi di massa di popolazioni. Sono gli stessi che vorrebbero
anche respingere i profughi quando approdano in condizioni terribili sulle nostre coste.
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La «fortuna» delle due cooperanti dell’associazione Horryaty è di non essere finite nelle
mani dello Stato islamico in Iraq e nel Levante (Isil) che ha reagito violentemente alla liberazione di Greta e Vanessa. Non che i jihadisti del Fronte al Nusra siano meno violenti ma
almeno non hanno fatto dei video di ostaggi sgozzati lo strumento della loro campagna di
reclutamento e di finanziamento.
Insieme a Vanessa e Greta vorremmo vedere tornare anche padre Paolo Dall’Oglio.
Dovremo aspettare ancora, ma padre Dall’Oglio è un ostaggio importante e questo ci
dovrebbe rassicurare sulla sua salvezza.
del 16/01/15, pag. 6
Giorno di guerra in Belgio maxi blitz antijihadisti due morti e un ferito grave “Stavano
per fare un attentato”
Inseguimenti e scontri a fuoco in diverse città. Si indaga sui legami con
Coulibaly. Polizia in azione in sette paesi dell’Unione
ANDREA BONANNI
BRUXELLES .
Il Belgio ha vissuto ieri una giornata di guerra sul fronte della Jihad. Ci sono state
sparatorie, perquisizioni e arresti in diverse località del Paese per neutralizzare una cellula
terrorista che stava preparando «attacchi imminenti e di grande portata» contro la polizia
federale. Nelle prime ore si contano due terroristi uccisi e uno ferito durante un
violentissimo conflitto a fuoco a Verviers, vicino a Liegi, che non ha fatto vittime tra i civili e
le forze dell’ordine. Ma il bilancio potrebbe risultare alla fine più grave, visto che le
operazioni sono andate avanti per tutta la notte tra timori di moti e rivolte nei quartieri
islamici della capitale belga. Non si sa se l’operazione ordinata ieri da un giudice federale
di Bruxelles sia direttamente legata al massacro di Parigi, anche se le voci legano la
cellula islamista smantellata in Belgio a Amedy Coulibaly, l’autore del massacro nel
supermercato ebraico, che proprio qui avrebbe acquistato le armi utilizzate durante la
strage. È probabile comunque che l’operazione sia stata coordinata con una più vasta
retata internazionale che ha coinvolto le forze antiterrorismo di sette Paesi europei e dello
Yemen. L’episodio più violento si è registrato a Verviers.
Alle sei meno un quarto del pomeriggio le forze speciali della polizia federale hanno fatto
irruzione in una panetteria islamica, “Le croissant d’or”, vicina alla stazione ferroviaria, alla
ricerca di tre terroristi recentemente rientrati dalla Siria. Secondo quanto hanno riferito i
responsabili della procura, i ricercati hanno fatto fuoco sugli agenti con kalashnikov, pistole
e altre armi da guerra. Nella zona si sono sentite lunghe raffiche e numerose forti
esplosioni. I federali hanno risposto uccidendo due terroristi e ferendo il terzo, che è stato
arrestato. La televisione ha mostrato le immagini di un appartamento devastato dal fuoco.
Ma l’operazione contro la cellula islamica era di dimensioni molto più vaste. Sempre nel
pomeriggio, le forze dell’ordine hanno compiuto perquisizioni ed arresti anche a Vilvoorde,
alle porte di Bruxelles, a Zaventem, dove c’è l’aeroporto della capitale, a Moelenbeek, a
Schaerbeek e ad Anderlecht, tre comuni dell’agglomerato bruxellese con una altissima
densità di immigrati islamici. Testimoni riferiscono di spari ed esplosioni sia a Vilvoorde sia
a Zaventem, dove gli agenti avrebbero arrestato un numero imprecisato di persone. Nel
corso di una delle incursioni a Moelenbeek - ha scritto il quotidiano La dernière heure i
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ricercati sarebbero riusciti a fuggire facendo fuoco sulla polizia. A Schaerbeek, invece, le
forze speciali hanno dato l’assalto ad un appartamento dove sono state trovate armi ed
esplosivi, ma i cui occupanti sono riusciti ad allontanarsi.
Le autorità belghe si sono limitate a fornire informazioni sul raid di Verviers. Così come
non sono state confermate le voci diffusesi in serata di moti e incidenti nei quartieri
periferici di Bruxelles. Il sindaco di Moelenbeek (uno dei comuni che compongono
l’agglomerato di Bruxelles) ha comunque annunciato in televisione di aver sospeso i
pattugliamenti a piedi della polizia locale e di aver rafforzato la composizione delle
autopattuglie. In tutto il Belgio le misure di sicurezza attorno ai commissariati e alle centrali
di polizia, obiettivo dell’attacco che i terroristi avevano in preparazione, sono state
rafforzate.
Secondo alcune informazioni, la maxi-retata di Bruxelles sarebbe collegata ad analoghe
operazioni antiterrorsimo condotte in sette Paesi europei e nello Yemen. Ma le dimensioni
che ha assunto l’incursione delle forze dell’ordine in Belgio conferma che il Paese è uno
dei più esposti alle infiltrazioni terroriste e al fenomeo dei jihadisti di ritorno. Ieri a Charleroi
un uomo è stato arrestato con l’accusa di traffico d’armi: avrebbe aiutato Amedy Coulibaly
a vendere l’auto della sua convivente ed è sospettato di aver fornito armi al terrorista.
Secondo i dati forniti dall’intelligence belga, almeno 180 residenti nel Paese sarebbero
partiti negli ultimi anni per combattere nelle file dello Stato islamico tra Siria ed Iraq. Una
cinquantina sarebbero stati uccisi, mentre un centinaio di loro avrebbero fatto ritorno in
Belgio. Di questi, numerosi sono stati arrestati, altri sarebbero sotto osservazione ma un
certo numero sarebbe riuscito ad entrare in clandestinità. Oggi il primo ministro belga
dovrebbe presentare il nuovo piano antiterrorismo messo a punto dal governo federale.
Del 16/01/2015, pag. 1-6
Il crocevia del terrore
di Guido Olimpio
Terroristi che si sono passati di mano i kalashnikov, reti di reclutamento, connessioni
sospette e centinaia di potenziali attentatori. Da Osama Bin Laden al Califfo, il Belgio già
negli anni Novanta è stato uno snodo di jihadisti.
La storia del terrorismo in Belgio parte da Bin Laden e arriva al Califfo. Terroristi che si
sono passati di mano Kalashnikov, reti di reclutamento e centinaia di uomini.
Un passo indietro. Alla vigilia dell’11 settembre 2001 due attentatori suicidi uccidono il
comandante Massud, il capo dell’Alleanza del Nord in Afghanistan, l’ultimo ostacolo contro
i talebani. Hanno aggirato i controlli fingendosi giornalisti e usando documenti rubati a
Bruxelles e l’Aia. Gli assassini sono dei tunisini con legami belgi. Il loro referente, Tarek
M., ha sponde in Italia, dove può contare su numerosi affiliati. E non perché sia un colpo
malevolo del destino.
Il Belgio, già negli anni 90, è un incrocio interessante per i jihadisti. Strade che portano al
Nord Africa (Tunisia, Algeria, Marocco), all’Asia (Afghanistan e Pakistan) ma anche agli
altri Paesi dell’Europa. Esponenti che agiscono nella capitale hanno rapporti con aspiranti
mujaheddin che vivono in Francia o in Italia.
Mandano disposizioni e videocassette con scene belliche. Le nostre forze di polizia
rimontano la filiera, fissano nomi, connessioni riempiendo faldoni. Una realtà che cresce
nella comunità musulmana. In maggioranza pacifica ma che nasconde spine velenose e
soffre per i problemi di inserimento sociale. Quel terreno propizio per il radicalismo armato
non si inaridisce con la morte di Bin Laden. Riposa, sotto un primo strato di «terra» e
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ritrova linfa con l’esplosione delle primavere arabe. I duri sembravano dormire, resi apatici
dall’eliminazione del fondatore di Al Qaeda, si risvegliano. Impastano le loro situazioni
personali complicate alla tragedia che si consuma ogni giorno nel Vicino Oriente.
La Siria diventa il magnete irresistibile, meta finale — in tutti i sensi — per dozzine di
giovani avviati da un network che ripercorre le mosse di quella afghana. I ricercatori, come
Pieter Van Ostaeyen, indicano in oltre 400 i militanti belgi che raggiungono formazioni
estremiste in Siria e in Iraq. Partono nell’ordine da Bruxelles, Anversa, Vilvorde con età
media sui 25 anni. Li coordinano una rete ben nota, Sharia4Belgium, ed altre meno
famose però efficaci. Si affermano piccoli ispiratori-facilitatori. Che indottrinano, pescano
ed avviano la carne da cannone per gruppi pronti al martirio.
Fuad Belkacem, un passato nella criminalità comune, evita le moschee nel timore che
siano monitorate dagli 007, raduna giovani d’origine marocchina e li aiuta a fare il balzo
verso i campi di battaglia. Nel 2012 una pattuglia discreta segue Hakim Elouassaki, fratello
di Hussein, figura carismatica e influente. Entrano nelle file della fazione Majilis Shura
Mjaheddin, creata ad Aleppo da Firas e Amr al Absi. Sono dei traghettatori che l’anno
dopo passeranno con l’Isis di Al Baghdadi. Altri combattenti si sono associati subito al
Califfo, altri ancora scelgono i qaedisti di Al Nusra o altre brigate.
Chi è lanciato sui percorsi della jihad manda messaggi a casa, diventa modello, svolge
molta propaganda sul web. Alcuni belgi compaiono anche nelle terribili storie degli ostaggi.
Si racconta che tra i primi carcerieri di James Foley, uno dei tanti decapitati, ci siano dei
terroristi venuti dal Nord Europa. Quando l’Isis diffonde il video con l’uccisione di Peter
Kassig e di altri prigionieri le autorità riconoscono un aguzzino: è stato seguace di
Elouassaki. Un belga-marocchino, responsabile del controspionaggio Isis, è invece
giustiziato perché sospettato di passare informazione al nemico.
L’antiterrorismo segue il flusso, è allarmato, scheda. Nessuno ormai dice più «se» ma
«quando» i veterani della guerra siriana torneranno per colpire in patria. All’inizio
dell’estate scorsa il primo fendente. Mehdi Nemmouche, francese, attacca il museo
ebraico di Bruxelles, tre le vittime, uccise con un Kalashnikov. Il killer filma l’omicidio con
una telecamerina GoPro e poi scappa a bordo di un bus. Lo arresteranno a Marsiglia
durante un normale controllo: emerge il suo rapporto con l’Isis come un soggiorno in Siria.
Questo attentato apre una breccia, dimostra che le minacce non sono vaghe. I francesi
scoprono anche dei complici di Nemmouche, confermando che l’idea del lupo solitario è
sempre più superata da gang di elementi.
La polizia innalza le misure di sicurezza, conduce attività di interdizione. A settembre i
primi allarmi seri. Fonti investigative rivelano: abbiamo sventato diversi piani eversivi, ma
non lo abbiamo detto per non creare panico. Tra questi un progetto di attentato contro gli
uffici comunitari animato da una coppia. La magistratura apre molti dossier investigativi, 46
persone finiscono in procedimenti giudiziari. Lavoro di contenimento per tagliare l’erba
cattiva. L’intelligence cerca di costruire una mappa di quanti, dopo l’esperienza bellica,
hanno compiuto il percorso a ritroso. Un bel numero. C’è preoccupazione per le armi. Nel
Paese il sottobosco vicino alla criminalità può fornire di tutto. Basta pagare, come ha fatto
uno dei killer di Parigi, Amedy Coulibaly, venuto a rifornirsi da un trafficante locale.
I terroristi superano le frontiere, sono dei nomadi-guerrieri molto veloci. All’epoca di
Osama dovevano falsificare i passaporti, inventarsi trucchi per i documenti e questo li
esponeva alle indagini. Oggi hanno i loro, autentici. Sopra c’è scritto Unione Europea.
Del 16/01/2015, pag. 3
LA GUERRA · Culla della galassia jihadista
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La Turchia santuario della crisi siriana
La liberazione delle due cooperanti italiane Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, riaccende
finalmente i riflettori sul conflitto sanguinoso in corso. Che i fatti di Parigi, singolarmente,
hanno invece nascosto. Perché, sull’onda dello sdegno internazionale per gli attentati e
della vicenda di Hayat Boumedienne, vedova di Amedy Coulibaly, responsabile
dell’attacco al supermercato kosher, si è parlato solo a proposito della sua fuga in Siria, o
meglio verso quelle ampie porzioni di territorio siriano sotto il controllo dello Stato Islamico
o delle tante altre organizzazioni della galassia jihadista impegnata a rovesciare il governo
dell’«apostata » Bashar Assad. Si è tralasciato il particolare, non insignificante, che
Boumedienne prima di entrare in Siria l’8 gennaio, era rimasta sei giorni in Turchia. A fare
cosa? Chi ha incontrato? Da chi è stata protetta ed accolta? Interrogativi che restano
senza una risposta. La fuga della donna ha confermato ciò che è evidente da tempo: la
Turchia del presidente Erdogan non ha mai svolto un’azione concreta per fermare il flusso
di stranieri, con passaporti arabi ed occidentali, che vanno in Siria e in Iraq a combattere la
«guerra santa» sunnita contro sciiti, alawiti e le altre minoranze religiose. Per Damasco il
passaggio di Boumedienne per Istanbul costituisce la «confessione» che la Turchia è il
transito principale per i jihadisti che si uniscono allo Stato Islamico e ad al Qaeda. La Siria
si è anche appellata alla comunità internazionale perché adotti misure contro la Turchia e
per fermare il flusso di combattenti islamici. Manon sarà presa alcuna decisione in tal
senso. Perché i governi europei e gli Stati Uniti se da un lato lanciano attacchi aerei contro
le postazioni del Califfato proclamato dall’Isis – peraltro con risultati modesti - dall’altro
continuano ancora a ritenere il regime siriano il problema principale da risolvere, cioè da
abbattere, anche se questo sfocierà nell’estensione del Califfato al resto della Siria, con la
benedizione dell’Arabia saudita sponsor del wahabismo e del salafismo in tutta la regione.
D’altronde anche Israele continua a premere per ridimensionare e colpire Damasco. Tel
Aviv ripete che la Siria di Assad oggi è ancora più «pericolosa » di prima perché per
sopravvivere ha bisogno dell’appoggio, soprattutto economico, dell’Iran, il suo principale
avversario nella regione. E nelle scorse settimane l’Onu ha riferito di contatti sempre più
stretti tra Israele e le formazioni anti-Assad che operano a ridosso delle Alture del Golan,
un territorio che peraltro, più a sud, è sempre più infiltrato da unità del Fronte al Nusra, la
costola siriana di al Qaeda. Damasco, che controlla di fatto solo l’area centrale e porzioni
di territorio nel sud e del nord del Paese, viene ora accusata anche di volersi dotare di
armi atomiche «con l’aiuto dei pasdaran iraniani e del loro braccio in Libano, le milizie
sciite Hezbollah », scriveva qualche giorno fa una agenzia di stampa italiana citando un
articolo del settimanale tedesco Der Spiegel nato da «rivelazioni di fonti di intelligence».
Nel 2013 Assad era stato accusato di aver fatto stragi di civili e ribelli con le sue armi
chimiche e gli Stati Uniti erano stati sul punto di attaccarlo come desideravano gli
oppositori e le petromonarchie del Golfo. Ora il presidente siriano sarebbe in possesso di
«50 tonnellate di uranio naturale» che, se arricchito, potrebbe essere sufficiente per
costruire da tre a cinque bombe atomiche. La cosa singolare è che Damasco il suo
impianto atomico segreto lo starebbe costruendo nei pressi della cittadina di Qusayr,
vicino alla frontiera libanese, rimasta per un anno nelle mani di al Nusra e riconquistata nel
maggio 2013 dall’esercito governativo. È un’area molto instabile, adiacente a quella del
Qalamoun, dove operano in modo incessante miliziani dell’Isis e di al Qaeda. E proprio qui
Assad avrebbe deciso di farsi la suabomba atomica, circondandosi, secondo Der Spiegel,
di cattivi e reietti: Hezbollah, pasdaran iraniani ed esperti nordcoreani. Nessuno perciò può
credere alle possibilità dei prossimi colloqui a Mosca o alla sincerità di quelli di un paio di
giorni fa a Ginevra tra il Segretario di Stato Usa John Kerry e l’inviato speciale Onu Staffan
de Mistura. La guerra civile era e resta la via preferita dall’Occidente e dalla stessa
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opposizione siriana «moderata» che continua a condizionare il negoziato sul futuro del
Paese all’uscita di scena immediata di Assad. Una parte dell’opposizione, secondo il
quotidiano panarabo al Hayat, avrebbe messo a punto una «tabella di marcia per salvare
la Siria» che presentarà ai colloqui di Mosca a fine mese. In essa si indica la formazione di
istituzioni di transizione, tra cui «un governo di transizione » e la creazione di un «consiglio
militare».
del 16/01/15, pag. 1/31
Ma il diritto alla libertà non conosce limiti
STEFANO RODOTÀ
IN TUTTO il mondo, in questi giorni, milioni di persone hanno proclamato “Je suis Charlie”.
E questo non può essere l’esercizio retorico o strumentale di un momento. La
rivendicazione della libertà d’espressione contro ogni forma di violenza è sacrosanta, ma
terribilmente impegnativa. Fino a che punto siamo disposti a riconoscerla anche a chi
manifesterà opinioni estreme o fondamentaliste? Ieri il Papa ha indicato quello che gli
sembra essere un limite insuperabile: le parole aggressive contro la religione altrui, contro
qualsiasi fede religiosa.
POSIZIONE ben comprensibile da parte del capo supremo della Chiesa cattolica. Ma essa
non appartiene a quella laicità delle istituzioni che ha fondato, insieme alle altre libertà,
anche quella di esprimere liberamente il proprio pensiero. Proprio qui la stessa libertà
religiosa ha trovato il suo fondamento. Non è vero, quindi, che la laicità abbia guardato alla
religione e alle espressioni religiose come “sottoculture tollerate”, considerate invece come
parte di un contesto culturale nel quale tutte le opinioni, anche quelle sgradite, meritano
rispetto. Un punto fermo, che non può essere travolto dalla concitazione che accompagna
il nostro tempo difficile.
Riprendendo un discorso di Benedetto XVI, Papa Bergoglio è tornato sulle presunte colpe
dell’Illuminismo. È bene ricordare, allora, che proprio lì ha le sue radici la frase attribuita a
Voltaire (ma in realtà costruita da Evelyn Hall) infinite volte citata in questi giorni: «Non
sono d’accordo con quel che dici, ma mi batterò fino alla morte perché tu abbia il diritto di
farlo». Una indicazione forte, che ci ha accompagnato tutte le volte che si era di fronte a
regimi totalitari e autoritari e che non possiamo perdere di vista, perché libertà e diritti
esigono una continua e intransigente difesa.
La letteratura da sempre ci racconta il futuro, e talvolta ci ammonisce sui suoi pericoli. Il
secolo passato è stato segnato da due grandi distopie, da due utopie negative sui rischi
dell’uso della biologia e della società della sorveglianza, consegnata a due libri — Il
mondo nuovo di Aldous Huxley e 1-984 di George Orwell. Oggi altri due libri sono davanti
a noi. Il cerchio di Dave Eggers ci parla di una società della trasparenza totale, resa
possibile dalla costruzione di una grande impresa planetaria che si impadronisce della vita
di tutti, nella quale si può riconoscere la proiezione nel futuro di una combinazione di
Google, Facebook, Twitter. Ma le drammatiche vicende francesi hanno conferito una
inquietante attualità a Sottomissione di Michel Houellebecq, che colloca in un futuro non
lontano, nel 2020, la trasformazione della Francia in uno Stato islamico.
Vi sono nelle nostre culture utopie positive alle quali fare appello perché il futuro comune
sia sottratto a questo orizzonte pessimistico? Qui deve innestarsi la riflessione storica, che
ci fa scoprire radici profonde e le connette con il presente. È stato commovente cogliere
nelle parole prive di retorica del fratello del poliziotto musulmano assassinato il richiamo a
libertà, eguaglianza, fraternità. Oggi la libertà è minacciata, le diseguaglianze ci
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sommergono, ma in questo momento la parola più difficile da pronunciare è “fraternità” o,
come più spesso si dice, “solidarietà”. Ma solidali con chi, verso chi? Soltanto verso chi ci
è vicino, costruendo così una solidarietà “escludente” ogni altro, che ci spinge verso
identità oppositive, destinate ad alimentare conflitti sempre più acuti? Riflettendo sulla
condizione europea, Jurgen Habermas aveva affermato che solo la solidarietà può
liberarci dall’odio tra paesi creditori e paesi debitori. Mentre diverse forme di odio montano
in maniera che a qualcuno pare irresistibile, la pratica difficile e impegnativa della
solidarietà non è forse una via che sarebbe cieco abbandonare?
Questi casi, insieme ad altri altrettanto eloquenti che potrebbero essere richiamati,
mostrano come le stesse concrete difficoltà presenti possano essere affrontate solo con
una adeguata riflessione culturale. Voltaire e la triade rivoluzionaria — libertà,
eguaglianza, fraternità — evocano direttamente l’Illuminismo, la sua lunga storia, i
riconoscimenti e le trasformazioni di libertà e diritti che da lì hanno avuto origine. E proprio
su questa eredità non da oggi ci stiamo interrogando, con un riflesso che cogliamo proprio
in due tra i libri ricordati all’inizio. Houellebecq vede nell’abbandono delle premesse
illuministiche, o nella impossibilità di restare ad esse fedeli, l’origine della sottomissione
all’islamismo, della nuova servitù volontaria che ci attende nel futuro prossimo. All’opposto
Eggers, in un libro di grana assai meno fine, vede nella società della trasparenza totale
proprio un compimento dell’Illuminismo. E così, discussioni più analitiche a parte, entrambi
indicano in quella radice culturale un nodo non ancora sciolto, e che davvero sembra che
possa essere affrontato solo con un colpo di spada.
Il modo in cui Alessandro Magno recise l’inestricabile nodo di Gordio, come vuole la
leggenda, ben può apparire oggi come metafora di un tempo in cui si contempla quasi
esclusivamente il bene della decisione. Decisione subitanea, immediata, magari non
meditata, ma rapida e definitiva. E invece proprio i fatti di ieri e di oggi ci dicono che non
può essere questo il modo per uscire da una situazione divenuta sempre più aggrovigliata
e difficile, anche per l’assenza di adeguate politiche in Europa e negli Stati Uniti, e che non
può essere affrontata richiamando in servizio logore parole d’ordine, con il solito
crescendo va dallo sbaraccamento della tutela della privacy fino alla pena di morte. Ha
fatto bene il nostro ministro degli Esteri a dire di no alla proposta di rivedere il trattato di
Schengen, negando il diritto di libera circolazione proprio nel momento in cui l’Europa ha
massimo bisogno di tenere uniti tutti i suoi cittadini. E questa è la risposta giusta anche per
evitare che, con l’argomento della lotta al terrorismo, si introducano non accettabili misure
repressive. In modo assai sbrigativo si è detto che il 10 dicembre parigino rappresenta l’11
settembre dell’Europa. Ma, se così fosse, qualche lezione dovrebbe allora essere appresa
dalle politiche americane successive a quella data, con i molti errori politici ormai
comunemente riconosciuti: incauti interventi militari, difficoltà di liberarsi di eredità pesanti
(i prigionieri di Guantanamo), trasformazione di iniziative antiterrorismo in strumenti di puro
controllo politico (il cosiddetto Datagate).
Al tempo stesso, si sono fatte più nette le alternative concrete. Leggi speciali o radicali
misure organizzative anche a livello europeo? Raccolte mirate e legittime di informazioni o
pesca con lo strascico di masse di dati che si rivelano poi illeggibili? Ingannevoli
rassicurazioni dell’opinione pubblica con restrizioni di diritti, alla prova dei fatti inutili e
pericolose, o forme di collaborazione (oggi si parla di coordinamento tra i servizi di
sicurezza dei diversi paesi)?
Siamo di fronte ad una situazione che non può essere affrontata come se si trattasse solo
di una questione di ordine pubblico. E, come hanno opportunamente sottolineato Gustavo
Zagrebelsky e Massimo Cacciari, non cediamo alla tentazione di parlare irresponsabilche
mente di guerra. La democrazia sfidata deve piuttosto recuperare quel pieno
riconoscimento e quella legittimazione da parte dei cittadini che sono sempre stati la sua
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forza nelle situazioni estreme. So bene quanto sia difficile, soprattutto quando la violenza
si manifesta nell’estrema sua forma di assassini e massacri, ricordare l’ammonimento che
T. B. Smith rivolgeva ai suoi concittadini americani dicendo che «i mali della democrazia si
curano con più democrazia». Ma è comunque ineludibile la domanda che in queste
situazioni dobbiamo sempre rivolgerci: può, per difendersi, la democrazia perdere se
stessa?
Dovremmo sapere che la risposta è obbligata, ed è negativa. L’altra risposta, esplicita o
implicita che sia, viene dalle menti deboli ed è terribilmente pericolosa soprattutto perché
distoglie dalla ricerca dei mezzi legittimi e dalla riflessione politica e culturale che deve
accompagnare ogni cambiamento d’epoca. Oggi serve un inventario intelligente e difficile
di una storia che, con il trascorrere del tempo, si è fatta sempre meno europea, che si è
liberata dello stigma di un colonialismo al seguito dell’affermazione dei diritti, e sta
approdando ad un costituzionalismo globale che mette al centro il rispetto integrale della
persona, della sua vita e della sua dignità, dunque radicalmente ostile ad ogni forma di
fondamentalismo. Questa è la mobilitazione culturale di cui abbiamo bisogno, né
regressiva né difensiva, per delineare i tratti di una politica democratica alla quale possa
appartenere il futuro.
del 16/01/15, pag. 8
Il Papa: “Non si deride la fede altrui”
Ma la Francia risponde: “Niente tabù”
Alle parole del pontefice sul volo verso Manila replica il ministro alla
Giustizia Christiane Taubira: “Siamo il paese dell’irriverenza Giusto
anche disegnare il Profeta”
ANAIS GINORI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PARIGI .
«La religione non può mai uccidere» dice Papa Francesco che però poi aggiunge: «Non si
può provocare, non si può prendere in giro la religione di un altro. Non va bene». Durante
il viaggio verso le Filippine, il Pontefice ha risposto ieri alle domande dei giornalisti. Dopo
aver premesso che «non si uccide in nome di Dio» e che «i kamikaze danno la propria vita
ma non la danno bene», il pontefice argentino ha ribadito: «Ognuno ha il diritto di praticare
la propria religione, senza offendere, liberamente».
Alle parole di Jorge Mario Bergoglio ha risposto quasi in diretta il ministro francese della
Giustizia, Christiane Taubira. «La Francia è il paese di Voltaire e dell’irriverenza, abbiamo
il diritto di ironizzare su tutte le religioni», ha rivendicato il Guardasigilli mentre partecipava
alla cerimonia di addio a Tignous, uno dei vignettisti di Charlie Hebdo uccisi il 7 gennaio.
«Possiamo disegnare tutto, incluso il Profeta », ha detto ancora Taubira che ha fatto
approvare l’anno scorso la legge per il matrimonio gay al centro di un duro scontro con il
Vaticano. Fra l’omaggio commosso a Tignous da parte della superstite Coco e un Bella
ciao da brividi cantato dall’umorista Christophe Aleveque, la Taubira ha ricordato i principi
del paese dei Lumi: «Non ci sono tabù», ha sottolineato, i disegnatori uccisi «vegliavano
sulla democrazia, per evitare che sonnecchiasse».
La Francia — dove la laicità è sancita da una legge approvata nel lontano 1905 — si trova
in prima linea nella difesa di una libertà di espressione che prevede anche di irridere le
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religioni. Il reato di blasfemia non esiste nel paese e i tribunali possono condannare
eventuali attacchi religiosi sono in nome della “libertà di coscienza”.
Ma al di là dello scambio a distanza con il Pontefice, è con alcuni paesi arabi che la
polemica è più dura nelle ultime ore. «Condanniamo gli attacchi terroristici ma anche le
offese contro la religione musulmana, i suoi simboli e il suo profeta», ha detto il ministro
per la Comunicazione del Marocco, Mustapha Khalil. Il Marocco ha vietato la
pubblicazione delle vignette su Maometto, così come altri paesi del Maghreb e la Turchia.
Ieri François Hollande è andato a tendere la mano ai musulmani in un incontro all’Istituto
del mondo arabo, diretto ora dall’ex ministro della Cultura, Jack Lang. «Le prime vittime
del fanatismo, del fondamentalismo e dell’intolleranza sono i musulmani », ha spiegato il
presidente francese, che si è rivolto al mondo arabo perché reagisca con fermezza a
qualsiasi atto che colpisca l’Islam così come le altre religioni. «L’islamismo radicale — ha
continuato — si nutre di tutte le contraddizioni, di tutte le influenze, le miserie, le
diseguaglianze, di tutti i conflitti non risolti da ormai troppo tempo». Per il capo dell’Eliseo,
«l’Islam è compatibile con la democrazia».
del 16/01/15, pag. 8
LE STRAGI DI PARIGI
Francesco: “Si aspetti un pugno chi offende
mia madre La libertà di parola ha dei limiti”
“Uccidere in nome di Dio aberrante e anche noi abbiamo peccato Le
minacce al Vaticano? Chiedo al Signore di evitarmi il dolore”
MARCO ANSALDO
DAL NOSTRO INVIATO
A BORDO DEL VOLO PAPALE SRI LANKA - FILIPPINE
SANTITÀ , durante la sua visita nello Sri Lanka lei ha detto che la libertà di religione
è un diritto fondamentale. Ma lo è anche la libertà di espressione. Fino a che punto,
però, questa può spingersi?
«Credo che tutti e due siano diritti umani fondamentali, la libertà religiosa e la libertà di
espressione. Parliamo chiaro, però, andiamo a Parigi (il Papa intende: al caso di Charlie
Hebdo, ndr). Non si può nascondere una verità: ognuno ha il diritto di praticare la propria
religione senza offendere. Secondo: non si può offendere o fare la guerra, uccidere in
nome della propria religione, in nome di Dio. A noi ciò che succede adesso ci stupisce, ma
pensiamo alla nostra storia: quante guerre di religione abbiamo avuto! Pensiamo alcredere
notte di San Bartolomeo (il riferimento è alla strage degli ugonotti, uccisi dai cattolici nel
1572, ndr ). Anche noi siamo stati peccatori su questo, ma non si può uccidere in nome di
Dio, questa è una aberrazione».
E sulla libertà di espressione?
«Ognuno ha non solo la libertà e il diritto, ma anche l’obbligo di dire ciò che pensa per
aiutare il bene comune. Avere dunque questa libertà, ma senza offendere. Perché è vero
che non si può reagire violentemente. Ma se il dottor Gasbarri (Alberto Gasbarri è
l’organizzatore dei viaggi papali, nelle visite apostoliche compare sempre a fianco del
Papa, ndr ) che è un amico, dice una parolaccia contro mia mamma, si aspetta un pugno
(il Papa fa il gesto di dare un pugno, ndr).
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Non si può provocare, non si può insultare la fede degli altri. Papa Benedetto in un
discorso (quello di Ratisbona, nel 2006, ndr) aveva parlato di questa mentalità postpositivista che portava a che le religioni sono sottoculture, tollerate, non fanno parte della
cultura illuminista. Tanta gente che sparla, prende in giro, si prende gioco della religione
degli altri. Questi provocano e può accadere quello che accadrebbe al dottor Gasbarri se
dicesse qualcosa contro mia mamma. C’è un limite, ogni religione ha dignità. Ogni
religione che rispetti la vita umana, la persona umana, io non posso prenderla in giro. Ho
preso questo esempio del limite per dire che nella libertà di espressione ci sono dei limiti,
come (nell’esempio) della mia mamma».
Dopo le minacce dell’Is e il lola ro video in cui mettono la loro bandiera sul
Vaticano, c’è molta preoccupazione per la sua incolumità. Lei non pensa che sia
necessario cambiare qualcosa nei suoi programmi?
«Il miglior modo per rispondere è la mitezza: essere mite, umile, come il pane, senza fare
aggressioni. Io sono preoccupato per i fedeli, davvero, e su questo ho parlato con la
sicurezza vaticana. Qui sul volo c’è il dottor Giani (il generale Domenico Giani è il
comandante della Gendarmeria vaticana, ndr), incaricato di questo. Lui mi aggiorna. Ma io
ho un difetto: una bella dose di incoscienza. Alcune volte mi sono chiesto: ma se
accadesse a me? Ho soltanto chiesto al Signore la grazia che non mi faccia male, perché
non sono coraggioso davanti al dolore, sono molto timoroso».
Nello Sri Lanka che lei ha appena visitato abbiamo visto che durante la guerra ci
sono stati più di 300 attentati kamikaze. Ora vediamo che, di recente, in molti altri
Paesi si fanno attentati usando bambini kamikaze. Lei che cosa ne pensa?
«A me viene da dire che dietro ogni attentato suicida c’è un elemento di squilibrio umano,
non so se mentale, ma umano. Qualcosa che non va nella persona, quella persona ha uno
squilibrio nella sua vita. Io ho seguito la tesi di licenza di un pilota dell’Alitalia sui kamikaze
giapponesi, correggevo la parte metodologica. Ma il fenomeno non è soltanto dell’Oriente,
è collegato ai sistemi totalitari, dittatoriali, che uccidono la vita o la possibilità di futuro. Per
quanto riguarda l’uso dei bambini per gli attentati, loro sono usati dappertutto per tante
cose: sfruttati nel lavoro, come schiavi, sfruttati sessualmente. Alcuni anni fa con alcuni
membri del Senato in Argentina abbiamo voluto fare una campagna negli alberghi più
impor- tanti per dire che lì non si sfruttano i bambini per i turisti, ma non ci siamo riusciti...
A volte quando ero in Germania, mi sono caduti sotto gli occhi articoli che parlavano delle
zone del turismo erotico nel Sud-est asiatico e anche lì si trattava di bambini. I bambini
sono sfruttati anche per questo, per gli attentati kamikaze».
Contro l’estremismo non pensa che un passo concreto sarebbe coinvolgere le altre
religioni, magari con un incontro in stile Assisi, come fece Giovanni Paolo II?
«C’è stata la proposta di fare un nuovo incontro ad Assisi contro la violenza, so che alcuni
ci stanno lavorando. Ho parlato con il cardinale Tauran e so che questo problema suscita
inquietudine anche nelle altre religioni ».
Per lei, Santità, i cambiamenti climatici sono dovuti alla natura o all’intervento
dell’uomo?
«In gran parte è l’uomo che dà schiaffi alla natura ad avere una responsabilità nei cambi
climatici. Ci siamo un po’ impadroniti della natura, della Madre terra. Se l’uomo continua a
schiaffeggiare l’ambiente arriviamo a Hiroshima. Un vecchio contadino mi ha detto: “Dio
perdona sempre. Gli uomini qualche volta. Ma la natura mai”. L’abbiamo sfruttata troppo».
E la sua Enciclica già annunciata sul tema dell’ambiente quando uscirà?
«Sulla natura l’uomo è andato troppo oltre. Grazie a Dio oggi ci sono tanti che parlano di
questo, e io vorrei ricordare il mio amato fratello Bartolomeo (il Patriarca ecumenico di
Costantinopoli, ndr ) che ha scritto tanto su questo tema e io l’ho letto molto per preparare
l’Enciclica. Il teologo Romano Guardini parlava di una seconda “incultura”, che accade
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quando tu ti impadronisci del creato, e così la cultura diventa incultura. La prima bozza
della nuova Enciclica l’ha preparata il cardinale Turkson con la sua équipe. Poi ci ho
lavorato io e ora ho preparato la terza bozza. Questa l’ho inviata alla Congregazione per la
dottrina della fede, alla Segreteria di Stato e al teologo della Casa pontificia, perché
studiassero che io non dicessi stupidaggini. Adesso mi prenderò tutta una settimana di
marzo per finirla. Poi andrà in traduzione. Penso che se il lavoro va bene, a giugno-luglio
potrà uscire. Sono rimasto deluso dalla conferenza di Lima: si è avuto poco coraggio. Ora
speriamo in Parigi 2015».
del 16/01/15, pag. 4
di Salvatore Cannavò
DIEUDONNÉ RILANCIA E PARLA ALLA
FRANCIA CHE NON È CHARLIE
ANCORA UNA VIGNETTA DEL COMICO ANTISEMITA DESTINATA A
FAR DISCUTERE. NELLE BANLIEUE E NELLE SCUOLE SI DIFFONDE IL
RIFIUTO VERSO IL MOTTO-SIMBOLO DI QUESTE GIORNATE
Al banchetto della libertà d’espressione, rappresentato da un mega tacchino di cui
François Hollande assaggia una coscia, Dieudonné non è invitato. Resta appeso a un
ramo, legato come un salame, in “stato di fermo”. È la vignetta che il “comico” francese,
oltre che provocatore riconosciuto come antisemita, ha postato ieri sul proprio profilo
Facebook. Il messaggio è semplice e complicato allo stesso tempo. Vedete? Sono loro a
contraddire i propri stessi principi, io sono solo una vittima.
A GIUDICARE dai circa 400 commenti apparsi sotto la pubblicazione del disegno, questa
versione è apprezzata dai seguaci. “Dio, cosa ti hanno fatto!”, si legge. Oppure, “je suis
Dieudo”. Ci sono accuse al governo di essere “schizofrenico” oppure la pubblicazione
dell’articolo 19 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo: “Ogni individuo ha diritto alla libertà
di opinione e di espressione”. Dieudonné è riuscito ancora una volta a inserirsi nel dibattito
politico francese probabilmente più a uso del proprio nome e dei propri spettacoli che della
crescita culturale della Francia. Non è un caso se, sempre su Facebook, l’ultima notizia
pubblicata concerne gli spettacoli di Metz e Strasburgo che, assicura il comico, “non sono
stati annullati”. Dieudonné, del resto, è un uomo di spettacolo, utilizza con perizia le
tecniche di comunicazione di massa. La sua “provocazione” – “Je suis Charlie Coulibaly” –
con la conseguente messa in stato di fermo (sospesa per permettergli di salire sul
palcoscenico), ha costretto la grande stampa, la politica, gli intellettuali, a interrogarsi sulle
possibili analogie tra l’unanime riconoscimento attorno alla redazione di Charlie Hebdo
colpita dal terrorismo e il diritto di chiunque a pronunciarsi su fatti rilevanti come la
religione e le appartenenze culturali. Il politologo Jean Yves Camus, ad esempio, su
Mediapart. fr, nota che in Francia è possibile offendere i musulmani ma non gli ebrei. E
ricorda che, in fondo, questo dibattito è cominciato con Charlie che offendeva il profeta
Maometto o con lo scrittore Michel Houellebecq che nel 2006 definiva l’Islam “la più
stupida delle religioni” (salvo poi ripensarci). Lo stesso Camus, però, nota le differenze: se
il messaggio di Charlie può dirsi “antireligioso” quello di Dieudonné è più chiaramente
“razzista”. Gli uni se la prendono con “i credenti” mentre il comico se la prende “con tutti gli
ebrei”.
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IL DIBATTITO sul riconoscimento o meno attorno alla parola d’ordine Je suis Charlie è
diventato centrale come conferma la prima pagina di Le Monde di oggi dedicata a “Questa
Francia che non è Charlie”. Il quotidiano francese dà voce ai tanti, spesso abitanti delle
banlieue o semplici studenti, che “non si riconoscono” nel movimento nato con la marcia
dell’ 11 gennaio. “Nelle scuole, scrive Le Monde, gli insegnanti sono spesso sprovvisti di
fronte alle reazioni ostili degli studenti che rifiutano l’unanimismo”. Particolarmente utile,
per capire l’altra faccia della situazione, leggere i commenti degli abitanti delle banlieue
che non hanno partecipato alla manifestazione di domenica scorsa e che descrivono i
fratelli Kouachi, autori della strage, come simili “a molti dei nostri ragazzi, cresciuti intorno
a noi”. Per descrivere la contraddizione tra dolore e identità, basta ascoltare frasi come
quelle ascoltate in qualche zona periferica di Parigi: “Quelli di Charlie sono nostri fratelli,
ma chi li ha uccisi sono i nostri figli”. La Francia “che non è Charlie” è questa ma anche
quella, di cui si legge su Libération, che si riconosce nel mondo cattolico. La prestigiosa
rivista gesuita Etudes, ha pubblicato alcune delle copertine di Charlie Hebdo, prendendo le
distanze dalla sua linea politica. Ma questo non gli ha impedito di essere bersagliata dalle
critiche, dalle accuse e da insulti a volte violenti. “Come vi siete permessi di dileggiare
l’immagine del nostro Santo Padre?” hanno scritto i lettori. Che, come Francesco,
ammettono di non sentirsi affatto dei “Charlie”.
Del 16/01/2015, pag. 1-8
Islam-terrorismo, l’ingiusta equazione
Dopo Charlie Hebdo. Non sarà l’unanime grido di guerra che sale dalle
redazioni dei quotidiani, dai talk show e dai commenti televisivi una
manifestazione di impotenza?
Alessandro Dal Lago
<<Siamo in guerra!». Nello slogan che ormai mette d’accordo editorialisti di destra e di sinistra, l’aspetto veramente stravagante non è tanto la riesumazione dello scontro di civiltà di
Huntington e delle grossolanità di Oriana Fallaci sull’Islam. È l’assoluta mancanza di consequenzialità strategica. Viene voglia di rispondere: e allora che volete fare? Espellere tutti
i musulmani? Chiudere le moschee? Esigere un giuramento di fedeltà allo stato, alla laicità
o al diritto di satira? Aumentare i consiglieri militari in Iraq? Bombardare Derna? Invadere
lo Yemen? Ovviamente, nulla di tutto ciò.
E allora non sarà l’unanime grido di guerra che sale dalle redazioni dei quotidiani, dai talk
show e dai commenti televisivi una manifestazione di impotenza o magari di un desiderio
inconsapevole? L’errore sta esattamente nella catena di equazioni che sottintendono il
grido di guerra: «terrorismo» uguale Jihad uguale «fanatismo islamico» uguale «Islam
radicale» uguale «Islam» tout court. Ne consegue che dietro ogni velo o barba indossata
da qualcuno che si professa islamico c’è un terrorista reale o potenziale. Da qui la grottesca richiesta di dissociazione rivolta in ogni sede o spazio dell’opinione pubblica agli islamici. Come se, per dire, a madame Santanché o al giovane Salvini si fosse richiesto a suo
tempo di dissociarsi da Breivik, il quale, tra l’altro, uccise 77 persone. Una richiesta ridicola, ovviamente. Ma allora non è il caso di riflettere sull’equazione «guerra all’Islam
uguale guerra al terrorismo»?
Io non sono credente e ritengo che un serio dibattito sul rapporto tra alcune forme di Islam,
soprattutto politico, democrazia e secolarizzazione vada affrontato, in particolare a sinistra,
in cui si è un po’ esagerato con l’apologia del differenzialismo. Ma credo anche che il
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primo compito delle persone responsabili, soprattutto se esercitano una funzione pubblica,
sia distinguere e non unificare fenomeni del tutto diversi sotto la stessa etichetta, oggi inebriante e rassicurante, ma domani foriera di ulteriori disastri.
L’Isis non è al Qaida, i talebani pachistani non sono quelli afghani, L’Arabia saudita non
combatte l’Isis in nome della libertà di parola, Saddam e Gheddafi erano dei dittatori feroci,
ma abbatterli è stato uno degli errori più gravi che i paesi occidentali abbiano potuto commettere, il tradizionalismo religioso non si traduce necessariamente in estremismo e questo in terrorismo e così via. Un groviglio di questioni che chiamano in causa non solo la
natura delle società di là – quelle che vengono giudicate incapaci di darsi istituzioni solide,
ma che sono state rapidamente private, dai jet occidentali, di quelle che avevano.
Così, è vero che l’ostilità per l’occidente di alcune frange di musulmani non può essere
spiegata solo con l’incancrenirsi della situazione palestinese o con slogan anti-colonialisti.
Ma è anche vero che leader occidentali accecati come Bush, Blair, Sarkozy e Cameron (in
Libia, con il recalcitrante assenso di Obama) hanno distrutto regimi senza alcuna idea di
quello che sarebbe venuto dopo, creando disastri umani immensi e quindi un risentimento
del tutto comprensibile. Che il risentimento e l’odio per i simboli occidentali, insieme certamente alla volontà di potenza, alla negazione violenta della libertà femminile e così via,
assuma oggi le forme del fascismo religioso dell’Isis, non significa che nei conflitti in corso
gli aspetti politici non siano dominanti. La crisi attuale è figlia del risentimento di là
e dell’arroganza di qua. Ci piacerebbe che tutti quelli che oggi blaterano di guerra tra
l’occidente e l’Islam pensassero anche alle guerre volute dai nostri brillanti statisti in Africa
in Asia, nell’indifferenza dell’opinione pubblica e nella supponenza dei suoi opinionisti.
Del 16/01/2015, pag. 8
Vignette su Maometto, l’ora delle proteste
La Turchia: provocazione. Cortei dal Pakistan alle Filippine. Un’auto
investe una poliziotta davanti all’Eliseo
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PARIGI Domenica 11 gennaio, il giorno della colossale manifestazione di Parigi, l’oceano
di «Je Suis Charlie» era talmente vasto da sommergere tutto, persino le scarse credenziali
in libertà di espressione di alcuni Paesi (dall’Egitto all’Ungheria) presenti accanto a
Hollande nella marcia dei capi di Stato. Qualche giorno dopo, passata l’ondata di
emozione planetaria, i distinguo e le difficoltà riemergono.
Non solo nei Paesi musulmani, che condannano la scelta di Charlie Hebdo di mettere
Maometto in copertina nel primo numero della nuova era, quella dei sopravvissuti. Il
quotidiano d’opposizione turco Cumhuriyet è sotto inchiesta con l’accusa di «incitamento
all’odio» per aver pubblicato alcune vignette di Charlie Hebdo in un inserto, e la caricatura
della copertina all’interno del giornale. Il re di Giordania ha criticato Charlie Hebdo con un
comunicato: raffigurare Maometto è «un atto riprovevole, che non è in linea con la libertà
di stampa, la quale comprende il rispetto per le religioni e l’essere responsabili».
Condanne ufficiali anche da parte del Marocco e del Pakistan, e dalle autorità religiose
dall’Egitto all’Iran. Emozione a Parigi per una poliziotta deliberatamente investita da
un’auto davanti all’Eliseo, ma non è stato stabilito un legame con le azioni terroristiche.
La compattezza del fronte «Je Suis Charlie» comincia a incrinarsi anche in Francia e in
Europa. È vero che un’enorme scritta rossa «Nous sommes Charlie», noi siamo Charlie, in
francese e arabo, era ben visibile sulla facciata dell’Istituto del mondo arabo di Parigi,
dove il presidente Hollande è intervenuto a una conferenza ricordando che «sono i
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musulmani a essere le prime vittime del fanatismo, del fondamentalismo,
dell’intolleranza». Ma arrivano segnali preoccupanti dalla scuola, l’istituzione alla quale
molti affidano la responsabilità di integrare i giovani musulmani preservandoli dal
fanatismo.
Circa 200 «incidenti» negli istituti francesi: ragazzi che si sono rifiutati di osservare il
minuto di silenzio per le vittime, o hanno pronunciato frasi di sostegno ai terroristi. Accanto
al debordante «Je Suis Charlie», su Twitter nei giorni scorsi ha avuto un certo successo
«Je Suis Kouachi», beffarda degenerazione pro-terroristi. A Mulhouse, dopo le proteste
dei genitori, un professore è stato sospeso ieri per quattro mesi per avere mostrato le
caricature agli allievi, in un quartiere con forte presenza musulmana.
Mentre a Parigi si svolgevano i funerali delle vittime di Charlie Hebdo , Le Monde ha
sottolineato in un lungo servizio la scarsa partecipazione degli abitanti delle banlieue alla
marcia di domenica, accompagnandolo con un dato poco incoraggiante: al successivo
grande raduno del collettivo di periferia «Pas Sans Nous» a Bobigny, lunedì, si sono
presentate non più di 200 persone.
Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna i media hanno scelto di non mostrare la caricatura di
Maometto. L’opinionista francese Caroline Fourest, intervistata dal canale inglese Sky
News , ha provato a mostrare il nuovo Charlie Hebdo davanti alla telecamera:
collegamento interrotto. La rivista dei gesuiti francesi Études , che aveva fatto scalpore
decidendo di pubblicare sul suo sito alcune vignette di Charlie Hebdo sul Papa, è tornata
sui suoi passi e le ha tolte. Qualche slancio collettivo però resiste: 300 mila francesi hanno
firmato la petizione per dare la nazionalità a Lassana Bathily, il 24enne immigrato del Mali,
musulmano, che venerdì ha salvato alcuni ostaggi ebrei nascondendoli all’interno del
supermercato. Martedì la cerimonia solenne al ministero dell’Interno.
Stefano Montefiori
Del 16/01/2015, pag. 11
La paura e i dibattiti nelle scuole italiane
«Prof, adesso colpiranno anche Roma?»
La vignetta blasfema strappata di mano a chi vuole appenderla. Il
flashmob per «Charlie»
Le stragi e la scuola. Come sono stati vissuti e come vengono metabolizzati i tre giorni di
terrore in Francia fra i banchi dove studiano, giocano, litigano e crescono insieme bambini
e ragazzi italiani e cinesi, romeni e maghrebini, sudamericani e cingalesi? «Quando
giovedì scorso sono entrato in classe — racconta Emiliano Sbaraglia, fondatore di
Underadio, l’emittente online di Save the Children contro la discriminazione, scrittore e
prima ancora insegnante di scuola media a Frascati — ho respirato la loro paura, una
paura fortissima. I ragazzi mi hanno quasi aggredito per chiedermi cosa ne pensassi dei
fatti del giorno prima. È da settembre, dalla ripresa della scuola, che molti di loro sono
convinti che il prossimo attentato sarà a Roma. Colpa dell’Isis, del Califfato islamico in Iraq
e in Siria». Gli eventi della settimana scorsa, racconta Sbaraglia, li hanno confermati nelle
loro convinzioni: «Vede che avevamo ragione, prof? Mi hanno detto. Io gli ho spiegato che
i due terroristi, i fratelli Kouachi, erano sì di religione musulmana ma nati in Francia, e da lì
sono partito per raccontare loro la storia del colonialismo, su su fino alle Crociate e alla
fine gli ho detto: mica vorrete tornare indietro di mille anni, no?».
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Paura. Secondo Sbaraglia la paura si leggeva anche negli occhi di una sua studentessa
irachena. Quando capitano questi fatti, i ragazzi islamici si sentono sempre un po’ chiamati
in causa. Colpa anche di iniziative come quella dell’assessore all’Istruzione del Veneto
Elena Donazzan (Fratelli d’Italia) che all’indomani del massacro di Charlie Hebdo ha
inviato a tutti i presidi della regione una lettera in cui chiedeva loro di adoperarsi affinché i
genitori dei bambini musulmani prendessero posizione condannando la strage, perché «se
pure non si può dire che tutti gli islamici sono terroristi, è evidente che tutti i terroristi sono
islamici». La scrittrice Mariapia Veladiano è uno di quei presidi: dirige l’Istituto di Istruzione
Superiore Boscardin. «Da noi si è parlato molto di quello che era successo: i ragazzi
dell’artistico in particolare si sono lanciati in una serie di reinterpretazioni del tema della
matita e della libertà di espressione — dice —. Io credo che la scuola sia il luogo migliore
per lavorare al disinnesco della reattività, che è un residuo animale della nostra anima. La
cultura è il maggiore e più potente strumento contro la costruzione della guerra. Per
questo la scuola pubblica va tutelata, perché è un presidio della convivenza». Purché si
tenga fermo il principio che la libertà di ognuno arriva sin dove comincia quella dell’altro.
Non è andata così, purtroppo, all’istituto tecnico Oriani di Faenza dove un ragazzo, un
giovane militante leghista, ha cercato di appendere una vignetta di Charlie in classe e una
sua compagna di fede islamica gliel’ha strappata di mano. L’episodio è finito agli onori
della cronaca in seguito alla denuncia dell’onorevole Gianluca Pini, segretario romagnolo
della Lega, secondo il quale i docenti sarebbero intervenuti consigliando al ragazzo di
desistere «per quieto vivere: un fatto lesivo della libertà di parola e di pensiero» —
secondo Pini — tanto più in quanto lo studente aveva avuto il permesso dalla presidenza.
Sì, ma non per appendere le vignette in classe: solo nei corridoi, che fa una bella
differenza. È andata molto meglio all’Istituto tecnico Zanon di Udine dove, all’indomani
dell’attentato a Charlie Hebdo , i ragazzi hanno organizzato un flashmob davanti a scuola
alle otto meno dieci: foto di gruppo con i cartelli «Je suis Charlie», poi tutti in classe. Silvia
Iob, quarto anno di relazioni internazionali per il marketing, c’era: «Devo dire grazie alle
mia rappresentante di classe che mi ha avvisato in tempo». E chi è la tua rappresentante?
«Gliela passo subito, è qui vicino a me». «Buongiorno, mi chiamo Zahra, Zahra Bel
Ahrache». Zahra vive a Codroipo con mamma (italiana) e papà (marocchino). «Anche se
non tutti la pensavamo allo stesso modo sulle vignette — spiega —, quello su cui invece
eravamo d’accordo è proprio che la libertà di pensiero va difesa». Ma tu personalmente ti
sei sentita un po’ presa in mezzo? «Sì, questi eventi fanno pensare che la religione
islamica sia violenta, ma confondere musulmani e terroristi significa darla vinta ai
terroristi». Nel mirino dei terroristi francesi è finita anche la comunità ebraica che
nell’assalto al supermercato kosher di Parigi ha perso quattro suoi membri. Il liceo classico
Manzoni è, da tempo, un punto di riferimento della comunità milanese. «Da noi — spiega
la vice preside Elena Benaglia — non ci sono studenti di origine islamica, colpa del
greco… Ma abbiamo una lunga tradizione di dialogo. In questi giorni nelle classi abbiamo
lavorato molto su quello che era successo, leggendo e commentando i giornali. E non c’è
mai stata l’ombra della confusione fra islamici e terroristi». Anzi. Visto che molti ragazzi del
Manzoni fanno parte degli scout — cattolici dell’Agesci, laici del Cngei, ebrei di Hashomer
— il liceo sta pensando di contattare anche gli scout musulmani per organizzare un torneo
sportivo interconfessionale. «Certo è incredibile — dice Sbaraglia — che nel Ventunesimo
secolo non sia stata ancora introdotta nelle nostre scuole un’ora di storia delle religioni».
L’idea è stata rilanciata qualche giorno fa, proprio alla luce delle stragi, da Francesca
Campana Comparini, organizzatrice del Festival delle Religioni, con una lettera aperta su
corriere.it/scuola . Ma in realtà una proposta analoga, sottoscritta da Paolo Scarpi,
presidente del corso di laurea in Scienze delle religioni a Padova, insieme ai colleghi di
Roma Tre e della Sapienza, giace già da un paio di mesi sul tavolo del ministero
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dell’Istruzione. «Nessuno vuol mettere in discussione l’insegnamento della religione
cattolica che è frutto di un accordo fra Stati e in quanto tale dipende esclusivamente dalla
volontà dei contraenti — spiega Scarpi —. Ma sono convinto che un’ora di storia delle
religioni che sappia insegnare a distinguere fra i vari credi potrebbe servire ad aprire le
menti al rispetto delle differenze. Non sarebbe poca cosa».
Orsola Riva
Del 16/01/2015, pag. 3
«Gli italiani non possono pernottare a Gaza»
Palestina. Messaggio ricevuto dal consolato. Aumenta la tensione per lo
scontro tra Hamas e Fatah. Non mancano tragedie quotidiane: senza
energia elettrica, 3 bambini morti per il freddo
Michele Giorgio , GERUSALEMME
<<A tutti gli italiani che entrano nella Striscia di Gaza e al personale italiano delle nostre
Ong. Sulla base delle indicazioni del nostro Consolato Generale a Gerusalemme, si raccomanda in maniera tassativa:
1. di non pernottare nella Striscia di Gaza;
2. di avvertire via e-mail il Consolato Generale dell’intenzione di farvi ingresso;
3. di usare tutte le possibili precauzioni di sicurezza negli spostamenti…».
È questa una parte del testo del messaggio che ieri hanno ricevuto gli italiani che lavorano
nella Striscia di Gaza dalle nostre autorità consolari. Questo allarme è la conseguenza di
una minaccia specifica oppure è solo un invito ad una maggiore cautela? La risposta la
conosce soltanto il Consolato Generale a Gerusalemme.
Per ora è certo solo l’aumento della tensione a Gaza. Più per il riacutizzarsi dello scontro
tra Fatah e Hamas che per la presunta minaccia rappresentata dai gruppetti salafiti presenti tra Khan Yunis e Rafah e che si proclamano «affiliati» all’Is. Non sono mancati di
recente episodi inquietanti, a cominciare dai due attentati subiti dal Centro culturale francese a Gaza city e dalle minacce rivolte a una ventina di giornalisti, intellettuali e artisti. Ed
è bene ricordare che un sedicente gruppo salafita di Gaza è stato responsabile del sequestro e dell’assassinio di Vittorio Arrigoni, nel 2011.
Non va dimenticato che il movimento islamico Hamas, che controlla la Striscia, ha tutto
l’interesse a tenere sotto stretta osservazione i movimenti di questi gruppetti. Il rapimento
di un cittadino straniero e il suo trasferimento, attraverso tunnel sotterranei, nel Sinai, dove
operano organizzazioni come «Ansar Beit al Maqdes» (affiliata allo Stato Islamico), resta
ancora una ipotesi tecnica e non una possibilità concreta.
Preoccupa molto di più, non gli stranieri ma la gente di Gaza, la ripresa del conflitto tra
Fatah, il partito del presidente dell’Anp Abu Mazen, e Hamas. Conflittualità che i palestinesi non sopportano più, di fronte ai problemi enormi che devono affrontare ogni giorno,
frutto in buona parte del blocco israeliano della Striscia e delle immense distruzioni causate dall’offensiva militare «Margine Protettivo». A cominciare dalla mancanza di energia
elettrica. L’unica centrale di Gaza è stata bombardata da Israele la scorsa estate e al
momento sono disponibili solo 4 ore di elettricità al giorno. Migliaia di famiglie, specie
quelle sfollate, che hanno perduto la casa nei bombardamenti, non hanno soldi per comprare il gasolio per le stufe non elettriche.
E il freddo dei giorni scorsi ha ucciso almeno tre bambini e un pescatore. Di fronte a questi
e altri problemi Hamas e Fatah continuano a scambiarsi accuse e nei giorni scorsi ci sono
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stati atti di forza ai posti di blocco che mantengono all’ingresso di Gaza, subito dopo il
valico di Erez.
Il movimento islamico ha inviato suoi miliziani al check point noto come 5–5, gestito da
Fatah che ha subito ritirato i suoi uomini. Israele ha reagito lasciando passare solo gli stranieri e impedendo il transito ai civili palestinesi. Hamas accusa Abu Mazen di non voler
trovare una soluzione al mancato pagamento dei salari per circa 50 mila dipendenti (in
sciopero della fame) del governo islamico sciolto dopo la formazione dell’esecutivo di consenso nazionale nato lo scorso giugno ma di fatto non operativo.
del 16/01/15, pag. 18
di Giampiero Gramaglia
Grecia, il guanto rosso di sfida delle
lavoratrici
LE EX DIPENDENTI DELLE PULIZIE DEL MINISTERO DELL’ECONOMIA
DI ATENE SONO DIVENUTE IL SIMBOLO DELLA PROTESTA CONTRO
IL GOVERNO OSTAGGIO DELLA TROIKA
Ne faranno di sicuro un film. Se a lieto fine, ancora non si sa. A 10 giorni dal voto politico
greco del 25 gennaio, cruciale per l’Unione Europea e l’euro, le “donne dai guanti di
gomma rossi” sono divenute le eroine della Grecia in lotta contro i tagli della troika
europea e del governo Samaras. E la stampa nazionale e internazionale ne fa il simbolo
della resistenza ellenica contro riforme e austerità. Le donne delle pulizie del ministero
dell’Economia, un nutrito battaglione di circa 600 lavoratrici – ma le oltranziste della
protesta sono molto meno –, non si rassegnano al taglio dei loro posti: spesso madri di
famiglia di mezza età, si sono scontrate con la polizia e sono accampate da mesi nel
centro di Atene, attirando spesso l’attenzione dei cameramen – la Bbc ha loro dedicato un
ampio servizio –. Il loro sit-in permanente, il loro quartier generale sotto una disadorna
tenda, sono ormai l’epicentro d’una protesta che coinvolge in Grecia tutti i dipendenti
pubblici rimasti senza lavoro, o sul punto di perderlo. Le donne furono licenziate 16 mesi
or sono, nell’ambito della riduzione di 14 mila posti di dipendenti pubblici chiesta alla
Grecia dalla troika, Ue, Bce e Fmi.
LA TENACIA nell’opporsi al licenziamento coinvolge moltissimi greci che patiscono le
conseguenze della crisi economica. Da maggio, la loro protesta è divenuta permanente,
una sorta di spot stabile contro l’Ue e la troika, oltre che contro il governo conservatore: si
sono scontrate con la polizia, mostrando in tutte le manifestazioni i pugni chiusi nei guanti
di gomma rossi e le bandiere rosse. Syriza, il partito euro-critico della sinistra radicale di
Alexis Tsipras, conta anche su di loro per conquistare la maggioranza e quindi il potere nel
voto del 25 gennaio, il cui esito potrebbe cambiare il futuro dell’Europa. “Fare la donna
delle pulizie, non è mai una scelta di vita, né una prospettiva di carriera”, raccontano ai
giornalisti che le avvicinano. Molte di esse vengono da villaggi di campagna poveri e fanno
lavori umili da quando erano bambine. Negli Anni Ottanta e Novanta, le assunzioni
pubbliche, anche di basso livello, furono l’efficace ammortizzatore sociale del Paese più
povero dell’Unione europea, la cui economia accusava i colpi della globalizzazione.
SOCIALISTI del Pasok e conservatori di Nea Demokratia fecero la stessa politica:
assumere a turno loro sostenitori. Un posto di lavoro nel settore pubblico era, per la
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povera gente, una specie di biglietto di transito verso il paradiso della classe media. Ma lo
scoppio della crisi e la scoperta che la Grecia aveva truccato per anni i suoi conti hanno
fatto esplodere il bubbone. E, fra i lavoratori del settore privato, che ha perso posti di
lavoro a bizzeffe, non tutti sono solidali con le donne dai guanti di plastica rossi: c’è chi
nota che hanno avuto a lungo la vita facile e che ora protestano perché hanno perso i loro
privilegi – anche se la retribuzione s’aggirava sui 6. 000 euro l’anno, straordinari compresi;
e se solo nel 2005 ottennero tutti i benefits dei dipendenti pubblici. Loro replicano che
sono state colpite perché erano ritenute le più vulnerabili e nessuno pensava che
avrebbero inscenato una tale protesta. Un calcolo sbagliato, come tanti, greci ed europei.
Del 16/01/2015, pag. 23
L’Europarlamento: «Rimpatriate i due marò»
Strasburgo chiede un cambio di giurisdizione sul caso. Pinotti:
decisione molto positiva
DAL NOSTRO INVIATO
STRASBURGO L’Europarlamento ha approvato a maggioranza una risoluzione politica
che chiede il rimpatrio dall’India dei due marò italiani Massimiliano Latorre e Salvatore
Girone, accusati di aver ucciso due pescatori indiani durante una azione anti-pirateria.
Gli eurodeputati esprimono profonda tristezza per la tragica morte dei due pescatori
indiani, ma anche grande preoccupazione per la detenzione senza capi d’accusa dei due
fucilieri italiani definita «una grave violazione dei diritti umani».
La risoluzione appoggia la posizione adottata dall’Italia auspicando che «la competenza
giurisdizionale sia attribuita alle autorità italiane e/o a un arbitraggio internazionale».
Il contrasto tra i governi di Roma e New Delhi scaturisce da opposte valutazioni sul luogo
dove furono uccisi i due pescatori indiani nel febbraio 2012. Le autorità italiane
sostengono che si era in acque internazionali e che i due fucilieri debbano quindi essere
processati in Italia o da un tribunale internazionale. L’India afferma che l’uccisione è
accaduta nelle acque costiere sotto la sua giurisdizione e rivendica la competenza della
sua magistratura nazionale. Il contenzioso non trova soluzione da quasi tre anni e ha
provocato clamorose polemiche politiche. Latorre ha appena avuto dalle autorità indiane
una proroga di tre mesi per restare a curarsi in Italia, dove ha ottenuto di poter rientrare
per sottoporsi a un intervento chirurgico. Girone resta in India in attesa degli sviluppi
giudiziari. L’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Federica Mogherini, sta
seguendo costantemente questa vicenda. Mercoledì ha partecipato al dibattito notturno sui
due marò nell’aula di Strasburgo quasi deserta, sottolineando che «l’Unione Europea
intende onorare il suo impegno per una tutela piena e concreta dei diritti fondamentali dei
propri cittadini, di ciascun cittadino europeo in stato di detenzione in ogni parte del mondo,
promuovendo la risoluzione pacifica delle controversie internazionali e il rispetto dei diritti
umani e del diritto internazionale».
Gli eurodeputati dei principali partiti italiani rappresentati a Strasburgo, pur senza affollare
il dibattito notturno, hanno appoggiato l’azione a favore dei due fucilieri. Alcuni hanno
evidenziato i limiti delle risoluzioni politiche dell’Europarlamento e chiesto una azione più
energica dell’Ue.
Il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha commentato l’approvazione in aula a favore del
rientro in Italia dei due fucilieri come «molto positiva».
Ivo Caizzi
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Del 16/01/2015, pag. 23
Mogherini pensa al disgelo con Mosca «Ma
prima fermi la disinformazione»
Inviata agli Stati una proposta per attenuare le sanzioni. E 5 Paesi
vogliono la linea dura
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BRUXELLES Un documento, quattro pagine inviate a tutti i governi europei da Bruxelles,
con quel titolo ambizioso: «nutrimento per le idee». Anzi, per un’idea su tutte: attenuare o
rimodulare le sanzioni economiche e diplomatiche decise dall’Unione Europea contro la
Russia, dopo la sua occupazione della Crimea e le sue azioni militari in Ucraina.
Traduzione ufficiosa, ma aderente alla realtà: tendere una mano, offrire la carota dopo il
bastone. Sempre che Vladimir Putin si accontenti della carota. È la prima volta che l’Ue
esce allo scoperto su questo terreno, anche se la stanchezza, la preoccupazione e
l’incertezza per il prolungamento del «grande freddo» con Mosca si notano ormai da
tempo. L’idea attuale sarebbe firmata anche se non ufficialmente da Federica Mogherini,
alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, da sempre considerata
a Bruxelles (e da alcuni criticata proprio per questo) come fautrice del disgelo con il
Cremlino. Tecnicamente quelle 4 pagine hanno un nome, «documento di discussione», e
sono una sorta di promemoria che Bruxelles ha spedito agli Stati membri perché lo
elaborino e studino alla prossima riunione dei loro ministri degli Esteri, lunedì a Bruxelles.
E perché poi, se lo ritengono opportuno, lo trasmettano al Consiglio dei capi di Stato e di
governo per una decisione finale: se non una vera «frenata», certo un sensibile cambio di
rotta nelle relazioni Mosca-Bruxelles. Al Cremlino si vorrebbero offrire, appunto, sanzioni
più mitigate, probabilmente sui movimenti e trasferimenti finanziari, i viaggi dei diplomatici,
e alcuni limitati interscambi commerciali. E allo stesso Cremlino si chiederebbero invece
segni concreti di distensione in Ucraina, nei mari e nei cieli d’Europa dove continuano le
pericolose «perlustrazioni» degli aerei e delle navi di Putin a cavallo dei confini altrui, e
anche nelle regioni come la Transnistria, dove le minoranze russe sono sempre in
fermento quasi in attesa di un’operazione «Crimea-bis».
Il documento susciterà grandi discussioni. I sostenitori principali sarebbero Francia e Italia,
insieme a Spagna, Grecia, Bulgaria e Cipro (queste ultime tre per i loro legami finanziari,
culturali e linguistico-religiosi con Mosca); dall’Est e dal Nord del continente, fra Svezia,
Finlandia, Polonia e Stati baltici in genere, e in altro tono dalla Nato, giungerebbe invece
un «no» diffidente, e così pure da Washington, che tuttavia ha sempre ben presenti anche
gli interessi geo-strategici radicati nel suo rapporto con la Russia. Infine la Germania.
formalmente irriducibile, ma in realtà consapevole di quanto conti per le sue casse la
Russia, di cui è il primo partner commerciale. Qui non si tratterà mai, precisa
informalmente la Commissione, di tornare agli «affari come sempre» con Mosca. Ma le
crisi sempre più grandi dell’Europa e del mondo non possono essere affrontate solo da
Ue, Usa e Nato. Dalla Siria all’Iraq dell’Isis, da Al Qaeda che si vanta di dilaniare Parigi e i
suoi giornali, al dramma sempre presente della Palestina, la Russia non può restare in un
angolo come testimone indifferente od ostile, deve dire la sua ed offrire la sua
collaborazione: questo, almeno, è il ragionamento di chi preme per la «logica della
carota». Poi c’è anche chi la pensa in modo opposto. Un altro testo sta infatti per planare
sulla scrivania di Federica Mogherini. Gran Bretagna, Danimarca, Lituania ed Estonia, con
l’appoggio ufficioso della Lettonia presidente di turno, chiedono alla Ue di contrastare il
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«massiccio piano di disinformazione» che verrebbe lanciato dalla Russia su tutta l’Ue, con
trasmissioni satellitari, campagne Web e Twitter, pubblicazioni di ogni genere che
tenderebbero a seminare destabilizzazione.
Luigi Offeddu
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INTERNI
del 16/01/15, pag. 14
I dubbi di Renzi sugli ex leader “Serve chi
facilita un’intesa” Ora Mattarella in pole
position
I timori di chi teme che gli ex segretari dividano il Pd La Serracchiani: il
capo dello Stato va eletto con Forza Italia
TOMMASO CIRIACO
ROMA .
Il patto del Nazareno si appresta a scalare anche il Colle più alto. «Senza Berlusconi scandisce la vicesegretaria del Pd Debora Serracchiani - non si può eleggere il nuovo
presidente della Repubblica». In realtà mancano ancora due settimane al primo scrutinio e
pochi sono disposti a scoprire le carte. Gli azzurri, però, incassano l’apertura della
segreteria dem e iniziano a fissare alcuni paletti. Chiedono un arbitro imparziale e «non
comunista». Anche perché senza intesa, fanno sapere, addio riforme. Le prime risposte
arriveranno già oggi, nel corso della direzione del Partito democratico convocata da
Matteo Renzi alle 15. Dai microfoni di Radio24, Serracchiani sfuma quanto sostenuto due
giorni fa da Renzi («se Silvio mette veti eleggiamo il Presidente da soli») e arruola l’ex
Cavaliere nella sfida più delicata: «Dopo il quarto scrutinio c’è una maggioranza assoluta,
ma in ogni caso servono dei numeri importanti anche per legittimare il prossimo
Presidente». Tocca dunque al partito di Berlusconi assicurare alla maggioranza i consensi
mancanti. È Renato Brunetta a sollecitare una figura istituzionale, in nome dell’intesa tra il
premier e il leader di Arcore: «Per il patto del Nazareno - assicura il capogruppo di Forza
Italia - il prossimo capo dello Stato deve essere super partes. E io aggiungo che non deve
essere comunista». In gioco, oltre alla poltrona più importante della Repubblica, c’è anche
il pacchetto delle riforme. «Se non c’è intesa sul nuovo Presidente - avverte Maurizio
Gasparri - per noi salta il ddl Boschi e la legge elettorale». Tra i democratici, intanto, si
intravedono le prime crepe. E se gran parte della minoranza interna alza per ora il tiro solo
sull’Italicum, Pippo Civati va dritto al punto: «Perché non si può immaginare una proposta
che si rivolga al Parlamento senza passare prima e soprattutto da Berlusconi?». Chi
invece tifa per il governo, come Angelino Alfano, mette in chiaro le condizioni di Area
popolare. «Al Pd non diamo dei nomi, ma non vogliamo imposizioni. Queste - sostiene il
ministro dell’Interno - non sono le primarie del Partito democratico». Anche i “piccoli”,
naturalmente, si preparano al risiko quirinalizio. Scelta civica e Per l’Italia-Centro
democratico promettono un patto di consultazione per fare fronte comune e far pesare i
pochi voti a disposizione. E il sindaco veronese Flavio Tosi avanza una suggestione
padana: «Se dovessi pensare ad un presidente espressione del centrodestra, penserei a
Roberto Maroni».
Del 16/01/2015, pag. 17
Ipotesi Grasso al primo scrutinio
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Bersani o Veltroni per il quarto
Potrebbe anche sfumare il no di Berlusconi a un ex magistrato
ROMA Matteo Renzi non svelerà le sue vere intenzioni nemmeno oggi davanti alla
direzione del Pd. «Faremo un punto della navigazione» si limita a far sapere. E, quindi,
anche di quanto sta avvenendo sulle riforme alla Camera e al Senato: «Ci vuole senso di
responsabilità» è il ritornello che rivolge ai compagni di partito. «Senso di responsabilità»
per tutto: riforme ed elezione del presidente.
Il premier è attento a quel che succede. Scambia sms con Roberto Speranza, per
monitorare l’alzata di scudi di Forza Italia. Riceve a Palazzo Chigi il «ribelle» Vannino Chiti
e poi il capogruppo a palazzo Madama Luigi Zanda. Non sembra però voler
drammatizzare la situazione: «È il loro modo di aprire la trattativa», dice ai suoi riferendosi
a Forza Italia. Da come si comporta sembra che in realtà abbia già un accordo di massima
con Berlusconi. E ora sta cercando un’intesa dentro il suo partito. Direttamente con
Bersani, visto che il premier non ritiene che l’ex segretario voglia giocare sporco. A
Palazzo Chigi sono convinti che Bersani punti a essere coinvolto nelle decisioni e che alla
fine lui «abbia a cuore innanzitutto l’unità del Pd». Unità di cui ha bisogno anche Renzi per
mandare in porto l’operazione Quirinale: «Non possiamo offrire un brutto spettacolo come
quello del 2013, dobbiamo fare in modo che gli italiani tornino ad avere fiducia nelle
istituzioni». E per riuscire nell’intento c’è chi nel Partito democratico alimenta la cortina
fumogena: non a caso, ieri è stato lanciato il nome di Luciano Violante. Ma parrebbe
proprio un nome dello schermo.
La «confusione» giova al premier. O, quanto meno, il premier ne è convinto, perché «per
arrivare alla stretta finale, meglio stressare la situazione». Perciò, se diverse ipotesi si
accavallano tanto meglio. A questo proposito sempre ieri, è uscito nuovamente il nome
della vice presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia: è una donna ed è stata
nominata alla Consulta da Giorgio Napolitano. In questo caos — un po’ apparente e un po’
no — Renzi prosegue con i suoi sondaggi. Con gli alleati del Nuovo centrodestra e di
Scelta civica ha adombrato l’ipotesi Veltroni. Perché, come ha avuto modo di dire, «un
arbitro e un garante delle riforme non deve essere necessariamente un non politico». Del
resto, Napolitano docet. Quello dell’ex segretario del Pd o di un altro «esponente della
ditta» (lo stesso Bersani, per esempio) è un nome buono nella prospettiva di giungere alla
quarta votazione. Ma Renzi si lascia aperta anche un’altra strada, ossia quella di riuscire a
farcela alla prima. Allora sì che riuscirebbe a realizzare appieno «il metodo Ciampi» da lui
invocato, sottolineando la necessità della «massima condivisione tra le forze politiche».
Sarebbe un colpaccio per il premier e per la sua immagine.
Ma quale potrebbe essere il nome giusto in questo caso? Dal Pd, e anche dagli altri gruppi
della maggioranza, filtra un’ipotesi: quella di una candidatura di Piero Grasso. Una
prospettiva di questo tipo non vedrebbe contrario Bersani, visto che fu proprio lui a
indicarlo come presidente del Senato e attrarrebbe i voti degli ex grillini e forse anche
qualcuno di chi siede ancora nei banchi dei «5 stelle». È vero che Berlusconi va dicendo
che non vuole un magistrato. Ma i «no», quando si aprono le trattative non sono sempre
così granitici. E poi, chi meglio di un ex magistrato potrebbe garantire al leader di FI
agibilità politica senza destare scandalo?
Ma i giochi per il Quirinale rappresentano per una fetta dei renziani e per la minoranza
interna più dialogante un modo per tentare di compiere un altro passo sulla strada della
rottamazione. Perciò tra i gruppetti sparsi nel Transatlantico di Montecitorio si sussurra il
nome di un altro Pd: il vicepresidente del Csm Gianni Legnini, 56 anni. Renzi lascia fare,
perché la confusione distoglie l’attenzione dalle sue mosse, scruta i movimenti dei big del
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Pd, da Franceschini a D’Alema, non esclude in futuro un incontro a tre con Alfano e
Berlusconi e cerca di capire se quella «buona» sarà la prima o la quarta votazione.
Non vuole andare oltre. Di questo è «certo». E non vuole nemmeno dedicarsi solo a
questo tema: «L’attività del governo non può fermarsi». Perciò ieri ha affrontato la
«pratica» della Pubblica amministrazione con Marianna Madia, quella delle crisi industriali
con la ministra Guidi e ha ripreso in mano il «dossier fisco». E, pur tenendosi lontano dalle
luci dei riflettori di questo evento, ha telefonato ai familiari delle due italiane rapite per dare
loro la buona notizia della liberazione e dell’imminente rientro in patria delle ragazze.
del 16/01/15, pag. 18
Casaleggio ordina l’altolà e Grillo silura Prodi
“Il disastro euro è suo” Pizzarotti rilancia
Rodotà
Il leader boccia tutti i candidati del Pd al Colle tra i favoriti invece ci
sono Davigo e Di Matteo
ANNALISA CUZZOCREA
ROMA .
Nel quartier generale della Casaleggio Associati l’allarme è risuonato alla lettura dei
giornali. Non è piaciuta a Gianroberto Casaleggio una frase di Danilo Toninelli interpretata
come un’apertura sul nome di Romano Prodi. «Se non va bene la quarta votazione, dopo,
per il Pd, c’è solo Prodi - aveva detto ai cronisti il vicepresidente della Commissione Affari
Costituzionali - se Renzi vuole tenere in piedi questa legislatura venga a chiederci il voto».
Subito scattano le telefonate. Bisogna correggere il tiro. «Noi non facciamo strategie per
danneggiare Matteo Renzi - dice il capogruppo alla Camera Andrea Cecconi - noi votiamo
Prodi se ce lo dice la rete, è diverso». Ma le cose sono andate troppo oltre, il nervosismo
dei leader è alle stelle. Così, in un post sul blog, Beppe Grillo brucia un po’ di nomi pd
papabili per il Colle. A partire da quello del professore: «Il supercandidato è stato
impallinato dai voti dei renziani nel 2013, ma ora che l’euro va in pezzi e ne subiamo il
disastro economico non sembra proprio il candidato più adatto. Oggi sarebbero più di 202
a votargli contro». La stroncatura è accompagnata da quelle - ancora più dure - di Walter
Veltroni, Piero Fassino, Giuliano Amato, Anna Finocchiaro, Roberta Pinotti, Sergio
Mattarella. E del presidente del Senato Piero Grasso, nonostante a lui sembrino guardare
alcuni 5Stelle - fuoriusciti e non - soprattutto a palazzo Madama.
Altri nomi che invece non dispiacerebbero al Movimento sono quelli del pm di Palermo
Nino Di Matteo e di Piercamillo Davigo, proprio ieri in Senato a registrare un messaggio
per “La notte dell’onestà” del 24 gennaio. Mentre si riaffaccia la candidatura di Stefano
Rodotà. A parlarne è Federico Pizzarotti, in visita a Roma per l’incontro dell’Anci. Il
sindaco di Parma dice: «Se devo fare un nome penso a lui per le battaglie, la cultura,
l’integrità morale. L’unico problema è quello anagrafico, mi piacerebbe che l’Italia avesse
un capo dello Stato più giovane, ma Rodotà mi ha sempre fatto una buona impressione.
Quando abbiamo approvato il nuovo Statuto a Parma ci ha chiamato per chiedere se
volevamo mandarglielo, ci ha offerto un suo parere». Non è convinto di come si stanno
gestendo le cose, Pizzarotti: «Detto da me non è una novità, ma credo che su una partita
importante come questa serva il dialogo, altrimenti facciamo sempre la figura di quelli che
vogliono stare sulle loro senza concludere nulla. E serve che ci diamo regole chiare prima
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di fare le cose, non durante, perché quello che facciamo dev’essere comprensibile e non
manipolabile». Quindi non va bene che non si sappia ancora se le quirinarie ci saranno
oppure no: «Il punto è: chi lo decide? E come?». Fa un’apertura di credito a Luigi Di Maio:
«È diventato responsabile degli enti locali e so che si è già messo in contatto con tutti i
sindaci. L’ho sentito stamattina. Vedremo come saranno organizzati questi incontri,
l’importante è che si capisca che non basta fare uno show in un posto in cui governi,
perché poi i cittadini vengono a chiederti conto dei problemi ». Dal direttorio, però, di
risposte sulle regole non ne arrivano.
La strategia è quella degli scacchi: «Da qui al 10 febbraio loro faranno delle mosse e noi
risponderemo - dicono dai vertici - e non è detto che le quirinarie avvengano prima del
voto, potremmo aprirle anche a voto in corso». Il che vuol dire che il sondaggio sul blog si
potrebbe fare su nomi veri. Sempre che in partita si riesca a entrare. Renzi, per ora, non
vuol saperne. E infatti gli emissari del Pd non sono andati a cercare il direttorio, ma il
dissidente fuoriuscito Massimo Artini: «Ci stanno sondando su Veltroni e Mattarella»,
racconta in Transatlantico. E dice: «Strano che Grillo abbia bocciato Prodi, un anno fa
Casaleggio mi aveva detto che sarebbe stato la sua scelta, ma capisco che proporlo
adesso che abbiamo messo su i banchetti contro l’euro sarebbe da dementi».
Del 16/01/2015, pag. 4
Ora la sinistra punta al big bang dopo il voto
del presidente (greco)
Mobilitazioni per Tsipras. Partono le mobilitazioni internazionali, occhi
puntati sulle elezioni di Atene. Da lì può arrivare una scossa anche
all’Italia
Daniela Preziosi
Un week end di discussione, il prossimo, a Bologna organizzato dall’Altra Europa; quello
successivo a Milano convocato da Sel. Poi il voto per le presidenziali greche, che cadrà il
25 gennaio, dove è molto probabile la vittoria di Alexis Tsipras, leader della coalizione
Syriza. Un voto, quello greco, che cade prima di quello per il capo dello stato italiano
e rischia di avere un impatto anche più forte sulla politica del nostro paese. Nella variegata
galassia delle sinistre nostrane parte una mobilitazione che punta su Atene per arrivare
a Strasburgo, passando per Roma.
Stamattina infatti alla camera un gruppo di personalità diversamente collocate a sinistra
(fra gli altri Luciana Castellina, Nichi Vendola, Paolo Ferrero, Marco Revelli, Antonio
Ingroia ma anche Pippo Civati e Stefano Fassina) presenteranno le iniziative di una campagna di mobilitazione internazionale nata dall’appello ’Cambia la Grecia, cambia l’Europa’
firmato ormai da migliaia di cittadini per «sostenere la libera scelta del popolo greco contro
le pressioni dei mercati finanziari e la disinformazione di molte testate giornalistiche sul
programma di Syriza». Fra le iniziative, quella della ’Brigata Kalimera G25’, che dall’Italia
si prepara ad andare ad Atene a sostenere Tsipras e Syriza nei giorni del voto. Iniziative
analoghe sono partite nelle capitali di tutta Europa. Occhi puntati sulla Grecia, ma anche
sull’Italia che dal voto greco potrebbe ricevere una scossa se non uno scrollone.
A questo sarà dedicato gran parte del dibattito che si terrà a Bologna (al cinema Nosadella) sabato e domenica prossimi. Lì l’Altra Europa con Tsipras, la lista che si è presentata alle scorse europee, discuterà di Grecia ma anche del massacro della redazione del
Charlie Ebdo parigino. Nel pomeriggio di sabato affronterà invece il ’manifesto siamo a un
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bivio’ (testo integrale su listatsipras.eu). Il ’bivio’ fa riferimento alla strada europea del
dopo-voto greco, ma anche alla strada italiana che potrebbe trasformarsi, dal viottolo di
un’ennesima nuova sigla a sinistra, nella via più larga di una ’cosa’ comune a sinistra,
invocata agognata e data per imminente persino da chi non se la augura — come il presidente del consiglio Matteo Renzi — ma ancora impelagata in una lunghissima fase di
gestazione. Il documento che arriva alla discussione dell’assemblea nazionale, condiviso
dalla stragrande maggioranza del gruppo preparatorio ma non da tutti, parla chiaro:
«Intendiamo metterci al servizio di un processo che porti alla costituzione di una sola
“casa comune della sinistra e dei democratici italiani in un quadro europeo”» che dovrebbe
sfociare alle politiche in «un’unica lista», come succede già in Grecia e in Spagna, «in
grado di unire tutte le componenti sia organizzate che disperse di una sinistra non arresa
alla austerità europea e alla sua versione autoritaria italiana incarnata dal renzismo». «Il
2015 può essere davvero l’anno del cambiamento», è la conclusione «facciamo ciascuno
un passo indietro, per fare insieme due passi avanti».
Il week end successivo, quello che va dal 23 al 25 gennaio, gli attivisti dell’Altra Europa,
ma stavolta insieme a molti altri provenienti da mondi diversi e anche dalla sinistra Pd, si
ritroveranno a Human Factor, la ’Leopolda rossa’ di Sel, a Milano. Incontri ravvicinati che
dovrebbero superare le incomprensioni e le divisioni del dopo-europee. Almeno nelle
intenzioni di tutti, o quasi. E che potrebbero portare a candidati unitari anche alle prossime
regionali, in calendario per maggio. Così è già nelle Marche, dove ieri un ampio cartello
delle sinistre ha annunciato la corsa contro il candidato del Pd qualunque sarà (in regione
i dem si stanno dilaniando nella scelta se fare o no le primarie). Così potrebbe essere
anche in Liguria, dove Sergio Cofferati è stato sconfitto alle primarie del centrosinistra ed
ora molte voci, alcune anche del Pd, chiedono un nome alternativo alla burlandiana
Lella Paita. Nell’album delle figurine di famiglia manca ancora anche la casella di Pippo
Civati. Che da tempo guarda a sinistra fuori dal suo partito ed ha già spiegato che «se si
andasse al voto ora» non si ricandiderebbe su un programma «che non condivido», quello
di Renzi. Sulla sua scelta peserà il nome del presidente della repubblica che Renzi proporrà al Pd. Se sarà evidentemente frutto del Patto del Nazareno, o un nome concordato
con la sinistra del suo partito.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 16/01/15, pag. 9
di Paola Zanca
I 672 inutili giorni dell’anticorruzione
FU IL PRIMO DISEGNO DI LEGGE PRESENTATO DA PIETRO GRASSO
MA LE NUOVE NORME CONTRO I CORROTTI IN DUE ANNI NON SONO
NEMMENO USCITE DALLA COMMISSIONE DEL SENATO
Era il suo primo giorno da senatore, quel 15 marzo del 2013. Pietro Grasso, una vita nelle
aule di giustizia, aveva deciso di inaugurare la sua carriera da politico con una legge
contro la corruzione. Eppure sono passati due presidenti del Consiglio, lui è diventato
capo dello Stato, seppur supplente, e la sua proposta fatta di 9 semplici articoli, dopo 672
giorni, non è nemmeno riuscita a uscire dall’aula della commissione Giustizia di Palazzo
Madama. CI È ARRIVATA il 5 giugno di due anni fa. Quella mattina, il Pdl Nino D’Ascola,
relatore del testo, illustrava ai colleghi le nuove norme in materia di corruzione,
votodiscambio, falsoin bilancio e riciclaggio. E fu subito rinvio. Ci si domandava, al Senato,
se fosse il caso che in contemporanea, alla Camera, discutessero un disegno di legge sul
voto di scambio, visto che quella materia era già nel ddl a firma Grasso. Nitto Palma,
presidente della commissione Giustizia di Palazzo Madama, aveva preso carta e penna e
scritto a Montecitorio: sicuri che abbia senso fare le stesse cose in due posti diversi?
Risposero che non c’era motivo di sospendere o rallentare il lavoro dei deputati. Ognuno
avanti per la sua strada, e il 26 giugno (del 2013) i senatori si rimettono all ’ opera. Dieci
giorni dopo, èil 2 luglio, dinuovosirinvia. I senatori Enrico Buemi (socialista) e Lucio Barani
(Gal) sono perplessi: “Una materia così delicata e importante dovrebbe essere trattata in
modo più organico”. È il presidente Nitto Palma, a dire che non ci si può fermare. Qualsiasi
ritardo, tuona, sarebbe “difficilmente giustificabile sia in considerazione dell’importanza
della materia da esso affrontata, sia anche in relazione al prestigio istituzionale del primo
firmatario”. Siamo ancora nel 2013, precisamente il 17 luglio. Giacomo Caliendo (Pdl) non
è convinto: il ddl 19 “appare ispirato a una logica panpenalistica”. Passa l’estate. E pure l ’
autunno. All ’ inizio del 2014, Nitto Palma la prende sul personale: in Aula alla Camera il 5
Stelle Vittorio Ferraresi si è permesso di dire che bisognerebbe “suonare il campanello al
presidente Palma”. Tradotto, dorme. Nitto Palma non ci ha più visto e in una lettera a
Grasso elenca tutti gli imprevisti degli ultimi sei mesi: la pausa estiva, le vacanze di Natale,
la sessione di Bilancio… non è colpa sua se il calendario procede a singhiozzo. L’anno
nuovo non comincia meglio: si rinvia il 15 gennaio, non prima però che il senatore Carlo
Giovanardi, Ncd, avverta: bisogna “mantenersi prudenti nell’attività normativa volta a
prevenire la corruzione”. Febbraio passa invano, a marzo Nitto Palma è di nuovo pieno di
“disappunto per le reiterate critiche manifestate circa la presunta lentezza dei tempi di
esame in Commissione”. Dice: basta, chiudiamo entro domani la discussione generale. A
fine maggio, arrivano i guai Expo. Giovanardi si lamenta, non facciamoci mettere fretta dai
giudici. Buemi mette in guardia dalla “scia emotiva”. Ma il 14 maggio il relatore D’Ascola
scrive il testo unificato: qualcosa si muove.
È IL 3 GIUGNO 2014 quando il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri si presenta in
commissione. Annuncia che “il Governo è orientato a presentare un disegno di legge
riguardante i tre ambiti normativi sui quali insiste il testo unificato adottato dalla
Commissione”. Fermatevi, li prega, e chiede un mese di tempo. La commissione abbozza,
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contrari solo i 5 Stelle: “L’intervento normativo del Governo in una fase tanto avanzata del
procedimento rallenterebbe o addirittura ostacolarebbe l’approvazione del testo”. Il 10
luglio è costretto ad ammetterlo anche il presidente Nitto Palma: “I lavori in Commissione
hanno subito una decelerazione quando, poco più di un mese fa, il governo ha annunciato
di voler presentare una propria iniziativa su tale materia”. La pausa doveva durare 30
giorni: “È evidente che essendo trascorso tale termine, si potrebbe procedere alla
votazione dei relativi emendamenti”. Ma siccome nel frattempo alla Camera “è stato
approvato un emendamento che innova interamente la disciplina del reato di riciclaggio”,
materia di cui si occupa anche il ddl Grasso, bisogna “evitare inconvenienti e
incongruenze procedurali”. C’è da aspettare, dice Palma, “fermo restando che la
sospensione dell’esame non potrà protrarsi ancora per molto tempo”. Eppure, passa
un’altra estate. E pure un altro autunno. È a quel punto che Pietro Grasso sbotta: “Mi
chiedo quali interessi blocchino la mia legge sull’anticorruzione”. Ecco la Befana. Il 7
gennaio “prosegue l’esame, sospeso nella seduta del 3 giugno”. C’è anche il ministro della
Giustizia Andrea Orlando. Con sé ha 12 emendamenti. Dice che il “fenomeno corruttivo –
come si rileva anche dalle vicende giudiziarie che stanno interessando i grandi appalti
pubblici dell’Expo di Milano, del Mose di Venezia e, da ultimo, la gestione della cosa
pubblica nella Capitale – è di allarmante attualità”.
Del 16/01/2015, pag. 24
La camorra traffica anche sui vestiti usati
Affare da milioni, l’ombra di Mafia capitale Inchiesta sulla gestione di
1.300 tonnellate di «rifiuti tessili»: 14 arresti. I legami con le coop di
Buzzi
ROMA Inizialmente era un’indagine sul traffico di vestiti usati, quelli raccolti negli appositi
cassonetti in molte città e destinati — dopo adeguati trattamenti di pulizia e igiene — ai più
bisognosi. Un servizio pubblico nel quale s’era infiltrato il malaffare e probabilmente una
fetta di camorra napoletana: gli abiti donati venivano raccolti da società e cooperative
gestite da personaggi che non si dedicavano ad alcuna lavorazione (oppure lo facevano
solo parzialmente) e poi spedivano clandestinamente i carichi verso l’Africa e l’Est
europeo. Una truffa che garantiva spese ridotte rispetto a quelle da sostenere rispettando
le procedure, e guadagni maggiorati.
Questo ha accertato l’indagine della Squadra mobile di Roma, facendo ipotizzare alla
Procura un’associazione a delinquere che nel solo 2012 ha prodotto un giro d’affari di oltre
un milione e mezzo di euro: circa 1.300 tonnellate di «rifiuti tessili» gestiti fuori dalle
regole, lucrando sulla generosità dei cittadini e l’aiuto agli indigenti. Ma i magistrati
ipotizzano il trattamento fraudolento di almeno «12.000 tonnellate, con conseguente
possibilità di guadagno di vari milioni di euro». Nonché l’estensione della truffa a zone
sempre più vaste del Paese.
Poi è arrivata l’inchiesta su «Mafia capitale» e le cooperative gestite da Salvatore Buzzi,
considerato il «grande corruttore» della politica e dell’amministrazione capitolina, oltre che
«anima imprenditoriale» della presunta associazione mafiosa guidata da Massimo
Carminati. E allora il giudice dell’indagine preliminare Simonetta D’Alessandro, che ieri ha
ordinato l’arresto di quattordici persone, ha voluto inserire anche questa speculazione nei
possibili interessi del gruppo criminale. Perché tutto passa per l’Ama, l’Azienda
municipalizzata a cui fa capo anche quel tipo di raccolta differenziata, sulla quale — nel
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periodo in cui era sindaco Gianni Alemanno, lo stesso coperto dalle verifiche della Mobile
— «Mafia capitale» avrebbe esercitato un forte condizionamento.
«L’Ama registra nomine volute dalla consorteria mafiosa — accusa il gip D’Alessandro —,
riconducibili direttamente ai disegni di Carminati e Buzzi, rimozioni parimenti targate e
contatti corruttivi continuativi». Un «sistemico e patologico intreccio tra delitti di criminalità
organizzata e distorsione dell’azione amministrativa», in cui il magistrato contestualizza
anche quest’altra storia. Una delle persone coinvolte nell’indagine sul traffico di indumenti
è la stessa che nell’inchiesta per mafia risultò accordarsi con Buzzi per rinunciare a un
appalto per la manutenzione dei giardini nelle ville storiche alla quale era interessato il
presunto socio occulto di Carminati. Un patto a metà tra intimidazione e promesse di affari
futuri, che secondo l’accusa risponde a una precisa logica (mafiosa) per la spartizione
degli affari realizzati col denaro pubblico. Ora i controlli sulla raccolta dei vestiti regalati dai
cittadini che stanno meglio a quelli più poveri alza il velo su un nuovo aspetto del
malaffare. Il trattamento dei panni da riciclare veniva assegnato con procedure agevolate
ad associazioni «non profit» come le cooperative, proprio per le sue caratteristiche
«sociali»; garantendo — nelle intenzioni — un sostegno alle persone disagiate e il rispetto
di norme igieniche rigorose. Invece gli abiti venivano presi e portati negli stabilimenti dove
dovevano essere lavati e disinfettati, ma la procedura non era rispettata per niente, o solo
in minima parte.
I camion per i trasporti venivano stipati di indumenti chiusi negli stessi sacchetti lasciati dai
donatori, e solo l’ultima fila, quella visibile a un’ispezione superficiale, era composta dagli
appositi sacchi bianchi riempiti con le stoffe trattate regolarmente. La polizia l’ha verificato
su un camion fermato il 28 novembre 2012, e una e-mail inviata da uno degli arrestati al
destinatario del carico in Tunisia ne spiegava il motivo: «Sono cominciati dei controlli nei
porti per vedere se la merce è stata completamente igienizzata. Spero che hai capito. Dillo
anche ai nostri clienti. Quando passerà questo momento ricomincio a fare quello che
abbiamo sempre fatto». A Roma e in un numero sempre maggiore di altre città, come
emerge dalle conversazioni intercettate. Le società gestite dagli indagati, riferiscono gli
inquirenti, «stanno espandendo la loro competenza su diversi comuni del territorio
nazionale. In particolare è in via di conclusione un contratto con la Caritas per la raccolta
degli indumenti usati presso i Comuni di Bergamo e Brescia. Il giro di affari è
impressionante poiché si parla di numerosi quintali di materiale da poter rivendere».
I camion viaggiavano con documentazione falsificata che certificava «processi di
trattamento e recupero» mai avvenuti. Nella ricostruzione dell’accusa la centrale di
raccolta era in Campania, gestita dal clan di camorra (ora disciolto, specificano gli
investigatori) dei fratelli Cozzolino. Uno dei quali — Aniello, tra i destinatari dell’ordine di
arresto — risulta latitante in Sud Africa da tempo. Proprio in Sud Africa era indirizzata,
secondo gli inquirenti, una parte degli abiti sottratta alla gestione regolare. Non tutta,
scrive il gip, «dal momento che molti carichi raggiungono anche l’Europa dell’Est e
vengono presumibilmente collocati nel Maghreb».
Giovanni Bianconi
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CULTURA E SCUOLA
del 16/01/15, pag. 45
IL BILANCIO DEL 2014
Il cinema perde 6 milioni di spettatori ma
cresce la quota dei film europei
FRANCO MONTINI
ROMA .
Il 2014 è stato un anno difficile per il box office italiano: nelle sale monitorate da Cinetel,
una sorta di Auditel del cinema, che controlla giornalmente il 93% dell’intero mercato, si
sono staccati 91,4 milioni di biglietti, 6 in meno dell’anno precedente. Un risultato
determinato dalla mancanza di un film fenomeno come Sole a catinelle con Zalone, che
nel 2013, richiamò in sala oltre 8 milioni di spettatori, ma anche da una demenziale politica
distributiva per ciò che riguarda in particolare la produzione italiana. Da aprile a settembre
non è arrivato in sala nessun titolo di un certo rilievo, in compenso fra ottobre e novembre
sono state distribuite una decina di commedie popolari, molto simili, spesso con gli stessi
attori, che si sono cannibalizzate fra loro, impedendo ad ogni titolo di essere sfruttato
come avrebbe potuto.
Adesso distributori e produttori, presenti ieri, insieme agli esercenti, alla conferenza
stampa di presentazione dei dati di mercato 2014, promettono novità, ma il rischio è che,
come in passato, alle parole non seguono i fatti. La cosa è tanto più clamorosa se si pensa
che il film di maggiore incasso in assoluto del 2014, Maleficent, capace di rastrellare oltre
14 milioni di euro, è approdato in sala a fine maggio. Per la prima volta nella storia del
cinema italiano il film più visto dell’anno è un’uscita estiva, a dimostrazione che se il
prodotto è valido si possono realizzare exploit sorprendenti anche nei mesi caldi, come del
resto avviene in tutto il mondo. Un altro elemento che merita attenzione, soprattutto in
relazione al calo di interesse sia nei confronti dei film italiani, sia di quelli Usa, è la grande
crescita della produzione europea. Lo scorso anno i film prodotti nel vecchio continente
totalizzarono complessivamente 10 milioni di spettatori, quest’anno sono diventati 15
milioni, con un aumento percentuale di oltre il 50%. Sono numeri che segnalano un
desiderio di novità.
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ECONOMIA E LAVORO
Del 16/01/2015, pag. 6
La Ue ci boccia sui giovani: “Per loro ancora
troppo poco”
Il rapporto sul lavoro. Secondo Bruxelles sono bassi gli investimenti su
istruzione e formazione, come resta insufficiente l'intervento sulle
donne. Dall'inizio della crisi, nel 2008, l'Italia ha perso 1,2 milioni di posti
Nel giorno in cui il commissario europeo Jyrki Katainen visita l’Italia, escono dati poco confortanti sulla nostra occupazione. Anche questi, vengono da Bruxelles, e si tratta in particolare del rapporto Ue sull’occupazione. Il dato più negativo per l’Italia è quello che
riguarda i posti persi dall’inizio della crisi: a partire dal 2008, sono ben 1,2 milioni.
Rappresenta il secondo dato peggiore in tutta l’Unione europea. La Spagna ha fatto di
meglio (si fa per dire), bruciando 3,4 milioni di posti. Male anche la Grecia, che ne ha persi
un milione (ma parliamo di poco più di 11 milioni di abitanti, a fronte dei 60 milioni
dell’Italia). Situazione opposta per la Germania, che dal 2008 è riuscita a creare 1,8 milioni
di nuovi posti di lavoro, seguita dalla Gran Bretagna, con 0,9 milioni. Quindi, per questi
due stati, un trend decisamente positivo.
Ma dati a parte, la Commissione Ue ci ha soprattutto bacchettato (a differenza del commissario Katainen, che questa volta ha voluto mettere in evidenza i lati positivi): facciamo
«troppo poco per i giovani».
L’Italia, secondo il rapporto Ue, non investe su istruzione e formazione e non crea le condizioni strutturali per favorire l’occupazione femminile. Bruxelles pone l’accento sulla
necessità di investire in capitale umano, soprattutto in quei Paesi, come il nostro, dove la
disoccupazione è molto elevata e i giovani con titoli di studio superiore sono ancora troppo
pochi. «Le politiche per affrontare la bassa partecipazione dei giovani al mercato del
lavoro sembrano limitate» in Italia, che ha anche «il numero più basso in Europa di laureati
tra i 30 e i 34 anni», un fattore che incide sulla disoccupazione giovanile e che «necessita
di ulteriori sforzi», spiega il rapporto.
«La situazione economica e dell’occupazione è ancora fragile, ma i Paesi che hanno investito in istruzione e formazione hanno visto il trend dell’occupazione migliorare», ha detto
a commento del report la commissaria al Lavoro Marianne Thyssen, che chiede inoltre
l’«urgente attuazione delle riforme strutturali», e di «investire nel capitale umano con una
migliore istruzione».
Secondo i tecnici di Bruxelles, in Italia l’investimento in formazione è scarso, così come il
livello di istruzione terziaria. E i tagli sono diventati «seri» negli ultimi anni, nonostante «i
livelli di partenza non fossero elevati».
Andrebbe quindi aumentato l’investimento pubblico, che farebbe da traino a quello privato,
come dimostrano gli stessi studi portati ad esempio dal rapporto. Uno dei modi per aiutare
l’occupazione è non solo investire in istruzione ma anche creare le «condizioni strutturali»,
come ad esempio gli asili per far partecipare le donne visto che — stando ai dati Ue — nel
2013 il 47% dei lavoratori scoraggiati erano donne tra i 25 e i 50 anni, la percentuale più
elevata d’Europa dopo la Grecia.
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Del 16/01/2015, pag. 12
Franco record, la Svizzera spiazza i mercati
Euro in discesa dopo la decisione a sorpresa della Banca centrale di
sganciarsi dalla moneta unica
Per le Borse è l’anticipo delle mosse Bce previste per la settimana
prossima sull’acquisto di titoli di Stato
Lo sganciamento a sorpresa del franco svizzero dall’euro, che ieri ha fatto volare la valuta
elvetica lancia di fatto il Quantitative easing (QE) in Europa, cioè l’acquisto massiccio di
titoli di Stato che la Bce dovrebbe votare già giovedì prossimo per combattere il rischio
deflazione. E questa prospettiva, data ormai per certa dagli investitori, ha indebolito
ulteriormente l’euro, che ha toccato un nuovo minimo storico a 1,1567 dollari, salvo risalire
sopra quota 1,16 in serata.
Ieri la Banca nazionale svizzera (Snb) ha tolto il tetto di 1,20 al cambio tra franco ed euro,
messo nel 2011 in piena crisi dei debiti sovrani, per impedire alla divisa elvetica di
rafforzarsi troppo, danneggiando la competitività dell’economia svizzera, e ha portato il
tasso benchmark a -0,75% dal precedente -0,25%. Due mosse che hanno stupito i mercati
e hanno fatto subito schizzare verso l’alto il franco, salito di oltre il 30% sull’euro, fino a
0,8544 dal precedente 1,2010. Però con il passare delle ore il cambio ha cominciato a
recuperare stabilizzandosi intorno alla parità. Verso le 21.30, il cambio era a 1,01 (+16%)
sull’euro, e 0,8704 sul dollaro (+14,56%), mentre la Borsa di Zurigo chiudeva a -8,67%,
ma a un certo punto era arrivata a perdere il 12%, con beni di lusso e banche a picco.
L’inversione a U della Snb, che all’inzio dell’anno aveva ribadito l’importanza del tetto sul
cambio con l’euro, definendolo una pietra miliare, è stato un choc per tutti. «L’azione della
Snb è uno tsunami per l’industria che esporta, per il turismo e infine per l’intero Paese», ha
affermato Nick Hayek, Ceo del gruppo di orologeria Swatch, che ieri sul listino di Zurigo ha
ceduto il 16,35%. Per James Stanton, capo dei cambi di deVere Group, una delle maggiori
società di consulenza finaziaria, si è trattato di soprattutto di «panic selling», perché «una
banca centrale non agisce in modo così drammatico molto spesso», perciò «ha colto di
sorpresa i mercati», prevedendo «più volatilità nel breve periodo», con un cambio che alla
fine si assesterà «intorno alla parità».
Perfino Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario, è stata colta in
contropiede, ma la sua sorpresa è soprattutto di non essere stata contattata prima».
Il presidente della Snb, Thomas Jordan, però ha difeso la decisione: «Meglio agire ora che
fra 6 o 12 mesi, quando sarebbe più doloroso. Se si è deciso di abbondare una certa
politica, bisogna prendere di sorpresa i mercati», ha spiegato. Ma la scelta di intervenire
giusto una settimana prima della riunione della Bce, il 22 gennaio, ha alimentato la
speculazione che lo schema di QE messo a punto dal presidente dell’Eurotower, Mario
Draghi, sarà così ampio che la Snb avrebbe avuto grandi difficoltà a difendere il franco.
Con il rischio di pagare a caro prezzo il progressivo indebolimento dell’euro, di cui ha
accumulato grandi riserve. Ci credono anche le Borse, tutte positive tranne Atene (ma è
un’altra storia), con Milano migliore listino continentale (+2,26%).
Insomma, una scelta inevitabile che gioca d’anticipo sul QE dell’Eurotower. Con buona
pace del presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, contrario a ogni ipotesi di
acquisto di bond. «L’Avvocato generale della Corte di Giustizia europea ha sottolineato
che l’involucro giuridico della Bce è fuori discussione, il che significa che oltre al divieto di
finanziamento monetario, la Banca non può perseguire una politica economica», ha detto
ieri. Le strategie monetarie dividono: alcune stazioni di servizio svizzere ieri non
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accettavano euro, mentre è stata segnalata una corsa ad accaparrarsi franchi agli sportelli
di banche e ai bancomat.
Giuliana Ferraino
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