UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA
DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI
Corso di dottorato di ricerca in
Scienze linguistiche, filologiche, letterarie e storico-archelogiche
Curriculum in
Interpretazione, filologia dei testi, storia della cultura
CICLO XXVI
Titolo della tesi
Identità e alterità del personaggio medievale:
attraverso i testi antico francesi della leggenda di Tristano
RELATORE
Chiar.mo Prof. Massimo Bonafin
DOTTORANDO
Dott. Teodoro Patera
COORDINATORE
Chiar.mo Prof. Massimo Bonafin
ANNO 2014
Indice
Introduzione. L’oltre del personaggio
5
Capitolo I. Note per una teoria del personaggio. L’être inexistant
1. Un intervallo tra l’essere e il non essere
2. L’identità negata
3. Il vortice della discorsività e la logica della ridefinizione
4. Il personaggio significante
5. Dalla leggenda alla letteratura: Sigfrido non è Don Chisciotte
6. Il personaggio medievale: un anacronismo?
7. Mimesi, identificazione
8. Un condensatore relazionale e anaforico
13
18
22
25
30
35
40
51
Capitolo II. Il Tristano di Ferdinand De Saussure: dalla fonte all’immagine sfocata
1. Non si tratta che di saltare da un letto all’altro senza toccare la farina
2. La materia inerte che il pensiero ordina
3. L’immagine sfocata
59
71
76
Capitolo III. Ostensioni e latenze dell’identità nelle Folies Tristan
1. L’oltre del testo, l’oltre del personaggio
2. Dall’eroe dai mille volti all’eroe senza volto
3. Un personaggio liminale
4. Immagini perdute
83
88
97
103
Capitolo IV. Fluttuazioni del personaggio
1. La visione fantasmatica del nostalgico
2. Doppio e castità
3. Immunità-non immunità all’eros: verso una polifonia dei personaggi
4. La maschera di Thomas
5. Fluttuazioni metadiegetiche
6. Desiderio, narrazione, spersonalizzazione
113
122
130
142
145
151
Capitolo V. Tristano (e Isotta): l’ombra dell’eroe
1. Una visione prospettica
2. Un tempo duplice: la storia perduta
3. Eccesso e abbassamento
157
171
183
Conclusioni
193
Bibliografia
203
Introduzione
L’oltre del personaggio
Le questioni di teoria letteraria si sentono spesso obbligate a interrogare l’autorità di
Aristotele – oggetto altrettanto spesso di un’assunzione acritica – e la questione del
personaggio non deroga certamente alla norma. Si rintraccerà lì il primo nucleo di
quell’operazione di depauperamento ontologico (ma anche, direi, logico) che troverà raffinate
e complesse elaborazioni sotto l’impulso della critica formalista e strutturalista, per la quale
Amleto è esattamente ciò che Shakespeare ci dice che sia1, e degli scrittori dell’ère du
soupçon, per i quali il personaggio apparteneva a un’epoca superata che rappresentava
«l’apogée de l’individu»2.
Per la Poetica la tragedia, si sa, è imitazione di azioni, di cui il personaggio, l’èthos, è,
nell’inaugurazione di una sua definizione funzionalista, mero supporto, subordinato al
protagonismo dell’intrigo3 e di cui la tragedia potrebbe anche fare a meno: senza azione non
potrebbe esserci tragedia, mentre senza caratteri sì. La tragedia potrà ottenere – anzi, la buona
tragedia dovrebbe ottenere – gli effetti di paura e pietà anche attraverso il solo ascolto del
mythos, indipendentemente cioè dall’opsis, la vista, la messa in scena, la forma spettacolare4.
È proprio nell’atteggiamento di Aristotele rispetto all’elemento visuale della tragedia,
atteggiamento ambiguo, come hanno messo in luce gli storici del teatro5, che credo si possa
trovare un luogo privilegiato per ridefinire la posizione della Poetica nella sua valutazione del
personaggio tragico, di là dalle righe che gli sono dedicate.
1
Margaret MACDONALD, «Le langage de la fiction» (1954), in Gerard GENETTE, a cura di, Esthétique et
poétique, Paris, Seuil, 1992, pp. 203-228, p. 221.
2
Alain ROBBE-GRILLET, Pour un nouveau roman, Paris, Gallimard, 1964, p. 33. Si rimanda inoltre a
Natalie SARRAUTE, L’ère du soupçon, Paris, Gallimard, 1964.
3
ARISTOTELE, Poetica, Introduzione di Franco MONTANARI, a cura di Andrea BARABINO, Milano,
Mondadori, 1999, cap. VI, 1450a-b.
4
Ivi, cap. XIV, 1453b.
5
Per l’opsis in Aristotele si vedano: Maria Grazia BONANNO, «Opsis e Opseis nella Poetica di Aristotele»,
in Letteratura e riflessione sulla letteratura nella cultura classica, Atti di convegno, Pisa, 7-9 giugno 1999, a
cura di Graziano ARRIGHETTI, Pisa, Giardini, 2000, pp. 402-411; Id., «Sull’opsis aristotelica. Dalla Poetica al
Tractatus Coislinianus e ritorno», in Luigi BELLONI - Vittorio CITTI - Lia DE FINIS, a cura di, Dalla lirica al
teatro. Nel ricordo di M. Untersteiner 1899/1999, Atti del Convegno Internazionale di studio, Trento, 25-27
febbraio 1999, Trento, Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche, 1999, pp. 251-278; Marco DE MARINIS,
Visioni della scena. Teatro e scrittura, Roma-Bari, Laterza, 2004, pp. 5-17.
Se l’allestimento, l’opsis, è quello dei sei elementi della tragedia più estraneo all’arte
poetica, resta per Aristotele quello che «comprende tutto»6. L’oscillazione tra un
deprezzamento – se non disprezzo – per la messa in scena e l’emersione timida ma chiara di
una sua autonomia sarebbe dovuta alla particolare condizione storica dell’evento spettacolare
nella Grecia del IV secolo a.C., condizione che avrebbe chiamato Aristotele alla missione, più
politica che filosofica, di attutire gli effetti ammalianti dell’evento teatrale e, in particolare, il
prestigio di cui godevano presso il popolo gli attori7. Dirà Aristotele nella Retorica: «oggi gli
attori hanno maggiori pretese degli autori»8. Da qui a leggere in prospettiva l’ambiguità della
posizione aristotelica sulla messa in scena e la sua definizione di èthos, e a problematizzare
conseguentemente la visione aristotelica di personaggio come semplice agente, il passo mi
pare breve, e sembra che gli studiosi di teatro abbiano interrogato il primo testo di teoria
letteraria con maggiore, e più produttiva, elasticità dei teorici del personaggio.
Del resto, una lettura dalle facili estremizzazioni non ha risparmiato neanche l’altro testo,
Morfologia della fiaba di Vladimir Propp9, eretto a emblema della condanna del personaggio
a essere subordinato alla funzione, al significato delle sue azioni nell’economia generale del
racconto. Nel quinto capitolo del saggio, Altri elementi della favola, Propp parla di
«motivazioni»:
Per motivazioni intendiamo tanto i moventi quanto i fini che determinano i diversi
interventi dei personaggi. Essi conferiscono talvolta alla favola un colore e
un’efficacia particolari, ma ne rappresentano tuttavia le componenti più instabili e
incostanti e sono inoltre assai meno chiare e definite delle funzioni o degli elementi di
raccordo10.
Dedica poi il sesto capitolo alla Distribuzione delle funzioni secondo i personaggi, precisando
che, nonostante la sua analisi s’imperni sulle «funzioni in quanto tali e non chi le esegue, né
gli oggetti attraverso i quali si esplicano, è tuttavia opportuno esaminare come esse si
distribuiscano secondo i personaggi»11. Ancora, nel capitolo successivo, in un’appassionata
illustrazione del motivo della «nascita miracolosa dell’eroe»12, sembra tentato da una
6
ARISTOTELE, Poetica, 1450a, 13ss.
De Marinis parla di una strategia del ridimensionamento della «forza di seduzione dello spettacolo» e, a
proposito delle interpretazioni che hanno visto in Aristotele il sostegno a un primato del testo sull’evento
spettacolare, di una «ipersemplificazione prescrittiva di una posizione sfaccettata e non priva di sofferenze» (DE
MARINIS, Visioni della scena. Teatro e scrittura, p. 12, p. 16).
8
ARISTOTELE, Retorica, Introduzione di Franco MONTANARI, a cura di Marco DORATI, Milano, Mondadori,
1996, III, 1403b.
9
Vladimir J. PROPP, Morfologia della fiaba (1928), Torino, Einaudi, 1988.
10
Ivi, pp. 80-81.
11
Ivi, p. 85.
12
Ivi, p. 91.
7
6
descrizione degli attributi che l’eroe futuro rivela sin dalla nascita, ma s’interrompe chiosando
che non può occuparsi esaustivamente di tutti gli attributi dell’eroe e che, se è vero che alcuni
di essi si convertono in azioni, «queste non costituiscono funzioni dello sviluppo narrativo»13.
Motivazioni, attributi, colori – instabili e incostanti – in quello cui si guarda come a una
sorta di trattato antipsicologico del personaggio. Si direbbe invece che tra le righe del saggio
di Propp si profili un’ombra, quella di un personaggio da intendersi nella sua complessità
psicologica e antropologica, che resta un polo d’attrazione, una qualche entità sospesa la cui
ramificata articolazione fa desistere da un tentativo di analisi, ma, insieme, ne ripresenta
costantemente la tentazione.
Per Šklovskij14 e Tomaševsky15 era un «filo», un collante delle azioni che assicura
coesione nella frammentazione dei motivi, agente di concatenamento delle sequenze, per nulla
necessario alla fabula, che «in quanto sistema di motivi, può benissimo fare a meno di lui e
della sua caratterizzazione»16. Nella rigorosa operazione di ridimensionamento della categoria
del personaggio condotta dai formalisti, non ci si può però lasciare sfuggire un appunto di
Tynianov17, che, trovandosi davanti all’anomalia per cui lady Macbeth dice di aver allattato e,
poco dopo, di non aver avuto figli, si appoggia all’autorità di Goethe – secondo cui l’autore fa
dire ai suoi personaggi quello che è giusto dire in un preciso momento, senza preoccuparsi di
contraddizioni tra gli enunciati che lo pongono in essere –, arrivando a teorizzare l’instabilità
del personaggio, l’inconsistenza e la non necessità di un eroe statico. Tynianov demolisce così
la pretesa aristotelica di coerenza del carattere18, della sua «unità statica»19, e, se è vero che il
suo apporto mira a salvaguardare il dinamismo del testo dall’eventuale autonomia di un
personaggio chiuso nella sua stabilità, sfiora tuttavia, oltre le proprie intenzioni, l’idea di un
13
Ibid. Tra parentesi, possiamo annotare come Propp colga qui, en passant, una caratteristica dell’eroe
mitologico cui largo spazio dedicheranno, un ventennio dopo, Kerényi e Jung nella loro idea di personaggio del
mito come non sottoposto a una legge di evoluzione nel tempo, ma dotato sin dalla nascita di tutti i tratti che lo
contraddistingueranno da adulto (Carl G. JUNG - Károly KERÉNYI, Prolegomeni allo studio scientifico della
mitologia, Torino, Bollati Boringhieri, 1999).
14
Viktor B. ŠKLOVSKIJ, «La struttura della novella e del romanzo» (1929), in Tzvetan TODOROV, a cura di,
I formalisti russi, Torino, Einaudi, 1968, pp. 205-229 (a p. 227 si legge: «Gil Blas non è affatto un uomo, è un
filo che cuce insieme gli episodi del romanzo – ed è un filo grigio»).
15
Boris TOMAŠEVSKY, «La costruzione dell’intreccio» (1928), in TODOROV, I formalisti russi, pp. 305-350
(«Tale figura funge insomma da filo conduttore che dà modo di orizzontarsi nella massa dei motivi e costruisce
uno strumento ausiliare per la loro classificazione e il loro ordinamento», p. 337).
16
Ivi, p. 340.
17
Jurij TYNIANOV, «Il concetto di costruzione» (1924), in TODOROV, I formalisti russi, pp. 119-124, alle pp.
120-121.
18
ARISTOTELE, Poetica, cap. XV, 1454a, 26ss.
19
TYNIANOV, «Il concetto di costruzione», p. 121.
7
funzionamento del personaggio che è un disfunzionamento, ne fa emergere la natura di
movimento non evolutivo ma illogico, spezzato, incurante della non-contraddizione.
Si ha insomma l’impressione che, nell’alveo di quelle che sono le basi teoriche dello
scatto progettuale formalista-strutturalista di ridimensionamento del mito del personaggio
creato dalla letteratura sette-ottocentesca, tra le pieghe delle posizioni più tenacemente
testualiste, qualcosa sfugga, e che la prospettiva di un oltrepassamento sia insita nel progetto
stesso.
Isterilito nelle sue potenzialità di rimando alla sfera dell’esistente, del reale, della storia,
deprivato di qualunque diritto ontologico, «être sans entrailles» annoverabile tra «quelle
credenze che hanno in comune l’oblio della condizione verbale della letteratura»20, «wordmass»21 identificabile esclusivamente con quel misurato numero di parole che lo segnala
all’interno di un testo, «pseudo-oggetto del discorso», prodotto testuale che solo il discorso,
vero protagonista dell’evento letterario, crea22, il personaggio resta nondimeno un conto in
sospeso, fantasma mai annientato ma semmai oggetto di una messa tra parentesi.
Se è innegabile, certo, che uno studio del personaggio non possa che partire da un’analisi
di una serie di enunciati, è anche vero che non si potrà identificarlo esclusivamente con le
frasi pronunciate da lui o su di lui, perché rispetto a quelle frasi un personaggio si pone come
debordamento: è su quel debordamento che è necessario interrogarsi. Un personaggio – e
questo sarà il filo del nostro percorso – non si presta, come non vi si presta il soggetto, alla
stretta coincidenza con qualcosa. Il personaggio, come il soggetto, è individuo irretito nella
parola di un altro individuo che subito lo de-individualizza, oggetto di linguaggio che rifiuta il
posizionamento di un’essenza per farsi invece attraversamento, processualità, movimento più
che luogo del movimento, oltrepassamento dell’identico, alterità simultanea al suo essere
posto23.
Il lavoro qui presentato s’inserisce nel progetto di ricerca Tipologie e identità del personaggio
medievale fra modelli antropologici e applicazioni letterarie, promosso dall’Università di
20
Paul VALERY, «Littérature», in Id., Oeuvres, II, Paris, Gallimard, 1960, pp. 545-570, p. 569.
Edward M. FORSTER, Aspects of Novel (1927), London, Edward Arnold LTD, 1949, p. 44.
22
Gerard GENETTE, Nuovo discorso del racconto, Torino, Einaudi, 1987, pp. 116-7.
23
«Non dobbiamo pensare al soggetto come a un’individualità inizialmente chiusa, che successivamente si
apre alla realtà esterna e al mondo intersoggettivo: la sua identità è relazionale fin dall’inizio, e ciò che meglio la
definisce è la non-coincidenza. Il soggetto risulta alienato sin dall’origine, «gettato nel mondo» (come ha detto
Heidegger), cioè gettato in relazioni, e non circoscritto da proprietà (Giovanni BOTTIROLI, Che cos’è la teoria
della letteratura. Fondamenti e problemi, Torino, Einaudi, 2006, p. 267).
21
8
Macerata e coordinato da Massimo Bonafin. Questo è a sua volta inserito nel più ampio
progetto PRIN, attivato nel 2008, Passato e futuro del medioevo. Figure dell’immaginario
(PRIN 2008WY7TXK_003), coordinato da Mario Mancini e finalizzato, come si leggeva
nella nota riservata agli obiettivi, a «una ricerca dedicata all’emergere della soggettività
medievale», la quale «può forse contribuire alla comprensione delle questioni legate al
processo dialettico della costruzione del soggetto tout court».
Non si è trattato, in questa sede, d’interrogarsi su una definizione di soggetto nel
medioevo, secondo una prospettiva storica, ma di focalizzare l’analisi sull’idea di soggetto
veicolata dal corpus dei primi frammenti in antico francese di una leggenda, quella di
Tristano e Isotta, destinata a segnare profondamente la tradizione letteraria (e non solo
letteraria) europea.
I testi del Roman de Tristan del XII secolo mi sono parsi un ricco laboratorio in cui
tentare di problematizzare l’asserto, piuttosto condiviso (cfr. infra I.6), per il quale il
personaggio medievale, distante dalla moderna idea di personaggio, sia da intendersi come la
concretizzazione di una maschera fissa, di un tipo, un prototipo, un modello, estraneo a una
visione complessa e articolata dell’individuo. Incapace di «franchir la barrière du cogito, ergo
sum»24, il personaggio medievale sarebbe, come una statua di marmo, «figé dans une pose
éternelle»25, concretizzazione di un’essenza, di una «quiddité hors du temps» che «exclut
toute évolution»26.
Alcuni recenti studi27 hanno intuito la possibilità di rintracciare, attraverso l’applicazione
ai testi medievali di teorie critiche moderne, una visione del personaggio come processo,
come rete in cui s’intrecciano elementi eterogenei. È evidente, infatti, come anche il solo
postulato semiologico di Philippe Hamon sulla costruzione relazionale dell’essere di finzione
possa ovviare all’identificazione del personaggio medievale con uno schema rigido:
In quanto concetto semiologico, il personaggio può essere definito, ad un primo
approccio, come una sorta di morfema articolato, morfema migratorio manifestato da
24
Pierre BERTHIAUME, Personae et personnage dans les récits médiévaux. L’illusion anthropomorphique,
uébec, Presses de l’Université Laval, 2
, p. 3 .
25
Ivi, p. 147.
26
Ivi, p. 146.
27
Cfr. Virginie GREENE, Le sujet et la mort dans La mort Artu, Saint-Genouph, Nizet, 2002; Dominique
DEMARTINI, «Le discours amoureux dans le Tristan en prose. Miroir et mirage du je», in Brigitte M. BEDOSREZAK - Dominique IOGNA-PRAT, a cura di, L’individu au Moyen Age. Individuation et individualisation avant
la modernité, Paris, Editions Flammarion, Aubier, 2005, pp. 145-165; Bénédicte MILLAND-BOVE, La
Demoiselle arthurienne. Ecriture du personnage et art du récit dans les romans en prose du XIIIe siècle, Paris,
Champion, 2006.
9
un significante discontinuo (un certo numero di contrassegni) che rinvia ad un
significato discontinuo (il senso e il valore del personaggio). Verrà pertanto definito
da un fascio di relazioni di rassomiglianza, di opposizione, di gerarchia e di
organizzazione (la sua distribuzione) che esso stabilisce, sul piano del significante e
del significato, successivamente o/e simultaneamente, con gli altri personaggi ed
elementi dell’opera, e ciò in un contesto vicino (in praesentia: gli altri personaggi
dello stesso romanzo, della stessa opera) o in un contesto lontano (in absentia: gli altri
personaggi dello stesso genere)28.
Anche ammesso che il personaggio della letteratura medievale coincida con una serie di tratti
riferibili a una maschera nota, la riflessione di Hamon (che, come si vedrà, apre a un ampio
ventaglio di compromissioni antropologiche e psicoanalitiche) invita a interrogarsi su come
questo modello funzioni sul piano sintagmatico delle relazioni tra personaggi, su come
s’incarni nella scrittura, invita a chiedersi su quali possibili elaborazioni di senso esso
indirizzi la lettura.
Gli studi di cui si diceva si sono concentrati per lo più sulla produzione in prosa del XIII
secolo: la prassi romanzesca, più consapevole dei propri strumenti rispetto agli esordi, mostra
ormai a quest’altezza cronologica una certa abilità nel creare un tessuto di scrittura da cui
emerga l’immagine di un soggetto complesso, sempre diviso tra identità e alterità. Mi è
sembrato opportuno, però, riflettere sulla possibilità di rintracciare una simile complessità
anche nei più timidi (e, purtroppo, meno documentati dalla tradizione manoscritta) primi passi
del romanzo europeo. Con l’ausilio di un adeguato bagaglio teorico e metodologico, ho riletto
i testi tristaniani cercando di ricavarne le dinamiche identitarie che li attraversano, con la
convinzione che un’analisi dello statuto dell’identità finzionale possa illuminare le intime
logiche diegetiche attive nella testualità e svelare isotopie non immediatamente afferrabili.
Già nel 1989, Meritt Blakeslee dedicava al Tristano uno studio sull’identità29. Nelle
pagine introduttive, Blakeslee si proponeva d’indagare lo statuto identitario del personaggio
di Tristano al fine di descrivere «a number of réseaux of meaning that are elaborated within
the poems and that collectively constitute, if not their ultimate sense, at least an effort to point
towards that ultimate and ultimately ineffable meaning»30. Eppure, come ha appuntato
Alberto Varvaro, lo studio di Blakeslee, «malgrado il sottotitolo, è un’indagine tradizionale
sui travestimenti e le personalità di Tristano»31.
28
Philippe HAMON, «Per uno statuto semiologico del personaggio», in Semiologia, lessico, leggibilità del
testo letterario, Parma, Pratiche, 1977, p. 94.
29
Meritt R. BLAKESLEE, Love’s Masks. Identity, Intertextuality, and Meaning in the Old French Tristan
Poems, Cambridge, D.S. Brewer, 1989.
30
Ivi, p. 4.
31
Alberto VARVARO, «Il Tristan di Béroul, quarant’anni dopo», in Rosanna BRUSEGAN, a cura di, Le roman
de Tristan. Le maschere di Béroul, Medioevo Romanzo, 25, 2001, pp. 312-346, p. 346.
10
Il primo capitolo, Note per una teoria del personaggio, costituisce una riflessione su
alcuni strumenti teorici utili all’analisi del personaggio, in uno sforzo di approfondimento e
adattamento alla produzione letteraria dell’epoca medievale di teorie dell’identità finzionale
spesso nate da un corpus di testi moderni (o, comunque, in genere utilizzate per l’analisi di
testi moderni). Uno spazio particolare è stato riservato alle note inedite di Ferdinand De
Saussure dedicate al personaggio leggendario e mitologico32, seguendo alcuni spunti forniti
dal contributo di Massimo Bonafin Prove di un’antropologia del personaggio33, che ha
rappresentato il punto di partenza dell’intera ricerca. In questo senso, si è rimediato a una
mancanza degli studi teorici sull’essere di finzione già denunciata da Hamon34, studi nei quali
l’attenzione rivolta agli appunti di Saussure è stata finora modesta.
Un’attenta interrogazione delle note saussuriane, oggetto anche di una consultazione
diretta presso la Biblioteca di Ginevra, ha permesso, sulla scia dei risultati delle ricerche dei
due studiosi saussuriani Michel Arrivé35 e Béatrice Turpin36, di intravedervi l’idea, non
portata a un’elaborazione puntuale, di una visione del personaggio improntata a una logica del
vuoto, dell’assenza e del continuo rinvio all’alterità: constatazione che ha permesso di
tracciare dei parallelismi tra le ricerche di Saussure sul personaggio del mito e della leggenda
e la visione freudiana, elaborata all’incirca negli stessi anni, di un soggetto diviso.
L’elaborazione di strumenti teorici per l’analisi del personaggio si è avvalsa, inoltre, di
studi legati a indirizzi critici di matrice antropologica e psicoanalitica. Particolarmente
proficui si sono rivelati gli schemi analitici offerti dalla semiotica delle passioni37, nonché
quelli provenienti dalle teorie antropologiche di René Girard, le quali sono state oggetto di
32
Ferdinand DE SAUSSURE, Le leggende germaniche, Scritti scelti e annotati a cura di Anna MARINETTI e
Marcello MELI, Este, Libreria Editrice Zielo, 1986.
33
Massimo BONAFIN, «Prove per un’antropologia del personaggio», in Le vie del racconto. Temi
antropologici, nuclei mitici e rielaborazione letteraria nella narrazione medievale germanica e romanza, a cura
di Alvaro BARBIERI - Paola MURA - Giovanni PANNO, Padova, Unipress, 2008, pp. 3-18.
34
Philippe HAMON, Le personnel du roman. Le système des personnages dans les Rougon-Macquart
d’Emile Zola, Genève, Droz, 1998, p. 17, n. 19.
35
Cfr. Michel ARRIVÉ, A la recherche de Ferdinand De Saussure, Paris, PUF, 2007.
36
Cfr. Béatrice TURPIN, «Légendes - Mythes - Histoire. La circulation des signes», in Simon BOUQUET, a
cura di, Ferdinand de Saussure, Paris, Éditions de L’Herne, 2 3, pp. 3 -316.
37
Cfr. Algirdas J. GREIMAS, Del senso II. Narrativa, modalità, passioni, Milano, Bompiani, 1984; Isabella
PEZZINI, a cura di, Semiotica delle passioni, Bologna, Esculapio, 1991; Giovanni BOTTIROLI, Retorica.
L’intelligenza figurale nell’arte e nella filosofia, Torino, Bollati Boringhieri, 1993; Paolo FABBRI, La svolta
semiotica, Bari, Laterza, 1998; Mario LAVAGETTO, Lavorare con piccoli indizi, Torino, Bollati Boringhieri,
2003; Elisabeth RALLO DITCHE - Jacques FONTANILLE - Patrizia LOMBARDO, Dictionnaire des passions
littéraires, Paris, Belin, 2005.
11
una recente pubblicazione in cui si propone un’applicazione della nota teoria del desiderio
mimetico ai testi della letteratura medievale38.
Il secondo capitolo, Il Tristano di Ferdinand De Saussure: dalle fonti all’immagine
sfocata, costituisce una sorta di parentesi nella dissertazione. Prima di procedere all’analisi
dei testi tristaniani secondo le prospettive abbozzate nel primo capitolo, si è provveduto a un
commento critico di quella parte degli appunti inediti dello studioso ginevrino dedicati
proprio al personaggio di Tristano, del quale si valorizza il ruolo rivestito nel percorso che ha
condotto Saussure all’idea di personaggio leggendario come «bolla di sapone», come
assemblaggio provvisorio e instabile di tratti, prodotto mai definito, ma processo continuo di
acquisizione e cessione di schegge d’essere.
Il terzo capitolo, Ostensioni e latenze dell’identità nelle Folies Tristan, il quarto,
Fluttuazioni del personaggio, e il quinto, Tristano (e Isotta): l’ombra dell’eroe, sono,
rispettivamente, dedicati alle analisi delle dinamiche identitarie che attraversano i testi delle
Folies Tristan, del romanzo di Thomas e di quello di Béroul. Come si spiegherà più avanti
con maggiori dettagli, la scelta di partire dall’analisi dei due poemetti che raccontano il
travestimento di Tristano da folle al fine di raggiungere in incognito la corte di Cornovaglia e
incontrare l’amata – scelta che non rispetta né una priorità cronologica né una priorità di
prestigio nella tradizione tristaniana – è stata dettata dal proposito di una lettura dell’intera
storia di Tristano alla luce dell’esperienza delle Folies.
38
Cfr. Hubert HECKMANN - Nicolas LENOIR, a cura di, Mimétisme violence sacré. Approche
anthropologique de la littérature médiévale, Orléans, Editions Paradigme, 2012.
12
I
L’être inexistant
Note per una teoria del personaggio
1. Un intervallo tra l’essere e il non essere
È Ferdinand De Saussure a indicare il personaggio della leggenda e del mito come être
inexistent nelle sue Note sulle leggende germaniche e Tristano39, incisiva soluzione cui
approda dopo un percorso denso e articolato – e, come da suo stile, incompleto. Soluzione che
mi pare rappresenti bene il senso della lettura delle Note che qui si proporrà, sicuramente
influenzata, almeno in un primo stadio del lavoro, dalla mediazione di d’Arco Silvio Avalle e
da quella visione di un universo privo di senso che lo studioso rintraccia negli appunti
saussuriani, da quell’idea di «atmosfera vagamente surreale, quasi onirica»40, in cui Saussure
avrebbe scomposto i segni della leggenda»:
Il significato, in altre parole, non costituisce un dato primario dell’esperienza umana,
ma è il frutto dell’attività combinatoria esplicata dall’uomo in un universo
inizialmente privo di significato41.
Nonostante Avalle sia stato tacciato di eccessi di pessimismo42, e nonostante il mio stesso
lavoro, in linea con i più recenti commenti alle Note, si sia indirizzato a un
39
D’ora in poi Note. Si parla generalmente di Note sulle leggende germaniche, ma, a rigore, bisognerebbe
includere nella denominazione anche gli appunti sul Tristano (contenuti per lo più, ma non solo, nell’involucro
Ms. fr. 3959.10 del Fonds Ferdinand de Saussure della Bibliothèque de Genève), essendo questi pienamente
integrati negli appunti sulle leggende germaniche. La più completa edizione delle Note, che però non contempla
le 814 carte nella loro interezza, è la già citata Marinetti-Meli. Sono poi disponibili edizioni di porzioni più
esigue degli appunti: Komatsu EISEKU, «Tristan - Notes de Saussure», Essays and Studies, 32, Faculty of
Letters, Gakushuin University, 1985; Bernard GICQUEL, «Le roman de Tristan et ses sources antiques selon
Ferdinand de Saussure», Speculum Medii Aevi, vol. 2, 1996, pp. 27-56; «La légende de Sigfrid et l’histoire
burgonde» e «Tristan. Le mythe comme trame de la légende», presentazione ed edizione di Béatrice TURPIN, in
BOUQUET, Ferdinand de Saussure, pp. 360-397. Su alcune note sono intervenuto personalmente in seguito a una
consultazione diretta presso la Bibliothèque de Genève; in particolare, ho riportato alcune cancellature che mi
sono sembrate significative. Per alcune note del quaderno 3959.11, che comporta qualche problema di
numerazione dei fogli, indicherò la pagina di una delle edizioni di riferimento, anziché il numero del foglio.
40
D’Arco Silvio AVALLE, Ferdinand De Saussure fra strutturalismo e semiologia, Bologna, il Mulino,
1995, p. 130. Il volume rielabora materiali cui Avalle aveva cominciato a lavorare già nei primi anni settanta (si
veda Id., «La sémiologie de la narrativité chez Saussure», in Charles BOUAZIS, a cura di, Essais de la théorie du
texte, Paris, Éditions Galilée, 1973, pp. 19-49).
41
AVALLE, Ferdinand De Saussure fra strutturalismo e semiologia, p. 97.
42
Scrive Avalle: «La lettura dei quaderni contenenti gli appunti sulle leggende germaniche dà l’impressione
di un fallimento drammatico sul piano della razionalizzazione dei fatti storici: il fallimento dell’identità» (Ivi, p.
131). Verso l’idea di fallimento dell’identità e d’inesistenza del segno è particolarmente critico Michel Arrivé:
«Le signe […] n’a pas d’existence substantielle. C’est en cela qu’il est qualifié d’«être inexistant». Car,
ridimensionamento di un certo nichilismo, continuo a credere che la sua interpretazione –
oltre ad avere il merito di essere stata tempestiva, in un contesto di studi in cui i linguisti poco
si dedicavano a questi appunti in quanto poco linguistici e i germanisti non se ne curavano
affatto perché troppo linguistico-semiologici – abbia ben lasciato intravedere la complessa
articolazione del pensiero saussuriano, il suo porsi oltre una prospettiva unilaterale per
accettare debordamenti, fughe, incongruenze.
La mia lettura delle Note è stata guidata da quella rete di debordamenti-fugheincongruenze che mi sembrava assediare Saussure (tanto da interdirsi la pubblicazione) e che
Avalle intercettava. Nella sua ricerca, lo studioso ginevrino si rende presto conto che, lungi
dall’essere un prodotto compiutamente elaborato, il personaggio leggendario e mitologico è
«il risultato preterintenzionale di un’evoluzione, che ha creato o alterato un rapporto tra
elementi preesistenti, un prodotto del tempo e della tradizione orale»43. Ma questo rapporto
tra elementi preesistenti non genera mai un ente definito, poiché il continuo meccanismo di
scomposizione e ricomposizione di quegli elementi ri-crea costantemente nuovi profili, nuove
identità. Il volto del personaggio è così smarrito nelle schegge d’essere che circolano nella
leggenda, rendendo impossibile l’individuazione di una cesura tra il sé e l’altro.
L’être inexistant di Saussure, ben oltre la sterile idea di privazione ontologica del
personaggio propugnata in ambito formalista e strutturalista, sarà da intendersi, «au sens
philosophique»44, come un oggetto paradossale tanto pieno da essere vuoto, inafferrabile,
ineffabile, ma comunque condiscendente, come vedremo, all’illusione di un’identità.
Interrogando gli appunti saussuriani su quale visione offrissero dell’identità finzionale, si è
intravisto, tra gli interstizi di quella che a primo impatto sembra una scomposizione del
personaggio leggendario in elementi primi che anticipa ampiamente l’operazione di Propp45,
contrairement à ce qu’avance Avalle, cela ne l’empêche pas d’exister. Mais il n’accède à son statut que dans la
mesure où il «associe» un certain nombre de traits. Encore cette association est-elle à tout moment menacée de
destruction. Mais à tout moment elle se reconstitue, par la modification des traits qu’elle réunit» (ARRIVÉ, A la
recherche de Ferdinand De Saussure, p. 95). Kim, invece, critica Avalle per aver troppo investito sulle
contraddizioni tra il Corso di linguistica generale e le ricerche sulle leggende, ma ne condivide la posizione sulla
non esistenza dell’identità: Saussure, presa coscienza della complessità del personaggio leggendario, avrebbe
disintegrato il segno univoco elaborato nel Corso. Dall’altro canto imputa però ad Avalle l’estrapolazione di
frammenti teorici, che non tiene conto della polivalenza dei materiali (Sungdo KIM, «La mythologie
saussurienne: une nouvelle vision sémiologique? A propos de la continuité de la pensée saussurienne»,
Semiotica, 97, 1-2, 1993, pp. 5-78). In effetti, lo scarto esistente tra l’impianto teorico elaborato da Saussure e i
risultati delle sue ricerche di natura affatto empirica è uno dei nodi in cui io stesso mi sono imbattuto
accostandomi alle note dedicate a Tristano (torneremo sul punto nel cap. II).
43
BONAFIN, «Prove di un’antropologia del personaggio», p. 6.
44
Note, 3958.8.21.
45
Si veda AVALLE, Ferdinand De Saussure fra strutturalismo e semiologia, p. 81 e p. 129.
14
un tortuoso percorso attraverso l’alogicità del senso, sempre affidato all’atto della sua
elaborazione, costruzione-decostruzione in fieri mai posta aprioristicamente.
Mi soffermerei su una nota in questo senso particolarmente rilevante, già valorizzata sia
da D’Arco Silvio Avalle che da Michel Arrivé, ma che propongo di leggere qui nella sua
quasi interezza, al fine di mostrare l’insistenza sulla contraddizione che gravita attorno alla
nozione di personaggio:
Comme on le voit au fond l’incapacité à maintenir une identité certaine ne doit pas
être mise sur le compte des effets du Temps – c’est là l’erreur remarquable de ceux qui
s’occupent des signes, mais est déposée d’avance dans la constitution même de l’être
que l’on choye [sic] et observe comme un organisme, alors qu’il n’est que le fantôme
obtenu par la combinaison fuyante de 2 ou 3 idées. C’est une affaire de définition.
Loin de partir de cette unité qui n’existe à nul moment, on devrait se rendre compte
qu’elle est la formule que nous donnons d’un état momentané d’assemblage, – les
éléments seuls existant.
E, poco oltre nello stesso foglio, contrassegnato da un asterisco che rinvia all’«erreur
remarquable», si legge:
Pas une création plus ou moins fragile: mais une création radicalement dénuée de
principe d’unité; c’est seule la durée relative de certaines traits qui donnent l’illusion
là-dessus, et c’est la leçon de tous les jours pour qui étudie, de voir que l’association –
que nous chérissons parfois – n’est qu’une bulle de savon, n’est pas même une bulle
de savon, laquelle possède au moins son unité physique et mathématique et non
accidentelle et indigne46.
Il personaggio è un accorpamento provvisorio e instabile di tratti, di elementi primi, che si
caricano della parvenza di un’unità – quindi di un’identità – solo in sede di ricezione. È
all’osservatore che coglie la leggenda in un determinato stadio del suo percorso (è bene
evitare il termine sviluppo, che presupporrebbe un senso evolutivo, senso negato al
personaggio e alla leggenda47) che il personaggio si presenta come provvisto di un’identità
puntuale, laddove vi è invece in esso una solidità più labile (addirittura meno degna) di quella
di una bolla di sapone, una «création radicalement dénuée de principe d’unité».
uest’illusione di un personaggio tondo è surrogata dalla propensione ad associare l’essere
semiologico all’essere umano, propensione da cui, lo si vedrà più avanti, Saussure mette
insistentemente in guardia, in un tentativo costante di allontanamento del referente, del reale,
della materia, della cosa, in un’operazione metodica di astrazione teorica.
46
Note, 3958.8.21.
Si veda la nota 3958.8.33, in cui Saussure dice che si dovrebbe parlare semplicemente di vicissitudini e
non di processi di perfezionamento di una leggenda.
47
15
Non mi pare azzardato dire che Saussure colga nella nota citata il fulcro del dibattito
teorico sulla categoria del personaggio che si svilupperà a partire dagli anni ottanta del XX
secolo, sulla scorta della felice intuizione di Philippe Hamon48 dell’effet personnage, intorno a
cui Vincent Jouve49 costruirà un edificio teorico fondato su una «logique flottante», sulla
necessità di un doppio punto di vista nell’analisi del personaggio. Se questo, da un lato, è un
prodotto risultante da dinamiche interne alla testualità, dall’altro è un essere mancante cui è
necessaria un’operazione di completamento nella ricezione, secondo una definizione del
personaggio non più immanentista ma pragmatica50.
Se il personaggio leggendario è per Saussure un’inesistenza, l’associazione fugace di
qualche tratto, scorre nelle Note una corrente sotterranea che, pur dando per acquisita la
negatività, magistralmente argomentata da Avalle, di un pensiero del non essere e del non
senso, propone appena è possibile la positività di un’illusione, il richiamo a una sfera
dell’esistente difficile da annientare. Ecco che questo fantoccio semiologico diventa l’essere
che amiamo, osserviamo, addirittura vezzeggiamo (e sarebbe troppo facile ricamare sulla
caduta ortografica di quel choye). Accosterei alla precedente una nota in cui Saussure si pente
di chiamare caractères gli elementi primi in cui scompone il personaggio:
Dit là: caractères.
Il est certain que je ne devrais pas dire caractères, ce qui suppose [une
personnalité] de nommer par concession un être existant à travers la légende par luimême. Il n’y a que des éléments d’être51.
Nel foglio in cui appare questa nota, il termine personnalité è oggetto di una cancellatura, che
credo si presti bene a rappresentare l’ombra che soggiace all’operazione di Saussure: nelle
Note il termine è usato, con una certa ambiguità, sia per indicare il personaggio che per
indicare la persona, ossia ciò che il personaggio non è.
Michel Arrivé si è accorto del paradosso per cui un congegno scientificamente descritto
diventa un «objet d’amour»:
48
Si veda il citato HAMON, «Per uno statuto semiologico del personaggio».
Vincent JOUVE, «Pour une analyse de l’effet-personnage», Littérature, 85, 1992, pp. 103-111; Id., L’effetpersonnage dans le roman (1992), Paris, PUF, 2001.
50
Scrive Jouve: «L’approche immanentiste, si productive soit-elle pour tout regard technique sur le récit, ne
résiste pas sitôt que l’œuvre est abordée en termes de communication. Le roman, fait pour être lu, ne peut se
passer d’une illusion référentielle minimale. Les formaliste russes l’avaient déjà compris» (JOUVE, «Pour une
analyse de l’effet-personnage», p. 105). E cita un passo del 1925 di Tomasevskij, secondo cui il lettore non può
liberarsi «psychologiquement» dell’impulso a pretendere da un’opera la rappresentazione di figure umane
corrispondenti alla realtà (Théorie de la littérature, Textes des formalités russes, présentés et traduits par
Tzvetan TODOROV, Paris, Seuil, 1965, p. 285). La constatazione andrà anticipata di un ventennio circa, visto che
Saussure l’aveva già messa a fuoco, benché in forma di pars destruens del suo discorso.
51
Note, 3958.8.22.
49
16
Et c’est cet «être inexistant», cette «bulle de savon», ce «fantôme» qui est, nouveau
paradoxe, objet d’amour. Je ne crois pas pousser trop loin la pensée de Saussure en
employant ce mot, qu’il n’utilise pas.
E poco più avanti:
Nous n’en avons pas encore fini avec les paradoxes relatifs au signe de la légende: cet
être à la fois «inexistant» et «chéri» en vient parfois à accéder à une sorte de vie, voire
de conscience et même de réflexion. C’est ce qui est manifesté en plusieurs points par
certains détails d’expression, dans des phrases, il est vrai, négatives: ainsi le symbole
ne «se doute pas» de son appartenance à la sémiologie52, ou bien «n’a pas un moyen
de prouver qu’il est resté le même»53. u’en est-il de ces bizarres phénomènes de
personnification du symbole dans l’écriture de Saussure? Ne seraient-ils pas la marque
d’un désir de substance, voire de substance pensante, pour cet «être inexistant»? Je
laisse prudemment la question pendante…54
Se il linguista può permettersi di lasciar pendere la questione55, lo stesso non può fare chi si
occupa di letteratura, il quale si ritroverà ad assegnare a Saussure un posto di primo piano tra i
teorici del personaggio che, oltre settant’anni dopo di lui, si sono posti il problema di quella
dicotomia connaturata all’essere di finzione, quel suo essere prodotto del testo che dal testo
però sempre deborda.
In quell’attenzione a distinguere tra «individu graphique», «individu sémiologique» da un
lato e «individu organique», «individu vivant»56 dall’altro, i confini sembrano talvolta
confondersi e ridefinirsi e parrebbe, insomma, che nelle Note, come si era visto per Propp57, il
52
Note, 3958.4.risvolto di copertina
Note, 3958.8.21.
54
ARRIVÉ, A la recherche de Ferdinand De Saussure, p. 97.
55
In realtà, in uno scritto precedente Arrivé si spingeva oltre e, a proposito della personificazione di cui il
personaggio è spesso oggetto nelle Note, scriveva: «Simple ornement du discours, parfaitement insignifiant? On
peut en douter fortement, et se laisser aller à déceler, en cette redondante figure de personnification, la trace de
quelque chose comme un désir: que le symbole puisse être autre chose que ce fantôme immatériel, cette simple
collection de traits, renversée immédiatement, à peine identifiée – et si même elle peut l’être – au domaine de
l’illusion. […] A prendre – comme il est légitime – ces figures à la lettre, on lit, dans ces failles, un autre
discours, qui affecte au symbole précisément les traits qui lui sont refusés dans le texte théorique (Michel
ARRIVÉ, Linguistique et psychanalyse. Freud, Saussure, Hjelmslev, Lacan et les autres, Paris,
Méridiens/Klincksieck, 1986).
56
Note, 3958.8.21 e 3858.7.35.
57
Un evidente parallelismo con Propp è fornito dalla carta 3958.4.109, dedicata al personaggio di Brunilde
della saga dei Nibelunghi: «Beaucoup moins que pour d’autres personnages il y a ici représentation directe d’une
personne: tout ce qui est relatif à Brynhildr n’est que la représentation d’un rôle, tandis que la personne ellemême se perd dans le nimbe d’un autre être, venu on ne sait d’où […] Nous aurons en effet presque
immédiatement à constater que Brunhilde par son rôle n’est que la pure et simple belle-mère, poursuivant de sa
haine un beau-fils». È qui evidente che Saussure anticipi il concetto di funzione (questa nota potrebbe essere
aggiunta agli argomenti di Avalle che mirano a mostrare la precedenza di Saussure su Propp: cfr. AVALLE,
Ferdinand De Saussure fra strutturalismo e semiologia, p. 129). Ma l’aspetto interessante è come Saussure si
spinga già oltre la pura astrazione della funzione e segnali quell’oscillazione nel personaggio tra il ruolo, che
rimanda a un essere dall’inspiegabile provenienza, e la rappresentazione diretta di una persona, che nel caso di
Brunilde è poco marcata, a vantaggio del ruolo. Sembra, insomma, che Saussure avrebbe potuto dire, ben prima
53
17
potenziale antropologico del personaggio, la sua capacità di rinvio alla sfera dell’esistente, la
sua appendice referenziale non siano aboliti, ma solo messi tra parentesi, e che spesso affiori
tra le righe l’ombra di quel «modellino antropologico», di quell’«antropologia spontanea» di
cui parla Mario Lavagetto, il quale coglie in un’efficace formula la dialettica – dialettica
fondante del modo d’esistenza del personaggio – tra un’autonomia segnica e un inevitabile
scivolamento nel referente:
Non è necessario che quei fantasmi si trasformino nei nostri vicini di casa e piangano
sulle nostre spalle. Per impedire la metamorfosi è necessaria, “accanto all’identità
immediata tra il segno e l’oggetto (A è A1), la coscienza immediata dell’assenza di
questa identità (A non è A1)”. La soppressione di uno dei due termini porterebbe a
dimenticare che la letteratura è il prodotto di quella tensione, vive nell’intervallo tra
quell’identità e l’assenza di quell’identità58.
La tensione tra un’identità e l’assenza di quell’identità, l’intervallo tra un essere e un non
essere; un meccanismo che, negli appunti saussuriani, si direbbe duplicato. In quell’intervallo
abbastanza consistente (e su cui Saussure non ci dice nulla)59 da agevolare in sede di ricezione
la creazione di un’apparente unità semiologica del personaggio, da agevolare l’illusione di un
assemblaggio di elementi vari in un segno apparentemente definito, ecco che questa illusione
è coadiuvata da un’altra illusione, quella di un riferimento alla sfera dell’esistente,
dell’evenemenziale, dell’umano, che pilota e altera lo sguardo che si posa sull’essere
semiologico del mito e della leggenda. Si delinea, così, una visione bidirezionale, ambigua,
forse persino contraddittoria che si fa strada nelle Note.
2. L’identità negata
Fantasma, bolla di sapone, essere inesistente. Qual è la logica che si articola dietro queste
definizioni estreme – e forse apparentemente ingenue?
Come si è anticipato, il discorso sull’esistenza-inesistenza del personaggio tratteggiato
negli appunti di Saussure si spinge, per complessità ed elaborazione teoretica, molto oltre la
questione dell’esistenza ontologica del personaggio per com’è proposta nel dibattito
di Todorov, che «rifiutare ogni relazione tra personaggio e persona sarebbe assurdo: i personaggi rappresentano
delle persone, secondo modalità proprie della letteratura d’invenzione» («Personaggio», in Dizionario
enciclopedico delle scienze del linguaggio, a cura di Oswald DUCROT e Tzvetan TODOROV, Milano, ISEDI,
1972, p. 246).
58
Mario LAVAGETTO, Lavorare con piccoli indizi, Torino, Boringhieri, 2003, p. 60.
59
Cfr. AVALLE, Ferdinand De Saussure fra strutturalismo e semiologia, p. 90.
18
formalista e strutturalista. L’astrazione teorica che, a un certo punto del percorso, investe
quella che si presentava all’inizio come un’analisi empirica delle fonti delle leggende
germaniche porta Saussure a elaborare una visione del personaggio della leggenda come una
rete di tratti aliena dalla possibilità di un centro organizzatore, nebulosa improntata
all’eteronomia, pilotata da un principio di dispersione. Risultato che potrebbe inoculare il
dubbio che Saussure abbia lavorato, con un anticipo sorprendente e oltre – o addirittura
malgrado – le sue intenzioni, a quella decostruzione di un soggetto «decentrato in rapporto
alle leggi del suo desiderio, alle forme del suo linguaggio, alle regole della sua azione o ai
meccanismi dei suoi discorsi mitici o favolosi» efficacemente descritta da Foucault60.
Eppure, le ricerche di Saussure sulle leggende partono da un’intuizione chiara e precisa: il
repertorio leggendario germanico, e precisamente la saga dei Nibelunghi, ha palesi
ascendenze nella storia burgunda. Il punto di vista adottato da Saussure nel procedere alle
comparazioni tra cronaca e leggenda è, come da prassi negli studi dell’epoca, quello del
personaggio, prassi sostenuta dalla convinzione che fosse questo a guidare i movimenti della
leggenda. Lo stretto parallelismo tra leggenda e personaggio conduce a una coincidenza
terminologica: la leggenda e il personaggio, come anche la lettera dell’alfabeto, sono solo vari
modi di dire il simbolo, che, in attesa di un successivo tentativo di chiarimento, intenderemo,
con Avalle, come un equivalente del segno61.
Nella sua ricerca di corrispondenze e analogie tra personaggio storico e personaggio
leggendario, Saussure procede a una scomposizione dell’essere di finzione in elementi primi
(nome, carattere, posizione rispetto agli altri personaggi, funzione, etc.). È la combinazione,
puntuale e provvisoria, di questi materiali d’essere a costituire, in un determinato momento
dell’evoluzione
diacronica
della
leggenda,
il
personaggio,
cui
l’abitudine
all’antropomorfizzazione ci fa attribuire un’idea di unità, di costituzione completa, ma che
non è altro che il prodotto di un’attività combinatoria di materiali su cui l’operatore della
leggenda si trova a intervenire. Solo di questi materiali, solo di questi elementi primi è
possibile garantire l’esistenza. Del personaggio, al contrario, non si potrà dire che esso sia
qualcosa, se non il risultato, instabile e provvisorio, di un’operazione di assemblaggio, pronto
a esplodere in qualunque momento per il venir meno anche di uno solo di quegli elementi
primi che lo compongono, cosa che comporterebbe la necessità di parlare di un altro
personaggio. È quindi sul processo più che sull’essenza – sull’essere come modo d’essere,
60
Michel FOUCAULT, L’archeologia del sapere (1969), Milano, Rizzoli, 2009, p. 19.
Nelle Note il termine simbolo non è connotato nel senso di non arbitrarietà come nel Corso di linguistica
generale, dove è distinto dal segno, arbitrario.
61
19
potremmo dire – che Saussure si sofferma. L’ingresso di un personaggio, fosse anche un
personaggio storico, in quella che verrebbe da chiamare una massa culturale-identitaria da
cui l’atto diegetico trae i propri costituenti, comporta l’attrazione di questo in un vortice che
rende legittimo ogni movimento, ogni spostamento, ogni fluidificazione identitaria.
Ne deriva un’impossibilità di dire che un personaggio coincida con un altro, che quindi un
determinato personaggio della leggenda abbia ascendenze in un determinato personaggio
storico. Potranno condividere dei tratti, potranno essere congruentemente sovrapponibili
anche nei dettagli più particolari delle loro rispettive vicende, ma, fosse stato mutato anche
solo il nome, non si potrà parlare d’identità di A e B:
L’exercice qui consiste à rechercher une “identité” entre un personnage de la légende
et un personnage de l’histoire ne saurait avoir, d’avance, qu’une portée très limitée.
C’est une chose qui demanderait en tous cas une méthodologie spéciale, rien que pour
savoir en qui consistera l’identité, à quel signe nous devons la reconnaître et la
proclamer. Le nom en lui seul ne signifie rien, c’est certain. Sont-ce donc les actes du
personnage, ou son caractère, ou son entourage, ou [ ], ou quoi encore qui constituent
le critère de l’identité? C’est un peu tout cela et rien de tout cela parce que tout peut
avoir été à la fois transformé et transporté de A à B. Plus on étudiera la chose, plus on
verra que la question n’est même pas de savoir où réside plutôt qu’ailleurs l’identité,
mais s’il y a un sens quelconque à en parler62.
Ciò che consente alle Note di assumere una portata epistemologica che la distingue dalle
ricerche in termini di fonti, usuali nel clima positivista in cui nascono, è proprio il problema
dell’identità che vi viene posto. Bisognerà chiarire però – cosa che non mi è parso di trovare
negli studi che si occupano degli appunti dedicati alle leggende germaniche e a Tristano – la
polisemia che caratterizza l’utilizzazione di questo termine nelle note saussuriane.
È noto come l’identità sia un concetto fondamentale per la linguistica, la quale s’interroga
su ciò che rende legittima la sovrapponibilità di due o più elementi e su che cos’è che
garantisca la sussistenza di un’entità63. Ed è sicuramente in questo senso che Saussure utilizza
il termine identité nelle Note («l’identité de Godegisèle avec Gîselher»64 o «l’identité des
Huns et de Francs»65, per citare solo qualche esempio), senza però riuscire a evitare un
qualche scivolamento semantico. Benché Saussure proponga un’equiparazione di quegli
esseri inesistenti che sono «le mot, ou la personne mythique, ou une lettre de l’alphabet, qui
ne sont que différentes formes du SIGNE, au sens philosophique», la sua analisi s’impernia qui
62
Note, ed. Marinetti-Meli, p. 312.
Sull’argomento, e su come le Note vi s’inseriscano, rimando a Loic DEPECKER, Comprendre Saussure.
D’après les manuscrits, Paris, Armand Colin, 2009, in particolare alle pp. 62 ss.
64
Note, ed. Marinetti-Meli, p. 339.
65
Note, 3958.2.6.
63
20
sul personaggio del mito e della leggenda (con quel costante richiamo negativo al referente
umano di cui abbiamo detto) e questo genera uno spostamento nell’utilizzazione del termine
identité, che, se indica, sì, la circoscrizione di un personaggio a un assemblaggio puntuale di
tratti e, insieme, la possibilità di identificare, sovrapporre due personaggi distinti, viene usata
anche in un senso, mi si passi l’espressione, più alla buona. Che per Saussure identità sia
anche sinonimo di personalità è dato per scontato da Avalle:
Quali fattori, insomma, garantiscono l’identità, vale a dire la personalità e, in
un’ultima analisi, la permanenza dei singoli segni nel corso della loro evoluzione?66
Avalle, sebbene non si soffermi sulla distinzione, individua le due sfumature con cui il
termine è utilizzato negli appunti. Si tratterebbe solo «in un’ultima analisi» della permanenza
dei tratti costituenti in un’entità stabilita; la questione prioritaria sembra quella di una solidità
del profilo del personaggio (una personalità) tale da poter rinviare a quel fantasma
antropomorfico verso cui, come si è visto sopra, l’atteggiamento di Saussure è ambiguo.
Sembrerebbe cioè che, anche chi, come Avalle, si è sforzato di condurre un raffinato discorso
semiologico intorno all’inesistenza del personaggio-segno, non sia stato immune all’influenza
di quella corrente altra delle Note.
Di che cosa sta parlando Saussure? Dell’identità del personaggio della leggenda da
intendersi come segno, certo, e dell’impossibilità di seguirne un percorso diacronico. Ma il
fatto che il segno compaia in quest’occasione come personaggio mitologico e leggendario,
ossia come fenomeno che, per quanto ci si sforzi di analizzarlo come presenza antireferenziale, non può non rinviare a un’idea di soggetto, produce una dinamica contraddittoria
non trascurabile. Non si tratta di soli cavilli terminologici. Saussure parla in questi appunti di
segno, lasciando a margine – e puntualizzando costantemente di lasciare a margine, quasi
fosse una presenza per assenza – il discorso che investe l’individuo non semiologico, in uno
sforzo di astrazione teorica dalla sfera dell’esistente. Il fatto che, però, le Note non riescano
mai veramente ad abolire questa sfera pone il dubbio che, mentre crediamo che il linguista nei
panni dell’etnografo e mitografo ci stia parlando dei personaggi dei Nibelunghi, Saussure stia
ponendo le basi per una teoria del soggetto.
Il dubbio non è del solo scrivente, che si è più che altro curato di sviluppare un’ambiguità
discorsiva e terminologica come argomento atto a corroborare un’intuizione che è però
alquanto condivisa. Oltre i dubbi di Arrivé sul paradosso di quest’essere inesistente delle
66
AVALLE, Ferdinand de Saussure fra strutturalismo e semiologia, p. 90.
21
leggende che ha accesso a una qualche forma di coscienza e di riflessione, un’altra linguista e
studiosa di Saussure, Béatrice Turpin, vede nell’operazione compiuta nelle Note una
decostruzione paragonabile a quella realizzata da Freud («l’analogie est ici frappante avec la
réflexion que Freud élaborait à la meme époque sur le travail du rêve»), per cui Saussure
procederebbe a una messa in discussione di «ces notions d’identité et d’unité telles que les
pense généralement la philosophie occidentale»67. Non esiste unità, rileva Turpin, perché
quello che esiste è soltanto una rete di associazioni, ed è questa rete di associazioni a formare
un senso. Ancora, così recita un altro commento delle Note:
On peut en déduire que le mythographe Saussure a totalement renié la vision
nomenclaturiste de la personne selon laquelle une personne a sa valeur propre et
interne et correspondent à l’unité ontologique. Le cogito cartésien assuré par l’identité
de la personne est en dernier ressort mise en doute […] Au fond, le mythographe
Saussure se rend compte du fait que la personne est le centre fragile de perpétuelles
interactions et métamorphoses. Dans le mythe, la personne erre dans le monde. La
personne n’y trouve sa consistance et sa signification ni dans l’histoire ni dans un
absolu. Bref, la définition saussurienne de la personne mythique est négative par
rapport à une conception positive et triomphante de la personne68.
Il dubbio è, dunque, che il Saussure delle ricerche sulle leggende non parli semplicemente di
tradizioni etnografiche, dell’identità di un personaggio leggendario come identificazione di un
nucleo stabile di tratti, ma parli d’identità tout court. Che parli di soggetto, di un soggetto
costruito nell’alterità, soggetto assoggettato e attraversato da forze che lo trascendono,
soggetto disperso nella rete di relazioni tessuta da e nel linguaggio, che parli delle leggi che lo
manipolano nella costituzione di sé. Su queste leggi non si è in realtà ancora detto nulla, e
bisognerà ora soffermarcisi.
3. Il vortice della discorsività e la logica della ridefinizione
Da quanto si è visto, non avrebbe senso parlare di un’eventuale identificazione tra due
personaggi, non avrebbe senso concepire l’identità in una prospettiva graniticamente
unilaterale, chiusa nella circoscrizione di un personaggio, storico o d’invenzione che sia.
Quella che ci viene proposta è una logica fluida, in cui la cristallizzazione di un personaggio
che consenta la sua sovrapposizione con un altro è considerata operazione sterile, in quanto è
67
68
TURPIN, «Légendes - Mythes - Histoire. La circulation des signes», p. 310.
KIM, «La mythologie saussurienne: une nouvelle vision semiologique?», p. 51.
22
impossibile tracciare confini netti. È semmai consentito descrivere dei fenomeni, che qui
prendono la forma di personaggi, i quali, nel continuo variare dei tratti che li compongono,
sono anelli di una catena illimitata in cui tutto migra, si altera, si sovrappone a qualcosa di
altro, in un gioco continuo di cessione e accaparramento di schegge d’essere che circolano in
quella che abbiamo chiamato una massa culturale-identitaria.
Questa logica che non ammette confini, logica a-liminale, logica della ridefinizione
continua, in forza della quale si opera un vero e proprio oltrepassamento dei limiti
dell’identico, sembra assumere in qualche punto delle Note un’etichetta. Saussure parla di
conte, di narration:
L’exactitude historique reste loin de la question. Mais nous pouvons nous représenter
ce que Jornandes [sic] veut dire que dans les récit épiques de son peuple il remarquait
la même allure, le même caractère essentiel qui appartient à l’histoire, celui d’une
narration, et d’une narration qui ne paraissait pas se mouvoir à travers des événements
incroyables comme des combats de dragons ou des voyages au pays des nains69.
E, in un’altra nota:
La légende de Vêland n’est pas même un groupement de mythes gréco-romain relatifs
au Feu, à la Forge, et puisés dans différents compartiments voisins come Vulcain,
Prométhée, etc., mais directement l’histoire de Dédale prise, sans interprétation ni
tendance, dans les mythologies latines, comme formant un conte, et intéressante au
titre de conte70 [corsivi miei].
Entrati nel vortice del conte, entrati in una narrazione, i personaggi sono investiti da una serie
di
meccanismi
deformanti:
Saussure
parla
di
«transposition»71,
«déplacement»72,
«dédoublement»73, «réduction de 2 personnages à un74, «défiguration et étymologie»75,
valorizzazione di un dettaglio «même absolument insignifiant en soi»76. Soprattutto, la
«manque de mémoire» sarebbe «un des plus énormes facteurs de transformation»77, strumento
di un atto diegetico che lavora su spostamenti e alterazioni. La leggenda agirebbe inoltre in
una direzione sintetizzante, con un «instinct dramatique» di compressione degli eventi78,
69
Note, 3958.4.107.
Note, 3959.6.8.
71
Note, 3958.2.1.
72
Note, 3959.10.6.
73
Note, 3958.4.20 e 3958.7.34.
74
Note, 3858.7.34.
75
Note, 3858.7.35.
76
Note, 3858.7.34. In un’altra nota la visione è più drastica: Saussure dirà che «surtout les détails
insignifiants» sono oggetto di valorizzazione (3958.8.23).
77
Note, ed. Marinetti-Meli, p. 440.
78
Scrive Saussure: «Tandis que les événements composant la catastrophe sont à l’origine très distincts,
répartis sur divers théâtres et sur une période chronologique de trente-quatre ans, le poème en fait, avec un bon
70
23
apportando modifiche dettate dalla necessità di introdurre «un sens et une unité dans les
événements»79:
Un des élément de destruction semés pour l’histoire dans le terrain particulier qu’est la
légende, c’est que les détails, avec le temps, s’arrangeront presque tout seuls en une
unité dramatique à laquelle seront subordonnées beaucoup de choses, et sacrifiées
beaucoup d’autres80.
Il problema dell’identità è in stretta relazione con il concetto, come rileva Turpin, d’ingresso
del personaggio in una narrazione. Al contrario di quanto accadeva nelle ricerche del tempo,
che tracciavano sovrapposizioni rigide tra personaggio storico e leggendario «sans interroger
cette notion de personnage quand celui-ci entre dans une narration», Saussure rintraccia i
processi di trasformazione che rendono complesso il rapporto tra i due elementi, mostrando
che «dans ces transformations l’unité n’est jamais donnée», secondo una «relation
dynamique»81, in cui quello che interessa non sono i fatti, ma come un discorso si trasforma82.
Si è anticipato che Turpin segnala, in questo vortice di trasformazioni in cui il
personaggio e la leggenda vengono rapiti, delle evidenti analogie con Freud. In effetti, non
sembra particolarmente tortuoso rintracciare, dietro i meccanismi di trasformazione
variamente enucleati negli appunti saussuriani, la condensazione (Verdichtung) e lo
spostamento (Verschiebung) tipici del linguaggio onirico, del lapsus, del motto di spirito. Le
alterazioni che i personaggi subiscono nel cammino della leggenda, tra sdoppiamenti,
raddoppiamenti o perfino cambi di sesso83, non divergono poi tanto, nella descrizione dei loro
meccanismi e persino nella terminologia utilizzata, da quanto Freud andava elaborando
all’incirca negli stessi anni84. Direi anzi che ci s’imbatte in passi che si potrebbero trovare
nell’Interpretazione dei sogni, a dimostrazione di quell’atmosfera «quasi onirica» di cui parla
Avalle (cfr. supra I.1):
instinct dramatique, une seule catastrophe, qui s’accomplit dans une seule ville». Poco più avanti parla di un
«poème originaire, qui devrait présenter l’histoire de la chute du royaume burgonde en plusieurs récit séparés au
lieu d’un seul» (3958.2.29). In un altro punto parla di un «raccourci très favorable au poète» (3958.2.1).
79
Note, 3858.7.35.
80
Note, 3958.4.63.
81
TURPIN, «Légendes - Mythes - Histoire. La circulation des signes», p. 309.
82
Turpin parla di «sémiologie du discursif» (Ivi, p. 312).
83
Si legge nella carta 3958.4.66: «même le sexe peut changer pour figures accessoires».
84
La ricerca di Freud intorno a simili meccanismi deformanti risale a Psicopatologia della vita quotidiana,
del 1901. Saussure si dedica alla ricerca sulle leggende germaniche almeno sin dai primi anni del XX secolo, ma
probabilmente anche prima.
24
«On voit d’une manière générale que Sigéric est Sigfrid, mais tous ceux qui
l’entourent sont déplacés d’une génération sauf Sigmund qui se partage en 2
personnages comme je l’indiquerai en détail»85.
Mi unirei, inoltre, alle considerazioni di Turpin aggiungendo che nelle Note non manca
neanche la dimensione della censura come causa scatenante delle alterazioni dei personaggi:
«Sans doute, avant même que le récit épique naisse, cent forces [psychologiques] sont
en jeu pour empêcher que [le poète] l’imagination populaire prenne une connaissance
des faits vraiment conforme aux faits86.
Di una qualche forma di censura, Saussure parla anche a proposito della morte di Sigerico:
l’intolleranza per la figura di un padre assassino avrebbe fatto optare per il «dédoublement
dans la légende du personnage historique de Sigismond»87.
Entrando in una trama linguistica (si ricordi la sovrapposizione che Saussure opera tra
leggenda e lingua), la definizione dell’identità diventa qualcosa d’inafferrabile a causa degli
slittamenti continui che l’individuo semiologico subisce, slittamenti che sono operati da e nel
linguaggio. La realizzazione di un significato compiuto e cristallizzato è continuamente
procrastinata e l’essere delle leggende trova il suo valore solo nel rinvio a un altro anello di
una catena sempre aperta: una logica del significante in embrione? Manca ancora un tassello
per poterlo asserire.
4. Il personaggio significante
È risaputo come, partendo dall’ottica relazionale del segno elaborata da Saussure nel Corso di
linguistica generale, Jacques Lacan sia pervenuto all’eresia dell’algoritmo in cui figura la
barra che separa significante e significato, e che condanna quest’ultimo a scivolare
costantemente sotto il primo. Lacan ha teorizzato la priorità e l’autonomia del significante, cui
solo compete la significazione, la quale, mai agganciata univocamente a uno solo di essi, è
l’effetto della concatenazione dei significanti. «È nella catena del significante che il senso
85
Note, 3958.4.7.
Note, 3958.4.27. Si noterà la cancellazione dell’aggettivo psychologiques riferito a forces.
87
Note, 3958.4.20.
86
25
insiste»88, mai individuabile puntualmente ma colto nello slittamento da un significante
all’altro89.
Al lettore delle Note sulle leggende germaniche e Tristano la rielaborazione lacaniana
della linguistica di Saussure apparirà meno eretica di quanto appaia a chi conosce solo la
visione saussuriana del segno come rapporto di significante e significato, per come è
presentata nel Corso di linguistica generale. Lacan non è così innovativo nel demolire la
capacità del significante di rappresentare il significato, né nel detronizzare quest’ultimo.
Arrivé ha ampiamente argomentato le convergenze tra il significante lacaniano e il
personaggio-simbolo delle Note90, fino a lasciare intravedere il dubbio di un’influenza diretta,
ammettendo però infine: «En tout cas, je n’ai pas trouvé aucune allusion à cette recherche
dans ce que j’ai lu de Lacan»91. In effetti, si potrebbe considerare un’eventuale mediazione di
Starobinski, che cominciava a pubblicare sul Mercure de France già nel 196492 i primi
risultati delle sue ricerche sugli appunti inediti di Saussure dedicati agli anagrammi, ricerche
che sarebbero poi confluite in Les mots sous les mots93. Ma la faccenda, che riguarderebbe più
lo storico della psicoanalisi, non interessa in questa sede. Non ci soffermeremo neanche
sull’aspetto che attira l’attenzione del linguista, ossia il rapporto tra il significante saussuriano
88
Jacques LACAN, «L’Istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud», in Scritti, Torino,
Einaudi, 1974, vol. I, pp. 488-523, p. 492.
89
Per il significante lacaniano, e per la teoria del soggetto a esso collegata, di cui qui si traccerà un quadro
molto sintetico, rimando, oltre che ai testi di Lacan che saranno citati, a: Giovanni BOTTIROLI, Jacques Lacan,
Arte linguaggio desiderio, Bergamo, Sestante Edizioni, 2002; Id., «Da Freud a Lacan», Che cos’è la teoria della
letteratura. Fondamenti e problemi, pp. 197-293; Antonio DI CIACCIA - Massimo RECALCATI, Jacques Lacan.
Un insegnamento sul sapere dell'inconscio, Milano, Mondadori, 2000; Christian CHELEBOURG, «Du registre de
l’Imaginaire à la poétique du sujet», in Id., L’imaginaire littéraire. Des archétypes à la poétique du sujet, Paris,
Nathan, 2000, pp. 98-105; Massimo RECALCATI, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione,
Milano, Raffaello Cortina Editore, 2012, pp. 105-120. Specificamente sul rapporto Saussure-Lacan in merito alla
definizione di significante: Michel ARRIVÉ, «Signifiant saussurien et signifiant lacanien», in Id., Linguistique et
psychanalyse. Freud, Saussure, Hjelmslev, Lacan et les autres, pp. 123-143 e «Lacan lecteur de Saussure», in
Id., Langage et psychanalyse, linguistique et inconscient. Freud, Saussure, Pichon, Lacan, Paris, PUF, 1994, pp.
81-130; André GREEN, «Linguistique de la parole et psychisme non conscient», in BOUQUET, Ferdinand de
Saussure, pp. 272-284.
90
Si veda, in particolare, Linguistique et psychanalyse alle pp. 33 ss.
91
ARRIVÉ, «Lacan lecteur de Saussure», p. 86. Si noti, per esempio, come questa descrizione del
significante lacaniano data da Arrivé non paia così lontana dal personaggio-simbolo di Saussure: « uoi qu’il en
soit de l’exemple – jour et nuit, homme et femme, c’est tout un – Lacan procède de même coup à deux gestes:
l’exclusion, d’emblée, de la chose – dont il n’y a même pas à dire qu’elle est absente; et l’insistance sur
l’absence – qui est en même temps présence – de l’autre signifiant (Ivi, pp. 11 -119).
92
Jean STAROBINSKI, «Les anagrammes de Ferdinand de Saussure», Mercure de France, février 1964, pp.
243-262. Si tenga presente che l’influenza della linguistica saussuriana nel pensiero di Lacan emerge a partire da
L’istanza della lettera, del 1966.
93
Jean STAROBINSKI, Les mot sous les mots. Les anagrammes de Ferdinand De Saussure, Paris, Gallimard,
1971 (trad. it.. Le parole sotto le parole. Gli anagrammi di Ferdinand de Saussure, Genova, Il Melangolo,
1982).
26
e quello lacaniano; quello che mi pare rilevante ai nostri fini è ciò che si può ricavare dallo
stadio successivo della teoria lacaniana, ossia la visione del soggetto che ne deriva.
La grande novità dell’elaborazione teorica di Lacan starebbe nell’aver introdotto il
soggetto nella linguistica strutturalista. Nell’immettere il soggetto nel sistema linguistico,
Lacan ne ricava la teoria di un soggetto alienato, diviso, soggetto come mancanza a essere. La
divisione costitutiva del soggetto è strettamente connessa alla visione della significazione
come effetto della catena dei significanti: il soggetto, lontano dall’essere contemplato come il
manipolatore del linguaggio, è un effetto di significato. Non può quindi costituirsi come
presenza a se stesso, ma è invece continuamente procrastinato, rinviato sempre a un
successivo anello: «il significante rappresenta il soggetto per un altro significante»94.
Ora, con tutte le precisazioni che abbiamo cercato di apportare riguardo l’eventuale
presenza di un soggetto nelle Note, non mi sembra inappropriato dire che Saussure non
avrebbe avuto bisogno di Lacan per mettere a fuoco l’idea di un soggetto mai realizzato
pienamente, ma attraversato da un’alterità che lo rende irrimediabilmente scisso e incompleto.
È vero: Saussure parla di leggende, di fatti storici, di eventuali influenze della storia sulla
leggenda, la sua ricerca verte sull’evoluzione diacronica (è invece semmai una diacronia nel e
del discorso a investire il significante lacaniano), negli appunti è quasi maniacale nel mettere
in guardia il lettore dalla possibile confusione, sempre in agguato, tra personaggio leggendario
e soggetto umano. Ma a essere notevole è l’elaborazione teorica cui Saussure approda
nonostante i presupposti dell’empirista. Avalle lo ha spiegato con parole eloquenti:
Partito dal concetto di transfert ma con uno scarso bagaglio etno-culturale, Saussure
ha fatto della sua formazione e delle sue esperienze nel campo linguistico-matematico
una leva potente per andare più a fondo nei problemi relativi alla natura e alla
composizione del segno stesso95.
Seguendo quella sua predisposizione all’astrazione logico-matematica, mi sembra che il
Saussure delle Note metta mirabilmente a fuoco quell’«antitesi tra essere e non essere» che,
secondo Northrop Frye, accomuna la letteratura e la matematica:
Sia la letteratura che la matematica procedono da postulati non da fatti; ambedue
possono essere applicate a una realtà esterna e tuttavia esistere anche in forma pura o
autonoma. Ambedue inoltre inseriscono un cuneo nell’antitesi tra l’essere e il non
essere, che è molto importante per il pensiero discorsivo. Non si può dire né che il
simbolo sia né che non sia la realtà che esso manifesta96.
94
Jacques LACAN, «Posizione dell’inconscio», in Scritti, Einaudi, Torino, 1974, vol. II, p. 844.
AVALLE, Ferdinand De Saussure fra strutturalismo e semiologia, p. 101.
96
Northrop FRYE, Anatomia della critica, Torino, Einaudi 1969, pp. 472-3.
95
27
È per via di quella propensione all’astrazione teorica, alle strategie del pensiero e della
discorsività che fece intravedere a Merleau-Ponty, durante la celebre conferenza al Collège de
France del 15 gennaio 1953 (conferenza che influenzò profondamente Lacan), la «possibilité
de tirer une philosophie de l’einsegnement de Saussure», è in forza di quella propensione, si
diceva, che Saussure si allontana da un ambito di ricerca profondamente segnato dal clima
positivistico del tempo per elevarsi – non mi sembra a questo punto fuori luogo riconoscerlo –
alla prospettiva di una teoria del soggetto, quasi a darsi la possibilità di riflettere sull’essere
oltrepassando le implicazioni dell’esistente.
Un quadro completo di tale prospettiva richiede ancora un’annotazione, per la quale sarà
necessario considerare la funzione retroattiva della teoria del soggetto di Lacan sul pensiero
freudiano.
Si è argomentato sopra, seguendo il commento di Turpin alle Note, come nei meccanismi
di trasformazione del personaggio descritti da Saussure siano facilmente rintracciabili le leggi
della condensazione e dello spostamento che Freud poneva alla base del lapsus, del motto di
spirito, del linguaggio onirico (e che in Lacan, attraverso la mediazione della linguistica di
Jakobson97, diventano metafora e metonimia: ancora una volta ritroviamo in embrione in
Saussure quello che sarebbe poi stato sviluppato in ambito strutturalista). I meccanismi
trasformazionali rinvenuti nelle Note non fanno che aggiungere un argomento alla nota
questione dell’incontro mancato tra Freud e Saussure, ma gli appunti dedicati alle leggende,
per come li abbiamo letti tramite il filtro lacaniano, possono portare a un ulteriore
approfondimento del parallelismo tra il pensiero di Saussure e quello di Freud.
La teoria lacaniana del soggetto diviso è improntata al noto saggio freudiano Psicologia
delle masse e analisi dell’Io98 (oltre che al saggio sul narcisismo99), da cui Lacan ricava la
visione di un io configurato come una cipolla: «lo si potrebbe pelare e si troverebbero le
identificazioni successive che lo hanno costituito»100.
Nel saggio del ’21, Freud, ormai dubbioso sulla priorità del complesso edipico nella
formazione dell’io, propone un’idea d’identità come identificazione, secondo complessi
meccanismi che variano dalla banale imitazione di una persona amata, alla più sottile
97
Roman JAKOBSON, «Due aspetti del linguaggio e due tipi di afasia», in Id., Saggi di linguistica generale,
Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 22-45.
98
Sigmund FREUD, «Psicologia delle masse e analisi dell’Io», in Id., Opere, Torino, Boringhieri, 19671980, vol. IX, pp. 261-330.
99
Sigmund FREUD, «Introduzione al narcisismo», Opere, vol. VII, pp. 443-472.
100
Jacques LACAN, Gli scritti tecnici di Freud (1953-54), Torino, Einaudi, 1978, p. 213.
28
introiezione di questa persona nella zona dell’ideale dell’io, all’identificazione di una massa
con un leader. Quello che ne risulta è la visione di un soggetto alienato, di un soggetto
assoggettato, di un’identità come attraversata dall’alterità, per cui l’io non è che un aggregato
di prodotti risultanti da meccanismi d’identificazione, sempre decentrato e incompiuto –
Freud ha parlato di Hilflosogkeit, inermità, per enucleare questa condizione dell’individuo
umano. La visione di un io stabile e centrato è decostruita dalla prospettiva di un’identità
come meccanismo di sottili spostamenti, interpolamenti di schegge d’essere, identità come
rapporto indefesso con l’alterità: come per il personaggio delle Note, l’identità è relazionale
ed è definibile solo in rapporto a una serie d’identificazioni.
È bene sottolinearlo: la prospettiva, il disegno del progetto, gli ambiti di studio in cui
sorgono sono affatto diversi. Ma la visione saussuriana e quella freudiana condividono l’idea
di una sorta di vortice identitario che condanna l’individuo a una costante fuga da sé, l’idea di
un’irrisolutezza senza uscita, di un’identità da intendersi come estrapolazione e
accaparramento di frammenti d’essere. In quel meccanismo fluido che caratterizza i processi
di creazione e traslazione dei personaggi per come lo descrive Saussure, in quell’idea di
personaggio come agglomerato instabile di tratti sottoposto a continua scomposizione e
ricomposizione, è possibile cogliere un’eco della concezione relazionale dell’identità
elaborata da Freud, che non sembrerà poi così lontana da quella bulle de savon tanto
incisivamente descritta dallo studioso ginevrino. Che si parli di segno linguistico, di
personaggio-simbolo, di leggenda, di soggetto o di soggetto desiderante, il discorso sembra
affidarsi a un’assenza, a un essere che non coincide con se stesso, a un’immagine di perenne
alterità.
Nella teoria lacaniana, si dice, confluiscono i vertici – Hegel, Husserl, Heiddeger, Freud,
Sartre – di un pensiero che ha voluto minare la salda immagine del soggetto cartesiano. Non
resta che attendere che filosofi e psicanalisti s’interessino al materiale ancora troppo poco
esplorato conservato nella Biblioteca di Ginevra (credo che molto ancora si possa ricavare,
nel senso qui intravisto, dalle ricerche sugli anagrammi), per stabilire se un qualche posto
nella serie non spetti anche a Ferdinand de Saussure.
Nell’attesa, ci si limiterà a considerare quanto fin qui detto per quella che sembra
un’operazione legittimata dallo stesso Saussure: utilizzare gli spunti forniti dalle Note per
interrogarsi sui modi d’essere di un’identità finzionale, su come il meccanismo della
costituzione di un personaggio operi nella testualità.
29
5. Dalla leggenda alla letteratura: Sigfrido non è Don Chisciotte
Occorre chiarito subito: a rigore, l’operazione annunciata in chiusura del paragrafo precedente
non sarebbe autorizzata. È quanto lascia espressamente intendere questa nota di Saussure:
Les personnalités crées par [le romancier] le poète, ne peuvent être comparées pour
une double raison; - au fond 2 fois la même. – elle ne sont pas un objet lancé dans la
circulation avec abandon de l’origine: la lecture [d’Hamlet] rectifie continuellement ce
qui arriverait à Don Chisciotte dès qu’on le laisserait courir sans recours à Cervantes
ce qui revient à dire que ces créature ne passent ni par l’épreuve du temps, ni par
l’épreuve de la socialisation, restent individuelles, hors d’état d’être assimilées à nos [
Important: ce n’est pas comme un mot. Il n’y a pas lieu de comparer101.
Al fondo della questione le nozioni di autore e origine. I personaggi delle opere letterarie,
contrariamente a quelli della leggenda e del mito, non sarebbero sottoposti alla prova della
socializzazione caratteristica del segno linguistico: una qualche forma d’irrigidimento
impedirebbe loro il movimento semiologico, vincolati come sono a una fonte originaria mai
azzerabile. Don Chisciotte (inizialmente era Amleto, che forse è sembrato a Saussure un
personaggio poco letterario) non conoscerebbe mutamento – e non potrebbe essere oggetto
semiologico – poiché prodotto marchiato dalla firma di Cervantes e consegnato alla fissità
della scrittura, marchio che negherebbe l’idea d’identità incalcolabile di cui Saussure parla a
proposito del personaggio leggendario:
L’identité d’un symbole ne peut jamais être fixée depuis l’instant où il est symbole,
c’est-à-dire versé dans la masse sociale qui en fixe à chaque instant la valeur […]
Où est maintenant l’identité ? On répond en général par sourire, comme [si c’était
une chose en effet curieuse] remarquer la portée philosophique de la chose, qui ne va à
rien que de dire que tout symbole, une fois lancé dans la circulation – or aucun
symbole n’existe que parce qu’il est lancé dans la circulation – est à l’instant même
dans l’incapacité absolue de dire en quoi consistera son identité à l’instant suivant102.
La convinzione di una stretta connessione tra la letteratura e una scrittura da intendersi come
forma cristallizzante, manovrata da un individuo cosciente, l’autore, sembra segnare un punto
di non ritorno nell’attività di ricerca di Saussure. Convinto che la rintracciabilità di un’origine
e l’intenzionalità di un individuo che confeziona un testo costituiscano un ostacolo alla
circolazione libera dei segni, Saussure volge i suoi interessi alle tradizioni orali103.
101
Note, 3958.8.22.
Note, 3958.4.risvolto di copertina.
103
Sull’argomento si veda Sandrine BEDOURET - Gisèle PRIGNITZ, a cura di, En quoi Saussure peut-il nous
aider à penser la littérature?, Pau, Presses Universitaires de Pau et des pays de l’Adour, 2012. In particolare, si
rimanda a: Michel ARRIVÉ, «De la lettre à la littérature: un trajet saussurien», pp. 33-49 e a Pierre-Yves
TESTENOIRE, «Littérature orale et sémiologie saussurienne», pp. 61-77.
102
30
La sopravvalutazione di concetti come origine, intenzione cosciente, autore lo fecero
d’altronde desistere dal portare a termine le sue ricerche sugli anagrammi. Nei circa cento
quaderni dedicati al meccanismo anagrammatico nella poesia latina e neo-latina104, Saussure
s’impegna a rintracciare fenomeni di ridondanza fonica che soggiacciono alla versificazione,
soffermandosi su come spesso un verso riproduca i fonemi di un elemento, per esempio un
nome proprio, non presente linearmente nel verso stesso. Saussure era convinto di trovarsi
davanti a un processo intenzionalmente pilotato, un gioco poetico tipico della versificazione
latina, una regola che il poeta si autoimpone. Quando interrogherà un compositore di versi
latini vivente, Giovanni Pascoli, sull’intenzionalità o la casualità di casi anagrammatici
secondo cui, tra i numerosi esempi, dietro ‘Cicuresque’ si celerebbe ‘Circe’ e dietro ‘facundi
calices hausere alterni’ ci sarebbe ‘Falerni’105, il silenzio di Pascoli, che non rispose alla
lettera, pare sia stato interpretato come un’ammissione di non intenzionalità, ragion per cui
Saussure avrebbe abbandonato la ricerca. Per Saussure la poesia, scritta e suggellata da una
firma, non potrebbe concepire un funzionamento analogo a quello della leggenda,
un’immersione in quella fitta trama adulterante in cui tutto è sottoposto a deformazioni
continue, all’insegna di un gioco libero e dinamico: la scoperta che l’opera possa andare oltre
la coscienza autoriale lo farà desistere dall’addentrarsi nella questione.
Saussure ha ostinatamente tenuto separati due ambiti di ricerca, quello della poesia e
quello della leggenda, che lo conducevano, contro i suoi presupposti, verso la stessa visione:
quella di uno sprofondamento di questi oggetti di linguaggio in una circolazione
interdiscorsiva che trascende la sfera del singolo. Se il personaggio leggendario era il risultato
di una ricombinazione fortuita di elementi noti, il verso saturnio utilizza e ricompone un testo
che gli preesiste, senza che vi sia una coscienza orchestratrice alla base dell’operazione. A
questo proposito, Starobinski, con una formula che vuole contrapporsi all’idea di una
coscienza autoriale saldamente manipolatrice, parla di una «légalité linguistique»:
Le langage est ressource infinie, et derrière chaque phrase se dissimule la rumeur
multiple dont elle s’est détachée pour s’isoler devant nous dans son individualité106.
Questa considerazione di Starobinski rivolta alle ricerche saussuriane sugli anagrammi è
ugualmente appropriata a quanto finora detto sul personaggio leggendario, che s’isola dalla
104
Cf. Johannes FEHR, «Saussure: cours, publications, manuscrits, lettres et documents. Les contours de
l’œuvre posthume et ses rapports avec l’œuvre publiée», Histoire Epistémologie Langage, t. 18, 2, 1996, pp.
179-199 (in particolare, si vedano le pp. 180-183).
105
Cfr. STAROBINSKI, Les mots sous les mots, pp. 149-150.
106
Ivi, p. 153.
31
nebulosa di tratti per acquistare, agli occhi di chi incontra la leggenda in un determinato stadio
storico del suo percorso, una provvisoria identità, pronta a disgregarsi per farsi strumento di
una nuova, futura combinazione. In questo senso, si potrà asserire che l’errore di Saussure nel
porre paletti così rigidi tra casualità e intenzionalità nelle ricerche sugli anagrammi è lo stesso
errore che Saussure commette nel contrapporre Sigfrido a Don Chisciotte, il personaggio
leggendario a quello letterario: anche qui, è la sopravvalutazione dell’intenzionalità a creare
un blocco. Tale sopravvalutazione, che emerge chiaramente nell’esperienza fallimentare della
ricerca sugli anagrammi, ridimensiona il veto imposto da Saussure circa un’eventuale
trasposizione sul versante letterario delle dinamiche interdiscorsive da lui minuziosamente
descritte a proposito delle leggende.
Non si può certo rimproverare a Saussure di non aver letto La morte dell’autore di
Barthes o Che cos’è un autore di Foucault107. In sede di ricezione il testo letterario acquista
una duttilità che trapassa e mortifica, non differentemente dalla leggenda per come è descritta
nelle Note, ogni questione legata all’idea di origine, di creazione, e il mondo finzionale
proposto dal testo sussiste e circola – circola tra il testo, il lettore e gli altri testi –
indipendentemente dalla fase della sua produzione. Inoltre, in quanto oggetto di linguaggio,
un testo è «un gioco di segni ordinato meno secondo il suo contenuto significato che secondo
la natura stessa del significante»108 e, proprio come nel caso della leggenda, che non opera
mai in vista di un senso veicolato e destinato alla stabilizzazione, ma è manipolazione sempre
aperta di significanti, la scrittura si articola nella possibilità indefinita del discorso.
Non si rimprovererà, si diceva, a Saussure di non aver letto Foucault, ma si apprezzerà
semmai quella propensione a una teorizzazione che trascende le premesse della ricerca
intrapresa e che, benché la prospettiva proposta sia preclusa alla letteratura, anticipa per certi
aspetti lo stesso Foucault (si tornerà su quest’aspetto nel capitolo successivo). Saussure offre,
sia nella ricerca sulle leggende sia in quella sugli anagrammi, la descrizione di una logica che
sposta, ricompone, ridisegna secondo un piano mai abortito, ma sempre connotato
d’incompletezza, provvisorietà, mutamento. Più che ai contenuti cui approdano queste
ricerche, contenuti che al lettore di oggi possono apparire ingenui (è il caso degli anagrammi,
ma sarà anche il caso della sovrapposizione del personaggio di Tristano con quello di Teseo),
107
Roland BARTHES, «La morte dell’autore» (1968), in Id., Il brusio della lingua, Torino, Einaudi, 1988,
pp. 51-56; Michel FOUCAULT, «Che cos’è un autore» (1969), in Id., Scritti letterari, Milano, Feltrinelli, 2010,
pp. 1-21.
108
FOUCAULT, «Che cos’è un autore?», p. 3.
32
è la definizione di quella logica che va salvaguardata, con un’attenzione al funzionamento più
che ai fatti, al processo formale che trasforma un fatto in un altro, più che al fatto in sé.
A proposito di questa logica fluida contemplata nelle Note, Massimo Bonafin ha accostato
la riflessione saussuriana sul personaggio leggendario a quella dell’antropologo Rodney
Needham sulle classificazioni politetiche109, tassonomie che, a differenza di quelle
monotetiche, le quali prevedono la rispondenza a un insieme di proprietà necessarie e
sufficienti perché si possa definire un membro di una classe, non considererebbero nessuna
proprietà, nessun tratto, per dirla con Saussure, necessari per stabilire l’appartenenza di un
determinato elemento a un gruppo. Una classificazione politetica raggruppa, duttilmente,
elementi che condividono un certo numero di tratti, ma nessuno di questi è considerato
indispensabile per stabilire che un elemento appartenga al gruppo, che ne costituisca un
membro. Si tratterebbe di un principio riconosciuto dalla biologia110 e adottato in seguito dalle
scienze umane, le quali «si confrontano con fatti e rappresentazioni a cui con difficoltà si
possono applicare principi logico-formali troppo rigidi, mentre guadagnano in penetrazione
ermeneutica dall’uso di categorie e tipologie più duttili (ma non meno rigorose)»111.
Alla stregua della teoria biologica ricondotta da Needham alle scienze dell’uomo,
Saussure parla del personaggio leggendario come di un paradigma politetico, di un’identità
mobile le cui caratteristiche, sempre pronte a essere trasferite in un altro essere semiologico,
possono considerarsi membri di un insieme-personaggio quel tanto che basta per garantire la
sua riconoscibilità, caratteristiche mai fissate in un’unità, ma flessibili, sostituibili. Nessun
tratto è garante dell’identità di un personaggio, nessuna caratteristica è condizione necessaria
perché si possa parlare di tale o tal altro personaggio:
La corrispondenza fra la riflessione saussuriana (tutt’altro che sistematica) e
l’approccio politetico alle tassonomie rivela, a mio vedere, una concordanza
epistemologica fra scienze umane differenti (antropologia, linguistica) che si può
attribuire alla natura dei loro oggetti di studio (uomini, testi), che hanno contorni
sfumati, che vivono nell’universo del pressappoco piuttosto che in quello della
precisione, che si possono distribuire in classi e categorie diverse da quelle proprie
109
Massimo BONAFIN, Guerrieri al simposio. Il Voyage de Charlemagne e la tradizione dei vanti,
Alessandria, Edizioni dell’Orso, pp. 2 1-211. Il lavoro di Roodney Needham a cui si fa riferimento è Against the
tranquillity of axioms, Berkeley, University of California Press, 1983. Un approfondimento della questione
compare inoltre in Andrea GHIDONI, «Il motivo dei vanti tra radici storiche e archetipi: alcune riflessioni di
metodo sulle classificazioni politetiche», in Somiglianze di famiglia: tipologie e classificazioni fra scienza e
letteratura, L’immagine riflessa, 2011, pp. 155-180.
110
Il riferimento è a Robert R. SOKAL - Peter H.A. SNEATH, The Principles of Numerical Taxonomy, San
Francisco, W.H. Freeman, 1963.
111
BONAFIN, Guerrieri al simposio, p. 204.
33
della logica formale, ma non meno riconoscibili e in grado di stabilire relazioni
cognitive112.
La comparazione proposta da Boanfin illumina la polivalenza della riflessione saussuriana,
riflessione sulle relazioni fluide che s’inserisce pienamente in quel filone di un pensiero
oppositivo rispetto alla logica dicotomica della tradizione aristotelica, preferendo la
polivalenza alla bivalenza: non si potrà dire che un personaggio è se stesso e non un altro,
perché non si tratta che di una catena di relazioni.
È questa logica della concatenazione libera, questa concentrazione sul processo più che su
un contenuto fissato che ci ha spinto a rivedere la denominazione di personaggio-segno che si
ritrova nel commento di Avalle alle Note, alla quale si preferirà quella di personaggiosignificante, avendo appurato come questa appaia più appropriata alla dinamica descritta da
Saussure, in cui, più che puntare un riflettore su un significante che rimanda a un significato,
si asseconda piuttosto una mai conclusa operazione di significazione113.
In quest’ottica, Saussure avrebbe descritto un meccanismo di disseminazione del
personaggio significante nel percorso della leggenda, interpretando questa come un
meccanismo cieco in cui ciò che conta è, più che una trama, un rincorrersi di schegge
d’identità. Nelle Note, infatti, non solo «si ribadisce la priorità del personaggio
sull’intreccio»114 (contro le teorie che costringono il personaggio nella limitatezza della
funzione, subordinandolo all’intreccio), ma si parla inoltre indifferentemente di personaggio e
leggenda come di simboli, quasi a lasciarne intravedere un’intercambiabilità, se non una
coincidenza. Trasponendo il tutto, contro il dettato di Saussure, sul versante letterario, quella
disseminazione del personaggio significante nel farsi della leggenda diventerà una
disseminazione del personaggio significante nel farsi della scrittura, come se questa si
ramificasse e costruisse intorno a un meccanismo di richiami identitari che penetrano nel
testo, lo attraversano, lo costituiscono.
La sovrapposizione di leggenda e scrittura richiederà qualche chiarimento, non tanto per
la volontà di Saussure di tenere ben separati leggenda e testo letterario, ostacolo che mi pare
facilmente sormontabile, quanto per il passaggio da un discorso – quello di Saussure sulla
leggenda – che verte sulla diacronia, sul movimento storico, a uno – quello che avrà come
oggetto il testo letterario – che contemplerà un movimento sul piano della sincronia, il
112
Ivi, p. 208.
Avalle stesso, del resto, argomenta ampliamente le incertezze linguistiche di Saussure. Cfr. AVALLE,
Ferdinand De Saussure fra strutturalismo e semiologia, nota 14 alle pp. 85-87.
114
BONAFIN, «Prove di un’antropologia del personaggio», p. 8.
113
34
movimento di un personaggio all’interno di uno stesso testo. Si tratta cioè di ragionare sul
funzionamento dell’intersezione dell’asse paradigmatico e di quello sintagmatico del
personaggio, intersezione che, in un contesto letterario come quello medievale, in cui i
personaggi si offrirebbero, quasi per definizione, come «attualizzazioni di tipologie già
codificate nella cultura»115, può aprire proficue prospettive di analisi.
6. Il personaggio medievale: un anacronismo?
Emmanuèle Baumgartner afferma che, se dovesse scegliere una parola per indicare la
modalità di scrittura del romanzo medievale, sceglierebbe il prefisso ‘re’ 116. Il romanzo
medievale non contempla la preoccupazione della novità della produzione, e il suo è sempre
un gioco di riflesso, scarto, spostamento rispetto a una fonte. Il romanzo medievale è sempre
frammento di una realtà testuale che lo sovrasta e lo attraversa e, in questa scrittura della
riproposizione, il ritorno del personaggio gioca un ruolo di primo piano, poiché la memoria
culturale di cui è latore pilota non solo la riscrittura, ma anche la ricezione del testo: autore e
lettore viaggiano in una sorta di biblioteca babelica in cui ogni gesto di scrittura e di lettura
nasce, potremmo dire, già smarrito in una rete di corrispondenze. Questo rinvio a una storia
nota, a una costruzione già data, questo inserimento in un’enciclopedia condivisa sia sul piano
della produzione che su quello della ricezione dà agevolmente luogo a un giudizio che, nel
confronto con il personaggio della letteratura moderna, dipinge quello medievale come
mancante, mancante di originalità, di evoluzione, di profondità psicologica:
Loin d’être doués d’une singularité, les personnages appartiennent à des types
facilement reconnaissables, dont les combinaisons s’effectuent selon des modalités
limitées et programmables117.
I personaggi medievali farebbero difetto di una «specifica psicologia che li individualizzi»118,
sarebbero inevitabilmente «définis par la quantité de leurs qualités, et non par la qualité de
115
Ivi, p. 5.
Emmanuèle BAUMGARTNER, «Retour des personnages et écriture du roman (XIIe-XIIIe siècles)», in
Pierre GLAUDES - Yves REUTER, a cura di, Personnage et histoire littéraire, Actes du colloque de Toulouse
16/18 mai 1990, Toulouse, Presses universitaires du Mirail, 1991, pp. 13-22, p. 14.
117
Pierre GLAUDES - Yves REUTER, Le personnage, Paris, PUF, 1998, pp. 19-20.
118
Alberto VARVARO, «La costruzione del personaggio romanzesco nel XII secolo» in Francesco
FIORENTINO - Luciano CARCERERI, a cura di, Il personaggio romanzesco. Teoria e storia di una categoria
letteraria, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 23-44, p. 29.
116
35
leurs qualités»119 e, in opposizione al personaggio moderno complesso e propenso a dipanare
la propria complessità nel percorso nel tempo, «dati una volta per tutte»120, affidati a una
«scrittura narrativa dove l’azione domina sulla meditazione, sullo scavo nell’interiorità, sulla
descrizione psicologica o l’analisi sociale»121.
La letteratura medievale non contemplerebbe, quindi, una visione complessa
dell’individuo, visione considerata d’altronde estranea all’uomo del medioevo, il quale si
riconoscerebbe soltanto come parte di una forma collettiva (la famiglia, il popolo, etc.) e
risponderebbe a un’idea di personalità «centrifuge et façonnée par des formes extérieures,
tandis que la personnalité moderne est son propre centre»122. Il secondo termine di paragone è
dunque un soggetto fondato su un centro organizzatore e realizzato da un vago e imprecisato
interno, osservazione che rivela una qualche ingenuità qualora si considerino i duri attacchi
cui il soggetto è stato sottoposto nel corso nel ventesimo secolo, in quel suo scoprirsi
attraversato da forze – che si voglia chiamarle linguaggio, cultura, natura o inconscio è
indifferente – che lo trascendono (il che metterebbe sulla pista di una pacificazione tra un
medioevo costruito su forme esteriori, alieno a un’idea di originalità personale e un
postmoderno che ha smarrito ogni idea di centro fondante e individualizzante, ma
l’argomento ci porterebbe evidentemente troppo lontano).
La concezione del personaggio medievale spesso proposta dalla critica è dunque, si
diceva, ancorata a un’idea d’incompletezza: più tipo che individuo, il personaggio medievale
è latore di una maschera codificata più che di un carico densamente umano123. Dietro queste
considerazioni largamente condivise mi pare si possa intravedere lo stesso – benché
apparentemente opposto – errore critico che, sul versante della letteratura sette-ottocentesca,
ha portato a un approccio psicologistico al personaggio. Si tratterebbe cioè di pretendere che
la nozione di personaggio si esaurisca nel suo rinvio alla persona, eludendo la trama testuale
in cui prende forma, il suo essere oggetto di linguaggio che, solo nel e attraverso il linguaggio
e le dinamiche della testualità, potrà dirci qualcosa sull’umano. Si tratta chiaramente
119
Evelyn B. VITZ, «Type et individu dans l’‘autobiographie’ médiévale. Etude d’Historia Calamitatum»,
Poétique, 24, 1975, pp. 426-445, p. 430.
120
Cesare SEGRE, «Personaggi, analisi del racconto e comicità nel Romanzo di Tristano», in Pier Lorenzo
GRADIN, a cura di, Los caminos del personaje en la narrativa medieval, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2006,
pp. 3-17, p. 16.
121
Maurizio VIRDIS, «Idee di letteratura. Medioevo e dintorni», in Duilio CAOCCI - Marina GUGLIELMI, a
cura di, Idee di letteratura, Roma, Armando, 2010, pp. 56-69, p. 57.
122
Dominique IOGNA-PRAT, «La question de l’individu à l’épreuve du Moyen Age», in BEDOS-REZAK IOGNA-PRAT, L’individu au Moyen Age. Individuation et individualisation avant la modernité, pp. 7-29, p. 12.
123
Un libro interamente fondato sulla visione del personaggio medievale come concretizzazione di
un’essenza è quello del già citato Pierre Berthiaume: Personae et personnage dans les récits médiévaux.
L’illusion anthropomorphique.
36
dell’atteggiamento opposto rispetto a quello strettamente funzionalista, che nascerà proprio
come riposta allo psicologismo, ma la verità sta nel mezzo: «Amleto e Falstaff non sono né
esistenti né non esistenti»124. La pretesa di attingere direttamente dal testo la rappresentazione
di una persona, confidando esclusivamente nel potenziale referenziale dell’atto diegetico, se
può portare a un esito positivo per il romanzo sette-ottocentesco (nel novecento la mossa non
funzionerà quasi più), si rivelerà fallimentare per il romanzo medievale, e allora, sì, si potrà
parlare di tipi, di maschere codificate dalla cultura, di applicazioni letterarie di schemi
disponibili. Qualcosa in più si potrà ottenere se ci si mette alla ricerca, attraverso un giro
evidentemente più lungo, non di una rappresentazione della persona, ma di una
rappresentazione delle dinamiche identitarie, se si presterà ascolto alle relazioni più che agli
oggetti, non ai contenuti immediatamente presenti, ma ai loro flussi e riflussi.
Hans Robert Jauss, richiamandosi a Blumerberg, ha fatto notare come ai testi medievali,
pregni del linguaggio del mito, sia estranea l’idea di contenuto come riserva, come oggetto
rigidamente dato: il contenuto si dà nel suo farsi, nel suo dipanarsi, è imprescindibile dall’atto
della sua fabbricazione, da intendersi come processo sempre in fieri. Una simile prospettiva,
riportata al nostro discorso, lascia intravedere la possibilità di problematizzare la questione
del personaggio-tipo medievale, qualora si rinunci, appunto, a considerarlo come un
contenuto dato, per collocarlo in una rete di relazioni che possa fornirci un’idea di soggetto,
d’identità, che non è mai un oggetto ma un processo. È nel gioco del «simbolismo senza
significanza», nella catena mai chiusa dei segni che bisogna addentrarsi per ricavare, oltre le
maschere e i tipi, un discorso che verta sull’umano, giacché anche nella tipizzazione può
esservi un contenuto di riflessione dell’uomo su se stesso:
L’insieme delle avventure di Renart a ogni incontro riconduce il modo di essere
esemplare degli eroi cavallereschi alla natura non ideale dell’uomo, alle sue
ineluttabili brame e debolezze e al tempo stesso fa apparire, come contraffazione
antieroica dell’epica cortese, un mondo tipizzato di caratteri compiuto e sottratto al
mutamento storico, che non è stato ancora sufficientemente apprezzato come modello
che conserva la sua validità nella comprensione che l’uomo ha di sé125.
Seguendo un ragionamento che mi pare non lontano da quello di Jauss, Christian Dours, in un
recente libro tratto dalla sua tesi di dottorato e dedicato alla questione filosofica delle finzioni
dell’identità personale, appoggiandosi a un saggio di Catherine Elgin in cui si legge che un
124
125
FRYE, Anatomia della critica, p. 473.
Hans R. JAUSS, Alterità e modernità nella letteratura medievale (1977), Torino, Boringhieri, 1989, p. 25.
37
esemplare, una figura astratta e codificata, nonostante la sua astrazione e non corrispondenza
alla realtà, «procure un accès épistémique aux traits qu’il exemplifie», scrive:
Et même si la générosité chevaleresque du chevalier n’existe pas dans notre monde,
l’œuvre littéraire consiste en une exploration épistémique de la nature humaine et de
ses limites126.
L’attenzione, nello studio del personaggio medievale, all’idea di soggetto come «esplorazione
epistemica», come costruzione operata da e nel linguaggio, è stata oggetto di alcune
riflessioni da parte della studiosa Virginie Greene. Greene lamenta la situazione in cui si trova
il medievista «lorsqu’on aborde toute question nécessitant de définir un individu, une
personne, un sujet, un soi, un moi, un être, dans le contexte historique et culturel du Moyen
Age»127, disapprovando definizioni di individuo vaghe, perché poco o per nulla propense a
indirizzarsi a una tradizione teorica moderna e postmoderna. La studiosa non ha dubbi
nell’affermare che una visione complessa del soggetto, la quale ha visto una sistematizzazione
teoretica con Hegel, Marx, Nietzsche, Freud, Lacan, riguarda anche l’uomo medievale che
ritroviamo nei romanzi che ancora leggiamo, poiché «la projection imaginaire littéraire
suppose un sujet complexe et divisé»:
«L’attention individuelle portée à un individu tend à le transformer en sujet, c’est-àdire en une entité complexe construite par et à travers un langage, car l’attention à
l’autre est une écoute et non pas une vision»128.
Si potrà quindi anche considerare i personaggi medievali come tipi involuti, codificazioni
astratte, ma non si potrà ignorare che, nel momento in cui queste maschere diventano oggetto
di una proiezione riflessiva, nel momento in cui delle maschere immobili diventano oggetto di
pensiero e «di ascolto», tanto per un autore quanto per uno spettatore-lettore, ecco che anche
dei tipi diventano, nell’esplorazione epistemica di cui si diceva, uno strumento per l’uomo
nella comprensione di sé.
Si tratta quindi di spostare l’asse dall’individuo al soggetto, dal personaggio-oggetto al
personaggio-relazione, dalla rappresentazione dell’uomo al discorso sull’umano che da un
testo si può ricavare. Non si tratta di fermarsi, come si diceva, alla rappresentazione diretta di
un individuo offerta dalla cultura medievale, né d’interrogarsi su una soggettività messa in
126
Christian DOURS, Personne, personnage. Les fictions de l’identité personnelle, Rennes, Presses
Universitaires de Rennes, 2003, p. 131. Il saggio di Catherine Z. Elgin a cui si fa riferimento è «Comprendre:
l’art et la science», in Roger POUIVET, a cura di, Lire Goodman, Combas, L’Eclat, 1992. La citazione si trova a
p. 52 de libro di Dours.
127
GREENE, Le sujet et la mort dans La mort Artu, p. 161.
128
Ivi, p. 165.
38
gioco dal punto di vista autoriale (è la prospettiva di Michel Zink)129, né di porsi il problema
di una ricezione del discorso sull’individuo da parte del pubblico medievale (è la prospettiva
dello stesso Jauss). Non si tratta cioè di una prospettiva storica, prospettiva che la letteratura,
ossia la storia delle storie che l’uomo si è raccontato su sé e sul mondo, può travalicare,
essendo depositaria di un irrinunciabile residuo antropologico: il soggetto non è
nell’immagine diretta di un individuo – autore, personaggio, lettore, uditore – ma in un
tessuto che bisogna decodificare: «on doit l’abstraire, car on ne peut l’extraire»130.
Ecco allora che è nei sommovimenti della diegesi, nel gioco di pieni e di vuoti che la
scrittura propone, in quella «specie di rete irregolare e senza confini in cui avviene un
continuo scambio, un’ininterrotta circolazione di elementi, ove ogni cosa è risucchiata
indietro o attirata in avanti dal resto»131 che bisogna rintracciare un discorso sull’identità.
Un’operazione simile richiede ovviamente strumenti teorici raffinati, di cui la critica della
letteratura medievale lamenta spesso la mancanza, e, come annota Bouget, «les outils
d’analyse pour comprendre le personnage de roman médiéval sont peu nombreux, et l’on
mesure toute la distance entre les études théorique aujourd’hui de référence, fondées
notamment sur le romans du XIXe et du XXe siècles, et le champ d’application qui nous
intéresse»132.
Gli studi medievali si ritrovano da ormai qualche tempo alle prese con il concetto di
medievalismo, ossia con la definizione di un quadro teorico e metodologico dello studio della
ricezione dei testi medievali tra XIX e XXI secolo133. Il termine è generalmente impiegato per
indicare le riscritture moderne di testi e trame della letteratura medievale, ma la questione non
può che inglobare anche la definizione dei termini entro cui considerare legittima
l’applicazione di teorie nate da un corpus di testi moderni ai testi medievali, operazione
sempre a rischio di anacronismo. Sulla legittimità dell’anacronismo non hanno dubbio i
curatori di un numero della rivista Littérature dedicato a Le Moyen Age contemporain.
Perspectives critiques:
129
Michel ZINK, La subjectivité littéraire. Autour du siècle de saint Louis, Paris, PUF, 1985.
HAMON, «Per uno statuto semiologico del personaggio», p. 18. La citazione è utilizzata oltre le
intenzioni dell’autore, il quale rileva che il personaggio, mai offerto immediatamente dal testo, va ricavato dagli
enunciati.
131
Terry EAGLETON, Introduzione alla teoria letteraria, Roma, Editori Riuniti, 1998, p. 160.
132
Hélène BOUGET, «Li Chevaliers as deus espees: la fabrique ratée d’un personnage?», in Chantal
CONNOCHIE-BOURGNE, a cura di, Façonner son personnage au Moyen Age, Actes du 31e colloque du CUER
MA, 9, 10 et 11 mars 2006, Aix-en-Provence, Publications de l'Université de Provence, 2007, pp. 77-86, p. 81.
133
Si rinvia a Vincent FERRÉ, a cura di, Médiévalisme, modernité du Moyen Age, Itinéraires LTC, 3, 2010,
Paris, L’Harmattan, 2 1 .
130
39
L’anachronisme permet d’établir un va-et-vient entre présent et passé qui est
certainement la seule manière de saisir en quoi la littérature médiévale nous importe
aujourd’hui sans dissoudre son altérité dans la nôtre»134.
Una teoria, se valida, non dovrebbe prevedere limiti storici. Nel caso di una visione
complessa del soggetto, non bisognerebbe considerarla, come si è cercato d’indicare sopra,
appannaggio esclusivo di una produzione letteraria moderna e postomoderna. Il fatto di
parlare di un qualche superamento delle barriere, proponendo la prospettiva di interrogare il
passato secondo un nostro punto di vista, dà per scontata, appunto, un’idea di barriera che è, a
mio avviso, un limite autoimposto. Si tratterà invece di preoccuparsi di rintracciare modelli
interpretativi, modelli, come si diceva, di esplorazione epistemica, di rintracciare delle
invarianti di figurazione secondo cui l’uomo si è rappresentato e ha rappresentato il suo modo
d’essere nel mondo, oggetto per eccellenza della prassi del racconto, oltre i confini della
storia.
La parabola di una nota teoria, che nasce come una teoria letteraria per poi assurgere al
rango di teoria antropologica, quella del desiderio mimetico di René Girard, oggi
particolarmente al centro degli interessi della critica per via del prestigio conferitole dalle
neuroscienze, potrà forse contribuire a esemplificare quest’inconsistenza dell’idea di
anacronismo nell’approccio ai testi letterari. La sua trattazione critica ci permetterà, inoltre, di
esaminare alcuni punti finora appena sfiorati: l’idea freudiana d’identità come identificazione,
il suo legame con la visione saussuriana di un soggetto decentrato, l’intersezione di asse
paradigmatico e sintagmatico nello studio del personaggio.
7. Mimesi, identificazione
La teoria del desiderio mimetico di René Girard e il suo Menzogna romantica e verità
romanzesca rappresentano un esempio eloquente dello stretto rapporto che intreccia
letteratura e antropologia. Se, nel famoso saggio del ’61, la visione del desiderio secondo
l’altro, «l’importanza della suggestione e dell’imitazione»135 nell’edificazione della
personalità, l’oggetto del desiderio ridotto a un mezzo per arrivare al mediatore, in quanto «è
134
Nathalie KOBLE - Mireille SEGUY, a cura di, Le Moyen Age contemporain: perspectives critiques,
Littérature, 148, 2007, p. 7.
135
René GIRARD, Menzogna romantica e verità romanzesca (1961), Milano, Bompiani, 2009, p. 9.
40
all’essere del mediatore che mira il desiderio»136, erano principi teoretici reperiti nei grandi
romanzi della storia letteraria occidentale («soltanto i romanzieri restituiscono al mediatore il
posto usurpato dall’oggetto; soltanto i romanzieri capovolgono la gerarchia del desiderio,
comunemente accettata»)137, gli stessi principi confluiranno in seguito in una teoria
antropologica (undici anni dopo, con La violence et le sacré138), fregiata poi, con la
formulazione della celebre teoria dei neuroni specchio, del riconoscimento delle
neuroscienze139.
Le forme letterarie si appropriano di «quella dimensione relazionale in cui si costruiscono
le nostre vicende e le nostre emozioni»140, facendo emergere «il potenziale simbolico
dell’imitazione»141. L’ambiguità della prassi interazionale messa in moto dal desiderio, con
quel gioco sottile di menzogna e verità, mascheramento e smascheramento, fa della teoria
mimetica, annota Trigona, uno strumento utile nell’analisi dei testi «secondo un modello
dinamico, complesso e relazionale». Nelle produzioni della modernità, continua la studiosa,
«menzogna e verità, serietà e serenità, mascheramento e smascheramento non sono mai
separati, sono intrecciati e si rimandano a vicenda»142.
Ma la faccenda non riguarda le sole opere della modernità. Un recente volume dedicato a
Girard, che raccoglie alcuni contributi di esperti di letteratura medievale, mostra bene come la
teoria del desiderio mimetico possa offrire uno schema analitico fertile nella lettura dei testi
medievali. Nell’introduzione al volume sembra che i curatori, Heckmann e Lenoir, si sentano
in dovere di giustificare l’utilizzazione di una teoria antropologica per la lettura di un testo
medievale. Mettono in guardia dalla possibile identificazione della società del medioevo con
quelle della violenza descritte dagli antropologi, poiché essa, essendo una società che si
136
Ivi, p. 49.
Ivi, p. 17. Si noterà, en passant, che la teoria girardiana del desiderio mimetico potrebbe dirsi marchiata
del segno di Tristano e Isotta, sebbene la storia dei due amanti non occupi largo spazio nelle pagine di Menzogna
romantica e verità romanzesca. Girard, infatti, ha spesso dichiarato il suo debito, riguardo alla formulazione
della teoria del desiderio mimetico, nei confronti di L’amour e l’Occident di Denis De Rougemont, classico
notoriamente dedicato alla leggenda tristaniana, della quale è indagata l’idea di un amore mai indirizzato a quello
che è il suo apparente oggetto. Cfr. GIRARD, Menzogna romantica e verità romanzesca, p. 44; Denis de
ROUGEMONT, L’amore e l’Occidente (1939), Milano, Rizzoli, 1977.
138
René GIRARD, La violence et le sacré, Paris, Grasset, 1972 (trad. it.: La violenza e il sacro, Milano,
Adelphi, 1980).
139
Si segnalano: Giacomo RIZZOLATI - Leonardo FOGASSI - Vittorio GALLESE, «Neurophysiological
Machanisms Underlyng the Understanding and Imitation of Action», Nature Reviews Neurosciences, 2, 9, 2001,
pp. 661-670; Vittorio GALLESE, «The Two Sides of Mimesis, Girard’s Mimetic Theory», Embodied Simulation
and Social Identification. Journal of Consciousness Studies, 16, 4, 2009, pp. 21-44.
140
Raffaella TRIGONA, «Il reale dell’immaginario e l’immaginario del reale», in Id. a cura di, Imitazione
creativa. Evoluzione e paradossi del desiderio, Bergamo, Moretti e Vitali, 2004, pp. 16-30, p. 17.
141
Ivi, p. 20.
142
Ivi, p. 21.
137
41
appresta all’elaborazione di un sistema giudiziario, rappresenta semmai una «zone grise»143.
Chiariscono inoltre che i testi medievali, latori di un’ideologia cristiana, se possono contenere
schemi arcaici, possono contemporaneamente operare una loro messa in discussione,
concludendo che «une lecture girardienne est pourtant possible, reconnaissant et dévoilant
l’écart entre la théorie des structures sociales et la structure littéraire du récit médiéval»144.
Annotazione indubbiamente saggia, ma credo vada sottolineato che la teoria
antropologica di Girard non offre semplicemente un appoggio nell’analisi delle strutture
storiche e sociali eventualmente rappresentate in un testo. Non porrei la questione, cioè, nei
termini di un’oscillazione tra la rappresentazione di un contesto sociale arcaico improntato
alle dinamiche della violenza e la rappresentazione di un contesto cristiano in cui queste
forme arcaiche sono superate. La teoria girardiana offre più complessi strumenti analitici, in
quanto, essendo fondata sulle articolate dinamiche del desiderio del soggetto umano, indirizza
l’interprete non tanto verso dei contenuti sociali o storici da reperire nei testi, ma piuttosto
verso una forma di articolazione testuale, verso il meccanismo di un movimento diegetico, un
principio che penetra nella trama della scrittura. I testi letterari si offrono in questo senso
come dotati di una funzione cognitiva, essendo capaci di condensare in rappresentazioni più o
meno complesse le vicissitudini del desiderio – vicissitudini che sono umane tout court, con
un ruolo estremamente rilevante nella definizione del soggetto, e non legate in maniera
esclusiva a una fase storica.
Non si tratta, cioè, di rintracciare una visione della società medievale improntata alla
mimesi e alla violenza, il che vorrebbe sottomettersi al gioco, che direi minimalista ed
euristicamente povero, di utilizzare i testi letterari come reperti storici, come riflessi
immediati e semplicistici di un mondo dato. La funzione di un principio antropologico nella
teoria e nella critica letteraria è quella di interrogare il testo circa il modo in cui si appropria di
quel principio, il modo in cui costanti umane universali si annidano in un testo e «lo
143
HECKMANN - LENOIR, «Introduzione», in. Id., Mimétisme violence sacré. Approche anthropologique de
la littérature médiévale, p. 2.
144
Ivi, p. 3
42
lavorano»145: in gioco vi è la messa in evidenza, attraverso una prospettiva teoretica, della
«dimensione cognitiva ed educativa della produzione artistica»146.
Il volume è aperto da un saggio dello stesso Girard, la traduzione francese di un
contributo comparso in inglese già nel 1990147, contributo in cui Girard sottopone la sua teoria
al testo medievale. Nel saggio si argomenta come la rivalità mimetica, la reputazione
cavalleresca e il tentativo di dimostrare di essere il miglior cavaliere siano tratti precipui dei
romanzi di Chrétien de Troyes. Non si può fare affidamento su un’autorità esterna che
stabilisca chi fregiare del titolo di miglior cavaliere, ma saranno i cavalieri stessi ad ammirare
il migliore tra di loro, in un vortice competitivo in cui, come suggerisce la teoria mimetica, il
rivale è anche modello e la costruzione identitaria è legata a un rapporto di amore e odio in
cui la mimesi opera attraverso ambigui meccanismi di specularità.
Girard colloca al centro della sua analisi la scena, nel romanzo di Yvain, del
combattimento tra il protagonista e Gauvain, mettendo in luce il principio di rivalità che
l’attraversa e come ciascuno dei due cavalieri sia alle prese con un sentimento contrastante di
amore e odio verso il proprio rivale-modello: «Chaque chevalier combat dans le but de
devenir l’unique objet d’admiration et de désir de tous les autres, et surtout de son
adversaire»148. Forse un po’ ingenuamente, Girard suggerisce al lettore come i nomi facciano
pensare a una storia di doppio: alla stregua di Romolo e Remo, Yvain e Gauvain
incarnerebbero la rivalità mimetica in quello che ha di più distruttore, e «la présence des deux
145
Scrive Marie Scarpa che interrogarsi sui rapporti che la letteratura intrattiene con fatti etnografici e
forme della cultura significa «étudier comment [la littérature] se les réapproprie, dans sa logique spécifique,
comment elle en est ‘travaillée’ dans son écriture même». Cfr. Marie SCARPA, «Pour une lecture ethnocritique de
la littérature», Littérature et sciences humaines, CRTH / Université de Cergy-Pontoise, Paris, Les Belles Lettres,
2001, p. 285-297, p. 286.
146
TRIGONA, «Il reale dell’immaginario e l’immaginario del reale», p. 14. Tra l’altro, porre l’accento
sull’elemento della violenza nella visione antropologica di Girard esclude un’altra importante dimensione
individuata da questo studioso, particolarmente proficua in campo estetico, ossia quella della mimesi culturale
pacifica, un’evoluzione positiva della crisi mimetica. La crisi mimetica, il desiderio continuamente proiettato
non verso un oggetto d’amore, ma verso un mediatore cui s’indirizza l’istinto mimetico dell’uomo, può portare, è
vero, a una lotta di tutti contro tutti, dove i legami sociali sono minacciati dal caos, dall’indifferenziazione, ma
può anche dare vita, positivamente, alle dinamiche della creazione artistica. Si vedano sul punto: René GIRARD,
Origine della cultura e fine della storia (2002), Milano, Cortina, 2003; TRIGONA, «Il reale dell’immaginario e
l’immaginario del reale», pp. 18-20 e, più in generale, la nota bibliografica alle pp. 25-28; Giuseppe FORNARI,
Fra Dioniso e Cristo. La sapienza sacrificale greca e la civiltà occidentale, Bologna, Pitagora, 2001.
147
René GIRARD, «Amour et Haine dans Yvain», in Mimétisme violence sacré, pp. 7-27, traduzione di
Nicolas LENOIR del testo inglese: «Love and Hate in Yvain», in Brigitte Cazelles - Charles MÉLA, a cura di,
Modernité au Moyen Age. Le défi du passé, Pubblications de la Faculté des lettre de Genève, Genève, Droz,
1990, pp. 249-262.
148
Ivi, p. 21.
43
doubles et leur combat sans fin suggère que ce roman devrait être défini comme une crise
mimétique et sacrificielle, suivant un schéma tragique et mythique»149.
Ogni altro elemento dell’universo cavalleresco passerebbe in secondo piano, e anche la
dimensione sessuale andrebbe ricondotta nell’alveo della competizione mimetica, poiché
questa prevede un’implicazione femminile. Il vortice del desiderio mimetico attrae nella
propria orbita anche la vedova Laudine, che s’innamora dell’assassino del marito, poiché il
titolo di migliore tra i cavalieri esercita su chiunque, uomo o donna, un fascino irresistibile:
«la terrible vérité est qu’elle tombe amoureuse non en dépit de ce qu’Yvain a fait à son mari,
mais à cause de ce qu’il lui a fait. Elle tombe amoureuse du champion»150. Se ne conclude che
Laudine «entre en compétition par procuration»151.
Girard non si lascia sfuggire l’occasione per ribadire il suo disappunto verso la teoria
freudiana152. Un critico moderno, dice, è pronto a scartare l’aspetto competitivo della
reputazione cavalleresca per motivazioni nascoste, come l’inconscio e le motivazioni sessuali,
mentre «Chrétien place la chevalerie au sommet et y subordonne chaque chose, y compris le
sexe. Dans son univers, la renommée n’est pas un déguisement du sexe; le plus souvent, c’est
l’inverse qui est vrai»153. Ben oltre la dimensione sessuale, il testo medievale proporrebbe lo
spessore profondo attribuito alla competizione mimetica dalla cavalleria e dalla cultura
feudale (benché, chiarisce Girard, non si tratti di cadere nell’interpretazione socio-politica, il
che comporterebbe un errore simile a quello della psicoanalisi). La pista suggerita dalla teoria
del desiderio mimetico aprirebbe per Girard la prospettiva di un’indistinzione elastica, di
un’indifferenziazione di sesso e fama, uomini e donne, interno ed esterno, amore e odio – la
prospettiva di una costruzione edificata intorno a una retorica dell’ossimoro, che ogni grande
autore lega agli effetti della mimesi.
Non è necessario, in questa sede, occuparci della questione della rivalità – e dei diritti di
precedenza cronologica – tra la teoria girardiana del desiderio mimetico e quella freudiana
149
Ivi, p. 23.
Ivi, p. 14.
151
Ivi, p. 11.
152
Nel saggio si legge in filigrana – ma neanche troppo – la caparbia presa di distanza di Girard dal
freudismo. Girard torna a insistere, dopo le critiche a Freud esposte in La violence et le sacré e nelle pagine di
Des choses cachées depuis la fondation du monde (del 1978, trad. it.: Delle cose nascoste sin dalla fondazione
del mondo, Milano, Adelphi, 1983) dedicate alla «mitologia psicoanalitica», sulla pretesa estraneità della sua
teoria del desiderio mimetico alla teoria freudiana, che, pur essendosi avvicinata a quello che lui avrebbe poi
descritto, non riesce a cogliere l’idea di desiderio come desiderio triangolare, mediato da un terzo, ma resterebbe
vincolata al complesso edipico, in cui il desiderio per l’oggetto materno è intrinseco e primario. E, se Freud parla
d’identificazione con il padre, sembrando quindi aprirsi alla mimesi, in realtà non la teorizzerebbe mai come
tratto basilare della natura umana, essendo l’identificazione con la figura paterna sempre secondaria rispetto al
desiderio oggettuale per la madre.
153
GIRARD, «Amour et Haine dans Yvain», pp. 8-9.
150
44
dell’identificazione154, aspetto su cui il padre della psicoanalisi andava riflettendo già in
alcune lettere del 1896155 e che lo porterà a mettere in dubbio il primato della sfera sessuale e
del complesso edipico nell’edificazione dell’identità, per concentrarsi invece sul processo di
«assimilazione di un Io a un Io estraneo, in conseguenza della quale il primo Io si comporta
sotto determinati riguardi come l’altro, lo imita, lo accoglie in certo qual modo in sé»156. I due
punti di vista non sono senz’altro oppositivi come pensa Girard e la loro collaborazione
risulta fruttuosa in un’analisi letteraria che s’interroghi sulle rappresentazioni del soggetto
umano e su come tali rappresentazioni influenzino le modalità diegetiche (o ne siano
influenzate). Del resto è noto come la teoria freudiana dell’identificazione sia al centro degli
interessi degli studi filosofici, psicoanalitici e teorico-letterari:
Il soggetto desiderante non viene per primo, per essere poi seguito da
un’identificazione che permetterebbe al desiderio di realizzarsi. uella che viene per
prima è una tendenza all’identificazione che dà poi origine a un desiderio157.
Mi limito a considerare (rinviando alle argomentazioni di Bottiroli per un’analisi puntuale
della questione) che la teoria freudiana dell’identità come identificazione, elaborata nel citato
saggio del ’21, offre un panorama più complesso di quello tracciato da Girard e uno strumento
di analisi più duttile e ricco. Freud non fonda la sua teoria sulla centralità dell’imitazione, che
implica a suo modo un atto di rigidità, ma considera più sottili meccanismi d’introiezione.
Freud distingue, con l’introduzione dei luoghi della psiche, tra un’introiezione che investe l’Io
da una che investe l’ideale dell’Io, distingue cioè un’imitazione meccanica, che presuppone
un’introiezione dell’oggetto di desiderio o del modello di desiderio nella zona dell’Io, da un
processo più mediato, che lavora elasticamente a una metamorfosi della personalità, processo
154
Sul punto, si rimanda a Giovanni BOTTIROLI, «Identità/ identificazione. Una mappa dei problemi a
partire da Freud», in Id., Jacques Lacan, Arte linguaggio desiderio, pp. 205-255. Scrive Bottiroli: «Dunque la
mimesis girardiana è identificazione, assai più che imitazione. E se vi sono differenze tra Girard e Freud, forse
queste differenze non riguardano il carattere archetipico o generalizzato del modello triangolare, bensì la
tipologia dell’identificazione» (ivi, p. 216).
155
Cfr. Sigmund FREUD, Lettere a Fliess (1887-1904), Torino, Boringhieri, 1986.
156
Sigmund FREUD, «Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni)», in Id., Opere, vol. 11, pp. 121284, p. 175. Così continua Freud in questo passo della lezione 31 (dedicata alla Scomposizione della personalità
psichica): «Non inopportunamente l’identificazione è estata paragonata all’incorporazione orale, cannibalesca
della persona estranea. L’identificazione è una forma molto importante di legame con un’altra persona,
verosimilmente la più primitiva, e non è la stessa cosa di una scelta oggettuale. La differenza può essere espressa
all’incirca così: se il fanciullo si identifica con il padre, egli vuole essere come il padre; se lo fa oggetto della sua
scelta, lo vuole avere, possedere; nel primo caso il suo Io viene modificato secondo il modello del padre, nel
secondo caso ciò non è necessario. Identificazione e scelta oggettuale sono in larga misura indipendenti; ci si può
tuttavia identificare anche con una persona che, ad esempio, è stata assunta come oggetto sessuale, e modificare
secondo essa il proprio Io».
157
Mikkel BORCH-JAKOBSEN, The Freudian Subject, Standford, Standford University Press, 1988, p. 47. Il
passo è citato, tradotto e commentato in Jonathan CULLER, «Identità, identificazione e soggetto», in Id., Teoria
della letteratura. Una breve introduzione, Roma, Armando Editore, 1999, pp. 125-135, pp. 130-131.
45
in cui il modello altera la zona dell’ideale dell’Io, zona depositaria di una propensione
all’auto-osservazione, di un’istanza critica nei confronti dell’Io.
Ancora, un altro elemento che mi sembra rilevante nel saggio di Freud sta nella possibilità
di un’identificazione «parziale, assai circoscritta, che si appropria soltanto di un aspetto della
persona che è oggetto d’identificazione»158. L’attenzione è, così, concentrata su un tratto
identitario, su un’unica caratteristica che agli occhi del soggetto desiderante assume uno
spessore pronunciato, diventando oggetto d’introiezione. Trovo questo dettaglio piuttosto
rilevante qualora si utilizzi la teoria freudiana nell’analisi letteraria, perché potrebbe portare a
una rivalutazione del concetto di tipo, del personaggio latore di un esclusivo tratto umano (si
veda il precedente richiamo a Jauss): non sarebbe riduttivo e segno di mancanza di acume
psicologico l’esasperazione, in un personaggio, di una qualità, poiché anche il meccanismo
fondante dell’identità umana, l’identificazione, è basato sulla centralità di un tratto identitario,
tratto intravisto nell’altro e che agli occhi del soggetto desiderante si amplifica
spropositatamente.
Il quadro tracciato da Freud è, insomma, più complesso di quello di Girard e, ritornando
per esempio al rapporto tra Yvain e Gauvain, evita con agevolezza d’inciampare in un
discorso in cui tutto è doppio di tutto, tracciando invece dinamiche relazionali di maggiore
spessore analitico, che risaltano la complessità della metamorfosi di una personalità anziché
concentrarsi sull’idea di una similarità immediatamente data.
uello di Girard, lo si è visto,
sembra più un discorso sugli estremi, sulle dicotomie – l’amore e l’odio, un cavaliere A
contro un cavaliere B – che si capovolge in un discorso che annulla le differenze: A è doppio
di B. Più fluida sembra invece la prospettiva freudiana, attenta più ai processi che alla
cristallizzazione di un dato, e quindi più proficua nell’analisi critico-letteraria, essendo in
grado di incunearsi, con le fitte dinamiche relazionali che contempla, nella rete della scrittura.
Un recente contributo di Damien de Carné mostra bene – senza citare Girard né
tantomeno Freud – che la mimesi e la costruzione identitaria attraverso un modello forniscono
uno schema esplicativo del testo medievale. Lo studioso fa notare come l’idea di complessità
del personaggio, di una sua articolata mobilità all’interno del romanzo, non sia per nulla un
prodotto della letteratura moderna, ma sia rinvenibile negli esordi del romanzo europeo:
L’identité du personnage est dès lors volatile. Un des facteurs qui conditionnent son
évolution au fil de l’action, qui organisent son mouvement en lui donnant une
direction, est la présence éventuelle, dans le récit, de modèles ou de contre-modèles
158
FREUD, «Psicologia delle masse e analisi dell’Io», p. 295.
46
proposés au personnage et auxquels ce dernier tente, accepte, refuse ou évite à tout
prix de se conformer. Il arrive donc que la conquête par le héros de sa place dans le
monde prenne la forme d’un affrontement non avec un monstre ou un typique
«méchant», mais avec un modèle, qui est aussi un rival (parfois très positivement
connoté), et que cette confrontation avec une sorte de double du héros soit un élément
majeur de la fondation par ce dernier de son identité héroïque159.
Il racconto, in Erec et Enide di Chrétien de Troyes, del tentativo del conte di Limors di
sostituirsi a Erec, proponendo alla presunta vedova Enide di sposarlo; la presenza, nel
romanzo di Thomas, di Tristano il Nano, la cui sensibilità ai dettami dell’amore lo rende
«plus tristanien que Tristan»160; il Lancelot en prose che presenta un protagonista che «prend
simultanément la place du roi auprès de la reine et sur le champ de bataille»161: sarebbero tutte
spie di una «construction concurrentielle» del personaggio nel romanzo medievale. La
concorrenza rappresenterebbe «le rapport entretenu entre un personnage et un rival qui lui
renvoie une image de lui-même à laquelle il faut se confronter», rapporto che «peut s’avérer
un important facteur de caractérisation, de définition identitaire du personnage considéré»162.
Il personaggio protagonista si ritroverebbe alle prese con un rivale-modello che contribuisce,
per antitesi o analogia, a edificare la sua fisionomia identitaria, per poi essere eliminato dal
racconto, che non sopporterebbe una proliferazione di doppi. Tristan l’Amerus163, nel
racconto di Thomas, sembra vedere usurpata la sua fisionomia di amante perfetto da Tristan
le Nain, ma, una volta che il protagonista si è lasciato convincere dal suo rivale-modello a
intervenire contro Estout («double monstrueux de Marc»164), ossia rimpossessatosi della sua
posizione di nobile cavaliere pronto a tutto in nome dell’amore, il modello, ucciso, scompare
dal racconto.
Mi sembra evidente che questo principio della concorrenza, che mostrerebbe come il
romanzo sia stato sin dalle origini attento alle «variations de l’identité, à sa perpétuelle
mobilité, aux questionnements de l’individualité»165, e a come l’identità sia costruita
attraverso l’alterità, rivela consonanze indiscutibili con le teorie di Freud e Girard. Se de
Carné, riconoscendo che a un’analisi della costruzione concorrenziale del personaggio nel
Lancelot en prose si era pensato prima di lui, chiarisce che «on voit ici combien le concept de
159
Damien DE CARNE, «Construction concurrentielle du personnage romanesque. Trois exemples tirés du
roman médiéval», in CONNOCHIE-BOURGNE, Façonner son personnage au Moyen Age, pp. 87-97, p. 87.
160
Ivi, p. 93.
161
Ivi, p. 95.
162
Ivi, p. 95.
163
De Carné fa notare come l’emersione di un doppio richieda un’ulteriore specificazione dell’identità di
Tristano, che diventa Tristan l’Amerus contrapposto a Tristan le Nain (ivi, p. 93).
164
Ivi, p. 94.
165
Ivi, p. 96.
47
concurrence ne fait que modéliser des phénomènes déjà ressentis et déjà exprimés par la
critique», noi potremmo dire in ugual modo che anche a una modellizzazione, magari più
complessa, si era già pensato166.
La costruzione identitaria del personaggio è, dunque, affidata a un surplus, a
un’appendice esterna, a un supplemento necessario all’edificazione di una personalità
percepita come completa, inserita adeguatamente nel tessuto diegetico (e rispondente
all’orizzonte d’attesa, si potrebbe anche dire). Il concetto di concorrenza, come quello
d’imitazione, sfocia – lo si è visto sia con l’analisi di Girard che con quella di de Carné – in
un discorso di doppi. Yvain e Gauvain rinunciano al principio d’identità, in un gioco di
sdoppiamento che coinvolge i due avversari; il conte di Limors vuole sostituirsi a Erec;
Tristano il Nano sembra sostituirsi per un attimo al protagonista del romanzo di Thomas. Il
rischio è cioè quello di riproporre, in una relazione strettamente dicotomica, un principio poco
elastico, che, semplicemente, sostituisca all’equazione A=A quella A=B, che è pur sempre
una sovrapposizione rigida.
A ben vedere, i testi citati non si limitano a esporre una relazione dicotomica, un gioco a
due che si ripiega su se stesso. Se tra Yvain e Gauvain s’instaura un processo di reciproci
richiami identitari, è perché ciascuno dei due vede nel rivale (come lo vede il lettore) la
concretizzazione di un modello astratto, quello del prode cavaliere. Se tra Tristan l’Amerus e
Tristan le Nain le identità si confondono fino a spingerci a parlare di doppio, è perché scatta
una «concorrenza» in vista di un modello esterno e condiviso, quello dell’innamorato pronto a
tutto in nome dell’amore, che ciascuno dei due personaggi crede di vedere incarnarsi
nell’altro. Riprendendo la nota terminologia di Mensonge romantique et vérité romanesque, si
direbbe che il diaframma tra mediatore esterno e mediatore interno va sfumandosi,
ammorbidendosi. Non c’è esclusivamente, come per don Chiscotte o Emma Bovary, una
distanza estrema rispetto a un modello o, come per Trusockij e Vel’caninov in Il marito ideale
di Dostoevskij, una distanza minima rispetto al mediatore-rivale. I due piani si offrono
simultaneamente nel testo, poiché il personaggio rivale si presenta come sdoppiato tra il
segno della trascendenza di un modello astratto e l’immanenza del sistema sintagmatico dei
personaggi.
166
Resta tuttavia innegabile il merito del contributo, che ha il valore di una conferma, almeno per il
percorso da me intrapreso in questo lavoro, nel mostrare il funzionamento di tale modellizzazione in alcuni
esempi tratti da romanzi medievali. Inoltre, mi sembra ammirevole il tentativo di de Carné di rompere la
barriera, ancora tenacemente presente nella critica, tra romanzo medievale e romanzo moderno, quel suo
considerare come tipicamente romanzesca, senza precisazioni cronologiche, la problematizzazione dell’identità.
48
Sulle relazioni sintagmatiche tra i personaggi si concentra Bottiroli, il quale,
appoggiandosi alla teoria freudiana dell’identificazione, argomenta che «l’identità di un
personaggio è legata al sistema dei personaggi di un determinato testo»167. Spostando l’asse
del discorso sul testo medievale, Bonafin fa notare:
Definire l’identità del personaggio a partire dal sistema di relazioni che lo lega agli
altri personaggi di un’opera, dalla dinamica delle identificazioni possibili, presuppone
una unicità, un’individualità, una soggettività che è senz’altro appropriata nel contesto
letterario moderno e che si manifesta – o si aggrappa – al nome proprio, ma porta
forse a trascurare l’aria di famiglia che spesso un personaggio ha con altri suoi simili
presenti in altri testi: una relazione verticale o paradigmatica con personaggi di altre
opere, epoche, lingue e culture, con i quali condivide caratteristiche che lo rendono
subito riconoscibile dal lettore, in quanto, in un certo senso, replica di un tipo già noto
e codificato nella sua enciclopedia168.
Bonafin annota che, nell’analisi del personaggio medievale, per il quale tanto determinante
risulta l’apporto della memoria culturale, «aumenta il rendimento di un confronto condotto
non tanto sull’asse sintagmatico delle relazioni con gli altri personaggi all’interno di uno
stesso testo, quanto sull’asse paradigmatico che unisce le diverse attualizzazioni di uno stesso
eroe (Tristano, Orlando, Lancillotto, ecc.) nei testi che narrano le sue avventure, ma altresì
che unisce su un piano ulteriore personaggi differenti che partecipano di tratti (attributi, modi
d’essere) comuni»169. È oltremodo legittima la priorità di una valorizzazione dell’asse
paradigmatico del personaggio medievale, della sua mobilità rispetto a un archetipo, a una
figura della memoria culturale, a una sorta di condensatore antropologico, ma mi sembra che i
pochi esempi fin qui citati mostrino bene quale rapporto di complementarità s’instauri tra la
prospettiva paradigmatica e quella sintagmatica.
La costruzione identitaria è affidata – anche nel testo medievale e non solo in quello
moderno – a una relazione con l’altro, a un processo di continuo rinvio a un essere che non si
è, a un’estetica dell’assenza, dell’avvicinamento, della catena sempre aperta. Il discorso vale
palesemente per l’asse paradigmatico, per la memoria culturale del personaggio che, nel
grande intertesto in cui si muove la letteratura medievale, rimanda sempre a una figura già
nota, che proviene da altri testi, altre leggende, altre storie, in un groviglio tale da rendere
impossibile, sostiene Saussure, dire sia che un personaggio coincida con se stesso sia che
coincida con un altro. Ma il discorso coinvolge anche, sul piano sintagmatico, le dinamiche
167
Giovanni BOTTIROLI, «Differenze di famiglia», in Id., a cura di, Problemi del personaggio, Bergamo,
Bergamo University Press, Sestante Edizioni, 2001, pp. 11-46, p. 15.
168
BONAFIN, «Prove di un’antropologia del personaggio», p. 4.
169
Ivi, p. 9.
49
interne al testo, che sembra avere come polo privilegiato la costruzione di uno statuto
identitario fatto di richiami, analogie, dissonanze, contrasti, capovolgimenti che danno al
lettore l’impressione della creazione di un profilo umano attraverso raddoppiamenti e
sdoppiamenti, con un senso di ridondanza, di ritorno di tratti identitari noti: l’identità è
identificazione.
Le due prospettive s’incontrano in una simultaneità, e Yvain e Gauvain contribuiscono
reciprocamente al processo della loro costruzione identitaria in quanto concretizzazioni
immediatamente fruibili di un modello condiviso dal personaggio, dall’autore, dal lettoreuditore. Il testo propone un duplice piano di articolazione identitaria e, se il personaggio si
propone, nella sua immanenza, come possibile modello per un personaggio contiguo, questa
sua disponibilità è legata al fatto di essere attraversato dalla trascendenza di un archetipo che
si riverbera nel gioco delle identificazioni sul piano sintagmatico. L’asse paradigmatico
collassa su quello sintagmatico, e il richiamo a un modello esterno, modello della cultura,
schema, archetipo, diventa, quasi immediatamente, una questione di rivalità rispetto a un
modello-rivale interno.
Se la teoria girardiana ci dice che il desiderio non è mai desiderio di avere un oggetto, ma
è sempre desiderio di essere come un modello, il testo medievale mostra, in una forma spesso
tacciata d’ingenuità, come questo modello sia di non unilaterale definizione. È così
immediato, nel rapporto di amore e odio che Girard rintraccia nel romanzo di Chrétien,
tracciare il confine tra il desiderio di Gauvain di essere Yvain e il desiderio di Gauvain di
essere il miglior cavaliere? Benché Freud non parli di modelli archetipici o di figure della
memoria culturale, mi pare che un passo di Psicologia delle masse e analisi dell’io definisca
l’insormontabilità di quest’ambiguità:
In talune forme di scelta amorosa salta addirittura agli occhi che l’oggetto serve a
sostituire un proprio, non raggiunto ideale dell’Io. L’oggetto viene amato a causa delle
perfezioni cui abbiamo mirato per il nostro Io e che ora, per questa via indiretta,
desideriamo procurarci per soddisfare il nostro narcisimo170.
È dal sentimento pungente di un’impossibilità che scatta l’identificazione.
ual è il confine
tra il rapporto a due con un altro individuo che ci attrae e il dialogo solipsistico di noi stessi
con quell’inattingibile Io che vorremo essere? Dov’è il confine tra la concretezza di un
modello a noi contiguo e la rappresentazione di cui questo si fa carico rispetto a un archetipo,
un’immagine fantasmatica insita in noi? Dov’è cioè il confine tra un volere essere qualcuno e
170
FREUD, «Psicologia delle masse e analisi dell’Io», p. 300.
50
un voler essere qualcosa di codificato dall’immaginario e dalla cultura in cui siamo immersi?
Come la letteratura si preoccupa di gestire tale confine?
L’esempio di Yvain e Gauvain mostra bene che, se è vero che dietro un oggetto di
desiderio c’è un modello di desiderio, è vero anche che dietro il modello c’è un altro modello.
Un modello poco concreto, meno vicino, più ideale e inattingibile: mediatore interno e
mediatore esterno sarebbero così categorie meno rigide di quanto sostenga Girard. Il
personaggio funziona sia nell’immanenza delle relazioni sintagmatiche, secondo un
meccanismo che potremo chiamare, secondo le preferenze, mimesi, concorrenza,
identificazione, ma funziona anche come latore di schemi culturali, di maschere della cultura e
dell’immaginario che attraversano il testo. Mai veramente individualizzato ma mai veramente
puro schema, Yvain è un modello interno in quanto incarnazione di un modello esterno, che
prolifica, irradia possibilità di identificazione per gli altri personaggi, su cui si riverbera come
uno specchio frantumato, come una sorta di iper-personaggio che si dissemina nelle sue
possibilità di significazione, mai immediatamente latore di un contenuto identitario, ma
significante sempre aperto.
In un approccio al testo che non tenga conto di compromissioni antropologiche e
psicoanalitiche, ma che si accontenti di afferrare ciò che è immediatamente afferrabile,
l’effetto è, sì, un pullulare di doppi, secondo un gusto per l’analogia, per l’antitesi, per la
ripetizione, per i binarismi cari alla cultura medievale. Nell’elementarità di queste forme, il
testo scopre, però, alcuni meccanismi chiave del comportamento umano, incarnandoli nella
scrittura. La sintassi dei richiami speculari si configura così come una rete entro cui l’azione
del testo ridisegna continuamente i confini identitari, in uno sconfinamento costante
dell’identità.
8. Un condensatore relazionale e anaforico
La costruzione dell’identità del personaggio seconda un’ottica relazionale è stata spesso
rilevata dalla critica negli studi di medievistica, nonostante le analisi sembrino sempre attente
più a un’elucidazione del singolo testo che alla formulazione di una teoria di ampio respiro.
Per esempio, Jean Batany ha analizzato le dinamiche di confronto e conformità rispetto a
un modello nei personaggi del Tristan di Béroul, in un’analisi che, pur non contemplando la
preoccupazione di una sistematizzazione di ordine teoretico, propone dei risultati che mi sono
51
sembrati rilevanti per il discorso qui proposto. Partendo dalle tracce dell’utilizzazione di ‘con’
e ‘com’ nel testo, Batany arriva a mostrare come il personaggio inglobi un modello, si
confronti con l’altro e vi si conformi, senza però creare dicotomie, secondo una dinamica
confusiva tra soggetto e modello, i cui confini risultano poco netti:
La véritable dissociation entre le modèle présupposé et le sujet (ou sa conduite) posé
par le locuteur est rarement prise à son compte par le narrateur. Tous les exemples de
comparaison proprement dite où com est suivi d’un groupe nominal sont mis dans la
bouche des personnages, qui assument une sorte de masque ou en prêtent un à un autre
sujet171.
Ai versi 2663-4, annota Batany tra i vari esempi di funzionamento dell’avverbio e
congiunzione ‘come’, l’eremita Ogrin, letta l’epistola in cui Marco dichiara di voler perdonare
Isotta e di essere pronto ad accoglierla a corte, dice: «Ja parlera si com il doit / et con li roi qui
a Dieu croit» (Ora sta per parlare così come egli deve e come il re, che crede in Dio). Nel
gioco di com-con, si crea una rete di relazioni tra l’eremita, il re Marco, che rappresenterebbe
un modello contiguo per Ogrin, il quale ammira la sua franchise (v. 2662, nobiltà), e l’uomo
che ha fede in Dio, modello astratto incarnato da Marco, senza che tra i tre si possa
individuare, nell’estrema sintesi operata dal ritmo del verso, una delimitazione dei soggetti.
Nel rapportarsi all’altro, il personaggio non arriva a coincidere con il proprio modello, ma ne
esce ridefinito, semanticamente riconfigurato, secondo una logica di conformità e
oltrepassamento:
Les acteurs de l’histoire que nous raconte Béroul (personnages surtout, mais parfois
objets, lieux ou situations) sont confrontés à des modèles présupposés qui tendent
presque toujours à les inclure, et par rapport auxquels on leur impose (ou ils
s’imposent eux-mêmes) de se situer dans deux relations typiques, la conformité et le
dépassement172.
Virginie Greene, nel volume citato sopra, e, in particolare, nella parte dedicata al soggetto nel
racconto medievale173, parla di «subjectivité désiderante et mortelle»174, di desiderio sempre
mediato da un terzo (citando Lacan175 e non Girard, ma la prospettiva è la stessa). La studiosa,
nella sua analisi del romanzo La Mort Artu, fa emergere quel rinvio continuo all’alterità
171
Jean BATANY, «Imagination et modèles. Comparaison et conformité dans le Tristan de Béroul», in
Danielle BUSCHINGER - Wolfgang SPIEWOK, Tristan et Yseut. Un thème éternel dans la culture mondiale,
Reineke-Verlag, Greifswald, 1996, pp. 1-11, p. 7.
172
Ivi, p. 10.
173
GREENE, Le sujet et la mort dans La mort Artu, pp. 160 ss.
174
Ivi, p.160.
175
Greene fa riferimento al Seminario I: capitolo 13, «La bascule du désir», e capitolo 14, «Les fluctuations
de la libido». Cfr. LACAN, Gli scritti tecnici di Freud (1953-54).
52
secondo cui il soggetto amministra il proprio potenziale semantico: Lancillotto desidera
Ginevra, che è la donna di Artù, Gauvain è in rapporto d’imitazione e rivalità con Lancillotto,
Artù sembra che desideri annientare il desiderio degli altri di succedergli e indirizzarlo per
altre vie al fine di conservare il suo potere.
Ancora, il libro dedicato da Bénédicte Milland-Bove al personaggio della demoiselle nei
romanzi medievali in prosa s’interseca con il nostro discorso per una ragione duplice.
Milland-Bove, benché non sia questo il fulcro della sua trattazione, più attenta a un’analisi
narratologica, rileva come già il romanzo medievale metta in discussione le categorie
cartesiane della rappresentazione dell’io, facendo crollare le opposizioni interiorità-esteriorità,
io-altro, coerenza-incoerenza e proponendo l’idea di un soggetto da intendersi, alla maniera
moderna (o, rettificherei, che noi consideriamo moderna), come processo176. Inoltre, la
studiosa insegue il legame stretto che si traccia tra personaggio e architettura del racconto. Le
demoiselles realizzerebbero «la démultiplication des personnages et la diffraction de leurs
traits principaux, dans un immense jeu de miroirs où les reflets sont tantôt reproductions
fidèles, tantôt copies en modèles réduit, tantôt miroirs déformants»177.
Con questo gioco di echi e di riflessi, con questo «décentrement des personnages»178, il
testo rompe l’univocità del discorso per proporre un’esplosione di senso tramite la ripetizione,
per analogia o per antitesi, di tratti noti: «dans l’art médiéval la nouveauté nait de la
répétition»179. Tale sistema di ripetizioni in cui si articola l’identità evanescente del
personaggio diventa un tutt’uno con la prassi diegetica, con la poetica del romanzo, in quanto
«se conçoit avant tout comme un système rhétorique», per cui le demoiselles «renvoient, par
métonymie, métaphore ou antithèse, à d’autres personnages»180. Le demoiselles rivelano
dunque un «lien étroit avec le mode d’énonciation global de l’œuvre» e il sistema di relazioni
identitarie che si dirama intorno a esse coincide con un sistema di avviluppamento della
scrittura.
Sia nell’argomentazione di Batany che in quella di Milland-Bove emerge, benché non si
parli né d’identificazione né di mimesi, la nebulosità in cui si realizza l’identità romanzesca,
la diffrazione a cui il soggetto è sottoposto. È nella dinamica dei richiami, dei riflessi, dei
raddoppiamenti, sdoppiamenti, echi che, paradossalmente, il testo cerca di ritagliare per il
176
MILLAND-BOVE, La Demoiselle arthurienne. Ecriture du personnage et art du récit dans les romans en
prose du XIIIe siecle, p. 20.
177
Ivi, p. 618.
178
Ivi, p. 624.
179
Ivi, p. 624.
180
Ivi, p. 385.
53
personaggio un’identità, instabile ed evanescente. Inoltre, le tesi di Milland-Bove ci offrono
uno spunto di riflessione sulla doppia faccia della ripetizione, la cui valenza si divide tra
semiologia e antropologia, tra esigenze della narratività e discorso identitario.
Che la ripetizione sia un irrinunciabile meccanismo messo in atto dal testo per creare un
personaggio, il quale possa essere individuato dal lettore come un’entità coerentemente data,
era già notato da Philippe Hamon nel suo Per uno statuto semiologico del personaggio:
Ma il significato del personaggio, o il suo ‘valore’, per riprendere un termine
suassuriano, non si costituisce unicamente per ripetizione (ricorrenza di contrassegni,
di sostituti, di ritratti, di temi conduttori) o per accumulazione e trasformazione (da un
meno determinato ad un più determinato), ma anche per opposizione, per relazione
con gli altri personaggi dell’enunciato181.
Così
come
«ogni
182
grammaticali»
enunciato
è
caratterizzato
dalla
ridondanza
dei
contrassegni
, allo stesso modo il personaggio, nell’evolversi del racconto, costituirà un
luogo in cui si fissa la ridondanza necessaria alla comprensibilità del racconto stesso. Diremo
quindi che nella ripetizione si dipana il senso (più che il significato, come suggerisce Hamon).
Quando Vincent Jouve183 riprenderà i risultati delle ricerche di Hamon per trasferire lo
studio del personaggio dall’alveo semiologico a un ambito antropologico e psicoanalitico, il
concetto di ritorno anaforico acquisterà, com’è prevedibile, tutt’altra connotazione. La
ripetizione è, in via prioritaria, fondamentale per creare l’effet personnage, l’illusione
referenziale: attraverso la ripetizione, il testo si assicura la coesione e la leggibilità dei
personaggi, offrendo al lettore l’impressione di una logica narrativa «fondée sur la
dissémination du signifiant-personnage dans l’ensemble du récit»184 (l’esempio proposto da
Jouve è quello di Yvain e del leone che lo accompagna, segno di una disseminazione nel
racconto delle qualità intrinseche del personaggio, della leggibilità di un modello
antropologico).
Fin qui la questione riguarda le necessità della diegesi, che cerca di rendersi trasparente
creando fenomeni di coerenza. Ma Jouve, in seguito, spostando il discorso dal versante della
181
HAMON, «Per uno statuto semiologico del personaggio», p. 97.
Ivi, p. 123.
183
Vincent JOUVE, L’effet personnage dans le roman (1998), Paris, Puf, 2001. La prospettiva di Jouve,
imperniata sul personaggio come prodotto del lettore, come luogo di un investimento psichico da parte del
lettore, è lontana da quella qui proposta, più legata alle dinamiche interne alla testualità (per quanto non
mancheranno inevitabili riferimenti al versate della ricezione). Ciononostante, trovo che alcune indicazioni di
Jouve sui processi d’identificazione tra lettore e personaggio siano perfettamente sovrapponibili al tipo
d’identificazione qui proposta, ossia quella tra personaggi dello stesso testo e tra personaggi e modelli
antropologici.
184
Ivi, p. 115.
182
54
semiotica della narratività a quello delle compromissioni psicoanalitiche che intervengono
nella ricezione del testo, illustra il ruolo della ripetizione nell’identificazione del lettore con il
personaggio. L’identificazione, che per Jouve è, sulla scia di Freud, il «fondement de la
constitution imaginaire du sujet et le modèle des processus ultérieures grâce auxquels il
continue de se différencier»185, sarebbe una questione di ripetizione per differenza, e
l’interesse per i personaggi letterari non nascerebbe, come si sarebbe più propensi a credere,
dal fatto di ritrovare in essi qualcosa di noi stessi, ma dalla scoperta «de l’autre qui est en
soi»:
La répétition selon le même. A travers la personnage-prétexte, le lecteur revit
certaines scènes prohibées. Cette repetitio, cependant, ne se fait pas toujours selon
l’identique. Le retour du refoulé dans la lecture est une formation de compromis. […]
Il ne s’agit plus de revivre servilement une scène identique, mais de se réinvestir
différemment dans une même scène. Il y a, dans la lecture, des effets en retour, qui
affectent l’identité du sujet»186.
Il riferimento di Jouve è al saggio freudiano Al di là del principio di piacere187, in cui il
bambino alle prese con il gioco del rocchetto ricostruisce ridefinendolo, attraverso una
ripetizione che gliene permette il controllo, l’evento traumatico dell’abbandono da parte della
madre: allo stesso modo, nell’identificazione con il personaggio, il lettore ripete
riconfigurando quanto rintraccia nel testo, alla luce del proprio vissuto, in una ridefinizione
semantica dei confini tra io e altro.
Il discorso di Jouve si sposta quindi da una prospettiva di semiotica della narratività,
secondo la quale la ripetizione e la ridondanza, interne al testo, si configurano come strumenti
di trasparenza nella comunicazione, a una prospettiva psicoanalitica e pragmatica per cui la
ripetizione sarebbe un processo basilare nell’identificazione del lettore con il personaggio.
Credo però che, stando a quanto finora detto, dovrebbe essere abbastanza palese l’esistenza di
uno stadio intermedio tra le due prospettive, ossia la ripetizione come spia delle
identificazioni tra i personaggi.
L’impianto teoretico di Jouve relativo alla riconfigurazione di un vissuto da parte del
lettore è rinvenibile negli stessi termini sul piano, stavolta interno al testo, delle relazioni
sintagmatiche tra i personaggi. Come il lettore si appropria dell’istanza di significazione del
testo riconducendo il mondo in esso rappresentato al proprio mondo, secondo una visione
185
Ivi, p. 235.
Ivi, pp. 236-237.
187
Sigmund FREUD, «Al di là del principio di piacere», in Id., Opere, vol. 9, pp. 193-249.
186
55
pragmatica che vuole il testo come oggetto aperto, sempre sottoposto all’attualizzazione della
lettura, allo stesso modo, all’interno del testo, è possibile seguire un meccanismo simile, una
simile continua produttività del senso, per cui, posto uno statuto identitario, esso si ridisegna
incessantemente nel rimbalzo tra personaggio e personaggio, personaggio e modello, in un
gioco di riflessi, per analogia o opposizione, che rende oltremodo dinamica l’idea di soggetto
che l’evento letterario evoca. Ecco che la disseminazione del personaggio significante è
qualcosa di più di un’esigenza legata alla leggibilità del testo, alla sua trasparenza, poiché
rappresenta un luogo d’incontro tra le regole della diegesi e quelle della costruzione
identitaria, la quale fluttua insieme al movimento della scrittura.
Sembrerà che ci siamo notevolmente allontanati dal punto di partenza, da quel Saussure che si
preoccupava di identificare Sigfrido con Sigismondo, da un Saussure attento alla
riconoscibilità dell’identità di un personaggio nel percorso diacronico della leggenda.
Saussure, in quella che si presentava all’inizio come una ricerca delle fonti storiche delle
leggende germaniche, ha raggiunto un livello di astrazione teoretica tale da tracciare timidi
frammenti di una teoria del soggetto come ineluttabilmente attraversato dall’alterità,
condannato al dissolvimento costante nelle miriadi di relazioni che lo legano all’altro.
Saussure ha dipinto il personaggio della leggenda e del mito come un ente mai compiuto, mai
dato, significante sempre aperto che circola in una continua elaborazione del senso, senza mai
chiudersi in un significato, se non momentaneamente e illusoriamente, sul piano della
ricezione, in cui urge, in nome dell’intellegibilità, la forzatura di una significazione univoca.
La teoria freudiana dell’identità come identificazione, atto primo della costruzione della
personalità umana, sposta il discorso diacronico di Saussure sul piano orizzontale delle
relazioni, in una visione in cui l’identità si costituisce nella frantumazione dell’individuo, nel
gioco di proiezioni e introiezioni rispetto all’altro.
Non si vorrà sostenere che Saussure e Freud lavorassero, grossomodo negli stessi anni, e
senza mai essersi incontrati, a una stessa decostruzione del soggetto, ma solo rilevare la
complementarità delle due posizioni e la proficuità di una loro messa in prospettiva: l’idea di
un io centrato e forte, l’idea di un io come oggetto definibile è sostituita dall’idea d’identità
come processo, che si dipana sia nell’attraversamento diacronico che nell’esplosione
sincronica dei riflessi che l’io riceve dall’altro.
La teoria del desiderio mimetico di Girard fornisce un ponte verso un’utilizzazione
critico-letteraria di queste prospettive: il personaggio, mai dato come oggetto definito e
56
definibile, si rinfrange nel gioco delle identificazioni – o, in maniera meno euristicamente
densa, delle imitazioni – rispetto ad altri personaggi rintracciabili in praesentia o rispetto a
modelli dati in absentia. Esso di disarticola instabilmente in una fitta trama di richiami, echi,
riflessi interni ed esterni al testo, giacché l’identità individuale, se rimanda costantemente a
un’altra identità individuale a essa contigua, rimanda spesso anche a un prototipo d’identità,
uno schema, una figura astratta dell’immaginario che trova nel testo un’applicazione
letteraria. Osservazione questa particolarmente valida per il testo medievale, che sembra
suggerire l’impossibilità di tenere separate queste due prospettive, poiché in esso il gioco
delle identificazioni coinvolge, contemporaneamente e con confini molto sfumati, la presenza
e l’assenza, i personaggi contigui e il modello archetipico che trascende i singoli personaggi,
rendendo sterile la contrapposizione girardiana tra mediatore esterno e mediatore interno, ma
proponendo, invece, quello che abbiamo definito un collasso dell’asse paradigmatico su
quello sintagmatico.
Gli strumenti teorici fin qui presentati andranno ora verificati sui testi della tradizione
tristaniana; ma, prima di addentrarci nell’analisi, è doverosa una parentesi, che occuperà il
secondo capitolo.
È evidente come la prospettiva saussuriana sia stata in questo capitolo sottoposta a
un’elaborazione che ha colto alcuni spunti per spingersi oltre le intenzioni di Saussure, ma a
lui va indubbiamente riconosciuto il merito di aver intrapreso un percorso che anticipa
acquisizioni teoretiche che si faranno strada diversi decenni dopo di lui. Saussure non è
riuscito, però, a fronteggiare l’abisso che si era aperto tra la novità dell’impianto da lui
abbozzato e quello che era il suo punto di partenza, una ricerca in termini di fonti: da un lato
l’elasticità di una logica fluida, dall’altro una sovrapposizione razionalistica e rigida. Nei suoi
appunti dedicati alla leggenda tristaniana, si ostinerà a seguire la traccia di un’identificazione
del personaggio di Tristano con quello di Teseo, per poi riconoscere che «plus on étudiera la
chose, plus on verra que la question n’est même pas de savoir où réside plutôt qu’ailleurs
l’identité, mais s’il y a un sens quelconque à en parler»188, ammissione di un fallimento che lo
farà desistere dalla pubblicazione delle Note. A questo Tristano di Ferdinand De Saussure
dedicheremo ora qualche riflessione.
188
Note, ed. Marinetti-Meli, p. 312.
57
II
Il Tristano di Ferdinand De Saussure:
dalla fonte all’immagine sfocata
1. Non si tratta che di saltare da un letto all’altro senza toccare la farina
Il commento che Ferdinand De Saussure riserva al corpus dei testi medievali che ci hanno
tramandato la leggenda di Tristano e Isotta non si distingue di certo per i toni ammirati:
Si d’un certain coté, qui est celui du philtre d’amour, les choses prennent une grandeur
imprévue, que sait utiliser à l’occasion un Thomas ou un Gottfried de Strasbourg,
l’ensemble nous laisse impression d’un amour profondément bas et puéril, dans lequel
tout le sel des récits résulte des farces ridicules jouées au roi Marc. Une scène
quelconque, un mot, une demi-ligne, où Tristan et Isolt élèveraient leurs vues audessus de l’idée de rendez-vous vulgaires, est absente. Ils chantent de lais dans leurs
séparation, mais leurs unions ne comportent jamais le moindre scrupule qui donnerait
à leur amour une noblesse par le sentiment du crime ou autrement.
Le narrateur est tellement en faveur des amants dans toutes les versions qu’il serait
tout à fait ridicule de lui demander de prendre les choses au tragique. Et c’est pourquoi
je me demande ce qui a créé la super-légende d’une sentimentalité de [ ] Il s’agit en
général de sauter d’un lit à l’autre sans toucher si possible la farine189.
Il riferimento è al celebre episodio in cui si racconta della trappola escogitata contro i due
amanti dal nano Frocin, che fa seminare della farina tra il letto in cui dorme Tristano e quello
di Marco e Isotta, convinto che, in assenza del re, Tristano cercherà di avvicinarsi all’amata,
lasciando così le proprie orme sul pavimento. Il giudizio di Saussure, giudizio moraleggiante,
si erge da un orizzonte tutto romantico, appare dettato da una visione alta e sublime della
natura eroica, dalla quale apparirebbe recriminabile quell’indifferenziazione d’intelligenza e
astuzia che contraddistingue l’eroe culturale-trickster del mito190: come scrive Joseph
Campbell191, la mitologia non celebra come eroe l’uomo virtuoso, poiché il mito si spinge
oltre le dicotomie moraleggianti, oltre i valori comunemente accettati. Saussure, che pure
proprio alla traccia del mito nella leggenda tristaniana dedica la sua analisi, sentenzia invece
che avrebbe gradito una parola di uno dei due protagonisti su quanto biasimevole sia la loro
189
Note, 3959.11, ed. Marinetti-Meli, p. 313.
Si veda Eleazar M. MELETINSKIJ, Il mito. Poetica folclore ripresa novecentesca, Roma, Editori Riuniti,
1993, pp. 196-197.
191
Si veda Joseph CAMPBELL, L’eroe dai mille volti (1949), Parma, Guanda, 2000, p. 46.
190
situazione in rapporto a Marco, zio, padre adottivo, benefattore di Tristano, parola che non si
trova, disapprova lo studioso, neanche nelle versioni più raffinate di Thomas e Goffredo di
Strasburgo192. Al contrario, nessuno dei testi si preoccuperebbe del re di Cornovaglia, «qui
joue tout au plus chez eux le rôle d’un personnage indifférent quand il n’est pas odieux»193.
Il lato tragico e interessante della storia starebbe secondo Saussure, il cui punto di
riferimento è evidentemente la riscrittura di Wagner, nella «fatalité de cet amour illégitime et
contraire à certains sentiments»194, nel filtro che lega Tristano di un amore invincibile alla
sposa dello zio. L’assenza del senso di colpa dovuto a questo legame dal potere indomabile, la
non esasperazione di un dissidio interiorizzato tra legge morale e impeto del desiderio è ciò
che della leggenda più disturba lo studioso ginevrino e si risolve in un qualche giudizio di
valore:
Déjouer Marc, le tromper, ouvertement, lui offrir des serments sophistiqués, est la
seule préoccupation commune des amants; un sentiment de retenue, de respect
humain, de dignité personnelle, de conscience de leur situation à défaut même d’égard
pour Marc ne les aborde ni l’un ni l’autre. C’est en quoi il est faux malgré les plus
hautes autorités, de vouloir donner au poème une aussi grande portée qu’on le fait.
Poème de l’amour sans doute, et de l’amour sans frein, mais dépourvu de la chose qui
en ferait l’intérêt, d’une barrière morale [à lois sûres] contre laquelle lutteraient les
amants195.
Di fronte a testi dalle grandi passioni è facile cedere a una sentenza stigmatizzante dai toni
perentoriamente morali, a un giudizio nutrito di un pensiero ingenuamente scisso tra ciò che è
buono e ciò che non lo è, camuffando la propria pretesa di onestà e rettitudine nei personaggi
con la targa, banale ed euristicamente povera, di profondità psicologica (che rientra sempre in
quella presunzione di voler afferrare l’immagine di una persona tonda in un testo letterario, il
quale richiede invece, come si è visto nel primo capitolo, un giro più lungo). Un personaggio
può essere intessuto di profondità di altro tipo, di complessità che esulano dalla morale, dalla
logica del bene e del male. Tristano e Isotta non rispondono a quel senso di colpa auspicato da
Saussure perché non contemplano l’orizzonte della colpevolezza, non arridono a un manicheo
essere di qua o di là dalla legge, si pongono oltre la dicotomia regola-non regola, ed è proprio
la loro trascendenza rispetto a qualunque prospettiva ideologica a renderli fertili nella
rappresentazione dell’umano che incarnano. Aspetti, questi, su cui si tornerà – per ora si tratta
di dar conto di quanto su Tristano ha detto Ferdinand De Saussure.
192
Note, 3959.11, ed. Marinetti-Meli, p. 313.
Ivi, p. 310.
194
Ibid.
195
Ivi, p. 311.
193
60
Si tratta a dire il vero di recuperare, in un coacervo di dati dal dubbio interesse improntati
a una fiducia tutta positivistica, una propensione all’autocritica pronta a generare, ben oltre il
dato positivo, il salto verso il suo opposto, offrendo al fruitore degli appunti dedicati a
Tristano la possibilità di leggere tra le righe un pensiero dell’alterità, della non
cristallizzazione, dell’apertura fluida, un pensiero – decostruzionista ante litteram se si vuole
– del vuoto, del margine, della non presenza. Più che guardare a quanto Saussure ha
esplicitamente detto su Tristano, ci si dovrebbe soffermare sugli interstizi degli appunti,
indagandone la portata epistemologica.
La bibliografia critica (alquanto scarsa su quest’aspetto della riflessione saussuriana)
considera normalmente cuore degli appunti che Saussure ha dedicato a Tristano il quaderno
3959.1 , ma non sarà inopportuno rilevare che pensieri dedicati all’eroe di Thomas e Béroul
sono disseminati lungo tutti i quaderni qui indagati, cui però è invalso l’uso di attribuire come
intitolazione Note sulle leggende germaniche. La riflessione sul romanzo di Tristano e Isotta
accompagna Saussure per tutto l’arco della sua ricerca sulle leggende e inoltre, come
cercheremo di vedere nel dettaglio, alcune delle note di carattere teorico, ossia quelle per cui
questa parte del Fonds Saussure è stata considerata particolarmente degna d’attenzione da
parte dei semiologi, sono inserite proprio tra gli appunti tristaniani, e sembrano dettate
dall’articolata analisi imperniata sul personaggio di Tristano. Dato lo spazio, e, in un certo
qual modo, l’autonomia, riservati alla materia tristaniana, sarebbe insomma doveroso tener
presente nell’intitolazione anche quest’altro versante della ricerca196.
Saussure fu colpito da una nota di Hermann von Fischer197 in cui si enucleano dei punti di
contatto tra la leggenda di Tristano e quella di Teseo. Inoltre, il 30 luglio 1904 debuttò al
Théâtre Romain di Orange il dramma Hippolyte couronné di Jules Bois e, qualche giorno
dopo, lo studioso ginevrino s’imbatté in una recensione dello spettacolo, dove si discuteva la
scelta del drammaturgo di introdurre nella nota storia una scena in cui la nutrice di Fedra
porge a Ippolito «la coupe qui contient le philtre»:
Il n’est pas sans intérêt de voir qu’un auteur contemporain, même s’attachant d’assez
près à Euripide et Sénèque, est arrivé de son côté, comme l’auteur premier du Tristan,
à ajouter la donnée d’un philtre versé par la nourrice au jeune homme198.
196
Come, a ragione, fa la studiosa Béatrice Turpin, nell’edizione di parte delle note saussuriane da lei
curata.
197
Hermann VON FISCHER, Die Forschung über das Nibelungenlied seit Karl Lachmann, Leipzig, 1874.
Cfr. Note, 3958.8.40.
198
Cfr. Note, 3959.4.38.
61
Sull’onda di un’intuizione, Saussure si dedica così a una ricerca meticolosa (cavillosa, a tratti)
delle eventuali fonti mitologiche del Tristano, rintracciando, ricopiando, annotando,
riassumendo brani tratti dall’opera di Ovidio, dalla Bibliotheca di Apollodoro, dalle Fabulae
di Igino; è in particolare la versione della storia di Teseo e Ippolito che compare nel IV tomo
della Bibliotheca historica di Diodoro Siculo che presenta, a suo avviso, tratti affini alla storia
di Tristano199.
I richiami tracciati da Saussure sono capillari e attenti ai particolari più insignificanti –
soprattutto ai particolari più insignificanti. Le affinità tra Teseo e Tristano sono ben note e
hanno alimentato, come mi preoccuperò di riassumere più avanti, un’abbondante bibliografia.
Teseo, come Tristano, è allevato da un padre putativo e da un maestro, è un nuovo arrivato e
straniero alla corte del re (suo padre), che non ha figli e lo nomina suo erede, cosa che suscita
la gelosia dei cinquanta nipoti del sovrano. La parabola di Teseo è, inoltre, come quella di
Tristano, segnata dalla vittoria su due mostri, prima sul Toro di Maratona, che terrorizza gli
abitanti di Atene, poi sul Minotauro, che, come il Moroldo, esige un tributo di carne umana.
Ancora, Teseo è aiutato nella sua impresa dalla figlia del sovrano, che, ucciso il mostro, porta
via con sé.
Nell’accumulare i tratti condivisi dai due profili, Saussure si rende ben presto conto di
star disegnando un ipertesto ben noto al folklore e alle mitologie di tutto il mondo, soprattutto
riguardo all’infanzia dei due eroi:
Il est malheureux que l’histoire de Thésée commence par une donnée incapable de se
distinguer par nature d’un autre début banal, la donnée d’un jeune homme de
naissance plus ou moins régulière qui arrive en inconnu à la cour d’un roi chez lequel
il doit accomplir ses exploits. Ce début est, dans le cycle, la façon pour ainsi dire
obligatoire dont commence la carrière d’un héros, et par conséquent ne saurait
constituer la moindre présomption en faveur de la comparaison générale que nous
soutenons200.
Benché si renda conto di quella che chiama una tendenza dei racconti leggendari verso «un
certain type banal»201, Saussure resta persuaso della validità dell’indirizzo intrapreso e del
fatto che questa regolarità non costituisca, riguardo all’incipit della vicenda di Teseo, una
prova contro «son identité avec le début de Tristan», ma solamente «une absence de critère
possible pour cette partie»202. In un passo degli appunti, lo studioso sembra essere
determinato a confrontare la storia di Teseo con quella di una serie di altri personaggi,
199
Cfr. Note, 3959.2.9.
Note, 3959.3.6.
201
Note, 3939.3.7. Poco prima lo chiama «prototype» (Note, 3959.3.6).
202
Note, 3959.3.6.
200
62
nell’intento di dimostrare, pur tra diversi «exemples de banalité», come una corrispondenza
precisa e assoluta sia data solo con Tristano, ma quest’operazione di raffronto si arresta, con
un’evidente titubanza da parte di Saussure, al primo nome della lista, quello di Perceval203.
Nella solerte difesa dell’intuizione da cui è mossa la ricerca, le argomentazioni di
Saussure si fanno un po’ forzate. Rinunciare a prendere in considerazione queste somiglianze
che sembrano legate a un «tipo banale» equivarrebbe, dice, a non considerare oggetti degni
d’analisi gli altrettanto banali combattimenti raccontati in una leggenda, che si assomigliano
senza distinzioni, e che, continua, costituiscono uno dei temi più ordinari di cui occuparsi,
essendo inevitabile che un combattimento abbia prima o poi luogo in una qualunque
leggenda. Perché ci si dovrebbe sentire autorizzati allora a «traiter avec plus de négligence des
aventures de naissance qui ressemblent à d’autres que des coups d’épée qui ressemblent
encore plus à d’autres?»204. Saussure è irremovibile nella sua proposta di una posizione forte,
che porti all’individuazione di una fonte, che arrivi a mostrare come, tenuto conto delle sue
ascendenze, di Tristano resti poca cosa205:
Il n’y a pas de méthode plus commode, tandis qu’on est accusé de hardiesse à ne pas
la suivre, que de parler ‘d’influences’, de ‘réminiscences’, d’inspirations prises à
droite et à gauche quand on aperçoit ça et là, à la surface d’un corps de légende
quelque éclatant exemple d’emprunt fait à un mythe connu206.
Contrariamente agli approcci basati su vaghe idee d’influenza e di reminiscenza di motivi, lo
sforzo delle Note si orienta a rintracciare il testo che funga da modello esatto per i romanzi
tristaniani del XII secolo. In quest’ottica, non può essere considerata condizione sufficiente la
concomitanza degli aspetti più macroscopici, centrali dell’intrigo, che sono quelli che
maggiormente si prestano a un gioco di «reminiscenze», ma bisogna invece investire sul
particolare più insignificante:
A quoi sert peindre Tristan et son amour fatal qu’il naisse, qu’il ait une aventure avec
des pirates, qu’il [ ] que son père adoptif passe trois ans à sa recherche, qu’il venge
son père sur Morgan. Ce sont là des choses tellement inutiles et peu intéressantes
qu’elles portent nécessairement la marque d’être les vraies choses racontées d’abord
sur Tristan, parce qu’il faudrait plaindre le poète qui les aurait inventées pour orner ou
préparer son récit. Il les avait reçues et n’osait pas les taire207.
203
Note, 3959.3.7.
Note, 3959.3.6.
205
Cfr. Note, 3959.11, ed. Marinetti-Meli, p. 310.
206
Note, 3959.8.71.
207
Note, 3959.1 .1 . Come fa notare Gildas Salmon, in quest’attenzione al particolare Saussure segue una
linea di ricerca diametralmente opposta a quella della funzione comune di Propp, il quale, come gli è stato
rimproverato da Lévi-Strauss, perveniva a una generalità e a un’astrazione tali da partorire un modello incapace
di spiegare i testi particolari (si veda Gildas SALMON, «Les conditions d’une science de l’intertextualité:
204
63
Saussure cerca punti di appoggio improbabili. Alla nascita irregolare, all’infanzia oscura
illuminata poi dal pieno riconoscimento del rango dell’eroe, ossia «un des grands lieux
communs où revient [sic] sans cesse d’âge en âge, la légende et le conte de toutes les
nations»208, affianca il dato, che considera assolutamente non trascurabile, per cui i genitori di
Teseo, come quelli di Tristano, sono entrambi di razza umana e di stirpe reale, o, ancora,
precisa che sia l’infanzia di Tristano che quella di Teseo non è un’infanzia abbandonata,
giacché i due eroi saranno allevati nobilmente e istruiti in un ambiente degno del loro
rango209.
Un’analisi puntuale è dedicata alla struttura geografica delle due trame, dove Saussure si
sofferma ampliamente sul dato per cui Teseo, come Tristano, ha quelle che si potrebbero
chiamare una piccola e una grande patria210. Teseo cresce a Trezene, paese straniero sia per
sua madre che per suo padre, per recarsi poi a sedici anni ad Atene, regno paterno. Tristano
lascia l’Ermenia, terra in cui è stato concepito ed è cresciuto, paese natale di suo padre
Rivalen ma straniero per sua madre Blanchefleur, per recarsi alla corte di Marco in
Cornovaglia211. Per Saussure, il fatto che Tristano nasca e cresca nella terra paterna
costituirebbe un’alterazione rispetto alla trama originaria e l’Ermenia doveva originariamente
essere il regno della madre («la mère de Tristan devrait être chez elle212»), la quale, invece di
concepire l’eroe in casa propria, ne è allontanata dallo straniero Rivalen: questa sarebbe la
sola trasposizione importante rispetto al mito di Teseo213. La conclusione è salda nel sostenere
la convinzione di partenza: «Parmi les histoires banales il sera difficile de retrouver ce type
qui est celui de Thésée et de Tristan»214.
La ricerca di parallelismi si estende ad altri racconti della mitologia greca, tanto che si
potrebbe dire che Saussure tracci in questi appunti una sorta d’ipertesto mitologicoleggendario, in una fittissima e capillare rete di sovrapposizioni, rispecchiamenti, coincidenze.
Benché il perno dell’analisi resti il confronto di Tristano e Teseo, lo studioso parla della
réflexion sur les apories du comparatisme saussurien», Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio, 3, 2010, pp.
169-182, p. 170).
208
Note, 3959.8.45.
209
Ibid.
210
Cfr. Note, 3959.8.31.
211
Cfr. Note, 3959.8.28 e 3959.8.29.
212
Note, 3959.8.30.
213
Cfr. Note, 3959.8.30.
214
Note, 3959.8.45.
64
leggenda tristaniana come di un «entrelacement»215 di più storie, di più coppie di personaggi:
Teseo-Arianna, Ippolito-Fedra, Cefalo-Procri, Paride-Enone.
In questa ricerca di somiglianze Saussure appare infaticabile, con risultati che rasentano
spesso una mania della sovrapposizione a tutti i costi. Per esempio, non contento dell’analogia
di Isotta e Procri nella loro figura di guaritrici216, propone un confronto tra la «maladie
dégoutante»217 di Minosse e l’episodio dei lebbrosi del romanzo di Béroul. Minosse è vittima
di un sortilegio lanciatogli dalla moglie Pasifae: qualora una donna si fosse avvicinata a lui, il
suo corpo avrebbe sprigionato animali ripugnanti, episodio che costituirebbe un’ascendenza
della scena bérouliana che vede Marco cedere Isotta ai lebbrosi (con disinvoltura, si stupisce
Saussure), scena in cui si farebbe della «maladie dégoutante» un «emploi encore plus
innommable sur le corps d’Isolt»218: il lebbroso cui Marco consegna l’adultera sarebbe
Minosse che accoglie Procri ripudiata da Cefalo.
I punti di contatto individuati sono diversi: Procri, come Isotta, è colta in flagrante nella
sua infedeltà al marito Cefalo; Procri che, dubbiosa che il marito possa a sua volta esserle
infedele, lo spia da dietro un cespuglio ricorda a Saussure la celebre scena tristaniana del
colloquio spiato; Isotta che accorre presso il Moroldo sarebbe una Procri «arianisée plus ou
moins»; Tristano ferito e che cambia il suo nome in Tantris sarebbe, con un punto
interrogativo che accompagna l’appunto, Cefalo che si maschera per mettere alla prova la
fedeltà della moglie.
Il parallelismo tracciato con la storia di Cefalo e Procri tocca uno dei punti più complessi
nell’interpretazione dei testi tristaniani, quello della scena della spada tra i corpi.
L’argomentazione di Saussure apparirà sopra le righe, ma, considerando la larga
immaginazione cui gli interpreti hanno dato spazio nell’analisi di questo passo, non è forse
inopportuno aggiungere al coro questa voce. Procri, dopo aver guarito Minosse
(corrispondente al duca lebbroso nel nostro romanzo) e aver ricevuto da lui in dono una lancia
che non fallisce mai il bersaglio e un cane prodigioso nell’inseguimento delle prede, torna in
Attica travestita da uomo, diventando compagno di caccia di Cefalo. Allo stesso modo, dice
Saussure, Isotta, strappata al duca lebbroso, si rifugia nella foresta del Morois con Tristano,
dove vivranno di caccia. Isotta prende parte, per quel che può, alle fatiche di Tristano,
elemento che, secondo Saussure, potrebbe essere una spia della primitiva partecipazione della
215
216
Note, 3958.8.1.
Cfr. Note, 3959.8.1-6: i sei fogli sono quasi interamente dedicati al parallelismo con la storia di Cefalo e
Procri.
217
218
Note, 3958.8.1.
Note, 3959.8.1. L’argomento compare anche nel foglio 395 . .3.
65
protagonista alla caccia, spia che agevolerebbe, ancora, la sua sovrapposizione con Procri. Ci
si troverebbe, però, di fronte alla questione che Isotta, al contrario di Procri, non è mascherata
da uomo, particolare che persuade Saussure del fatto che si tratti di una «héroïne d’un sexe
emprunté»:
u’on prenne garde aux altérations littéraires d’une part, et de l’autre à ce qui est le
fait caractéristique de toute [ ]. Lors que les amants sont surpris, il se trouve qu’il y a
entre eux l’épée symbolique219.
La famosa spada che separa i corpi dei due amanti dormienti quando Marco li rintraccia nella
foresta sarebbe un residuo, un segno, una traccia di un antico travestimento d’Isotta? Secondo
Saussure ci si potrebbe domandare se la convivenza dei due nella foresta non avesse una
forma totalmente opposta a quella elaborata dai poeti medievali, dietro cui si celerebbe una
primitiva convivenza dei due non in qualità di amanti, ma di colleghi di caccia: «Tristan et
Isolt n’y représentait [sic] point deux amants, quoique d’autre part aussi bien que Céphale et
Procris»220.
Un altro punto di contatto tra i due intrecci sarebbe Husdent, il cane di Tristano che segue
i due amanti nella foresta e che rivestirebbe lo stesso ruolo del cane regalato da Minosse a
Procri221. È proprio a partire dall’episodio della fuga della foresta, fino a cui la memoria del
personaggio di Cefalo sarebbe fortemente presente, che può avviarsi per Saussure una netta
identificazione di Tristano e Teseo, che resta il perno della ricerca dello studioso, il quale
sottolinea che «à travers tout le bas Moyen Age, c’est la légende de Thésée qui semble de
toutes les fables grecques (avec Troie?) continuer à jouir de la plus grande popularité»222. Per
Saussure, una volta delineate le influenze di altri racconti mitologici e le alterazioni cui hanno
dato luogo, oltre che i mascheramenti letterari cui la leggenda primitiva è stata sottoposta dai
poeti medievali, i due tessuti diegetici sono perfettamente assimilabili:
L’histoire de Thésée se retrouve, non toute seule ni toute pure, mais du moins en ce
qui la concerne entière, dans les événements qui sont mis autour du nom de Tristan, et
cela dans une succession strictement conforme à la fable qui serait ainsi la fable
originale. Il n’y manque pas un seul article que l’on puisse citer223.
219
Note, 3959.8.5.
Ibid.
221
Saussure s’interroga anche sull’altro cane che compare nei romanzi tristaniani, Petitcriu, riguardo al cui
nome si propone d’indagare se non possa essere una deformazione di Procri. Cfr. Note, 3959.10.1/2 e
3959.10.14.
222
Note, 3959.8.43.
223
Note, 3959.8.22.
220
66
Per fornire ancora un esempio della fitta trama di relazioni configurata nelle Note, la ferita di
Tristano alla gamba sarebbe secondo Saussure una traduzione «honnête» della ferita di Teseo
alle natiche, che «a donné lieu à d’interminables plaisanteries des comiques athéniens»224.
Saussure tiene a precisare che la sua posizione è ben più drastica di quella di chi, prima di lui,
si era interrogato sulle relazioni tra i due miti. Rispetto alle argomentazioni, meno perentorie,
più sfumate, di Gaston Paris, che parlava di influenze del personaggio di Teseo sulla primitiva
leggenda tristaniana, Saussure prende le distanze: «En somme, on admet des broderies
théséennes sur une autre trame. J’admets des broderies quelconques sur trame théséenne»225.
uesta è l’affrettata, e in realtà non pienamente argomentata, ipotesi di Saussure:
Un récit en latin des aventures de Thésée, disposé à la façon d’un conte, est rédigé par
un savant clerc qui connait de près les sources classiques et les respecte, mais est
incité à l’écrire en même temps d’un sens narratif et [ ] qu’il emprunte aux modèles de
sa nation. Cela coïncide bien avec un rédacteurs de l’ile britannique (entre autres très
libre d’entournures et d’idées)226.
Rispetto a questo imprecisato racconto latino scritto da un autore britannico, gli unici elementi
importanti introdotti indipendentemente dalla base mitologica sarebbero il filtro e l’amore
«non d’elle pour lui, mais de lui pour elle»227, laddove Ippolito non ama Fedra, Paride si
allontana da Enone, Teseo abbandona Arianna:
On peut au moins remarquer que c’est bien tout simplement de l’indifférence que
témoigne Tristan à l’égard d’Isolt jusqu’au moment de l’ingestion du breuvage, et que
c’est une des choses qui nous éloignent un peu, malgré tout ce qu’on a dit de toute
cette donnée, singulièrement rude et d’une psychologie sauvage ‘peu psychologique’.
ue la coupe magique, comme symbole, vienne sceller ce qui résulte déjà de l’attrait
des cœurs, nous le comprenons, mais elle est la cause unique. Aussi on l’a dit, elle
représente bien plus la ‘Fatalité’ que le principe de l’‘Amour’, et cela nous le croyons
même directement [ ]. Dès lors la question psychologique est moins importante. C’est
toujours la fatalité des antiques pour Pasiphaé et sa [ ]228
Come qualche anno dopo di lui faranno autorevoli filologi, Saussure insiste sulla chiave della
fatalità come asse strutturante della vicenda di Tristano e Isotta, asse che la inserisce
pienamente nel solco della mitologia greca.
In un contributo del 1911 dedicato alle relazioni del Tristano con gli antichi miti greci,
Egidio Gorra insisteva su come, nei romanzi tristaniani, non sia semplicemente questione di
224
Ibid.
Note, 3959.3.1. Saussure fa riferimento a Gaston PARIS, «Note sur les Romans relatif à Tristan»,
Romania, 15, 1886, pp. 597-602.
226
Note, 3959.8.45.
227
Note, 3959.3.1.
228
Note, 3959.3.1-2.
225
67
adulterio, similmente al caso di Lancillotto e Ginevra, poiché «ciò che dà un’impronta agli
amori del nostro romanzo è il fatto che essi sono amori incestuosi»229, laddove andrebbe
riconosciuta nella nostra storia un’attenuazione della ripugnante immagine, di edipica
memoria, di Tristano figlio di Marco, che diventa invece zio e padre adottivo del protagonista.
Per Gorra, come per Saussure, la trama tristaniana è senza dubbio annoverabile «nei drammi
fatali, i quali hanno contenuto e caratteri particolari»230. Quasi due decenni dopo, Nicola
Zingarelli riprendeva e approfondiva gli argomenti di Gorra, passando in rassegna le
reminiscenze classiche nel racconto di Tristano («non singole reminiscenze accessorie»,
chiariva, ma il «motivo principale della storia di Tristano e Isotta che è tutto classico, cioè il
fato»231), così concludendo:
E con tutti questi elementi a nostra disposizione, e a portata di mano, valeva la pena di
annaspare sulle mitiche origini celtiche e indoeuropee della storia di Tristano e
Isotta?232
Ancora negli anni sessanta, Antonio Viscardi si univa alla lista dei sostenitori della tesi del
mito classico:
È facile rilevare che alcuni dei temi di cui la complessa trama è intessuta derivano dai
miti della tradizione classica. Tristano, vincitore del Moroldo e del mostro, richiama
Teseo vincitore del Minotauro, e Giasone; Isotta ricorda Medea e Arianna; Marco
dalle orecchie equine richiama l’antico Mida; e Tristano muore come muore Egeo
all’annuncio che la nave di Teseo alza la vela nera… e Isotta e Tristano muoiono
come Tisbe e Piramo233.
In realtà la questione non manca di nutrire supposizioni, argomentazioni, dibattiti anche in
tempi più recenti. In un volume che Chocheyras dedica a Tristan et Iseut. Genèse d’un mythe
littéraire, viene riproposto un saggio del 1991 sulle fonti di alcuni motivi tristaniani234, in cui
l’autore polemizza con gli studiosi Bédier e Varvaro per aver negato la pertinenza del
229
Egido GORRA, «Tristano», in Studi Letterari e Linguistici dedicati a Pio Rajna, Firenze, Fussi Ediore,
1911, pp. 577-592, p. 582.
230
Ivi, p. 5 6. Benché l’impostazione generale del saggio risulti oggi inaccettabile, vi appare una
considerazione che mi pare valida per ridimensionare la tanto dibattuta questione morale nel Tristano
(riprenderemo quest’aspetto nei capitoli successivi): «L’amore dei due adulteri è, in origine, anteriore al
matrimonio sancito dalle leggi sociali; ed è questa anteriorità dell’amore illegittimo rispetto all’amore legittimo
che giustifica in certa maniera i due amanti davanti alla nostra coscienza e alla nostra opinione. Soltanto per
questa ragione, io credo che la legge naturale, cioè i diritti dell’anima, può nella nostra leggenda accampare la
sua giustificazione di fronte alla legge sociale» (ivi, p. 583).
231
Nicola ZINGARELLI, «Tristano e Isotta», Studi medievali, 1, 1928, pp. 48-58, p. 53.
232
Ivi, p. 56.
233
Antonio VISCARDI, «I romanzi di Tristano e Isotta», in Id., Le letterature d’oc e d’oïl, Firenze-Milano,
Sansoni-Accademia, 1967, pp. 167-173, p. 170.
234
Cfr. Jacques CHOCHEYRAS, «Les sources possibles de quelques motifs tristaniens» (1991), in Id., Tristan
et Iseut. Genèse d’un mythe littéraire, Paris, Honoré Champion, 1996, pp. 115-140.
68
rapporto tra Tristano e Teseo. L’oggetto della discussione è il noto passo del commento di
Servio al terzo libro dell’Eneide, un commento del IV secolo che potrebbe costituire un ponte
tra il mito di Teseo e la leggenda tristaniana.
Nel testo di Servio, che fornisce al lettore la spiegazione dell’origine del nome del mare
Egeo, si racconta come il padre di Teseo, vedendo ritornare la nave del figlio con le vele nere
issate (Teseo, una volta ucciso il Minotauro, si è semplicemente dimenticato di cambiarle) e
pensando che il figlio sia morto, si getta in mare, che prende così da lui il nome. Il motivo
delle vele è l’unica concessione che Bédier faceva a un qualche legame di Tristano con Teseo;
Varvaro non accetta neppure questo. Non si tratterebbe per lo studioso italiano di un filone
mitico, ma di un motivo popolare ovvio presso le popolazioni marinare e frequentemente
attestato, per le quali il colore delle vele, bianche o nere, era segno di buone o cattive notizie.
Bisognerebbe quindi vedervi un’operazione di organizzazione di motivi popolari, e sarebbe da
escludere la fonte mitologica: «esso non è più che un motivo narrativo senza filigrana
alcuna»235. Chocheyras accusa Bédier e Varvaro di concentrarsi sul motivo della vela, senza
tener conto delle numerose analogie tra i due eroi, sulla cui base lo studioso si spinge a varie
ipotesi di derivazione, che vanno dall’influenza diretta di Plutarco alla mediazione di un
compilatore latino (ossia una posizione in linea con quella di Saussure, che, come stiamo per
vedere, è stata però soltanto una posizione provvisoria)236.
235
Alberto VARVARO, «L’utilizzazione letteraria di motivi della narrativa popolare nei romanzi di Tristano
(1970), in Id., Identità linguistiche e letterarie nell’Europa romanza, Roma, Salerno editrice, 2004, pp. 459-481,
p. 477.
236
Poco interesse pare che invece Saussure rivolga all’altro versante della questione delle fonti del Tristano,
quello celtico (compaiono pochi cenni sparsi, almeno stando alle conoscenze attuali del fondo), a cui gli studi
hanno col tempo conferito un’importanza sempre maggiore, ridimensionando non solo la tesi delle fonti
classiche, ma anche il primato francese. È noto l’interesse rivolto alla raccolta delle Triadi Gallesi, in particolare
le triadi numero 26, in cui si menziona un «Drystan son of Tallwch», già inserito nell’orbita arturiana, guardiano
dei porci di «March son of Meirchiawn» (The Welsch Triads, ed. a cura di Rachel BROMWICH, Cardiff,
University of Wales Press, 1961, p. 45) e la triade numero 80, dove «Essyllt Fair-Hair è una delle «three faithless
wives of the Island of Britain» (ivi, p. 200). Riferimenti a Drystan compaiono inoltre nelle triadi 19, 21, 43, 71.
Ad attirare l’attenzione dagli studiosi che si sono impegnati nello scavo delle ascendenze del personaggio di
Tristano vi è poi il racconto di Diarmaid e Grainne del ciclo eroico feniano (si veda Myles DILLON, Early Irish
Literature, Chicago, University of Chicago Press, 1948, in particolare il capitolo II, pp. 32-50, dedicato al ciclo
feniano). Un testo particolarmente citato negli studi delle fonti del Tristano, l’edizione di Joseph Loth delle
quattro branches dei Mabinogion del 1889 (nuova edizione: Joseph LOTH, Les Mobinogion. Contes bardiques
gallois, Paris, Presses d’Aujourd’hui, 1979), compare tra la bibliografia utilizzata da Saussure nella sua ricerca,
ma, come accennavo, non sembra che questa pista abbia avuto sullo studioso una particolare presa. In generale,
tra i motivi della leggenda tristaniana che lasciano pensare a un’origine nel folklore celtico compaiono:
l’addestramento di Husdent, cui viene insegnato a cacciare senz’abbaiare, il sonaglio dell’altro cane di Tristano,
Petitcriu, le abilità magiche di Isotta e di sua madre, l’arco con cui Tristano caccia nella foresta, le numerose
decapitazioni, le orecchie equine di Marco, l’episodio dell’acqua ardita. Per una visione globale, si rimanda allo
studio di Gertrude SCHOEPPERLE (del 1912, ma riproposto in un’edizione ampliata: Tristan and Isold. A study of
the Sources of the Romance, Second edition, expanded by a bibliography and critical essay on Tristan
Scholarship since 1912 by Roger SHERMAN LOOMIS, II voll., New York, Burt Franklin, 1960). A uno studio dei
69
La discussione, se ci allontaniamo per un attimo dalla preoccupazione filologica per la
questione della fonte, coinvolge un aspetto sui cui credo valga la pena soffermarsi. Il romanzo
di Tristano e Isotta, di là dalle letture sociologiche che se ne possono dare e dal suo
inquadramento nel canale feudale-cristiano, di là dall’influenza diretta o meno che su di esso
può aver avuto la mitologia greca, s’inserisce, come Saussure ed eminenti filologi
suggerivano nei primi decenni del novecento, nel filone delle storie della classicità in cui è la
fatalità a far da padrona. Anzi, più che la fatalità, etichetta lautamente generica che apparenta
troppe storie del folklore mondiale, direi che il fulcro è quell’inestricabile connubio di
desiderio e alterità, fulcro che il mito tristaniano, agli albori del romanzo francese medievale
(e quindi agli albori di quella che etichettiamo come letteratura europea) sembra ricavare dal
grande insegnamento della Grecia classica.
Del resto, come nota Jean-Charles Huchet, la storia del romanzo francese, tra il Roman
d’Alexandre et l’Apollonius de Tyr, si apre con la trasposizione del mito di Edipo, «le rappel
d’un double forfait (un parricide et un inceste) qui doit être oublié, rédimé, par une reprise le
transformant en métaphore de l’écriture»237. Certo, è oggi un dato acquisito dalla critica e
dalla filologia, al contrario di quanto pensassero gli eminenti filologi di cui sopra, il ruolo
svolto dal folklore celtico nell’elaborazione di motivi e scenari del romanzo medievale. Ma,
messo da parte lo scrupolo filologico per soffermarsi invece sull’interpretazione e per
interrogarsi su che cosa possano per noi rappresentare oggi questi testi, altrettanto innegabile
mi pare che, guardando ai frammenti della leggenda di Tristano, non si possa prescindere dal
saldo punto di riferimento dei capolavori della classicità latina e greca e del loro tortuoso e
sempre aperto tentativo di disegnare le aggrovigliate dinamiche che legano l’io all’altro, che
accendono il soggetto di una spinta all’uscita da sé fino alle più tragiche e imprevedibili
conseguenze.
materiali di origine celtica è inoltre dedicato lo studio di Bruno PANVINi: La leggenda di Tristano e Isotta. Studio
critico, Firenze, Leo S. Olschki, 1951. Sul rapporto (le differenze) tra Tristano e il Diarmaid del ciclo feniano si
veda Raymond J. CORMIER, «Open contrast: Tristan and Diarmaid», Speculum. A Journal of Medieval Studies,
51, 1976, 4, pp. 589-601; alcune considerazioni in merito si trovano in Jean FRAPPIER, «Structures et sens du
Tristan: version commune, version courtoise», Cahiers de civilisation médiévale, 6, 1963, pp. 255-280 e pp. 441454, in particolare alle pp. 256-257, e in D’Arco Silvio AVALLE, «… de fole amor», in Id., Dal mito alla
letteratura e ritorno, Milano, Il saggiatore, 1990, pp. 260-2 1, in particolare alle pp. 269 ss. Sull’incontro di
fonti celtiche e classiche, tra celti e greci si sofferma Daniel POIRION nel suo articolo «Le Tristan de Béroul:
récit, légende et mythe», L’information littéraire, 26, 1974, 5, pp. 199-207, p. 203. Alcuni contributi più recenti
sulle fonti celtiche: Francesco BENOZZO, «Tristano e Isotta. Cent’anni di studi sulle origini della leggenda»,
Francofonia, 33, 1997, pp. 99-128; Mary BROCKINGHTON, «The Separating Sword in the Tristran Romances:
Possible Celtic Analogues Re-Examined», The Modern Language Review, 91, 1996, 2, pp. 281-300.
237
Jean-Charles HUCHET, Le roman médiéval, Paris, PUF, 1984, p. 11.
70
2. La materia inerte che il pensiero ordina
Saussure avrebbe quindi inseguito nei primissimi anni del novecento un’ipotesi che fa ancora
discutere gli studiosi di letteratura medievale, o almeno quegli studiosi attenti più alla logica
lineare della tradizione che a quella, meno lineare, dei processi di costruzione del senso.
L’interesse delle Note non sta però in ciò che argomentano con tanta dovizia di particolari,
quanto piuttosto nella messa in discussione di quelle stesse argomentazioni, nell’articolata e
maniacale rincorsa a una traccia precisa che sfocia poi però nella consapevolezza di
un’inesattezza insita in ogni dato che si presenti come puntuale, definitivo, ultimo.
Prima di addentrarci in questa questione, mi preme soffermarmi su un merito preliminare
degli appunti che Saussure dedica a Tristano, già accennato in apertura di questo capitolo.
Benché con toni disapprovanti e in un discorso dal sapore moraleggiante, Saussure considera
un aspetto della trama tristaniana, quello della ruse, dell’impronta del trickster, che era al suo
tempo totalmente trascurato a profitto del tessuto tragico. Pur inseguendo l’esatta
sovrapposizione rispetto alla linea diegetica dei grandi drammi antichi, Saussure, per cui «non
si tratta che di saltare da un letto all’altro senza toccare la farina», nota che, nel Tristano,
rispetto a quel tessuto noto, tramandato dalle vette antiche della cultura europea, qualcosa
resta fuori, non si lascia assorbire, risponde a logiche diverse. Il tutto non arriva a
un’elaborazione esaustiva, ed è anzi oggetto di una critica animosa, ma ciò non toglie che
Saussure colga uno spirito carnevalesco nell’alba della letteratura medievale europea, il
rovesciamento operato in forza di un punto di vista – altro, alternativo, adulterante – che si
riversa dinamicamente nei testi e li attraversa sotto la superficie della linea forte, solenne, alta:
un punto di vista basso-materiale-corporeo, direbbe Bachtin.
Se per Gaston Paris il mito tristaniano si riassumeva in un «amour coupable de Tristan
pour Iseut, la femme de son oncle, qu’il lui a amenée et qu’il a conquise pour lui, amour dont
la fatalité et l’indestructibilité sont symbolisées par le ‘boire amoureux’ qu’ils ont partagé
sans le vouloir, et duquel, comme le dit énergiquement Tristan lui-même, ils restent ‘ivres’
jusqu’à leur mort»238, Saussure si rende conto che col Tristano, si potrebbe dire, il riassunto
non funziona, che oltre la trama dell’amore fatale scintilla un residuo che non si può ignorare
senza far torto allo spirito di questi testi. Un merito che si realizza oltre le intenzioni di
Saussure, certo, come, del resto, oltre le sue intenzioni si realizza anche l’altro merito delle
238
Gaston PARIS, «Tristan et Iseut», in Id., Poèmes et légendes du moyen-âge, Paris, Société d’édition
artistique, 1990, pp. 113-180, p. 137.
71
Note, quello più macroscopico, quello che, agli occhi dello studioso, era invece un fallimento:
aver elaborato una semiologia del discorsivo, oltrepassando la ristrettezza del concetto di
fonte.
Bernard Gicquel ha giustamente rilevato quanto poco giustificabile sia l’ipotesi
saussuriana del racconto latino sulle vicende di Teseo, racconto che avrebbe dovuto costituire
la base per la leggenda dei due amanti adulteri239. In effetti, non si tratta che di ingarbugliare
ancor più la questione dell’archetipo tristaniano240, aggiungendo un archetipo all’archetipo.
Vorrei però soffermarmi sulla debolezza che nelle Note viene conferita a quest’idea, che passa
facilmente per un’idea portante dato l’ampio spazio che occupano, nell’economia generale
degli appunti, le argomentazioni che vogliono surrogarla, ma che invece viene oscurata dalle
considerazioni a margine, dal gioco di chiari e scuri, dalla pars destruens del discorso241.
Ben presto, dopo aver già accumulato una serie non indifferente di dati con cui avallare la
tesi di una precisa sovrapposizione tra il mito di Teseo e la leggenda tristaniana, le certezze di
Saussure cominciano a vacillare, e compare un’«autocritique après le Ier chapitre»:
L’histoire de la naissance et de l’enfance de Tristan appellerait-elle par elle-même un
rapprochement avec la légende de Thésée qui s’impose plus ou moins par une
coïncidence remarquable de circonstances? Nous ne le prétendons pas. Ce chapitre
rentre pour nous dans la catégorie de ceux où il s’agit simplement de montrer qu’il n’y
a pas au moins de désaccord en partant de la base indiquée242.
In uno degli ultimi fogli del quaderno 3959.10, quello dedicato quasi interamente a Tristano,
dopo le lunghe annotazioni circa l’ascendenza mitologica, compare una delle note teoriche
che più hanno attirato l’attenzione degli studiosi, dato il suo spessore semiologico:
239
Scrive Gicquel: «Il transforme purement et simplement la question hypothétique en réponse
conjecturale»; «dans le cas du mythe de Thésée, qui est assez fortement attesté, il n’est peut-être indispensable
d’inventer un récit supplémentaire inconnu qui opérerait la synthèse de ceux que nous connaissons» (Bernard
GICQUEL, «Le roman de Tristan et ses sources antiques selon Ferdinand De Saussure», Speculum Medii Aevi, 2,
1996, pp. 27-56, p. 54).
240
Cfr. Alberto VARVARO, «La teoria dell’archetipo tristaniano», Romania, 88, 1967, pp. 13-58.
241
Del resto, lo stesso Gicquel, in conclusione della sua critica, rileva, oltre il dato della tesi forte, la
complessità di un processo pluricentrico: «Ce mode de composition progressive est en accord avec ce que l’on
peut penser aujourd’hui du réseau hypertextuel que constitue un tel mythe littéraire. Toujours en construction et
en renégociation, il est formé de nœuds et liens hétérogènes. Il ne possède ni unité organique, ni moteur interne,
mais fonctionne ‘à la proximité, au voisinage’. Au lieu d’un centre auquel tout serait rapporté, il a, en
permanence, plusieurs centres qui ont à la fois une capacité prédatrice vers l’extérieur pour développer des
connexions imprévisibles par associations contingentes et disparates et, vers l’intérieur, une tendance à intégrer
et stabiliser certaines singularités» (Ivi, p. 56). Tuttavia, nella centralità attribuita alla ricerca saussuriana della
fonte mitologica, l’edizione degli appunti proposta da Gicquel non include alcuni frammenti autocritici e teorici
che attraversano le note dedicate a Tristano e di cui darò conto in questo paragrafo.
242
Note, 3959.8.30.
72
Ce qui fait la noblesse de la légende comme de la langue, c’est que condamnées l’une
et l’autre à ne se servir que d’éléments apportés devant elles et d’un sens quelconque,
elles les réunissent et en tirent continuellement un sens nouveau. Une loi grave
préside, qu’on ferait bien de méditer avant de conclure à la fausseté de cette
conception de la légende: nous ne voyons nulle part fleurir une chose qui ne soit la
combinaison d’éléments inertes, et nous ne voyons nulle part que la matière soit autre
chose que l’aliment continuel que la pensée digère, ordonne, commande, mais sans
pouvoir s’en passer.
Imaginer qu’une légende commence par un sens, a eu depuis sa première origine
le sens qu’elle a, ou plutôt imaginer qu’elle n’a pas pu avoir un sens absolument
quelconque, est une opération qui me dépasse. Elle semble réellement supposer qu’il
ne s’est jamais transmis d’éléments matériels sur cette légende à travers les siècles; car
étant donnés cinq ou six éléments matériels, le sens changera dans l’espace de
quelques minutes si je les donne à combiner à cinq ou six personnes travaillant
séparément243.
uello che è possibile inseguire sono minimali schegge d’essere, che, avvicendandosi
vorticosamente, forniscono una materia amorfa alla costruzione del senso, che è il frutto puro
e semplice di un’attività combinatoria. Alla base di tale attività si trovano quindi nucleari
particelle di «materia», elementi che circolano nella massa culturale, su cui interviene il
«pensiero» a «ordinarli», dando forma a un intreccio o a un personaggio, prodotti mai
veramente compiuti, ma transeunti, mobili, sempre adulterabili. Basterebbe l’abbandono
relativistico (di un relativismo intelligente) di questa nota – posta, è bene ribadirlo, verso la
conclusione del quaderno 3959.10, quindi dopo la lunga raccolta di tracce mitologiche da
associare al romanzo di Tristano e Isotta – a gettare un’ombra sulla tesi, ridicola alla luce di
tanta avvedutezza teoretica, di una concomitanza perfettamente data tra due personaggi
distinti, di un discorso condotto in termini di fonte. Ma, se questo non bastasse, si può notare
dell’altro.
Il quaderno 3959.11 è quello a più alta densità teoretica, quello che maggiormente
contiene considerazioni di ordine generale, che esulano dai consueti richiami agli intrecci
mitologici e leggendari. Ciò di cui la bibliografia critica non tiene quasi per nulla conto, in
quella che è a mio avviso un’inspiegabile mancata valorizzazione del ruolo che la ricerca sui
testi tristaniani ha rivestito nel percorso di Saussure, è che questo quaderno non solo segue
naturalmente quello dedicato a Tristano, ma contiene ancora diverse note relative al nostro
personaggio, presentandosi quasi come un’elaborazione di ordine epistemologico di un
percorso fallimentare alla ricerca della fonte tristaniana, dell’identità tra Tristano e Teseo. È
in questa collocazione che compare il tanto citato appunto sulla portata limitata
dell’operazione che vuole rintracciare un’identità tra due personaggi, sull’impossibilità di
243
Note, 3959.10.18.
73
stabilire dove risieda l’identità, quale sia il criterio per riconoscerla, poiché «tout peut avoir
été à la fois transformé et transporté de A à B»244. E allora, conclude Saussure, più si studierà
la cosa più si comprenderà che il problema non è dove rintracciare l’identità, ma se ha un
senso parlarne, per poi aggiungere – passo di non semplice leggibilità e che non compare in
tutte le edizioni delle Note – che non bisogna credere «que cela soit une chose spéciale à la
légende», considerazione che lascia davvero intravedere, come Avalle aveva mirabilmente
fatto emergere, il pensiero di un essere improntato alla continua fabbricazione-manipolazione
di sé, al gioco dei significanti che lo formano, alla mutazione inarrestabile, all’irrisolutezza
del senso.
Poco dopo Saussure, a riprova del ridimensionamento della questione della fonte
tristaniana nel discorso generale che si dipana nelle Note, aggiunge:
Dans une légende donnée, et sans autre moyen de contrôle, il est faux de croire qu’il
soit plus ou moins possible de savoir quels sont les traits essentiels, quels sont les
traits qui relient la légende présente et visible à la légende inconnue antérieure. Ceci
est une chose impossible.
Dans une légende donné, et avec des moyen de comparaison provenant de
versions différentes, il est encore à affirmer que nous ne pouvons nullement juger de
la valeur comparative des éléments, des incidentes communs, des mots placés dans tel
ou tel contexte qui en change le sens.
Je n’ai aucune foi non seulement dans le résultat concret qu’on prétend tirer de la
comparaison de deux ou trois légendes, mais même dans le résultat de la comparaison
des versions d’une seule légende, lorsqu’on est abandonné à la combinaison interne245.
Sono diverse le note di carattere teorico e generale che sembrano nascere da riflessioni dettate
dalla ricerca sul Tristano, alcune delle quali strettamente connesse all’individuazione di quella
logica fluida, logica dello spostamento, di cui parlavo nel precedente capitolo. Nei fogli
dedicati al «brevage d’amour» e al ruolo della fatalità nella storia di Tristano e Isotta, tra cui
compaiono anche numerose considerazioni sul rapporto tra Elena e Isotta, Saussure
(anticipando, qui come altrove, Propp) nota come, pur ammettendo somiglianze tra le azioni
di due personaggi leggendari, l’alterazione cui la vita semiologica sottopone la leggenda fa
quasi sempre sì che, anche se l’atto resta lo stesso, cambi il pretesto, la causa dell’azione, o il
suo fine246. Le modifiche continue apportate al tessuto leggendario, sembra suggerire
Saussure, si realizzano nonostante una tendenza conservatrice regni nel mondo della
leggenda. Un autore vuole, salvo casi particolari, seguire quello che è stato raccontato prima
di lui, ma spesso può capitare che, per eventuali «défaut de mémoire des prédécesseurs ou
244
Note, 3959.11.15.
Note, 3959.11.19.
246
Note, 3959.3.2.
245
74
autrement», l’operatore che raccoglie la leggenda conservi per una determinata scena solo
«les ‘accessoires’ au sens le plus théâtral»:
Quand les acteurs ont quitté la scène il reste tel ou tel ‘objet’, une fleur sur le plancher,
une [ ] qui reste dans la mémoire, et qui dit plus ou moins ce qui s’est passé. Mais qui,
n’étant que partiel, laisse marge à [ ]247
Saussure propone una sorta di poetica economa della memoria, ispirata a un senso teatrale
dell’oggetto scenografico evocatore di trame che s’intrecciano, senza riversarsi in un segno
latore di un significato preciso: ancora una volta, significante aperto, libero di mettere in moto
l’immaginazione, che, stimolata da un vuoto di memoria e ancorata a un’immagine vaga di un
oggetto, una traccia, un frammento dai confini sbiaditi, è «le principal facteur de changement
avec volonté de rester autrement dans la tradition»248.
A proposito delle modalità di modifica e alterazione nel tessuto diegetico della leggenda
di cui abbiamo parlato, Saussure nota, in questo caso esaminando specificamente la leggenda
tristaniana, come una regola generale del Tristano (parla del romanzo in prosa) è che il
viaggio, lo spostamento nello spazio producano innovazioni macroscopiche: qualunque
personaggio, anche il più anonimo, che si sposti da un luogo all’altro, non arriva mai alla
meta senza aver trovato sul suo cammino un personaggio estraneo alla trama primitiva: i
viaggi, gli spostamenti «forment le prétexte pour ainsi dire régulier aux insertions»249.
Si tratta di pochi cenni, cui diversi altri potrebbero aggiungersi, per affermare due
concetti. L’ipotesi della fonte mitologica e del racconto latino che avrebbe tramandato la
storia di Teseo non può essere letta senza considerare la fitta presenza di note di carattere
teoretico che le stanno accanto. Il precoce interesse di studiosi come Starobinski o Avalle, che
hanno isolato nei loro lavori le note di carattere semiologico degli appunti, ha evidentemente
creato un’immagine del corpus saussuriano non corrispondente alla realtà, un’immagine in cui
da un lato ci sarebbero interessanti considerazioni di ordine teoretico da affiancare o
contrapporre al Corso di linguistica generale, dall’altro un’erudita compilazione d’intrecci
leggendari e mitologici dal sapore positivistico. I due versanti sono al contrario fittamente
intrecciati e, se la ricerca di Saussure parte da un retroterra chiaramente positivista e
vessillifero di un’attenzione al concetto di fonte, lo studioso oltrepassa largamente i
presupposti di un simile approccio per ergersi a più ampie vedute. Quella messa in tavola da
247
Note, 3959.3.2.
Ibid.
249
Note, 3959.3.22.
248
75
Saussure è una trama interdiscorsiva250 e una teoria generale di trasformazione del segno, una
semiologia del discorsivo che non perde mai però di vista la concretezza, benché difficilmente
afferrabile, dei testi, o meglio, di quei barlumi di materia che il pensiero gestisce secondo
logiche tutte sue, ma di cui, comunque, sottolinea Saussure, non può fare a meno. Oltre la
fonte, Saussure incontra il discorso e la complessità delle dinamiche che lo rendono
polimorfo, incompleto, mancante.
In secondo luogo, spero di avere sufficientemente mostrato il ruolo, a mio avviso fino a
oggi trascurato, dell’analisi dei testi tristaniani nella riflessione complessiva di Saussure, che
non è solo il Saussure delle leggende germaniche. Penso di non spingermi troppo oltre
affermando che, in diversi punti, la lettura delle Note offra quasi l’immagine del mito di
Tristano come dell’officina, del laboratorio in cui vengono partorite, a partire da un affannato
lavoro sui dati, diverse delle brillanti note di alta speculazione teoretica. La riflessione
sull’impossibile identità del segno è evidentemente e strettamente legata all’onesta
rinnegazione di quella tanto inseguita ipotesi della fonte mitologica.
3. L’immagine sfocata
Teseo, che inizialmente incarna il miraggio della fonte, diventa un mero condensatore di
quelle stesse schegge d’essere che alimentano Tristano, in una discesa del pensiero verso
un’ambigua materialità (il cibo, la materia che il pensiero ordina), che è, insieme,
ineliminabile (il pensiero la manipola e adultera, ma non ne può prescindere) e talmente inerte
di fronte ai processi di trasformazione di cui è oggetto da vedere vacillare i propri diritti
ontologici. Qui sta il grande paradosso della prospettiva saussuriana, che mi pare, da un punto
di vista epistemologico, molto più interessante della questione del racconto latino che avrebbe
fatto da mediatore tra la mitologia greca e la leggenda tristaniana. In via preliminare, la
riflessione di Saussure chiarisce che Tristano è, non solo ontologicamente, ma anche
250
Data la prospettiva saussuriana, che travalica la testualità letteraria per aprirsi, non solo alla leggenda e al
mito, ma anche alla fattualità storica, preferisco parlare, al contrario di quanto si riscontra in altri commenti alle
Note, di ‘interdiscorsività’ piuttosto che di ‘intertestualità’, rifacendomi in questo a quanto appuntato da Cesare
Segre: «Poiché la parola ‘intertestualità’ contiene testo, penso sia usata più opportunamente per i rapporti fra
testo e testo (scritto, e in particolare letterario). Viceversa per i rapporti che ogni testo, orale o scritto, intrattiene
con tutti gli enunciati (o discorsi) registrati nella corrispondente cultura e ordinati ideologicamente, oltre che per
registri e livelli, proporrei di parlare di ‘interdiscorsività’ (Cesare SEGRE, «Intertestuale-interdiscorsivo. Appunti
per una fenomenologia delle fonti», in Costanzo DI GIROLAMO e Ivano PACCAGNELLA, a cura di, La parola
ritrovata. Fonti e analisi letteraria, Palermo, Sellerio, 1982, pp. 15-28, alle pp. 23-24).
76
semiologicamente, non dato, che solo nella ricezione si crea l’illusione di una sua identità,
poiché a essere dotati di esistenza sono solo i tratti che lo costituiscono. Ma questi tratti, la cui
co-ricorrenza è responsabile della tentazione di una sovrapposizione tra due personaggi
distinti, sono talmente basilari, radicali, consueti e privi di una reale autonomia rispetto al
processo articolatorio che li manipola, da risultare anch’essi ontologicamente poveri (ombre,
fantasmi, come ha suggerito Avalle).
In questo paradosso, di cui il caso tristaniano diventa nelle Note un’esemplificazione
eloquente, s’intravede un invito a un’attenzione al discorso più che al fatto: non è il
personaggio nella sua illusione referenziale a essere rilevante, come non lo sono le particelle
d’essere che compongono quell’illusione. Il riflettore va invece puntato – ma è facilmente
intuibile tutta l’inopportunità di un verbo che alluda a un’azione puntuale – sul movimento
che rende quelle particelle adulterate nel loro stesso essere poste, in un’esortazione a pensare
l’essere come definibile solo nel suo non essere altro e a interrogarsi non sull’uno che diventa
altro, ma sul come questo passaggio si articoli, si costituisca, s’incarni nell’atto diegetico.
Mi pare, insomma, che tutti gli sforzi compiuti dai teorici per mettere a frutto negli studi
letterari il concetto di natura differenziale del segno contenuto nel Corso di linguistica
generale fossero già stati ampiamente previsti, benché non pervenuti a un’elaborazione
compiuta251, dallo stesso Saussure, che, interrogandosi sulla natura del concetto di
personaggio tra leggenda, mitologia e letteratura, si erge a una visione dell’identità libera da
luoghi comuni, al cui centro viene posto il discorso e la mania trasformazionale che lo anima.
Negata la possibilità di asserire una sovrapposizione puntuale tra due entità, negato il valore
del singolo prodotto compiuto, sempre frutto di un’illusione referenziale che ci fa leggere il
mondo sotto il segno dell’interezza, della finitudine, e negato il valore delle sue costituenti,
strutturalmente non autonome e ontologicamente deboli, quello che resta è la possibilità
indefinita del discorso, del senso che si costruisce nello spostamento, nella variazione, nella
combinazione. Uno spessore teoretico che nasce dal fallimento di un’operazione
precipuamente empirista, che non merita di restare ai margini della riflessione su Ferdinand
De Saussure e che offre una lezione contro certe accensioni teoretiche che troppo si
distaccano dai testi: è partendo da questi che Saussure perviene a una visione articolata e di
ampia portata epistemologica.
251
Saussure, nelle Note, non dirà mai esplicitamente che il personaggio-simbolo è ciò che gli altri
personaggi-simboli non sono.
77
Ho già richiamato nel primo capitolo l’accostamento proposto da Massimo Bonafin tra gli
argomenti saussuriani esposti nelle Note e l’approccio politetico alle tassonomie elaborato da
Needham. Riportando il tutto al caso esemplare della leggenda tristaniana, diremo che
l’impostazione delle Note, come quella enucleata nella teoria delle classificazione politetiche,
oltrepassa la preoccupazione di una corrispondenza rigida tra Tristano e Teseo, secondo la
quale i due termini debbano condividere un certo numero di qualità precise e riconoscibili. Si
dirà invece che i due termini proposti condividano, nei loro contorni sfumati, una certa aria di
famiglia e che, tra la loro assoluta estraneità e la loro mai pienamente calcolabile coincidenza,
si dipana una scala di sfumature al centro di un discorso in cui a contare non sono gli estremi
dell’essere e del non essere, ma il sempre ibrido essere tra.
Come ci ha indicato Saussure, quello che conta è che «la base non cambia» e che ci
troviamo di fronte a una rete di relazioni in cui l’unica certezza è una materia, un «aliment
continuel», materia umbratile e quasi amorfa, che il pensiero ordina, digerisce, comanda.
Bonafin prende in prestito da Wittgenstein un concetto, estremamente preciso nel suo essere
pronunciatore di vaghezza, che bene illustra una simile visione: quello di «immagine
sfocata»252. Spesso, annota Wittgenstein, non è possibile sostituire un’immagine sfocata con
una nitida, perché è della prima che abbiamo bisogno. Tristano non è Teseo, ma questo non
impedisce di elaborare, a partire dal pensiero di un loro rapporto, qualcosa che non è più né
Tristano né Teseo, ma un terzo che non è mai veramente concesso di mettere a fuoco. In
quella che definirei una critica saussuriana del concetto di fonte, mi sembra che Saussure
abbia anticipato di decenni la decostruzione di rigide acquisizioni del pensiero occidentale.
Michel Foucault si è interrogato sulla questione dell’origine e delle somiglianze, delle
regolarità. Ha accusato il pensiero filosofico occidentale di essere inficiato dal vizio della
ricerca di un’origine, di essere assillato dallo scrupolo di «risalire all’infinito la linea delle
antecedenze»253, con una sorta di avversione verso il pensiero della differenza, «degli scarti e
delle dispersioni»254: in una ferrea attenzione a preservare la forma dell’identico, si sono
trascurati, dice, le potenzialità dei «sistemi di dispersione»255. Bisogna, annota Foucault,
opporsi a tutta una serie di nozioni che alimentano il tema della continuità, tra cui quella di
tradizione:
252
Ludwig WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1967, p. 49, citato in BONAFIN, Guerrieri
al simposio, p. 211.
253
Michel FOUCAULT, Archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura (1969), Milano,
Rizzoli, 2009, p. 17.
254
Ivi, p. 18.
255
Ivi, p. 52.
78
Essa tende a dare uno statuto temporale particolare a un complesso di fenomeni al
tempo stesso successivi e identici (o almeno analoghi); permette di ripensare la
dispersione della storia sotto la specie dell’identità; autorizza a limitare la differenza
tipica di ogni inizio per risalire senza soluzione di continuità all’indefinita attribuzione
dell’origine256.
Foucault condanna la propensione a voler rintracciare, dietro ogni inizio, un inizio più vero e
primitivo, un’origine «così segreta e così originaria che non la si può mai afferrare in se
stessa»257, che ci riconduce «verso un punto sempre più remoto, mai presente in nessuna
storia»:
Non bisogna rimandare il discorso alla lontana presenza dell’origine; bisogna
affrontarlo nel meccanismo della sua istanza.
La sua riflessione attacca la cieca fiducia nel già detto, secondo cui dietro ogni discorso ci
sarebbe un «discorso senza corpo», un testo in realtà mai pronunciato, «una scrittura che non
è altro che il negativo della propria immagine»258, laddove il problema non dovrebbe essere
quello della tradizione, della traccia, del fondamento, ma «quello delle trasformazioni che
valgono come fondamento e rinnovamento delle tradizioni»259. Quando si tratterà di calare le
sue riflessioni relative all’ordine del discorso nell’ambito che qui principalmente indaghiamo,
quello letterario, Foucault dirà che l’opera «non si può considerare né come un’unità
immediata, né come un’unità certa, né come un’unità omogenea»260, parlerà del libro come
«nodo di un reticolo», dai confini mai rigorosamente limitati, ma immerso «in un sistema di
rimandi ad altri libri, ad altri testi, ad altre frasi»261, definirà l’autore come un soggetto
collocato in una «situazione transdiscorsiva»262, animata dalla «possibilità indefinita del
discorso»263.
L’enunciato, nel momento stesso in cui sorge nella sua materialità, entra in un reticolo,
si colloca in un campo di utilizzazione, si offre a possibili trasferimenti e modifiche, si
integra in operazioni e strategie in cui la sua identità si conserva o scompare264.
Siamo portati a classificare idee, concetti, fatti, trame come «vecchio o nuovo, inedito o
ripetuto»265, ragionando in termini di somiglianze, frugando «per ritrovare attraverso la storia
256
Ivi, p. 29.
Ivi, p. 34.
258
Ibid.
259
Ivi, p. 8.
260
Ivi, p. 34.
261
Ivi, p. 32.
262
FOUCAULT, «Che cos’è un autore?», p. 14.
263
Ivi, p. 15.
264
FOUCAULT, Archeologia del sapere, p. 141.
257
79
il complesso delle anticipazioni o degli echi»266, per provare la regolarità degli enunciati. Ma
che un enunciato sia portatore di una regolarità è per Foucault un fatto scontato; quello cui
bisogna guardare è la «performance verbale», la funzione enunciativa che definisce
l’esistenza puntuale di quell’enunciato (due performances possono coincidere dal punto di
vista della grammatica e della logica, ma essere «enunciativamente differenti»267).
Trovo proficuo, tenendo presenti le evidenti distanze tra la prospettiva semiologica di
Saussure e quella archeologica di Foucault, utilizzare gli argomenti foucaultiani per
approfondire e illuminare quanto nelle Note vi è di abbozzato, incompleto, ma teoreticamente
ricco (e, intellettualmente, sofferto). La posizione di Foucault approda a un punto fermo, che
consiste nel sostenere che di là dalle regolarità, bisogna indugiare sulla singolarità
dell’evento, circoscrivere i limiti dell’oggetto inseguito:
Non si cerca affatto sotto il discorso manifesto l’impercettibile brusio di un altro
discorso; si deve mostrare per quali ragioni non poteva essere diverso da quello che
era, in che senso sia esclusivo di ogni altro, come assuma, in mezzo agli altri e in
rapporto ad essi, una posizione che non potrebbe occupare nessun altro. Il problema
tipico di questa analisi si potrebbe formulare così: qual è dunque quella esistenza
singolare che viene alla luce in quello che si dice, e non mai altrove?268
Certo, Foucault parla di classificazioni di enunciazioni, di formazioni discorsive, Saussure di
leggende, mito e personaggi; ma quello cui propongo di guardare, nel tentativo di avvalorare
la profondità e la complessità del pensiero dello studioso ginevrino, è il modo in cui i due
affrontano la dialettica di regolare e singolare. Saussure, tenace inseguitore delle regolarità,
delle somiglianze stabili lungo lo sviluppo diacronico della leggenda, si trova ad ammettere,
come Foucault, che l’unico oggetto di studio dato al ricercatore è quella condensazione di
tratti, unica e puntuale, della quale non si può mai dire che coincida con una combinazione
altra, a cui può magari vagamente assomigliare, ma per la quale, fosse anche cambiato solo
uno dei tratti che la costituiscono, bisognerà parlare di una nuova entità. Ammesso lo scacco
di un pensiero dell’identità, Saussure sembrerebbe invitarci, pragmaticamente, a considerare
l’unicità dell’evento-personaggio: il termine performance non compare nelle Note, ma non vi
suonerebbe per nulla fuori luogo. Eppure, ben lontani da tanto ottimismo epistemologico, che
si appoggia in Foucault su una storicizzazione del significato (è possibile, nell’analisi storicoarcheologica dei discorsi, cogliere il significato), gli appunti saussuriani mettono il lettore in
265
Ivi, p. 186.
Ivi, p. 190.
267
Ivi, p. 192.
268
Ivi, p. 39.
266
80
guardia: è vero, il solo oggetto dato è quell’assemblaggio di tratti d’essere che prende la
forma di un personaggio e che, benché carico di memoria, è unico e irripetibile, ma
quest’assemblaggio rappresenta un’identità illusoria, pronta a esplodere per lasciar spazio a
un nuovo arrivato: può veramente essere oggetto di una ricerca epistemologicamente valida?
Sembra che Saussure non riesca a trovare una terza via alternativa all’impossibile rincorsa
alle somiglianze e all’impossibile fiducia in un evento puntale. Preso atto della non validità
delle sovrapposizioni rigide, constatata la vacuità del guizzo del qui e ora, l’insegnamento
delle Note è che, oltre la ricerca dell’identico, oltre le interpretazioni esatte e l’approdo a un
mai dato primum, quello che è concesso è di descrivere un sistema, labile, provvisorio,
mobile, sfocato. Viene qui meno la fiducia nella storia e nella possibilità di guardare a essa
per reperire dei significati compiutamente elaborati, e Saussure, pur parlando di leggende e di
mito, si ritrova a fare i conti con la parabola dell’essere che rincorre vorticosamente – e
vacuamente – un senso. La riflessione di Saussure non trova un porto.
Tristano – è questa la sofferta certezza a cui approdano gli appunti saussuriani – non è
Teseo, ma un microcosmo ineffabilmente vacuo. In quell’idea di personaggio articolato
attorno a un vuoto, in quell’immagine sfocata riluttante a ogni definizione, Saussure, oltre le
sue intenzioni e oltre il suo fallimento, ci invita a percorrere la strada di un Tristano
disseminato, mai veramente messo a fuoco, ma riverberante nel movimento della sua vacuità.
81
III
Ostensioni e latenze dell’identità nelle Folies Tristan
1. L’oltre del testo, l’oltre del personaggio
Dopo la panoramica teoretica sul personaggio e dopo la parentesi saussuriana, si tratta ora di
interrogarsi sulla visione del personaggio offerta dai primi testi che ci hanno tramandato il
Roman de Tristan, sui modi di costruzione dell’identità qui messi in atto, sul funzionamento
dei modelli identitari, sul ruolo che la rappresentazione dell’identità e la riflessione su di essa
rivestono nell’articolazione dei testi. La scelta di partire, nell’analisi, dalle Folies Tristan mi
pare richieda una qualche giustificazione.
Negli studi dedicati al Tristano è inconsueto, fosse solo per ragioni cronologiche269, che i
testi delle Folies assolvano a una funzione proemiale. A dire il vero, si potrebbe asserire che,
negli studi tristaniani in genere, i due poemetti che ritraggono Tristano travestito da folle per
raggiungere in incognito Isotta alla corte di Tintagel sono considerati alquanto marginalmente
rispetto ai capolavori di Thomas e Béroul, e sono anzi spesso utilizzati come strumento
d’interpretazione dei romanzi maggiori, delle cui ascendenze sui due brevi testi si è molto
discusso, senza peraltro pervenire a una soluzione definitiva. La Folie di Berna e la Folie di
Oxford sono state ricondotte la prima al modello di Béroul, la seconda a quello di Thomas,
secondo la consueta tendenza a estremizzare la differenza delle due anime della materia
tristaniana, quella della version commune e quella della version courtoise270. Comunque
stiano le cose, il punto di vista qui adottato, punto di vista dell’interpretazione e non della
269
La Folie di Oxford ci è giunta attraverso un unico manoscritto: Oxford, Bodleian Library, Douce d. 6, ff.
12d-19a. Il manoscritto contiene anche il più lungo frammento del romanzo di Thomas, che precede
immediatamente il testo della Folie. Anche la Folie di Berna è tradita da un unico manoscritto: Berne,
Bürgerbibliothek, n. 354, ff. 151d-156d (ma un frammento di 61 versi compare nel manoscritto Cambridge,
Fitzwilliam Museum, n. 302). Le Folies potrebbero essere datate anche agli inizi del XIII secolo, cioè circa un
trentennio dopo la supposta data di composizione del romanzo di Thomas (1170-1173). Sulla questione
dell’anteriorità del testo di Oxford o di Berna, si rimanda alla Notice curata da Mireille Demaules nel volume
Pléiade Tristan et Iseut. Les premières versions européennes (pp. 1310-1323). Da questo volume sono tratte,
come per gli altri testi, le citazioni. L’edizione dei due testi delle Folies, d’ora in avanti indicati con Fo e Fb, è
curata dalla stessa Demaules (ivi, pp. 217-260).
270
Una confutazione difficilmente superabile di questa posizione mi pare si trovi in Cesare SEGRE,
«Preistoria delle Folies Tristan», in BRUSEGAN, Le Roman de Tristan. Le maschere di Béroul, pp. 165-180, in
cui lo studioso mostra il fitto intreccio del modello di Thomas e di quello di Béroul nei due testi (soprattutto in
Fo).
ricostruzione, propone una prospettiva diversa, prospettiva fondata su una sorta di primato dei
testi delle Folies.
In Fo e Fb Tristano, nei dialoghi con Marco, con Brangania e, soprattutto, con Isotta, che
dovrà convincere della vera identità del folle, ripercorre metadiegeticamente il suo romanzo,
con un passaggio, quindi, dalla scrittura della rappresentazione alla rappresentazione della
scrittura, in un intricato gioco di memoria e racconto che apre agevolmente la strada alla
riflessione teorica sulle modalità diegetiche della letteratura medievale. Huchet ha colto nei
testi delle Folies una condensazione del tratto precipuo del romanzo del medioevo, quel suo
presentarsi come translatio, come rinvio a un’origine mai veramente definita271, un essere, in
un gioco di riflessi, scrittura della (nella) scrittura. I testi delle Folies rappresenterebbero il
vuoto di cui pare marchiata la leggenda tristaniana, farebbero implodere quell’irrecuperabile
primo testo che ne ha posto l’origine, e Tristano che si fa autore di se stesso chiamerebbe in
causa la negazione del primo autore, in un invito a considerare le origini multiple della sua
storia: «à l’origine, la dissémination de l’origine»272.
La riflessione cui ci stimolano le Folies non investe però esclusivamente lo statuto del
racconto, la costituzione del romanzo, come brillantemente messo in luce da Huchet. Mi
sembra evidente che, se la struttura delle Folies offre l’immagine di un mito che vive di una
parola autogenerantesi, di una scrittura smarrita nell’assenza della prima parola che l’ha posta
e costantemente implodente in questo vuoto, ciò avvenga per il tramite di una relazione stretta
tra rappresentazione della scrittura e rappresentazione dell’identità. La scrittura implode
perché il personaggio implode, la scrittura riflette su se stessa perché il personaggio avvia una
riflessione sulla propria identità, anche, come vedremo, oltre i processi immediatamente
leggibili nei testi. La proliferazione diegetica cui si assiste nei due poemetti è strettamente e
ambiguamente legata alla proliferazione identitaria che il dispositivo della follia mette in
moto, laddove nella follia bisognerà riconoscere non un semplice travestimento, esteriore e
vertente esclusivamente sul personaggio che lo attua, né un mero espediente narrativo, ma,
appunto, un dispositivo273 atto alla disseminazione sia identitaria sia diegetica: cercheremo
271
Jean-Charles HUCHET, «Le mythe du Tristan primitif et les Folies Tristan», in Tristan et Iseut, mythe
européen et mondial, Actes du Colloque du Centre d’Etudes médiévales de l’Université de Picardie, Amiens, 1 ,
11 et 12 janvier 1986, publiés par le soins de Danielle BUSCHINGER, Göppingen, Kümmerle Verlag, 1987, pp.
139-150.
272
Ivi, p. 148.
273
Sono consapevole dell’ambiguità di questo termine, dovuta ai molteplici usi che se ne fanno nella teoria
letteraria. ui lo utilizzo semplicemente per indicare un’organizzazione strategica del testo. Per un punto della
questione si veda Roberto TALAMO, «Dispositivi e critica letteraria», Enthymema, II, 2010, pp. 247-255. Sull’suo
84
d’illustrare come il travestimento del personaggio diventi un travestimento del testo.
Dunque, se Huchet ha ragione a insistere su quest’accesso alla riflessività della letteratura
medievale, caratteristica mirabilmente enucleata nelle Folies, mi preme qui mettere in
evidenza un aspetto che reputo complementare a questo. Lungi dal chiudersi in una riflessione
autoreferenziale sulle proprie dinamiche diegetiche, il tessuto delle Folies opera su
un’elaborazione densa e problematica dell’identità finzionale, in quello che è, a mio avviso,
un esempio adatto a smentire l’idea di personaggio medievale come o mero riproduttore di un
modello noto o funzione asservita all’intreccio. La diffrazione cui il travestimento sottopone,
contemporaneamente, sia l’identità che la diegesi, ci porterà infatti, da un lato, a mostrare
quale articolato movimento, lontano da un’assimilazione passiva, coinvolga i modelli
identitari presenti nei testi, e, dall’altro, superando una lettura che voglia vedere nei testi delle
Folies un gioco comico che mira semplicemente al proliferare delle avventure dei due amanti,
a un ampliamento spropositato del bacino dell’intreccio274, come Fb e Fo oltrepassino la
rappresentazione del motivo del marito beffato e la parabola del riconoscimento. Oltre
l’evidente e superficiale fare, il personaggio si rivela nel suo essere; oltre la logica
dell’intreccio lineare, oltre la logica del fine da raggiungere, il personaggio attraversa intricati
labirinti identitari.
È per via di questa loro articolata rappresentazione d’identità e narrazione che credo che i
testi delle Folies possano costituire un buon punto di partenza per uno studio del personaggio
nella materia tristaniana. Le Folies, nel loro binomio di alterazione dell’identità e gioco della
scrittura, si prestano in maniera particolarmente proficua a un’analisi dei movimenti identitari,
essendo la rappresentazione del soggetto fittamente intrecciata all’organizzazione formale del
racconto, all’atto diegetico, alla scrittura. Ne deriva la visione di una dislocazione che investe
lo statuto dell’io, di un soggetto spostato rispetto a un centro mai veramente localizzato.
Prima di addentrarci nelle analisi, sono necessarie alcune considerazioni preliminari,
innanzitutto sul particolare statuto della follia in Fb e Fo. Al contrario di quanto accadrà con
la rielaborazione in prosa del XIII secolo della leggenda tristaniana, in cui il protagonista, alla
stregua d’illustri colleghi, sarà affetto da una vera follia d’amore275, qui la follia di Tristano è
del termine si rimanda inoltre a Giovanni BOTTIROLI, «L’inganno del cortile centrale. Interpretazione della
Phèdre come testo diviso», Ermeneutica letteraria, 8, 2012, pp. 53-74, in particolare al punto 5.
274
La «schidionata potenzialmente infinita» di cui parla Cesare Segre, che consente un’apertura infinita
dell’universo diegetico, una costante disponibilità di esso ad accogliere nuove avventure, un procrastinare la
morte dei due amanti (Cfr. Cesare SEGRE, «Personaggi, analisi del racconto e comicità nel Tristano», in Los
caminos del personaje en la narrativa medieval, a cura di P. Lorenzo GRADIN, Firenze, Edizioni del Galluzzo,
2006).
275
Sul rapporto tra le Folies e il Tristan en prose», si vedano, tra gli altri, Jean-Charles PAYEN, «Tristan,
85
denaturata dal travestimento, dalla finzione. In quest’apparente depauperamento, la follia
acquista invece le potenzialità semantiche caratteristiche di una metafora, dilatando i confini
del testo e del personaggio276. La follia è qui un amplificatore d’identità, e in
quest’amplificazione il testo rivela le strategie, i conflitti che lo attraversano. Più che un puro
espediente narrativo, ha annotato Salvatore Battaglia, è una «metafora dell’esistenza»:
Nella sua dimora patologica convivono frammenti di menzogna e verità, motivi di
sincerità e di simulazione, il ricordo e il presagio, e soprattutto il senso della vita che
confina con l’aldilà, col regno dell’inconoscibile. Nella follia di Tristano si utilizzano
questi motivi per creare un’atmosfera allusiva, ambigua, misteriosamente poetica277.
L’ambiguità e l’allusività indicate da Battaglia sono due tratti primari di questi testi, tratti di
cui ogni tentativo d’interpretazione non può non tener conto.
Jean-Marie Fritz, nel suo studio dedicato alla follia medievale278, si richiama alla
relazione che Foucault sostiene esista, alla fine del medioevo, tra la follia e l’elemento
umorale, in particolare il mare: stipati in una nave, i folli erano abbandonati alla purificazione
dell’acqua e all’incertezza del destino. Fritz utilizza la rappresentazione della follia in Fb e Fo
per mostrare come, al contrario, in pieno medioevo la situazione fosse diversa, essendo
evidente il legame positivo tra Tristano e il mare, a cui largo spazio è dedicato proprio nelle
Folies. Oltre che il discutibile appaiamento di un discorso storico e di uno letterario, di
un’utilizzazione di un testo poetico come documento, quello che trovo poco convincente nel
discorso di Fritz è il non considerare come ogni aspetto nelle Folies sia filtrato, distanziato e
complicato dalla finzione di cui la follia è oggetto, tanto da mettere in crisi qualunque idea di
rappresentazione univocamente focalizzata su un referente. La finzione della follia, la follia
come «artificio retorico», secondo la felice annotazione di Anne Barthelot279, intacca ogni
l’amans-amens et le masque dans les Folies», in La légende de Tristan au Moyen Age, Actes du colloque des 16
et 17 janvier 1982 publiés par les soins de Danielle BUSCHINGER, Göppingen, Kümmerle Verlag, 1982, pp. 6168; Dominique DEMARTINI, «Le discours amoureux dans le Tristan en prose. Miroir et mirage du je», in
L’individu au Moyen Age, pp. 145-165; Id., «Le Tristan en prose et le mémoire des Folies», in Des Tristan en
vers au Tristan en prose. Hommage à Emmanuèle Baumgartner, Textes réunis avec Laurence HARF-LANCNER Laurence MATHEY-MAILLE - Bénédicte MILLAND-BOVE - Michelle SZKILNIK, Paris, Champion, 2009, pp. 255271.
276
Jean-Charles Payen nota come il romanzo in prosa risulti, rispetto alle Folies, impoverito dalla perdita
dell’ambiguità tra follia finta e follia autentica (PAYEN, «Tristan, l’amans-amens et le masque dans les Folies»,
p. 66).
277
Salvatore BATTAGLIA, «La nave dei folli», in Id., Mitografia del personaggio, Napoli, Liguori Editore,
1991, pp. 137-157, p. 142.
278
Jean-Marie FRITZ, Le discours du fou au Moyen Age. XII-XIIIème siècles, Paris, PUF, 1992.
279
Anne BERTHELOT, «La Folie Tristan», in Danielle BUSCHINGER - Wolfgang SPIEWOK, a cura di, Tristan
et Yseut. Un thème éternel dans la culture mondiale, 30ème Congrès du Cercle de travail de la littérature
allemande au Moyen Age, Greifswald (Deutschland), Mont-Saint-Michel, 27 Septembre - 1 Octobre 1995,
Greifswal, Reineke-Verl, 1996, pp. 27-33, p. 28.
86
aspetto del testo, fino a tangere la stessa forma fittizia della follia, fino a renderne polimorfo
lo statuto, scisso tra verità e finzione: da un lato, la finta follia richiama la vera follia d’amore,
la spersonalizzazione cui la potenza del desiderio piega l’individuo e, dall’altro, la finta follia
di Tristano richiama la vera follia degli altri. La strategia che il testo mette in atto nel
connubio di follia e finzione genera una poetica del decentramento, della fuga verso il
contiguo, il somigliante, che sfiora talvolta il contrario; l’ambiguità identitaria creata dal
travestimento del protagonista – ma vedremo come sarebbe più opportuno parlare di
metamorfosi – adultera e disperde ogni segno.
Qualche considerazione preliminare merita, inoltre, la metadiegesi, procedimento
narrativo che informa i due testi. Con la tecnica del racconto nel racconto, «l’attenzione si
sposta dal fatto al modo di fare»280, ci troviamo davanti a una struttura che, oltre a significare
al livello della storia raccontata, significa anche al livello «del codice narrativo, della natura
rappresentata, quindi artificiale ed interpretativa, di ogni racconto»281. Il linguaggio e la
scrittura diventano presenze che il testo denuncia e, per Dällenbach, è come se il racconto
dichiarasse: «je suis littérature»282. La metadiegesi implica che nel rapporto del lettore con il
personaggio emerga un diaframma che ostacola la possibilità di un’identificazione e, nello
stesso tempo, il lettore percepisce che lo stesso diaframma si frappone tra il personaggio e ciò
che di lui si racconta283.
La riflessività della letteratura apre al suo carattere di gioco metamorfizzante. Lotman, in
alcune pagine della Struttura del testo poetico284, ha spiegato come l’effetto di gioco nel testo
letterario non sia semplicemente riconducibile alla compresenza, magari contraddittoria, di
due diversi significati, ma nella coscienza della costante possibilità di altri significati che
esulino da quello immediatamente presente e comprensibile. Richiamandosi a quelle pagine,
280
Mario PERNIOLA, Il metaromanzo, Milano, Silva, 1966, p. 57.
Giovanni B. TOMASSINI, Il racconto nel racconto. Analisi teorica dei procedimenti d’inserzione
narrativa, Roma, Bulzoni, 1990, p. 22.
282
Lucien DÄLLENBACH, Le récit spéculaire. Essai sur la mise en abîme, Paris, Seuil, 1977, p. 79.
283
Riguardo alla metadiegesi nelle Folies, si può vedere, in particolare, Cesare SEGRE, «Un procedimento
nella narrativa medievale: l’enucleazione», in Italica et Romanica, Tübingen, M. Niemeyer, 1997, v. III, pp.
361-7; Huguette LEGROS, « uand Tristan réécrit son histoire…», in Huguette LEGROS - Denis HÜE - Joël
GRISWARD - Didier LECHAT, a cura di, Remenbrances et resveries. Hommage à Jean Batany, Orléans, Editions
Paradigme, 2006, pp. 29-40. Sulla metadiegesi nella letteratura medievale, si veda, inoltre, La digression dans la
littérature et l’art du Moyen Age, Etudes réunies par Chantal CANNOCHIE-BOURGNE, Senefiance, 51, 2005.
284
Jurij M. LOTMAN, «I molti piani del testo artistico», in Id., La struttura del testo poetico, Milano,
Mursia, 1972, pp. 77-90. Scrive Lotman: «L’arte presenta una serie di tratti, che la apparentano con i modelli
ludici. La percezione (e la creazione) di un’opera d’arte richiede un particolare comportamento, quello artistico,
che ha una serie di tratti in comune con quello ludico»; «La determinazione rigorosamente monosemantica del
significato del modello artistico è possibile solo nell’ordine della sua transcodificazione nella lingua dei sistemi
di simulazione non artistici. Il modello artistico è sempre più largo e più vivo della sua interpretazione, e
l’interpretazione è sempre possibile come approssimazione» (ivi, p. 85 e p. 88).
281
87
Philippe Daros ha illustrato l’effetto ludico della metatestualità, la quale agisce in due sensi
(piège e jeu) apparentemente contraddittori. Da un lato, si ha un ripiegamento del testo su se
stesso, con un effetto di rinvio autoreferenziale, chiuso e sterile, dall’altro, il processo che
lega gli elementi riflessi e quelli riflettenti impedisce una cristallizzazione degli uni come
degli altri, li dinamizza costantemente nell’autopresentazione ludica del testo, sempre
sottoposto a un gioco di velamento e disvelamento285.
Il testo, nella sua riflessività, nel rimando a se stesso e all’altro, sottopone ogni suo
elemento a una vibrazione adulterante, in cui un dato non è mai fissato in un’entità chiusa, ma
si apre ai suoi possibili altri. Vedremo come nelle Folies, in cui il gioco testuale si coniuga
con un gioco identitario, questo tratto poetico assuma uno spessore antropologico286.
2. Dall’eroe dai mille volti all’eroe senza volto
L’enunciazione di Tristano, la follia come artificio retorico, traccia, attraverso il racconto nel
racconto, la figura di un personaggio da intendersi come processualità, come sintassi di tratti
identitari che mai trovano una stabilizzazione. Il meccanismo della rimemorazione attuato dal
protagonista travestito da folle consente il dipanarsi, nell’arco di meno di 600 versi per il
manoscritto di Berna e di meno di 1000 per quello di Oxford, delle varie prospettive
identitarie attribuibili al personaggio Tristano, in un meccanismo fluido fatto di spostamenti,
di correzioni, di aggiustamenti, in cui il personaggio si definisce dicendosi, essendo ora eroe,
ora trickster, ora cavaliere cortese, ora melanconico innamorato, ma non coincidendo in realtà
mai con nessuno di questi volti, che la cornice istituita dal travestimento da folle e dalla
metadiegesi distanzia costantemente rispetto al soggetto che li richiama.
L’inizio di Fo insiste ampiamente sul languore di Tristano:
285
«Le moirage provoqué par la diffraction paradigmatique de l’œuvre sur elle-même instaure précisément
un jeu d’altération de son identité en la métamorphosant en espace multidimensionnel et… transitionnel. A
proprement parler, ce moirage lui confère son volume de «volume». La réflexivité relève alors du ‘piège’ et du
‘jeu’. Du piège parce qu’elle semble emprisonner l’œuvre dans des effets de renvois obtus et itératif, du jeu
parce que ce piège, au fond, n’emprisonne rien véritablement puisque ni les éléments réflecteurs, ni les éléments
réfléchis ne s’épuisent les uns les autres dans l’imparfaite clôture de leurs renvois. L’auto-présentation –
lacunaire, factice, multiple et continue – de l’œuvre par elle-même ouvre au jeu infini des interprétations, infini
puisqu’elle souligne tout autant qu’elle occulte et, qui plus est, masque ce qu’elle montre. Au total, la réflexivité
double le mécanisme qui est celui du littéraire même. En ce sens, elle fonctionnerait comme monstration de la
composante ludique – ‘le jeu nécessairement déréglé’ – du littéraire» (Philippe DAROS, «De la réflexivité en
général et de la mise en abîme (comme procédé) en particulier», in La métatextualité, Textes réunis et présentés
par Alain TUSSEL, Narratologie, 3, 2000, pp. 89-110, pp. 99-100).
286
Del resto, lo stesso Daros parla di una logica, oltre che poetica, antropologica ed epistemologica che
deve governare il meccanismo illustrato (ivi, p. 101).
88
Tristan surjurne en sun païs
Dolent, murnes, tristes, pensifs.
Purpenset soi ke faire pot,
Kar acun cunfort lu estot.
Confort lu estot de guarir,
U, si ço nun, melz volt murir.
Melz volt murir a une faiz
Ke tut dis estre si destraiz,
E melz volt une faiz murir
Ke tut tens en peine languir.
Mort est assez ki en dolur vit;
Penser cunfunt hume e ocist.
Peine, dolur, penser, ahan
Tu ensement cunfunt Tristan287.
Il testo presenta il personaggio secondo quell’etichetta che Meletinskij chiamava dell’«uomo
interiore»288, quello ritratto da Thomas nelle lunghe tirate in cui Tristano lamenta la
lontananza dell’amata. L’eroe del mito e dell’epos è stato messo a nudo dal divario che in lui
si è spalancato tra essere per il mondo ed essere per se stesso, tra il sociocentrismo del mito e
il richiamo della sfera privata:
Prima di bere il fatale filtro amoroso Tristano era un eroe fiabesco o un modello epico,
vincitore di mostri, difensore del paese, non voleva pagare il tributo ai nemici, era il
vassallo ideale e il degno erede di suo zio, il re Marco. Nella parte fondamentale,
specificamente romanzesca di quest’opera, Tristano, schiavo del suo amore, compie
gesta eroiche solo per la salvezza propria e di Isotta, per la difesa del proprio rapporto
illegale dalle spie e dai delatori, e dalla persecuzione da parte del re Marco, legittimo
marito di Isotta. Per gli stessi motivi Tristano arriva addirittura a organizzare
stratagemmi di tipo novellistico289.
L’appunto di Meletinskij coglie i volti, i tratti di Tristano: eroe mitico-fiabesco-epico,
cavaliere, uomo interiore, trickster (il Tristano novellistico). Meletinskij separa questi volti
secondo un prima e un dopo, secondo una logica temporale che accorda un ruolo strategico
all’assunzione del filtro: il personaggio è il risultato, rigidamente definito secondo le sue
qualità, dell’evoluzione degli eventi. Tristano, ingerita la bevanda magica, avrebbe
definitivamente abbandonato il volto dell’eroe per rintanarsi nella più ristretta sfera delle sue
pene d’amore. Il testo di Berna sembra convalidare questa posizione:
287
Fo, vv. 1-14 (Tristano soggiorna nel suo paese, dolente, mesto, triste, pensoso. Medita che cosa può fare,
perché ha bisogno di qualche conforto. Ha bisogno del conforto di guarire, o, altrimenti, preferisce morire.
Preferisce morire un’unica volta anziché essere sempre così tormentato, preferisce morire una sola volta anziché
languire ognora in pena. È ben morto chi vive nel dolore; il pensiero abbatte e uccide l’uomo. Pena, dolore,
pensiero, angoscia tutti insieme abbattono Tristano).
288
Eleazar M. MELETINSKIJ, Introduzione alla poetica storica dell’epos e del romanzo, Bologna, il Mulino,
1993, p. 236.
289
Ivi, p. 237.
89
Sovant sopire et mout se dialt
De ce c’o lui nen a Ysiaut.
Ysiaut a il, mais nen a mie
Celi qui primes fu s’amie.
Porpanse soi qu’il porra faire,
Con la porra a soi atraire,
Car n’ose aler en sa contree.
«Ha! Deus, fait il, quel destinee!
C’ai-je sofert en tel amor!
Onques de li ne fis clamor
Ne ne me plains de ma destrece.
Por qoi m’assaut? por quoi me blece?290
Tristano chiuderà il lamento con una formula che lo identificherà spesso nella sua infelicità:
«Las, fait il, ahi! con je sui / Malaürous et con mar fui!»291.
Ma, se è vero che in Fo la sola preoccupazione del testo sembra quella di offrire al
lettore-uditore un’immagine del Tristano triste e melanconico, «uomo interiore» che si lacera
nel proprio mal d’amore (constatazione che farebbe sentire autorizzati a collocare il testo sulla
linea di Thomas), Fb offre una rappresentazione in cui Isotta e il mal d’amore non sembrano
costituire, stando alla voce del narratore, le sole preoccupazioni di Tristano:
Mout est Tristanz mellez a cort,
Ne set o aille ne ou tort.
……………………………..
Formant redoute Marc lo roi,
Que rois Mars formant lou menace
Si viaut bien que Tristanz lou sache:
Se de lui puet avoir saisine,
Mout li vaudra po san n’orine
Que par lui ne reçoive mort:
De sa fame li a fait tort292.
Il testo continua fino al verso 46 con una descrizione della situazione di grave conflitto tra
Tristano e la corte del re di Cornovaglia. Marco, il cui onore Tristano ha gravemente offeso
(«De sa fame li a fait tort»), è deciso a mettere a morte il nipote e chiede ai baroni di
rintracciarlo, dicendo che sarebbe molto riconoscente a chi glielo riconsegnasse («Quil me
290
Fb, vv. 47-58 (Spesso sospira e si tormenta per non avere Isotta con sé. Egli ha Isotta, ma non è quella
che per prima fu sua amica. Pensa a che cosa può fare, come potrà farla venire a sé, poiché non osa andare nel
paese. «Ah, Dio», dice, «qual destino! Che ho sofferto in quest’amore! Non me ne lamentai mai, non mi
lamentai mai della mia angoscia. Perché mi assale? Perché mi ferisce?).
291
Fb, vv. 64-65 («Ahimè», dice, «come sono sventurato e come nacqui al dolore»).
292
Fb, vv. 1-9 (Tristano è in grave conflitto con la corte, non sa dove andare né dove rifugiarsi […] Teme
molto il re Marco, perché re marco molto lo minaccia e vuole che Tristano lo sappia: se può impossessarsi di lui,
senno e stirpe gli varranno poco perché non riceva morte da lui. Lo ha oltraggiato nella moglie).
90
randroit, gré l’an savroie / Et tot jorz plus chier l’an avroie»293). Quando Tristano viene a
sapere dal siniscalco Dinas dell’odio di Marco e della sua richiesta ai baroni, il testo utilizza
un distico formulare per sottolineare il rammarico del protagonista («Quant Tristanz oï la
novele / Sachiez ne li fu mie bele»294): scatta in lui il richiamo di una mancanza, forse meno
evidente rispetto a quella relativa all’oggetto d’amore, ma comunque una mancanza ulteriore
che il testo mostra con evidenza.
Parrebbe insomma che Fb indugi, accanto al noto malessere d’amore, sul malessere
sociale di Tristano: bisognerà aspettare 47 versi perché compaia un riferimento alla pena
d’amore per Isotta (Sovant sopire et mout se dialt / De ce c’o lui nen a Ysiaut», v. 4 ). Si
potrebbe obiettare che l’ampio affresco del conflitto tra Tristano e la corte sia previsto per far
risaltare strategicamente l’impresa del travestimento, per valorizzare l’audacia del
protagonista che, pur rischiando la morte, sceglie di recarsi a Tintagel per unirsi all’amata, ma
si trascurerebbe così il fatto che Fb colloca la descrizione del conflitto sociale, al contrario di
Fo, prima di quella del malessere amoroso e privato, e che, inoltre, dedica alla prima così
tanto spazio, mentre Fo soltanto sei versi e soltanto dopo oltre centocinquanta versi
dall’inizio:
Prueisse ne lu pot valer,
Sen ne cuintise ne saver,
Kar Marce li rois, so set il ben,
Le het sur trestute ren,
E si il vif prendre le poeit,
Il set ben ke il le ocireit295.
Sarà proprio dopo questa breve descrizione della sua esclusione sociale che Tristano deciderà
di fingersi folle («feindre mei fol e faire folie»296). In Fo, il riferimento al dissidio con Marco
e la corte, che compare brevemente dopo l’ampia panoramica sui tormenti d’amore e dopo
che il protagonista è già approdato in Inghilterra, si presenterebbe dunque come un mero
ostacolo al congiungimento con l’amata. Diversa invece è la caratterizzazione del
protagonista offerta dal testo di Berna, dove il tratto dell’afflizione amorosa, della pena
privata sembra convivere con l’altro Tristano, quello che per Meletinskij era il Tristano prefiltro, preoccupato del suo ruolo nella comunità da cui è stato allontanato. Potremmo così già
intravedere una prospettiva un po’ più intricata rispetto a quella dell’unilaterale ossessione per
293
Fb, vv. 29-30 (Sarei grato a chi me lo consegnasse, e lo avrei sempre più caro).
Fb, vv. 43-44 (Quando Tristano udì la notizia, non gli fu, sappiatelo, affatto gradita).
295
Fo, vv. 161-166 (Non gli può valere prodezza, senno, né astuzia né sapere; perché il re Marco, lo sa
bene, l’odia sopra ogni cosa, e se potesse prenderlo vivo, sa bene che l’ucciderebbe).
296
Fo, vv. 180-181 (Fingermi folle, fare follia).
294
91
l’amata, che farebbe leggere l’intera storia come una ruse orientata al raggiungimento di un
fine pratico: mettersi in ascolto del modo d’essere del personaggio può far scorgere isotopie
poco immediate.
Una volta avviata la rimemorazione, Fb continua a giocare sull’ambiguità delle due
diverse mancanze in cui si logora Tristano. Dalle prime battute del racconto nel racconto, la
voce del protagonista si spende in un elogio dell’oggetto d’amore, ma questo è subito
offuscato, e spodestato quasi, da un’autorappresentazione dell’eroe:
Mout me gari soëf ma plaie
Que je reçui en Cornuaille
Qant al Morhot fis la bataille
En l’ile ou fui menez a nage
Por desfandre lo treüssaje
Que cil devoient de la terre;
A m’espee finé la guerre297.
Il tratto dell’innamorato melanconico ha portato Tristano a tessere le lodi di Isotta, rievocando
come curò la sua ferita dopo la grande impresa del combattimento contro il Moroldo, ma
subito il ricordo cambia centro e finisce per fornire un’autocelebrazione dell’eroe. Accanto
all’uomo interiore appare l’immagine dell’eroe-tipo, uccisore di mostri e salvatore di popoli
assoggettati a tiranni vessatori, che pone fine a ogni male con la sua spada.
Varrà la pena notare che, in questo momento della rimemorazione, non si è ancora
prodotto il travestimento da fol onbraje298, il che implica due aspetti. L’enunciazione di
Tristano non è ancora sotto l’effetto del flusso amplificatorio della maschera da folle, che
genera una sorta di furore affabulatorio in cui si accede a una qualche iperbolizzazione dell’io
che narra di sé. Inoltre, si tratta di un’operazione svincolata dall’obiettivo pratico del
riconoscimento da parte d’Isotta, che sembrerebbe il fine della metadiegesi prevista dai nostri
testi: qui Tristano, attraversato dal ricordo, racconta a se stesso di se stesso.
È possibile cogliere in questo passaggio una falla del personaggio, preziosa per
l’interprete, in cui l’uno guarda contemporaneamente a due altri da sé. Tristano sente di non
essere più l’innamorato che tiene tra le sue braccia la regina, di non essere più l’eroe che salva
un popolo da un mostro che pretende un tributo in carne umana – il senso di mancanza si
amplifica, il desiderio si esaspera, l’identità vacilla. La strategia testuale lascia cogliere i
sommovimenti dell’identità, in cui Tristano oscilla tra la privatezza del suo sentimento e
297
Fb, vv. 77-83 (Con tanta dolcezza mi guarì la ferita che ricevetti in Cornovaglia, quando diedi battaglia
al Moroldo nell’isola dove fui portato per mare a combattere per il tributo che dovevano quelli della terra; con la
mia spada posi fine alla guerra).
298
Fb, v. 105 (Folle malinconico).
92
l’aspirazione alla restaurazione di un’immagine mitica di sé.
Il richiamo al Tristano eroe compare nella prima parte di Fo in maniera ancora più sottile
che in Fb. Al contrario del testo di Berna, dove il viaggio di Tristano in mare verso la
Britannia è liquidato in due versi («quant il ot passé mer, / Passez est outre lo rivage»299),
quello di Oxford dedica un certo spazio alla sua rappresentazione. Tristano, per non essere
riconosciuto, raggiunge a piedi la costa e qui trova una grande nave mercantile diretta in
Inghilterra; chiede ai marinai che stanno per imbarcarsi se sono disposti ad accoglierlo e,
accettata la sua richiesta, parte alla volta della Britannia:
Entrez dunc tost, venez avant!
Tristan i vent e si entre enz.
El vail amunte s’i fert li venz.
A grant esplait s’en vunt par le unde,
Trenchant en vunt la mer parfunde.
Mult unt bon vent a grant plenté,
A plaisir, a lur volunté.
Tut droit vers Engleterre curent,
Dous nuiz e un jur i demurent;
Al secund jur venent al port,
A Tintagel, si droit record300.
Mi pare che il passo abbia una certa valenza intertestuale. Benché nessuno dei due più
importanti romanzi francesi possa dirci nulla sulla prima parte della leggenda, il testo tedesco
di Eilhart von Oberg conosce bene quest’immagine di Tristano in mare alla conquista di
Isotta, la fanciulla dal capello d’oro301: Tristano parte con un equipaggio di cento cavalieri che
«passèrent un mois en mer sans voir autre chose que le ciel et les flots»302. Ma, se in quel caso
Tristano si metteva in mare alla conquista di una donna non destinata a lui, creando uno
spostamento rispetto alla parabola prevista dal monomito dell’eroe, rispetto all’eroe-tipo del
mito e del folklore, qui il paradigma viene realizzato nella sua pienezza: Tristano affronta il
mare alla conquista della sua principessa e sembra quasi che il testo si preoccupi di risolvere
un’anomalia congenita della leggenda. Nello stesso tempo, non si può però non tenere
presente che a partire alla conquista d’Isotta non è una superba figura eroica con un folto
299
Fb, vv. 125-126 (Quando ebbe attraversato il mare, passò al di là della riva). Il testo valorizza invece la
lunga marcia a piedi di Tristano: «D’errer ne fine nuit et jor, / Jusq’a la mer ne prist sejor» (Fb, vv. 118-119,
Non cessa di errare notte e giorno, non si ferma fino al mare).
300
Fo, vv. 84-94 («Entrate, dunque, presto, venite avanti». Tristano avanza e s’imbarca. In alto il vento
batte sulla vela. Se ne vanno rapidamente per le onde, vanno solcando il profondo mare. Hanno in abbondanza
vento favorevole, a loro piacere, a loro volontà. Corrono dritto verso l’Inghilterra; viaggiano due notti e un
giorno; al secondo giorno giungono al porto, a Tintagel, se ben ricordo).
301
Eilhart VON OBERG, «Tristrant», in Tristan et Iseut. Les premières versions européennes, pp. 263-388,
pp. 282-285.
302
Ivi, p. 283.
93
seguito e una nave su cui è stato imbarcato «en grande quantité de l’or»303, ma un anonimo
popolano che ha avuto la fortuna di essere ospitato su una nave mercantile. Anche in questo
caso il mito è cioè distanziato, alluso ma non assimilato dal testo: il mito è citato. Tra il
personaggio e il suo paradigma si frappone un diaframma, che non permette un’univoca
identificazione. Il tormento d’amore di Tristano, tormento privato, lo fa sprofondare in
un’incolmabile lontananza dalla sua matrice eroica, senza che però questa sia mai veramente
annullata; ne resta un’ombra, un riflesso, e lo statuto identitario del personaggio perde in
definizione, si converte per il lettore-spettatore in un’immagine fluttuante.
uest’immagine, ibrida tra l’eroe e l’uomo interiore, si complica ulteriormente con il
travestimento, che fa emergere l’altra faccia di Tristano, quella del trickster, del burlone,
dell’escogitatore di stratagemmi304. La follia è finta, certo, ma, come abbiamo accennato, la
maschera si rivelerà, ben oltre la superficie del travestimento, un amplificatore d’identità.
Le differenze tra i due testi riguardo al travestimento sono minime: mutato il suo nome in
Tantris (come aveva fatto quando Isotta, ignara, curò l’uccisore di suo zio), Tristano si
straccia le vesti, si graffia il viso, si rasa i capelli, ha in mano una mazza. Fo aggiunge qualche
particolare, come la scena dello scambio dei suoi sontuosi abiti con quelli di un pescatore, o il
fatto che si tinga il viso di nero grazie a un’erba «Ke il aporta de sun païs» 305, ma l’elemento
più importante, assente in Fb e fondamentale per il riconoscimento finale da parte d’Isotta, è
il particolare del mutamento di voce («Tristan sout ben müer sa voiz»306). Tutti lo scambiano
per un vero folle e gli lanciano sassi contro. Giunto alla corte di Cornovaglia, il folle è
interrogato da Marco:
Fous, con as non? – G’é non Picous.
ui t’angendra? – Uns galerous.
De qui t’ot il? D’une balaine307.
303
Ibid.
Su Tristano trickster si rimanda a: Nancy FREEMAN REGALADO, «Tristan and Renart: Two Trickster»,
L’Esprit Créateur, 16, 1976, pp. 30-38; Mariantonia LIBORIO, «La logique de la déception dans les romans de
Tristan et Iseut», Annali dell’Istituto Universitario Orientale. Sezione Romanza, 23, 1981, pp. 151-163; Meritt
R. BLAKESLEE, «Tristan the Trickster in the Old French Tristan Poems», Cultura Neolatina, 44, 1984, pp. 167190; Massino BONAFIN, «Le maschere del trickster (Tristano et Renart)», L’immagine riflessa, 9, 2000, 1-2, pp.
181-196; Insaf MACHTA, Poétique de la ruse dans les récits tristaniens français du XII e siècle, Paris, Champion,
2010.
305
Fo, v. 214 (che ha portato dal suo paese). Sul travestimento di Tristano, su come «i dettagli a cui è fatto
cenno nel testo della Folie non sono immaginari, rinviano a costumanze ben radicate nella cultura medievale», si
veda D’Arco Silvio AVALLE, «Primo excursus. La Folie Tristan», in Id., Le maschere di Guglielmino, MilanoNapoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1989, pp. 92-111, pp. 106 ss. (la citazione si trova a p. 107).
306
Fo, v. 212 (Tristano sapeva mutar bene la sua voce).
307
Fb, vv. 160-162 «(Folle, quale nome hai?». «Ho nome Picous». «Chi ti generò?». «Un tricheco». «Da
chi ti ebbe?». «Da una balena»).
304
94
Più articolato il racconto delle origini in Fo:
Ma mere fu une baleine,
En mer hantat cume sereine,
Mes je ne sai u je nasqui.
Mult sai ben ki me nurri:
Une grant tigre me alettat
En un roche u ele me truvat.
Ele me truvat suz un perun,
Quidat ke fusse sun foün,
Si me nurri de sa mamele308.
Il folle continua, in entrambi i testi, raccontando di avere una sorella che baratterebbe
volentieri con Isotta, con cui si rifugerebbe in una dimora sospesa tra le nuvole e il cielo, che
in Fo è più minuziosamente descritta come una reggia di cristallo (vv. 301-310). La
descrizione della dimora aerea ha spinto gli interpreti a mettere a fuoco un evidente richiamo
intertestuale alla convivenza dei due amanti nella foresta del Morrois o nella Minnengrotte309,
ma mi pare che tutto l’episodio sia fitto di richiami intertestuali.
Il racconto delle origini è evidentemente improntato alla caratterizzazione animalesca
della figura del trickster, controfigura comico-parodica dell’eroe civilizzatore. Ma l’effetto
parodico è ambiguo e, rappresentando il basso, il testo evoca l’alto-altro. Nell’effetto
prodotto in sede di ricezione, basato sul gioco comico del contrasto e della menzogna, il
ludico racconto del folle richiama l’altra matrice delle origini del protagonista, quella seria e
alta – e non meno favolosa310 – che lo ritrae figlio di Blanchefleur, sorella di Marco, e di
Rivalen, nobile cavaliere messosi al servizio del sovrano di Cornovaglia. L’effetto, ancora
una volta, è quello di un’immagine ambigua e fluttuante del personaggio.
Di là dall’ambiguità del gioco parodico, bisogna inoltre precisare che il tratto stesso dello
zooantropomorfismo è pregno di ambiguità, appartenendo a una concezione della natura
308
Fo, vv. 273-281 (Mia madre fu una balena che abitava nel mare come sirena. Ma non so dove nacqui. So
bene chi mi allevò: mi allattò una grande tigre su una rupe dove mi aveva trovato Mi trovò sotto una grande
pietra, pensò che fossi un suo piccolo, e mi nutrì della sua mammella).
309
Si veda sull’argomento Rosanna BRUSEGAN, «La folie de Tristan: de la loge du Morrois au palais de
verre», in La légende de Tristan au Moyen Age, pp. 49-59.
310
Tristano è, nella versione di Eilhart von Oberg, estratto dal grembo della madre, morta, specifica il testo,
proprio a causa del bambino (Eilhart VON OBERG, «Tristrant», p. 264). In Goffredo di Strasburgo Tristano è
invece orfano di entrambi i genitori e il suo concepimento ha un carattere singolare. Venuta a conoscenza
dell’imminente morte dell’amato, ferito durante un combattimento, Blanchefleur, travestita da mendicante per
raggiungerlo (elemento che richiama intertestualmente i travestimenti del figlio), si stende accanto al moribondo
Rivalin, riaccendendone la passione. In questa versione della leggenda, la donna morirà dopo aver dato alla luce
Tristano (Gottfried DE STRASBOURG, «Tristan et Isolde», in Tristan et Yseut. Les premières versions
européennes, pp. 389-635, alle pp. 406-407 e 412). Per un approfondimento del motivo si rinvia a Jean-Marc
PASTRÉ, «Les mères dans les romans de Tristan», in La mère au Moyen Age, Textes réunis par Aimé PETIT,
Actes du colloque du Centre d’Etudes Médiévales et Dialectales de Lille 3, 25-27 septembre 1997, Bien dire et
Bien Aprandre, 16, 1998, pp. 203-216.
95
eroica che non prevede dicotomie di nessun tipo: la ferinità sembra «eccedere di gran lunga i
limiti della caricatura, rinviando invece a sostrati arcaici e memorie ancestrali»311. Il rapporto
dell’eroe con l’animale è, in una fase arcaica del percorso umano, molto stretto, e il mito, con
i richiami al totemismo dell’eroe e alla natura zooantropomorfa degli eroi civilizzatori312, non
fa che affermare questa stretta parentela di eroe e bestia, di forza civilizzatrice e potenza
animalesca di una natura primordiale.
Sia che questi passi delle Folies si leggano in chiave parodica, sia che si opti per la lettura
di un motivo antropologico denso di implicazioni semantiche, il risultato resta comunque
quello di un oltrepassamento delle dicotomie, di una strategia di assimilazione, mai
pienamente risolta, di due tratti del personaggio, che oscilla tra gli estremi dell’alto e del
basso, della potenza civilizzatrice e di quella animalesca, della figura eroica e di quella
dell’escogitatore di stratagemmi, in una concomitanza di gioco comico e spirito tragico mai
veramente annullato.
La coesistenza dei due tratti sembra costituire il gioco della scrittura delle Folies. Se un
primo livello della lettura non può che avere come oggetto la lettera del testo, ossia il racconto
di un travestito da folle che si dichiara figlio di un tricheco, con una connotazione in senso
comico che valorizza «il Tristano novellistico» che si fa beffa di Marco, a un secondo livello
il lettore, stimolato dall’allusione al motivo della nascita, non potrà evitare di tenere presente
la cornice instaurata dal travestimento, in cui l’aneddoto è attirato, riconducendo quest’ultimo
all’altra nascita di Tristano, eroe «nato al dolore». Nella ricezione del testo, l’identificazione
del personaggio Tristano con uno dei due tratti, trickster o eroe-tipo, ha vita breve e
all’evocazione dell’uno subentra immediatamente l’immagine dell’altro, secondo le
dinamiche di una logica fluida, dove il confine identitario è disponibile alla ridefinizione
continua, non solo sulla base degli enunciati presenti nel testo, ma anche delle associazioni
verso cui questi enunciati pilotano il lettore-spettatore.
I volti di Tristano si condensano e si sfumano reciprocamente. Più che un eroe multiplo,
un eroe dai mille volti, come suggerisce la formula di Campbell 313, Tristano sembrerebbe un
eroe scisso, oscillante, attraversante rappresentazioni estreme. Oltre la maschera e il
travestimento, oltre le facciate che variano secondo gli episodi e le necessità dell’intreccio, i
testi di Berna e di Oxford ci offrono la processualità di una costruzione identitaria, di un
311
Alvaro BARBIERI, «Ivain cavaliere-sciamano: elementi estatici e riti d’iniziazione del Chevalier au lion»
in Figure della memoria culturale. Tipologie, identità, personaggi, testi e segni, a cura di Massimo BONAFIN,
Atti del convegno di Macerata, 9-11 novembre 2011, L’immagine riflessa, 22, 2013, pp. 109-148, p. 120.
312
Si veda Eleazar M. MELETINSKIJ, Il mito. Poetica folclore ripresa novecentesca, pp. 185 ss.
313
Joseph CAMPBELL, L’eroe dai mille volti, Parma, Guanda, 2000.
96
soggetto ibrido rispetto ai modelli che evoca e mai pienamente definito. Il tessuto del testo si
articola intorno alla processualità di una doppia performance: da un lato quella evidente,
letterale, che s’impernia sul gioco del travestimento, dall’altro quella, più sottile e ambigua,
che disegna l’articolazione di una strategia di decostruzione dell’io314.
3. Un personaggio liminale
La categoria della performance è al centro della teoria dell’antropologo Victor Turner315.
L’aspetto interessante ai nostri fini è che la teorizzazione di Turner mette in relazione la
performance con un’altra categoria antropologica, quella della liminalità: l’alienazione
rispetto al gruppo sociale di appartenenza e la messa in scena del proprio corpo
rappresenterebbero, per Turner, due tratti trans-individuali costitutivi del rapporto che
l’individuo instaura con il suo ambiente e attraverso i quali il soggetto opera l’edificazione di
un sistema alternativo a quello con cui è costretto a interagire. È evidente come i due poli
della teoria di Turner siano presenti nel tessuto della scrittura delle Folies, in cui, attraverso la
costruzione di una condizione liminale, di messa ai margini, e attraverso un’utilizzazione
dichiaratamente performativa del proprio corpo, Tristano riesce a sovvertire un sistema che
non accetta. La performance e la liminalità, per come sono state presentate da Turner, offrono
uno strumento di analisi che permette di indagare il potenziale di elaborazione della scrittura
delle Folies nella costruzione del personaggio316.
Turner si rese conto, nel corso delle sue ricerche, che le situazioni di crisi che ogni società
vive non sono affatto degli eventi spontanei, naturali, ma che presentano uno schema identico
a quello del dramma occidentale per come è stato concepito da Aristotele, quello cioè di una
struttura processuale con un’introduzione, uno sviluppo, una chiusura. Turner parlerà di
314
Il termine performance comparirà diverse volte nel corso di questo capitolo. Tengo sin da subito a
precisare che il termine sarà qui usato in maniera diversa rispetto a certi studi sui tratti performativi dei testi
tristaniani, sul loro riprodurre stilemi della tecnica dei giullari (in particolare, si veda Evelyn B. VITZ, Orality
and Performance in Early French Romance, Woodbridge-Rochester, Brewer, 1999). Si tratta qui di uno studio
della rappresentazione della performance.
315
Si vedano: Victor TURNER, The Ritual Process. Structure and anti-structure, Chicago, Aldine Publishing
Company, 1969, trad. it.: Il processo rituale. Struttura e anti-struttura, Brescia, Morcelliana, 1972; Id., From
Ritual to Theatre. The Humain Seriousness of Play, New York, Performing Arts Journal Publications, 1982, trad.
it.: Dal rito al teatro, Bologna, il Mulino, 1986; Id., The Anthropology of Performance, New York, Paj
Publication, 1986, trad. it.: Antropologia della performance, Bologna, il Mulino, 1993.
316
Il concetto di liminalità è stato utilizzato da Marie Scarpa nella sua elaborazione della nozione di
personaggio liminare applicata a diversi testi moderni. Si veda Marie SCARPA, «Le personnage liminaire»,
Romantisme, 145, 2009, 3, pp. 25-35.
97
«dramma sociale»:
Il fatto che un dramma sociale, secondo la mia analisi della sua forma, corrisponda
esattamente alla descrizione della tragedia greca che Aristotele fa nella Poetica, nel
senso che è «imitazione di azione di carattere elevato e completa di una certa
estensione» e che ha un inizio, un centro e una fine, non è dovuto, lo ripeto, a un mio
tentativo illegittimo di imporre un modello etico occidentale dell’azione scenica al
comportamento sociale di un villaggio africano, ma al fatto che esiste un rapporto di
interdipendenza, forse un rapporto dialettico, fra i drammi sociali e i generi di
performance culturale, probabilmente in tutte le società. Dopotutto, la vita è
un’imitazione dell’arte, quanto l’inverso317.
Questa caratteristica teatrale – dunque potenzialmente dotata di un valore estetico – si realizza
pienamente negli spazi liminali dell’evoluzione del dramma sociale, situazioni in bilico tra un
vecchio ordine entrato in crisi e un nuovo ordine ancora da stabilire, situazioni che rivelano
uno schietto carattere performativo, poiché, nella messa in questione delle regole sulle quali si
fonda il vecchio sistema, le parti in conflitto avviano una sperimentazione di ruoli, di
comportamenti, di strutture atte a creare un ordine alternativo al precedente:
All’interno della cornice liminale, si producono nuove strutture congiuntive, perfino
ludiche, con le loro grammatiche e i loro lessici dei ruoli e delle relazioni318.
Gli esseri liminali, nel loro tentativo di ridefinizione critica del reale, giocano con gli elementi
cristallizzati nelle diverse forme culturali, scomponendoli e ricomponendoli secondo schemi
inediti, facendo del familiare qualcosa di non familiare. Un luogo del congiuntivo in cui regna
la formula del se io fossi te e «la nozione che un’idea o un evento generi il suo opposto»319, un
luogo in cui «le distinzioni di rango e di status della vita ordinaria scompaiono o si
livellano»320, un regno dell’ibrido e della trasformazione321.
Come nell’esperienza dell’iniziazione, l’essere liminale mostra, in questa sua
destrutturazione del sistema, un «comportamento ergotropico»322, caratterizzato da uno stato
di eccitazione e di rinuncia al principio d’identità: l’iniziato vive in una situazione di
mancanza, di non essere, di elasticità delle frontiere tra il sé e l’altro. Gli esseri liminali sono
317
TURNER, Dal rito al teatro, p . 134.
TURNER, Antropologia della performance, p. 196.
319
Ivi, p. 105.
320
TURNER, Il processo rituale, p. 112.
321
I riferimenti al carnevalesco di Bachtin sono evidenti. Si rinvia a: Massimo BONAFIN, Contesti della
parodia. Semiotica, antropologia, cultura medievale, Torino, Utet, 2001, p. 71-75. Si può vedere, inoltre, C.
Clifford FLANIGAN, «Liminality, Carnival and Social Structure. The Case of Late Medieval Biblical Drama», in
Kathleen M. ASHLEY, a cura di, Victor Turner and the Construction of Cultural Criticism. Between Literature
and Anthropology, Bloomington, Indiana University Press, 1990, pp. 42-63.
322
TURNER, Dal rito al teatro, p. 31.
318
98
considerati invisibili, scuri, maschili e femminili insieme, pericolosi e intoccabili; «sono morti
per il mondo sociale, ma vivi per quello asociale»323. È questa libertà rispetto a qualunque
regola che consente loro di aprirsi a una straordinaria attività creatrice, di manipolazione dei
significanti, che comporta una ridefinizione continua del senso, mai risolutamente dato.
Se mi sono soffermato a descrivere alcuni aspetti della teoria di Turner (sulla quale,
peraltro, molto ci sarebbe ancora da dire) è perché trovo le sue coordinate particolarmente
pertinenti al percorso di Tristano nelle Folies, soprattutto in rapporto a quanto ci siamo
proposti d’indagare, ossia lo statuto identitario del personaggio e le aperture semantiche che
questo statuto comporta. Certo, la liminalità e la performance non bastano ad asserire le
potenzialità euristiche della teorizzazione di Turner nell’analisi dei nostri testi: si potrebbe
obiettare, infatti, che queste categorie non facciano che ripresentare, con etichette diverse, la
traccia interpretativa di uno schema iniziatico e, magari, sciamanico, secondo una moda ormai
consolidata nella critica della letteratura medievale e già adottata per l’analisi delle Folies324,
delle quali si sono valorizzati la posizione del protagonista ai margini del sociale, la
trasfigurazione di un corpo ibrido tra uomo e bestia, l’euforia poetica di Tristano cantore della
propria storia. Un terzo aspetto della teoria di Turner, complementare alla performance e alla
liminalità, mi persuade però della sua più densa ricchezza euristica in una prospettiva criticoletteraria.
Gli esseri liminali, nella messa in scena del proprio corpo, nella messa in discussione del
vecchio sistema, rispetto al quale si collocano ai margini, pongono le premesse per un nuovo
sistema. Ma, precisa Turner, essi sono portati contemporaneamente a riflettere sul proprio
passato, sul loro universo d’origine, che è così sottoposto a un’attualizzazione che, nella
riflessione, lo ridefinisce, lo riconfigura. Turner parla di una funzione di meta-commento
della liminalità, una storia che un gruppo, o un individuo, racconta a se stesso su se stesso325.
In questa riflessività, una teoria antropologica si salda con una teoria estetica: è la
predisposizione alla riflessione sul sé, quindi alla duplicazione dei livelli del discorso326, a
323
Ivi p. 59.
Si veda Francesco ZAMBON, «Tantris o il narratore-sciamano», Medioevo Romanzo, 12, 1987, pp. 307328. Si rinvia inoltre alle argomentate e aggiornate indicazioni bibliografiche contenute in Barbieri, «Ivain
cavaliere-sciamano: elementi estatici e riti d’iniziazione del Chevalier au lion».
325
Cfr. TURNER, Dal rito al teatro, pp. 37-39; Id., Antropologia della performance, pp. 190-196.
326
Turner dichiara come le nozioni di congiuntività e liminalità lo abbiano avvicinato alle idee di Gregory
Bateson su metalinguaggio e metacomunicazione, indirizzando i suoi interessi verso le «proposizioni liminali»,
proposizioni in cui non c’è un predicato che, semplicemente, afferma o nega qualcosa del soggetto, ma che
costituiscono spazi privilegiati «dove alla gente è concesso di pensare a come pensa, ai termini in cui conduce il
suo pensiero», in cui gli individui, vedendo la realtà in modo nuovo, elaborano un linguaggio che li renda capaci
di «parlare intorno a ciò di cui normalmente parlano». «La mia tesi», scrive Turner, «è che le culture di tipo
324
99
tracciare una linea di collegamento tra la performance liminale atta all’instaurazione di un
nuovo sistema sociale e un’idea di prodotto artistico da intendersi come processo, come
racconto performativo, come dinamica di riscrittura che permette al soggetto di rielaborare
criticamente la propria storia e, nello stesso tempo, di ridefinire se stesso.
I tre aspetti della teoria antropologica – ed estetica – di Turner si ritrovano, quindi,
pienamente accolti nei testi delle Folies. Se, nella superficie dei testi, leggiamo il tentativo di
capovolgimento di un sistema scomodo, tentativo rispetto al quale la costruzione della
liminalità, con la performance che l’accompagna, ha il mero valore di uno stratagemma (un
engin) che mira al raggiungimento di un fine, a ben vedere questa liminalità performativa
prevede strategie più sottili, in cui, nella riflessione sulla propria storia, il soggetto, dicendo a
se stesso di se stesso, si sottopone a una riconfigurazione.
Ci siamo soffermati sull’ambiguo rapporto di Tristano con il modello eroico, che si stende
come un’ombra sul personaggio e che realizza un’ambigua alchimia tra il Tristano in preda ai
tormenti d’amore, il Tristano eroe del mito, il Tristano trickster. Con la terminologia di
Turner, potremmo ora dire che Tristano è immerso sin da subito in un meta-commento, in una
riflessione-ridefinizione della sua parabola, come se la storia riattualizzata riscrivesse il
personaggio, creando articolate scissioni tra modelli mai univocamente realizzati. La
riflessività complica ed espande le linee semantiche che attraversano i testi, i quali, oltre la
vicenda della riunione dei due amanti separati, sembrano raccontare quella di un travaglio
interiore legato a un conto in sospeso con se stesso più che con un oggetto di desiderio. Su
queste basi, mi pare possibile un ridimensionamento dello schema del mascheramento da
intendersi come ruse, come atto ludico, burlesco, finalizzato all’unione sessuale, ipotesi
rispetto alla quale si può apportare qualche indizio ulteriore.
Abbiamo già visto come i primi versi di Fb ritraggano ampliamente il dissidio di Tristano
con la corte, la sua posizione di esiliato. A rigore, dunque, bisognerebbe parlare di due diversi
tipi di liminalità, l’una fittizia, creata attraverso il mascheramento, l’altra reale: Tristano è
emarginato dal suo mondo e di questo, almeno stando al testo di Berna, si duole quanto per la
distanza dell’amata. Il travestimento da folle, l’ingresso cioè in una situazione di liminalità
teatralmente connotata, costruita attraverso una maschera, e che assume il ruolo più vistoso
nella ricezione del testo, non è altro che la rappresentazione estrema di una marginalità
prescientifico, nei loro ambienti liminali (prevalentemente quelli rituali), hanno fatto precisamente questo,
dandoci molti esempi di metacomunicazione e facendoci conoscere dei metamodelli» (TURNER, Antropologia
della performance, p. 190). Cfr. Gregory BATESON, Verso un’ecologia della mente (1972), Milano, Adelphi,
1977.
100
realmente sperimentata da Tristano, che «N’ose repairier ou païs / sovant en a esté fuitis»327.
Da qui la legittimità di una lettura che veda, accanto al desiderio di unirsi sessualmente a
Isotta, un’ambizione a restaurare il ruolo perduto, secondo un’attenzione alla sociabilità di
Tristano, da considerare complementare alla sua ossessione amorosa. Se in Fb Tristano si
lamenta di non essere più rispettato (« Deus! con sui maz et confonduz / Et en terre mout po
cremuz»)328, in Fo rinfaccerà a Isotta di essere responsabile del suo esilio:
Raïne, pur vostre amité
Fu de la curt lores chascé329.
Soffermiamoci ora sull’operazione del travestimento da folle, cercando di mostrare quanto più
opportuno sia il termine – meno superficiale – di liminalità, più attento alla caratterizzazione
di una metamorfosi che altera lo statuto identitario, che intacca la compiutezza dell’io.
La costruzione della maschera è graduale e comincia ben prima del travestimento. Fo
descrive il comportamento dissimulatore del protagonista, attentissimo a non lasciar trasparire
il suo progetto di «si desguiser / E sun semblant si remüer / Ke ja nuls hom nel conestrat»330.
Tristano tace, finge, dissimula:
Parent, prucein, per ne ami
Ne pot saver le estre de li.
Tant par se covre en sun curaje
Ke a nul nel dit, si fait ke sage,
Kar suvent avent damage grant
Par dire sun cunseil avant331.
Persino con il compagno Caerdino (vv. 27-28) è scrupolosamente concentrato a non lasciar
trapelare nulla del progetto. La performance inizia dunque prima del travestimento: la
distanza tra i due termini si presta a rappresentare due diverse letture dei testi (ma non
contraddittorie). Tristano, come un attore, lavora su di sé, elabora, sperimenta («Si pense mult
estreitement»332), lasciando intravedere, più che il prossimo travestimento, una vera e propria
metamorfosi333. Prima ancora che la maschera del folle sia partorita, Tristano si pone ai
327
Fb, vv. 45-46 (Non osa ritornare nel paese, spesso ne è fuggito).
Fb, vv. 94-95 (Dio, come sono oppresso e abbattuto e poco temuto in terra).
329
Fo, vv. 755-756 (Regina, per il vostro amore, fui allora bandito dalla corte).
330
Fo, vv. 41-42 (di travestirsi e di mutare il suo sembiante tanto che nessuno lo riconoscerà).
331
Fo, vv. 45-50 (Parente, congiunto o compagno non può sapere la sua condizione. Tanto la cela nel suo
cuore che non la dice a nessuno, e opera saggiamente, perché spesso viene gran danno a dire prima la propria
intenzione).
332
Fo, v. 58 (pensa molto attentamente).
333
Di metamorfosi nelle Folies, piuttosto che di travestimento, si parla in Jean-Marc PASTRÉ, «Les
métamorphoses de Tristan», in André CREPIN - Wolfang Spiewok, a cura di, Tristan-Tristrant, Mélanges en
l’honneur de Danielle Buschinger à l’occasione de son 6 ème anniversaire, Reineke-Verlag, Greifswald, 1996, pp.
328
101
margini del suo mondo attraverso un sapiente gioco di simulazione e dissimulazione. Il suo
isolamento sociale assumerà semplicemente, con il travestimento, una forma plastica:
Ses dras deront, sa chere grate,
Ne voit home cui il ne bate334.
Comme fous va, chascuns lo hue,
Gitant li pierres a la teste335.
Encuntre lui current li valet,
Le escrïent cum hom fet lu:
«Veez le fol! hu! hu! hu! hu!»
Li valet e li esquier
De buis le cuilent arocher336.
Turner sottolinea che l’acquisizione della condizione di liminalità e di alterazione identitaria è
segnata da uno spostamento nello spazio337:
D’errer ne fine nuit et jor;
Jusq’a la mer ne prist sejor338.
Tristanz s’en va, plus n’i areste.
Ensinc ala lonc tans par terre,
Tot por l’amor Ysiaut conquerre339.
Il percorso di negazione identitaria di Tristano è affidato con evidenza a una semiotica
spaziale. Tristano si sposta dalla Petite Bretagne all’Inghilterra, in un viaggio che non è
semplicemente fisico, ma che comporta una destrutturazione dell’identità. Decide di
camminare a piedi fino alla nave che lo condurrà in Inghilterra, perché «de povre hom qui à
pé vait / Ne en est tenu gueres de plait»340. La marcia a piedi e il viaggio in mare disegnano
l’idea dell’ingresso in un non-luogo; inoltre, in Fo, arrivato a Tintagel, Tristano dovrà
affrontare, prima del colloquio con Isotta, una serie di tappe, ciascuna legata a un personaggio
e a un luogo di volta in volta più vicino alla camera della regina: il portiere della reggia, la
409-422.
334
Fb, vv. 128-129 (Si straccia le vesti, si graffia il viso; non vede nessuno che non lo percuota).
335
Fb, vv. 135-136 (Va come folle, tutti gli urlano contro, gettandogli pietre in testa).
336
Fo, vv. 249-252 (Gli corrono incontro i valletti e gli gridano come si fa col lupo: «Vedete il pazzo! Uh!
Uh! Uh! I valletti e gli scudieri cominciano a lanciargli legni). Come afferma Cesare Segre, «domina
l’opposizione lotmaniana noi/altri, si sottolinea la diversità, o meglio l’appartenenza a un mondo diverso»
(Cesare SEGRE, «Quattro tipi di follia medievale», in Miscellanea di studi in onore di Aurelio Roncaglia,
Modena, Mucchi, 1989, pp. 1275-83, p. 1275).
337
TURNER, Dal rito al teatro, p. 56.
338
Fb, vv. 118-119 (Non cessa di errare notte e giorno; non si ferma fino al mare).
339
Fb, vv. 137-139 (Tristano se ne va, senza attendere oltre. Andò così lungo tempo per la terra, solo per
conquistare l’amore d’Isotta).
340
Fo, vv. 37-38 (Ma a un povero uomo che va a piedi non si bada affatto).
102
folla che gli corre incontro nel cortile, Marco nella sala del palazzo, Brangania sulla soglia
della destinazione finale.
Non travestimento superficiale, ma autentica metamorfosi, totalmente immersa in una
liminalità da intendersi come una discesa verso la nullificazione dell’io; non semplice
trasformazione, che troppo accentua gli estremi dello stadio di partenza e di quello di arrivo,
ma flusso, apertura dei confini dell’io, processo che inizia alla riflessività. Nell’edificazione
della liminalità, Tristano opera una vera e propria demolizione della figura del nobile
cavaliere:
Gerpi sa terre et son roiaume,
Il ne prinst ne hauberc ne hiaume341.
Turner spiega che la liminalità produce un abbassamento dei personaggi che coinvolge, ma,
chiarisce, questa devalorizzazione non perde mai di vista l’obiettivo di un ritorno e di una
consolidazione dell’antica posizione342.
4. Immagini perdute
Le parole del folle disegnano, nei due poemetti, un’immagine perduta, che sembra
sprofondare in un passato mitico e nostalgico. Tristano si aggrappa a laceri brandelli di un
primato che gli è appartenuto e che ora può soltanto essere allusivamente evocato. Il tutto
sembra spingersi ben oltre il fine pratico del riconoscimento; si direbbe che i dialoghi di
Tristano siano piuttosto dei monologhi in cui la forza degli eventi passati lo riconforma
retroattivamente.
In questa riflessione sull’immagine perduta, in questo conflitto identitario in cui l’eroe e il
nobile cavaliere si ritrovano confinati in una negazione liminare (che, lo abbiamo visto, non è
solo legata alla costruzione performativa, ma è riflesso amplificato di una condizione reale,
quella dell’esiliato), la relazione sintagmatica con il personaggio di Marco riveste una
funzione di primo piano, funzione che i due testi rappresentano in maniera differente.
Sembrerebbe che in Fo, dietro gli operosi sforzi che il folle dispiega nel divertire il re, si
celi il desiderio di Tristano di rientrare nelle grazie dello zio. Tra i due vi è una certa intesa, si
divertono a discapito di Isotta, che assiste infastidita. Il folle propone al re uno scambio, sua
341
342
Fb, vv. 116-117 (Lascia la sua terra e il suo regno, non prende né corazza né elmo).
Cfr. TURNER, Il processo rituale, p. 181 e Dal rito al teatro, p. 56.
103
sorella per Isotta; la regina ascolta e sospira, Marco incita il folle a continuare con le sue
facezie, Isotta esprime il desiderio di abbandonare la sala, ma il re la costringe a restare,
tenendola addirittura per il mantello:
Volt s’en aller e leve sus.
Li rais la prent, si le aset jus.
Par la mentel hermin le ad prise
Si le ad dejuste lui resise :
« Sufrez un poi, Ysolt amie,
Si parorum ceste folie343.
Il folle racconta le avvenutre di Tantris, il combattimento contro il Moroldo, la ferita guarita
da Isotta, racconta di come questa avesse imparato a suonare e a comporre lais da lui; Isotta,
che si ostina a non riconoscere l’amato, è contrariata, Marco ride: il riso indirizzato allo stesso
oggetto stabilisce tra i due coridenti «une communication et un rapport particuliers qui
n’existaient pas auparavant»344. In realtà, tutto il pubblico (la corte, in uno sdoppiamento
diegetico che qui diventa uno sdoppiamento mimetico, costituisce un vero pubblico) è
divertita dalla performance del folle, dal suo gioco di decomposizione e ricomposizione dei
frammenti del romanzo di Tristano e Isotta:
Marce del fol bonement rit,
Si funt li grant e petit345.
Tutti riconoscono che il folle si esprime con grande abilità:
Cist est bon fol, mult par dit ben;
Ben parole sur tute ren346.
Nella rappresentazione dell’ambiguo soggetto che la performance ha creato, soggetto scisso
tra un qui e un oltre, un essere e un voler essere, un soggetto che ha negato l’io, il successo
del folle realizza l’illusione – effimera come qualunque messa in scena – di una ricostituzione
dell’immagine perduta di Tristano, nipote amato e cavaliere d’indiscutibile valore stimato da
tutta la corte.
Nel testo di Berna la situazione è ben diversa, eppure mi pare che il desiderio di una
343
Fo, vv. 479-484 (Vuole andarsene e si leva. Il re la prende e la fa sedere. L’ha presa per il mantello
d’ermellino e l’ha fatta risedere accanto a sé: «Pazientate un po’ amica Isotta, ascoltiamo fino alla fine questa
follia»).
344
Massimo BONAFIN, «Rire, comique et parodie médiévale à la lumière d’une théorie bio-sociale», in
Elisabeth GAUCHER - Luca PIERDOMINICI, a cura di, Ravy me treuve en mon deduire. Mélanges en l’honneur de
Jean Dufournet, Fano, Aras, 2011, pp. 13-35, p. 17.
345
Fo, vv. 499-500 (Marco ride bonariamente del folle, così fanno grandi e piccini).
346
Fo, vv. 313-314 (Questo è un buon folle, parla molto bene, parla di ogni cosa).
104
restaurazione dell’immagine perduta sia lo stesso che anima Fo. Anche qui si chiama in causa
l’impossibile riappropriazione di un paradiso perduto, che, attraverso il gioco di riflessi che la
sua sola evocazione crea, rende l’immagine del personaggio spostata rispetto a qualunque
centro, in un’oscillazione tra il folle – vero folle d’amore, folle mascherato –, il trickster,
l’eroe, il cavaliere perfetto, l’esiliato, l’amante afflitto. Non c’è modello che non sia
immediatamente inquinato da un modello contiguo.
In Fb, però, la performance del folle non diverte né il re, né la corte. Tutt’altro: Marco è
profondamente irritato (sembra quasi che l’irritazione d’Isotta in Fo sia qui stata trasferita
sull’altro membro del trio). Del resto, il testo di Berna insisteva, nei suoi primi versi, sul
conflitto tra Marco e Tristano, il quale, come gli aveva fatto sapere Dinas, per via del suo
nonsavoir347 ha perso l’affetto del re. L’incontro tra nipote e zio segue in Fb quasi
immediatamente l’arrivo di Tristano a Tintagel e, lontano dall’atmosfera di festa che si
respirava in Fo, avvia qui una scena ombrosa. Si direbbe che Marco ascolti suo malgrado la
storia di Picous nato da una balena e che chiede Isotta in cambio della sorella. Non ne è per
nulla divertito e invita il folle a terminare lì il suo racconto («Et taire pois, dans Picolet»348).
Approfittando del privilegio di poter dire sempre e a chiunque la verità, il folle assume toni
arroganti, pieni di rancore, arrivando a dare del cornuto a Marco: «Dame, cist cous ait mal
dahé!»349.
Si mormora a mo’ di monito al re che non bisogna badare al folle («Or dient tuit li
chevalier: / N’a fol baër, n’a fol tancier!»350), la corte teme che Marco possa reagire («Mien
escïant, tost avandroit / Que mes sires cel fol crerroit»351), Marco abbandona la sala per
andare a vedere ses oisiaus352 mentre cacciano le gru.
Se il testo di Oxford presentava una qualche solidarietà tra i due personaggi, qui la scena
è improntata a un’ostilità reciproca, il rancore dell’uno diventa il rancore dell’altro. Durante il
dialogo tra il folle e Brangania, la quale sostiene che sarebbe buona cosa che qualcuno
impiccasse quell’essere plains de melancolie353, il folle controbatte:
Certes, Brangien, ainz feroit mal
Plus fol de moi vait a cheval354.
347
Fb, v. 38 (stoltezza).
Fb, v. 193 (Ora puoi tacere, signor Picolet).
349
Fb, v. 227 (Signora, sia maledetto questo cornuto).
350
Fb, vv. 200-201 (Ora tutti i cavalieri dicono: «Non badare al folle, col folle non litigare!»).
351
Fb, vv. 260-261 (A mio parere potrebbe facilmente accadere che il mio signore credesse a questo folle).
352
Fb, v. 263 (i suoi uccelli).
353
Fb, v. 285 (pieno di malinconia).
354
Fb, v. 288-289 (In verità, Brangania, farebbe molto male: uomini più folli di me vanno a cavallo).
348
105
Marco rappresenta qui per Tristano, in maniera imperfetta, l’immagine perduta del cavaliere
che va a cavallo. Se in Oxford il modello del perfetto eroe e cavaliere era più astratto e
assimilabile a quello che Girard chiama mediatore esterno (cfr. supra I.8), qui il modello,
benché malamente rappresentato – o rappresentato per negazione – si fa più vicino, la
relazione paradigmatica collassa su quella sintagmatica. Lo spirito di competizione rispetto a
un modello astratto e lontano, incarnato da Tristano in un passato dipinto come un paradiso
perduto, permetteva in Fo un tentativo di conciliazione virtuale impensabile in Fb, dove la
competizione raggiunge il cuore delle relazioni identitarie tra personaggi. In entrambi i casi
però, l’ambigua performance liminare di Tristano, sempre divisa tra un qui e un oltre,
nasconde, dietro il gioco comico del travestimento e del desiderio sessuale, un gioco più
profondamente conflittuale con un’immagine identitaria perduta (perduta non solo per via di
un mascheramento).
Di questo rapporto del protagonista con la sua ombra fantasmatica, i due testi offrono una
prospettiva di figurazione diversa anche sul piano dell’autorappresentazione dell’io messa in
opera da Tristano:
Membrer vus dait quant fui nauvrez,
– Maint home le saveit assez –
Quant me cumbati al Morhout
Ki votre treü aver volt355.
Nel racconto del suo romanzo, il Tristano del testo di Oxford sembra particolarmente
determinato nel tracciare un ritratto prestigioso di sé:
Mais je ere chevaler mervilus,
Mult enpernant e curajus:
Ne dutai par mun cors nul home
Ki fust de Scoce treske a Rume356.
Non può, inoltre, fare a meno di menzionare, accanto alle sue virtù eroiche e cavalleresche,
«Ke mult savoie ben harper»357.
Quello di Fo è un Tristano inedito, particolarmente propenso all’autocelebrazione, a
un’autorappresentazione narcisistica, inconsueta per un lettore-ascoltatore abituato a sentire
tessere le sue lodi dagli altri (il popolo, Isotta, il re, i cavalieri pieni d’ammirazione per lui).
355
Fo, v. 329-332 (Dovete ricordarvi di quando fui ferito – molti lo sanno – allorché combattei col
Moroldo, che voleva avere il vostro tributo).
356
Fo, vv. 405-408 (Ma ero un cavaliere straordinario, molto ardito e coraggioso: non temevo nessuno di
fronte a me, che fosse dalla Scozia fino a Roma).
357
Fo, v. 356 (Perché sapevo arpeggiare assai bene).
106
Tristano travalica quelle che sarebbero le necessità legate all’intento – intento almeno
apparente – del riconoscimento da parte di Isotta. Potrebbe semplicemente, come accade in
Fb, menzionare gli avvenimenti della loro storia, invece qui la storia cede il passo al ritratto
dell’eroe e sembra che la strategia che pilota l’enunciazione di Tristano, così autocelebrativa,
non si curi troppo del riconoscimento, prenda altre strade. Vediamo di analizzare le possibili
prospettive che intersecano quest’esaltazione ipertrofica dell’io.
Yasmina Foehr-Janssens ha acutamente mostrato, mettendo al centro della sua analisi il
personaggio d’Isotta e le motivazioni profonde che la rendono così ostinata nel non volere
riconoscere Tristano sotto la maschera del folle, che le Folies c’inducono «à mettre la
répugnance qu’éprouve Iseut à reconnaitre Tristan sous les habits du fou en relation avec la
haine de la jeune princesse à l’égard du meurtrier de son oncle»358. In un profondo intrico di
amore e odio, Isotta si ritrova costretta a riconoscere e ad accogliere Tristano nonostante il
rancore che prova nei suoi confronti; in questo senso i testi offrirebbero la rappresentazione di
una vera follia d’amore di cui la regina sarebbe vittima. Credo che, partendo dalla
constatazione di Foehr-Janssens, e riportando l’analisi sul personaggio di Tristano e sulle sue
relazioni sintagmatiche con quello d’Isotta, si possano forse ricavare ulteriori assi che
attraversano il testo.
Il fine del riconoscimento ci è sembrato insufficiente a spiegare gli eccessi
autorappresentativi di Tristano, che sembra impegnare tutte le sue energie in una vera e
propria scena di seduzione. Del resto, il folle, in quello che potremmo considerare il prologo
di questa scena, lo aveva detto esplicitamente:
Il fert ces ke il trove en sa vei,
Del deis a l’us les cumvei,
Puis lur escrïe: «Foles genz,
Tolez, issez puis de cenz!
Lassez moi e Ysolt cunsiler:
Je la sui venu douneier359.
Davanti alla ferma ostinazione della regina, il folle, nel suo delirio ambiguo tra realtà e
finzione, scaccia gli astanti per douneier Isotta, farle la corte, parlarle d’amore, mostrarsi
galante. Sembrerebbe che Tristano non debba semplicemente farsi riconoscere da Isotta, ma
che debba conquistarla attraverso la malia di una parola che tessa un seducente ritratto eroico.
358
Yasmina FOEHR-JANSSENS, «Le chien et l’anneau: parcours de la reconnaissance dans les Folies
Tristan», in Des Tristan en vers au Tristan en prose, pp. 273-291, p. 286.
359
Fo, vv. 375-380 (Colpisce quelli che trova sulla sua via, li accompagna dalla tavola fino all’uscio, poi
grida loro: «Pazzi, andatevene, uscite di qui! Lasciatemi parlare con Isotta, io sono venuto per corteggiarla»).
107
Si assisterebbe dunque, per la prima volta nel Romanzo di Tristano, a una scena che vi è
sempre stata potenzialmente contenuta, ma che non vi hai mai trovato una realizzazione, una
scena sempre presente in absentia: l’eroe che conquista la principessa non per un altro
(Marco), ma per sé. Il testo sembrerebbe rimediare, nell’implicitezza del suo tessuto, alla
deviazione compiuta rispetto alla trama base del mito o della fiaba di magia 360, e suggerisce
qui un suo possibile361 mai attuato. Del resto, Tristano precisa chiaramente che è grazie a lui
che Marco ha potuto sposare Isotta, lasciando così intravedere la deviazione che contiene in sé
un’altra possibilità diegetica:
Ne vus menbre, raïne Ysolt,
Quant li reis envaer me volt,
Cum si fist? Il me envaiat
Pur vus ke il ore esspusé ad362.
La propensione riflessiva prodotta dalla conformazione metadiscorsiva delle Follie gioca qui
su una collaborazione tra una falla dell’intreccio e una particolare intenzione del personaggio.
Il personaggio liminare Tristano gioca con i simboli del tessuto diegetico del suo romanzo,
esplorandoli e montandoli secondo prospettive inedite. Tristano non si limita a raccontare la
sua storia e le Folies non sono soltanto un riassunto delle puntate precedenti, giacché il gioco
con i segni del proprio passato comporta una riflessione critica su di esso. Le avversità
dell’esilio, la messa in discussione di un sistema scomodo, la liminalità, la metadiegesi, la
riflessività atta a ripristinare un mondo perduto, ma che, più che ripristinato, ne viene fuori
riconfigurato: sono tutti aspetti di un unico processo in cui il soggetto viene ridefinito dalla
parola che lo dice.
C’è un’altra proposta interpretativa che possiamo avanzare ricollegandoci alle
360
Su questa deviazione, si veda LEGROS, «Quand Tristan réécrit son histoire…», in particolare alle pp. 35-
36.
361
Abbiamo già incontrato una simile prospettiva, a proposito del viaggio in mare del folle. Il testo si apre,
in sede di ricezione, a un testo possibile, annotazione con cui faccio riferimento alla teoria dei testi possibili,
elaborata e promossa, sulla scorta delle intuizioni di Michel Charles (Rhétorique de la lecture, Paris, Seuil,
1977), da Marc Escola e Sophie Rabau («Inventer la pratique: pour une théorie des textes possibles», in La Case
blanche. Théorie littéraire et textes possibles, Textes réunis par Marc ESCOLA et Sophie RABAU, Actes du
colloque Fabula à Oléron, 14-18 avril 2003, Reims, Publications Universitaires de Reims, 2006). La teoria dei
testi possibili, che si colloca tra gli approcci teorici attenti a considerare l’oggetto letterario come completantesi
nella lettura, valorizza quei punti di un testo che, sfuggendo a un’idea di opera come pilotata da una coerenza
globale, lasciano intravedere una biforcazione verso un’altra storia, in direzione di una nuova forma testuale, che
era latente nel testo di partenza, ma non attuata. La teoria dei testi possibili è stata applicata finora, almeno a mia
conoscenza, a testi moderni, ma potrebbe essere uno strumento particolarmente idoneo a una descrizione
retorico-poetica dei testi medievali, per i quali, giocati su sottili variazioni come sono, l’accesso di un testo a uno
contiguo costituisce, per così dire, la regola.
362
Fo, vv. 391-394 (Non vi ricordate, regina Isotta, quando il re mi volle inviare, come fece? M’inviò per
voi, che ora ha sposato).
108
considerazioni di Foehr-Janssens, le quali miravano a salvare Isotta dall’inspiegabile passività
e mancanza di perspicacia che le sono attribuite nei testi delle Folies. Se, nella non
disponibilità d’Isotta a riconoscere Tristano dietro la maschera del folle, dobbiamo leggere un
suo essere scissa tra amore e odio, tra irresistibile passione e rancore legato a una ferita mai
veramente rimarginata, se, insomma, dobbiamo leggervi una sorta di rinnegazione della storia
d’amore che la vede protagonista, credo che la stessa rinnegazione possa essere attribuita a
Tristano:
Quant en haute mer nus meïmes,
Ben vus dirrai quai nus feïmes.
Li jur fu beus e fesait chaut,
E nus fumes ben en haut.
Pur la chalur eüstes sei;
Ne vus membre, fille de rai?
De un hanap bumes andui:
Vus en beüstes e je en bui.
Ivre ai esté tu tens puis,
Mais mal ivrez mult i truis363.
Per Tristano il suo amore è un’«ebbrezza perversa»; la riflessione critica sul proprio romanzo
giunge così a uno stadio ulteriore. In un primo momento, l’euforia poetica ha manipolato il
testo in vista di una sua apertura, ha riconfigurato il mondo finzionale che questo conteneva
lasciandone intravedere un altro che gli era sempre stato adiacente, ma che non aveva mai
trovato una formulazione. Ora, questa storia dalle infinite potenzialità diegetiche è vituperata
dalle parole di Tristano, che condanna, come Isotta, il suo dover amare pur non volendo,
rimettendo il filtro e l’involontarietà del sentimento al centro della questione. La rievocazione
quasi ossessiva delle imprese dell’eroe dichiara l’aspirazione di Tristano a un modello che
aveva incarnato in un passato dal sapore ormai mitico, annientato da un’ebbrezza
insopprimibile, e quelle immagini ossessive sono costrette ora a mettersi al servizio di una
seduzione che non farà che riprodurre, ancora una volta, l’errore di un’unione deleteria: la
maledizione che pesa su Tristano e Isotta è quella di una coazione a ripetere e le Folies fanno
di questo vortice della ripetizione un gioco letterario, che, nella scrittura, riverbera, amplifica
e riconfigura un universo diegetico nel suo potenziale autoriproduttivo.
Se si è disposti a fluidificare la barriera tra cornice e racconto nel racconto, a concepire la
363
Fo, vv. 467-476 (Ben vi dirò che cosa facemmo quando ci mettemmo in alto mare. Il giorno era bello e
faceva caldo ed eravamo sul ponte. Per la calura aveste sete. Non ve ne ricordate, figlia di re? Bevemmo
entrambi da una coppa: voi ne beveste ed io ne bevvi. Poi sono sempre stato ebbro, ma vi trovai un’ebbrezza
perversa). Il v. 470 è alquanto oscuro: en haut potrebbe essere una scrittura alterata di en bliaud, ‘in tunica’ (cfr.
vol. Pléiade, p. 1337).
109
performance liminale come una ridefinizione del passato alla luce del presente, a considerare
sottile il confine tra follia finta e follia vera, si dovrà allora constatare che il racconto dei testi
di Oxford e di Berna, svincolato dal fine pratico del riconoscimento e dal gioco della ruse ai
danni di Marco, genera un’esplosione di senso. L’ambiguo statuto identitario del protagonista,
che, nel regno del congiuntivo, dell’ibrido, della metamorfosi, scompone e ricompone i fili di
un sistema, rende altrettanto ambiguo il tessuto del testo, lo scinde tra una fuga comica e uno
spirito tragico che sempre s’infiltra tra le righe.
La complessità del sistema delle relazioni che definiscono (o in-definiscono) il
protagonista, diviso tra modelli e rapporti conflittuali con gli altri personaggi, si coniuga,
attraverso la moltiplicazione dei piani del discorso, con una complessità del sistema testo, che,
come Tristano, dilata i propri confini, si porta verso i suoi propri margini: il mascheramento
di Tristano si fa mascheramento del testo. Liberatasi della sfera dell’evidenza e del senso
univoco, la parola si accosta, in questa scrittura del personaggio, a quella che Zumthor
chiama jonglerie:
Périodiquement, dans le déroulement du texte, le signifiant revendique son autonomie;
il se bricole lui-même de son et de fureur, surabonde en surplus de suggestions
inépuisables. Toute jonglerie, ainsi, vise à la fois à démultiplier le sens et à en réduire
(dans les cas extrêmes jusqu’à l’annulation) la sphère d’évidence364.
Le Folies denunciano come il linguaggio non serva più a rappresentare le cose, ma processi,
movimenti, traslazioni, passaggi, di storie e d’identità.
La parabola comica del travestimento e del riconoscimento non esaurisce la densità di una
scrittura che gioca con il vuoto, con l’assenza, con la mancanza. Del resto, è noto come in Fb,
a rigore, non si abbia riconoscimento, poiché Isotta è semplicemente costretta dai dati di fatto
ad ammettere che il folle sia il suo amato. Quanto a Fo, il riconoscimento è legato al
disvelamento della vera voce di Tristano, in un finale che punta così tutto, non proprio
felicemente, su un elemento che era stato accennato in un solo scarno verso nella prima parte
del testo, e poi completamente abbandonato365.
Il percorso tracciato, la discesa di Tristano in un vortice diegetico-identitario mi sembra
suggerisca che l’etichetta del burlone, dell’escogitatore di stratagemmi, dell’anti-eroe, se è
stata senz’altro utile per rilevare l’altro volto della materia tristaniana, non renda giustizia,
364
Paul ZUMTHOR, «Les masques du poème», in Marie-Louise OLLIER, a cura di, Masques et déguisements
dans la littérature médiévale, Montréal, Les Presses de l’Université de Montréal, 19 , pp. 11-21, pp.14-15.
365
ui, sì, bisognerebbe ipotizzare, nell’ottica di una performance del testo, che il dicitore abbia per tutta la
durata dell’esibizione utilizzato una voce alterata.
110
almeno riguardo ai testi delle Folies, all’intersezione di prospettive multiple che operano in
questi testi, ragion per cui trovo più appropriata la categoria di personaggio liminale a quella
di trickster366. La liminalità, con quell’accento posto sulla dialettica di sovvertimento e
riflessività, mi pare rappresenti bene quell’ambigua intenzionalità del protagonista delle
Folies, nella quale sembrano condensarsi, oltre le dicotomie, le due anime della parabola
tristaniana. Ammesso che sia sensato parlare di due anime.
366
Non tanto per via del significato autentico della categoria, ma per quello affermatosi nell’uso. Sul
trickster e sui risvolti bassi della leggenda tristaniana si tornerà nel capitolo V.
111
IV
Fluttuazioni del personaggio
1. La visione fantasmatica del nostalgico
Il frammento di Torino del romanzo di Thomas367 narra il celebre episodio della salle aux
images368. Il passo ritrae Tristano, ormai stabilitosi in Bretagna e sposatosi con Isotta dalle
Bianche Mani, in una sala in cui sono collocate due statue raffiguranti Isotta la Bionda e la
sua fedele compagna Brangania. Lo stato del frammento lascia aperti diversi interrogativi: vi
si ritrova il protagonista che monologa davanti alle due statue, senza che nulla sia detto
dell’antefatto e del contesto. Stando a quanto narrato dal Sire Tristrem369, sembrerebbe che
Tristano avesse fatto costruire da un gigante questa sala in una fortezza circondata d’acqua,
disponendovi le due statue (ma saranno state soltanto due?) per consolarsi di tanto in tanto
367
È noto come il romanzo di Thomas sia ridotto allo stato di frammenti. Questi sono, in tutto, dieci,
tramandati da sei manoscritti di varia provenienza, per un totale di 3294 versi, ossia circa un quarto di quella che
doveva essere l’opera integrale (Cfr. Felix LECOY, «Sur l’étendue probable du Tristan de Thomas», Romania,
109, 1988, pp. 378-379). Fatta eccezione per il manoscritto di Carlisle (Carlisle, Cumbria Record Office, Holm
Cultram Cartulary, f. 1 e 286), che racconta gli istanti immediatamente successivi all’assunzione del filtro
magico, tutti gli altri manoscritti tramandano la parte finale della leggenda. Il manoscritto di Cambridge
(Cambridge, University Library, Add. Ms. 2751-3), racconta l’episodio del verger, in cui Tristano e Isotta, che
dormono abbracciati, sono scoperti dal re e dal nano delatore e costretti, quindi, a separarsi per non incappare
nella vendetta del sovrano. Il manoscritto Sneyd (Oxford, Bodleian Library, French d. 16, ff. 4-17) contiene due
frammenti, Sneyd 1 e Sneyd 2. Nel primo (ff. 4-10) si ritrae Tristano che riflette sull’opportunità di sposare Isotta
dalle Bianche Mani, si raccontano il matrimonio e la prima notte di nozze, per poi passare all’immagine d’Isotta
la Bionda che, nella sua stanza, compone un lai. Il frammento Sneyd 2 (ff. 11-17) coincide per buona parte con
quanto contenuto nel più lungo testimone del romanzo, il manoscritto Douce, ma riporta anche, come unico
testimone, la cosiddetta fine lunga del romanzo. Il manoscritto di Torino (Accademia delle Scienze di Torino,
Mazzo 813, fasc. 43) narra l’episodio della sala delle statue e dell’acqua ardita, mentre il manoscritto di
Strasburgo (di cui non resta che una trascrizione, essendo stato perduto in un incendio del 1870) riporta
l’episodio del corteo della regina, oltre che alcuni momenti appartenenti alla fine del romanzo, che sono però
tramandati anche dal manoscritto Douce (Oxford, Bodleian Library, Douce d. 6, ff. 1-12). uest’ultimo è, come
si diceva, il più lungo testimone del romanzo di Thomas, con 1823 versi che narrano la parte finale della storia
(il manoscritto contiene anche la Folie d’Oxford). Tutte le citazioni, salvo indicazioni in merito, sono tratte
dall’edizione contenuta nel volume Pléiade Tristan et Yseut. Les premières versions européennes (pp. 123-212) e
curata da Christiane Marchello-Nizia, con l’eccezione del frammento di Carlisle, curato da Ian Short.
368
In un celebre saggio, Aurelio Roncaglia rilevava la novità dell’operazione condotta da Thomas, che,
capovolgendo una tradizione di statue automi dotate di qualità magiche, priva il motivo del suo sostrato
fantastico per realizzare una scena in cui «domina l’uomo, con la forza tutta umana dei suoi sentimenti e la forza
tutta umana della creazione artistica, che a quei sentimenti dà forma concreta e visibile modellando la statuaritratto». (Aurelio RONCAGLIA, «La statua d’Isotta», Cultura Neolatina, 31, 1971, pp. 41-67, p. 61).
Sull’episodio si vedano, inoltre: Emmanuèle BAUMGARTNER, Tristan et Iseut. De la légende aux récits en vers,
Paris, PUF, 1987, p. 87; Id., « uand l’Ymage se fait chair», in Ce est li fruis selonc la letre, Mélanges offerts à
Charles Méla, Paris, Champion, 2002, pp. 133-146; Mireille SEGUY, «L’idole et l’effige», in Des Tristan en vers
au Tristan en prose, pp. 205-220.
369
Cfr. «Sire Tristrem. Poème traduit du moyen anglais, XIVe siècle», in Tristan et Iseut. Les premières
versions européennes, pp. 923-964, alle pp. 957-960.
delle afflizioni della lontananza, di cui non può parlare con nessuno:
Por iço fist il ceste image
Que dire li volt son corage,
Son bon penser e sa fole errur,
Sa paigne, sa joie d’amor,
Car ne sot vers cui descoverir
Ne son voler, ne son desir370.
In particolare, Isotta sarebbe stata immortalata nella scena dell’ultimo addio: i due amanti
sono stati scoperti da Marco e la regina dona a Tristano un anello prima della fuga di questi
verso terre lontane371 (ma il punto necessita di ulteriori precisazioni). Nell’effigie dell’amata
si condensano i dolori e le delizie dell’amore:
E les deliz des granz amors,
E lor travaus et lor dolurs,
E lor paignes, et lor ahans,
Recorde a l’himage Tristrans372.
I primi versi del frammento introdurrebbero dunque a una poetica della memoria 373, a una
visione contemplativa e monologica in cui tutto è filtrato dal punto di vista dell’innamorato
afflitto374. Cercheremo di rintracciare nel recupero memoriale operato dal personaggio un asse
semantico propulsore, proprio come nelle Folies, di una dinamizzazione del testo, di una sua
apertura a una riconfigurazione costante del senso attraverso la manipolazione dei segni
attorno a cui il racconto si articola. Gli strumenti dinamizzanti che il frammento di Torino
consente di prendere in considerazione sono due: il potenziale semantico della nostalgia e lo
statuto dell’immagine.
370
Vv. 1139-1143 (Per questo fece questa statua, per poterle dire i suoi sentimenti, i suoi buoni pensieri e i
suoi folli errori, la sua pena, la sua gioia d’amore, poiché non sa con chi manifestare né il suo volere, né il suo
desiderio).
371
Si veda Tracy ADAMS, «Archetypes and Copies of Thomas’s Tristan: A Re-Examination of the Salle aux
Images Scenes», Romanic Review, 90, 1999, pp. 317-332.
372
Vv. 1095-1098 (E le delizie dei grandi amori, e le loro sofferenze e i loro dolori, le loro pene e i loro
tormenti Tristano ricorda davanti alla statua).
373
Sul tema della memoria nel romanzo di Thomas si rimanda a Brent A. PITTS, «Absence, Memory, and
Ritual Love in Thomas’s Tristan, The French Review, 69, 1990, pp. 153-165. Sul rapporto tra assenza e memoria
insiste anche la già citata Séguy («L’idole et l’effige», in particolare alle pp. 206-209).
374
Il frammento è spesso annoverato tra gli esempi del sapiente uso del monologo e dell’introspezione nel
romanzo di Thomas. Si veda, per esempio, Punzi: «Il frammento di Torino, infatti, si apre direttamente con le
parole rivolte da Tristano alla statua dell’amata, simulacro dell’assenza, ma anche della fissità del sentimento. La
statua non risponde, può solo incarnare paradossalmente l’inutilità della presenza. L’ossessione del pensiero non
ha interlocutori ma solo la memoria di un legame indissolubile, e si perde errando nei labirinti del pensiero»
(Arianna PUNZI, Tristano. Storia di un mito, Roma, Carocci, 2005, p. 33). Sul monologo e sull’introspezione in
Thomas, si rinvia, tra gli altri, a: Ruthmarie Hamburge MITSCH, «The Monologues of Tristan in Thomas»,
Tristania, 2, 1977, pp. 29-39; Roger PENSOM, «Rhetoric and Psychology in Thomas’Tristan», Modern Language
Review, 78, 1982, pp. 285-297.
114
La statua d’Isotta suscita in Tristano uno stato d’animo contraddittorio; alle volte vi si
rivolge amorevolmente, riempendola di baci, altre volte le rivolge uno sguardo rancoroso:
Molte la baisse quant est haitez,
Corrusce soi quant est irez,
Que par penser, que par songes,
Que par craire en son cuer mençoinges
Que ele mette lui en obli
Ou que ele ait acun autre ami,
Que ele ne se pusse consurrer
ue li n’estoce autre amer,
ue mieuz a sa volunté l’ait375.
Emerge fin qui una propensione contemplativa. La statua d’Isotta presenta le caratteristiche di
un’icona, il cui potere rappresentativo crea l’illusione di una vicinanza dell’oggetto
referenziale, permettendo un’emersione di un certo ventaglio di sentimenti che il testo
descrive, esplorando l’interiorità del personaggio: Thomas, autore dal raffinato lirismo,
scandaglia i moti dell’anima. Il testo offre, però, più sottili chiavi di lettura, che possono
spingersi oltre l’idea della prassi contemplativa imperniata su soggetto osservante e icona, e lo
scavo nell’interiorità produce qualcosa di più di una descrizione della passione.
In uno studio dedicato alla nostalgia, Greimas376 ha indicato come la situazione del
soggetto nostalgico si articoli su una stratificazione degli stati patemici377. Da un lato il
soggetto si caratterizzerebbe per lo stato melanconico attuale, radicato nel presente, spesso
descritto come una condizione di malessere fisico da cui è scombussolato, dall’altro questo
stato di malessere presente vivrebbe di una proiezione verso un ulteriore stato patemico, uno
«stato di coscienza doloroso causato dalla perdita di un bene»378, il quale, legato al rimpianto
per la separazione da un oggetto e nutrito di una consapevole e cosciente analisi dello scarto
tra passato e presente, si connota come un livello metacognitivo. Accanto allo stato di
languore in cui il soggetto è immerso, coesiste, cioè, una disposizione di questo a dominare lo
stato di cose, coesistenza data dall’asse della temporalità, dall’opposizione passato/presente;
375
Vv. 1099-1107 (La bacia tanto quando è contento, si fa furioso quando è in collera, immaginando che,
nei suoi pensieri, nei suoi sogni, prestando fede a delle menzogne, lei possa dimenticarlo o possa avere un altro
amico, che non possa privarsi di avere un altro amante, più disponibile alla sua volontà)..
376
Algirdas J. GREIMAS, «La nostalgia: studio di semantica lessicale», in PEZZINI, Semiotica delle passioni,
pp. 19-25 (ora in Paolo FABBRI - Gianfranco MARRONE, a cura di, Semiotica in nuce II, Roma, Meltemi, 2001,
pp. 231-236).
377
È facile vedere che abbiamo a che fare con (1) uno stato patemico (deperimento, languore, melanconia)
che presuppone (2) un altro stato patemico (rimpianto, ossessivo o no), causato, a sua volta, da (3) una
disgiunzione da un oggetto di valore (paese natale, cosa nuovamente desiderata ecc.). Dunque si tratta di una
costruzione sintattica a tre livelli che, malgrado la «causalità» – che vorremmo interpretare come presupposizone
logica – manifestata tra di loro, si presenta al tempo stesso come una stratificazione gerarchica» (ivi, p. 20).
378
Ivi, p. 21.
115
accanto al soggetto cognitivo, che esperisce lo stato del melanconico, vi è nella nostalgia un
soggetto metacognitivo, che su quello stato d’animo riflette, mettendo a fuoco, nel confronto
con il passato, un presente marcato dall’assenza.
Direi, quindi, che è connaturata alla nostalgia una rielaborazione che, nell’incontro dei
livelli di cognizione, annulla il passato e il presente come configurazioni autonome,
generando una terza configurazione dialetticamente data, in cui il soggetto si ritrova
ambiguamente scisso tra il ruolo di attore immerso negli eventi e quello di soggetto che pensa,
manipola, gestisce i segni di questa inedita configurazione diegetico-passionale (perché è
chiaro che la passione della nostalgia è in realtà, per via della stratificazione dei livelli,
immediatamente racconto della nostalgia, testo gestito da un soggetto organizzatore).
Riportando questo processo ai nostri testi, cercheremo di argomentare come il personaggio
Tristano non si limiti a vivere la nostalgia e come il testo non offra unicamente la descrizione
lirica di una passione. Il soggetto metacognitivo manipola le potenzialità semantiche dei segni
che gli si offrono: le due statue non sono le semplici rappresentanti di un passato oggetto di
contemplazione e la passione si fa in qualche modo azione – se non messa in scena379.
Nel suo trasporto nostalgico, Tristano teme che Isotta possa, in sua assenza, cedere alle
lusinghe di Cariado, giovane conte, ricco e bello quanto pavido e per nulla rispondente alle
qualità richieste dalla cavalleria, il quale frequenta la corte di Marco e mira a ottenere i favori
d’Isotta:
Del biau Cariados se dote,
ue ele envers lui ne turne s’amor.
Entur li est nuit e jor,
E si la sert e si la losange,
E sovent de lui la blestange.
Dote, quant n’a son voler,
Que ele se preigne a son poer:
Por ce que ele ne puet avoir lui,
ue son ami face d’autrui380.
Nell’innamorato lontano s’insinua il sospetto del tradimento381. Il testo di Thomas non si
379
Benché si tratti di una breve annotazione non sottoposta a un’elaborazione puntuale (elaborazione che si
cercherà di offrire in queste pagine), sul ruolo di «metteur en scène» di Tristano nell’episodio della salle aux
images si è soffermata Baumgartner: «Amant, poète et musicien hors pair, Tristan n’est ni sculpteur ni peintre
(comme le sera plus tard Lancelot). Mais à ses multiples talents, il ajoute ici celui de metteur en scène, capable
de recomposer son histoire moins par les mots – c’est là l’enjeu des Folies –, qu’en prêtant conscience,
sentiments, à des statues de marbre qu’il transmute, le temps d’une étreinte, en êtres de chair» (« uand l’Ymage
se fait chair», p. 141).
380
Vv. 1110-1118 (Teme il bel Cariado, che lei rivolga verso di lui il suo amore. Le è intorno notte e
giorno, le si mostra servizievole e la lusinga, davanti a lei lo calunnia. Teme che, non avendo ciò che vuole, lei
finisca per prendere ciò che può avere: che, poiché non può avere lui, faccia di un altro il suo amico).
116
limita, però, a descrivere i dubbi di Tristano e il suo malessere:
Quant il pense de tel irur,
Donc mustre a l’image haiur;
Vient l’autre a esgarder,
Mais ne volt ne soir ne parler.
Hidonc emparole Brigvain,
E dist donc: «Bele, a vos me plain
Del change e de la trischerie
ue envers moi fait Ysode m’amie»382.
Sembra che l’introspezione abbia prodotto una qualche forma di scena nella scena 383, in cui
vediamo Tristano, creatore del mondo finzionale delle due icone, oltrepassare la barriera,
portarsi in questo mondo e rivolgersi ora a una statua ora all’altra, destreggiarsi tra i
rimproveri verso Isotta e la ricerca di conforto presso Brangania. La contemplazione
nostalgica ha ceduto il passo a un movimento mimetico, in cui Tristano diventa statua tra le
statue, personaggio tra i personaggi, raggiunge il livello della rappresentazione da lui stesso
orchestrata. Riprendendo la terminologia greimasiana, il soggetto metacognitivo Tristano
gestisce i livelli di sperimentazione della propria melanconia384: melanconia vissuta hic et
nunc da un lato, melanconia coscientemente gestita e manipolata dall’altro, tanto da sfruttarne
le potenzialità diegetico-mimetiche. Non siamo lontani da quanto proponevano le Folies
Tristan, che abbiamo letto alla luce della teoria antropologica di Victor Turner. Anche qui si
tratta di un Tristano autore della sua storia385 e di altre storie a questa potenzialmente
381
Si veda Michelle ZINK, «Note sur la rivalité et la jalousie dans le Tristan de Thomas», in Conjunctures.
Medieval Studies in Honor of Douglas Kelly, Amsterdam/Atlanta, Rodopi, 1994, pp. 589-596.
382
Vv. 1119-1126 (Quando ha pensieri così irosi, mostra ostilità alla statua; viene a guardare l’altra, non
volendo più né vederla né parlarle. Così si rivolge a Brangania, e dice: «Bella, è con voi che mi lamento
dell’infedeltà e del tradimento che mi ha riservato la mia amica Isotta»).
383
Per un’analisi dettagliata degli elementi teatrali nel romanzo di Thomas si veda Jean-Marie FRITZ,
«Regards, gestes, voix: réflexions sur la mise en scène dans le Tristan de Thomas», in Danielle BUSCHINGER Claire ROZIER, a cura di, Les romans de Tristan de Gottfried von Strassburg et de Thomas d’Angleterre, Amiens,
Presses de l’ufr de Langues, Université de Picardie - Jules Verne, 1999, pp. 15-28.
384
«Il est clair que le mélancolique est particulièrement prédisposé à entretenir en lui ce que Hildegarde de
Bingen appelle les ‘fumées de l’imagination’. Il possède une aptitude particulière à ‘fantasmer’; c’est sans doute
ce que suggère le célèbre épisode de Tristan dans la salle aux images. […] L’adjectif pensif pourrait bien être le
véritable mot-clef de toute la théorie de l’éros mélancolique telle que l’illustre le texte littéraire. Il désigne
l’extase devant les fantômes de l’imagination. Si le XIIe siècle n’a pas, comme on le dit parfois, inventé l’amour,
en revanche il a, par la littérature, découvert la nature fantasmatique du phénomène amoureux. En associant les
deux adjectifs pensif et amerus, Thomas établit donc un lien direct entre le mal d’amour et le tempérament
mélancolique, sans qu’il soit parfaitement possible de décider si Tristan est mélancolique parce qu’il est
amoureux ou s’il est amoureux parce qu’il est mélancolique» (Philippe WALTER, «Tristan et la mélancolie.
Contribution à une lecture médicale des textes français en vers sur Tristan», in Sir Gawain and the Green
Knight, Actes du XIVe Congrès International Arthurien, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 1985, pp.
646-657, p. 650). Parlando di natura fantasmatica dell’amore, Walter fa riferimento a Giorgio AGAMBEN, Stanze.
La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 1977.
385
Baumgartner si spinge a considerare Tristano doppio di Thomas (Tristan et Iseut. De la légende aux
récits en vers, p. ) e, forse con qualche forzatura, l’episodio delle statue come «une parfaite mise en abyme du
117
contigue; anche qui si tratta di un Tristano che è, insieme, autore e attore di una
rappresentazione, segno rappresentato e manipolatore di segni. Il diaframma tra la cornice e la
meta-rappresentazione
è
fluido,
e
il
personaggio
si
realizza
pienamente
solo
nell’attraversamento dei livelli.
ualche riflessione merita, inoltre, il riferimento a Cariado, riguardo all’utilizzazione
delle potenzialità diegetiche del testo messa in atto dalla nostalgia. Inscenando una storia in
cui Isotta cede al fascino del bel cavaliere, Tristano crea un contrappunto a quanto raccontato
in un'altra parte del romanzo, tramandata dal manoscritto Sneyd, in cui il giovane,
determinato a conquistare la regina, le rivela che Tristano si è sposato con la figlia del duca di
Bretagna386. Al contrario di quanto sospettato da Tristano, non otterrà però molto da Isotta:
Ysolt respond par engaigne:
«Tuit diz avez esté huan,
Pur dire mal de dan Tristan.
Ja Deus ne doinst que jo bien aie
Si endreit de vos ne sui fresaie.
Vos m’avez dit male novele,
Ui ne vos dirai jo bele:
En veirs vos di, pur nient m’amez,
Ja mais de mei bien n’esterez.
Ne vos ne nostre droeri[e]
N’amerai ja jor de m[a vie]»387.
Abbiamo già visto nel capitolo precedente (cfr. supra III.4, n. 361), come i testi delle Folies
abbozzino realizzazioni di tracce diegetiche potenzialmente presenti nella trama ma che non
vi trovano reale compimento. Qui Thomas, sfruttando la disponibilità del personaggio
nostalgico a fantasticare su storie che lo vedano vittima di una sorte avversa, offre un esempio
simile, creando, per opposizione, un collegamento interno al romanzo 388, attualizzando, nella
visione fantasmatica messa in scena da Tristano, uno sviluppo potenziale della trama. L’asse
semantico della nostalgia, dunque, amplifica gli orizzonti del personaggio e quelli del testo:
sia Tristano che la storia si rinfrangono in una pluralità di livelli, che ne dilatano i confini, li
récit: sont représentées, statufiées, les scènes essentielles du drame amoureux, de sa naissance à la rupture de
l’exil» (« uand l’Ymage se fait chair», p. 140).
386
Cfr. vv. 1001 ss.
387
Vv. 1070-1080 (Isotta risponde con prontezza: «Siete sempre stato un uccello del malaugurio, sempre a
dire male di sir Tristano. Che Dio mi danni se il mio non sarà per voi un canto di morte. Voi mi avete portato una
triste notizia, ed io non ve ne darò una bella: ve lo dico chiaramente, mi amate invano, non avrete mai nulla da
me. Non verrà mai giorno della mia vita che amerò né voi né la vostra galanteria).
388
L’esempio citato mi pare indicativo, pur nello stato frammentario del romanzo, di una sua coerenza
strutturale. Come vedremo nel proseguimento dell’analisi, vi compare spesso un gioco di richiami che, per
specularità o antitesi, approfondiscono, duplicandoli, alcuni elementi della trama. Il procedimento contribuisce in
maniera particolare alla costruzione di una visione articolata del personaggio.
118
rendono ambiguamente fluttuanti389. A esasperare il movimento del personaggio e del testo
interviene poi nel frammento il particolare status dell’immagine.
A rigore, almeno in una prima descrizione dell’episodio, dovremmo parlare d’icona, e
non d’immagine. Un’icona «renvoie all’apparence de l’objet reproduit»390, e le statue d’Isotta
e di Brangania si caratterizzano proprio per il loro essere surrogato di un oggetto reale, per la
loro funzione di rievocare il ricordo, per il loro essere oggetto di contemplazione da parte
dell’osservatore. Ben presto, però, le cose prendono un’altra piega.
Nel momento in cui Tristano cessa di porsi come semplice osservatore e si spinge oltre
l’evocazione di un passato perduto, elaborando una nuova configurazione diegetico-mimetica,
si ha il passaggio dall’icona all’immagine interna. La questione non riguarda più le statue, che
sono annullate nella loro materialità, né il ricordo preciso e nitido a esse associato, ma
l’universo immaginifico – la nuova configurazione diegetico-mimetica – verso cui le icone e
l’osservatore sono proiettati:
L’image interne acquiert une vie qui lui est procurée par le sujet de réception: elle peut
être présente en l’absence de son modèle (par mémorisation, par le rêve ou
l’hallucination). De là le glissement de l’image au fantôme, apparition visuelle en
l’absence du modèle391.
Tristano non è più davanti a due statue, ma davanti alla sua visione fantasmatica. Inoltre,
questa lo ritrae totalmente immerso, come attore, nella rappresentazione da lui stesso ideata,
rappresentazione in cui il personaggio sperimenta tutto un ventaglio di pose, umori,
espressioni:
Tristan d’amor si se contient:
Sovent s’en vait, sovent revent,
Sovent li mostre bel semblant,
E sovent laiz, come diz devant392.
389
Nell’episodio della salle aux images, il racconto diventa così una riflessione sul racconto; come indica
Milland-Bove descrivendo un passo del Lancelot-Graal, «le passage invite surtout à une lecture métatextuelle:
grâce à ces représentations au second degré que sont statues et automates, il dévoile l’artifice littéraire et engage
à voir […] les clefs des enchantements de la fiction» (MILLAND-BOVE, La Demoiselle arthurienne. Ecriture du
personnage et art du récit dans les romans en prose du XIIIe siècle, p. 3 4). Per Séguy, l’episodio apre «à une
réflexion sur le conditions et les modes de la création romanesque mais aussi sur les pouvoirs de la fiction»; in
questo suo valore metaletterario, il frammento risponderebbe «à la question de savoir ce que peuvent la
littérature et le chant face au désir, à l’absence et au deuil» («L’idole et l’effigie», p. 206). Come si è visto (cfr.
supra n. 368), già Roncaglia poneva un accento sulla forza della creazione artistica.
390
Joël THOMAS, «Introduction», in Id., a cura di, Introduction aux méthodologies de l’imaginaire, Paris,
Ellipses, 1988, p. 22.
391
Ivi, p. 23.
392
Vv. 1145-1148 (Tristano si comporta così sotto l’effetto dell’amore: ora va via, ora ritorna, ora le si
mostra benevolo, ora ostile, come ho detto prima).
119
Se inizialmente la questione era quella della confusione tra il modello e l’oggetto che lo
rappresenta (le due statue, Brangania, Isotta), si passa poi alla prospettiva della confusione del
soggetto con l’universo che questo ha proiettato393. Tristano, ibrido nel suo essere creatore
della rappresentazione e personaggio in essa agente, è, dalla particolare ottica della visione
fantasmatica, un processo che oscilla tra questi due livelli, che li congloba e oltrepassa. La
contemplazione della statua ha generato il risentimento di Tristano e il sospetto che Isotta lo
tradisca con Cariado. Da lì è cominciata la finzione nella finzione, da lì Tristano si è fatto
personaggio della sua visione, iniziando a chiedere conforto a Brangania e rivolgendo a Isotta
espressioni corrucciate, scendendo così, anche lui, nel regno delle immagini. Con una
sottigliezza e un’abilità estrema di gestione della materia romanzesca, Thomas, senza segni
testuali evidenti, ha creato una cornice e, nello stesso tempo, l’ha fatta attraversare al suo
protagonista. Da questo punto il lettore ha davanti la visione fantasmatica di Tristano, non più
semplicemente il racconto del suo dolore da parte di una voce narrante: il personaggio si fa
immagine tra le immagini, visione nella sua visione, il soggetto si risoggettivizza394.
Altrettanta ambiguità investe il personaggio d’Isotta, che, nel passaggio dall’icona
all’immagine, fino alla proiezione fantasmatica, cessa di coincidere sia con la statua che con il
suo modello reale, per diventare un terzo mai dato. Nel regno delle immagini tutto è mobile,
sfocato, scivolante verso il contiguo. Il centro della visione abbandona il macrosegno della
statua d’Isotta, per illuminarne un particolare:
uanque il pense a l’image dit,
Poi s’en desenfle un petit,
Regarde en la main Ysodt:
L’anel d’or doner li volt,
Vait la chere e le senblant
Que au departir fait son amant;
Menbre lui de la covenance
u’il ot a la deseverance.
Hidonc plure e merci crie
De ce que pensa folie,
E siet bien que il est deceü
De la fole irur que il a eü395.
393
Rileva Joël Thomas: «Tout objet reproduit est un produit et, comme tel, reste objet. L’activité imaginaire
consiste à subjectiver cet objet en lui insufflant une vie et une signification qui ressortissent du sujet. Les études
sur l’imaginaire s’efforcent de repérer les modalités opératoires par lesquelles le modèle se confond avec sa
représentation, et le sujet avec son univers objectal» (THOMAS, «Introduction», p. 23).
394
Sul concetto estetico-psicoanalitico di soggetto come «movimento continuo di risoggettivazione di ciò
che è stato in vista di una nuova biografia» si rinvia a Massimo RECALCATI, Il miracolo della forma. Per
un’estetica psicoanalitica, Milano, Mondadori, 2011, p. XIII.
395
Vv. 1127-113 ( uello che pensa dice alla statua, poi si calma un po’, guarda verso la mano d’Isotta:
vuole donargli l’anello d’oro, vede l’espressione che faceva al suo amante al momento della partenza; si ricorda
120
Se la statua d’Isotta, icona che propone un principio di coincidenza tra il modello e il segno
che lo rappresenta in sua assenza, aveva generato un esito negativo, accendendo l’astio di
Tristano, al contrario, una metonimia della regina, l’anello d’oro che aveva regalato all’amato
durante il loro ultimo saluto, produce un effetto rasserenante. L’anello, al contrario della
statua, la quale si appoggia su un’idea d’identità rigidamente data, propone una catena di
associazioni in cui l’icona cede il passo all’immagine fluida e al viaggio memoriale.
Si noti come il testo giochi sull’opposizione tra i verbi regarder et veoir: Tristano guarda
la mano della statua e vede l’espressione del volto d’Isotta nel momento dell’addio. Credo,
cioè, che non si debba necessariamente dedurre che la statua d’Isotta raffiguri la regina nel
momento in cui, salutando l’amato, gli dona l’anello, ma mi pare che la visione dell’addio
possa appartenere all’immagine elaborata da Tristano, e non all’icona. L’anello, per via del
potere di scivolamento della metonimia, annulla l’inutile surrogato di presenza offerto dalla
statua e attiva un recupero positivo del vuoto dell’assenza, aprendo la strada all’evocazione
immaginifica del ricordo.
Alla sovrapposizione rigida promossa dall’icona, segno di qualcosa che sta al posto di
qualcos’altro, subentra un’evanescenza. Nella visione fantasmatica di Tristano, l’immagine
del personaggio dell’amata oscilla tra il volto della statua, la circonferenza dorata dell’anello,
il ricordo dell’espressione segnata sul volto d’Isotta al momento dell’addio; il referente
sembra annullato e, al posto d’Isotta e al posto della statua, entra in gioco, come un terzo mai
veramente precisato, un’immagine. L’anello apre la strada al ricordo, avviando uno scavo
verticale attraverso le potenzialità semantiche insite nell’evocazione di Isotta396: il
personaggio è un personaggio-immagine397, talmente fantasmatico, elaborato, aggrovigliato
da aprire la strada a una sua rarefazione.
della promessa che si sono scambiati durante l’addio. Allora piange e implora perdono per le follie che ha
pensato. E sa bene che è fuori di sé per la folle collera che prova).
396
Sulle potenzialità semantiche dell’anello si veda Alain CORBELLARI, «Les jeux de l’anneau, fonctions et
trajets d’un objet emblématique de la littérature narrative médiévale», in K. BUSBY - B. GUIDOT - L. E.
WHALEN, a cura di, ‘De sens rassis’. Essay in Honor of Rupert T. Pickens, Amsterdam-New York, Rodopi,
2005, pp. 157-168.
397
La categoria di image-personnage è stata elaborata da Jouve (Vincent JOUVE, L’effet personnage dans le
roman, in particolare alle pp. 40 ss.). Il punto di vista qui proposto è però diverso da quello dello studioso, il
quale, in prospettiva pragmatica, parla del personaggio come di una «recréation imaginaire» operata dal lettore.
Benché mi sembri indubbio che un testo trovi sempre compimento nell’atto di lettura e che l’immagine del
personaggio sia il frutto di una cooperazione tra testo e lettore, la rappresentazione mentale qui descritta è, però,
da intendersi come un oggetto del testo, radicato nella scrittura.
121
2. Doppio e castità
L’episodio della salle aux images potrebbe essere considerato una cifra del modo in cui il
romanzo di Thomas procede alla costruzione del personaggio: l’immagine, la scena, il
fantasma ne sono elementi costitutivi. Il personaggio vive qui di un’evanescenza che lo rende
vivo solo nel richiamo all’altro, in cui trova una sorta di appendice: tramite un sistema di
richiami per omologia o opposizione, tramite, si potrebbe dire, un sistema retorico di ossimori
e metonimie che imbastisce il tessuto della scrittura, si realizza un’idea di personaggio come
processo. Il sistema di richiami di cui si diceva ha spesso spinto la critica a indagare le
dinamiche del doppio nel sistema dei personaggi nel testo di Thomas398, ma il termine,
ambiguo e abusato, richiede, per non incorrere in una facile genericità, qualche precisazione.
I doppi a cui il romanzo allude esplicitamente sono le due Isotta e i due Tristano.
Riguardo a Isotta la Bionda e Isotta dalle Bianche Mani, quello di cui si trova chiara traccia
nel testo è la coincidenza del nome, mentre non vi compare nessuna allusione, almeno nei
frammenti pervenuti, a una somiglianza fisica (si legge solo, come vedremo, che sono di pari
bellezza). Se dobbiamo attenerci a una definizione stretta di doppio399, che preveda la
parabola dell’emersione, nell’intreccio, di una figura esattamente corrispondente nelle
sembianze fisiche a una figura data, con rilevanti conseguenze negli sviluppi futuri proprio
per via della somiglianza, siamo alquanto lontani da un simile impostazione. Se ci spingiamo
poi a cercare un’analogia con l’elaborazione del tema del doppio prodottasi con la letteratura
fantastica del diciannovesimo secolo e indagata da Freud e dal suo allievo Rank attraverso i
concetti di Doppelgänger e di Unheimliche400, allora siamo ancor più fuori strada: l’assonanza
delle due Isotta non ha nulla dell’inquietante apparizione del doppio. Più sottile sembrerebbe,
invece, il caso dei due Tristano, di cui ci racconta il codice Douce, e che dovrebbe essere
398
Susan Dannenbaum considera il motivo del doppio come un riflesso narrativo delle contraddizioni della
storia. Cfr. Susan DANNENBAUM CRANE, «Doubling and Fine Amor in Thomas’s Tristan», Tristania, 5/1, 1979,
pp. 3-14. Si veda inoltre: Morgan DICKSON «Female Doubling and Male Identity in Medieval Romance», in Ph.
HARDMAN, a cura di, The Matter of Identity in Medieval Romance, Cambridge, D.S. Brewer, 2002, pp. 59-72.
Sulla questione della coincidenza dei nomi delle due Isotta (o tre, se si considera la madre d’Isotta la Bionda che
compare nelle versioni che raccontano la prima parte della leggenda), si vedano: Gerald J. BRAULT, «The Names
of the Three Isolts in the Early Tristan Poems», Romania, 115, 1997, pp. 22-49; Terrence SCULLY, «The Two
Yseults», Mediaevalia, 3, 1977, pp. 25-36.
399
Si rinvia a Massimo FUSILLO, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Scandicci, La Nuova Italia,
1998 (nuova edizione: L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Modena, Mucchi, 2012). Si veda anche
Pierre JOURDE - Paolo TORTONESE, Visages du Double. Un thème littéraire, Paris, Nathan, 1996.
400
I classici punti di riferimento sono gli studi sul Doppelgänger di Rank e sull’Unheimliche di Freud: Otto
RANK, Il doppio: il significato del sosia nella letteratura e nel folklore (1914), Milano, Sugarco, 1979; Sigmund
FREUD, «Il perturbante» (1919), in Id., Opere, vol. IX, pp. 81-114.
122
un’invenzione di Thomas d’Angleterre, non presente negli altri testi della leggenda401.
Cercheremo di indagare sul modo in cui il testo sviluppa le due tracce, seguendo l’idea
che, più che di una rappresentazione della specularità, di doppio da intendersi come tema che
attraversa lo sviluppo dell’intreccio, il romanzo di Thomas operi un’utilizzazione retorica
della specularità, come se la doppiezza dei personaggi non fosse contenutisticamente
rilevante, ma servisse, formalmente, a una costruzione in cui il personaggio non si rivela per
descrizioni imperniate su di lui o per un discorso proferito da o su di lui, ma per associazioni
di opposizione e somiglianza tra i vari personaggi, associazioni che scandiscono il movimento
della scrittura romanzesca402. Oltre che sui due chiari casi di doppio menzionati, ci
soffermeremo, inoltre, su un caso meno cristallino, quello del rapporto tra Isotta e Brangania,
per spingerci, sulla base delle considerazioni attorno alle specularità degli attori, fino a una
descrizione complessiva dell’intero sistema dei personaggi, di cui si rivelerà essere parte
integrante la maschera dell’autore Thomas.
La grande abilità della scrittura di Thomas sta nel trasferire quello che è un motivo della
leggenda – la doppiezza delle due Isotta – in un’elucubrazione di Tristano. La coincidenza dei
nomi e la parità della bellezza delle due donne, più che essere dei dati di fatto, appaiono come
due segni risucchiati dall’introspezione, salde ancore del discorso di autoconvincimento cui il
protagonista si dedica nell’episodio del mariage, dove s’interroga sull’opportunità di sposare
Isotta dalle Bianche Mani, superando i sensi di colpa per il tradimento inferto così all’altra
Isotta. Il dubbio nasce dalla possibilità, remota ma comunque valida, di poter rimediare alle
pene d’amore consolandosi con l’altre. Tristano insiste sul fatto che, se non gli si fosse
presentata l’occasione di essere coveité, desiderato dall’altra Isotta, avrebbe patito con
maggiore agio le sue sofferenze:
E si set bien ma grant dolur
E l’anguisse que ai pur s’amur,
Car d’altre sui molt coveité,
E pur ço grifment anguissé.
Se d’amur tant requis n’esteie,
Le dé milz sofrir porreie;
E par l’enchalz quid jo gurpir,
S’ele n’en pense, mun desir403.
401
Si veda il Répertoire dell’edizione Pléiade a p. 1694.
Il personaggio non è cioè, semplicemente, dato dalla parola che, palesemente, lo chiama in causa, ma la
sua identità si rivela in un percorso più articolato.
403
Vv. 233-24 (Eppure conosce bene il mio immenso dolore e l’angoscia che provo per amor suo, poiché
sono molto desiderato da un’altra e perciò profondamente angosciato. Se non fossi tanto richiesto d’amore,
potrei sopportarlo meglio, e, attraverso il gioco della seduzione, potrei abbandonare, se lei non mi pensa, il mio
desiderio).
402
123
È quindi, in una messa in evidenza del gioco del parallelismo del doppio, la possibilità della
sostituzione, di un’intercambiabilità a far emergere l’angoscia di Tristano e a fargli
intravedere la possibilità del matrimonio. E, se questa intercambiabilità non fosse avallata
dall’identità dei nomi e da una bellezza che ricorda quella dell’amata, la questione non si
porrebbe. Se venisse meno uno solo dei due elementi, nome o bellezza, Tristano non sarebbe
assillato dal dubbio:
Car Ysolt as Blanches Mains volt
Pur belté e pur nun d’Isolt.
Ja pur belté qu’en li fust,
Se le num d’Isolt n’ëost,
Ne pur le nun senz belté,
Ne l’oüst Tristan en volenté.
Ce dous choses qu’en li sunt
Ceste faisance emprandre font,
u’il volt espuser la meschine
Pur saveir l’estre la reïne,
[Co]ment se puisse delitier
[Enc]untre amur od sa moillier404.
Agevolato dalla posizione in rima, il binomio meschine-reïne sembra fondersi in
un’immagine unica nel pensiero di Tristano riportato dalla voce narrante. I versi insistono in
maniera pleonastica, quasi assordante, sulla rima meschine-reïne e sulla coincidenza di nun e
belté:
Le nun, la belté la reïne
Nota Tristan en la meschine;
Pur le nun prandre ne la volt,
Ne pur belté, nu fust Ysolt;
Ne fust ele Ysolt apelee,
Ja Tristan ne la oüst amee;
Se la belté Ysolt n’oüst,
Tristan amer ne la poüst405.
Il testo, con grande maestria retorica, propone, per via di una sorta d’immagine sonora, i
tortuosi e ripetitivi pensieri di Tristano che cerca di autoconvincersi di quanto la compresenza,
in Isotta dalle Bianche Mani, del nome e della bellezza d’Isotta la Bionda, giustifichino la
404
Vv. 403-414 (In effetti vuole Isotta dalle Bianche Mani per la bellezza e per il nome d’Isotta. ualunque
fosse stata la sua bellezza, se non avesse avuto il nome d’Isotta, o se avesse avuto il nome ma non fosse stata
bella, Tristano non l’avrebbe voluta. ueste due cose riunite in lei gli fanno intraprendere quest’impresa, poiché
vuole sposare la fanciulla per conoscere l’essere della regina, come possa deliziarsi con la moglie contro amore).
405
Vv. 427-434 (Il nome, la bellezza della regina notò Tristano nella fanciulla; non l’avrebbe voluta per il
nome, né per la bellezza, se non si fosse chiamata Isotta; se non si fosse chiamata Isotta, Tristano non l’avrebbe
mai amata; se non avesse posseduto la bellezza d’Isotta, non l’avrebbe potuta amare neppure).
124
scelta del matrimonio. Thomas, manipolando la materia della leggenda, fa del motivo del
doppio il frutto di un arrovellamento mentale di Tristano, il cui esito è di fondere i due nomi e
le due bellezze in un’immagine ibrida che renderà sopportabile l’idea del matrimonio. Il
discorso sembra mirare alla cancellazione del confine, della linea di demarcazione tra i profili
delle due Isotta. In questo modo, Tristano potrà sperimentare che cosa prova la regina a stare
accanto a un uomo che non ama («Pur saveir l’estre a la reïne»406).
Nella messa a fuoco del rapporto speculare (e/o antitetico) tra le due Isotta, un ruolo di
primo piano è svolto dall’elemento erotico. Descrivendo l’arrovellamento di Tristano, i versi
insistono in maniera quasi ossessiva sull’unione sessuale tra Marco e Isotta, sul possesso
fisico del corpo dell’amata da parte del re, sul potenziale erotico e la desiderabilità d’Isotta la
Bionda:
Jo perc pur vos joie e deduit,
E vos l’avez e jur e nuit.
Jo main ma vie en grant dolur,
E vos vestre en delit d’amur.
Jo ne faz fors vos desirer,
E vos nel puëz consirer
ue deduit e joie n’aiez,
E que tuiz voz bienz ne facez.
Pur vostre cors su jo empaine,
Li reis sa joie en vos maine;
Sun deduit maine e sun buen,
Ço que mien fu ore est suen407.
Il corpo d’Isotta la Bionda è oggetto di un vero e proprio assillo dell’amante, corpo scivolato
dalle sue braccia a quelle di Marco. I piaceri dell’amore potrebbero aver spinto Isotta ad
apprezzare la frequentazione del re, dimenticando il suo antico amante:
Tant se deit deliter al rei,
Oblïer deit l’amur de mei,
En sun seignur tant deliter,
Que sun ami deit oblier408.
Par jueir, par sovent baisier
Se puet l’en issi acorder.
Tost li porra plaisir si bien,
406
V. 3 (Per conoscere l’essere della regina).
Vv. 215-226 (Io perdo a causa vostra gioia e piacere, e voi l’avete giorno e notte. Io passo la mia vita in
grande sofferenza, e voi la vostra in diletto d’amore. Io non faccio altro che desiderarvi, e voi non potete
impedirvi di avere piacere e gioia, e di inseguire il vostro volere. Io mi torturo per il vostro corpo, il re coglie in
voi la sua gioia; coglie il suo piacere e il suo volere, ciò che fu mio ora è suo).
408
Vv. 309-312 (Deve dilettarsi tanto col re da dimenticare l’amore per me, dilettarsi tanto col suo signore
che deve dimenticare il suo amico).
407
125
De mei ne li menbera rien409.
Dalle precedenti citazioni scaturisce la grande falla del discorso di autoconvincimento di
Tristano, che, da un lato, sembra meticolosamente impegnato a demolire le differenze tra le
due Isotta, a insistere su quella coincidenza di nome e bellezza che lo porta a fondere la
fanciulla e la regina in un’unica immagine, dall’altro, esaspera le divergenze, accordando a
Isotta la Bionda uno smisurato potenziale erotico, una prorompente desiderabilità,
incentivando la sua caratterizzazione fortemente sessuata. In confronto a tanta esplosiva
carica erotica, l’altra Isotta rappresenterà, com’è noto, una sorta di grado zero della sessualità,
che la destinerà a un’impossibile deflorazione.
Si sarebbe tentati, insomma, di leggere nel romanzo una dicotomia netta che segna i due
personaggi e che potrebbe spingere a classificarli e opporli secondo le loro qualità: per l’una
una connotazione accentuatamente sessuata, per l’altra un’aura di assoluta castità. Vedremo,
invece, come Thomas sappia andare oltre un simile ingenuo binarismo e come utilizzi la
dicotomia eros-negazione dell’eros per farne non delle qualità dei personaggi, ma un asse
strutturale del romanzo, una linea che i personaggi attraversano, rivelandosi più complesse
oscillazioni tra estremi.
Dopo quattrocento versi che il manoscritto Sneyd dedica all’indecisione di Tristano e
all’inarrestabile attrattiva d’Isotta la Bionda, la scelta di sposarsi con Isotta dalla Bianche
Mani, il corteggiamento e il matrimonio stesso sono evocati in un’estrema sintesi:
Pur ço que d’amur se dolt Ysolt,
Par Isolt delivrer se volt.
E tant la baisse e tant l’acole,
Envers ses parenz tant parole,
Tuit sunt a un de l’espuser,
Il del prandre, els del doner.
Jur est nomez, terme mis.
Vint i Tristan od ses amis,
Li dux ove les suens i est,
Tuit l’aparaillement i est prest.
Ysolt espuse as Blanches Mains410.
409
Vv. 321-324 (Godendo, baciandosi spesso si può andare d’accordo. Presto le potrà piacere tanto da non
ricordarsi per nulla di me).
410
Vv. 569-5 9 (Poiché soffre per amore d’Isotta, attraverso Isotta si vuole liberare. E tanto la bacia, tanto
l’accarezza, tanti discorsi rivolti ai suoi genitori, che tutti sono d’accordo a farli sposare, lui a prenderla, gli altri
a dargliela. Il giorno è deciso, il termine fissato. Tristano è venuto con i suoi amici, il duca è con i suoi, tutti i
preparativi sono pronti. Sposa Isotta dalle Bianche Mani). Al verso 5 l’edizione Pléiade riporta odve. Si
corregge in ove, seguendo l’edizione Wind, quella Lecoy e quella Lacroix-Walter (Les fragments du Roman de
Tristan. Poème du XIIe siècle, édités avec un commentaire par Bartina H. Wind, Genève-Paris, Droz-Minard,
1960; Tristan et Iseut. Les poèmes français, la saga norroise, Texte originaux et intégraux présentés, traduits et
126
Dopo l’insistita evocazione dell’espansività libidica del ritratto d’Isotta la Bionda, qui è
questione di qualche bacio e di qualche carezza. La negazione dell’eros sarà estremizzata
durante la prima notte di nozze. Tristano si sveste della tunica, che è ben stretta ai polsi,
l’anello che Isotta la Bionda gli ha donato al momento del loro ultimo saluto gli si sfila dal
dito411, il ricordo affiora, il dubbio lo investe nuovamente:
Chulcher m’en voil ore en cest lit,
E si m’astenderai del delit412.
È ben nota la scusa apportata da Tristano per la sua astensione dai doveri coniugali:
racconterà di aver ricevuto, durante un combattimento, una ferita al fianco destro a causa della
quale preferisce non sottoporsi a sforzi. Isotta dalla Bianche Mani resterà vergine, ma, questo
non basta ad attribuirle la maschera della castità, a connotarla come rappresentante della
negazione dell’eros, da contrapporre all’altra Isotta, evocata, se non ritratta, nei suoi amplessi
con Marco o con Tristano. L’eros è un’ombra costantemente calata su Isotta dalla Bianche
Mani, ombra che sarà la chiave di volta della tragedia finale.
Appena Tristano si stende accanto a lei, la novella sposa lo abbraccia, lo bacia, gli si
stringe contro:
Tristan colche, Ysolt l’embrace,
Baise lui la buche e la face,
A li l’estraint, del cuer susspire,
E volt iço qu’il ne desire413.
Si noti poi la risposta alla confessione di Tristano, risposta ambigua nel suo riferimento ora
alla preoccupazione per la salute del marito, ora all’astinenza cui la ferita la costringerà:
Del mal me peise, Ysolt resspont,
Plus que d’altre mal en cest mond.
Mais de l’el dunt vos oi parler
Voil jo e puis bien desporter414.
commentés par Daniel LACROIX et Philippe WALTER, Paris, Le Livre de Poche, 1989; Le roman de Tristan par
Thomas, édité par Lecoy FELIX, Paris, Champion, 1991; cfr. rispettivamente le pagine 49, 358, 32).
411
Ritorna, come nella salle aux images, l’anello come macchina che attiva il ricordo. Oltre al già citato
Corbellari, si veda, sul ruolo dell’anello nel romanzo di Thomas,Valeria Bertolucci PIZZORUSSO, «La clergie di
Thomas. L’intertesto agiografico-religioso», in Luciano ROSSI, a cura di, Ensi firent li ancessor. Mélanges de
philologie médiévale offerts à Marc-René Jung, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1996, t. I, pp. 335-348, in
particolare a p. 335. La studiosa vede nell’anello un rappresentante del filtro d’amore (che non ha particolare
spessore nei frammenti di Thomas).
412
Vv. 779-780 (Mi coricherò ora in questo letto, ma mi asterrò dal piacere).
413
Vv. 795-798 (Tristano ci corica, Isotta lo abbraccia, gli bacia le labbra e il viso, lo stringe a lei, sospira
dal fondo del cuore, e vuole ciò che lui non desidera).
127
Il testo rappresenta dunque, ben oltre un’opposizione dicotomica tra un’Isotta ipersessuata e
un’Isotta casta, una spiccata libidine anche nella moglie di Tristano. Il tratto raggiungerà una
notevole amplificazione nell’episodio dell’acqua ardita (vv. 12
-1350).
Isotta dalle Bianche mani «ovec son seignor jut pucele»415, tenendo questa verità nascosta
a conoscenti e amici, acconsentendo alla richiesta che le aveva avanzato Tristano. Un giorno,
durante una passeggiata a cavallo con il fratello Caerdino, il suo cavallo s’impenna,
scivolando su una pozzanghera e producendo uno schizzo d’acqua fredda che s’insinua tra le
cosce della donna:
Contre les cuisses li sailli
Quant ele ses cuisses enoveri
Por le cheval que ferir volt.
De la fraidure s’efroie Ysodt,
Gete un cri e rien ne dit,
E si de parfont cuer rit
Que si ere une quarentaigne,
Oncore s’en estent adonc a paigne416.
Davanti all’irrefrenabile riso, a Caerdino viene il dubbio che possa aver detto qualcosa di
grossolano e inopportuno, e chiede spiegazioni alla sorella, pregandola di non mentire a
riguardo. Isotta dalle Bianche Mani non potrà così più tenere nascosta l’ombra della castità417
proiettata sul suo matrimonio:
Ysode entent que il li dit,
Set que, se de ce li escondit,
ue il l’en savera molt mal gré,
E dist : «Ge ris de mon pensé,
D’une aventure que avint,
E por ce ris que m’en sovint.
Ceste aigue, que ci eclata,
Sor mes cuisses plus haut monta
ue unques main d’ome ne fist,
Ne que Tristan onques ne me quist.
Frere, ore vos ai dit le dont»418.
414
Vv. 851-854 (Il vostro male mi pesa, rispose Isotta, più che qualunque altro male in questo mondo. Ma,
riguardo a quello di cui voi avete parlato, io voglio e posso sopportarlo).
415
V. 1279 (si corica vergine con il suo signore).
416
Vv. 1314-1321 (Le schizzò sulle cosce, quando le socchiudeva per spronare il cavallo. Dalla freddezza
fu sorpresa Isotta, gettò un grido e non disse nulla, e rise di così buon cuore che, se ci fosse trovati in tempo di
quaresima, avrebbe avuto difficoltà a trattenersi).
417
Cfr. Patrick Michael THOMAS, «Nuances of Chastity: The Tristan of Thomas», French Studies Bulletin,
41, 1991, pp. 1-3.
418
Vv. 1340-1350 (Isotta comprende ciò che le dice, sa che, se gli nasconde la verità, lui le serberà rancore,
e dice: «Ho riso di un mio pensiero, ho riso per quello che ho ricordato. uest’acqua che mi è schizzata addosso
128
L’episodio dell’acqua ardita si è prestato a letture critiche improntate a una valorizzazione
dell’immagine di un coito mancato419. Ai nostri fini, sarà sufficiente rilevare come in quel
grido e in quell’esplosione di riso si offra un’immagine di Isotta dalle Bianche Mani
alternativa a quella della fanciulla casta ed esente dal richiamo dell’eros. La fantasticheria
della moglie di Tristano è segno di un’audacia che ricorda l’altra Isotta, sfacciata nella sua
accensione sessuale, divisa tra uomini che la possiedono e uomini che la desiderano, in un
gioco che è quindi ben più ambiguo di quello che una visione oppositiva dei due personaggi
lascerebbe ammettere. La costruzione del personaggio lavora su una rete di richiami che
manovrano tratti, echi, sfumature, senza che nessun personaggio possa essere identificato con
una qualità che funga da sua matrice identitaria. Isotta dalle Bianche Mani, nella fugacità
dello schizzo d’acqua, nell’acutezza dell’urlo e nell’irrefrenabile esplosione di riso, raggiunge
l’immagine dell’altra Isotta, in una dislocazione del personaggio che avvicina la percezione
del lettore a quella confusione identitaria con cui Tristano sembrava guardare alle due Isotta
nel suo arrovellamento, quando cercava di convincersi dell’opportunità del matrimonio. Il
tentativo di Tristano di annullare le differenze diventa una strategia del testo, un meccanismo
diretto alla creazione di vortici d’immagini più che di enti latori di un’essenza univoca. La
castità e la frenesia sessuale non sono così due qualità che segnalano un personaggio, ma i
due estremi di un filo che attraversa il testo.
Se Isotta dalla Bianche Mani eccede rispetto all’etichetta della castità, il suo doppio Isotta
la Bionda travalica la connotazione ipersessuata e raggiunge, in alcuni punti del romanzo, il
versante opposto.
Il manoscritto Douce racconta come Tristano e Isotta la Bionda abbiano vissuto, in un
fugace incontro, qualche momento di felicità; ma poi Tristano è dovuto ripartire420. Ormai a
conoscenza delle pene dell’innamorato, che si strugge nel languore per la lontananza e che
vive nella castità, Isotta vuole condividere pari sofferenze421:
Pur lui s’esteut de maint afeire
Qui a sa bealté sunt cuntraire,
è salita sulle mie cosce più in alto di quanto fece mai mano d’uomo, dove Tristano non si spinse mai. Fratello,
ora ve ne ho detto il motivo).
419
Si veda Jean-Charles HUCHET, Littérature médiévale et psychanalyse. Pour une clinique littéraire, Paris,
PUF, 1990, pp. 43 ss.
420
Cfr. vv. 2149 ss.
421
Sul tema della sofferenza si veda, in particolare, Jean LARMAT «La souffrance dans le Tristan de
Thomas», in Mélanges de langue et littérature françaises du Moyen-Age offerts à Pierre Jonin, Aix-enProvence, CUER MA, 1979, pp. 369-385.
129
E meine en grant tristur sa vie.
E cele qui est veire amie
De pensers e de grant suspires,
E leise mult de ses desirs:
Plus leale ne fud unc veüe;
Vest une bruine a sa char nue.
Iloc la portoit nuit e jur,
Fors quant culchot a sun seignur.
Ne s’en aparceurent nient.
Un vou fist e un serement
u’ele ja mais ne l’ostereit
Se l’estre Tristan ne saveit422.
Nell’ottica del personaggio immagine, della rete di richiami che muove dall’uno all’altro e
dall’altro all’uno, il cilicio indossato da Isotta la Bionda rappresenta il punto più alto di
abolizione del confine tra lei e Isotta dalla Bianche Mani. Il simbolo della passione amorosa,
dell’avvenenza nefasta cui è impossibile non cedere, l’oggetto del desiderio di sovrani e
cavalieri, frustra il suo corpo, lo piega alla sofferenza e a una simbolica castrazione, lo fa
accedere a quella zona d’ombra di negazione dell’eros che incombe sulla relazione tra
Tristano e la moglie. La parte finale del romanzo sembrerebbe confutare questa confusione
dei due profili che il testo ci ha finora additato: mentendo, per vendetta, sul colore della vela,
Isotta dalle Bianche Mani si connota come l’antagonista che avvia la tragedia finale, ben
contrapposta alla sua omonima. Ma è forse possibile spingersi oltre un’impostazione
funzionale, attenta alle azioni, e concentrarsi invece sulle intenzioni, leggendo tra le righe uno
sviluppo che la superficie nasconde, poiché l’impressione è che, ancora una volta,
parallelamente all’intreccio della leggenda, il testo tracci, nello scandaglio psicologico che
propone, altre vie.
3. Immunità-non immunità all’eros: verso una polifonia dei personaggi
Nella fine del romanzo troneggiano i versi che riportano il discorso diretto di Tristano, il
quale si concluderà con una triplice invocazione a Isotta, prima che il ferito a morte «rent
422
Vv. 2179-2192 (Per lui s’impone molte prove che vanno contro la sua bellezza, e passa la sua vita in
grande tristezza. Si dimostra una perfetta amante, nei pensieri e nei profondi sospiri, tanto leale nei suoi desideri:
non ne fu vista una più leale; porta un cilicio sulla pelle nuda, lo porta giorno e notte, tranne quando si corica con
il suo signore. Nessuno si è accorto di niente. Fece il voto e il giuramento che non l’avrebbe tolto fino a che non
avesse avuto notizie di Tristano). Sulla bruine del v. 2186 si veda Marchello-Nizia: «Il s’agit bien d’un cilice»
(«Notes et variantes», in ed. Pléiade, pp. 1248-1287, p. 1274).
130
l’esprit»423. Il filtro del punto di vista di Tristano segna tutta la fine della storia, impregna lo
spirito del testo, le sue parole alterano e pilotano la percezione della vicenda, il lettore legge
con gli occhi del protagonista:
Dunt a Tristan si grant dolur,
Unques n’out n’avrad maür;
E turne sei vers la pareie,
Dunc dit: «Deus salt Ysolt e mei!
Quant a moi ne volez venir,
Pur vostre amur m’estuet murrir.
Jo ne puis plus tenir ma vie.
Pur vus muer, Ysolt, bele amie.
N’avez pité de ma langur,
Mais de ma mort avrez dolur424.
Dalla visuale di Tristano, Isotta «non è voluta venire», non ha avuto pietà della sua
sofferenza. La crudeltà che il livello dell’intreccio attribuisce a Isotta dalle Bianche Mani, è
attribuita, dallo sguardo di Tristano, a Isotta la Bionda425. Come già nella lunga riflessione che
ha preceduto il matrimonio, il filtro del protagonista confonde i confini tra le due donne: non
si tratta di crudeltà dell’una o dell’altra, si tratta della non pietà di Isotta, senza specificazioni
ulteriori. In quell’atto finale, in quel delitto indiretto, Isotta sembra portare a termine il
progetto della scena del bagno raccontata in Goffredo di Strasburgo, quando, scoperto che
Tristano era l’assassino di suo zio, lo avrebbe, se non fosse stato per l’intervento della madre,
trafitto con la spada426. Nel delirio del protagonista, la sua storia, storia da sempre intrecciata
di amore e di odio, di amore nonostante l’odio, trova un esito che era già inscritto in essa: il
male, semplicemente, in un regolamento di conti dal primitivo sapore, torna indietro, e
Tristano muore di quella stessa ferita fatale che inferse al Moroldo 427 (e che Isotta, questa
423
V. 3196 (spira).
Vv. 3183-3192 (Allora Tristano provò un grande dolore, come mai ebbe, né ne avrà maggiore, e si volta
verso il muro e dice allora: «Dio salvi Isotta e me! Poiché da me non volete venire, devo morire per il vostro
amore. Non posso più trattenere la mia vita. Per voi muoio, Isotta, bell’amica. Non avete pietà della mia
sofferenza, ma avrete dolore della mia morte).
425
Sul personaggio di Isotta nella scena finale si veda Toril MOI, «She Died Because She Came Too Late…
Knowledge, Doubles and Death in Thomas’s Tristan», Exemplaria, 4, 1992, pp. 105-133 (anche in Id., What is a
Woman? And Other Essays, Oxford, Oxford University Press, 2001, pp. 422-450). Sulla conclusione del
romanzo di Thomas si rimanda, inoltre, a: PIERRE LE GENTIL, «Sur l’épilogue du Tristan de Thomas, in
Mélanges de littérature du Moyen Age et du XXe siècle offerts à Mademoiselle Jeanne Lods, Paris, Collection de
l'École Normale Supérieure de Jeunes Filles, 1978, v. I, pp. 365-370; Matilda T. BRUCKNER, «The
Representation of the Lovers’ Death: Thomas’ Tristan as Open Text-Gothic Type, Tristania, 9, 1983, pp. 49-61;
Jonna KJAER, «Le déguisement dans les ‘Folies Tristan’ et la mort chez Thomas d’Angleterre», in OLLIER,
Masques et déguisements dans la littérature médiévale, pp. 65-73.
426
Cf. ed. Pléiade, pp. 517 ss.
427
Su questo concetto di male che torna indietro, di eccesso di energia pulsionale come modo d’essere del
personaggio che gli si ripercuote contro, rimando a Giovanni BOTTIROLI, «Non diventare io. Ercole nel teatro
424
131
volta, non curerà)428.
Abbiamo visto nel secondo paragrafo, analizzando l’episodio del mariage, come Thomas
trasferisca il motivo della doppiezza delle due Isotta in un’elucubrazione di Tristano. La
percezione che Tristano ha dell’evento finale della storia conferma questa visione secondo cui
Thomas, con una raffinata elaborazione della trama della leggenda, trasporta il motivo del
doppio nel soliloquio dai toni onirici di Tristano, lo filtra attraverso lo sguardo del
protagonista, facendo di una traccia primitiva e dai tratti fiabeschi uno strumento d’analisi
introspettiva, che, nello stesso tempo, diventa il luogo di rappresentazioni di notevole effetto.
I volti delle due donne s’intersecano, si fondono, trascendono ogni concreta materialità, per
farsi immagine fantasmatica che incarna quell’intrico imponderabile di amore e odio che
attraversa il tessuto del romanzo. La confusione occasionata dalla coincidenza dei nomi e
dall’equiparabile bellezza diventa quasi una confusione di azioni, come se l’indistinzione tra i
due personaggi, l’annullamento delle differenze operato dal monologo di Tristano
coinvolgesse anche il piano della condotta, configurando un’unica grande e terminale azione
nefasta che, senza portare la firma di nessuno, è ascrivibile al rancore di cui una donna è
capace. Nel suo discorso misogino, Thomas si è premurato di mettere in guardia dall’ira delle
donne:
Ire de femme est a duter,
Mult s’en deit chascuns garder.
Car la u plus amé avra,
Iluc plus tost se vengera.
Cume de leger vent lur amur,
De leger vent lur haür,
E plus dure lur enimisté,
uant vent, que ne fait l’amisté.
L’amur ne sevent amesurer,
E la haür nent atemprer,
Itant cum eles sunt en ire429.
Il commento con cui il narratore introduce i propositi di vendetta d’Isotta dalla Bianche Mani
assume una portata generica, che getta un’ombra su tutto il versante femminile del sistema dei
greco», in Luca Carlo ROSSI, a cura di, Le strade di Ercole. Itinerari umanistici e altri percorsi, Firenze,
Edizioni del Galluzzo, 2010, pp. 151-167.
428
Come scrive Moi, «Tristan’s death is excessively overdetermined» (MOI, What is a Woman?, p. 448).
429
Vv. 2749-2 59 (L’ira delle donne è da temere, ognuno se ne deve guardare. Perché, su chi avrà amato di
più, più presto si vendicherà. Come facilmente viene il loro amore, facilmente viene il loro odio, e, quando
viene, l’inimicizia dura più di quanto non faccia l’amicizia. Sanno amare con misura, ma non sanno moderare
l’odio, quando sono in collera).
132
personaggi430.
Un’altra figura di doppio aleggia intorno all’immagine d’Isotta, figura dalla specularità
sicuramente meno immediata di quella con Isotta dalla Bianche Mani: si tratta della fedele
compagna Brangania431. Benché di ardua leggibilità, il frammento di Carlisle432 mostra, nel
racconto che dà della prima notte di nozze tra Marco e Isotta in cui Brangania si sacrifica
prendendo il posto della regina, l’intercambiabilità tra i due personaggi:
[B]ranguain s’ap[areille e äurne],
Cum reïne fust [sei aturne];
Pur sa dame [met sei el lit],
E la reïne [vest l’abit]433.
La ricostruzione dei quattro versi ritrae l’abbandono fedele, se non servile, con cui Brangania
ha ceduto alla richiesta d’Isotta, la quale, avendo perduto la sua verginità con Tristano, chiede
alla giovane donna di sostituirla nel letto nuziale perché Marco non si accorga di nulla.
Brangania si connota, dunque, come colei che ha immolato, in nome della fedeltà alla regina,
la sua purezza, e lo scambio delle vesti e del ruolo, svoltosi con la complicità del buio nella
camera, ne fa un’appendice d’Isotta, un suo surrogato.
uest’immagine fedele di Brangania è
destinata, però, a vacillare.
Il frammento Douce riporta un lungo e rancoroso discorso di Brangania a Isotta, il cui
antefatto, assente nei frammenti di Thomas, è ricostruibile sulla base delle altre versioni
pervenute. Dopo aver ammirato nella sala delle statue l’effige di Brangania, Caerdino se ne
innamora e vuole accompagnare Tristano alla corte di Cornovaglia per conoscerla. Qui,
mentre Tristano e Isotta vivranno uno dei loro fugaci idilli d’amore, Brangania e Caerdino
faranno altrettanto, finché Tristano non sarà costretto a partire nuovamente per fugare i
sospetti di Marco, e il cognato, compagno fedele, lo seguirà. Brangania interpreterà la
partenza come un’offesa nei suoi confronti, dichiarando tutti i sintomi della donna sedotta e
abbandonata, e accusando Isotta di essere una volgare ruffiana. Si spingerà a rinfacciare alla
430
Sulla misoginia si veda Meritt R. BLAKESLEE, «Misogynie, fin’amur, et ambiguïté dans le Tristan de
Thomas, PRIS-MA, 7, 1991, pp. 1-16. Un ridimensionamento della presunta misoginia di Thomas è proposto da
FOEHR-JANSSENS, secondo cui, benché il narratore appaia misogino, il gioco polifonico della scrittura complica
le cose, rendendo non semplice esprimersi in merito alla valutazione del femminile nel romanzo di Thomas
(Yasmina FOEHR-JANSSENS, «Iseut ou la fin’amor rejouée», in Id., La jeune fille et l’amour, Genève, Droz,
2010, pp. 115-143).
431
Su Brangania come doppio d’Isotta si vedano: MILLAND-BOVE, La Demoiselle arthurienne, p. 288 ss.,
FOEHR-JANSSENS, «Iseut ou la fin’amor rejouée», pp. 123 ss.
432
Cfr. Michael BENSKIN - Ian SHORT, «Un nouveau fragment du Tristan de Thomas», Romania, 113,
1995, pp. 289-319.
433
Vv. 131-134 (Brangiana si prepara e si adorna, come se fosse la regina; al posto della sua signora s’infila
nel letto, e la regina veste i suoi abiti).
133
regina tutto quello che ha subito a causa sua:
«Dame, dit Brengvein, morte sui!
Mar vi l’ure que vus cunui,
E vus e Tristan vostre ami!
Tut mun païs pur vus guerpi,
E pus, pur vostre fol curage,
Perdi, dame, mun pucelage.
Jol fiz certes pur vostre amur;
Vus me pramistes grant honur,
E vus e Tristan le parjure,
Ki Deu doinst ui mal aventure
E dur encumbrer de sa vie!
Par li fu ge primer hunie.
Membre vus u vus m’enveiastes:
A ocire me cummandastes.
Ne remist en vostre fentise
Que par les sers ne fui ocise:
Melz me valuit la lur haür,
Ysolt, que ne fiz vostre amur434.
Si noti come, a ribadire le affinità tra i due personaggi, sia messa in evidenza la condizione di
straniera di Brangania, tratto che caratterizza in maniera prominente – e speculare – anche
Isotta: donne strappate alla propria terra, Isotta per essere data in sposa a un uomo che
neanche conosceva, Brangania per seguirla435.
Nel passo citato, Brangania fa riferimento a un episodio non pervenuto nel romanzo di
Thomas e ricavabile da quello di Goffredo: Isotta, timorosa che Brangania possa raccontare a
Marco della sua relazione adultera con Tristano, ordina a due servitori di ucciderla, ma questi,
mossi a pietà dalla donna, le risparmieranno la vita436. Nonostante questo cruento gesto da
parte d’Isotta, Brangania era ritornata al suo posto di fedele compagna, ma ora qualcosa
sembra essere cambiato:
Pur quei n’ai quis la vostre mort,
Quant me la quesistes a tort?
Cel forfez fud tut pardoné;
Mes ore est il renovelé
Par l’acheisun e par l’engin
434
Vv. 1423-1440 («Signora», dice Brangania, «sono morta. Fu infelice per me l’ora che vi conobbi, voi e il
vostro amico Tristano! Ho abbandonato il mio paese per voi. Poi, per la vostra folle passione, ho perduto,
signora, la mia verginità. L’ho fatto, certo, per amore vostro; Mi prometteste grande onore, voi e Tristano lo
spergiuro, che Dio gli riservi la peggiore sorte ora e renda dura la sua vita. A causa sua fui disonorata per la
prima volta. Ricordatevi dove mi inviaste: ordinaste di uccidermi. Non fu certo per merito vostro che non fui
uccisa dai servi: mi valse di più il loro disprezzo, Isotta, di quanto non fu il vostro amore).
435
Isotta, nella sua replica, chiederà a Brangania, che vuole separarsi da lei, di considerare la fine che
farebbe se l’abbandonasse, lasciandola «en terre estrange, senz ami» (v. 1542; in terra straniera, senz’amici).
436
Cfr. GOTTFRIED DE STRASBOURG, «Tristan et Isolde», in Tristan et Yseut. Les premières versions
européennes, pp. 389-635, pp. 552-553.
134
Que fait avez de Kaherdin437.
Isotta avrebbe spinto, in una cieca crudeltà, Caerdino a sedurre Brangania per
comprometterla, duplicando la ferita inferta con il sacrificio della sua verginità. Inoltre, i
rimproveri di Brangania non sono rivolti alla sola Isotta, ma coinvolgono anche Tristano. La
coppia viene accusata di manipolare persone e sentimenti pur di appagare il proprio desiderio
di unirsi: la storia d’amore di Tristano e Isotta, dopo la delusione avuta dalla sua relazione con
Caerdino, diventa per Brangania – la quale pure aveva tanto protetto quella storia – oggetto di
rancore.
Stando alla teoria del desiderio mimetico di Girard, di cui abbiamo parlato nel primo
capitolo (cfr. supra I. ), sembrerebbe che qui la sparizione delle differenze, l’esasperazione
dell’ombra del doppio, stia facendo degenerare la situazione, caricandola di competizione e
rivalità438. L’esperienza dell’amore, l’idillio vissuto con Caerdino (di cui purtroppo non ci
resta traccia nel romanzo, rendendo inevitabilmente il tutto basato su supposizioni), deve aver
fatto scattare in Brangania un odio acuto nei confronti d’Isotta.
uest’odio è alimentato non
tanto dai torti subiti, torti per cui avrebbe potuto odiarla ben prima, ma dal meccanismo
d’identificazione che si è scatenato in lei: Brangania vorrebbe per sé una storia come quella di
Tristano e Isotta, mentre si è finora accontentata di essere al servizio di quella storia. Delusa
dal comportamento di Caerdino, che credeva un cavaliere degno di questo nome e che invece
è, nella sua visione distorta, fuggito via spaventato da Cariado (ossia dal meno valoroso dei
cavalieri), rimprovera a Isotta di averla gettata tra le braccia di un vigliacco:
Guardé vus en dessornavant,
Car de vus me quid ben vengier.
Quant me vulez marier,
Pur quei ne me dunastes vus
A un hume chevalerus?439
La competizione mimetica corre di pari passo con la doppiezza; come Isotta è divisa tra
l’amore di un re e quello del primo tra i cavalieri, Brangania pretende per sé un «hume
chevalerus». Non si vendicherà rivelando a Marco tutta la verità (o, meglio, tutte le verità),
437
Vv. 1445-1450 (Perché non ho chiesto la vostra morte, dal momento che voi avete chiesto ingiustamente
la mia? Questo misfatto ve lo perdonai, ma ora voi lo rinnovate con questa macchinazione, con quest’inganno
che tramate con Caerdino).
438
Sul punto si rimanda a Pierre LE GENTIL «A propos du mariage de Tristan et de la colère de Brangain
dans le romans de Thomas», in Mélanges de philologie romane offerts à Charles Camproux, Montpellier, Centre
d’Estudis Occitans, 19 , pp. 4 1-405.
439
Vv. 1572-15 6 (State in guardia d’ora in avanti, poiché ho intenzione di vendicarmi di voi. Se volevate
darmi in moglie, perché non mi avete dato a un vero cavaliere?).
135
ma procederà, meno crudelmente e più sottilmente, depistando i sospetti di Marco sulla
relazione di Tristano e Isotta e facendogli invece intravedere una possibile relazione tra Isotta
e Cariado, ottenendo così la responsabilità di una vigilanza serratissima sulla regina:
Ore est Ysolt desuz la main
E desuz le conseil Brengvein:
Ne fait ne dit privement
u’el ne seit al parlement440.
Quando Tristano, nuovamente in preda alla nostalgia per Isotta, metterà in atto uno dei suoi
mascheramenti per raggiungere in incognito la corte di Cornovaglia e incontrare l’amata,
Brangania rivelerà il suo nuovo volto. Il frammento Douce vede, infatti, Tristano travestito da
lebbroso, nel giorno in cui si celebra una grande festa a cui partecipano i sovrani. Appena la
regina è uscita dal palazzo, il lebbroso comincia a seguirla fino alla chiesa in cui si celebrerà
la messa a cui Isotta e Marco assisteranno, chiedendole insistentemente l’elemosina. Isotta
tarda a riconoscerlo, ma, quando ciò avviene, vuole fargli dono dell’anello che porta al dito:
Un anel d’or trait de sun dei,
Ne set cum li puisse duner:
En sun hanap le volt geter.
Si cum le teneit en sa main,
Aparceüe en est Brengven:
Regarde Tristan, sil cunut,
De sa cuintise s’aparçut;
Dit lui qu’il est fols e bricuns,
Ki si embat sur les baruns;
Les serjanz apele vilains,
Qui le suffrent entre les seins,
E dit a Ysot qu’ele est feinte:
«Des quant avez esté si seinte
Que dunisez si largement
A malade u a povre gent?
Vostre anel doner li vulez:
Par ma fei, dame, nun ferez»441.
Brangania ordina ai servitori di buttare fuori dalla chiesa il lebbroso. Il frammento mostra,
insomma, un altro volto della donna – si potrebbe parlare di una vera metamorfosi. Aveva
sopportato di sacrificare la propria verginità, aveva sopportato di rischiare di essere uccisa per
440
Vv. 1903-1906 (Ora Isotta è sotto la guardia e l’autorità di Brangania: non fa né dice in privato nulla se
non in sua presenza).
441
Vv. 1984-2000 (Si sfila dal dito un anello d’oro, non sa come possa darglielo: lo vuole gettare nella
coppa. Mentre lo teneva ancora tra le mani, Brangania se ne accorse: guarda Tristano, lo riconobbe, capì
l’astuzia; gli dice che è folle e dissennato a presentarsi così davanti ai baroni; chiama rozzi i servitori che lo
tolleravano tra la gente sana, e dice a Isotta che è ipocrita: «Da quanto siete così santa da donare così
generosamente ai malati e ai poveri? Volete dargli il vostro anello: in fede mia, signora, non lo farete»).
136
volontà d’Isotta, senza che tutto ciò apportasse in lei il minimo cambiamento, ma
cristallizzandola, al contrario, in una maschera fissa, maschera della fedele compagna,
imperturbabile nel suo essere asservita. L’unico evento capace di smuovere quella maschera è
stata la fugace storia con Caerdino, quell’illusione di poter vivere un idillio amoroso pari a
quello di cui è stata artefice (lei, che ha servito il filtro al posto del vino) e supporto. Quella
doppiezza che finora era stata mero motivo di superficie, che aveva trovato una
rappresentazione puramente formale nello scambio delle vesti durante la prima notte di nozze,
fa esplodere ora il dramma della competizione, del desiderio mimetico, del desiderio di essere
come l’altro.
Brangania appare insondabile, passa, potremmo dire, dalla parte del nemico, e la sua
metamorfosi offre al testo l’occasione di compiere una virata inaspettata. In effetti, i due
amanti non sono mai stati realmente ostacolati nei lori incontri come in questo momento; gli
stratagemmi messi in atto da Tristano e Isotta hanno sempre avuto la meglio su Marco, sui
baroni, su nani e delatori, e, benché con tutte le conseguenze del caso, i loro fugaci incontri si
sono sempre realizzati. Ora, la negazione proviene proprio da colei che ha sempre costituito il
loro punto fermo, il loro appoggio, negazione che appare marcatamente crudele, se si
considera che Tristano, in preda alla disperazione, rischierà la morte442.
La svolta di Brangania e la particolare elaborazione del motivo della doppiezza delle due
donne sembrano costituire un asse di strutturazione del romanzo. Se con il precedente caso di
doppio, quello di Isotta la Bionda e Isotta dalle Bianche Mani, abbiamo parlato di asse della
negazione dell’eros, qui la questione si svincola dalla sfera prettamente sessuale, legata
all’assillo per il corpo e per l’unione fisica, e pare che sia sottoposta a una qualche
sublimazione. Sembra che, tra i frammenti Sneyd e il frammento Douce, il testo si sposti da
quella che abbiamo definito un’oscillazione tra negazione e non negazione dell’eros, a una più
complessa oscillazione tra immunità e non immunità all’eros. Brangania si collocava, prima
dell’incontro con Caerdino, al di qua della linea di demarcazione, in evidente antitesi con la
coppia dei protagonisti, condannati dall’assunzione del filtro a un’immunità zero. Entrata in
contatto con la realtà dell’esperienza amorosa, che finora aveva vissuto da spettatrice,
standone ai margini, il demone del doppio scatena i suoi meccanismi di proiezione, reclama
un trattamento pari a quello del modello d’identificazione.
442
Tristano, dopo il travestimento da lebbroso e l’ostacolo creato da Brangania al ricongiungimento con
Isotta, si rifugia, preso dallo sconforto, in un sottoscala, dove patisce la sofferenza e il digiuno (vv. 2009 ss.). Per
il riferimento alla leggenda di Sant’Alessio, si veda PIZZORUSSO, «La clergie di Thomas. L’intertesto
agiografico-religioso», p. 342.
137
In realtà, questa prospettiva, questo essere al di qua o al di là di una linea che marca
l’immunità all’eros, potrebbe coinvolgere l’intero sistema dei personaggi, fino a rappresentare
una possibile isotopia del testo, una forma di coerenza che attraversa, pur nella
frammentarietà degli episodi a nostra disposizione, lo sviluppo del romanzo. Proveremo ad
approfondire quest’idea analizzando l’altro caso di doppio proposto da Thomas, quello tra
Tristan l’Amerus e Tristan le Nains.
Abbiamo già precisato come, nel gioco delle specularità imbastito da Thomas, siamo ben
lontani dal doppio a carattere perturbante della letteratura fantastica moderna. Eppure, nel
caso che ci accingiamo ad analizzare, si potrebbe dire che qualcosa dell’apparizione
perturbante del doppio ci sia, con quell’effetto di furto dell’identità descritto da Freud e Rank.
Tristano e Caerdino, attraversando la Blanche Lande, vedono arrivare alla loro destra un
misterioso cavaliere:
Mult par fud richement armé,
Escu ot d’or a vair freté,
De meïme le teint ot la lance,
Le penun e la conisance.
Une sente les vent gualos,
De sun escu covert e clos.
Lungs ert e grant e ben pleners,
Armez ert e beas chevalers.
Entre Tristan e Kaherdin
L’encuntre attendent el chimin.
Mult se merveilleient qui ço seit443.
L’eleganza e la bellezza del cavaliere fa scattare una fervida ammirazione, che assume ancora
più spessore se si considera che, nell’antefatto, è stato descritto sinteticamente un periodo
glorioso per Tristano e Caerdino, i quali, divisi tra caccia e tornei, si dimostrano sempre primi
in «chevalerie» e «honur»:
En Bretaigne sunt repeiré
Tristan e Kaherdin haité,
E deduient sei leement
Od lur amis e od lur gent,
E vunt sovent en bois chacer
E par les marches turneier.
Il orent le los e le pris
Sur trestuz ceuz del païs,
443
Vv. 2335-2345 (Portava delle armi splendide, uno scudo d’oro ornato di vaio, e una lancia con la
banderuola e l’insegna dello stesso colore. Viene a galoppo verso di loro attraverso un sentiero, ben protetto dal
suo scudo. Era slanciato, grande e di bella prestanza, ben armato, un magnifico cavaliere. Tristano e Caerdino
attendono l’incontro sul cammino. Sono curiosi di sapere chi sia).
138
De chevalerie e de honur444.
Tristano domanda al misterioso cavaliere dove stia andando e quale urgenza lo renda così
ansioso di raggiungere la meta; lo straniero risponde con un’altra domanda:
«Sire, dit dunc li chevaler,
Savét me vus enseigner
Le castel Tristan l’Amerus?».
Tristan dit: «Que li vulez vus,
U ki estes? Cum avez vus nun?
Ben vus merrum a sa maisun;
E s’a Tristan vulez vus parler,
Ne vus estut avant aler,
Car jo sui Tristan apellez.
Or me dites que vus volez»445.
Il testo continua a proporre un ambiguo gioco delle identità. Tristano, al contrario della sua
amata, non ha mai avuto bisogno di denominazioni ulteriori che lo contraddistinguessero,
mentre, dalla prospettiva del suo doppio, diventa Tristan l’Amerus, modello di amante
perfetto. Si noti come Tristano controbatta «jo sui Tristan apellez», quasi a evidenziare
un’unicità, l’inutilità di specificazioni. Tristano il Nano è lieto di aver trovato chi cercava;
spiega di aver bisogno d’aiuto per liberare la sua amata dalla prigionia cui la costringe Estout
l’Orgoglioso, che l’ha rapita e segregata nel suo castello. Ha pensato di rivolgersi a chi
conosce bene le pene d’amore, le sofferenze che nascono dalla perdita di chi si ama:
Sire Tristan, oï l’ai dire,
Ki pert iço qu’il plus desire,
Del surplus deit estre poy.
Unkes si grant dolur nen oi,
E pur ço sui a vus venuz:
Dutes estes e mult cremuz,
E tuz li meldre chivaliers,
Li plus francs, li plus dreiturers,
E icil qui plus ad amé
De trestuz ceus qui unt esté446.
Si disegna, insomma, il ritratto dell’amante perfetto, per il quale non vale la pena vivere se
444
Vv. 2311-2319 (Contenti, Tristano e Caerdino sono tornati in Bretagna, e passano piacevolmente il loro
tempo con i loro amici e la loro gente, e vanno spesso a cacciare nei boschi e partecipano a tornei in giro per il
regno. Primeggiano su tutti quelli del paese in reputazione cavalleresca e onore).
445
Vv. 2351-2360 («Signore», dice dunque il cavaliere, «sapresti dirmi dove si trova il castello di Tristano
l’Innamorato?». Tristano risponde: «Che cosa volete da lui? E chi siete? Qual è il vostro nome? Vi condurremo
volentieri alla sua casa; e se volete parlare a Tristano, non c’è bisogno che andiate più lontano, perché io sono
chiamato Tristano». Ora ditemi che cosa volete»).
446
Vv. 2381-2390 (Sir Tristano, ho sentito dire che, se si perde ciò che più si desidera, il resto conta poco.
Non ho mai sentito un così gran dolore, e per questo sono venuto da voi: siete temuto e rispettato, il migliore di
tutti i cavalieri, il più franco, il più onesto, e, di tutti gli uomini, quello che ha più amato).
139
viene meno l’oggetto dei suoi desideri; Tristano il Nano si rivolge a chi è per lui il modello
dell’innamorato, modello di cui riconosce la superiorità rispetto a qualunque altro, anche
rispetto a se stesso. Ma corrisponde veramente Tristano a questo modello, a questa pretesa?
Ritorniamo a considerare l’antefatto della vicenda e il punto in cui Thomas colloca
quest’incontro con il doppio.
Tristano e Caerdino, dopo essersi separati da Isotta e Brangania, si dividono tra tornei e
feste, sembrano felici, passano il lor tempo con amici e compagni d’armi, vanno a caccia,
primeggiano fra tutti. Certo, le pene d’amore non sono mai del tutto abbattute, ma basta loro
rifugiarsi di tanto in tanto nel bosco «pur veer lé beles ymages»447. Il protagonista del
romanzo di Thomas, così smarrito nel suo sentimento e così avvezzo a lamentare le sue pene
d’amore, sembra che abbia trovato qui una vaga forma di quiete dalla passione ardente per
Isotta. Mi pare, allora, che l’intervento del doppio, con quella sua evocazione di un modello
impeccabile dell’amante, assuma un qualche tono ironico, cogliendo il protagonista proprio
nel momento in cui maggiormente si è allontanato dal modello che ha sempre incarnato alla
perfezione. Eloquente, in questo senso, la risposta di Tristano:
Dunc dit Tristan: «A mun poeir
Vus aiderai, amis, pur veir.
Mes a le hostel ore en alum,
Contre demain nus aturnerum,
Et si parfeisums la busunie»448.
Rinviando l’affare all’indomani, Tristano mostra la sua lontananza dal modello. Il cavaliere si
convince, allora, di non avere davanti l’uomo che cercava, perché il vero Tristano
compatirebbe il suo dolore, sapendo fino a che punto può spingersi la sofferenza degli amanti;
il vero Tristano non gli lascerebbe prolungare l’atroce pena:
E vus, amis, que ren n’amez,
Ma dolur sentir ne poëz.
Si ma dolur pussét sentir,
Dunc vuldrïez od mei venir.
A Deu seiez! Jo m’en irrai
Quere Tristan, quel troverai.
N’avrai confort se n’est par lui.
Unques si esguaré ne fui.
E! Deus! Pur quei ne pus murir,
Quant perdu ai que plus desir?
447
V. 2322 (per vedere le belle statue). L’episodio, qui solo accennato, è sviluppato da Goffredo (cfr.
GOTTFRIED DE STRASBOURG, «Tristan et Isolde», pp. 600-604).
448
Vv. 2397-2401 (Dice allora Tristano: «Per quanto è in mio potere, vi aiuterò, amico, in verità. Ma ora
rientriamo, domattina ci prepareremo e risolveremo l’affare).
140
Meuz vousise la meie mort,
Car jo n’avrai nul confort,
Ne hait, ne joie en mun curage
uant perdu l’ai a tel tolage,
La ren el mund que plus aim449.
La lunga battuta di Tristano il Nano si estende per circa il doppio dei versi citati, suggellata da
un «Eissi se plaint Tristan Le Naim»450: il doppio sostituisce il protagonista nei suoi
ridondanti lamenti d’amore che affollano il romanzo di Thomas. Il doppio, ambiguamente,
non stimola solo uno spirito di competizione in Tristano invocando esplicitamente il modello
che questo non incarna più, ma anche, implicitamente, incarnandolo lui stesso.
È uno di quei casi, di cui si è parlato nel primo capitolo, di collasso dell’asse
paradigmatico del personaggio su quello sintagmatico (cfr. supra I.8). Le relazioni
competitive tra i personaggi sembrano improntate al riferimento a un modello astratto e
perfetto, ma questo modello cessa di essere astratto e lontano (per Girard, mediatore esterno),
per concretizzarsi in un attore ben individuabile. La frontiera tra il modello astratto che
Tristano nel suo passato incarnava e il modello concreto che ha di fronte è labile, labilità che
rende ancora più accentuato lo spirito di rivalsa, incanalato verso un desiderio di recupero di
una posizione perduta che qualcun altro occupa, appropriandosi della sua immagine. Questa la
reazione di Tristano:
L’altre Tristan en ad pité,
E dit lui: «Bels sire, ore esteez!
E par grant reisun mustré l’avez,
Que jo dei aller ove vus,
Quant jo sui Tristan le Amerus.
E jo volenteres i irrai!
Suffrez, mes armes manderai»451.
Tristano accetta l’etichetta dell’Amerus, che ribadisce il ritorno a uno status che sembrava
vacillare: l’incontro con il doppio funge da approfondimento identitario, da interrogazione ed
esplorazione dell’io452. In quest’esplorazione, Tristano riattraversa quella linea di
449
Vv. 2419-2433 (E voi, amico, che non siete innamorato, non potete sentire il mio dolore. Se poteste
sentire il mio dolore, vorreste venire con me. Addio! Io me ne andrò a cercare Tristano, e lo troverò. Non avrò
conforto se non grazie a lui. Non sono mai stato così smarrito. Dio! Perché non posso morire, quando ho perduto
ciò che più desidero? Preferirei la morte, poiché non avrò più in cuore né conforto né gioia, ora che, con questo
rapimento, ho perduto la cosa che più amo al mondo).
450
V. 2434 (Così si lamenta tristano il Nano).
451
Vv. 2436-2442 (L’altro Tristano ne ha pietà, e gli dice: «Caro signore, aspettate! Per il motivo che avete
mostrato, io devo venire con voi, giacché io sono Tristano l’Innamorato. E verrò volentieri. Permettete solo che
mandi a prendere le mie armi»).
452
Donald Maddox parla di una profondità ermeneutica degli «specular encounters»: «Medieval storytelling
tended to confront their protagonists with dramatic accounts or evocations of some part of their own history.
141
demarcazione tra immunità e non immunità all’amore di cui dicevamo. Proprio chi
rappresentava l’emblema stesso dell’amante perfetto aveva trovato una via di fuga da tale
soggezione, ma l’incontro speculare lo richiama all’ordine, costringendolo a porsi
nuovamente al di là della frontiera, suo luogo predestinato.
Tutti i personaggi del romanzo di Thomas (i pochi personaggi del romanzo di Thomas)
finiscono così per occupare questa posizione di assoggettamento alla potenza dell’eros.
Brangania e Caerdino, che sembravano gli immuni della situazione, qualificati piuttosto come
i fedeli sostenitori dell’amore di Tristano e Isotta, diventano invece i protagonisti di un nuovo
plot, di una nuova travagliata storia d’amore che s’inserisce in quella maggiore; Tristano, che
sembrava aver trovato, dopo un numero cospicuo di versi dedicati ai suoi tormenti d’amore,
un qualche equilibrio, ritorna ad essere vessillo dell’amore che si spinge fino alla morte453;
Isotta e Marco sono sempre marcatamente segnati dall’assillo amoroso; Cariado si affanna per
conquistare Isotta. Eppure qualcosa resta fuori, a controbilanciare il tutto, a creare un sistema
in cui l’ossequio all’eros non diventa mai la norma, non passa mai come dato scontato e
assodato, ma è sempre indicato, per antitesi, come un eccesso, una potenza che lacera e
divora. Uno dei personaggi non attraversa la frontiera.
4. La maschera di Thomas
La critica della letteratura medievale non può non considerare preziosi gli interventi
dell’autore, fonti d’informazioni rare su chi firma i testi, di cui le notizie sono scarse o,
spesso, inesistenti. Preziosi sono dunque i punti del nostro romanzo in cui Thomas
d’Angleterre parla di sé, si nomina, fa riferimento al proprio modo di procedere
nell’adattamento del cunte che prende in prestito da Breri454: gli interventi del narratore
diventano quindi fondamentali per scoprire, per quel poco che è possibile, l’uomo che vi è
dietro. Propongo di considerare qui una prospettiva diversa, improntata alla moderna
Consistently located at a major turning point in the intrigue, such moments are never trivial, never mechanical or
monotonously conventional. On the contrary, the specular encounter shows a virtually inexhaustible capacity for
accommodating new material, and its occurrences are typically among the most unusual and salient passages in
the entire work, and are memorable precisely by virtue of their uniqueness and arresting hermeneutic depth»
(Donald MADDOX, Fictions of Identity in Medieval France, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, p.
3).
453
Combattendo contro Estout l’Orgoglioso, Tristano si procurerà una ferita che avvierà il tragico epilogo.
454
«Mé sulun ço que j’ai oÿ, / Nel dient pas sulun Breri, / Ky solt lé gestes e lé cuntes / De tuz lé reis, de tuz
lé cuntes / Ki orent esté en Bretaingne (vv. 2273-2277: Ma secondo quello che io ho ascoltato, non rispettano la
versione di Breri, che conosceva le imprese e i racconti di tutti i re e di tutti i conti vissuti in Bretagna).
142
narratologia.
È noto come, da un punto di vista narratologico, sia considerato un errore identificare la
voce narrante di un testo con il suo autore, con un uomo reale che sia estraneo al mondo-testo.
Nel nostro caso, poi, non si tratta di una voce impersonale, ma di una persona (con tutta
l’ambiguità del termine) che si nomina, che racconta di aver recepito una storia e di averla
adattata – incorniciando quindi il racconto –, una voce che filtra gli eventi esprimendovi il
proprio parere. Se, sicuramente, questa voce costituisce una maschera di Thomas, potremmo
considerarla, nel suo permeare profondamente la logica del testo, un personaggio pienamente
inserito nel sistema:
Hici ne sai que dire puisse,
Quel de aus quatre a greignor angoisse,
Ne la raison dire ne sai,
Por ce que esprové ne l’ai455.
Mais jo nen os mun ben dire
Car il n’afert nient a mei456.
La maschera di Thomas interviene ad affermare la sua estraneità ai sentimenti e alle vicende
degli attori, costituendo il grado massimo di quella immunità all’eros di cui abbiamo detto.
Bertolucci Pizzorusso ha rilevato come, dichiarando insistentemente questa estraneità,
Thomas prenda le distanze dai suoi personaggi per imbastire un discorso razionalmente
organizzato sulle conseguenze a cui può condurre l’amore:
Schematizzando, possiamo dire che, conferendo a se stesso attraverso la maschera del
narratore la minima, ed al suo interlocutore la massima, competenza in una materia
che richiedeva decise e rinnovate dichiarazioni pro e contro […], egli è libero di
prendere da essa la distanza necessaria per assumersi il ruolo puramente tecnico
dell’analista, il quale fornisce i dati elaborati (la parole mettrai avant), senza la
responsabilità della diagnosi (jugement). In tale veste egli isola artificiosamente nello
spazio nudo del suo laboratorio i personaggi e ne scruta a fondo, con un distacco
tuttavia dolente, la complessità sentimentale e i comportamenti, alla ricerca, che
risulterà vana, di un principio razionale e etico coerente, di una ratio (raisun) che
riesca a dominare la mutevole, scomposta nature457.
La studiosa, interessata a un’analisi del discorso narrativo di Thomas, cerca di sviscerare
455
Vv. 1238-1241 (Ora io non so che cosa dire, chi dei quattro sente il dolore più grande, né so dirne la
ragione, perché non l’ho provato).
456
Vv. 2760-2761(Ma non oso dire nulla a riguardo, poiché la cosa non mi coinvolge).
457
Valeria Bertolucci PIZZORUSSO, «Il discorso narrativo su Tristano e Isotta», in Id., Morfologie del testo
medievale, Bologna, il Mulino, 1989, p. 15.
143
l’intentio auctoris, laddove a noi preme mettere in luce l’intentio operis458. Nel sistema testo
la voce di Thomas è distaccata solo apparentemente, distacco che si annulla nel momento in
cui si adotta la visione relazionale del personaggio che qui indaghiamo.
Il polo estremo rappresentato dalla maschera di Thomas è, in quest’ottica, riferimento
costituente dell’intero sistema dei personaggi; il personaggio Thomas scivola inevitabilmente
all’interno del racconto, la sua maschera ne viene catturata. Considerarlo l’autore che
rappresenta le pene d’amore altrui significherebbe postulare una dicotomia che non rende
merito al romanzo. Thomas non si limita a rappresentare quattro individui sopraffatti
dall’amore, ma ne rappresenta, come abbiamo visto, le oscillazioni, i passaggi da un grado
massimo a uno minimo d’immunità all’assillo amoroso, i tentativi da parte del soggetto di
spossessamento rispetto alla potenza dell’eros. In queste oscillazioni, il riferimento alla voce
di chi non conosce nulla dell’amore è fondante, e questa voce non rinvia semplicemente a un
giudice scrutatore che analizza con estrema raffinatezza i moti dell’animo, ma rappresenta un
riferimento interno al sistema dei personaggi, riferimento che non isola e si isola, ma, al
contrario, scende, s’inserisce, si frappone, opera da modello e da contro-modello. Del resto,
l’ombra di una contraddizione si stende sul punto di vista di Thomas: pur dichiarandosi
estraneo alle sofferenze dell’amore, ne conosce così profondamente i movimenti. Il
personaggio Thomas, più che descrivere e analizzare con distacco i suoi personaggi,
rappresenta il distacco, rappresenta cioè quell’al di qua della frontiera su cui si modellano gli
attori.
Da questa prospettiva, ogni interpretazione moraleggiante459 appare fuorviante: il
romanzo di Tristano e Isotta non rappresenta i danni cui può indurre l’amore, ma la perenne
altalena cui l’amore sottopone l’umano, il destreggiarsi del soggetto tra tentativi di
spossessamento e il costante richiamo di una forza che lo trascende – soggetto mai dato, ma
sempre in cerca di se stesso.
La sofferenza che accompagna queste oscillazioni è rappresentata, pur nell’isolamento di
ciascuno dei personaggi, in una coesione corale:
Entre ces quatre ot estrange amor:
Tut en ourent painne et dolur,
458
Il riferimento è alla nota terminologia di Eco: «Bisogna cercare nel testo ciò che esso dice in riferimento
alla propria coerenza contestuale e alla situazione dei sistemi di significazione a cui si rifà (Umberto ECO, I limiti
dell’interpretazione, Milano, Bompiani, 1990, p. 22).
459
Sugli aspetti morali del romanzo si veda, tra gli altri, Xenia VON ERTZDORFF, «L’amour parfait des
amants et le conflits de morale. Gottfried von Strassburg et Thomas de Bretagne», in BUSCHINGER, La
légende de Tristan au Moyen Age, pp. 113-119.
144
E un e autre en tristur vit,
E nun d’aus nen i a dedeuit460.
Nel quartetto461, i personaggi perdono la loro autonomia per farsi pure voci di sofferenza,
ombre di dolore – quel quartetto può allargarsi fino a tangere le figure di Brangania e
Caerdino. Il grande escluso, Thomas, resta un personaggio tondo, coerente, uno e unitario,
forte dell’idea di cui è latore. Nel quartetto, il dolore dell’uno rinvia al dolore dell’altro e, se i
casi evidenti di doppio esasperavano una relazionalità della sofferenza, in realtà, di là del
motivo della doppiezza, ogni personaggio sembra vivere del rinvio all’altro da sé, ogni dolore
è dolore dell’altro, per l’altro, con l’altro: una polifonia della sofferenza, in una scissione
dell’uno che si espande fino all’impossibilità di dire io.
È in questa polifonia che si può cogliere il valore del personaggio, la cui fenomenologia
vive di un prolungamento che travalica la rappresentazione dell’individuo per espandersi in
un coacervo di rifrazioni, così fittamente distribuite da lasciare intravedere un’implosione del
soggetto, un’evanescenza dei suoi confini identitari, una sua rarefazione.
5. Fluttuazioni metadiegetiche
Nel terzo capitolo, dedicato alle Folies Tristan, abbiamo analizzato il particolare ruolo che la
metadiegesi riveste nel processo di costruzione identitaria del personaggio: attraverso la
pluralità dei livelli del racconto, il testo crea un’identità, articolata, rinfrangentesi. ualcosa di
simile si è potuto constatare nell’episodio della salle aux images, poiché anche qui si è
reperita un’articolazione di livelli che, con quella che possiamo considerare una scena nella
scena, complica lo statuto del personaggio e il suo rapporto con la storia. Nel romanzo di
Thomas ci sono però due casi più evidenti di metadiegesi – nel senso che sono marcati da
segni testuali che dichiarano esplicitamente il procedimento del racconto nel racconto –: si
tratta dell’episodio del gigante delle barbe e del lai di Guiron, di cui spiegheremo il valore in
rapporto alla costruzione del personaggio.
Il manoscritto Sneyd, dopo il racconto della prima notte di nozze di Tristano e Isotta dalle
Bianche Mani, in cui Tristano apporta la scusa della ferita al fianco per astenersi dai doveri
460
Vv. 1165-116 (Fra questi quattro vi è uno strano amore: tutti ne hanno pena e dolore, e l’uno e l’altro
vivono nell’angoscia, e nessuno di loro ne ha piacere).
461
Cfr. Gerald J. BRAULT, «Entre ces quatre ot estrange amor: Thomas’ Analysis of the Tangled
Relationship of Mark, Isolt, Tristan and Isolt of the White Hands», Romania, 114, 1996, pp. 70-95.
145
coniugali, prevede un cambio di scena (v. 855 ss.). Il racconto si sposta a contemplare Isotta
«en sa chambre», che pensa a Tristano e si mortifica per non avere da qualche tempo sue
notizie; non sa né dove si trovi né se sia vivo o morto. Le ultime notizie che ha risalgono alla
sua impresa in Spagna:
Ne set pas qu’il est en Bretaigne,
Encore le quide ele en Espaigne,
La u il ocist le jaiant,
Le nevod a l’Orguillus grant,
Ki d’Afriche ala requere
Princes e reis de tere en tere462.
L’evocazione dell’impresa di Tristano offre all’autore l’occasione di raccontarne l’antefatto,
introducendo nella trama la figura di re Artù, assente, per il resto, nel romanzo (diversamente
dal romanzo di Béroul, dove Artù figura nella celebre scena dell’escondit, nel ruolo di
autorevole testimone del giuramento d’Isotta).
Orgoglioso il Grande aveva l’abitudine di sfidare a duello principi e re per strappare loro
le barbe, con le quali si era confezionato una pelliccia. Sentendo parlare di re Artù e del suo
rinomato valore, il gigante gli chiede se sia disposto a farsi tagliare la barba e a inviargliela,
perché possa completare il bordo della pelliccia; in caso contrario, si sarebbe comportato con
lui come con gli altri, sfidandolo a duello. Artù non accetta la proposta, il gigante gli lancia la
sfida, i due si scontrano e il prode Artù vince la battaglia. L’autore tiene a precisare il
carattere di digressione dell’episodio:
A la matire n’afirt mie,
Nequedent boen est quel vos die,
Que niz a cestui cist esteit
Ki la barbe aveir voleit
Del rei e de l’empereür
Cui Tristan servi a icel jor,
Quant il esteit en Espaigne,
Ainz qu’il reparaist en Bretaigne463.
Il re di Spagna non trova nessuno tra parenti e amici che sia pronto a battersi per difendere il
462
Vv. 867-872 (Non sa che lui è in Bretagna, lo crede ancora in Spagna, là dove uccise il gigante, il nipote
del Grande Orgoglioso, che, venuto dall’Africa, andava sfidando principi e re di terra in terra). L’episodio del
gigante delle barbe, qui raccontato attraverso la digressione, si trova in Geoffroy de Monmouth. Cfr. Brut, La
Geste du roi Arthur. Selon le Roman de Brut de Wace et l’Historia Regum Britanniae de Geoffroy de Monmouth,
Présentation, édition et traduction par Emmanuèle BAUMGARTNER et Ian SHORT, Paris, Union générale
d’Éditions, 1993, pp. 298-299.
463
Vv. 935-942 (Non riguarda la materia, ma tuttavia è necessario che ve lo racconti, perché è il nipote di
costui che voleva avere la barba del re e dell’imperatore al cui servizio si trovava allora Tristano, quando era in
Spagna, prima di recarsi in Bretagna).
146
suo onore. Tristano si propone per l’impresa:
E Tristan l’emprist pur s’amur,
Si lui rendi molt dur estur
E bataille molt anguissuse;
Vers amduis fu deleruse.
Tristan i fu forment naufré
E el cors blecé e grevé,
Dolent em furent si amis.
Mais li jaianz i fu ocis464.
Credo che la digressione, benché breve, rivesta un ruolo notevole: «La digression innerve
l’ensemble, dynamise la lecture; elle fait sens, permettant de ranger la diversité sous
l’Unité»465. Sarebbe abbastanza agevole vedervi una semplice parentesi, un breve cenno a un
ritratto eroico tra centinaia di versi impegnati a tratteggiare un personaggio ripiegato su se
stesso, che si crogiola nelle sue pene d’amore, poco propenso all’azione. Bertolucci
Pizzorusso, per esempio, considera le peripezie di Tristano in Spagna «del tutto secondarie e
come tali presentate»466. La nostra prospettiva ci porta, invece, ad attribuire loro un ruolo
meno marginale.
Innanzitutto, mi pare d’obbligo considerare la posizione occupata nel romanzo di Thomas
dal motivo del doppio. Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, l’intero romanzo si
articola attorno a una serie di richiami identitari, d’immagini speculari, di echi e incroci di
maschere e figure. Lo stretto parallelismo tracciato tra Tristano e Artù, il fatto che il
protagonista compia la stessa impresa compiuta dal grande sovrano non può non far pensare a
un meccanismo d’identificazione rispetto a un modello. A ciò si aggiunge la particolare
posizione della digressione, cui seguirà poco dopo l’incontro di Isotta con Cariado. Interrotta
nei suoi pensieri d’amore, Isotta è informata dal più vile dei cavalieri delle nozze di Tristano
con Isotta dalle Bianche Mani. Così risponde la regina:
Ne unques chaenz ne venistes
Que males noveles ne desistes.
Il est tuit ensement de vos
Cum fu jadis d’un perechus,
Ki ja ne levast de l’astrir
Fors pur alcon home coroceir.
De vostre ostel jan en isterez
464
Vv. 951-95 (E Tristano s’impegnò per amicizia del sovrano, e si batté contro il gigante in un
combattimento duro e in una battaglia molto angosciosa; fu dolorosa per entrambi. Tristano fu colpito e si
procurò una grave ferita, gli amici ne furono afflitti, ma il gigante fu ucciso).
465
Chantal CONNOCHIE-BOURGNE, «Avant-propos», in Id., a cura di, La digression dans la littérature et
l’art du Moyen Age, Senefiance, 51, 2005, pp. 7-9, p. 8.
466
Valeria Bertolucci PIZZORUSSO, «Il discorso narrativo su Tristano e Isotta», pp. 7-17, p. 16.
147
Si novele oï n’avez
Que vos poissiez avant conter.
Ne volez pas luin aler
Pur chose faire que l’en die!
De vos n’irt ja novele oïe
Dunt voz amis aient honur,
Ne cels ki vos haient dolor.
Des altrui faiz parler volez,
Les voz n’irent ja recordez467.
Mi sembra evidente il gioco dell’antitesi, della presentazione di un personaggio come esatto
opposto di Tristano e del modello arturiano evocato nella digressione. Tanto Tristano è simile
ad Artù nella sua eroicità, tanto è lontano da Cariado, che non esce da casa se non per
raccontare le imprese altrui, senza mai intraprenderne una in prima persona. Le posizioni dei
tre personaggi son ben calibrate nella struttura che le ospita, dalla quale emerge il volto
dell’eroe468 finora passato sotto silenzio a profitto dei travagli sentimentali. Lo stretto
parallelismo con Artù, il richiamo a questo come a un modello d’identificazione evocano
un’eroicità che convive accanto all’eros. Se dovessimo riconsiderare le etichette proposte da
Meletinskij per Tristano (cfr. supra III.2), diremmo che, seppur per mezzo di una digressione
467
Vv. 1041-1056 (Non siete mai venuto qui senza cattive notizie. Siete esattamente come quel pigro che
abbandonava l’uscio solo per far incollerire qualcuno. Non uscirete mai da casa se non avete prima ascoltato
qualche notizia che possiate raccontare. Non andrete mai lontano a compiere qualche impresa di cui si possa
parlare. Non si sentirà mai di voi una notizia di cui i vostri amici siano onorati e che addolori i vostri nemici.
Siete capace di parlare delle azioni altrui, le vostre non saranno mai ricordate).
468
Jean-Marc Pastré, commentando il confronto che il testo di Thomas propone con il modello eroico
arturiano, ne parla in termini di subordinazione della materia tristaniana a quella arturiana. Non solo, dice lo
studioso, le imprese di Tristano dipendono da quelle di Artù, costituendone una copia infedele, ma «Arthur en
outre s’en sort beaucoup mieux que Tristan», visto che il secondo, durante il combattimento con il nipote del
gigante Orgoglioso, riceve una ferita mortale (Jean-Marc PASTRÉ, «Digressions et transmission du modèle
héroïque dans les romans de Tristan au Moyen Age», in CONNOCHIE-BOURGNE, La digression dans la littérature
et l’art du Moyen Age, pp. 309-31 , p. 313). L’argomento è utilizzato da Pastré per sostenere una progressiva
emancipazione della materia tristaniana da quella arturiana. Thomas farebbe già molto in questo senso,
eliminando Artù dalla trama e facendolo comparire in una digressione, ma lascerebbe comunque intravedere una
traccia di dipendenza, mentre Goffredo di Strasburgo completerà l’operazione, eliminando totalmente il
riferimento ad Artù. Benché la nostra prospettiva di analisi sia diversa, dal momento che ci concentriamo qui
sulla costruzione del personaggio, laddove Pastré parla di dipendenza e autonomia tra la materia arturiana e
quella tristaniana, mi limiterò a dire che non condivido a pieno l’idea di una subordinazione della figura di
Tristano a quella di Artù. Se è vero che Tristano resta gravemente ferito nel combattimento col gigante, è vero
anche che il testo menziona le difficoltà incontrate da Artù nel suo combattimento: «Ensemble vindrent puis
andui, / E la barbe e les pels mistrent, / Par grant irrur puis se requistrent. / Dure bataille, fort estur / Demenerent
testruit le jor. Al demain Artur le vencui, / Les pels, la teste lui toli (vv. 926-932: Si ritrovarono uno contro
l’altro, misero in palio la barba e la pelliccia, poi si affrontarono con violenza. Dura fu la battaglia, rude l’assalto,
durò tutta la giornata. L’indomani Artù fu vincitore, gli tolse la pelliccia e lo decapitò). Mi sembra, insomma,
che il rapporto sia totalmente paritario e che il testo si sforzi di esaltare il valore eroico di Tristano proprio
tracciandone un perfetto parallelismo con Artù. Sulla figura eroica di Tristano nel romanzo si vedano inoltre:
Geoffrey N. BROMILEY, «Deux géants assassins: un épisode du Tristan de Thomas, in Danielle BUSCHINGER, a
cura di, Europäische Literaturen im Mittelalter, Mélanges en l’honneur de Wolfgang Spiewok à l’occasion de
son 65ème anniversaire, Greifswald, Reineke-Verlag 1994, pp. 45-54; Gerald J. BRAULT, «The Birth of the Hero
in Thomas’ Tristan, in J. TASKER GRIMBERT - Carol J. CHASE, a cura di, Philologies Old and New: Essays in
Honor of Peter Florian Dembowski, Princeton, Edward C. Armstrong Monographs, 2001, pp. 227-236.
148
e di un fugace cenno, il Tristano melanconico e introspettivo sta accanto all’eroe, o, almeno, a
una sua ombra. Oltre i lunghi monologhi di un personaggio ripiegato su se stesso, afflitto
dalla pene d’amore, poco propenso all’azione, leggiamo di un Tristano pronto alla battaglia,
fiero, prode, disposto a combattere per difendere l’onore altrui. Certo, questa propensione
all’azione è distanziata dalla metadiegesi, interagisce minimamente con l’elemento più forte,
quello del tormento amoroso, ma contribuisce nondimeno a definire lo statuto identitario del
protagonista, la sua fluttuazione tra un ritratto eroico e votato all’azione e l’inabissamento in
una cupa melanconia, in una predilezione per i moti dell’anima e del pensiero469.
La digressione è legata in realtà a un doppio procedimento metadiegetico, che fa
comparire nel manoscritto Sneyd, uno di seguito all’altro, il riferimento alla storia del gigante
delle barbe e quello al lai di Guiron. Si tratta, per quanto riguarda quest’ultimo, di appena
dieci ottosillabi, ma densi di senso nella struttura del romanzo:
En sa chambre se set un jor
E fait un lai pitus d’amur,
Coment dan Guirun fu surpris,
Pur l’amur de la dame ocis
u’il sur tute rien ama,
E coment li cuns puis li dona
Le cuer Guirun a sa moillier
Par engin un jor a mangier,
E la dolur que la dame out,
Quant la mort de sun ami sout470.
Il passo potrebbe considerarsi una mise en abîme potenziale: Isotta, che non ha più notizie di
Tristano, pensa alla sua possibile morte e si proietta in un tragico destino 471. Se ne evincono
due aspetti. Sul piano della scrittura romanzesca, il passo ci permette di affermare, ancora una
volta, il potenziale infinito della narrazione, il gioco di specchi in cui la scrittura si riflette,
crea continue appendici di se stessa. Ma, contemporaneamente, questa riflessività della
scrittura corre di pari passo con una riflessività del personaggio, con una riflessione del
soggetto enunciatore sul proprio ruolo nella storia presente e in altre possibili storie contigue:
469
È possibile così ridimensionare, almeno in parte, la consueta contrapposizione tra il Tristano di Thomas,
riflessivo e melanconico, e quello di Béroul, dinamico, dedito all’azione. Sulla divergenza tra i due personaggi
insiste Barbara Franceschini: «Ephémeros. Per un’analisi dei caratteri nel Tristano di Thomas e di Béroul»,
Cultura neolatina, 61, 2001, pp. 275-299.
470
Vv. 987-996 (Un giorno, sta seduta nella sua camera e compone un pietoso lai d’amore: come ser Guiron
fu scoperto, ucciso per l’amore della donna che amava sopra ogni cosa, e come poi, un giorno, il conte diede da
mangiare alla moglie con un inganno il cuore di Guiron, e il dolore che provò la donna quando seppe della morte
dell’amato).
471
D’altronde, l’importanza del passo, il suo carattere di segno preminente nel romanzo sono segnalati dal
fatto che nel manoscritto compare una miniatura che ritrae Isotta che suona l’arpa.
149
Isotta colloca qui se stessa e Tristano sul trono degli amanti ideali, si dipinge come riflesso di
un modello di cui ha piena coscienza. Il suo è, in qualche modo, un metalinguaggio, una
forma di discorso con cui inquadra la propria posizione secondo un riferimento preciso, netto,
quello dell’ideale dell’amore cortese472: anche qui, come nel caso di Tristano con Artù, c’è in
gioco l’identificazione rispetto a un modello, modello esterno e assunto come l’espressione di
un massimo grado, che si tratti di eroicità o di arte di amare. Come ha evidenziato Geoffrey
Bromiley, il riferimento al lai di Guiron illustra «en miniature», un’idea direttrice del
romanzo di Thomas, quella della completa integrazione degli amanti l’uno nell’altra:
Le lai de Guiron illustre cette idée d’une façon frappante, et surtout d’une façon
matérielle; la dame, en mangeant le cœur de Guiron, saisit son amant dans sa totalité,
elle l’intègre complètement à son corps473.
Dietro un meccanismo della scrittura romanzesca, dietro il modo di una scrittura che cerca se
stessa, si cela, insomma, una densità nello statuto del soggetto, soggetto che pensa se stesso.
uella d’Isotta potrebbe essere considerata una fantasticheria, un sogno ad occhi aperti.
In Al di là del principio di piacere, Freud ci ha spiegato che i sogni non hanno solo un risvolto
eufemistico, una connotazione di realizzazione dei desideri inconsci; un sogno o una
fantasticheria, connotati da una rappresentazione che sembra andare contro il principio di
piacere, mascherano una funzione di controllo su un evento traumatico o una paura. Isotta
prende le redini della storia, ne controlla gli indirizzi, esaspera la tragedia che sente vicina, si
472
È ben noto il passo in cui Gaston Paris, commentando il Lancelot di Chrétien de Troyes, lo elegga
manifesto dell’amore cortese. Il commento prevede un confronto con il Tristano: «Dans aucun ouvrage français,
autant qu’il me semble, cet amour courtois n'apparaît avant le Chevalier de la Charrette. L'amour de Tristan et
d’Iseut est autre chose: c’est une passion simple, ardente, naturelle, qui ne connaît pas les subtilités et les
raffinements de celui de Lancelot et de Guenièvre. Dans les poèmes de Benoit de Sainte-More, nous trouvons la
galanterie, mais non cet amour exalté et presque mystique, sans cesser pourtant d’être sensuel» (Gaston PARIS,
«Etudes sur les romans de la Table Ronde», Romania, 12, 1883, pp. 459-534, p. 519). Benché l’amore di
Tristano e Isotta preservi, in effetti, quel certo tratto primordiale di cui parla Paris, mi sembra che questo gioco di
riflessi proposto da Isotta compositrice di lai crei una situazione che sfugge alla regola generale: nella proiezione
messa in atto da Isotta, i due personaggi vengono trasfigurati – sublimati, si potrebbe dire – su un piano che ha
qualcosa, appunto, di «exalté» e «mystique».
473
Geoffrey BROMILEY, «Autour di lai de Guiron dans Le roman de Tristan de Thomas», in BUSCHINGER SPIEWOK, Tristan et Yseut. Un thème éternel dans la culture mondiale, pp. 45-57, p. 57. Si legga anche
Bruckner: «Les amants tristaniens, du moins dans les versions médiévales, cherchent à trouver dans la mort ce
qu’ils cherchent à trouver dans la vie: une union qui dépasse leur séparation, une union telle que les deux ne font
plus qu’un. uand ils imaginent la mort, ce qu’ils imaginent c’est donc une mort où ils peuvent continuer à être
ensemble. La plus grande peur, c’est une mort solitaire (Matilda BRUCKNER, «L’imagination de la mort chez les
amants tristaniens: prose et vers, chant et narration», in Des Tristan en vers au Tristan en prose, pp. 309-324, p.
309). Sul lai di Guiron si veda, inoltre, Emmanuèle BAUMGARTNER, «Lyrisme et roman: du Lai de Guirun au Lai
di Chèvrefeuille», in Il miglior fabbro, Mélanges de langue et de littérature occitane en hommage à Pierre Bec,
Poitier, CESCM, 1991, pp. 78-83. Sul motivo del cuore mangiato, cui il lai fa riferimento, si rinvia a Simon
GAUNT, Love and Death in Medieval French and Occitan Courtly Literature: Martyrs to Love, Oxford, Oxford
University Press, 2006, pp. 73-103.
150
prepara alla fine. In quest’ottica, ci premerà rilevare ancora una volta la coerenza di
costruzione di quest’opera, pur nel suo stato frammentario, giacché sarà proprio un’Isotta
disposta a gestire l’infinito potenziale diegetico della sua storia d’amore a chiudere il romanzo
di Thomas:
Icil orages seit destruit
Que tant me fist, amis, en mer
ue n’i poi venir, demurer!
Se jo fuisse a tens venue,
Vie vos oüse, amis, rendue,
E parlé dulcement a vos
De l’amur qu’ad esté entre nos474.
Il personaggio che racconta la sua storia sembra davvero essere il grande fulcro della trama
tristaniana, nello svisceramento di un legame – che definirei antropologico – tra desiderio e
atto affabulatorio.
6. Desiderio, narrazione, spersonalizzazione
Ogni desiderio, annota Ugo Volli, più che desiderio di un oggetto, è desiderio di storie 475. La
macchina desiderante scatena la macchina diegetica, alimenta una concrezione di mondi
finzionali, procrastina l’appagamento, la realizzazione, si proietta in una sempre nuova
evasione narrativa. Il desiderio, come la narrazione, altera la realtà nel momento stesso in cui
la pone, trasfigura il mondo in mondi possibili, deforma, informa, nello scopo preciso di
rinviare la fine. Riportando quanto appena detto alla materia tristaniana, è immediato pensare
alla famosa lettura che ne ha dato Denis De Rougemont (cfr. supra I.8), secondo cui i due
amanti della leggenda sono innamorati, più che l’uno dell’altro, dell’amore, di un amore che è
amore per l’ostacolo, per l’impedimento, per l’avventura che sempre si rinnova, fino
all’avventura estrema e inesorabile: il romanzo di Tristano e Isotta inaugurerebbe così quel
474
Vv. 3246-3252 (Maledetta sia quella tempesta che mi fece tanto indugiare in mare che non potei venire.
Se fossi venuta in tempo, vi avrei ridato la vita, e vi avrei parlato dolcemente dell’amore che c’è stato tra noi). Si
tratta della cosiddetta fine lunga del romanzo, contenuta nel frammento Sneyd 2.
475
Ugo VOLLI, Figure del desiderio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002, pp. 158-159, citato in
Alessandra DIAZZI, «Testo e narrazione: uno sguardo secondo il desiderio», Enthymema, 4, 2011, pp. 319-341,
p. 329. Si rimanda al contributo di Diazzi per l’interessante excursus sul rapporto tra narrazione e desiderio. Tra i
numerosi filosofi e teorici citati e commentati, un posto di primo piano spetta a Kant: «Kant, nella Critica del
giudizio, giunge ad affermare che il piacere non deriva dalla realizzazione intesa come corrispondenza del
mondo al desiderio ma dalla rappresentazione dei fatti: tale rappresentazione può essere pensata in termini di
racconto, come narrazione del percorso orizzontale proprio del desiderio» [ivi, p. 327; cfr. Immanuel KANT,
Critica del giudizio, Bari, Laterza, 1963, p. 10].
151
legame, tutto occidentale, tra amore e morte.
Vitz definisce il desiderio, relativamente a un personaggio in un testo, come «that
dissatisfaction or need, on the part of a character, which provides narrative stimulus or “causal
energy” in the text»476. Questa energia causale che dal personaggio s’irradierebbe al testo
sarebbe nel romanzo di Thomas, per la studiosa, una «inefficient causality»477, in quanto il
personaggio qui rappresentato si connoterebbe per un desiderio labile, che attiva una debole
catena di causalità. Sarebbe, cioè, un personaggio «incompetente», che non produce
trasformazione; il suo desiderio promuove un impulso minimo e che subito si estingue,
lasciando sostanzialmente immutata la trama. Se ne conclude che l’amore e il desiderio
sarebbero per Thomas più un oggetto di riflessione e analisi morale che un costrutto narrativo.
Vitz non concorda con Rougemont sul fatto che Tristano e Isotta siano innamorati della
morte, ma condivide l’idea che i due protagonisti non cerchino la realizzazione del desiderio.
Le analisi proposte nei paragrafi precedenti, in cui si è cercato di far emergere l’energia
propulsore che il desiderio e il senso di mancanza conferiscono alle dinamiche testuali,
richiedono qualche precisazione a una tesi come quella appena descritta, che vede nel
desiderio solo un oggetto di riflessione e analisi morale e non una chiave di costruzione del
testo.
Alla base di questa considerazione è rintracciabile la prospettiva di personaggio come
funzione, come promotore di una concatenazione di azioni. In questo senso, si può accettare
l’idea di un desiderio flebile, di un personaggio che non produce materia narrabile (anche se
bisognerebbe sempre tenere a mente che possiamo leggere solo una parte ridotta del testo di
Thomas e considerare che, comunque, anche in questa parte ridotta l’azione non è del tutto
esclusa – si pensi al travestimento da lebbroso e si pensi che altri casi simili potrebbero essere
contenuti nella parti non pervenute). Ma, lo si è visto, la produttività diegetica del desiderio va
rintracciata su un altro piano, diverso da quello immediato dell’azione.
Il desiderio di Tristano, nell’episodio della sala delle statue, non genera, è vero, nessuna
azione che alteri lo sviluppo dell’intreccio principale, ma ciò non toglie che esso genera, più
sottilmente, un’inedita testualità, una scena in cui Tristano gioca con i segni della sua storia,
crea storie adiacenti, alternative, manipola personaggi ed eventi. Lo stato di castrazione
d’Isotta dalle Bianche Mani crea, nell’episodio dell’acqua ardita, la scena fantasmatica di una
deflorazione impossibile, producendo l’ombra, il fantasma di un’azione che esula dalla linea
476
Evelyn Birge VITZ, Medieval Narrative and Modern Narratology. Subject and Object of Desire, New
York-London, New York University Press, 1989, p. 176.
477
Ivi, p. 194.
152
diegetica principale. Isotta la Bionda, nella sua stanza, mossa dalla nostalgia per l’amato,
riproduce, con il lai di Guiron, la storia di cui è protagonista, munendola di un finale più
crudo di quello a venire. Il desiderio agita il testo; il soggetto desiderante, se non produce
azioni, ne evoca, e l’evanescenza e l’indeterminatezza identitaria cui lo condanna il senso di
mancanza diventano evanescenza e indeterminatezza della storia.
Il desiderio si rivela, dunque, forza strutturante della macchina romanzesca; non genera
azione, ma genera, comunque, narrazione, una narrazione in cui l’azione è distanziata, citata,
incorniciata. L’inanità è solo apparente e si tratta piuttosto di un vuoto produttivo, la cui
produttività si manifesta da una prospettiva più sottile di quella che vede nell’azione l’asse
portante di un romanzo. Il desiderio non è labile, semmai è talmente dirompente da essere
ambiguo e contorto, anche contraddittorio. È, invece, il soggetto a essere labile, soggetto
spostato, decentrato, spersonalizzato, il cui statuto è carico di contrasti e ambiguità:
Sis corages mue sovent,
E pense molt diversement
Cum changer puisse sun voleir,
Quant sun desir ne puit aveir478.
I due frammenti Sneyd 1 e Sneyd 2, in cui Tristano s’interroga sull’opportunità di sposare
Isotta dalle Bianche Mani, sono un manifesto della volubilità del soggetto, con un’insistenza
sulla contrapposizione tra il desir indirizzato a Isotta la Bionda et il voleir indirizzato a Isotta
dalle Bianche Mani, in un lungo discorso in cui, come ha rilevato Punzi, «le ragioni
dell’amore coincidono con la negazione delle stesse»479. Di questa contrapposizione va
ribadita la complessità, in quanto esula da una più banale dicotomia tra amore e ragione 480 e
illumina bene la densità dello statuto del soggetto desiderante.
La scelta di Tristano di sposare Isotta dalle Bianche Mani non si presenta come una
costrizione autoimposta, una pena cui sottomettersi, una scelta obbligata. Sembrerebbe che il
lungo discorso in cui Tristano ha riflettuto sulla coincidenza del nome e della bellezza della
reïne e della meschine (cfr. supra IV.2) abbia riappacificato in lui voleir e desir:
478
Vv. 207-210 (Il suo cuore muta spesso, e pensa in modo vario come possa cambiare la sua volontà, dal
momento che non può avere il suo desiderio).
479
PUNZI, Tristano. Storia di un mito, p. 30.
480
Si veda su questo punto Yasmina FOEHR-JANSSENS, «Lit d’amour, lit de mort», Le Moyen Age. Revue
d’histoire et de philologie, 102, 1996, n. 3-4, pp. 403-417, in particolare alle pp. 406-408. Si rimanda, inoltre,
per l’uso del termine ragione in Thomas, a Jean FRAPPIER, «Sur le mot raisun dans le Tristan de Thomas
d’Angleterre, in Alessandro S. CRISAFULLI, a cura di, Linguistic and Literary Studies in Honor of Helmut A.
Hatzfeld, Washington, Catholic University of America Press, 1964, pp. 163-176. Sul punto si veda anche Joan
TASKER GRIMBERT, «Voleir vs. Poeir: Frustrated Desire in Thomas’s Tristan», Philological Quarterly, 69, 1990,
pp. 153-165.
153
Pur le nun e pur la belté
Que Tristan i ad trové,
Chiet en desir e en voleir
Que la meschine volt aveir481.
Cade nel desiderio e nel volere: non è la volontà ad aver vinto sul desiderio, ma, più
ambiguamente, è stato partorito un altro desiderio, è stato creato il desiderio per Isotta dalle
Bianche Mani. Non a caso, così commenta il narratore:
Oez merveilluse aventure,
Cum genz sunt d’estrange nature,
Que en nul lieu ne sunt estable482.
Come nelle Follie, ci si trova qui davanti a quell’abilità metamorfica e a quella propensione
attoriale di Tristano, a una trasformazione profonda che altera la predisposizione dello spirito,
che mira all’edificazione di una maschera, esattamente come quando era attento a nascondere
ad amici e conoscenti il progetto di imbarcarsi per la Cornovaglia e raggiungere Isotta (cfr.
supra III.3). Come in quel caso, Tristano diventa un non luogo, la sua posizione resta
indeterminata, sospesa tra un essere e un apparire, sospensione in cui la verità del personaggio
è insondabile. Thomas descrive con la consueta profondità questo non essere di Tristano:
Pur ço dei jo, m’est avis, dire
Que ço ne fut amur ne ire;
Car si ço fin amur fust,
La meschine amé ne oüst
Cuntre volenté s’amie;
Dreite haür ne fu ço mie,
Car pur l’amur la reïne
Enama Tristan la meschine483.
Non si tratta di amore vero, ma non si tratta neanche di odio; Tristano è inondato da una forza
che lo divora senza che questa s’incanali verso nessun oggetto concreto, desiderio che
riguarda l’essere più che l’avere, e che segna l’essere come eccesso, fuoriuscita, anomalia e
smarrimento congeniti: il soggetto non è in nessun luogo, il personaggio è pura sospensione.
uesta sospensione dell’essere, questo desiderio che non s’incanala in nulla, trova nel
romanzo di Thomas una raffigurazione precisa, in un momento che, insieme all’episodio della
481
Vv. 435-438 (Per il nome e per la bellezza che Tristano ha trovato in lei, cade nel desiderio e nella
volontà di avere la fanciulla).
482
Vv. 439-441 (Ascoltate un caso meraviglioso, come gli uomini sono di strana natura, che non stanno
fermi in nessun luogo).
483
Vv. 523-530 (Per questo devo dire, a mio parere, che non fu amore né odio; poiché, se fosse stato amore
perfetto, non avrebbe amato la fanciulla contro la volontà della sua amica; non fu neppure vero odio, poiché
Tristano amò la fanciulla per amore della regina).
154
salle aux images, potrebbe essere assunto come segno precipuo di una poetica. Si tratta
dell’episodio del cortège de la reine (vv. 1351-1418)484. Tristano è arrivato con Caerdino in
Inghilterra per rivedere Isotta, che partecipa a un corteo regale; Caerdino è ansioso di vedere
Brangania, di cui Tristano gli ha mostrato l’effigie nella sala delle statue. I due assisteranno il
corteo dall’alto di una quercia, da cui potranno osservare senza essere osservati. Caerdino
guarda incredulo le immagini meravigliose che scorrono sotto i suoi occhi e, credendo di aver
visto Brangania, domanda a Tristano se si tratta di lei, domanda a cui Tristano risponde
negativamente. Poco dopo, Caerdino rinnoverà la richiesta:
Dunc dit Kaerdin: «Ore [la vei]
Ceste devant est la reïne!
E quele est Brengien la meschine?»485.
Il destino del manoscritto di Strasburgo ha voluto che quest’episodio si chiudesse così, con
questa domanda a cui nessuna voce risponde. L’effetto estetico del silenzio di Tristano è
comunque notevole, ma, su questo punto, non possiamo esprimerci.
Nonostante l’incompletezza dell’episodio (tramandato esclusivamente dal manoscritto di
Strasburgo), una cosa abbastanza certa, però, è che, nonostante l’episodio assomigli ai
tentativi di Tristano di ricongiungersi a Isotta nelle Folies, o nello stesso episodio del
travestimento da lebbroso nel romanzo di Thomas, sequenze in cui l’intervento del
protagonista è immediato, qui abbiamo invece un Tristano contemplatore, posto davanti a un
quadro scintillante e sfarzoso, che vediamo con i suoi occhi. Un Tristano immobile, eppure
tanto eloquente nella sua immobilità (e in quel suo, forse fortuito, silenzio finale). È proprio in
quel vuoto, in cui una lettura superficiale potrebbe vedere un desiderio inconsistente che non
porta a nessuno sviluppo, che è possibile scorgere un eccesso di desiderio, forza dirompente
che accende il soggetto, che «acquista il potere di trascinare al suo interno, come per l’effetto
di un vortice, il soggetto che sta guardando»:
Investimento oggettuale e identificazione si mescolano, si confondono.
L’identificazione nasce proprio dalla sensazione d’inaccessibilità. uando assistiamo
a una scena di felicità paradisiaca, appartenente a due o più persone, e in cui non
abbiamo la possibilità di penetrare, di avere un posto, come non potremmo mai averlo
nel fregio di un tempio greco o in un affresco raffigurante un corteo, quando
desideriamo avere l’impossibile, allora il desiderio è pronto a trasformarsi nel
484
Sull’episodio si veda Anna Maria FINOLI, «Il corteo di Isotta: metamorfosi e peripezie di un motivo
letterario», Letteratura e filologia. Studi in memoria di Giorgio Dolfini, Milano, Cisalpino-Goliardica, 1987, pp.
165-179.
485
Vv. 1416-1418 (Dice dunque Caerdino: «Ora la vedo, quella davanti è la regina! E qual è la fanciulla
Brangania?).
155
desiderio di essere. Allora è il desiderio a scegliere – là dove non possiamo scegliere –
la sua e la nostra identità486.
Nella contemplazione del corteo, in cui sfilano cavalieri e principesse e in cui si parla di
amore e s’intonano dolci melodie, Tristano è uno spettatore che potrebbe (vorrebbe) esservi
attore:
A ce eis lur li chanberlangs;
Après lui espessist le rangs
De chevaliers, de dameisels,
D’ensegnés, de pruz e de bels;
Chantent bels suns e pastureles.
Aprés vienent les dameiseles,
Filles a princes e a baruns,
Nees de plusurs regiuns;
Chantent suns e chant delitus487.
Il desiderio per la regina si amplifica nel desiderio di penetrare in quel mondo che non è più il
suo, di entrare nella rappresentazione che prende forma davanti ai suoi occhi. Ancora una
volta, il desiderio non produce azione, ma questo non gli impedisce di farsi forma plastica
viva, agente che apre un nuovo scorcio nella trama primaria, v’incastona un nuovo frammento
di testo, una nuova visione, rinfrangendo la scrittura in una pluralità di livelli, facendo del
personaggio un punto di convergenza in cui desiderio e racconto, soggetto e scrittura
s’incontrano.
486
BOTTIROLI, «Identità/ identificazione. Una mappa dei problemi a partire da Freud», p. 235.
Vv. 1399-1407 (A questo punto arriva il ciambellano, dopo di lui sfilano le file dei cavalieri, dei giovani,
insigni, valorosi e belli, che cantano belle melodie e pastorelle. In seguito arrivano le damigelle, figlie di principi
e di baroni, originarie di regioni diverse; cantano melodie e canzoni deliziose).
487
156
V
Tristano (e Isotta): l’ombra dell’eroe
1. Una visione prospettica
Nell’analisi dedicata al testo di Thomas, pur nel gioco di echi, riflessi, sdoppiamenti e
raddoppiamenti, abbiamo individuato un percorso del personaggio, di cui è stato possibile
seguire le oscillazioni, gli spostamenti rispetto a un filo – quello di un’attrazione e, insieme,
una repulsione nei confronti della potenza dell’eros – che sembra attraversare il romanzo e
conferirgli, nonostante lo stato frammentario in cui ci è pervenuto, una struttura dotata di una
certa coerenza. Del resto, quello dell’«uni dire»488 è un particolare interesse dell’autore, che si
dichiara determinato a conferire coesione e rigore espositivo alla sua versione della leggenda
di Tristano. In questo disegno contraddistinto da un’ambizione a una compattezza, le
dinamiche relazionali tra i personaggi hanno rivelato un’architettura più ambigua e complessa
(e più fluida) di quanto farebbe pensare un’assolutizzazione della «juridiction d’Amour»489 a
cui i protagonisti sarebbero soggetti e rispetto a cui l’ideologia clericale dell’autore si
porrebbe agli antipodi. Ci soffermeremo su questi aspetti nelle Conclusioni.
La questione si pone diversamente con la versione della leggenda che porta la firma di
Béroul490, dove rintracciare un percorso del personaggio potrebbe rivelarsi impresa ardua. Se
in Thomas si poteva rinvenire uno sforzo di conferire alla sua opera una struttura ben
488
In un punto del frammento Douce (ed. Pléiade, v. 2262-2265), Thomas lamenta che la storia di cui
racconta presenta versioni che differiscono tra di loro, dichiarando il proposito di assemblare i dati a sua
disposizione e dire solo il necessario, senza comunque eccedere nella semplificazione. La critica ha associato
quest’attenzione di Thomas per l’unità della composizione romanzesca alla conjointure di Chrétien de Troyes. Si
vedano in proposito Douglas KELLY, «‘En uni dire’ (Tristan Douce 839) and the Composition of Thomas’
Tristan», Modern Philology, 67, 1969-70, pp. 9-17; FOEHR-JANSSENS, «Lit d’amour, lit de mort», in particolare
alle pp. 409-410.
489
Jean FRAPPIER, «Structure et sens du Tristan: version commune, version courtoise», Cahiers de
Civilisation Médiévale, 6, 1963, pp. 255-80, p. 274.
490
L’autore si nomina ai versi 1268 e 1790 (il nome compare, in entrambi i casi, nella forma del nominativo
‘Berous’). Il romanzo, datato tra gli anni sessanta e ottanta del XII secolo, è conservato in un unico codice, il ms.
fr. 2171 della BNF di Parigi. Il frammento è mutilo della parte iniziale e di quella finale, prevede poco meno di
4.500 ottosillabi. Il manoscritto presenta numerosi problemi (in particolare, risulta difficile la lettura di alcuni
passi contenuti nelle prime carte). Si veda Albert EWERT, «On the Text of Béroul’s Tristan», in Studies in
French Language and Mediaeval Literature presented to Professor Mildred K. Pope by Pupils, Colleagues, and
Friends, Manchester, Books for Libraries Press, 1939, pp. 89-98. Le citazioni sono tratte dal volume Pléiade:
BEROUL, Tristan et Yseut. Texte établi, traduit, présenté et annoté par Daniel Poirion, pp. 3-121, 1127-1218.
calibrata, la critica ha invece spesso rilevato nel testo di Béroul una struttura episodica data da
una giustapposizione di scene che non seguono un disegno preciso491, con incongruenze
interne che hanno fatto avanzare l’ipotesi di un doppio autore492. In un adattamento della
leggenda tristaniana che si sviluppa nel segno dell’avventura, dell’imprevisto, del gioco
comico del sovvertimento, il personaggio sembra contare più per l’azione inattesa,
ardimentosa, violenta, o furfantesca, senza che vi sia traccia di quello scavo interiore di cui si
fanno strumento i versi di Thomas. L’amore cesserebbe di essere l’aspetto centrale della storia
di Tristano e Isotta, per cedere il passo a un affresco dalla fisionomia, più che sentimentale,
sociale e politica, in cui a far da padrone sarebbe un violento gioco di potere 493 (ma non
esente da risvolti ludici)494.
Se un personaggio è dato da un essere e da un fare, quello di Béroul sembrerebbe più
rappresentato dal suo fare495. I personaggi sono dipinti con cenni minimi, e i loro tratti non
491
Pierre Le Gentil definiva l’arte di Béroul «spontané, mais aussi fragmentaire» (Pierre LE GENTIL, «La
légende de Tristan vue par Béroul et Thomas», Romance Philology, 7, 1953-54, pp. 11-129, p. 111).
Sull’argomento «pause narrative ed episodi» si veda Alberto VARVARO, Il Roman de Tristan di Béroul, Torino,
Bottega d’Erasmo, 1963, alle pp. 31-40. Per un’analisi della coerenza dell’impianto narrativo nonostante
l’episodicità si rimanda a: Gioia PARADISI, «La costruzione del racconto nel Tristan di Béroul», in Anatole P.
FUKSAS, a cura di, Parole e temi del romanzo medievale, Roma, Viella, 2007, pp. 39-66; Antoinette SALY,
«Images récurrentes dans le Tristan de Béroul», in Id., a cura di, Structure et Sens. Etude Arthuriennes, Aix-enProvence, Centre universitaire d’études et de recherches médiévales d’Aix, 1994, pp. 135-148.
492
Sarebbe stata individuata la possibilità dell’intervento di un Beroul II intorno al verso 2760. Si veda, tra
gli altri, G. Raynaud DE LAGE, «Faut-il attribuer à Béroul tout le Tristan?», Le Moyen Age, 64, 1958, pp. 249270. Per l’argomento contrario si rinvia a Micheline HANOSET, «Unité ou dualité du Tristan de Béroul», Le
Moyen Age, 67, 1961, pp. 503-533 e a VARVARO, Il Roman de Tristan di Béroul, pp. 15 ss.
493
Scrive Bertolucci-Pizzorusso: «La storia d’amore diventa così soprattutto un caso sociopolitico, e i suoi
oscuri retroscena devono essere illuminati in tutta la loro grottesca tragicità. Ciò che all’autore sembra premere è
la dimostrazione di una sorta di giustizia insita nella necessaria “menzogna” dei due amanti, quale unica arma di
difesa» (Valeria BERTOLUCCI PIZZORUSSO, «Béroul e il suo Tristan», in Rosanna BRUSEGAN, a cura di, Le
roman de Tristan. Le maschere di Béroul, Atti del Seminario di Verona, 14-15 maggio 2001, Roma, Salerno
Editrice, 2001, pp. 211-220, p. 214). Non bisognerebbe, tuttavia, sottovalutare gli aspetti sentimentali del
romanzo, che, anzi, andando oltre la storia d’amore tra i due protagonisti, si allargano a un’insistita dichiarazione
di affetto di Marco nei confronti di Tristano, elemento trascurato nella versione di Thomas (almeno nei
frammenti pervenuti). A proposito del celebre episodio dello scambio degli anelli e della spada nella foresta del
Morrois, su cui ritorneremo, Alberto Varvaro ha sostenuto che «Il nostro è dunque un caso esemplare di
utilizzazione e magari rafforzamento di motivi giuridici, di costume sociale, i quali però si rivelano secondari
dinanzi al prevalere delle ragioni sentimentali […] L’atto dello scambio degli anelli e della spada è simbolo in
Béroul, ma non o non soltanto di un rapporto feudale: principalmente e dolorosamente, di una indissolubilità di
legami, di una drammatica e irresolubile situazione del sentimento. Per questo commuove e rimane esemplare
figura nella memoria». (VARVARO, Il Roman de Tristan di Béroul, p. 168).
494
Cfr. Jean BATANY, «Le Tristan de Béroul: une tragédie ludique», in Michel ZINK, - Danielle REGNIERBOHLER - Eric HICKS - Manuela PYTHON, a cura di, L’hostellerie de pensée. Etudes sur l’art au Moyen Age
offertes à Daniel Poirion par ses anciens élèves, Paris, Presses Paris Sorbonne, 1995, pp. 27-40. Si vedano
inoltre: Barbara N. SARGENT-BAUR, «Between Fabliau and Romance: Love and Chivalry in Beroul’s Tristan»,
Romania, 105, 1984, pp. 292-31; Keith BUSBY, «Le Tristan de Bèroul en tant qu’intertexte», in Norris J. LACY Gloria TORRINI-ROBLIN, a cura di, Continuations. Essays on Medieval French Literature and Language in
Honor of Jonh L. Grigsby, Birmingham (Alabama), Summa Publication, 1989, pp. 19-38, in particolare alle pp.
28-30.
495
Secondo Bertolucci Pizzorusso i personaggi sono «descritti e risolti soprattutto nelle loro azioni»
158
sono rilevanti ai fini dell’intreccio496, che è, al contrario di quanto accadeva nei frammenti di
Thomas, il vero tessuto del romanzo. Gli studi sul personaggio di Tristano nel testo di Béroul
ne hanno valorizzato l’inclinazione all’azione vincente e risolutrice, la capacità metamorfica
pronta a piegare l’evento a proprio vantaggio; nel personaggio di Tristano s’incarna il
prototipo del trickster, del burlone, del polytropos, dell’escogitatore di stratagemmi,
dell’uomo d’azione497. Si tratterebbe, cioè, di una riconducibilità a una maschera fissa pur
nella sua versatilità: «i personaggi medievali appaiono statici nonostante le vicende in cui
sono coinvolti»498.
Il tratto è estremizzato e, direi, granitico: non siamo di fronte a quell’inclinazione
melanconica che percorreva i testi delle Folies, e che rendeva possibile un’indagine basata sul
modo d’essere del personaggio, per via di quel senso di mancanza che lo contraddistingueva e
che apriva a una rete d’intricate relazioni identitarie. Qui il senso di mancanza non ha modo di
prendere forma, cerca un appagamento immediato (spesso lo trova), diventa atto, alimenta
l’intreccio. Se il filtro era diventato in Thomas un puro simbolo della passione, svuotato di un
vero potere causale499, in Béroul l’impellenza della richiesta di appagamento cui il vin herbez
obbliga gli amanti annulla lo spazio tra pensiero e azione, impedisce proiezioni che non siano
volte all’immediata fattualità dell’unione dei due amanti e dell’annientamento di qualunque
impedimento a essa. E anche il motivo della fine dell’effetto del filtro non sembra
ridimensionare quest’impostazione500.
(BERTOLUCCI PIZZORUSSO, «Béroul e il suo Tristan», p. 217). Tuttavia, Keith Busby ha notato come i
protagonisti siano «en général plus passifs que ceux de Chrétien de Troyes, et leurs actions semblent être
contrôlées par le destin plutôt que par leur propre volonté» (BUSBY, «Le Tristan de Bèroul en tant qu’intertexte»,
p. 19).
496
«On peut dire que Béroul peint la psychologie de ses personnages en mouvement par un mot, par un
geste, par une attitude» (Philippe MÉNARD, «L’art de Béroul», in BRUSEGAN, Le roman de Tristan. Le maschere
di Béroul, pp. 221-239, p. 235).
497
Si rinvia alla bibliografia sul trickster citata nel cap. III. Rifacendosi alle categorie di Detienne e Vernant
(Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Milano, Mondadori, 1992), Franceschini insiste sulla
connotazione del Tristano di Béroul come polytropos, contrapposto all’ephémeros di Thomas: «Tanto è triste e
ripiegato su se stesso l’eroe di Thomas quanto quello di Béroul è attivo, mobile, agile, attento, vigile, capace in
ogni momento di sfruttare l’occasione a suo vantaggio, abile nel parlare e nell’ingannare il suo prossimo,
caratteristiche queste dell’uomo dotato di metis» (FRANCESCHINI, «Ephémeros. Per un’analisi dei caratteri nel
Tristano di Thomas e di Béroul», p. 277).
498
BONAFIN, «Prove di un’antropologia del personaggio», p. 9.
499
«Aux yeux de Thomas, ni l’amour ne saurait s’affaiblir, ni le philtre qui le symbolise et se confond avec
lui sans rien ajouter à son essence, car l’amour, la divinité Amour, est un absolu situé au-dessus de toutes les
contingences [..] Il [le philtre] ne sert plus, contrairement à ce qui se passait dans la version commune, à excuser
le péché des amants. Ceux-ci n’ont nul besoin d’un alibi moral. L’obéissance à l’Amour est devenue leur seul
devoir. Leur seul devoir et leur volonté unique» (FRAPPIER, «Structure et sens du Tristan: version commune,
version courtoise», p. 273).
500
La versione di Béroul parla di una durata del filtro limitata a tre anni. Si vedano sul punto: Sylvia HUOT,
«A Tale much Told: the Status of the Love Philtre in the Old French Texts», Zeitschrift für deutsche Philologie,
124, 2005, pp. 82-95; Gioia PARADISI, «L’amore di Tristano e Isotta secondo Béroul (e un’ipotesi sul filtro)»,
159
Tenuto conto di questo inconfutabile tratto, propongo d’indagare le dinamiche identitarie
che attraversano il testo di Béroul alla luce di una questione che è assunta come un dato
indubbio di questa versione della leggenda: la presenza di un narratore che, contro ogni
morale cristiana e ogni imposizione sociale dettata dal sistema feudale, appoggia i due
protagonisti adulteri, si schiera dalla loro parte501. Si tratterà, cioè, di indagare sulla possibilità
di estrapolare dal romanzo di Béroul un processo testuale, una forma in cui si realizzi questo
senso, una forma della diegesi che piloti una struttura ideologica così intrinseca nel romanzo
da essere accettata senza riserve502. Bisogna accettare i commenti condiscendenti del
narratore503 come un assunto, come il diretto riflesso dell’ideologia o dell’anti-ideologia
dell’autore, o è possibile indagare la formalizzazione di questo segno del consenso, il suo
modo d’incarnarsi nella scrittura504? Dalla particolare ottica del personaggio, quale forma
assume questo sguardo consenziente del narratore? È sufficiente affidarsi alla motivazione del
filtro apportata da Tristano e Isotta, e considerarla il solo strumento che l’autore assegna ai
suoi personaggi per rendersi difendibili?
In via preliminare, in uno studio del personaggio nel romanzo di Béroul, bisognerà
rilevare che un dato costitutivo ne è l’esasperato soggettivismo, che opacizza e altera i fatti
rappresentati. La scrittura di Thomas accordava un ruolo di primo piano al personaggio
attraverso sottili indagini psicologiche che si sviluppavano a discapito dello spazio riservato
agli eventi, i quali però, pur nella loro secondarietà, conservano una validità ontologica, si
Introduzione a BÉROUL, Tristano e Isotta, a cura di Gioia Paradisi, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2 13, pp. 546.
501
«En effet le roman de Béroul cultive un paradoxe, sans en donner jamais de façon explicite la solution:
ces deux héros manipulateurs, qui ont consommé régulièrement l’adultère, ne cessent même lorsqu’ils sont pris
en flagrant délit, et conservent la sympathie du narrateur, du peuple, et de Dieu même» (Dominique BOUTET,
«Vérité et responsabilité», in Catherine CROIZY-NAQUET - Anne PAUPERT, a cura di, Regards croisés sur le
Tristan de Béroul, Textuel, 66, 2012, pp. 11-23, p. 16). A proposito della «solidarietà con gli eroi», Varvaro
parlava di un «con-patire» dell’autore, del «suo sentire come anche sue le loro sofferenze, l’individuarle come
esemplari di una situazione esistenziale non loro esclusiva ma potenzialmente comune a tutti» (VARVARO, Il
Roman de Tristan di Béroul, pp. 87-88). Forse troppo trascurando questa portata estetica dell’operazione di
Béroul, su cui verterà la nostra analisi, la critica si è in diverse sedi interrogata sulla questione morale nel
romanzo, insistendo soprattutto sull’influenza dell’idea abelardiana d’intenzione: essendo l’adulterio dovuto al
filtro, i protagonisti sarebbero esenti da colpa (cfr. infra n. 553).
502
È quanto rileva Bertolucci Pizzorusso («Béroul e il suo Tristan», p. 213).
503
Su come i commenti del narratore pilotino il senso che l’autore intende attribuire alla materia che
rielabora (ma, anche sulla loro portata estetica), si veda Emmanuèle BAUMGARTNER, Tristan et Iseut. De la
légende aux récits en vers, Paris, PUF, 1987, pp. 40 ss. Sulla funzione degli interventi d’autore nella costruzione
del racconto cfr. Varvaro, Il Roman de Tristan di Béroul, pp. 74-86.
504
Parlare di scrittura per un autore che è stato dipinto come un menestrello dallo stile avvincente, ma
ingenuo e improntato all’oralità, potrebbe suscitare qualche risposta dissenziente (si veda, tra gli altri, Evelyn B.
VITZ, Orality and Performance in Early French Romance, Woodbridge-Rochester, Brewer, 1999, in particolare
pp. 180 ss.). Ma la questione della naïveté di Béroul mi sembra definitivamente archiviata con la ponderata
analisi di Ménard (Philippe MÉNARD, «L’art di Béroul», in BRUSEGAN, Le roman de Tristan. Le maschere di
Béroul, pp. 221-239, a cui rimando per la bibliografia pregressa sul punto).
160
presentavano come univocamente dati. Al contrario, in Béroul, l’evento è sottoposto,
attraverso il filtro del personaggio, a una decostruzione che fa vacillare la prospettiva di una
verità unilaterale.
Il paradigma è stato a più riprese rilevato dalla critica505, con analisi puntuali mirate a far
risaltare l’abilità dei due amanti nel manipolare il linguaggio al fine di piegare il dato reale, di
negare la loro relazione adultera. Proporremo qualche riflessione sul funzionamento del
soggettivismo nel testo, cercando di coglierne uno spessore che direi euristico, legato a un
modo di conoscenza del mondo, e non da intendersi semplicemente come manipolazione della
verità attraverso la parola menzognera. Ci soffermeremo sul primo episodio che ci è
pervenuto del frammento di Béroul, quello del colloquio spiato, considerato a ragione una
cifra dell’intero romanzo506, e nel quale si profila sin da subito quello che è il soggettivismo
che attraversa tutto il frammento.
Tristano e Isotta hanno concordato un appuntamento nel giardino, Marco è stato
informato dal nano Frocin del loro incontro e spia la scena dalla cima di un albero, ma i due si
accorgono della presenza del re per via del riflesso proiettato in uno specchio d’acqua: gli
amanti orchestreranno una messa in scena in cui il linguaggio si manifesterà in tutto il suo
potere di occultamento del referente. Il primo verso leggibile dell’episodio recita, « ue nul
senblant de rien en face»507, con evidente riferimento a Isotta, che si sforza di non lasciare
apparire nulla del reale stato d’animo con cui si era recata all’appuntamento. Il senblant, che
avevamo ripetutamente incontrato nell’episodio della salle aux images di Thomas, sembra
intitolare l’episodio, valorizzato dalla sua ripetizione qualche verso dopo: «Or fait senblant
con s’ele plore»508.
Isotta rimprovera a Tristano di averla fatta chiamare nel cuore della notte, cosa che rende
505
Cfr. Mariantonia LIBORIO, «La complicità dell’arte. Il Tristano di Béroul», in Clara SIBONA, a cura di,
Strategie della manipolazione, Ravenna, Longo, 1983, pp. 79-85; Barbara N. SARGENT-BAUR, «Truth, HalfTruth, Untruth: Béroul’s Telling of the Tristan Story», in Leigh A. ARRATHOON, a cura di, The Craft of Fiction.
Essay in Medieval Poetics, Rochester (Michigan), Solaris Press, 1984, pp. 393-421; Marie-Louise OLLIER, «Le
statut de la vérité et du mensonge dans le Tristan de Béroul», in BUSCHINGER, Tristan et Iseut. Mythe européen
et mondial, pp. 298-318; HUCHET, Tristan et le sang de l’écriture, in particolare alle pp. 89 ss.; Norris J. LACY,
«Where the Truth Lies: Fact and Believe in Béroul’s Tristan», Romance Philology, 52, 1999, pp. 1-10. Si
rimanda, inoltre, alla già citata analisi di BOUTET, «Vérité et responsabilité».
506
Cfr. Maria-Luisa MENEGHETTI, «Béroul e il ‘male’ di re Marco», in BRUSEGAN, Le roman de Tristan. Le
maschere di Béroul, pp. 240-256; Danielle BUSCHINGER, «Le rendez-vous épié dans le verger dans les romans
de Tristan de Béroul, d’Eilhart von Oberg et de Gottfried von Strassburg, ou la mise en scène de l’amour», in
Remembrances et resveries. Hommage à Jean Batany, Orléans, Paradigme, 2006, pp. 21-27; Jean MAURICE,
«L’épisode du rendez-vous épié, modèle matriciel du Tristan de Bèroul», Textuel, 66, 2012, pp. 91-99.
507
V. 2 (Che non faccia trasparire qualcosa).
508
V. (Ora fa finta di piangere). Sull’importanza in quest’episodio del lemma senblant, e di quelli a esso
associati voir, savoir, croire, si veda Paradisi: BÉROUL, Tristano e Isotta, p. 105, n. 497.
161
particolarmente compromessa la sua situazione di fronte al re, il quale sospetta, a causa dei
baroni felloni, che lei e il nipote abbiano una relazione. Isotta fa sin da subito sfoggio non
solo delle sue doti attoriali, sostenendo così abilmente la finzione, ma anche di quelle di
sapiente manipolatrice dell’arte della retorica:
Par Deu, qui l’air fist et la mer,
Ne me mandez nule foiz mais.
Je vos di bien, Tristan, a fais,
Certes, je n’i vendroie mie.
Li rois pense que par folie,
Sire Tristan, vos aie amé;
Mais Dex plevis ma loiauté,
Qui sor mon cors mete flaele,
S’onques fors cil qui m’ot pucele
Out m’amistié encor nul jor!509
È ovviamente Tristano colui che la prese pucele e il passo, nel gioco di ripetizioni, richiami,
anticipazioni e analessi di cui si avvale la scrittura di Béroul, anticipa la celebre scena
dell’escondit, su cui ci soffermeremo in seguito. Ci limiteremo per ora a notare come Isotta
abbia decostruito, nello spazio di venticinque versi, due verità in due maniere diverse. Nel
primo caso si trattava di creare un’apparenza (il senblant) che cancellasse il dato reale, che
mascherasse il presumibile stato d’animo con cui si era recata all’appuntamento, assumendo
subito un atteggiamento contrariato nei confronti di Tristano. Nel secondo caso, invece, il
mezzo di decostruzione del dato reale, ossia l’adulterio, non è la creazione di un’apparenza,
ma la pura logicità del discorso; Isotta non mente, proferisce una verità rigorosa, ammette il
proprio amore per chi ebbe la sua verginità. Solo nel primo caso si tratta di un
capovolgimento della verità, nel secondo si tratta piuttosto di un’impossibilità della verità:
Le vrai ne s’entend pas alors de la coïncidence de l’apparence et de l’essence, mais de
la justesse d’un raisonnement. La persuasion, elle, est le fait d’un sujet, et s’adresse à
un autre sujet; elle est essentiellement désir de convaincre: le temps pendant lequel
elle s’exerce, se livre une sorte de lutte qui n’est jamais acquis une fois pour toutes;
dans sa composition, entrent toutes sortes de paramètres instables, qui définissent une
configuration essentiellement ponctuelle. Le succès de la persuasion se mesure à ses
résultats: lorsqu’elle a déterminé l’autre à l’action, ou provoqué chez lui quelque
changement510.
Questa lotta per la persuasione verso il destinatario muto, puro bersaglio di una parola che
509
Vv. 16-25 (In nome di Dio, che creò il cielo e il mare, non mandatemi più a chiamare. Ve lo dico chiaro,
Tristano, davvero, non verrò. Il re pensa, Tristano, che io vi ami di una passione folle, ma Dio è testimone della
mia lealtà, che il suo castigo si abbatta su di me se mai qualcuno, tranne chi mi prese vergine, ebbe mai il mio
amore).
510
OLLIER, «Le statut de la vérité et du mensonge dans le Tristan de Béroul», p 309.
162
mira a plasmare la sua coscienza, spiega l’atteggiamento egotistico dei due protagonisti, che
sembrano ciascuno preoccupato della propria posizione, del riuscire a creare agli occhi di
Marco un’immagine positiva di sé, che ne riaccenda l’affetto. In una sorta di espansività
prospettivista, ognuno è impegnato a nobilitare il proprio ritratto:
Je quidai jadis que ma mere
Amast mot les parenz mon pere;
Et disoit ce, que ja mollier
N’en avroit ja son seignor chier
ui les parenz n’en amereit.
Certes, bien sai que voir diset.
Sire, mot t’ai por lui amé.
E j’en ai tot perdu son gré511.
Il riferimento all’autorità materna evoca nella scena, con un tratteggio fugace, il retroterra del
personaggio d’Isotta, quello di una regina raffinatamente educata, che si trova però ora
infamata dalla maldicenza dei felloni. Dopo qualche verso, Tristano le si rivolgerà
chiamandola «fille de roi, franche, cortoise», e, ancora dopo, Isotta lamenterà, come faceva
nel dialogo con Brangania in Thomas, che «Tote sui sole en ceste terre»512, lasciando
intravedere quel destino di regina strappata alla sua terra per soddisfare il desiderio di Marco.
Dall’altro lato della scena, Tristano controbatte con l’esaltazione del suo valore cavalleresco.
Tristano rivendicherà la sua superiorità sui felons, privi di coraggio e di prontezza nel
difendere il regno dello zio, e chiederà a Isotta d’intercedere per lui, affinché possa recuperare
il suo equipaggiamento e cercare un altro signore da servire, conscio che chiunque sarà
onorato di accoglierlo:
Fors a vos ne sai a qui plaindre.
Bien sai que mot me het li rois.
Engagiez est tot mon hernois.
Car le me faites delivrer:
Si m’en fuirai, n’i os ester.
Bien sai que j’ai si grant prooise,
Par tote terre ou sol adoise
Bien sai que u monde n’a cort,
S’i vois, li sires ne m’avot513.
Bèroul cede la parola ai suoi personaggi, lascia loro aprire un mondo messaggero di un punto
511
Vv. 73-80 (Compresi un tempo che mia madre amava molto i parenti di mio padre, e diceva questo, che
non ha caro il marito la moglie che non ne ama i parenti. So di certo che diceva la verità. Sire, è per lui che ti ho
amato, e per questo ho perduto il suo affetto).
512
Vv. 101-102 (figlia di re, nobile, cortese); v. 174 (sono completamente sola in questa terra).
513
Vv. 202-210 (Non so a chi rivolgermi se non a voi. Sono consapevole che il re mi odia. Il mio
equipaggiamento è dato in pegno. Fatemelo riscattare: così andrò via, non oso restare. So di avere grande
prodezza, so che, ovunque andassi, non ci sarebbe al mondo corte il cui signore non mi accolga, se vado).
163
di vista tutto personale. Si noterà la differenza tra l’impostazione generale della scena, mirata
alla decostruzione della verità davanti agli occhi di Marco, a un fine pratico che avvierà nuovi
sviluppi dell’intreccio, e queste due ultime annotazioni, in cui Tristano e Isotta tratteggiano un
modello che sentono d’incarnare, quello della regina impeccabilmente lontana da ogni colpa e
quello del prode cavaliere, modelli che non riescono a trovare una realizzazione nel fosco
cosmo della corte di Marco. La lotta per la persuasione opera cioè attraverso l’imposizione di
un modello: non si tratta qui di far coincidere l’apparenza e l’essenza di un evento, non si
tratta di una manipolazione, ma di ricreare una legittima coincidenza tra il personaggio e il
modello che in esso si riflette. Alla rivendicazione di non colpevolezza (basata su una
contorsione logico-linguistica) subentra la rivendicazione di un’autorità che trascende la
pochezza, gli angusti limiti della corte di Marco:
Se li felon de cest’enor,
Por qui jadis vos conbatistes
O le Morhout quant l’oceïstes,
Li font acroire (ce me senble)
Que nos amors jostent ensemble,
Sire, vos n’en avez talent,
Ne je, par Deu omnipotent,
N’ai corage de drüerie
Qui tort a nule vilanie514.
La negazione, da parte d’Isotta, dell’amore adultero, è corredata, quasi come se questo
costituisse un apporto probante, del riferimento alla grande impresa tristaniana dell’uccisione
del Moroldo. Di tutti i riferimenti analettici alla parte della leggenda non presente nel
frammento a nostra disposizione, questo è il più insistito. Se in un primo momento Isotta
rileva il valore dell’amato, in seguito entra nella cornice di questo ritratto autoritario, vi si
colloca al centro, accanto a Tristano:
Mot vos estut mal endurer
De la plaie que vos preïstes
En la batalle que feïstes
O mon oncle. Je vos gari515.
Tristano insisterà sull’azione contro il Moroldo, a ribadire lo scarto tra lui e i baroni:
Mot les vi ja taisant et muz,
514
Vv. 26-34 (Se i felloni di questo regno, per il quale voi combatteste contro il Moroldo, quando
l’uccideste, gli fanno credere, così mi sembra, che noi abbiamo una relazione, signore, voi non ci pensate affatto;
né io, in nome di Dio onnipotente, ho in animo una relazione illecita che mi possa disonorare).
515
Vv. 50-53 (Vi è toccato sopportare molto dolore per via della ferita che avete ricevuto nel duello contro
mio zio. Io vi ho guarito).
164
Quant li Morhot fu ça venuz,
Ou nen i out uns d’eus tot sous
Qui osast prendre ses adous.
Mot vi mon oncle iluec pensis,
Mex vosist estre mort que vis.
Por s’onor croistre m’en armai,
Combati m’en, si l’en chaçai516.
Abbiamo imparato, nel nostro percorso, a considerare i momenti analettici, i giochi della
memoria, come dei punti di disvelamento importanti nella riflessione che il personaggio
conduce su se stesso, e il riferimento alla battaglia contro il Moroldo costituirà un punto
centrale nella nostra analisi. Tuttavia, in questa fase, in cui siamo interessati a mettere in luce
il prospettivismo517 che connota il romanzo di Béroul e l’importanza che il punto di vista del
personaggio riveste nell’elaborazione del senso, sarà sufficiente rilevare che Tristano e Isotta
si collocano sin da subito – e con insistenza – sul piano di una coppia ideale, superiore alla
meschinità della corte di Marco, contrapponendovi la prospettiva di un passato dai tratti mitici
che li blocca nella loro eroicità518.
L’analessi opera nel romanzo di Béroul – e già in questo primo episodio – in un senso
duplice. Da un lato, si tratta di rievocare parti della leggenda non presenti nel romanzo
(almeno nel frammento pervenuto), ma dall’altro comporta la ripresa di punti raccontati anche
a breve distanza, come proprio nel caso del colloquio spiato. Ciascun personaggio che ha
partecipato all’evento ripercorrerà l’episodio, illuminandone alcune sfumature piuttosto che
altre519. Conclusasi la messa in scena dei due amanti, Marco, rimasto solo e ripercorrendola,
516
Vv. 135-142 (Li ho visti tacere, muti, quando il Moroldo venne qui, quando non ce ne fu uno solo di loro
che osò prendere le armi. Allora vidi mio zio molto turbato, avrebbe preferito essere morto. Per accrescere il suo
onore presi io le armi, combattei, ed ebbi la meglio).
517
Qualche indicazione su quest’aspetto è fornita in Annalisa PONTI, «I Tristani di Thomas e Béroul:
prospettivismo monologico e prospettivismo dialogico», Medioevo Romanzo, XIII, 1988, pp. 183-202. Ponti
parla, per i personaggi di Béroul, di «un’effettiva possibilità di rappresentare se stessi e la propria visione del
mondo indipendentemente dal narratore, dalla sua mediazione linguistica e, soprattutto, ideologica» (ivi, p. 193).
518
uest’appunto, interessato, come si vedrà, a illuminare una logica diegetica, si coniuga con la
prospettiva storica proposta da Maria Luisa Meneghetti, che ha letto nel romanzo di Béroul una lotta per la
successione a un re incapace di governare: «Non mi sembra improprio avanzare un’interpretazione di tutto il
Tristan […] in chiave di racconto di un tentativo (fallito) di passaggio – di translatio – del potere da un sovrano
ormai considerato non meritevole di regnare a un altro, ritenuto più degno o capace (MENEGHETTI, «Béroul e il
‘male’ di re Marco», p. 243). In effetti, il romanzo presenta spesso i due protagonisti come potenziali sovrani
ideali, cosa che, a mio vedere, è realizzata proprio in forza di quella continua identificazione rispetto al modello
trascendente della coppia mitica. Sul ruolo d’Isotta in questa idealizzazione della coppia, si veda Valeria
BERTOLUCCI PIZZORUSSO, «La corte e le sue immagini nel Tristan di Béroul», in Id, Morfologie del testo
medievale, pp. 19-33. Su come il testo presenti un forte protagonismo della coppia, e non del solo Tristano, si
veda anche Bénédicte MILLAND-BOVE - Vanessa OBRY, «Appel et rappel des personnages dans le Tristan de
Béroul», Textuel, 66, 2012, pp. 59- («Tristan et Yseut sont d’abord des individus qui peuvent être parfois vus
comme une entité supérieure», ivi, p. 73).
519
Cfr. Donald MADDOX, «L’auto-réécriture béroulienne et ses fonctions», in BRUSEGAN, Le roman de
Tristan. Le maschere di Béroul, pp. 181-190, in particolare a p. 184. Procedimenti simili di rinarrazione
165
ne suggella la riuscita, pentendosi di aver creduto al nano e ammettendo la profonda
commozione che il racconto della moglie e del nipote hanno suscitato in lui: Marco s’illude di
savoir, di aver colto il vero:
Or puis je bien enfin savoir,
Se feüst voir, ceste asenblee
Ne feüst pas issi finee.
S’il s’amasent de fol’amor,
Ci avoient asez leisor,
Bien les veïse entrebaisier.
Ges ai oï si gramoier,
Or sai je bien n’en ont corage.
Porqoi cro je si fort outrage?
Ce poise moi, si m’en repent:
Mot est fous qui croit tote gent520.
Con una risoluzione grottescamente esagerata, il re concederà molto più del previsto: Marco
lascerà ai due amanti «la chanbre tot a lor voloir»521. Se la retrospettiva di Marco è improntata
a un punto di vista alterato dalla verità performativa522 creata dai due protagonisti, e rientra,
dunque, ancora nel quadro dell’azione furfantesca, di cui si vuole mettere in risalto il
successo, più complessa appare, invece, la retrospettiva d’Isotta, che, appena tornata nella
reggia, riassumerà quanto accaduto a Brangania, che l’ha trovata particolarmente scossa e
gliene ha chiesto le ragioni:
Ele respont: «Bele magistre,
Bien doi estre pensive et tristre.
Brengain, ne vos vel pas mentir:
Ne sai qui hui nos vaut traïr,
Mais li rois Marc estoit en l’arbre,
Ou li perrons estait de marbre.
Je vi son onbre en la fontaine.
Dex me fist parler premeraine.
Onques de ce que je i quis
N’i out mot dit, ce vos plevis,
Mais mervellos conplaignement
Et mervellos gemissement.
Gel blasmé que il me mandot,
Et il autretant me priout
prospettica caratterizzano anche il Roman de Renart: cfr. Massimo BONAFIN, «Specchi narrativi», in Id., Le
malizie della volpe. Parola letteraria e motivi etnici nel Roman de Renart, Roma, Carocci, 2006, pp. 183-206.
520
Vv. 298-308 (Ora finalmente so; se fosse stato vero, quest’incontro non sarebbe finito così. Se si
amassero di un amore colpevole, questa sarebbe stata la buona occasione, li avrei di certo visti baciarsi. Io li ho
sentiti disperarsi. Ora so che non ci pensano proprio. Perché ho creduto a una tale offesa? Ciò mi pesa, me ne
pento. È tanto folle chi crede a tutti).
521
V. 297 (libero accesso alla camera nuziale).
522
Lacy definisce la verità in Béroul a speech act (LACY, «Where the Truth Lies: Fact and Believe in
Béroul’s Tristan», p. 4).
166
ue l’acordase a mon seignor,
Qui, a grant tort, ert a error
Vers lui de moi; et je li dis
Que grant folie avoit requis,
Que je a lui mais ne vendroie
Ne ja au roi ne parleroie.
Ne sai que je plus racontasse.
Conplainz i out une grant masse;
Onques li rois ne s’aperçut
Ne mon estre ne desconnut,
Partie me sui du tripot523.
Il resoconto d’Isotta corrisponde con sufficiente precisione all’evento, ma è immediato notare
come la predisposizione emotiva del personaggio conferisca al racconto una qualche forma di
pathos, laddove nella messa in scena si mostrava la lucida risolutezza della regina nel celare il
vero motivo dell’appuntamento. Isotta, direi, esagera alquanto la portata della sua
performance, insistendo sui «mervellos complaignement et mervellos gemissement», ribaditi
poi in quel «Conplainz i out une grant masse». Emerge quel sentimento di paura 524 che nella
scena era stato tenuto celato, e la riscrittura d’Isotta, latrice del particolare universo del
personaggio, crea un passaggio dal gioco comico che permeava la finzione della scena,
pilotata dalla ruse a discapito del re, a una prospettiva più delicata che lascia intravedere,
seppur nel frangente di qualche verso, un mondo interiore. Mi sembra che il passo mostri
bene come, nella scrittura di Béroul, il gusto per la ripetizione implichi notevoli risvolti
estetici, che ci preoccuperemo di approfondire.
Anche Tristano racconta al suo maestro Governal la scena del colloquio spiato, ma non ci
è dato conoscere la sua versione:
Tristan ravoit tot raconté
A son mestre com out ouvré.
uant conter l’ot, Deu en mercie
ue plus n’i out fait o s’amie525.
Resta comunque indicativo questo rincorrere la storia da parte dei personaggi, farla propria,
523
Vv. 345-369 (Isotta risponde: «cara signora, devo ben essere pensosa e triste. Brangania, non voglio
nascondere la verità: non so chi oggi abbia voluto tradire, ma il re Marco era sull’albero, dove il bordo della
fonte è di marmo. Ho visto la sua ombra nella fontana. Dio mi fece parlare per prima. Di quello che cercavo lì
non ho detto nulla, ve lo assicuro, ma grandi lamenti e pianti straordinari. L’ho biasimato per avermi fatto
chiamare, e per sua parte mi ha pregato di riconciliarlo con mio marito, che si è sbagliato di grosso su di noi. E io
gli ho detto che mi aveva chiesto un’enorme follia, che non l’avrei mai più raggiunto, né avrei parlato al re. Che
cosa raccontare di più? Ci furono tanti lamenti. Il re non si è accorto di niente, non ha capito il mio gioco. Poi me
ne sono andata da quell’intrigo).
524
Sul punto si veda Yasmina FOEH-JANSSENS, «Une poétique de la peur chez Béroul?», Textuel, 66, 2012,
pp. 43-57.
525
Vv. 381-384 (Tristano aveva raccontato al suo maestro quello che aveva fatto. Ascoltandolo, [Governal]
ringrazia Dio che non si è spinto oltre con la sua amante).
167
fissarla, renderne partecipe gli altri personaggi, riscriverla dal proprio mondo particolare. Nel
successivo incontro con Isotta, Marco, ancora una volta, riproporrà la scena del colloquio nel
giardino, insistendo sulla profonda commozione che aveva suscitato in lui:
«Sire, estiez voc donc el pin?
- Oïl, dame, par saint Martin.
Onques n’i ot parole dite
Ge n’oïse, grant ne petite.
« ant j’oï a Tristan retraire
La batalle que li fis faire,
Pitié en oi, petit falli
ue de l’arbre jus ne chaï.
Et quant je vos oï retraire
Le mal q’en mer li estut traire
De la serpent dont le garistes,
Et le grans bien que li feïstes,
Et quant il vos requist quittance
De ses gages, si oi pesance;
Ne li vosistes aquiter
Ne l’un de vos l’autre abiter,
Pitié m’en prist an l’arbre sus.
Souef m’en ris, si n’en fis plus526.
L’operazione di penetrazione nella coscienza di Marco ha dato un esito che si spinge ben oltre
i presupposti. Si noti il verso 485, che richiama il serpent, il dragone che terrorizzava l’Irlanda
e da cui Tristano, pronto a combatterlo, ricevette una ferita mortale. Nella scena del colloquio
spiato si fa riferimento soltanto al combattimento con il Moroldo, che, verosimilmente, è la
batalle che Marco rievoca cinque versi prima del serpent. Il passo potrebbe essere collocato
dai filologi nella lista delle numerose incoerenze che il testo di Béroul presenta (ma non mi
risulta, a mia conoscenza, che il punto abbia suscitato particolare interesse)527. Ma, dalla
prospettiva analitica qui adottata, attenta all’intenzione del personaggio e al suo particolare
microcosmo, diremo che la performance di Tristano e Isotta ha talmente manipolato la
coscienza del re da creare in lui un’associazione d’immagini per cui il Moroldo richiama il
dragone, mettendo a fuoco le due grandi imprese che fissano Tristano nel segno
dell’eroicità528. Ancor più di quanto non avessero fatto Tristano e Isotta, Marco colloca i due
526
Vv. 475-492 («Sire, eravate dunque sul pino?». «Sì, signora, per san Martino. Non c’è stata parola che io
non abbia udito, grande e piccola. Quanto ho sentito Tristano raccontare il duello che gli ho fatto combattere, ne
ho avuto pietà, mancò poco che non cadessi dall’albero. E quando vi ho sentito raccontare il male che gli toccò
sopportare in mare, della ferita inferta dal drago, da cui lo avete guarito, e il gran bene che gli avete fatto, e
quando vi ha chiesto di riscattare i suoi beni, ho provato una gran pena; non avete voluto liberarlo dal debito, né
vi siete avvicinati l’uno all’altra. Pietà mi ha preso lì sull’albero. Ne ho sorriso dolcemente, non ho fatto altro).
527
Anzi, Varvaro, notando come la vicenda del Moroldo sia più volte ricordata, sottolinea che «del dragone
irlandese invece il frammento non dice nulla» (VARVARO, «Il Tristan di Béroul, quarant’anni dopo», p. 337).
528
Il riferimento al Moroldo, associato a quello al dragone, sembra ispirato, come nel romanzo di Eilhart
168
amanti sul piano trascendente di un richiamo a un mondo mitico: Tristano è il vincitore di
mostri e liberatore di popoli, Isotta è colei che, puntualmente, lo guarisce da ferite mortali.
Possiamo forse trarre, dall’analisi di questi primi passi, qualche considerazione sul
soggettivismo bérouliano, sul potere di appropriazione del reale che conferisce ai suoi
personaggi.
Mi sembra chiaro che questo potere di appropriazione soggettiva si sviluppi in due sensi
diversi. Il testo presenta sicuramente una manipolazione da parte dei protagonisti del fatto,
una negazione della realtà dell’adulterio. Come abbiamo visto, e come vedremo meglio nella
scena dell’escondit, Isotta gestisce retoricamente il reale, affidando al linguaggio
l’impostazione di un testo che «apparaît d’un bout à l’autre comme une mise en scène du
caractère insaisissable de la vérité»529. Il linguaggio, linguaggio diviso, non segue la verità:
Le langage confirme ici son impuissance à dire toute la vérité dont il n’actualise
qu’une partie. Mensonge (par omission) et vérité se mêlent dans le texte de Béroul,
redécouvrant la relativité de la vérité et scellant la faillite de La Vérité. Contrairement
à ce que croyaient la tradition platonicienne et la patrologie, la vérité n’est plus une
essence mais une dialectique: elle requiert le mensonge, et l’ordre d’une structure qui
fait de la vérité une affaire de place, sinon d’oreille…530
Secondo Huchet la modernità del romanzo viene proprio dalla rappresentazione del
linguaggio umano come afflizione, dalla constatazione che l’uomo mal si accorda alla verità e
che «seul le désir de ne pas savoir l’anime, dès lors même qu’il s’engage dans une quête de
vérité»531. Per Ollier, lo abbiamo visto, lo statuto della verità è, nel romanzo di Béroul, opaco,
in quanto, più che di certezze delle quali riconoscere oggettivamente il valore, si tratta di «un
assentiment à obtenir de l’autre ou à lui imposer»532, di un desiderio di convincere. La
studiosa vi vede una «stupéfiante découverte» del XII secolo 533, che avrebbe valorizzato il
potere della scrittura di finzione, la quale si fa veicolo di una verità multipla, che si può dire
von Oberg (éd. Pléiade, p. 26 ss.) a una figura arcaica. Il personaggio assumerà tutt’altro aspetto nel romanzo di
Goffredo di Strasburgo, in cui appare nei panni di un cavaliere (ed. Pléiade, p. 469 ss.). Si rinvia a Fabrizio
CIGNI, «Da un’avventura tristaniana al mito di Eracle: la sconfitta del Moroldo», in Anna Maria BABBI, a cura
di, Rinascite di Ercole, Verona, Edizioni Fiorini, 2002, pp. 183-198. Si vedano, inoltre, Jean-Marc PASTRÉ,
«Morhold et le Tricéphale: les sources indoeuropéennes du mythe tristanien», in L’unité de la culture
européenne au Moyen Age, Greifswald, Reineke-Verlag, 1994, pp. 77-94; Id., «Le personnage de Tristan: un
archétype revisité», in Façonner son personnage au Moyen Age, pp. 285-296; Id., «La matière de Tristan et le
conte merveilleux», in Tristan et Yseut. Un thème eternel dans la culture mondiale, pp. 191-204.
Sull’importanza del richiamo analettico all’impresa contro il Moroldo nel romanzo di Béroul insiste la già citata
Huguette Legros (LEGROS, « uand Tristan réécrit son histoire…»).
529
OLLIER, «Le statut de la vérité et du mensonge dans le Tristan de Béroul», p. 299.
530
HUCHET, Tristan et le sang de l’écriture, pp. 90-91.
531
Ivi, p. 93.
532
OLLIER, «Le statut de la vérité et du mensonge dans le Tristan de Béroul», p. 299.
533
Ivi, p. 315.
169
solo attraverso un linguaggio, quello umano, «capable d’énoncer les contraires»534. Anche per
Howard Bloch con la storia di Tristano, «novel of countless partial half-truths», il romanzo
diventa, già modernamente, il prodotto di una «subjective vision»535.
Tutta la scena del colloquio spiato, attraverso la padronanza dell’arte della retorica dei
due personaggi, rende la verità performativa, la plasma agli occhi del re, la inventa, la pilota:
chiamerei questo prospettivismo un prospettivismo decostruzionista. La dislocazione dei
segni, la loro incapacità di cogliere l’oggetto, la manipolazione retorica del reale e la
moltiplicazione delle verità sono senz’altro aspetti che partecipano in maniera rilevante al
tessuto della scrittura bérouliana. Ma abbiamo poi visto, con il racconto della scena a opera
prima d’Isotta e poi di Marco, una forma, per così dire, più tenue di prospettivismo, che
riproponeva la stessa storia da angolazioni diverse, dal microcosmo unico e particolare del
personaggio.
Lì non si mirava a decostruire la verità, non si manipolava il linguaggio verso un fine
pratico; veniva meno quel desiderio di persuasione di cui parla Ollier e il flusso del
linguaggio non serviva a mascherare il dato, ma a lasciar trasparire i moti interni del
personaggio, la sua visuale, la sua riscrittura della storia, il suo filtro rispetto al mondo. Già
Varvaro, analizzando i ricordi e i preannunci presenti nel testo, coglieva la portata estetica
della riproposizione di uno stesso evento in punti diversi:
Insomma, in Béroul ogni sentimento, ogni moto dell’animo e del cuore, nel momento
in cui si genera o affiora alla coscienza e all’espressione ha bisogno di presupporsi
eterno, di crearsi una durata; e ottiene ciò mediante questa fittizia proiezione nel
tempo536.
Il romanzo trova così una sua coesione interna attraverso la disseminazione delle sue
componenti, che vengono illuminate e rivisitate da un moto del personaggio. Mi pare che sia
in questo secondo prospettivismo, in questo gioco per cui ogni personaggio è latore di una sua
storia, più che nell’idea di una negazione della verità, che si debba rintracciare la modernità
del nostro romanzo. Si tratta di un prospettivismo romanzesco, è il tipo di prospettivismo che
Bachtin ci ha insegnato a leggere nella costruzione, attraverso il personaggio, di un universo
in cui voci diverse si accordano. Per Bachtin, nell’architettonica del romanzo, l’eroe
costituisce un centro di valore, un punto di vista che elabora il senso delle vicende narrate
534
Ivi, p. 316.
R. Howard BLOCH, «Tristan, the Myth of the State and the Language of the Self», Yale French Studies,
51, 1974, pp. 61-81, p. 81.
536
VARVARO, Il Roman de Tristan di Béroul, p. 58.
535
170
attraversandole con le sue particolari intonazioni537, le quali s’incrociano con quelle altrui.
Non si tratta di un relativismo che annulla la verità, ma di una verità che si connota come
processo, come costruzione, come incontro di voci intonate ciascuna dal suo particolare
microcosmo.
2. Un tempo duplice: la storia perduta
Soffermiamoci ora sul rapporto tra questa verità ambigua, performativa, e il messaggio di
giustificazione dei due amanti adulteri che il testo veicola.
Ottenuta l’autorizzazione di Marco ad accedere alla camera nuziale («Allent et viengent a
lor buens»)538, i due amanti possono tranquillamente godere della reciproca frequentazione,
ma l’urgenza del loro amore («Car Amors ne se puet celer»539) li rende troppo indiscreti,
aizzando l’antagonismo dei tre baroni felloni:
Qar, en un gardin, soz une ente,
Virent l’autrier Yseut la gente
Ovoc Tristan en tel endroit
Que nus hon consentir ne doit;
Et plusors foiz les ont veüz
El lit roi Marc gesir toz nus540.
L’opposizione dei baroni sembra legittimata dalla nitidezza della verità, il loro punto di vista
è vincolato all’unilateralità del fatto541: «Qar bien savon de verité»542. Marco oscilla tra la
537
«[L’intonazione] è il segno della posizione emotiva di chi parla, esperisce, valuta» (Stefania SINI,
Michail Bachtin. Una critica del pensiero dialogico, Roma, Carocci, 2011, p. 106). Si legge in Bachtin: «la
verità dell’evento non è un vero identicamente uguale, per contenuto, a se stesso: è invece la giusta posizione di
ogni partecipe, la verità del suo reale dover essere concreto» (Michail BACHTIN, Per una filosofia dell’azione
responsabile, Lecce, Manni, 1998, p. 57).
538
V. 465 (Vadano e vengano a loro piacimento).
539
V. 576 (Perché Amore non può nascondersi).
540
Vv. 589-594 (In effetti, avevano visto un giorno, in un giardino, sotto un albero fruttato, la nobile Isotta
con Tristano in un atteggiamento intollerabile; e diverse volte li avevano visti giacere nudi nel letto di Marco).
541
Per Ollier i baroni sono gli unici a cercare la verità, che, come abbiamo visto, la studiosa considera
multipla e inafferrabile (OLLIER, «Le statut de la vérité et du mensonge dans le Tristan de Béroul», p. 315).
Baumgartner rileva che, pur nella loro connotazione negativa, i baroni «sont finalement les seuls à rappeler les
exigences de la loi, l’obligation où se trouve le roi, l’époux, de demeurer le garant de la morale publique et de la
morale privée» (Emmanuèle BAUMGARTNER, «A la cour, il y avait trois barons», in BRUSEGAN, Le roman de
Tristan. Le maschere di Béroul, pp. 269-283, p. 278). Ammetto di non condividere pienamente queste
affermazioni. Stando all’intima logica del racconto, i baroni non cercano una verità, ma la danno per
presupposta, e il loro antagonismo è primordiale, risale all’invidia per il valore di Tristano, a prescindere
dall’eventuale colpa morale dell’adulterio (come del resto riconosce la stessa Baumgartner qualche pagina
prima, ivi, p. 269). Il loro ruolo, cioè, non mi pare quello di difensori di un qualunque ordine sociale, politico o
morale. Mi pare invece più plausibile l’intuizione di Machta, che, analizzando le motivazioni che spingono
171
verità dei baroni e quella degli amanti («ne set qu’il die, sovent erre»543), ma si lascia
convincere a interpellare il nano Frocin, noto per le sue virtù profetiche544, al fine di indagare
sui rapporti tra la moglie e il nipote. La voce del narratore anticipa il disastro imminente,
schierandosi contro i delatori:
(Dehez ait il), conme boçuz545.
Dehé aient tuit cil devin!
Qui porpensa tel felonie
Con fist cist nain, qui Deus maudie?546
Il re, su suggerimento del nano, incaricherà Tristano di mettersi in viaggio per consegnare una
lettera ad Artù, costringendolo quindi ad assentarsi dalla corte per qualche giorno. Il nano è
certo che, al pensiero della lontananza, il nipote del re vorrà passare un’ultima notte con
Isotta. Tristano dorme nella stessa camera dei sovrani, «Entre son lit e cel au roi avoit bien le
lonc d’une lance»547. Frocin cosparge di farina lo spazio tra un letto e l’altro, spazio bianco su
cui vuole che si fissi la sua (e dei baroni) verità, la prova dell’unione dei due amanti: «la flor
la forme des pas tient»548. Ma Tristano, fingendo di dormire, si accorge della trovata di Frocin
e, appena il nano e il re saranno usciti dalla camera, tenterà l’impresa che lo tradirà, un salto
da un letto all’altro, che sarà reso sterile dall’apertura di una ferita alla gamba procuratasi il
giorno prima:
Tristan se fu sus piez levez.
Dex! Porqoi fut? Or escoutez!
all’azione ingannevole tanto i protagonisti (difendersi da accuse e condanne) quanto i loro nemici (cogliere in
flagrante i due amanti), annota come le motivazioni di questi ultimi, a differenza di quelle di Tristano e Isotta,
mostrino una certa «opacité»: «Cette différence au niveau des motivations donne lieu à une valorisation de la
logique amoureuse au détriment de la logique du pouvoir» (MATCHA, Poétique de la ruse dans les récit
tristaniens français du XIIe siècle, p. 361).
542
V. 615 (Perché conosciamo la verità).
543
V. 612 (Non sa che cosa dire, fa avanti e indietro). Sul personaggio di Marco, sulla sua volubilità,
sull’ambiguo rapporto che lo lega ai due amanti, si vedano Colette-Anne VON COOLPUT, «Le roi Marc dans le
Tristan de Béroul», Le Moyen Age, 84, 1978, pp. 34-51; Peter S. NOBLE, «Le roi Marc et les amants dans le
Tristan de Béroul», Romania, 102, 1981, pp. 221-226. Si veda inoltre PONTI, «I Tristani di Thomas e Béroul:
prospettivismo monologico e prospettivismo dialogico», in particolare alla p. 202, dove si discute della non
appartenenza di Marco a nessuno dei due schieramenti rivali.
544
Sulla figura del nano si vedano, tra gli altri, Charles RIDOUX, «Trois exemples d’une approche
symbolique. Le tombeau de Camille, le nain Frocin, le lion», in Et c’est la fin pour quoy sommes ensemble.
Hommage à Jean Dufournet, Paris, Ėditions Champion, 1993, tome III, pp. 121 -1221; Philippe WALTER,
«Orion et Tristan ou la semantique des étoiles», in Le soleil, la lune e les étoiles au moyen âge, Aix-en-Provence,
Publications du CUER MA, Université de Provence, 1983, pp. 438-49.
545
V. 640 (Che sia maledetto, quel gobbo).
546
Vv. 646-468 (Siano maledetti tutti questi indovini! Chi avrebbe pensato una tale perfidia, come fece quel
nano, che Dio lo maledica).
547
Vv. 694-695 (Tra il suo letto e quello del re c’era la distanza di una lancia).
548
V. 6 (La farina conserva l’impronta).
172
Les piez a joinz, esme, si saut,
El lit le roi chaï de haut.
Sa plaie escrive, forment saine;
Le sanc qui’en ist les dras ensaigne.
La plaie saigne, ne la sent,
Qar trop a son delit entent.
En plusors leus li sanc aüne.
Li nains defors est. A la lune
Bien vit josté erent ensemble
Li dui amant. De joie en trenble,
Et dist au roi: «Se nes puez prendre
Ensemble, va, si me fai pendre»549.
Il narratore, nella sua assoluta parzialità, non esita ad accusare Isotta di scarsa prontezza:
Ha! Dex, que deul que la roïne
N’avot les dras du lit ostez!
Ne fust la nuit nus d’eus provez550.
La constatazione del narratore (sarebbe bastato che Isotta avesse tolto le lenzuola) illustra
bene la labilità dei segni, che, pur nella loro apparente disposizione a rappresentare un
referente, potrebbero scivolare facilmente nel contrario di ciò che sembrano rappresentare. Si
tratta sempre di una sospensione tra due asserti, e la via dell’equilibrio sembra negata. Del
resto, il nano non ha ottenuto veramente quello che voleva, la prova del passo fissato sulla
farina – che la forme des pas tient –, segno che avrebbe scritto definitivamente la sua versione
della storia. La prova ottenuta è, invece, densa di ambiguità – una prova liquida –: da un lato
Isotta tra le lenzuola insanguinate, dall’altro Tristano con una ferita che sanguina. Si tratta di
inferire la verità, attraverso un’interpretazione dei segni, non di averla sotto gli occhi. Il dato
resta inquinato dall’ombrosità delle apparenze.
I due saranno condannati al rogo, ma l’evidenza della colpevolezza (evidenza che, benché
non totale, è comunque riconosciuta da tutti) non basta a tenere a freno un discorso, quello di
Tristano, ispirato a una tracotanza pronta a eliminare chi accusi i due amanti:
« ar il n’a home en ta meson,
549
Vv. 727-740 (Tristano si alzò in piedi. Dio! Perché lo fece? Ora ascoltate. A piedi giunti, prende la
distanza, salta, cade sul letto del re dall’alto. La ferita si apre, sanguina molto; il sangue che ne esce macchia le
lenzuola. La ferita sanguina, non la sente, perché è tutto intento al suo piacere. La macchia di sangue si estende.
Il nano è fuori. Al chiarore della luna, vede i due amanti abbracciati. Trema di gioia, e dice al re: «Se non riuscite
a sorprenderli insieme, allora fatemi impiccare»).
550
Vv. 750-752 (Ah, Dio, che peccato che la regina non avesse tolto le lenzuola dal letto. Non si sarebbe
provato nulla, quella notte). La partigianeria del narratore arriva ad accusare anche Tristano, che, nel suo
procrastinare l’uccisione dei tre felloni, sembra peccare di troppa prudenza: « ar, s’il seüst ce que en fut / Et ce
qui avenir lor dut, / Il les eüst tüez toz trois, / Ja ne les en gardast li rois. / Ha! Dex, porqoi ne les ocist? (vv.
821-825: Poiché, se avesse saputo quello che sarebbe successo, quello che doveva capitare, li avrebbe uccisi tutti
e tre, se non avessero avuto la protezione del re).
173
Se disoit ceste traïson
Que pris eüse drüerie
O la roïne par folie,
Ne m’en trovast en chanp, armé»551.
Una tracotanza che tende ad annullare il dato; il suo essere «héros démesuré, capable
d’exploites insensés»552 pone Tristano su di un piano che trascende l’idea di verità – ispirata
alla dicotomia colpa vs innocenza – in cui la corte di Marco vuole limitarlo. Tanta sicurezza
potrebbe essere conferita ai due amanti dalla loro bone foi, elemento su cui tanto la critica ha
insistito553. Come gli amanti, in fuga nella foresta dopo essere scampati alla condanna al rogo,
cercano di spiegare all’eremita Ogrin554, la loro irrefrenabile passione non è inscrivibile nel
segno della responsabilità, ma è dovuta all’incidente del filtro:
Tristan li dit: «Sire, par foi,
ue ele m’aime en bone foi,
Vos n’entendez pas la raison:
’el m’aime, c’est par la poison.
Ge ne me pus de lié partir,
N’ele de moi, n’en quier mentir555.
551
Vv. 799- 3 (Perché non c’è nessuno del tuo seguito che, se mi accusasse ingiustamente di avere una
relazione con la regina, non mi troverebbe armato, pronto alla battaglia).
552
Michelle SZKILNIK, «Avant-propos», in Des Tristan en vers au Tristan en prose, pp. 7-15, p. 9.
553
Si tratta dell’interpretazione del testo di Bèroul in chiave abelardiana. Facendo dire ai due amanti che la
responsabilità incombe sul filtro, l’autore immunizzerebbe Tristano e Isotta dal peccato dell’adulterio, peccato
non intenzionale. Si vedano: Jean-Charles PAYEN, «Ordre moral et subversion politique dans le Tristan de
Béroul», in Mélanges de littérature du Moyen Age et du XXe siècle offerts à Mademoiselle Jeanne Lods, Paris,
Collection de l’Ecole Normale Supérieure de Jeunes Filles, 1978, vol. I, pp. 473-484; Tony HUNT, «Abelardian
Ethic and Béroul’s Tristan», Romania, 98, 1977, pp. 501-540; Philip E. BENNETT, «Jugement de Dieu, parole
d’auteur. Béroul et le débat sur l’intentionnalité au XIIe siècle, in Tristan et Iseut. Un thème éternel dans la
culture mondiale, pp. 13-25. Per Bennett non è possibile ammettere perentoriamente che Béroul abbia assunto
una posizione abelardiana. Più decise, e a mio vedere più condivisibili, le conclusioni di Sargent-Baur: «Une
leçon de morale chrétienne n’est pas un trait saillant de ce récit» (Barbara N. SARGENT-BAUR, «La dimension
morale dans le Roman de Tristan de Béroul, Cahiers de Civilisation Médiévale, 31, 1988, pp. 49-56, p. 54). Si
noterà come solo Ogrin (e, presumibilmente, Dio) sia a conoscenza dell’incidente del filtro. Accentuare
quest’aspetto significa trascurare un altro importante elemento del romanzo, ossia l’appoggio della vox populi ai
due protagonisti, su cui ci soffermeremo nelle prossime pagine. Inoltre, nella versione di Béroul il filtro ha una
durata limitata nel tempo, scaduto il quale i due non mostreranno alcun pentimento di tipo morale, ma
rimpiangeranno invece la posizione di privilegio sociale a cui hanno dovuto rinunciare, e continueranno
comunque ad amarsi. Flori parla a questo proposito di «amour conscient» (Cfr. Jean FLORI, «Amour et
chevalerie dans le Tristan de Béroul», in Tristan-Tristrant, pp. 169-176, p. 174, n. 16). Si legga quanto scrive lo
studioso: «La diversité de ces interprétations tient pour une large part à une trop totale acceptation de l’idée selon
laquelle l’influence profonde de l’Eglise et de sa morale aurait interdit une telle valorisation de l’amour adultère,
si présent pourtant dans tant d’œuvres médiévales, particulièrement au XII ème siècle. C’est à la fois surestimer
cette influence sur les milieux aristocratiques et sous-estimer le rôle de la littérature comme mode de
transgression par le moyen de rêve (ivi, pp. 173-174, corsivo mio).
554
Sulla figura dell’eremita di veda Danielle BUSCHINGER, «Le rôle de l’ermite chez Bèroul, Eilhart et les
derivés du Tristrant allemand», in Exclus et systèmes d’exclusion dans la littérature et la civilisation médiévale,
Aix-en-Provence, CUER MA, Senefiance, 5, 1978, pp. 269-280.
555
Vv. 1381-1386 (Tristano gli risponde: Signore, credetemi, ella mi ama in buona fede, e voi non potete
saperne la ragione. Io non posso separarmi da lei, né lei da me, non sto mentendo).
174
Iseut au pié l’ermite plore,
Mainte color mue en poi d’ore,
Mot li crie merci sovent:
«Sire, por Deu omnipotent,
Il ne m’aime pas, ne je lui,
Fors par un herbé dont je bui
Et il en but: ce fu pechiez.
Por ce nos a li rois chaciez»556.
L’evento della colpa è, ancora una volta, filtrato, problematizzato, fino a una sua
polverizzazione. Dio, che più che il dio cristiano sembrerebbe una divinità che sorride ai suoi
eroi557, è dalla parte dei due amanti:
Mot grant miracle Deus i out,
Qui garanti, si con li plot558.
Oez, seignors, de Damledé,
Conment il est plains de pité;
Ne vieat pas mort de pecheor.
Receü out le cri, le plor
Que faisoient la povre gent
Por ceus qui eirent a torment559.
Il peccato degli amanti è ammesso dal narratore, ma subito trasceso dalla mediazione di un
dio che ascolta la voce del popolo:
556
Vv. 1409-1416 (Isotta piange ai piedi dell’eremita, cambia più volte colore in poco tempo, ne implora
ripetutamente pietà: «Signore, per Dio onnipotente, egli non mi ama, e io non amo lui, se non per un elisir d’erbe
che entrambi bevemmo: questo fu lo sbaglio. Ed è per questo che il re ci ha scacciato»).
557
Dussol (Etienne DUSSOL, «À propos du Tristan de Béroul. Du mensonge des hommes au silence de
Dieu», in Et c’est la fin pour quoy sommes ensemble, t. II, pp. 525-533) si è interrogato sull’enigma per cui
«Dieu est totalement silencieux» (ivi, p. 526), silenzio che è difficile non considerare come un’approvazione.
Secondo lo studioso quest’aspetto sarebbe sorprendente per una società medievale che assegna al verbo uno
statuto demiurgico analogo a quello divino. Dussol interpreta il silenzio di Dio come il giusto contrappeso alla
parola menzognera degli umani, rispetto a cui Dio esprimerebbe una radicale alterità, denunciando come il
discorso degli uomini sia «un discours en quelque sorte incomplet, trompeur, mensonger». (ivi, p. 531). Secondo
Bennett, che riprende le tesi di Frappier, Dio non lascia intravedere la sua vera sentenza, è insondabile nel suo
giudizio (Philip E. BENNETT, «Jugement de Dieu, parole d’auteur. Béroul et le débat sur l’intentionnalité au XIIe
siècle). Più convincente mi pare la posizione di Paradisi: «Si tratta forse di pensare a una concezione del sacro
altra, in origine, che può essere stata più evidente negli strati più antichi della leggenda» (PARADISI, «L’amore di
Tristano e Isotta secondo Béroul (e un’ipotesi sul filtro)», p. 12). Più in generale, come cercherò di argomentare
nelle pagine che seguono, qualunque compromissione morale, sia religiosa che sociale, mi pare esclusa
dall’universo del romanzo. Si legga Noble: «The attitude of Beroul towards religion is hard to asses. The action
unfolds in a Christian setting, and the characters are clearly aware of the presence and importance of God, to
whom they refer frequently. Many of these references, however, seem to be little more than conventional
formulae, exclamations or assertions to add strength to the statement or to express the character’s dismay (Peter
S. NOBLE, Beroul’s Tristan and the Folie de Berne, London, Grant and Cutler Ltd, 1982, p. 56). Sul ruolo della
religione e della figura di Dio insiste l’interpretazione teologica di Ribard (Jacques RIBARD, «Pour une
interprétation théologique du Tristan de Béroul», Cahiers de civilisation médiévale, 28, 1988, pp. 235-242).
558
Vv. 755-756 (Un grande miracolo fece dio, che li salvò, come a lui piacque).
559
Vv. 909-914 (Udite, signori, come Dio è pieno di pietà. Non vuole la morte del peccatore. Ha accolto il
grido, il pianto della povera gente per coloro che andavano incontro al supplizio).
175
Pleurent li grant et li petit,
Sovent l’un d’eus a l’autre dit :
«A! las, tant avon a plorer!
Ahi! Tristan, tant par es ber!
uel damage qu’en traïson
Vos ont fait prendre cil gloton!
Ha! Roïne franche, honoree,
En quel terre sera mais nee
Fille de roi qui ton cors valle?560
Il sostegno del popolo, «personaggio-coro»561, non è gratuito:
Ahi! Tristan, si grant dolors
Sera de vos, beaus chiers amis,
Qant si seroiz a destroit mis!
Ha! Las, quel duel de vostre mort!
Qant le Morhout prist ja ci port,
Qui ça venoit por nos enfanz,
Nos barons fist si tost taisanz
Que onques n’ot un si hardi
ui s’en osast armer vers lui.
Vos enpreïstes la batalle
Por nos trestoz de Cornoualle
Et oceïtes le Morhout.
Il vos navra d’un javelot,
Sire, dont tu deüs morir.
Ja ne devrïon consentir
Que vostre cors fust ci destruit»562.
Tristano e Isotta sono collocati dal popolo sotto il segno di un’autorità che travalica la loro
colpa, quella stessa autorità che i due protagonisti reclamavano per sé nell’episodio del
colloquio spiato: Tristano ha ucciso il Moroldo, e sarebbe morto se non fosse stato per le cure
prestategli da Isotta. Il popolo, riconoscente a Tristano per averlo liberato da una tirannia,
rivendica per i due amanti il ruolo di garante del tessuto sociale. Come abbiamo visto nelle
Folies, o nel racconto del gigante delle barbe in Thomas, l’analessi pone Tristano (e, con lui,
Isotta) su un piano mitico, che lo immortala nella sua levatura eroica.
Emmanuèle Baumgartner ha rilevato come il romanzo di Béroul, nella sua utilizzazione
560
Vv 831-839 (Piangono i grandi e la gente del popolo, e continuano a ripetersi l’un l’altro: «Ah, tanto ci
tocca piangere! Ahi! Tristano, sei così coraggioso. Che peccato che quei malfattori vi abbiano fatto prendere a
tradimento. Ah! Nobile regina onorata, in quale terra potrà mai nascere una figlia di re del tuo valore?).
561
VARVARO, Il Roman de Tristan di Béroul, p. 94.
562
Vv. 844-859 (Ahi, Tristano, che enorme dolore proveremo per voi, caro amico, quando sarete
suppliziato! Ah, che dolore la vostra morte! Quando il Moroldo è sbarcato qui per prendersi i nostri figli, fece
ammutolire i baroni, tanto che non ce ne fu uno così temerario da osare prendere le armi contro di lui. Voi avete
affrontato il combattimento per tutti noi della Cornovaglia, e avete ucciso il Moroldo. Egli vi ferì con un
giavellotto, signore, e ne sareste dovuto morire. Non dovremmo permettere, ora, che siate messo a morte).
176
dell’analessi, proponga due tipi di passato. Uno, per così dire, interno, che rinvia a una
dinamica di richiami che si offrono al lettore-spettatore, un passato che ripresenta spezzoni
della storia già contemplati nello stesso romanzo; l’altro, esterno, richiama una sorta di
passato remoto che influenza la costruzione di senso:
Il y a ainsi, chez Béroul, toute une série de moments où l’on assiste en direct à la
création d’un passé qui n’est pas vraiment restitué à loisir ni rigoureusement inséré
dans la chaîne des causes et des conséquences, mais qui surgit lorsqu’il en est besoin,
d’un coup de baguette magique563.
In questa distinzione tra un’analessi interna e una esterna, va ovviamente precisato che non
possiamo essere certi che gli eventi che sembrano affondare in questo passato primitivo, come
il combattimento con il Moroldo o la battaglia con il dragone, non fossero presenti nella
versione originale del romanzo di Béroul564. Ma, stando al frammento a nostra disposizione,
essi assumono un’aura mitica dotata di un’estrema autorevolezza. Il riferimento al
combattimento contro il Moroldo sarà ripreso ancora una volta anche da Marco nell’episodio
della foresta del Morois, quando, sorpresi gli amanti a dormire insieme vestiti e con una spada
che separa i loro corpi, sostituirà la propria spada con quella di Tristano:
Et, quant vendra au departir,
Prendrai l’espee d’entre eus deus
Dont le Morhot fu del chief blos»565.
uando, finito l’effetto del filtro, i due si pentiranno e accetteranno, per il tramite dell’eremita
Ogrin, di inviare una lettera a Marco con una richiesta di perdono, si porrà come premessa
alla richiesta l’altra grande impresa di Tristano, l’uccisione del dragone che affliggeva
l’Irlanda e, eliminando il quale, l’eroe ottenne la mano d’Isotta566:
Rois, tu sez bien le mariage
De la fille le roi d’Irlande.
Par mer en fui jusqu’en Horlande,
Par ma proece la conquis,
Le grant serpent cresté ocis,
563
BAUMGARTNER, «A la cour, il y avait trois barons», p. 272. Si veda anche MADDOX, «L’auto-réécriture
béroulienne et ses fonctions».
564
«In effetti tutte le attualizzazioni della storia che noi conosciamo, siano esse lunghe o brevi,
presuppongono – più che un testo archetipo – una linea biografica che va almeno dal duello con il Morholt alla
morte degli amanti, la quale si sostanzia volta a volta attingendo ad una costellazione mobile, e soprattutto
aperta, di episodi» (VARVARO, «Il Tristan di Béroul, quarant’anni dopo», p. 325).
565
Vv. 2036-2038 (E, al momento di andar via, prenderò la spada tra loro due, quella con cui fu tagliata la
testa al Moroldo).
566
Cfr. Brian PITTS, «Writing and Remembering in Beroul’s Roman de Tristan: the Role of Ogrin in the
Second Hermit Episode, Tristania, 13, 1987-1988, pp. 1-18.
177
Par qoi ele me fu donee567.
In questo modo, si denuncia un’alterazione rispetto alla legittima trama del mito: Isotta
sarebbe dovuta andare in sposa a Tristano, non a Marco568 (cfr supra III.4). L’anomalia
sarebbe così capovolta, essendo imputabile all’indebita appropriazione del re, piuttosto che
all’amore extraconiugale. Il doppio piano del racconto assolutizza una storia presupposta, la
pone nella sfera di un’autorità trascendente che pilota il senso della storia attuale, l’attira in un
universo superiore agli intrighi della corte di Cornovaglia. Dall’ottica della storia della coppia
mitica, l’ostilità dei baroni non è imputabile all’adulterio, ma a un atavico odio nei confronti
di Tristano per il suo valore. Come si ricordava nella scena del colloquio spiato, i baroni
felloni, nessuno dei quali fu in grado di alzare la spada contro il Moroldo, non vorrebbero che
a fianco di Marco «Eüst home de son linage»569.
Il pechié570 di Tristano e Isotta è, dunque, sminuito da una loro continua identificazione
rispetto a un modello superiore che percorre il testo. Nel romanzo di Béroul, la visione a
favore degli amanti si formalizza in una particolare configurazione della scrittura, in un rinvio
a una storia altra che sembra appartenere a un passato da cui il personaggio trae il proprio
archetipo, in un gioco di prospettive per cui il testo rinvia a un altro testo e i due eroi sono
contemporaneamente inscritti in un qui e in un altrove. Il romanzo si costruisce attorno allo
scarto tra il modello (in absentia) cui gli eroi fanno riferimento e la loro sfortunata
collocazione nella corte di Marco (in praesentia). Il concetto di verità decostruita non basta a
spiegare il particolare statuto dei due eroi di Béroul e il giudizio complessivo che si dà sulla
loro condotta. Non è la scissione tra dato e apparenza a costituire la scissione primaria del
romanzo. Se è indiscutibile la convivenza di due verità – i due sono colpevoli, i due non sono
colpevoli – s’impone una verità ulteriore che potremmo dire dialettica, in quanto congloba e
trascende le altre due: in questa dialettica il romanzo di Tristano cita il mito di Tristano571, in
567
Vv. 2556-2561 (Re, tu sai come si è realizzato il matrimonio con la figlia del re d’Irlanda. Mi sono
recato in Irlanda per mare, l’ho conquistata grazie alla mia prodezza, ho ucciso il gran drago crestato, per cui ella
mi fu concessa).
568
«A nouveau, le message est clair: celui qui a accompli l’exploit qualifiant mérite en récompense la fille
du roi; Yseut lui revenait donc de droit» (LEGROS, « uand Tristan réécrit son histoire…», p. 36). Si veda anche
Mariantonia LIBORIO, «Come dire l’indicibile: il Tristano di Bèroul», in BRUSEGAN, Le roman de Tristan. Le
maschere di Béroul, pp. 257-268, p. 260.
569
V. 125 (ci fosse uomo del suo lignaggio).
570
È stato mostrato come il termine non sia connotato nel romanzo di Béroul come il peccato cristiano, ma
come cattiva sorte, sfortuna o errore. Si vedano: Janet H. CAULKINS, «The Meaning of pechié in the Roman of
Tristan by Béroul», Romance Notes, 13, 1972, pp. 545-549; Marie-Louise OLLIER, «Il peccato secondo Isotta nel
Tristan di Bèroul», Paragone, 39, 1988, pp. 3-23.
571
Non semplicemente lo cita, ma, citandolo, lo crea. Condivido, infatti, la riflessione di Poirion, secondo
cui, più che riproporre e riscrivere un mito, gli autori del XII secolo hanno creato un «effet de mythe»:
178
una costellazione di riflessi che, ancora una volta, ci fa guardare al testo di Béroul sotto la
luce delle Folies.
Ho già citato nel primo capitolo (cfr. supra I.9) un appunto di Batany su un particolare
aspetto linguistico (che diventa un aspetto costituente dei personaggi) nel frammento di
Béroul. Attraverso una sottile analisi linguistica delle modalità secondo cui il testo, nelle
subordinazioni comparative o nelle interrogazioni indirette, realizza la comparazione tra due
elementi, lo studioso mostra come questa comparazione si sostanzi in un obbligo alla
conformità. I personaggi (ma anche gli oggetti, chiarisce Batany) sono rapportati a delle
«images modèles», dei «modèles présupposés»572 a cui l’attante si conforma e che l’uditore
riconduce facilmente a una sua classificazione normativa.
Mi pare, sulla base dei numerosi riferimenti analettici alla carriera dell’eroe, che questo
scambio confusivo tra soggetto e modello costituisca un dispositivo che agisce in maniera
significativa nella costituzione del personaggio bérouliano, il quale si vede trasceso da
un’immagine mitica che ne approfondisce le potenzialità semiotiche. Il romanzo di Béroul
incorpora il mito non nel più consueto senso di riscrivere, di rifunzionalizzare il mito, ma
collocandolo al suo centro, creando un dialogo con esso. Il popolo, riflesso del pubblico o del
lettore, si raccoglie intorno alla storia di Tristano e Isotta, e in quella storia riconosce una
garanzia per la coesione del tessuto sociale. Il riferimento a un’autorità trascendente, di cui la
maschera vuota di Dio è un segno, carica il personaggio di una hybris che lo pone al di sopra
di ogni ideologia moralmente o socialmente connotata. La contrapposizione tra le due verità,
quella dell’adulterio o quella dell’innocenza, è isterilita e oltrepassata dall’unica verità
inoppugnabile, che tutti accettano, narratore, Dio, popolo, re e felloni: Tristano ha ucciso il
Moroldo, ha ucciso il dragone d’Irlanda, e Isotta lo ha puntualmente salvato da una ferita
mortale.
Collocando il mito al suo centro, ponendo una cesura tra una storia presente e un passato
ancestrale, facendo del personaggio il latore di una sua storia altra rispetto a quella in cui è
attualmente immerso, il testo di Béroul invita a considerare la riflessività come atto primario
della forma romanzesca sin dai suoi esordi, e propone la rappresentazione di un soggetto per il
quale la consapevolezza di sé è una consapevolezza narrativa:
«Convergence créatrice d’un mythe, et non divergence destructrice d’un mythe celte, tel apparait le sens de la
création littéraire au XIIe siècle, autour de Tristan» (Daniel POIRION, «Tristan: du mythe antique au symbole
médiéval», in Id., Résurgences, mythe et littérature à l’âge du symbole, XIIe siècle, Paris, PUF, 1986, pp.79-97,
p. 81).
572
BATANY, «Imagination et modèles. Comparaison et conformité dans le Tristan de Béroul», p. 10.
179
Svolta sul piano del tempo, la categoria principale della nostra consapevolezza, la
parola diviene necessariamente narrazione, e racconto: termini che definiscono il più
originario e fondamentale modo di relazione con noi stessi, con gli altri e col mondo.
Altrimenti detto, io credo che noi, da sempre, abbiamo una consapevolezza
essenzialmente narrativa del nostro io e del mondo che ci circonda573.
Il testo di Béroul ci invita a riflettere sul senso di una forma, sulla scissione della sua
scrittura574. Oltre il gioco opaco delle verità, oltre la giustificazione dell’incidente del filtro, il
testo ci lascia assistere allo scontro di due storie, e tutto l’intreccio, tutto il vortice di azioni
che tanto i protagonisti quanto i loro nemici orchestrano con estrema abilità, non sono che
mezzi con cui i due schieramenti tentano di fissare questi due racconti: quello di una colpa
morale, e quello di un pensiero dell’eccesso, dell’oltrepassamento del limite, dell’ἐνέργεια
che è oltre la legge.
Non sappiamo come si concludesse il Tristan di Béroul, ma, stando a quanto abbiamo, la
lotta tra le due storie sembra senza via d’uscita, i due punti di vista inconciliabili. E anche
laddove il testo lasciava intravedere una qualche possibilità di assestamento, il tutto si risolve
in un’ennesima fuga, quasi a mostrare l’inesauribilità del racconto di un non incontro. Mi
riferisco alla celebre scena della spada tra i corpi.
Un guardiacaccia avverte Marco di aver trovato Tristano e Isotta che dormono insieme in
una capanna nella foresta. Marco decide di recarvisi da solo, «l’espee nue an la loge entre»575:
ant vit qu’ele avoit sa chemise
Et q’entre eus deus avoit devise,
La bouche o l’autre n’ert jostee.
Et qant il vit la nue espee
Qui entre eus deus les desevrot,
Vit les braies que Tristan out:
«Dex! Dist li rois, ce que peut estre?
Or ai veü tant de lor estre,
Dex! je ne sai que doie faire,
Ou de l’ocire ou du retraire576.
Marco deciderà di non uccidere moglie e nipote, ma lascerà loro una demostrance, la prova di
573
Carlo DONÀ, «Dal mito alla letteratura e ritorno: dalla parte del mito», Medioevo romanzo, 34, 2010, pp.
33-56, p. 40.
574
È evidente che questa mia lettura deve molto, nonostante le differenze dei due percorsi,
all’interpretazione che dei testi tristaniani ha dato Huchet, per il quale il testo medievale, che sembrerebbe così
alieno alla scrittura, «par un paradoxe, dont il faudra se souvenir, a toujours déjà été écrit, une première fois,
ailleurs, autrement; et ce qui se donne à lire consacre l’exil de cette origine restituable comme absence, par sa
doublure inversée» (HUCHET, Tristan et le sang de l’écriture, p. 63).
575
V. 1987 (Entra nella capanna con la spada sguainata).
576
Vv. 1996-2 4 ( uando vide che ella aveva la sua camicia, e che tra i due c’era una distanza, le bocche
non erano unite, e quando vide la spada nuda che li separava, vide che Tristano aveva i calzoni, «Dio», disse il
re, «che significa ciò? Ora ho visto di loro tanto da non sapere più che cosa fare, se ucciderli o ritirarmi).
180
essere stati oggetto della pietà del re:
Je lor ferai tel demostrance
ue ainçois que il s’esvellont,
Certainement savoir porront
u’il furent endormi trové
Et q’en a eü d’eus pité,
Que je nes vuel noient ocire,
Ne moi ne gent de mon enpire577.
Marco vuole, dunque, piegare Tristano e Isotta alla sua logica colpa-non colpa. Quel suo atto
di pietà, che si pone apparentemente oltre la morale, in realtà la presuppone, in quanto insiste
sull’atto del perdono. Il re, che si ritrova davanti a quella che è stata definita come una
semiotica folle578, manipolerà i segni della scena disponendoli secondo la sua prospettiva, una
prospettiva che vuole scrivere una storia del perdono:
Li rois a deslié les ganz,
Vit ensenble les deuz dormanz,
Le rai qui sor Yseut decent
Covre des ganz mot bonement.
L’anel du doi defors parut:
Souef le traist, qu’il ne se mut.
Primes i entra il enviz;
Or avoit tant les doiz gresliz
u’il s’en issi sanz force fere;
Mot l’en sot bien li rois fors traire.
L’espee qui entre eus deus est
Souef oste, la soue i met579.
Ma Tristano e Isotta non si lasceranno fissare in questa scrittura. A dispetto della sicurezza di
Marco, secondo cui i due, al risveglio, sarebbero stati certi di essere stati perdonati, gli amanti
non penetreranno la sua logica, il senso della predisposizione dei segni, che è costantemente
577
Vv. 2020-2026 (Proverò loro che, una volta svegli, potranno sapere con certezza che sono stati trovati
addormentati e che ne ho avuto pietà, che non ho voluto ucciderli, ne io né quelli del mio seguito).
578
Cfr. MAURICE, «L’épisode du rendez-vous épié, modèle matriciel du Tristan de Bèroul», p. 96.
579
Vv. 2039-2050 (Il re ha slegato i guanti. Guardò i due che dormivano insieme. Copre col guanto,
dolcemente, il raggio che scende su Isotta. L’anello sembra cadere dal dito: lo sfila piano, che non si muova. Un
tempo ci era entrato a fatica, ora aveva le dita così smagrite che l’anello scivolò via senza sforzo. Il re lo seppe
sfilare con facilità. Toglie piano la spada tra i due, e vi pone la sua). Si è insistito sul valore simbolico e giuridico
del gesto di Marco, da ricondurre a un’ideologia feudale. Procedendo a un’investitura per gantum, per anulum,
per ensem, Marco ricondurrebbe i due amanti al legame feudale. Cfr. Jean MARX, «Observation sur un épisode
de la légende de Tristan», in Recueil de travaux offerts à M. Clovis Brunel par ses amis, collègues et élèves,
Paris, Société de l’Ecole des chartes, 1955, t. 2, pp. 265-273. Si veda, inoltre, Pierre LE GENTIL, «L’épisode du
Morois et la signification du Tristan de Béroul», in Studia philologica et litteraria in honorem Leo Spitzer, Bern,
Francke Verlag, 1958, pp. 267-274. Come ho già appuntato nella n. 494, Varvaro, pur riconoscendo la validità
del motivo giuridico, ammette la priorità delle «ragioni sentimentali». Sull’episodio si veda anche Eugène
VINAVER, «La forêt de Morois», Cahiers de civilisation médiévale 11, 1968. pp. 1-13, in particolare alla pp. 8-9;
Tony HUNT, «Béroul’s Tristran: The Discovery of the Lovers in the Forrest», in Reading Around the Epic. A
Festschrift in Honour of Professor Wolfgang van Emden, London, King’s College London, pp. 233-248.
181
filtrato da una soggettività adulterante:
La roïne vit en son doi
L’anel que li avoit doné,
Le suen revit du dei osté.
Ele cria: «Sire, merci!
Li rois nos a trovez ici.»
Il li respont: «Dame, c’est voirs.
Or nos covient gerpir Morrois,
Qar mot li par somes mesfait.
M’espee a, la soue me lait:
Bien nos peüst avoir ocis580.
Tristano e Isotta non sono addomesticabili, non sono inscrivibili in un circuito di colpa e
perdono, e, proprio laddove il destino sembrava essere dalla loro parte, la carica eversiva,
l’eccesso che li connota li condurrà per tutt’altra via.
Il nostro romanzo non si accontenta di mostrare l’incompenetrabilità dei due mondi, la
trascendenza di chi è oltre la norma e che mai si subordinerà all’immanenza di una storia
d’adulterio. Il lettore è condotto a intravedere un impossibile compromesso, che il testo affida,
ancora una volta, a una storia nella storia, al sogno d’Isotta:
Mais or oiez des andormiz,
Que li rois out el bois gerpiz.
Avis estoit a la roïne
u’ele ert en une grant gaudine,
Dedenz un riche pavellon:
A li venoient dui lion,
Qui la voloient devorer;
El lor voloit merci crïer,
Mais li lion, destroiz de fain,
Chascun la prenoit par la main.
De l’esfroi que Iseut en a
Geta un cri, si s’esvella581.
Nel sogno582, Isotta coglie molto più di quanto non coglierà da sveglia. Lo sdoppiamento della
scrittura mostra la via dell’impossibile, Isotta presa per mano dai due uomini, in un’armonica
580
Vv. 2084-2093 (La regina si vide al dito l’anello che questi le aveva regalato, e il suo tolto via. Grida:
«Signore, pietà! Il re ci ha trovato qui». E Tristano risponde: «Signora, è vero. Ora dobbiamo abbandonare il
Morrois, poiché abbiamo gravi colpe ai suoi occhi. Ha la mia spada, mi ha lasciato la sua: avrebbe potuto
ucciderci»).
581
Vv. 2063-2074 (Ma ora ascoltate dei due addormentati, che il re aveva lasciato nel bosco. La regina
sognò di trovarsi in una grande foresta, dentro una tenda lussuosa. Le si avvicinavano due leoni, che volevano
divorarla. Avrebbe voluto gridare pietà, ma i leoni, affamati, la presero ciascuno per la mano. Per il terrore,
Isotta lanciò un urlo, e si svegliò).
582
Interessante la riflessione di Batany, che collega il sogno al gesto di Marco di coprire con un guanto gli
occhi d’Isotta, considerando il guanto come un prisma o un cristallo magico che provoca il sogno (BATANY, «Le
Tristan de Béroul: une tragédie ludique», p. 34, n. 14). Un altro indizio, insomma, che mostra la coerenza
dell’impianto narrativo del romanzo.
182
convivenza. In forza di questo fugace miraggio, il rifiuto dei due protagonisti rispetto a
qualunque forma di assoggettamento è accentuato e la storia di Tristano e Isotta si risolve in
una storia che non si lascia scrivere, eterna fuga che, come i protagonisti, eccede talmente
rispetto a se stessa da restare materia senza forma – o sempre disponibile a una forma nuova.
Come Corbellari ha affermato in maniera incisiva, il testo di Béroul si configura così come
«un anti-récit qui, de ressassement en répétition, reconduit sans cesse la fiction d’un amour
dont la perfection nie l’inscription dans l’histoire»583.
3. Eccesso e abbassamento
In questa impossibile inscrizione, Tristano si connota come personaggio della dismisura, non
integrabile in un sistema che vorrebbe assoggettarlo alla sua logica. Si è parlato, dunque, di
Tristano come di un personaggio marginale: «Tristan est un marginale et un fou qui doit être
condamné ou ramené dans le rang des amants parfait»584. Il testo di Bèroul semplificherebbe
così «i tratti mitici costitutivi, selezionando e attivando quelli del guerriero […] e del
cacciatore abilissimo»585; «la fole amor che egli incarna non appare compatibile con l’ordine
feudale e sociale della corte»586. Eppure, questa esclusione richiede qualche chiarimento, va
inquadrata nell’impianto generale del racconto, se non si vuole correre il rischio di accentuare
dicotomie, quelle tra nobile eroicità e sovversione dell’ordine, cortesia e ruse, alto e basso,
tragico e comico, che, a mio vedere, il nostro testo non contempla.
Uno degli episodi del frammento di Béroul che più rappresentano la tracotanza, il non
limite, il senso dell’eccesso del personaggio di Tristano è quello del salto dalla cappella (vv.
881 ss.). Dopo lo stratagemma della farina escogitato dal nano e la condanna al rogo dei due
amanti stabilita dal re, Tristano, convincendo le guardie di aver diritto a una preghiera in una
cappella situata lungo la strada che li sta conducendo al luogo deputato all’esecuzione,
riuscirà a fuggire da una finestra:
Triés l’autel vint a la fenestre,
A soi l’en traist a sa main destre,
583
Alain CORBELLARI, «Béroul et les choses», Tristania, 20, 2000, pp. 44-57, p. 49.
SZKILNIK, «Avant-propos», p. 10.
585
BERTOLUCCI PIZZORUSSO, «Béroul e il suo Tristan», p. 219. Su Tristano guerriero e cacciatore si
rimanda, tra gli altri, a Rosanna BRUSEGAN, «L’“Arc qui ne faut” et le message des armes», in Ce est li fruis
selonc la letre. Mélanges offerts à Charles Méla, Paris, Champion, 2002, pp. 211-225.
586
PARADISI, «L’amore di Tristano e Isotta secondo Béroul (e un’ipotesi sul filtro)», p. 16.
584
183
Par l’overture s’en saut hors.
Mex veut sallir que ja ses cors
Soit ars, voiant tel aünee.
Seignors, une grant pierre lee
Out u mileu de cel rochier:
Tristan i saut mot de legier.
Li vens le fiert entre les dras,
uil defent qu’il ne chie a tas.
Encore claiment Corneualan
Cele pierre le Saut Tristan587.
Si noterà come il salto dalla cappella riprenda il motivo del salto tra i due letti nell’episodio
della farina588, ma, se nel primo caso l’accento era posto sulla ruse, sull’astuzia di Tristano
che, nell’intento di infilarsi nel letto della regina, contrasta la ruse del nano589, qui il tutto
subisce una qualche forma d’ingentilimento, è trasfigurato in un’impresa dai tratti eroici e
pregna di miracoloso: il vento gonfia l’abito di Tristano facendolo atterrare con agevolezza, e
la roccia prenderà addirittura il nome dall’eccezionale impresa.
uesta nobilitazione del salto
si realizza ancor più in una terza tappa.
Fuggito dalla cappella, Tristano riuscirà a liberare anche Isotta e i due fuggiranno insieme
nella foresta del Morrois (vv. 1141 ss.), in esilio dalla corte di Marco. Il fedele bracco di
Tristano, Husdent, è inquieto per l’assenza del padrone («ne vout mengier ne pain ne
past»)590, e il re, consigliato dai suoi, deciderà di farlo slegare:
Tantost com il fu deslïez,
Par mié les renz cort, esvelliez,
ue onques n’i demora plus.
De la sale s’en ist par l’us,
Vint a l’ostel ou il soloit
Trover Tristan. Li rois le voit,
Et li autre qui après vont.
Li chiens escrie, sovent gront,
Mot par demeine grant dolor.
Encontré a de son seignor:
587
Vv. 943-954 (Raggiunge la finestra, dietro l’altare, la tira a lui con la mano destra, dall’apertura salta
fuori. Preferisce saltare piuttosto che essere bruciato, davanti a tale adunata. Signori, c’era una grande pietra
levigata nel mezzo della roccia: Tristano vi salta su, con agilità. Il vento gli gonfia i vestiti, e gli impedisce di
cadere pesantemente. I Cornovesi chiamano ancora quella pietra il Salto di Tristano).
588
Cfr. SALY, «Images récurrentes dans le Tristan de Béroul». La studiosa, nel rintracciare la coerenza nel
sistema d’immagini presente nel testo, si spinge a valorizzare il parallelismo tra salto e sangue: come il primo
salto era risaltato dal rosso del sangue, nel secondo Tristano rompe una vetrata color porpora («Nous sommes
devant un ensemble indissociable construit sur le motif du saut et l’image de la couleur pourpre, qui perd et qui
sauve», ivi, p. 139). Si veda anche Pascale CHIRON - Fabielle POMEL, «Le jeu de la reversibilité dans le Tristan
de Béroul», in Tristan et Yseut. Un thème éternel dans la culture mondiale, pp. 83-94, in particolare alle pp. 8889.
589
L’aspetto comico è avvalorato dall’immagine di Tristano che, ritornato nel proprio letto, fa finta di
dormire e russa (vv. 760-761).
590
V. 1449 (Non voleva mangiare né pane né pastone).
184
Onques Tristan ne fist un pas
ant il fu pris, qu’il dut estre ars,
Que li brachez nen aut après;
Et dit chascun de venir mes.
Husdant an la chanbrë est mis
O Tristan fu traït et pris;
Si part, fait saut et voiz clarele,
Criant s’en vet vers la chapele;
Li peuple vait après le chien591.
Ogni passo percorso da Tristano condotto al rogo è ripercorso dal cane, fino al formidabile
salto:
Ainz, puis qu’il fu fors du lïen,
Ne fina, si fu au moutier
Fondé en haut sur le rochier.
Husdent li bauz, qui ne voit lenz,
Par l’us en la chapele entre enz,
Saut sor l’autel, ne vit son mestre.
Fors s’en issi par la fenestre.
Aval la roche est avalez,
En la janbe s’est esgenez,
A terre met le nes, si crie592.
Il bracco, continuando a seguire il percorso compiuto da Tristano, raggiungerà il padrone
nella foresta. Duplicando l’impresa del protagonista, Husdent si connota come suo doppio593.
Del resto, la stretta relazione tra cane e padrone sarà ribadita anche in seguito, al momento
della separazione dei due amanti, quando la regina, ormai pronta a tornare a corte, chiederà a
Tristano di lasciarle il suo bracco, quasi a prospettare un’intercambiabilità tra i due:
Iseut parla o grant sospir:
«Tristan, entent un petitet:
Husdent me lesse, ton brachet.
Ainz berseret a veneor
N’ert gardé e a tel honor
Con cist sera, beaus douz amis.
591
Vv. 1489-1507 (Non appena fu slegato, corre tra le fila delle gente, attento, senza mai fermarsi in nessun
punto. Esce dalla sala per la porta e arrivò alla casa dov’era solito trovare Tristano. Il re lo vede, e quelli che lo
seguono. Il re abbaia, uggiola, mostra grande sofferenza. Ha trovato le tracce del suo padrone: quando fu preso, e
doveva essere bruciato, Tristano non fece un passo che il bracco non faccia a sua volta; e tutti lo incitano a
continuare. Husdent è condotto nella camera dove Tristano fu tradito e fatto prigioniero; allora se ne va di nuovo,
salta e guaisce, si dirige abbaiando verso la cappella. Tutti vanno dietro al cane).
592
Vv. 1508-1517 (Dopo che fu slegato, non si fermò fino alla cappella costruita in alto sulla roccia. Il
baldo Husdent, a tutta velocità, entra nella cappella attraverso l’uscio, salta sull’altare, non vede il suo padrone,
esce per la finestra. Precipita giù dalla roccia, si ferisce a una zampa, tiene il naso a terra, abbaia).
593
Cfr. PARADISI, «La costruzione del racconto nel Tristan di Béroul», pp. 58 ss.; MADDOX, «L’autoréécriture béroulienne et ses fonctions», alle pp. 184-185. Si veda, inoltre, Gerard JACQUIN, «Husdent, le chien
de Tristan», in Eric FOULON, a cura di, Mélanges Georges Cesbron, Angers, Presses de l’Université d’Angers,
1997, pp. 99-105.
185
ant gel verrai, ce m’est avis,
Menberra moi de vos sovent.
Ja n’avrai si le cuer dolent,
Se je le voi, ne soie lie594.
La specularità di Tristano e Husdent chiama senz’altro in causa l’animalesco che è nel
protagonista, il motivo della familiarità dell’eroe con il mondo animale 595. Il testo insiste,
infatti, sulla connotazione animalesca della vita dei due nella foresta, dove si cibano di sola
carne, mai di pane, e in cui Tristano è temuto come una belva a cui nessuno osa avvicinarsi:
De Cornoualle li païs
De Morrois erent si eschis
u’il n’i osout un sol entrer.
Bien lor faisoit a redouter;
Qar, se Tristan les peüst prendre,
Il les feïst as arbres pendre:
Bien devoient donques laisier596.
Ma, se questo versante animalesco è sicuramente presente, il testo insiste sull’apporto
civilizzatore del protagonista in questo mondo dai tratti primitivi597, apporto che si realizza
soprattutto proprio per il tramite di Husdent. Tristano e Isotta si renderanno subito conto del
pericolo che il cane costituisce, poiché, abbaiando, potrebbe richiamare l’attenzione dei loro
nemici. Tristano pensa di eliminarlo, ma, su indicazione d’Isotta (a dimostrazione, ancora una
volta, del ruolo di primo piano della protagonista femminile), si adopererà per addestrarlo a
cacciare senza abbaiare. Nel margine viene, quindi, incorporata la civiltà, l’educazione, e
Tristano e Isotta realizzano nella foresta, in qualche modo, un controcanto al mondo
disordinato e cupo della corte di Cornovaglia598. D’altronde così la voce del narratore
introduceva l’episodio di Husdent, ponendo in primo piano l’idea di noreture:
Qui veut oïr une aventure,
Con grant chose a an noreture,
594
Vv. 2694-2703 (Sospirando profondamente, Isotta disse: «Tristano, ascoltami un pochino: lasciami
Husdent, il tuo bracco. Mai un cane da caccia sarà onorato come questo, mio dolce amico. Quando lo vedrò, lo
so, mi ricorderò di voi. Se avrò il cuore dolente, vedendolo, mi sentirò felice).
595
Cfr. Eleazar M. MELETINSKIJ, Il mito. Poetica folclore ripresa novecentesca, pp. 185 ss. Sul rapporto tra
eroe e animalità si rimanda, inoltre, al già citato BARBIERI, «Yvain cavaliere-sciamano: elementi estatici e riti
d’iniziazione nel Chevalier au lion».
596
Vv. 1661-1667 (Quelli di Cornovaglia si tenevano lontani dal Morrois, tanto che nessuno osava entrare.
Facevano bene ad avere paura, poiché, se Tristano li avesse presi, li avrebbe fatti impiccare: dovevano, dunque,
starne lontani).
597
Sull’importanza della funzione civilizzatrice si veda Monique SANTUCCI, «Cri du roi, cri du chien cri du
cœur», in Et c’est la fin pour quoy sommes ensemble, t. III, pp. 1255-1259.
598
Si legga Batany: «entrer dans le désordre animal, c’est y retrouver le fondement de l’ordre, de l’ordre
supérieur que peut effleurer l’être humain en tant qu’animal doué de déraison» (BATANY, «Le Tristan de Béroul:
une tragédie ludique», p. 33).
186
Si m’escoute un sol petitet!599
Ritorniamo al motivo del salto, che mi pare un esempio indicativo di una scrittura calibrata e
attenta alla costruzione dell’insieme. Il salto di Tristano tra i due letti assume la forma della
ruse, di un gioco comico indirizzato ad aggirare l’ostacolo creato dal nemico e a realizzare il
soddisfacimento sessuale del protagonista. In un secondo momento, lo stesso salto si carica di
una grandiosità dai tratti miracolosi, esalta, sì, l’abilità del protagonista, ma questa volta
l’abilità viene in un certo qual modo trasfigurata in un ritratto eroico. In una terza fase, il salto
è riconfigurato dalla relazione di specularità tra Tristano e il suo cane, relazione in cui si
condensa un’immagine densa d’ibridismo tra animale e umano, natura e educazione, forza e
intelligenza, alto e basso600.
Ecco che il personaggio di Tristano, colto nelle istantanee dei suoi salti, non si lascia
chiudere in una definizione univoca. Quello che viene presentato, in uno dei primi episodi del
frammento di Béroul, come il gioco comico del sovvertimento, è in seguito oggetto di un
approfondimento, che fa oscillare l’immagine di Tristano dal trickster all’eroe civilizzatore,
dall’abbassamento dell’impellenza del desiderio di accoppiamento con Isotta alla proiezione
di una corte ideale in cui l’ordine dell’intelligenza trionfa sul disordine della natura: l’eroe del
mito è «oltre le coppie di contrari»601. Come ci ricorda Meletinskij, nelle figure del mito
confluiscono tratti che solo per la nostra sensibilità moderna suonano come contraddittori:
Gli eroi mitici agiscono spesso con l’astuzia e l’inganno perché la coscienza primitiva
non distingue tra intelletto e astuzia. È solo col progressivo chiarirsi nella coscienza
mitologica della differenza tra astuzia e intelletto, inganno e rettitudine,
organizzazione sociale e caos, che si sviluppa la figura del briccone mitologico come
doppio dell’eroe culturale […] Un personaggio bivalente come l’eroe culturaletrickster fonde in un’unica persona il pathos della regolarizzazione del cosmo e della
collettività e l’espressione di un ordine non ancora costituito602.
Un altro esempio evidente di ruse e abbassamento che troneggia nel romanzo di Béroul sono
le scene del Mal Pas e della Blanche Lande, dove Artù, i suoi cavalieri, Marco, i baroni e tutto
599
Vv. 1437-1439 (Chi vuole sentire una storia, come l’educazione sia una cosa straordinaria, mi ascolti
solo un pochino).
600
L’importanza del motivo del salto è confermata dalla sua ripetuta evocazione. Ai versi 1351-1353 la
voce del narratore ricorda ai seignors il salto di Tristano dalla roccia; ai versi 2385-23 l’eremita ricorderà a
Tristano il salto «qu’il n’a home / de Costentin entresqu’a Rome, / Se il le voit, n’en ait hisdor (che nessuno, dal
Cotentin fino a Roma, se lo avesse visto, non ne sarebbe rimasto sconvolto).
601
CAMPBELL, L’eroe dai mille volti, p. 46.
602
MELETINSKIJ, Il mito. Poetica folclore ripresa novecentesca, p. 196. Per lo studioso, l’eroe-trickster,
proprio in forza dei tratti oppositivi di cui è costituito, rappresenterebbe «il fulcro del sincretismo dei generi
letterari», a partire dal quale questi si sarebbero formati, a seconda della diversa valorizzazione «delle gesta
civilizzatrici e creatrici, delle malefatte comiche, della biografia eroica» (ivi).
187
il popolo di Cornovaglia si riuniranno per assistere al solenne giuramento d’Isotta, occasione
per la quale la regina chiederà a Tristano di travestirsi da lebbroso.
Tutta la scena che precede il giuramento è segnata da «toni di bassa volgarità»603, da
quell’«isotopia di livello tematico-stilistico basso»604 che segna la scrittura di Béroul; un
abbassamento reso plastico dal fango della palude – da cui tutti, i baroni felloni come i
cavalieri di Artù, vengono toccati605 – e dal motivo della lebbra, segno di malattia, lussuria,
osceno606:
La scena assume una prospettiva singolare: il travestimento di Tristan e il fango che
insozza i cavalieri sono il segno di un calare cosciente del tono del racconto verso un
piano di comicità estremamente rude607.
Eppure, come abbiamo già visto nel caso della nobilitazione della ruse del salto, che diventa
un’immagine duplicata in cui si condensano alto e basso, anche in questo caso l’abbassamento
non è fine a se stesso e isolato, ma è lavorato costantemente da una più complessa
orchestrazione in cui il personaggio congiunge gli estremi. Già Luciano Formisano ha
liberato l’episodio dall’etichetta dell’abbassamento, mostrando come questo sia inserito in
una fitta rete di richiami e parallelismi che fanno piuttosto pensare a una scrittura del
«distanziamento», del gioco ironico che pilota consapevolmente registri diversi608.
Cercheremo di aggiungere qualche dettaglio alle argomentazioni dello studioso.
Il nucleo tematico della lussuria e dell’osceno sembra concentrarsi nel dialogo tra
Tristano travestito da lebbroso e Marco:
«Dom es tu, ladres? fait li rois.
- De Carloon, filz d’un Galois.
603
VARVARO, Il Roman de Tristan di Béroul, p. 243.
BERTOLUCCI PIZZORUSSO, «Béroul e il suo Tristan», p. 217.
605
«Molt a grant presse en cel marchés; / Esfrondré l’ont, mos est li fans. / Li cheval entrent jusq’as flans, /
Maint en i chiet, qui que s’en traie (vv. 36 -3673: C’è una gran folla in quella palude, l’hanno calpestata tutta,
il fango è molle, i cavalli vi entrano fino ai fianchi, parecchi ci cadono dentro, se ne tira fuori chi può).
606
Oltre ai citati Varvaro e Pizzorusso, si vedano: Jean DUFOURNET, «Présence et fonction de la lèpre dans
le Tristan de Béroul», in Q.I.M. MOK - I. I. SPIELE - P.E.R. VERHUYCK, a cura di, Mélanges de linguistique, de
littérature et de philologie médiévales offerts à Jean-Robert Smeets, Leiden, Presses Universitaires, 1982, pp.
87-103; BLAKESLEE, Love’s Masks. Identity, Intertextuality, and Meaning in the Old French Tristan Poems, pp.
67-72; MATCHA, Poétique de la ruse dans les récit tristaniens français du XII e siècle, pp. 323-331.
607
VARVARO, Il Roman de Tristan di Béroul, p. 243.
608
«Nell’episodio di Mal Pas vi sono tratti che sfuggono alla facile etichetta di una visione del mondo
arcaicamente volta a esaltare gli aspetti più vitalistici e teatrali, gioiosamente arcaici, che si nascondono dietro le
forme cortesi, e che la stessa dissonanza registrale può essere ricomposta quando la si legga nella prospettiva del
distanziamento proprio della comicità e dell’ironia. In ogni caso, la presunta distanza di Béroul dalla narrativa
cortese non implica sempre e comunque l’adesione a «moduli e modelli arcaici», ma può essere il risultato di un
distanziamento estetico, quanto a dire di un’arte matura in cui il piacere del racconto prevale sulla coerenza
stilistica. Smitizzante, il Mal Pas invita anche a smitizzare» (Luciano FORMISANO, «Tristano al Mal Pas», in
BRUSEGAN, Le roman de Tristan. Le maschere di Béroul, pp. 301-311, p. 311).
604
188
- Qanz anz as esté fors de gent?
- Sire, trois anz i a, ne ment.
Tant con je fui en saine vie,
Mot avoie cortoise amie.
Por lié ai je ces boces lees;
Ces tartaries plain dolees
Me fait et nuit et jor soner
Et o la noisë estoner
Toz ceus qui je demant du lor
Por amor Deu le criator.»
Li rois li dit: «Ne celez mie
Conment ce te donna t’amie.
- Dans rois, ses sires ert meseaus,
O lié faisoie mes joiaus,
Cist maus me prist de la comune.
Mais plus bele ne fu que une.
- Qui est ele? - La bele Yseut:
Einsi se vest con cele seut609.
È evidente qui lo schema delle Folies, schema in cui la maschera da lebbroso consente a
Tristano di dire la verità senza censure. Ma l’aspetto interessante è la relazione triangolare
evocata attraverso la mediazione della lebbra, segno della carica erotica che investe i tre
personaggi: il male viene dalla comune, dalla condivisione sessuale, dalla divisione d’Isotta
tra due uomini.
Formisano610 ha rilevato come non si possa leggere questo passo senza tener presente il
riferimento all’altro episodio che ruota attorno all’immagine della lebbra, quello in cui, una
volta che Isotta è stata condannata al rogo, il lebbroso Yvain propone a Marco di riservarle un
supplizio ben peggiore, cederla a lui e alla sua comitiva:
Veez, j’ai ci conpaignons cent:
Yseut nos done, s’ert conmune.
Paior fin dame n’ot mais une611.
Anche in quel caso, s’insisteva sugli aspetti più torbidi della sessualità e sulla comune, sulla
condivisione della donna. Ma, se tra i due episodi il richiamo è diretto e giocato sul
parallelismo, mi pare che l’immagine del partage sessuale evocata nel dialogo tra Tristano e
609
Vv. 3757- 3776 («Di dove sei, lebbroso?», fa il re. «Di Carleon, sono figlio di un gallese». «Quanti anni
sei stato fuori dal mondo civile?». «Sire, sono tre anni, non mento. Finché sono stato in salute, avevo un’amica
molto cortese. È per lei che ho questi bozzi tumefatti. Questa raganella bella liscia mi fa suonare notte e giorno e
stordire col rumore tutti coloro a cui chiedo l’elemosina per l’amore di Dio creatore». Il re gli dice: «Non
nasconderlo, com’è che la tua amica ti ha fatto questo regalo?». «Signor re, suo marito è lebbroso, mi prendevo i
miei piaceri con lei: il male l’ho preso dal possederla entrambi. Ma più bella ce n’è una sola». «Chi è?». «La
bella Isotta: si veste come faceva la mia amica»).
610
FORMISANO, «Tristano al Mal Pas», pp. 304-305.
611
Vv. 1192-1194 (Vedete, ho qui cento compagni. Dacci Isotta, sarà di tutti: mai dama ha avuto fine
peggiore).
189
Marco richiami, per antitesi stavolta, anche un’altra scena cardine del romanzo, quella del
sogno d’Isotta, in cui due leoni, Marco e Tristano, la prendevano per le mani, se la spartivano
in un’atmosfera soave, pacifica, dai toni altamente sentimentali. Se prima la condivisione
della donna era dipinta in uno spazio onirico, sotto il segno dell’impossibile, ora ce ne viene
offerto il lato degradato. Il testo insiste così su uno stesso tema, presentandolo da angolature
diverse, se non opposte, quasi parodiandone la versione alta all’interno del testo stesso: il
movimento dialettico penetra nelle strutture profonde della testualità.
Il ritratto del personaggio, sempre disposto a concentrare in sé i contrari, segue queste
oscillazioni. Questa la descrizione del travestimento di Tristano:
Vestu se fu de mainte guise:
Il fu en legne, sanz chemise;
De let burel furent les cotes
Et a quarreaus furent ses botes.
Une chape de burel lee
Out fait tallier, tote enfumee.
Affublez se fu forment bien,
Malade senble plus que rien612.
Ma, qualche verso dopo, il testo corregge:
Ne senbla pas home contret,
Qar il ert gros et corporuz,
Il n’ert pas nains, contrez, boçus613.
La degradazione del corpo di Tristano non è mai assoluta, ma sempre corretta da uno
spostamento, uno scivolamento verso l’opposto. Allo stesso modo, nell’episodio del Mal Pas,
d’Isotta si fa risaltare, insieme, la carica erotica, quasi animalesca, e la nobiltà della fiera
regina. Vestita di «de soie dras»614, Isotta chiederà a Tristano lebbroso di farle attraversare la
palude:
Un cercle d’or out sor son chief,
Qui empare de chief en chief,
Color rosine, fresche et blanche.
Einsi s’adrece vers la planche:
«Ge vuel avoir a toi afere.
- Roïne franche, debonere,
A toi irai sanz escondire,
612
Vv. 3567-3574 (Si vestì in maniera non uniforme: un vestito di lana, senza camicia, le tuniche erano di
panno grosso e gli stivali fatti di pezze. Aveva fatto tagliare una cappa di tessuto ruvido, tutta annerita. Si è
coperto molto bene, sembra proprio un lebbroso).
613
Vv. 3622-3624 (Non sembrava uno storpio, alto e corpulento com’era, non era nano, deforme, né
gobbo).
614
V. 3903 (vesti di seta).
190
Mais je ne sai que tu veus dire.
- Ne vuel mes dras enpalüer:
Asne seras de moi porter
Tot souavet par sus la planche.
- Avoi! Fait il, roïne franche,
Ne me requerez pas tel plet:
Ge sui ladres, boçu, desfait.
- Cuite, fait ele, un poi t’arenge!
Quides tu que ton mal me prenge?
N’en aies doute, non fera.
- A! Dex, fait il, ce que sera?
A lui parler point ne m’ennoie.»
O le puiot sovent s’apoie.
«Diva! Malades, mot et gros!
Tor la ton vis et ça ton dos:
Ge monterai comme vaslet»615.
È evidente come la forza espressiva del passo sia data dallo stridore tra il distinto ritratto della
regina e l’immagine lubrica di lei a cavallo di un lebbroso paragonato a un asino – una sorta
di concentrato di bramosia sessuale. Immagine subito riconfigurata, trascesa, oltrepassata
dalla raffinata arte retorica sfoggiata da Isotta nel suo solenne giuramento davanti alla corte di
Artù e a tutto il popolo di Cornovaglia:
- Seignors, fait el, por Deu merci
Saintes reliques voi ici.
Or escoutez que je ci jure,
De quoi le roi ci aseüre:
Si m’aït dex et saint Ylaire,
Ces reliques, cest saintuaire,
Totes celes qui ci ne sont
Et tuit icil de par le mont,
’entre mes cuises n’entra home,
Fors le ladre qui fist sorsome,
Qui me porta outre les guez,
Et li rois Marc mes esposez616.
L’elemento dell’abbassamento in Béroul non è mai isolato o gratuito, ma si presenta come
615
Vv. 3909-3931 (Una corona d’oro sul capo, che racchiude tutt’intorno il viso roseo, fresco e chiaro. Così
s’avvia verso la passerella: «È con te che voglio avere a che fare». «Nobile regina, di illustre stirpe, verrò da te
senza tirarmi indietro, ma non capisco che cosa tu voglia dire». «Non voglio infangare le mie vesti: sarai l’asino
che mi porterà delicatamente sulla passerella». «Come?», replica Tristano, «Nobile regina, non fatemi una
richiesta simile. Io sono lebbroso, pieno di pustole, invalido». «In fretta», fa lei, «mettiti in posizione! Pensi che
possa prendermi il tuo male? Non temere, non succederà». «Ah, Dio», fa lui, «che cosa succede? Comunque,
non mi dà di certo noia palare con lei». Si appoggia sulla stampella. «Andiamo, lebbroso, sei bello grosso! Gira
la testa verso là e il dorso verso qua: ti monterò come un ragazzo»).
616
Vv. 4197-4208 («Signori», fa lei, «grazie a Dio vedo qui sante reliquie. Ora ascoltate ciò che giuro e di
cui assicuro il re: in nome di Dio e di sant’Ilario, su queste reliquie, sul reliquario, su tutte le reliquie che non
sono qui e su tutte quelle che ci sono per il mondo, mai tra le mie cosce entrò uomo fuorché il lebbroso che si
fece bestia da soma e che mi portò oltre il guado, e il re Marco, mio sposo). Sul giuramento d’Isotta si veda
Richard N. ILLINGWORTH, «The Episode of Ambiguous Oath in Beroul’s Tristan», Zeitschrift für romanische
Philologie, 106, 1990, pp. 22-42.
191
l’altra faccia della medaglia, come il profilo incompleto di un volto che è possibile cogliere
solo nella complessità della struttura. Il bachtiniano basso-materiale-corporeo che si
rintraccia nei due protagonisti è sempre riscritto, amplificato da un riferimento alto, in un
gioco dialettico di cortesia e rovesciamento comico-carnevalesco617.
Come abbiamo visto nel capitolo III passando in rassegna alcuni aspetti della teoria
antropologica di Victor Turner, la liminalità non costituisce una sospensione evasiva, ma
guarda sempre a un modello che non funziona più, è sempre da accostare alla riflessione su
un’assenza. Le trovate basse e comiche di Tristano e Isotta, la menzogna, la ruse
rappresentano la concretizzazione di una mancanza, sono l’unico mezzo a disposizione per
farsi valere in un universo in cui il modello eroico di cui i due protagonisti si sentono latori
non riesce a imporsi, modello che si proietta come un’ombra in un mondo in cui il mito
sembra tramontato. La scrittura di Béroul si risolve così nella scrittura di un compromesso, di
un’ibridazione feconda tra una verità che non riesce a farsi strada e una menzogna necessaria.
D’altronde, l’eremita Ogrin, prodigo di consigli verso i due amanti, aveva ben suggellato
quell’irrinunciabile politica del compromesso:
Tristanz, roïne, or ecoutez
Un petitet, si m’entendez.
Por honte oster et mal covrir
Doit on un poi par bel mentir618.
617
Per una puntuale precisazione sulla dialettica degli opposti che connota il carnevalesco bachtiniano, si
rimanda a Massimo BONAFIN, «Carnevale, antropologia e semiotica della cultura», in. Id., Contesti della
parodia, pp. 68-92.
618
Vv. 2352-2354 (Tristano, regina, ora ascoltate un po’, prestatemi attenzione. Per cancellare la vergogna e
coprire il male, si deve mentire un po’).
192
Conclusioni
Una riflessione sul personaggio non può prescindere da una riflessione sul soggetto. Lungi
dall’addentrarsi in un’analisi psicologistica dell’essere di finzione, l’obiettivo sarà delucidare
l’intricato rapporto di costruzione identitaria e costruzione testuale. Nella polifonia dei
personaggi s’incrociano i nodi del tessuto romanzesco, si celano dispositivi che agitano le
strutture profonde di un testo.
Il personaggio sfugge. La lezione degli appunti saussuriani dedicati all’essere della
leggenda e del mito sta nell’impossibilità di una sua descrizione come oggetto, di
un’individuazione dei criteri che ne definiscano l’identità. Saussure, in quella che è una
visione decostruzionista ante litteram, parla di un’impossibilità sul piano della diacronia,
denuncia l’infondatezza di una ricerca epistemologica che voglia seguire le tracce, attraverso
l’evoluzione della leggenda, dell’être sémiologique, che si contraddistingue per la labilità di
una bolla di sapone, per l’inconsistenza di un fantasma. Inconsistenza che non riguarderebbe,
secondo lo studioso ginevrino, il discorso letterario, in cui il personaggio è stabilizzato
dall’azione di un autore, che nullifica il rischio di un suo smarrimento nella rete di particelle
d’essere che circolano nella leggenda.
Eppure, la prospettiva di Saussure, approfondita dalla visione freudiana (o girardiana)
dell’identità come identificazione, si amplifica in un’impossibilità che investe radicalmente la
condizione di esistenza del personaggio, sempre aperto a una ridefinizione identitaria anche
sul piano sintagmatico della sua presenza in un testo, la quale si colloca al centro di una rete
di relazioni-identificazioni con gli altri personaggi, rendendo l’essere di finzione
costituzionalmente inibito alla cristallizzazione in un oggetto. Non oggetto, ma processo: è
proprio in questo che il personaggio si rivela un vettore di costruzione della scrittura
romanzesca, oltre il suo fare (le azioni di cui è agente), ma anche oltre il suo essere (le qualità
che lo connotano). Più proficuo sarà studiarne il suo modo d’essere.
La collaborazione delle due prospettive, un’interrogazione del modo d’essere del
personaggio tanto sul suo asse paradigmatico – nel suo rinvio a modelli e schemi della cultura
e dell’immaginario –, quanto sull’asse sintagmatico – nel gioco di ripetizioni, parallelismi,
ossimori che complicano lo statuto identitario all’interno di un testo – si rivela euristicamente
ricca nell’analisi del testo medievale. Se in esso il personaggio è latore di un modello
codificato, di un tipo noto, ciò non esclude tuttavia una rappresentazione complessa
dell’identità, che può utilizzare proprio quello schema astratto per farlo esplodere in tutte le
sue possibilità di significazione all’interno del sistema dei personaggi, farne un modello
d’identificazione che si dissemina, in un gioco di doppiezza, rivalità e mimesi, nelle relazioni
che legano i personaggi e dinamizzano il testo.
Un percorso come quello proposto in questo lavoro non mira, al contrario di un approccio
filologico o storico-letterario, a spiegazioni esaustive, interpretazioni storico-culturali,
ricostruzioni di un testo primo. André de Carné, in un saggio già citato (cfr. supra I.7) e
incentrato su un tipo di analisi testuale che prevede metodi e prospettive critiche affini a quelli
qui adottati, annota come simili approcci non costituiscano tanto «une manière d’expliquer»,
quanto «une manière de regarder»619, come non si tratti di spiegare, ma di parafrasare. Si
tratta, aggiungerei, di leggere i testi rivendicando quella libertà, limitata solo da un attento
ascolto delle opere, con cui Leo Spitzer definiva la critica letteraria un «abituale processo di
pensiero»620. Si tratta, ancora, di seguire un ammonimento di Georges Devereux 621, il quale
metteva in guardia dall’approccio, nell’indagine sull’umano, basato su un solo metodo ben
definito, che maschererebbe una forma di difesa, d’isolamento, di protezione rispetto
all’angoscia di poter scoprire il sé nell’altro.
L’auspicio è di avvicinare il testo medievale (senza annullarne, come si spera di aver
fatto, la sua alterità), alla sensibilità del lettore moderno622. Se, infatti, le teorie che ruotano
attorno al concetto di medievalismo (cfr. supra I.6, n. 133) hanno ormai fornito validi e
numerosi strumenti metodologici per lo studio delle riscritture moderne e contemporanee di
opere medievali, mi pare che molto resti ancora da fare per la definizione di un orientamento
teoretico al testo medievale stesso, per l’inquadramento, nel sistema della produzione
letteraria medievale, di metodi e teorie nati (molto spesso) da un corpus di testi moderni. La
convinzione alla base di quest’auspicio è che una teoria, se ben fondata, può contenere
elementi che travalicano i confini di epoche e culture, trascendono il rischio dell’anacronismo,
perché dicono qualcosa sul come, perché e privilegiando quali oggetti, l’uomo, nel suo
619
DE CARNÉ, «Construction concurrentielle du personnage romanesque. Trois exemples tirés du roman
médiéval», p. 95.
620
Leo SPITZER, Critica stilistica e semantica storica, Laterza, Bari, 1966, p. 280.
621
Georges DEVEREUX, From Anxiety to Method in the Behavioural Sciences, La Haye-Paris, Mouton,
1967.
622
«Tentativi di questo tipo [di critica eterodossa] sono a mio parere tutt’altro che inutili. Essi innanzitutto
mantengono il romanzo medievale all’interno del circuito delle letture contemporanee, senza relegarlo tra i
vecchiumi muffiti di una soffitta letteraria. Poi essi possono farci sperare in qualche reale novità di
interpretazione. Sono come puntate di commando che saggiano il terreno davanti all’avanzata delle formazioni
più tradizionali» (VARVARO, «Il Tristan di Béroul, quarant’anni dopo», p. 346).
194
percorso, si è raccontato delle storie. Eppure, chiarita questa sorta di gratuità dell’operazione,
bisogna riconoscere che cento anni di studi tristaniani richiedono una qualche presa di
posizione.
Uno studio del personaggio come quello di cui si è offerto un saggio trova una sua
collocazione, mi pare, nel ridimensionamento dell’importanza degli aspetti morali nella
materia tristaniana, aspetti che, spesso, la critica considera quasi consustanziali ai nostri testi.
Il tema ha trovato spazio nel capitolo dedicato al romanzo di Béroul; mi soffermerei ora
su come la questione si configuri nel testo di Thomas, il freddo chierico analista che dà forma
con i suoi versi a una condanna degli eccessi della passione:
Ogni ripresa narrativa della storia tristaniana s’inserisce a buon diritto nel dibattito
sull’amore in rapporto alla morale sociale, centrale nella seconda metà del XII secolo:
un ampio dibattito, che coinvolge molti esponenti della cultura letteraria settentrionale
e meridionale galloromanza, e che impone prese di posizione nel merito della vicenda.
Il tentativo di Thomas, l’altro grande autore di una versione narrativa della storia, di
prenderne le distanze astenendosi dal jugement (note ormai, credo, le sue esplicite
dichiarazioni di neutralità dal punto di vista ‘sentimentale’) e affievolendone i risvolti
sociali, è solo apparente, se finisce per offrire il suo pessimistico récit a tutti coloro
che amano uno specchio [sic] da cui trarre insegnamenti contro le pene e gl’inganni
dell’amore623.
Non è mia intenzione, con le riflessioni che mi accingo a proporre, negare che Thomas abbia
scritto il suo romanzo con il proposito di offrire una lezione morale sui danni de fole amor,
ma suggerire semplicemente che i frammenti che della sua opera ci sono stati tramandati
offrono (per fortuna) qualcosa di molto più complesso della visione di una condanna dai toni
austeri e moraleggianti. E che contestualizzare un testo e sforzarsi di riportarlo alle intenzioni
del suo autore può talvolta significare isterilirlo:
Pourquoi, somme toute, cette amoralité et complète insouciance des amants envers
toutes obligations morale, sociales et religieuses? Bien sûr, ce sont les effets du philtre
magique, mais ce n’est pas une réponse… En tout cas, ce n’est pas du tout l’amour
courtois modèle d’intégration dans la société aristocratique thématisé pas les autres
romans du cycle arthurien. Je répète: il n’y a pas de réponse à ces questions – et
Gottfried et Thomas n’avaient peut-être pas l’intention de la donner624.
Asserzione condivisibilissima, sennonché preciserei che, almeno a mio vedere, non si tratta di
un’assenza di risposte, ma di un’assoluta non contemplazione della questione stessa. Si
rileggano le pagine di un celebre saggio di Jean Frappier:
623
BERTOLUCCI PIZZORUSSO, «Béroul e il suo Tristan», p. 213.
VON ERTZDORFF, «L’amour parfait des amants et le conflits de morale. Gottfried von Strassburg et
Thomas de Bretagne», pp. 118-119.
624
195
Mais nous n’avons pas à juger Thomas sur ce qu’il aurait dû faire. Il faut voir ce qu’il
a fait, ou voulu faire. Or, il est bien certain que pour sa part il n’a pas considéré un
seul instant l’amour de Tristan et d’Iseut comme un amour coupable. Il donne tort à la
loi et raison à l’amour625.
Per Frappier la fine amor si colloca, nel romanzo di Thomas, «au-dessus de la loi sociale et
religieuse», e l’autore illustrerebbe, senza troppe ambagi, «la fine amor justifiée parce qu’elle
est la fine amor». Anche la clergie di Thomas andrebbe per Frappier ridimensionata:
uant à la «clergie» de Thomas, il ne faut pas l’exagérer, au détriment des éléments
courtois, sur la foi de passages isolés, non replacés dans un ensemble, ou mal
interprétés. Lui a-t-elle jamais donné le pli d’un auteur pieux, d’un moraliste chrétien?
Si oui, par quelle singularité ou plutôt par quelle aberration aurait-il entrepris de
composer, œuvre de longue haleine, un nouveau Tristan dédié «à tous les amants?»626.
L’analisi dedicata al romanzo di Thomas ha indicato in quei «passages isolés» una maschera
retorica, voce che coadiuva la sottile analisi dei moti dell’anima. La parola di Thomas, con le
sue dichiarazioni di estraneità ai dolori dell’amore, s’inserisce pienamente nel sistema dei
personaggi, ne diventa un punto di riferimento, facendosi segno di uno dei due poli tra cui i
personaggi oscillano, nei loro passaggi da un grado minimo a uno massimo di
assoggettamento all’eros, nell’altalenante destreggiarsi tra tentativi di affrancamento e
richiamo di una forza che li trascende.
Al contrario di quanto lascia intendere Frappier, che radicalizza il potere della juridiction
d’Amour, mi pare, infatti, che uno dei fili che costituiscono il tessuto della scrittura
thomasiana sia proprio quell’oscillazione tra opposti che connota i personaggi.
Rappresentativa, in questo senso, la figura del doppio di Tristano, Tristano il Nano,
invenzione di Thomas, che avvierà la tragedia finale richiamando il protagonista ai doveri
dell’amante perfetto, doveri da cui sembrava essersi allontanato, in un momento di fuga dal
modello che il personaggio di Tristano è destinato a incarnare. Dunque, da un lato,
l’infondatezza di un discorso morale che attraverserebbe il testo627, dall’altro l’estrema
complessità dello statuto del personaggio, che, se non è ossequioso alla legge morale, sembra
che tenti di sfuggire anche a quella d’Amour.
Più che una rappresentazione dei danni cui conduce l’amore, il romanzo di Thomas offre
625
Jean FRAPPIER, «Structure et sens du Tristan. Version commune, version courtoise», in Cahiers de
civilisation médiévale, 6, 1963, pp. 255-280, 441-454, p. 263.
626
Ibid.
627
Anche Foehr-Janssens ridimensiona il presunto moralismo di Thomas: «Le moralisme clérical se met au
service d’une profonde compréhension de la passion, qui ne pousse pourtant jamais la sympathie jusqu’à
l’aveuglement» («Lit d’amour, lit de mort», p. 416).
196
così la rappresentazione dei moti del soggetto in un’esperienza, quale è quella amorosa, che lo
mette di fronte alle dinamiche di una fluidificazione dei propri confini, di una «negazione
dell’isolamento dell’io, che conosce il pieno soddisfacimento soltanto estenuandosi,
oltrepassando se stesso nell’abbraccio in cui la solitudine dell’essere si perde»628.
Quanto a Béroul, in un acuto saggio del 1988, Barbara Nelson Sargent-Baur, in polemica
con i vari studi sull’influenza dell’etica abelardiana nel romanzo, ha fatto notare come una
lezione di morale cristiana non vi costituisca un tratto precipuo:
En conclusion, on peut lire le roman de Béroul dans une perspective morale, c’est une
approche qu’il faut tenter, tout comme une autre. Mais à la lumière de cette
expérience, il semble que l’éthique chrétienne, comme l’éthique tout court, n’a pas
guidé le poète dans ses jugements, et que son roman n’est pas à classer parmi la
littérature moralisante629.
Per la studiosa, i due protagonisti di Béroul sono dei «sauvages, inapprivoisé et
inapprivoisables»630, «qui commettent l’adultère aussi souvent que possible, qui mentent
régulièrement et avec virtuosité, qui se moquent de normes de leur société, qui sont motivés
par la soif de vengeance»631. Ecco, inoltre, quanto annotato a proposito di «Tristan en tant que
chevalier»:
Nous entendons parler de ses prouesses anciennes avec le Morholt et le dragon
irlandais; mais dans le fragment qui nous est parvenu, il ne fait que menacer des
lépreux du haut de son destrier, jeter un défi à ses pairs qui l’accusent (défi que
personne n’ose relever, comme on peut s’y attendre), combattre incognito à la Blanche
Lande (où il se borne à casser le bras d’Andret) […] Somme toute, un ensemble
d’actions peu recommandables et qui sont loin d’être héroïques632.
Come Frappier, che cristallizzava i protagonisti di Thomas in una chiusa ossessione amorosa,
anche Sargent-Baur cede all’inquadramento del personaggio in uno schema rigido. Per nostra
parte, l’analisi proposta si è indirizzata, affrontando la questione dal punto di vista della
costruzione del personaggio, a individuare una forma-senso che illustrasse il modo in cui il
testo di Béroul prescinde da una connotazione morale, oltrepassa l’idea di colpevolezza o non
colpevolezza degli amanti. Ne è emersa una visione del personaggio più articolata di quella
descritta da Sargent-Baur, che, come tanta critica tristaniana, valorizza gli aspetti bassi del
personaggio. La stessa studiosa riconosce, d’altronde, che Tristano e Isotta «sont au-dessus de
628
Georges BATAILLE, La letteratura e il male, Milano, SE, 1987, p. 16.
SARGENT-BAUR, «La dimension morale dans le Roman de Tristan de Béroul, p. 56.
630
Ivi, p. 55.
631
Ivi, p. 54.
632
Ivi, p. 53.
629
197
commun des mortel», che «si Béroul fait la preuve d’un zèle partial à l’égard de Tristan et
Yseut, ce doit être à cause non de ce qu’ils font mais de ce qu’il sont», ossia esseri
«supérieurs aux autres»; ma, continua Sargent-Baur, «supérieurs d’après des critères qui ne
sont jamais explicités»633.
Al contrario, i criteri che definiscono questa superiorità sono ben enucleati nel romanzo, e
corrispondono proprio a quelle «prouesses anciennes avec le Morholt et le dragon irlandais»
che la studiosa liquida con troppa fretta. Rinunciare a concentrarsi esclusivamente sul
presente della storia e valorizzare i frequenti riferimenti a un passato remoto dai tratti arcaici
ci ha portati a leggere il romanzo di Béroul come attraversato dall’ombra di un racconto
mitico (l’ombra dell’eroe), che adultera costantemente il presente in forza di un’ibridazione
tra il basso di una concretezza viva e attuale e l’alto di un modello trascendente e a-temporale.
È il riferimento a quel modello che rende Tristano e Isotta esseri superiori, oltre ogni morale
religiosa e sociale, portatori di una hybris, di una fierezza ostile alle regole che li apparenta ai
grandi eroi del mito, benché creature del medioevo feudale e cristiano:
Se pose, alors, inévitablement, la question de savoir comment et pourquoi un tel
amour maudit a pu, en plein Moyen Age féodal et chrétien, donner naissance à cet
admirable roman et lui assurer le succès que l’on sait. C’est là un problème difficile et
d’importance634.
La risposta starebbe, per Ribard, nell’intimo legame tra peccato e morte, nella morte dei due
amanti come conseguenza del loro peccato, e nella realizzazione redentrice, proprio attraverso
la morte, del sogno di un amore assoluto: la storia di Tristano e Isotta, percorso di redenzione,
lungi dall’essere eversiva, sarebbe «au contraire éminemment exemplaire»635.
Personalmente, non trovo il problema proposto da Ribard né difficile né importante, e la
domanda mi sembra, invece, carica di una certa banalità, una domanda che contiene già in sé
una risposta, altrettanto banale. Il successo è assicurato alla storia di Tristano proprio dalla sua
trasgressività, tratto che ha da sempre assicurato consensi a un’opera letteraria, e non si vede
perché la letteratura medievale, pur con tutte le sue caratteristiche peculiari che l’allontanano
dalla moderna idea di letteratura, debba costituire un’eccezione. Come rileva Jean Flori,
accentuare gli aspetti morali nell’interpretazione dei testi medievali significa trascurare il
ruolo della letteratura come modo di trasgressione che si realizza attraverso la mediazione del
633
Ivi, p. 55.
Jacques RIBARD, « uelques réflexions sur l’amour tristanien», in BUSCHINGER, La légende de Tristan
au Moyen Age, pp. 69-79, p. 73.
635
Ivi, p. 78.
634
198
sogno (cfr. supra V.2, n. 553).
Di là di questi aspetti, cui ho voluto dedicare qualche considerazione in queste pagine
conclusive, il filo conduttore del nostro percorso è da rintracciarsi nella riflessività, in quella
propensione estensiva che sembra caratterizzare, nella parabola tristaniana, il personaggio e la
sua storia. Nell’impossibilità della sua interezza (per quanto ne possiamo dire, il Roman de
Tristan è un’impossibile interezza), la storia di Tristano vive di un costante sdoppiamento dei
livelli diegetici, non è semplicemente scrittura disseminata ma messa in scena della
disseminazione.
In questo senso, si è proposto di leggere la storia di Tristano alla luce dell’esperienza
delle Folies, dove lo sdoppiamento dei livelli, con il passaggio dalla scrittura della
rappresentazione alla rappresentazione della scrittura, diventa asse di organizzazione formale
esplicitamente dichiarato. I testi di Oxford e Berna si appropriano di dinamiche ludiche,
facendo del gioco un percorso di formalizzazione tanto del tessuto diegetico quanto delle
dinamiche identitarie. Attraverso l’effetto ludico della metatestualità e del travestimento (che
abbiamo preferito considerare come un’autentica metamorfosi), nella conquista di quella che
abbiamo descritto come una condizione liminare, il personaggio avvia un racconto
performativo con cui rielabora criticamente la sua storia e, manipolando i segni del romanzo
di Tristano e Isotta, lo riconfigura, proponendo altri possibili narrativi.
Ben oltre quello che è apparentemente un riassunto degli episodi precedenti, le Folies
inscenano la coazione a ripetere a cui è condannata la storia dei due amanti, che, nel gioco
della ripetizione, non conosce confini, ma si amplifica costantemente nel suo potenziale
autoriproduttivo, rimandando non solo a se stessa, ma anche al sempre possibile altro da sé. In
queste fluttuazioni diegetiche, il personaggio non è semplice agente della rimemorazione. La
riconfigurazione diegetica si dipana parallelamente a una riconfigurazione del suo statuto
identitario, in un rifiuto del principio d’identità che è solo superficialmente dato dal
travestimento da folle, ma dietro il quale è invece possibile rintracciare un’autentica tendenza
alla risoggettivazione, una riscrittura costante del soggetto in un gioco di rinvii tra passato e
presente, tra realtà e realtà possibile, o tra realtà e impossibilità.
Lo sdoppiamento dei livelli, forma-senso esplicita nelle Folies, è già in nuce nei due testi
più antichi. Ben oltre i casi evidenti di metadiegesi, i frammenti della leggenda di Tristano
mostrano una frantumazione della linearità del racconto, una disponibilità della storia ad
aprirsi a storie adiacenti, a scivolamenti verso il contiguo o l’opposto. Tristano nella sala delle
statue o davanti al cortège de la reine, Isotta che compone il lai di Guiron, la visione
199
fantasmatica d’Isotta dalle Bianche Mani sorpresa da uno schizzo d’acqua sono, nel romanzo
di Thomas, esempi di un imprescindibile legame di desiderio e atto affabulatorio, di
un’osmosi in cui il desiderio è motore di una sempre aperta e inedita testualità e in cui il
personaggio, manipolando i segni della sua storia, crea storie adiacenti, alternative, dilata gli
orizzonti del racconto. Béroul, con il suo già moderno prospettivismo, conferisce ai suoi
personaggi la possibilità di filtrare gli eventi, di riscriverli dal loro microcosmo particolare, di
ridisegnare costantemente l’universo romanzesco alla luce delle loro intonazioni.
La storia di Tristano pone al centro della sua stessa costituzione diegetica una
rappresentazione di quella «caratteristica antropologica fondamentale» della finzione
letteraria: creare «estensioni dell’umano, superamenti di sé, grazie alla sua libertà da limiti
pragmatici»636. Immerso in questo sistema di riflessi diegetici ritroviamo il centro di valore
del personaggio, con «l’irrefrenabile tensione dell’individuo a superare se stesso e i confini
del mondo reale, ovvero la spinta alla creazione di immagini fittizie»637.
Il Tristan en prose valorizzerà il motivo di Tristano cantore, autore del suo stesso
romanzo638. Le grandi compilazioni in prosa del XIII secolo, ormai libere dai vincoli formali
della versificazione e dotate di una più consolidata padronanza della scrittura romanzesca,
avvieranno un qualche ripiegamento del romanzo su se stesso, quella congenita riflessione
dell’arte della prosa sulle proprie dinamiche e i propri strumenti639. Ma il tratto è già ben
presente, in maniera più sfumata (ma, forse, più complessa) nelle opere in versi, dove però,
più che una caratteristica della prassi romanzesca, vi leggerei, riprendendo le parole di
Gambino commentatrice di Iser640, una caratteristica antropologica.
Ci siamo soffermati sull’importanza che nella visione antropologia di Victor Turner
riveste la riflessività, quel particolare fenomeno intimamente umano per cui si è
contemporaneamente il proprio soggetto e il proprio oggetto diretto641, fenomeno in cui si
realizza una manipolazione del linguaggio (manipolazione che ha sempre una forte
componente passiva), un attraversamento della molteplicità dei suoi livelli. La riflessività del
636
Renata GAMBINO, «Antropologia letteraria», in Michele COMETA, Dizionario degli studi culturali,
Roma, Meltemi, 2004, pp. 72- 78, p. 74.
637
Ibid.
638
Sul punto si veda la già citata raccolta di saggi Des Tristan en vers au Tristan en prose. Si veda, inoltre,
Emmanuèle BAUMGARTNER. Le «Tristan en prose». Essai d'interprétation d'un roman médiéval. Genève, Droz,
1975.
639
Specificamente sul Tristano, si veda Dominique DEMARTINI, Miroir d’amour, miroir du roman. Le
discours amoureux dans le Tristan en prose, Paris, Champion, 2006.
640
Gambino fa riferimento a Wolfgang ISER, The Fictive and the Imaginary: Charting Literary
Anthropology, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1993.
641
TURNER, Antropologia della performance, pp. 125 ss.
200
soggetto si realizza nella (attraverso la) riflessività del linguaggio. Nel momento in cui
l’individuo scopre che «i segnali sono segnali» e che un messaggio può essere incorniciato –
rileva Gregory Bateson nel suo Una teoria del gioco e della fantasia – si ha non solo
l’invenzione del linguaggio, ma «si possono avere la complessità dell’empatia,
dell’identificazione, della proiezione, e così via»642. La scoperta del gioco del linguaggio, che
è evidentemente la condizione primaria del sorgere dell’atto affabulatorio, sembra dunque
strettamente legata alla propensione del soggetto a creare estensioni di sé, proiettarsi,
identificarsi, raggiungere l’altro.
Un soggetto che non può interrogarsi su se stesso e sulle dinamiche che lo legano
all’alterità se non narrativizzandosi, oltrepassando il limite dell’attuale nel gioco
dell’affabulazione, soggetto che si risoggettiva e si riscrive. Mi è sembrata questa una delle
dinamiche che percorrono quello che è uno dei capisaldi, pur nel suo stato di lacerti, della
cultura letteraria europea.
642
Gregory BATESON, «Una teoria del gioco e della fantasia», in Id. Verso un’ecologia della mente, pp.
218-235, p. 220.
201
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