UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI Corso di dottorato di ricerca in Scienze linguistiche, filologiche, letterarie e storico-archelogiche Curriculum in Interpretazione, filologia dei testi, storia della cultura CICLO XXVI Titolo della tesi Identità e alterità del personaggio medievale: attraverso i testi antico francesi della leggenda di Tristano RELATORE Chiar.mo Prof. Massimo Bonafin DOTTORANDO Dott. Teodoro Patera COORDINATORE Chiar.mo Prof. Massimo Bonafin ANNO 2014 Indice Introduzione. L’oltre del personaggio 5 Capitolo I. Note per una teoria del personaggio. L’être inexistant 1. Un intervallo tra l’essere e il non essere 2. L’identità negata 3. Il vortice della discorsività e la logica della ridefinizione 4. Il personaggio significante 5. Dalla leggenda alla letteratura: Sigfrido non è Don Chisciotte 6. Il personaggio medievale: un anacronismo? 7. Mimesi, identificazione 8. Un condensatore relazionale e anaforico 13 18 22 25 30 35 40 51 Capitolo II. Il Tristano di Ferdinand De Saussure: dalla fonte all’immagine sfocata 1. Non si tratta che di saltare da un letto all’altro senza toccare la farina 2. La materia inerte che il pensiero ordina 3. L’immagine sfocata 59 71 76 Capitolo III. Ostensioni e latenze dell’identità nelle Folies Tristan 1. L’oltre del testo, l’oltre del personaggio 2. Dall’eroe dai mille volti all’eroe senza volto 3. Un personaggio liminale 4. Immagini perdute 83 88 97 103 Capitolo IV. Fluttuazioni del personaggio 1. La visione fantasmatica del nostalgico 2. Doppio e castità 3. Immunità-non immunità all’eros: verso una polifonia dei personaggi 4. La maschera di Thomas 5. Fluttuazioni metadiegetiche 6. Desiderio, narrazione, spersonalizzazione 113 122 130 142 145 151 Capitolo V. Tristano (e Isotta): l’ombra dell’eroe 1. Una visione prospettica 2. Un tempo duplice: la storia perduta 3. Eccesso e abbassamento 157 171 183 Conclusioni 193 Bibliografia 203 Introduzione L’oltre del personaggio Le questioni di teoria letteraria si sentono spesso obbligate a interrogare l’autorità di Aristotele – oggetto altrettanto spesso di un’assunzione acritica – e la questione del personaggio non deroga certamente alla norma. Si rintraccerà lì il primo nucleo di quell’operazione di depauperamento ontologico (ma anche, direi, logico) che troverà raffinate e complesse elaborazioni sotto l’impulso della critica formalista e strutturalista, per la quale Amleto è esattamente ciò che Shakespeare ci dice che sia1, e degli scrittori dell’ère du soupçon, per i quali il personaggio apparteneva a un’epoca superata che rappresentava «l’apogée de l’individu»2. Per la Poetica la tragedia, si sa, è imitazione di azioni, di cui il personaggio, l’èthos, è, nell’inaugurazione di una sua definizione funzionalista, mero supporto, subordinato al protagonismo dell’intrigo3 e di cui la tragedia potrebbe anche fare a meno: senza azione non potrebbe esserci tragedia, mentre senza caratteri sì. La tragedia potrà ottenere – anzi, la buona tragedia dovrebbe ottenere – gli effetti di paura e pietà anche attraverso il solo ascolto del mythos, indipendentemente cioè dall’opsis, la vista, la messa in scena, la forma spettacolare4. È proprio nell’atteggiamento di Aristotele rispetto all’elemento visuale della tragedia, atteggiamento ambiguo, come hanno messo in luce gli storici del teatro5, che credo si possa trovare un luogo privilegiato per ridefinire la posizione della Poetica nella sua valutazione del personaggio tragico, di là dalle righe che gli sono dedicate. 1 Margaret MACDONALD, «Le langage de la fiction» (1954), in Gerard GENETTE, a cura di, Esthétique et poétique, Paris, Seuil, 1992, pp. 203-228, p. 221. 2 Alain ROBBE-GRILLET, Pour un nouveau roman, Paris, Gallimard, 1964, p. 33. Si rimanda inoltre a Natalie SARRAUTE, L’ère du soupçon, Paris, Gallimard, 1964. 3 ARISTOTELE, Poetica, Introduzione di Franco MONTANARI, a cura di Andrea BARABINO, Milano, Mondadori, 1999, cap. VI, 1450a-b. 4 Ivi, cap. XIV, 1453b. 5 Per l’opsis in Aristotele si vedano: Maria Grazia BONANNO, «Opsis e Opseis nella Poetica di Aristotele», in Letteratura e riflessione sulla letteratura nella cultura classica, Atti di convegno, Pisa, 7-9 giugno 1999, a cura di Graziano ARRIGHETTI, Pisa, Giardini, 2000, pp. 402-411; Id., «Sull’opsis aristotelica. Dalla Poetica al Tractatus Coislinianus e ritorno», in Luigi BELLONI - Vittorio CITTI - Lia DE FINIS, a cura di, Dalla lirica al teatro. Nel ricordo di M. Untersteiner 1899/1999, Atti del Convegno Internazionale di studio, Trento, 25-27 febbraio 1999, Trento, Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche, 1999, pp. 251-278; Marco DE MARINIS, Visioni della scena. Teatro e scrittura, Roma-Bari, Laterza, 2004, pp. 5-17. Se l’allestimento, l’opsis, è quello dei sei elementi della tragedia più estraneo all’arte poetica, resta per Aristotele quello che «comprende tutto»6. L’oscillazione tra un deprezzamento – se non disprezzo – per la messa in scena e l’emersione timida ma chiara di una sua autonomia sarebbe dovuta alla particolare condizione storica dell’evento spettacolare nella Grecia del IV secolo a.C., condizione che avrebbe chiamato Aristotele alla missione, più politica che filosofica, di attutire gli effetti ammalianti dell’evento teatrale e, in particolare, il prestigio di cui godevano presso il popolo gli attori7. Dirà Aristotele nella Retorica: «oggi gli attori hanno maggiori pretese degli autori»8. Da qui a leggere in prospettiva l’ambiguità della posizione aristotelica sulla messa in scena e la sua definizione di èthos, e a problematizzare conseguentemente la visione aristotelica di personaggio come semplice agente, il passo mi pare breve, e sembra che gli studiosi di teatro abbiano interrogato il primo testo di teoria letteraria con maggiore, e più produttiva, elasticità dei teorici del personaggio. Del resto, una lettura dalle facili estremizzazioni non ha risparmiato neanche l’altro testo, Morfologia della fiaba di Vladimir Propp9, eretto a emblema della condanna del personaggio a essere subordinato alla funzione, al significato delle sue azioni nell’economia generale del racconto. Nel quinto capitolo del saggio, Altri elementi della favola, Propp parla di «motivazioni»: Per motivazioni intendiamo tanto i moventi quanto i fini che determinano i diversi interventi dei personaggi. Essi conferiscono talvolta alla favola un colore e un’efficacia particolari, ma ne rappresentano tuttavia le componenti più instabili e incostanti e sono inoltre assai meno chiare e definite delle funzioni o degli elementi di raccordo10. Dedica poi il sesto capitolo alla Distribuzione delle funzioni secondo i personaggi, precisando che, nonostante la sua analisi s’imperni sulle «funzioni in quanto tali e non chi le esegue, né gli oggetti attraverso i quali si esplicano, è tuttavia opportuno esaminare come esse si distribuiscano secondo i personaggi»11. Ancora, nel capitolo successivo, in un’appassionata illustrazione del motivo della «nascita miracolosa dell’eroe»12, sembra tentato da una 6 ARISTOTELE, Poetica, 1450a, 13ss. De Marinis parla di una strategia del ridimensionamento della «forza di seduzione dello spettacolo» e, a proposito delle interpretazioni che hanno visto in Aristotele il sostegno a un primato del testo sull’evento spettacolare, di una «ipersemplificazione prescrittiva di una posizione sfaccettata e non priva di sofferenze» (DE MARINIS, Visioni della scena. Teatro e scrittura, p. 12, p. 16). 8 ARISTOTELE, Retorica, Introduzione di Franco MONTANARI, a cura di Marco DORATI, Milano, Mondadori, 1996, III, 1403b. 9 Vladimir J. PROPP, Morfologia della fiaba (1928), Torino, Einaudi, 1988. 10 Ivi, pp. 80-81. 11 Ivi, p. 85. 12 Ivi, p. 91. 7 6 descrizione degli attributi che l’eroe futuro rivela sin dalla nascita, ma s’interrompe chiosando che non può occuparsi esaustivamente di tutti gli attributi dell’eroe e che, se è vero che alcuni di essi si convertono in azioni, «queste non costituiscono funzioni dello sviluppo narrativo»13. Motivazioni, attributi, colori – instabili e incostanti – in quello cui si guarda come a una sorta di trattato antipsicologico del personaggio. Si direbbe invece che tra le righe del saggio di Propp si profili un’ombra, quella di un personaggio da intendersi nella sua complessità psicologica e antropologica, che resta un polo d’attrazione, una qualche entità sospesa la cui ramificata articolazione fa desistere da un tentativo di analisi, ma, insieme, ne ripresenta costantemente la tentazione. Per Šklovskij14 e Tomaševsky15 era un «filo», un collante delle azioni che assicura coesione nella frammentazione dei motivi, agente di concatenamento delle sequenze, per nulla necessario alla fabula, che «in quanto sistema di motivi, può benissimo fare a meno di lui e della sua caratterizzazione»16. Nella rigorosa operazione di ridimensionamento della categoria del personaggio condotta dai formalisti, non ci si può però lasciare sfuggire un appunto di Tynianov17, che, trovandosi davanti all’anomalia per cui lady Macbeth dice di aver allattato e, poco dopo, di non aver avuto figli, si appoggia all’autorità di Goethe – secondo cui l’autore fa dire ai suoi personaggi quello che è giusto dire in un preciso momento, senza preoccuparsi di contraddizioni tra gli enunciati che lo pongono in essere –, arrivando a teorizzare l’instabilità del personaggio, l’inconsistenza e la non necessità di un eroe statico. Tynianov demolisce così la pretesa aristotelica di coerenza del carattere18, della sua «unità statica»19, e, se è vero che il suo apporto mira a salvaguardare il dinamismo del testo dall’eventuale autonomia di un personaggio chiuso nella sua stabilità, sfiora tuttavia, oltre le proprie intenzioni, l’idea di un 13 Ibid. Tra parentesi, possiamo annotare come Propp colga qui, en passant, una caratteristica dell’eroe mitologico cui largo spazio dedicheranno, un ventennio dopo, Kerényi e Jung nella loro idea di personaggio del mito come non sottoposto a una legge di evoluzione nel tempo, ma dotato sin dalla nascita di tutti i tratti che lo contraddistingueranno da adulto (Carl G. JUNG - Károly KERÉNYI, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino, Bollati Boringhieri, 1999). 14 Viktor B. ŠKLOVSKIJ, «La struttura della novella e del romanzo» (1929), in Tzvetan TODOROV, a cura di, I formalisti russi, Torino, Einaudi, 1968, pp. 205-229 (a p. 227 si legge: «Gil Blas non è affatto un uomo, è un filo che cuce insieme gli episodi del romanzo – ed è un filo grigio»). 15 Boris TOMAŠEVSKY, «La costruzione dell’intreccio» (1928), in TODOROV, I formalisti russi, pp. 305-350 («Tale figura funge insomma da filo conduttore che dà modo di orizzontarsi nella massa dei motivi e costruisce uno strumento ausiliare per la loro classificazione e il loro ordinamento», p. 337). 16 Ivi, p. 340. 17 Jurij TYNIANOV, «Il concetto di costruzione» (1924), in TODOROV, I formalisti russi, pp. 119-124, alle pp. 120-121. 18 ARISTOTELE, Poetica, cap. XV, 1454a, 26ss. 19 TYNIANOV, «Il concetto di costruzione», p. 121. 7 funzionamento del personaggio che è un disfunzionamento, ne fa emergere la natura di movimento non evolutivo ma illogico, spezzato, incurante della non-contraddizione. Si ha insomma l’impressione che, nell’alveo di quelle che sono le basi teoriche dello scatto progettuale formalista-strutturalista di ridimensionamento del mito del personaggio creato dalla letteratura sette-ottocentesca, tra le pieghe delle posizioni più tenacemente testualiste, qualcosa sfugga, e che la prospettiva di un oltrepassamento sia insita nel progetto stesso. Isterilito nelle sue potenzialità di rimando alla sfera dell’esistente, del reale, della storia, deprivato di qualunque diritto ontologico, «être sans entrailles» annoverabile tra «quelle credenze che hanno in comune l’oblio della condizione verbale della letteratura»20, «wordmass»21 identificabile esclusivamente con quel misurato numero di parole che lo segnala all’interno di un testo, «pseudo-oggetto del discorso», prodotto testuale che solo il discorso, vero protagonista dell’evento letterario, crea22, il personaggio resta nondimeno un conto in sospeso, fantasma mai annientato ma semmai oggetto di una messa tra parentesi. Se è innegabile, certo, che uno studio del personaggio non possa che partire da un’analisi di una serie di enunciati, è anche vero che non si potrà identificarlo esclusivamente con le frasi pronunciate da lui o su di lui, perché rispetto a quelle frasi un personaggio si pone come debordamento: è su quel debordamento che è necessario interrogarsi. Un personaggio – e questo sarà il filo del nostro percorso – non si presta, come non vi si presta il soggetto, alla stretta coincidenza con qualcosa. Il personaggio, come il soggetto, è individuo irretito nella parola di un altro individuo che subito lo de-individualizza, oggetto di linguaggio che rifiuta il posizionamento di un’essenza per farsi invece attraversamento, processualità, movimento più che luogo del movimento, oltrepassamento dell’identico, alterità simultanea al suo essere posto23. Il lavoro qui presentato s’inserisce nel progetto di ricerca Tipologie e identità del personaggio medievale fra modelli antropologici e applicazioni letterarie, promosso dall’Università di 20 Paul VALERY, «Littérature», in Id., Oeuvres, II, Paris, Gallimard, 1960, pp. 545-570, p. 569. Edward M. FORSTER, Aspects of Novel (1927), London, Edward Arnold LTD, 1949, p. 44. 22 Gerard GENETTE, Nuovo discorso del racconto, Torino, Einaudi, 1987, pp. 116-7. 23 «Non dobbiamo pensare al soggetto come a un’individualità inizialmente chiusa, che successivamente si apre alla realtà esterna e al mondo intersoggettivo: la sua identità è relazionale fin dall’inizio, e ciò che meglio la definisce è la non-coincidenza. Il soggetto risulta alienato sin dall’origine, «gettato nel mondo» (come ha detto Heidegger), cioè gettato in relazioni, e non circoscritto da proprietà (Giovanni BOTTIROLI, Che cos’è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi, Torino, Einaudi, 2006, p. 267). 21 8 Macerata e coordinato da Massimo Bonafin. Questo è a sua volta inserito nel più ampio progetto PRIN, attivato nel 2008, Passato e futuro del medioevo. Figure dell’immaginario (PRIN 2008WY7TXK_003), coordinato da Mario Mancini e finalizzato, come si leggeva nella nota riservata agli obiettivi, a «una ricerca dedicata all’emergere della soggettività medievale», la quale «può forse contribuire alla comprensione delle questioni legate al processo dialettico della costruzione del soggetto tout court». Non si è trattato, in questa sede, d’interrogarsi su una definizione di soggetto nel medioevo, secondo una prospettiva storica, ma di focalizzare l’analisi sull’idea di soggetto veicolata dal corpus dei primi frammenti in antico francese di una leggenda, quella di Tristano e Isotta, destinata a segnare profondamente la tradizione letteraria (e non solo letteraria) europea. I testi del Roman de Tristan del XII secolo mi sono parsi un ricco laboratorio in cui tentare di problematizzare l’asserto, piuttosto condiviso (cfr. infra I.6), per il quale il personaggio medievale, distante dalla moderna idea di personaggio, sia da intendersi come la concretizzazione di una maschera fissa, di un tipo, un prototipo, un modello, estraneo a una visione complessa e articolata dell’individuo. Incapace di «franchir la barrière du cogito, ergo sum»24, il personaggio medievale sarebbe, come una statua di marmo, «figé dans une pose éternelle»25, concretizzazione di un’essenza, di una «quiddité hors du temps» che «exclut toute évolution»26. Alcuni recenti studi27 hanno intuito la possibilità di rintracciare, attraverso l’applicazione ai testi medievali di teorie critiche moderne, una visione del personaggio come processo, come rete in cui s’intrecciano elementi eterogenei. È evidente, infatti, come anche il solo postulato semiologico di Philippe Hamon sulla costruzione relazionale dell’essere di finzione possa ovviare all’identificazione del personaggio medievale con uno schema rigido: In quanto concetto semiologico, il personaggio può essere definito, ad un primo approccio, come una sorta di morfema articolato, morfema migratorio manifestato da 24 Pierre BERTHIAUME, Personae et personnage dans les récits médiévaux. L’illusion anthropomorphique, uébec, Presses de l’Université Laval, 2 , p. 3 . 25 Ivi, p. 147. 26 Ivi, p. 146. 27 Cfr. Virginie GREENE, Le sujet et la mort dans La mort Artu, Saint-Genouph, Nizet, 2002; Dominique DEMARTINI, «Le discours amoureux dans le Tristan en prose. Miroir et mirage du je», in Brigitte M. BEDOSREZAK - Dominique IOGNA-PRAT, a cura di, L’individu au Moyen Age. Individuation et individualisation avant la modernité, Paris, Editions Flammarion, Aubier, 2005, pp. 145-165; Bénédicte MILLAND-BOVE, La Demoiselle arthurienne. Ecriture du personnage et art du récit dans les romans en prose du XIIIe siècle, Paris, Champion, 2006. 9 un significante discontinuo (un certo numero di contrassegni) che rinvia ad un significato discontinuo (il senso e il valore del personaggio). Verrà pertanto definito da un fascio di relazioni di rassomiglianza, di opposizione, di gerarchia e di organizzazione (la sua distribuzione) che esso stabilisce, sul piano del significante e del significato, successivamente o/e simultaneamente, con gli altri personaggi ed elementi dell’opera, e ciò in un contesto vicino (in praesentia: gli altri personaggi dello stesso romanzo, della stessa opera) o in un contesto lontano (in absentia: gli altri personaggi dello stesso genere)28. Anche ammesso che il personaggio della letteratura medievale coincida con una serie di tratti riferibili a una maschera nota, la riflessione di Hamon (che, come si vedrà, apre a un ampio ventaglio di compromissioni antropologiche e psicoanalitiche) invita a interrogarsi su come questo modello funzioni sul piano sintagmatico delle relazioni tra personaggi, su come s’incarni nella scrittura, invita a chiedersi su quali possibili elaborazioni di senso esso indirizzi la lettura. Gli studi di cui si diceva si sono concentrati per lo più sulla produzione in prosa del XIII secolo: la prassi romanzesca, più consapevole dei propri strumenti rispetto agli esordi, mostra ormai a quest’altezza cronologica una certa abilità nel creare un tessuto di scrittura da cui emerga l’immagine di un soggetto complesso, sempre diviso tra identità e alterità. Mi è sembrato opportuno, però, riflettere sulla possibilità di rintracciare una simile complessità anche nei più timidi (e, purtroppo, meno documentati dalla tradizione manoscritta) primi passi del romanzo europeo. Con l’ausilio di un adeguato bagaglio teorico e metodologico, ho riletto i testi tristaniani cercando di ricavarne le dinamiche identitarie che li attraversano, con la convinzione che un’analisi dello statuto dell’identità finzionale possa illuminare le intime logiche diegetiche attive nella testualità e svelare isotopie non immediatamente afferrabili. Già nel 1989, Meritt Blakeslee dedicava al Tristano uno studio sull’identità29. Nelle pagine introduttive, Blakeslee si proponeva d’indagare lo statuto identitario del personaggio di Tristano al fine di descrivere «a number of réseaux of meaning that are elaborated within the poems and that collectively constitute, if not their ultimate sense, at least an effort to point towards that ultimate and ultimately ineffable meaning»30. Eppure, come ha appuntato Alberto Varvaro, lo studio di Blakeslee, «malgrado il sottotitolo, è un’indagine tradizionale sui travestimenti e le personalità di Tristano»31. 28 Philippe HAMON, «Per uno statuto semiologico del personaggio», in Semiologia, lessico, leggibilità del testo letterario, Parma, Pratiche, 1977, p. 94. 29 Meritt R. BLAKESLEE, Love’s Masks. Identity, Intertextuality, and Meaning in the Old French Tristan Poems, Cambridge, D.S. Brewer, 1989. 30 Ivi, p. 4. 31 Alberto VARVARO, «Il Tristan di Béroul, quarant’anni dopo», in Rosanna BRUSEGAN, a cura di, Le roman de Tristan. Le maschere di Béroul, Medioevo Romanzo, 25, 2001, pp. 312-346, p. 346. 10 Il primo capitolo, Note per una teoria del personaggio, costituisce una riflessione su alcuni strumenti teorici utili all’analisi del personaggio, in uno sforzo di approfondimento e adattamento alla produzione letteraria dell’epoca medievale di teorie dell’identità finzionale spesso nate da un corpus di testi moderni (o, comunque, in genere utilizzate per l’analisi di testi moderni). Uno spazio particolare è stato riservato alle note inedite di Ferdinand De Saussure dedicate al personaggio leggendario e mitologico32, seguendo alcuni spunti forniti dal contributo di Massimo Bonafin Prove di un’antropologia del personaggio33, che ha rappresentato il punto di partenza dell’intera ricerca. In questo senso, si è rimediato a una mancanza degli studi teorici sull’essere di finzione già denunciata da Hamon34, studi nei quali l’attenzione rivolta agli appunti di Saussure è stata finora modesta. Un’attenta interrogazione delle note saussuriane, oggetto anche di una consultazione diretta presso la Biblioteca di Ginevra, ha permesso, sulla scia dei risultati delle ricerche dei due studiosi saussuriani Michel Arrivé35 e Béatrice Turpin36, di intravedervi l’idea, non portata a un’elaborazione puntuale, di una visione del personaggio improntata a una logica del vuoto, dell’assenza e del continuo rinvio all’alterità: constatazione che ha permesso di tracciare dei parallelismi tra le ricerche di Saussure sul personaggio del mito e della leggenda e la visione freudiana, elaborata all’incirca negli stessi anni, di un soggetto diviso. L’elaborazione di strumenti teorici per l’analisi del personaggio si è avvalsa, inoltre, di studi legati a indirizzi critici di matrice antropologica e psicoanalitica. Particolarmente proficui si sono rivelati gli schemi analitici offerti dalla semiotica delle passioni37, nonché quelli provenienti dalle teorie antropologiche di René Girard, le quali sono state oggetto di 32 Ferdinand DE SAUSSURE, Le leggende germaniche, Scritti scelti e annotati a cura di Anna MARINETTI e Marcello MELI, Este, Libreria Editrice Zielo, 1986. 33 Massimo BONAFIN, «Prove per un’antropologia del personaggio», in Le vie del racconto. Temi antropologici, nuclei mitici e rielaborazione letteraria nella narrazione medievale germanica e romanza, a cura di Alvaro BARBIERI - Paola MURA - Giovanni PANNO, Padova, Unipress, 2008, pp. 3-18. 34 Philippe HAMON, Le personnel du roman. Le système des personnages dans les Rougon-Macquart d’Emile Zola, Genève, Droz, 1998, p. 17, n. 19. 35 Cfr. Michel ARRIVÉ, A la recherche de Ferdinand De Saussure, Paris, PUF, 2007. 36 Cfr. Béatrice TURPIN, «Légendes - Mythes - Histoire. La circulation des signes», in Simon BOUQUET, a cura di, Ferdinand de Saussure, Paris, Éditions de L’Herne, 2 3, pp. 3 -316. 37 Cfr. Algirdas J. GREIMAS, Del senso II. Narrativa, modalità, passioni, Milano, Bompiani, 1984; Isabella PEZZINI, a cura di, Semiotica delle passioni, Bologna, Esculapio, 1991; Giovanni BOTTIROLI, Retorica. L’intelligenza figurale nell’arte e nella filosofia, Torino, Bollati Boringhieri, 1993; Paolo FABBRI, La svolta semiotica, Bari, Laterza, 1998; Mario LAVAGETTO, Lavorare con piccoli indizi, Torino, Bollati Boringhieri, 2003; Elisabeth RALLO DITCHE - Jacques FONTANILLE - Patrizia LOMBARDO, Dictionnaire des passions littéraires, Paris, Belin, 2005. 11 una recente pubblicazione in cui si propone un’applicazione della nota teoria del desiderio mimetico ai testi della letteratura medievale38. Il secondo capitolo, Il Tristano di Ferdinand De Saussure: dalle fonti all’immagine sfocata, costituisce una sorta di parentesi nella dissertazione. Prima di procedere all’analisi dei testi tristaniani secondo le prospettive abbozzate nel primo capitolo, si è provveduto a un commento critico di quella parte degli appunti inediti dello studioso ginevrino dedicati proprio al personaggio di Tristano, del quale si valorizza il ruolo rivestito nel percorso che ha condotto Saussure all’idea di personaggio leggendario come «bolla di sapone», come assemblaggio provvisorio e instabile di tratti, prodotto mai definito, ma processo continuo di acquisizione e cessione di schegge d’essere. Il terzo capitolo, Ostensioni e latenze dell’identità nelle Folies Tristan, il quarto, Fluttuazioni del personaggio, e il quinto, Tristano (e Isotta): l’ombra dell’eroe, sono, rispettivamente, dedicati alle analisi delle dinamiche identitarie che attraversano i testi delle Folies Tristan, del romanzo di Thomas e di quello di Béroul. Come si spiegherà più avanti con maggiori dettagli, la scelta di partire dall’analisi dei due poemetti che raccontano il travestimento di Tristano da folle al fine di raggiungere in incognito la corte di Cornovaglia e incontrare l’amata – scelta che non rispetta né una priorità cronologica né una priorità di prestigio nella tradizione tristaniana – è stata dettata dal proposito di una lettura dell’intera storia di Tristano alla luce dell’esperienza delle Folies. 38 Cfr. Hubert HECKMANN - Nicolas LENOIR, a cura di, Mimétisme violence sacré. Approche anthropologique de la littérature médiévale, Orléans, Editions Paradigme, 2012. 12 I L’être inexistant Note per una teoria del personaggio 1. Un intervallo tra l’essere e il non essere È Ferdinand De Saussure a indicare il personaggio della leggenda e del mito come être inexistent nelle sue Note sulle leggende germaniche e Tristano39, incisiva soluzione cui approda dopo un percorso denso e articolato – e, come da suo stile, incompleto. Soluzione che mi pare rappresenti bene il senso della lettura delle Note che qui si proporrà, sicuramente influenzata, almeno in un primo stadio del lavoro, dalla mediazione di d’Arco Silvio Avalle e da quella visione di un universo privo di senso che lo studioso rintraccia negli appunti saussuriani, da quell’idea di «atmosfera vagamente surreale, quasi onirica»40, in cui Saussure avrebbe scomposto i segni della leggenda»: Il significato, in altre parole, non costituisce un dato primario dell’esperienza umana, ma è il frutto dell’attività combinatoria esplicata dall’uomo in un universo inizialmente privo di significato41. Nonostante Avalle sia stato tacciato di eccessi di pessimismo42, e nonostante il mio stesso lavoro, in linea con i più recenti commenti alle Note, si sia indirizzato a un 39 D’ora in poi Note. Si parla generalmente di Note sulle leggende germaniche, ma, a rigore, bisognerebbe includere nella denominazione anche gli appunti sul Tristano (contenuti per lo più, ma non solo, nell’involucro Ms. fr. 3959.10 del Fonds Ferdinand de Saussure della Bibliothèque de Genève), essendo questi pienamente integrati negli appunti sulle leggende germaniche. La più completa edizione delle Note, che però non contempla le 814 carte nella loro interezza, è la già citata Marinetti-Meli. Sono poi disponibili edizioni di porzioni più esigue degli appunti: Komatsu EISEKU, «Tristan - Notes de Saussure», Essays and Studies, 32, Faculty of Letters, Gakushuin University, 1985; Bernard GICQUEL, «Le roman de Tristan et ses sources antiques selon Ferdinand de Saussure», Speculum Medii Aevi, vol. 2, 1996, pp. 27-56; «La légende de Sigfrid et l’histoire burgonde» e «Tristan. Le mythe comme trame de la légende», presentazione ed edizione di Béatrice TURPIN, in BOUQUET, Ferdinand de Saussure, pp. 360-397. Su alcune note sono intervenuto personalmente in seguito a una consultazione diretta presso la Bibliothèque de Genève; in particolare, ho riportato alcune cancellature che mi sono sembrate significative. Per alcune note del quaderno 3959.11, che comporta qualche problema di numerazione dei fogli, indicherò la pagina di una delle edizioni di riferimento, anziché il numero del foglio. 40 D’Arco Silvio AVALLE, Ferdinand De Saussure fra strutturalismo e semiologia, Bologna, il Mulino, 1995, p. 130. Il volume rielabora materiali cui Avalle aveva cominciato a lavorare già nei primi anni settanta (si veda Id., «La sémiologie de la narrativité chez Saussure», in Charles BOUAZIS, a cura di, Essais de la théorie du texte, Paris, Éditions Galilée, 1973, pp. 19-49). 41 AVALLE, Ferdinand De Saussure fra strutturalismo e semiologia, p. 97. 42 Scrive Avalle: «La lettura dei quaderni contenenti gli appunti sulle leggende germaniche dà l’impressione di un fallimento drammatico sul piano della razionalizzazione dei fatti storici: il fallimento dell’identità» (Ivi, p. 131). Verso l’idea di fallimento dell’identità e d’inesistenza del segno è particolarmente critico Michel Arrivé: «Le signe […] n’a pas d’existence substantielle. C’est en cela qu’il est qualifié d’«être inexistant». Car, ridimensionamento di un certo nichilismo, continuo a credere che la sua interpretazione – oltre ad avere il merito di essere stata tempestiva, in un contesto di studi in cui i linguisti poco si dedicavano a questi appunti in quanto poco linguistici e i germanisti non se ne curavano affatto perché troppo linguistico-semiologici – abbia ben lasciato intravedere la complessa articolazione del pensiero saussuriano, il suo porsi oltre una prospettiva unilaterale per accettare debordamenti, fughe, incongruenze. La mia lettura delle Note è stata guidata da quella rete di debordamenti-fugheincongruenze che mi sembrava assediare Saussure (tanto da interdirsi la pubblicazione) e che Avalle intercettava. Nella sua ricerca, lo studioso ginevrino si rende presto conto che, lungi dall’essere un prodotto compiutamente elaborato, il personaggio leggendario e mitologico è «il risultato preterintenzionale di un’evoluzione, che ha creato o alterato un rapporto tra elementi preesistenti, un prodotto del tempo e della tradizione orale»43. Ma questo rapporto tra elementi preesistenti non genera mai un ente definito, poiché il continuo meccanismo di scomposizione e ricomposizione di quegli elementi ri-crea costantemente nuovi profili, nuove identità. Il volto del personaggio è così smarrito nelle schegge d’essere che circolano nella leggenda, rendendo impossibile l’individuazione di una cesura tra il sé e l’altro. L’être inexistant di Saussure, ben oltre la sterile idea di privazione ontologica del personaggio propugnata in ambito formalista e strutturalista, sarà da intendersi, «au sens philosophique»44, come un oggetto paradossale tanto pieno da essere vuoto, inafferrabile, ineffabile, ma comunque condiscendente, come vedremo, all’illusione di un’identità. Interrogando gli appunti saussuriani su quale visione offrissero dell’identità finzionale, si è intravisto, tra gli interstizi di quella che a primo impatto sembra una scomposizione del personaggio leggendario in elementi primi che anticipa ampiamente l’operazione di Propp45, contrairement à ce qu’avance Avalle, cela ne l’empêche pas d’exister. Mais il n’accède à son statut que dans la mesure où il «associe» un certain nombre de traits. Encore cette association est-elle à tout moment menacée de destruction. Mais à tout moment elle se reconstitue, par la modification des traits qu’elle réunit» (ARRIVÉ, A la recherche de Ferdinand De Saussure, p. 95). Kim, invece, critica Avalle per aver troppo investito sulle contraddizioni tra il Corso di linguistica generale e le ricerche sulle leggende, ma ne condivide la posizione sulla non esistenza dell’identità: Saussure, presa coscienza della complessità del personaggio leggendario, avrebbe disintegrato il segno univoco elaborato nel Corso. Dall’altro canto imputa però ad Avalle l’estrapolazione di frammenti teorici, che non tiene conto della polivalenza dei materiali (Sungdo KIM, «La mythologie saussurienne: une nouvelle vision sémiologique? A propos de la continuité de la pensée saussurienne», Semiotica, 97, 1-2, 1993, pp. 5-78). In effetti, lo scarto esistente tra l’impianto teorico elaborato da Saussure e i risultati delle sue ricerche di natura affatto empirica è uno dei nodi in cui io stesso mi sono imbattuto accostandomi alle note dedicate a Tristano (torneremo sul punto nel cap. II). 43 BONAFIN, «Prove di un’antropologia del personaggio», p. 6. 44 Note, 3958.8.21. 45 Si veda AVALLE, Ferdinand De Saussure fra strutturalismo e semiologia, p. 81 e p. 129. 14 un tortuoso percorso attraverso l’alogicità del senso, sempre affidato all’atto della sua elaborazione, costruzione-decostruzione in fieri mai posta aprioristicamente. Mi soffermerei su una nota in questo senso particolarmente rilevante, già valorizzata sia da D’Arco Silvio Avalle che da Michel Arrivé, ma che propongo di leggere qui nella sua quasi interezza, al fine di mostrare l’insistenza sulla contraddizione che gravita attorno alla nozione di personaggio: Comme on le voit au fond l’incapacité à maintenir une identité certaine ne doit pas être mise sur le compte des effets du Temps – c’est là l’erreur remarquable de ceux qui s’occupent des signes, mais est déposée d’avance dans la constitution même de l’être que l’on choye [sic] et observe comme un organisme, alors qu’il n’est que le fantôme obtenu par la combinaison fuyante de 2 ou 3 idées. C’est une affaire de définition. Loin de partir de cette unité qui n’existe à nul moment, on devrait se rendre compte qu’elle est la formule que nous donnons d’un état momentané d’assemblage, – les éléments seuls existant. E, poco oltre nello stesso foglio, contrassegnato da un asterisco che rinvia all’«erreur remarquable», si legge: Pas une création plus ou moins fragile: mais une création radicalement dénuée de principe d’unité; c’est seule la durée relative de certaines traits qui donnent l’illusion là-dessus, et c’est la leçon de tous les jours pour qui étudie, de voir que l’association – que nous chérissons parfois – n’est qu’une bulle de savon, n’est pas même une bulle de savon, laquelle possède au moins son unité physique et mathématique et non accidentelle et indigne46. Il personaggio è un accorpamento provvisorio e instabile di tratti, di elementi primi, che si caricano della parvenza di un’unità – quindi di un’identità – solo in sede di ricezione. È all’osservatore che coglie la leggenda in un determinato stadio del suo percorso (è bene evitare il termine sviluppo, che presupporrebbe un senso evolutivo, senso negato al personaggio e alla leggenda47) che il personaggio si presenta come provvisto di un’identità puntuale, laddove vi è invece in esso una solidità più labile (addirittura meno degna) di quella di una bolla di sapone, una «création radicalement dénuée de principe d’unité». uest’illusione di un personaggio tondo è surrogata dalla propensione ad associare l’essere semiologico all’essere umano, propensione da cui, lo si vedrà più avanti, Saussure mette insistentemente in guardia, in un tentativo costante di allontanamento del referente, del reale, della materia, della cosa, in un’operazione metodica di astrazione teorica. 46 Note, 3958.8.21. Si veda la nota 3958.8.33, in cui Saussure dice che si dovrebbe parlare semplicemente di vicissitudini e non di processi di perfezionamento di una leggenda. 47 15 Non mi pare azzardato dire che Saussure colga nella nota citata il fulcro del dibattito teorico sulla categoria del personaggio che si svilupperà a partire dagli anni ottanta del XX secolo, sulla scorta della felice intuizione di Philippe Hamon48 dell’effet personnage, intorno a cui Vincent Jouve49 costruirà un edificio teorico fondato su una «logique flottante», sulla necessità di un doppio punto di vista nell’analisi del personaggio. Se questo, da un lato, è un prodotto risultante da dinamiche interne alla testualità, dall’altro è un essere mancante cui è necessaria un’operazione di completamento nella ricezione, secondo una definizione del personaggio non più immanentista ma pragmatica50. Se il personaggio leggendario è per Saussure un’inesistenza, l’associazione fugace di qualche tratto, scorre nelle Note una corrente sotterranea che, pur dando per acquisita la negatività, magistralmente argomentata da Avalle, di un pensiero del non essere e del non senso, propone appena è possibile la positività di un’illusione, il richiamo a una sfera dell’esistente difficile da annientare. Ecco che questo fantoccio semiologico diventa l’essere che amiamo, osserviamo, addirittura vezzeggiamo (e sarebbe troppo facile ricamare sulla caduta ortografica di quel choye). Accosterei alla precedente una nota in cui Saussure si pente di chiamare caractères gli elementi primi in cui scompone il personaggio: Dit là: caractères. Il est certain que je ne devrais pas dire caractères, ce qui suppose [une personnalité] de nommer par concession un être existant à travers la légende par luimême. Il n’y a que des éléments d’être51. Nel foglio in cui appare questa nota, il termine personnalité è oggetto di una cancellatura, che credo si presti bene a rappresentare l’ombra che soggiace all’operazione di Saussure: nelle Note il termine è usato, con una certa ambiguità, sia per indicare il personaggio che per indicare la persona, ossia ciò che il personaggio non è. Michel Arrivé si è accorto del paradosso per cui un congegno scientificamente descritto diventa un «objet d’amour»: 48 Si veda il citato HAMON, «Per uno statuto semiologico del personaggio». Vincent JOUVE, «Pour une analyse de l’effet-personnage», Littérature, 85, 1992, pp. 103-111; Id., L’effetpersonnage dans le roman (1992), Paris, PUF, 2001. 50 Scrive Jouve: «L’approche immanentiste, si productive soit-elle pour tout regard technique sur le récit, ne résiste pas sitôt que l’œuvre est abordée en termes de communication. Le roman, fait pour être lu, ne peut se passer d’une illusion référentielle minimale. Les formaliste russes l’avaient déjà compris» (JOUVE, «Pour une analyse de l’effet-personnage», p. 105). E cita un passo del 1925 di Tomasevskij, secondo cui il lettore non può liberarsi «psychologiquement» dell’impulso a pretendere da un’opera la rappresentazione di figure umane corrispondenti alla realtà (Théorie de la littérature, Textes des formalités russes, présentés et traduits par Tzvetan TODOROV, Paris, Seuil, 1965, p. 285). La constatazione andrà anticipata di un ventennio circa, visto che Saussure l’aveva già messa a fuoco, benché in forma di pars destruens del suo discorso. 51 Note, 3958.8.22. 49 16 Et c’est cet «être inexistant», cette «bulle de savon», ce «fantôme» qui est, nouveau paradoxe, objet d’amour. Je ne crois pas pousser trop loin la pensée de Saussure en employant ce mot, qu’il n’utilise pas. E poco più avanti: Nous n’en avons pas encore fini avec les paradoxes relatifs au signe de la légende: cet être à la fois «inexistant» et «chéri» en vient parfois à accéder à une sorte de vie, voire de conscience et même de réflexion. C’est ce qui est manifesté en plusieurs points par certains détails d’expression, dans des phrases, il est vrai, négatives: ainsi le symbole ne «se doute pas» de son appartenance à la sémiologie52, ou bien «n’a pas un moyen de prouver qu’il est resté le même»53. u’en est-il de ces bizarres phénomènes de personnification du symbole dans l’écriture de Saussure? Ne seraient-ils pas la marque d’un désir de substance, voire de substance pensante, pour cet «être inexistant»? Je laisse prudemment la question pendante…54 Se il linguista può permettersi di lasciar pendere la questione55, lo stesso non può fare chi si occupa di letteratura, il quale si ritroverà ad assegnare a Saussure un posto di primo piano tra i teorici del personaggio che, oltre settant’anni dopo di lui, si sono posti il problema di quella dicotomia connaturata all’essere di finzione, quel suo essere prodotto del testo che dal testo però sempre deborda. In quell’attenzione a distinguere tra «individu graphique», «individu sémiologique» da un lato e «individu organique», «individu vivant»56 dall’altro, i confini sembrano talvolta confondersi e ridefinirsi e parrebbe, insomma, che nelle Note, come si era visto per Propp57, il 52 Note, 3958.4.risvolto di copertina Note, 3958.8.21. 54 ARRIVÉ, A la recherche de Ferdinand De Saussure, p. 97. 55 In realtà, in uno scritto precedente Arrivé si spingeva oltre e, a proposito della personificazione di cui il personaggio è spesso oggetto nelle Note, scriveva: «Simple ornement du discours, parfaitement insignifiant? On peut en douter fortement, et se laisser aller à déceler, en cette redondante figure de personnification, la trace de quelque chose comme un désir: que le symbole puisse être autre chose que ce fantôme immatériel, cette simple collection de traits, renversée immédiatement, à peine identifiée – et si même elle peut l’être – au domaine de l’illusion. […] A prendre – comme il est légitime – ces figures à la lettre, on lit, dans ces failles, un autre discours, qui affecte au symbole précisément les traits qui lui sont refusés dans le texte théorique (Michel ARRIVÉ, Linguistique et psychanalyse. Freud, Saussure, Hjelmslev, Lacan et les autres, Paris, Méridiens/Klincksieck, 1986). 56 Note, 3958.8.21 e 3858.7.35. 57 Un evidente parallelismo con Propp è fornito dalla carta 3958.4.109, dedicata al personaggio di Brunilde della saga dei Nibelunghi: «Beaucoup moins que pour d’autres personnages il y a ici représentation directe d’une personne: tout ce qui est relatif à Brynhildr n’est que la représentation d’un rôle, tandis que la personne ellemême se perd dans le nimbe d’un autre être, venu on ne sait d’où […] Nous aurons en effet presque immédiatement à constater que Brunhilde par son rôle n’est que la pure et simple belle-mère, poursuivant de sa haine un beau-fils». È qui evidente che Saussure anticipi il concetto di funzione (questa nota potrebbe essere aggiunta agli argomenti di Avalle che mirano a mostrare la precedenza di Saussure su Propp: cfr. AVALLE, Ferdinand De Saussure fra strutturalismo e semiologia, p. 129). Ma l’aspetto interessante è come Saussure si spinga già oltre la pura astrazione della funzione e segnali quell’oscillazione nel personaggio tra il ruolo, che rimanda a un essere dall’inspiegabile provenienza, e la rappresentazione diretta di una persona, che nel caso di Brunilde è poco marcata, a vantaggio del ruolo. Sembra, insomma, che Saussure avrebbe potuto dire, ben prima 53 17 potenziale antropologico del personaggio, la sua capacità di rinvio alla sfera dell’esistente, la sua appendice referenziale non siano aboliti, ma solo messi tra parentesi, e che spesso affiori tra le righe l’ombra di quel «modellino antropologico», di quell’«antropologia spontanea» di cui parla Mario Lavagetto, il quale coglie in un’efficace formula la dialettica – dialettica fondante del modo d’esistenza del personaggio – tra un’autonomia segnica e un inevitabile scivolamento nel referente: Non è necessario che quei fantasmi si trasformino nei nostri vicini di casa e piangano sulle nostre spalle. Per impedire la metamorfosi è necessaria, “accanto all’identità immediata tra il segno e l’oggetto (A è A1), la coscienza immediata dell’assenza di questa identità (A non è A1)”. La soppressione di uno dei due termini porterebbe a dimenticare che la letteratura è il prodotto di quella tensione, vive nell’intervallo tra quell’identità e l’assenza di quell’identità58. La tensione tra un’identità e l’assenza di quell’identità, l’intervallo tra un essere e un non essere; un meccanismo che, negli appunti saussuriani, si direbbe duplicato. In quell’intervallo abbastanza consistente (e su cui Saussure non ci dice nulla)59 da agevolare in sede di ricezione la creazione di un’apparente unità semiologica del personaggio, da agevolare l’illusione di un assemblaggio di elementi vari in un segno apparentemente definito, ecco che questa illusione è coadiuvata da un’altra illusione, quella di un riferimento alla sfera dell’esistente, dell’evenemenziale, dell’umano, che pilota e altera lo sguardo che si posa sull’essere semiologico del mito e della leggenda. Si delinea, così, una visione bidirezionale, ambigua, forse persino contraddittoria che si fa strada nelle Note. 2. L’identità negata Fantasma, bolla di sapone, essere inesistente. Qual è la logica che si articola dietro queste definizioni estreme – e forse apparentemente ingenue? Come si è anticipato, il discorso sull’esistenza-inesistenza del personaggio tratteggiato negli appunti di Saussure si spinge, per complessità ed elaborazione teoretica, molto oltre la questione dell’esistenza ontologica del personaggio per com’è proposta nel dibattito di Todorov, che «rifiutare ogni relazione tra personaggio e persona sarebbe assurdo: i personaggi rappresentano delle persone, secondo modalità proprie della letteratura d’invenzione» («Personaggio», in Dizionario enciclopedico delle scienze del linguaggio, a cura di Oswald DUCROT e Tzvetan TODOROV, Milano, ISEDI, 1972, p. 246). 58 Mario LAVAGETTO, Lavorare con piccoli indizi, Torino, Boringhieri, 2003, p. 60. 59 Cfr. AVALLE, Ferdinand De Saussure fra strutturalismo e semiologia, p. 90. 18 formalista e strutturalista. L’astrazione teorica che, a un certo punto del percorso, investe quella che si presentava all’inizio come un’analisi empirica delle fonti delle leggende germaniche porta Saussure a elaborare una visione del personaggio della leggenda come una rete di tratti aliena dalla possibilità di un centro organizzatore, nebulosa improntata all’eteronomia, pilotata da un principio di dispersione. Risultato che potrebbe inoculare il dubbio che Saussure abbia lavorato, con un anticipo sorprendente e oltre – o addirittura malgrado – le sue intenzioni, a quella decostruzione di un soggetto «decentrato in rapporto alle leggi del suo desiderio, alle forme del suo linguaggio, alle regole della sua azione o ai meccanismi dei suoi discorsi mitici o favolosi» efficacemente descritta da Foucault60. Eppure, le ricerche di Saussure sulle leggende partono da un’intuizione chiara e precisa: il repertorio leggendario germanico, e precisamente la saga dei Nibelunghi, ha palesi ascendenze nella storia burgunda. Il punto di vista adottato da Saussure nel procedere alle comparazioni tra cronaca e leggenda è, come da prassi negli studi dell’epoca, quello del personaggio, prassi sostenuta dalla convinzione che fosse questo a guidare i movimenti della leggenda. Lo stretto parallelismo tra leggenda e personaggio conduce a una coincidenza terminologica: la leggenda e il personaggio, come anche la lettera dell’alfabeto, sono solo vari modi di dire il simbolo, che, in attesa di un successivo tentativo di chiarimento, intenderemo, con Avalle, come un equivalente del segno61. Nella sua ricerca di corrispondenze e analogie tra personaggio storico e personaggio leggendario, Saussure procede a una scomposizione dell’essere di finzione in elementi primi (nome, carattere, posizione rispetto agli altri personaggi, funzione, etc.). È la combinazione, puntuale e provvisoria, di questi materiali d’essere a costituire, in un determinato momento dell’evoluzione diacronica della leggenda, il personaggio, cui l’abitudine all’antropomorfizzazione ci fa attribuire un’idea di unità, di costituzione completa, ma che non è altro che il prodotto di un’attività combinatoria di materiali su cui l’operatore della leggenda si trova a intervenire. Solo di questi materiali, solo di questi elementi primi è possibile garantire l’esistenza. Del personaggio, al contrario, non si potrà dire che esso sia qualcosa, se non il risultato, instabile e provvisorio, di un’operazione di assemblaggio, pronto a esplodere in qualunque momento per il venir meno anche di uno solo di quegli elementi primi che lo compongono, cosa che comporterebbe la necessità di parlare di un altro personaggio. È quindi sul processo più che sull’essenza – sull’essere come modo d’essere, 60 Michel FOUCAULT, L’archeologia del sapere (1969), Milano, Rizzoli, 2009, p. 19. Nelle Note il termine simbolo non è connotato nel senso di non arbitrarietà come nel Corso di linguistica generale, dove è distinto dal segno, arbitrario. 61 19 potremmo dire – che Saussure si sofferma. L’ingresso di un personaggio, fosse anche un personaggio storico, in quella che verrebbe da chiamare una massa culturale-identitaria da cui l’atto diegetico trae i propri costituenti, comporta l’attrazione di questo in un vortice che rende legittimo ogni movimento, ogni spostamento, ogni fluidificazione identitaria. Ne deriva un’impossibilità di dire che un personaggio coincida con un altro, che quindi un determinato personaggio della leggenda abbia ascendenze in un determinato personaggio storico. Potranno condividere dei tratti, potranno essere congruentemente sovrapponibili anche nei dettagli più particolari delle loro rispettive vicende, ma, fosse stato mutato anche solo il nome, non si potrà parlare d’identità di A e B: L’exercice qui consiste à rechercher une “identité” entre un personnage de la légende et un personnage de l’histoire ne saurait avoir, d’avance, qu’une portée très limitée. C’est une chose qui demanderait en tous cas une méthodologie spéciale, rien que pour savoir en qui consistera l’identité, à quel signe nous devons la reconnaître et la proclamer. Le nom en lui seul ne signifie rien, c’est certain. Sont-ce donc les actes du personnage, ou son caractère, ou son entourage, ou [ ], ou quoi encore qui constituent le critère de l’identité? C’est un peu tout cela et rien de tout cela parce que tout peut avoir été à la fois transformé et transporté de A à B. Plus on étudiera la chose, plus on verra que la question n’est même pas de savoir où réside plutôt qu’ailleurs l’identité, mais s’il y a un sens quelconque à en parler62. Ciò che consente alle Note di assumere una portata epistemologica che la distingue dalle ricerche in termini di fonti, usuali nel clima positivista in cui nascono, è proprio il problema dell’identità che vi viene posto. Bisognerà chiarire però – cosa che non mi è parso di trovare negli studi che si occupano degli appunti dedicati alle leggende germaniche e a Tristano – la polisemia che caratterizza l’utilizzazione di questo termine nelle note saussuriane. È noto come l’identità sia un concetto fondamentale per la linguistica, la quale s’interroga su ciò che rende legittima la sovrapponibilità di due o più elementi e su che cos’è che garantisca la sussistenza di un’entità63. Ed è sicuramente in questo senso che Saussure utilizza il termine identité nelle Note («l’identité de Godegisèle avec Gîselher»64 o «l’identité des Huns et de Francs»65, per citare solo qualche esempio), senza però riuscire a evitare un qualche scivolamento semantico. Benché Saussure proponga un’equiparazione di quegli esseri inesistenti che sono «le mot, ou la personne mythique, ou une lettre de l’alphabet, qui ne sont que différentes formes du SIGNE, au sens philosophique», la sua analisi s’impernia qui 62 Note, ed. Marinetti-Meli, p. 312. Sull’argomento, e su come le Note vi s’inseriscano, rimando a Loic DEPECKER, Comprendre Saussure. D’après les manuscrits, Paris, Armand Colin, 2009, in particolare alle pp. 62 ss. 64 Note, ed. Marinetti-Meli, p. 339. 65 Note, 3958.2.6. 63 20 sul personaggio del mito e della leggenda (con quel costante richiamo negativo al referente umano di cui abbiamo detto) e questo genera uno spostamento nell’utilizzazione del termine identité, che, se indica, sì, la circoscrizione di un personaggio a un assemblaggio puntuale di tratti e, insieme, la possibilità di identificare, sovrapporre due personaggi distinti, viene usata anche in un senso, mi si passi l’espressione, più alla buona. Che per Saussure identità sia anche sinonimo di personalità è dato per scontato da Avalle: Quali fattori, insomma, garantiscono l’identità, vale a dire la personalità e, in un’ultima analisi, la permanenza dei singoli segni nel corso della loro evoluzione?66 Avalle, sebbene non si soffermi sulla distinzione, individua le due sfumature con cui il termine è utilizzato negli appunti. Si tratterebbe solo «in un’ultima analisi» della permanenza dei tratti costituenti in un’entità stabilita; la questione prioritaria sembra quella di una solidità del profilo del personaggio (una personalità) tale da poter rinviare a quel fantasma antropomorfico verso cui, come si è visto sopra, l’atteggiamento di Saussure è ambiguo. Sembrerebbe cioè che, anche chi, come Avalle, si è sforzato di condurre un raffinato discorso semiologico intorno all’inesistenza del personaggio-segno, non sia stato immune all’influenza di quella corrente altra delle Note. Di che cosa sta parlando Saussure? Dell’identità del personaggio della leggenda da intendersi come segno, certo, e dell’impossibilità di seguirne un percorso diacronico. Ma il fatto che il segno compaia in quest’occasione come personaggio mitologico e leggendario, ossia come fenomeno che, per quanto ci si sforzi di analizzarlo come presenza antireferenziale, non può non rinviare a un’idea di soggetto, produce una dinamica contraddittoria non trascurabile. Non si tratta di soli cavilli terminologici. Saussure parla in questi appunti di segno, lasciando a margine – e puntualizzando costantemente di lasciare a margine, quasi fosse una presenza per assenza – il discorso che investe l’individuo non semiologico, in uno sforzo di astrazione teorica dalla sfera dell’esistente. Il fatto che, però, le Note non riescano mai veramente ad abolire questa sfera pone il dubbio che, mentre crediamo che il linguista nei panni dell’etnografo e mitografo ci stia parlando dei personaggi dei Nibelunghi, Saussure stia ponendo le basi per una teoria del soggetto. Il dubbio non è del solo scrivente, che si è più che altro curato di sviluppare un’ambiguità discorsiva e terminologica come argomento atto a corroborare un’intuizione che è però alquanto condivisa. Oltre i dubbi di Arrivé sul paradosso di quest’essere inesistente delle 66 AVALLE, Ferdinand de Saussure fra strutturalismo e semiologia, p. 90. 21 leggende che ha accesso a una qualche forma di coscienza e di riflessione, un’altra linguista e studiosa di Saussure, Béatrice Turpin, vede nell’operazione compiuta nelle Note una decostruzione paragonabile a quella realizzata da Freud («l’analogie est ici frappante avec la réflexion que Freud élaborait à la meme époque sur le travail du rêve»), per cui Saussure procederebbe a una messa in discussione di «ces notions d’identité et d’unité telles que les pense généralement la philosophie occidentale»67. Non esiste unità, rileva Turpin, perché quello che esiste è soltanto una rete di associazioni, ed è questa rete di associazioni a formare un senso. Ancora, così recita un altro commento delle Note: On peut en déduire que le mythographe Saussure a totalement renié la vision nomenclaturiste de la personne selon laquelle une personne a sa valeur propre et interne et correspondent à l’unité ontologique. Le cogito cartésien assuré par l’identité de la personne est en dernier ressort mise en doute […] Au fond, le mythographe Saussure se rend compte du fait que la personne est le centre fragile de perpétuelles interactions et métamorphoses. Dans le mythe, la personne erre dans le monde. La personne n’y trouve sa consistance et sa signification ni dans l’histoire ni dans un absolu. Bref, la définition saussurienne de la personne mythique est négative par rapport à une conception positive et triomphante de la personne68. Il dubbio è, dunque, che il Saussure delle ricerche sulle leggende non parli semplicemente di tradizioni etnografiche, dell’identità di un personaggio leggendario come identificazione di un nucleo stabile di tratti, ma parli d’identità tout court. Che parli di soggetto, di un soggetto costruito nell’alterità, soggetto assoggettato e attraversato da forze che lo trascendono, soggetto disperso nella rete di relazioni tessuta da e nel linguaggio, che parli delle leggi che lo manipolano nella costituzione di sé. Su queste leggi non si è in realtà ancora detto nulla, e bisognerà ora soffermarcisi. 3. Il vortice della discorsività e la logica della ridefinizione Da quanto si è visto, non avrebbe senso parlare di un’eventuale identificazione tra due personaggi, non avrebbe senso concepire l’identità in una prospettiva graniticamente unilaterale, chiusa nella circoscrizione di un personaggio, storico o d’invenzione che sia. Quella che ci viene proposta è una logica fluida, in cui la cristallizzazione di un personaggio che consenta la sua sovrapposizione con un altro è considerata operazione sterile, in quanto è 67 68 TURPIN, «Légendes - Mythes - Histoire. La circulation des signes», p. 310. KIM, «La mythologie saussurienne: une nouvelle vision semiologique?», p. 51. 22 impossibile tracciare confini netti. È semmai consentito descrivere dei fenomeni, che qui prendono la forma di personaggi, i quali, nel continuo variare dei tratti che li compongono, sono anelli di una catena illimitata in cui tutto migra, si altera, si sovrappone a qualcosa di altro, in un gioco continuo di cessione e accaparramento di schegge d’essere che circolano in quella che abbiamo chiamato una massa culturale-identitaria. Questa logica che non ammette confini, logica a-liminale, logica della ridefinizione continua, in forza della quale si opera un vero e proprio oltrepassamento dei limiti dell’identico, sembra assumere in qualche punto delle Note un’etichetta. Saussure parla di conte, di narration: L’exactitude historique reste loin de la question. Mais nous pouvons nous représenter ce que Jornandes [sic] veut dire que dans les récit épiques de son peuple il remarquait la même allure, le même caractère essentiel qui appartient à l’histoire, celui d’une narration, et d’une narration qui ne paraissait pas se mouvoir à travers des événements incroyables comme des combats de dragons ou des voyages au pays des nains69. E, in un’altra nota: La légende de Vêland n’est pas même un groupement de mythes gréco-romain relatifs au Feu, à la Forge, et puisés dans différents compartiments voisins come Vulcain, Prométhée, etc., mais directement l’histoire de Dédale prise, sans interprétation ni tendance, dans les mythologies latines, comme formant un conte, et intéressante au titre de conte70 [corsivi miei]. Entrati nel vortice del conte, entrati in una narrazione, i personaggi sono investiti da una serie di meccanismi deformanti: Saussure parla di «transposition»71, «déplacement»72, «dédoublement»73, «réduction de 2 personnages à un74, «défiguration et étymologie»75, valorizzazione di un dettaglio «même absolument insignifiant en soi»76. Soprattutto, la «manque de mémoire» sarebbe «un des plus énormes facteurs de transformation»77, strumento di un atto diegetico che lavora su spostamenti e alterazioni. La leggenda agirebbe inoltre in una direzione sintetizzante, con un «instinct dramatique» di compressione degli eventi78, 69 Note, 3958.4.107. Note, 3959.6.8. 71 Note, 3958.2.1. 72 Note, 3959.10.6. 73 Note, 3958.4.20 e 3958.7.34. 74 Note, 3858.7.34. 75 Note, 3858.7.35. 76 Note, 3858.7.34. In un’altra nota la visione è più drastica: Saussure dirà che «surtout les détails insignifiants» sono oggetto di valorizzazione (3958.8.23). 77 Note, ed. Marinetti-Meli, p. 440. 78 Scrive Saussure: «Tandis que les événements composant la catastrophe sont à l’origine très distincts, répartis sur divers théâtres et sur une période chronologique de trente-quatre ans, le poème en fait, avec un bon 70 23 apportando modifiche dettate dalla necessità di introdurre «un sens et une unité dans les événements»79: Un des élément de destruction semés pour l’histoire dans le terrain particulier qu’est la légende, c’est que les détails, avec le temps, s’arrangeront presque tout seuls en une unité dramatique à laquelle seront subordonnées beaucoup de choses, et sacrifiées beaucoup d’autres80. Il problema dell’identità è in stretta relazione con il concetto, come rileva Turpin, d’ingresso del personaggio in una narrazione. Al contrario di quanto accadeva nelle ricerche del tempo, che tracciavano sovrapposizioni rigide tra personaggio storico e leggendario «sans interroger cette notion de personnage quand celui-ci entre dans une narration», Saussure rintraccia i processi di trasformazione che rendono complesso il rapporto tra i due elementi, mostrando che «dans ces transformations l’unité n’est jamais donnée», secondo una «relation dynamique»81, in cui quello che interessa non sono i fatti, ma come un discorso si trasforma82. Si è anticipato che Turpin segnala, in questo vortice di trasformazioni in cui il personaggio e la leggenda vengono rapiti, delle evidenti analogie con Freud. In effetti, non sembra particolarmente tortuoso rintracciare, dietro i meccanismi di trasformazione variamente enucleati negli appunti saussuriani, la condensazione (Verdichtung) e lo spostamento (Verschiebung) tipici del linguaggio onirico, del lapsus, del motto di spirito. Le alterazioni che i personaggi subiscono nel cammino della leggenda, tra sdoppiamenti, raddoppiamenti o perfino cambi di sesso83, non divergono poi tanto, nella descrizione dei loro meccanismi e persino nella terminologia utilizzata, da quanto Freud andava elaborando all’incirca negli stessi anni84. Direi anzi che ci s’imbatte in passi che si potrebbero trovare nell’Interpretazione dei sogni, a dimostrazione di quell’atmosfera «quasi onirica» di cui parla Avalle (cfr. supra I.1): instinct dramatique, une seule catastrophe, qui s’accomplit dans une seule ville». Poco più avanti parla di un «poème originaire, qui devrait présenter l’histoire de la chute du royaume burgonde en plusieurs récit séparés au lieu d’un seul» (3958.2.29). In un altro punto parla di un «raccourci très favorable au poète» (3958.2.1). 79 Note, 3858.7.35. 80 Note, 3958.4.63. 81 TURPIN, «Légendes - Mythes - Histoire. La circulation des signes», p. 309. 82 Turpin parla di «sémiologie du discursif» (Ivi, p. 312). 83 Si legge nella carta 3958.4.66: «même le sexe peut changer pour figures accessoires». 84 La ricerca di Freud intorno a simili meccanismi deformanti risale a Psicopatologia della vita quotidiana, del 1901. Saussure si dedica alla ricerca sulle leggende germaniche almeno sin dai primi anni del XX secolo, ma probabilmente anche prima. 24 «On voit d’une manière générale que Sigéric est Sigfrid, mais tous ceux qui l’entourent sont déplacés d’une génération sauf Sigmund qui se partage en 2 personnages comme je l’indiquerai en détail»85. Mi unirei, inoltre, alle considerazioni di Turpin aggiungendo che nelle Note non manca neanche la dimensione della censura come causa scatenante delle alterazioni dei personaggi: «Sans doute, avant même que le récit épique naisse, cent forces [psychologiques] sont en jeu pour empêcher que [le poète] l’imagination populaire prenne une connaissance des faits vraiment conforme aux faits86. Di una qualche forma di censura, Saussure parla anche a proposito della morte di Sigerico: l’intolleranza per la figura di un padre assassino avrebbe fatto optare per il «dédoublement dans la légende du personnage historique de Sigismond»87. Entrando in una trama linguistica (si ricordi la sovrapposizione che Saussure opera tra leggenda e lingua), la definizione dell’identità diventa qualcosa d’inafferrabile a causa degli slittamenti continui che l’individuo semiologico subisce, slittamenti che sono operati da e nel linguaggio. La realizzazione di un significato compiuto e cristallizzato è continuamente procrastinata e l’essere delle leggende trova il suo valore solo nel rinvio a un altro anello di una catena sempre aperta: una logica del significante in embrione? Manca ancora un tassello per poterlo asserire. 4. Il personaggio significante È risaputo come, partendo dall’ottica relazionale del segno elaborata da Saussure nel Corso di linguistica generale, Jacques Lacan sia pervenuto all’eresia dell’algoritmo in cui figura la barra che separa significante e significato, e che condanna quest’ultimo a scivolare costantemente sotto il primo. Lacan ha teorizzato la priorità e l’autonomia del significante, cui solo compete la significazione, la quale, mai agganciata univocamente a uno solo di essi, è l’effetto della concatenazione dei significanti. «È nella catena del significante che il senso 85 Note, 3958.4.7. Note, 3958.4.27. Si noterà la cancellazione dell’aggettivo psychologiques riferito a forces. 87 Note, 3958.4.20. 86 25 insiste»88, mai individuabile puntualmente ma colto nello slittamento da un significante all’altro89. Al lettore delle Note sulle leggende germaniche e Tristano la rielaborazione lacaniana della linguistica di Saussure apparirà meno eretica di quanto appaia a chi conosce solo la visione saussuriana del segno come rapporto di significante e significato, per come è presentata nel Corso di linguistica generale. Lacan non è così innovativo nel demolire la capacità del significante di rappresentare il significato, né nel detronizzare quest’ultimo. Arrivé ha ampiamente argomentato le convergenze tra il significante lacaniano e il personaggio-simbolo delle Note90, fino a lasciare intravedere il dubbio di un’influenza diretta, ammettendo però infine: «En tout cas, je n’ai pas trouvé aucune allusion à cette recherche dans ce que j’ai lu de Lacan»91. In effetti, si potrebbe considerare un’eventuale mediazione di Starobinski, che cominciava a pubblicare sul Mercure de France già nel 196492 i primi risultati delle sue ricerche sugli appunti inediti di Saussure dedicati agli anagrammi, ricerche che sarebbero poi confluite in Les mots sous les mots93. Ma la faccenda, che riguarderebbe più lo storico della psicoanalisi, non interessa in questa sede. Non ci soffermeremo neanche sull’aspetto che attira l’attenzione del linguista, ossia il rapporto tra il significante saussuriano 88 Jacques LACAN, «L’Istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud», in Scritti, Torino, Einaudi, 1974, vol. I, pp. 488-523, p. 492. 89 Per il significante lacaniano, e per la teoria del soggetto a esso collegata, di cui qui si traccerà un quadro molto sintetico, rimando, oltre che ai testi di Lacan che saranno citati, a: Giovanni BOTTIROLI, Jacques Lacan, Arte linguaggio desiderio, Bergamo, Sestante Edizioni, 2002; Id., «Da Freud a Lacan», Che cos’è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi, pp. 197-293; Antonio DI CIACCIA - Massimo RECALCATI, Jacques Lacan. Un insegnamento sul sapere dell'inconscio, Milano, Mondadori, 2000; Christian CHELEBOURG, «Du registre de l’Imaginaire à la poétique du sujet», in Id., L’imaginaire littéraire. Des archétypes à la poétique du sujet, Paris, Nathan, 2000, pp. 98-105; Massimo RECALCATI, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2012, pp. 105-120. Specificamente sul rapporto Saussure-Lacan in merito alla definizione di significante: Michel ARRIVÉ, «Signifiant saussurien et signifiant lacanien», in Id., Linguistique et psychanalyse. Freud, Saussure, Hjelmslev, Lacan et les autres, pp. 123-143 e «Lacan lecteur de Saussure», in Id., Langage et psychanalyse, linguistique et inconscient. Freud, Saussure, Pichon, Lacan, Paris, PUF, 1994, pp. 81-130; André GREEN, «Linguistique de la parole et psychisme non conscient», in BOUQUET, Ferdinand de Saussure, pp. 272-284. 90 Si veda, in particolare, Linguistique et psychanalyse alle pp. 33 ss. 91 ARRIVÉ, «Lacan lecteur de Saussure», p. 86. Si noti, per esempio, come questa descrizione del significante lacaniano data da Arrivé non paia così lontana dal personaggio-simbolo di Saussure: « uoi qu’il en soit de l’exemple – jour et nuit, homme et femme, c’est tout un – Lacan procède de même coup à deux gestes: l’exclusion, d’emblée, de la chose – dont il n’y a même pas à dire qu’elle est absente; et l’insistance sur l’absence – qui est en même temps présence – de l’autre signifiant (Ivi, pp. 11 -119). 92 Jean STAROBINSKI, «Les anagrammes de Ferdinand de Saussure», Mercure de France, février 1964, pp. 243-262. Si tenga presente che l’influenza della linguistica saussuriana nel pensiero di Lacan emerge a partire da L’istanza della lettera, del 1966. 93 Jean STAROBINSKI, Les mot sous les mots. Les anagrammes de Ferdinand De Saussure, Paris, Gallimard, 1971 (trad. it.. Le parole sotto le parole. Gli anagrammi di Ferdinand de Saussure, Genova, Il Melangolo, 1982). 26 e quello lacaniano; quello che mi pare rilevante ai nostri fini è ciò che si può ricavare dallo stadio successivo della teoria lacaniana, ossia la visione del soggetto che ne deriva. La grande novità dell’elaborazione teorica di Lacan starebbe nell’aver introdotto il soggetto nella linguistica strutturalista. Nell’immettere il soggetto nel sistema linguistico, Lacan ne ricava la teoria di un soggetto alienato, diviso, soggetto come mancanza a essere. La divisione costitutiva del soggetto è strettamente connessa alla visione della significazione come effetto della catena dei significanti: il soggetto, lontano dall’essere contemplato come il manipolatore del linguaggio, è un effetto di significato. Non può quindi costituirsi come presenza a se stesso, ma è invece continuamente procrastinato, rinviato sempre a un successivo anello: «il significante rappresenta il soggetto per un altro significante»94. Ora, con tutte le precisazioni che abbiamo cercato di apportare riguardo l’eventuale presenza di un soggetto nelle Note, non mi sembra inappropriato dire che Saussure non avrebbe avuto bisogno di Lacan per mettere a fuoco l’idea di un soggetto mai realizzato pienamente, ma attraversato da un’alterità che lo rende irrimediabilmente scisso e incompleto. È vero: Saussure parla di leggende, di fatti storici, di eventuali influenze della storia sulla leggenda, la sua ricerca verte sull’evoluzione diacronica (è invece semmai una diacronia nel e del discorso a investire il significante lacaniano), negli appunti è quasi maniacale nel mettere in guardia il lettore dalla possibile confusione, sempre in agguato, tra personaggio leggendario e soggetto umano. Ma a essere notevole è l’elaborazione teorica cui Saussure approda nonostante i presupposti dell’empirista. Avalle lo ha spiegato con parole eloquenti: Partito dal concetto di transfert ma con uno scarso bagaglio etno-culturale, Saussure ha fatto della sua formazione e delle sue esperienze nel campo linguistico-matematico una leva potente per andare più a fondo nei problemi relativi alla natura e alla composizione del segno stesso95. Seguendo quella sua predisposizione all’astrazione logico-matematica, mi sembra che il Saussure delle Note metta mirabilmente a fuoco quell’«antitesi tra essere e non essere» che, secondo Northrop Frye, accomuna la letteratura e la matematica: Sia la letteratura che la matematica procedono da postulati non da fatti; ambedue possono essere applicate a una realtà esterna e tuttavia esistere anche in forma pura o autonoma. Ambedue inoltre inseriscono un cuneo nell’antitesi tra l’essere e il non essere, che è molto importante per il pensiero discorsivo. Non si può dire né che il simbolo sia né che non sia la realtà che esso manifesta96. 94 Jacques LACAN, «Posizione dell’inconscio», in Scritti, Einaudi, Torino, 1974, vol. II, p. 844. AVALLE, Ferdinand De Saussure fra strutturalismo e semiologia, p. 101. 96 Northrop FRYE, Anatomia della critica, Torino, Einaudi 1969, pp. 472-3. 95 27 È per via di quella propensione all’astrazione teorica, alle strategie del pensiero e della discorsività che fece intravedere a Merleau-Ponty, durante la celebre conferenza al Collège de France del 15 gennaio 1953 (conferenza che influenzò profondamente Lacan), la «possibilité de tirer une philosophie de l’einsegnement de Saussure», è in forza di quella propensione, si diceva, che Saussure si allontana da un ambito di ricerca profondamente segnato dal clima positivistico del tempo per elevarsi – non mi sembra a questo punto fuori luogo riconoscerlo – alla prospettiva di una teoria del soggetto, quasi a darsi la possibilità di riflettere sull’essere oltrepassando le implicazioni dell’esistente. Un quadro completo di tale prospettiva richiede ancora un’annotazione, per la quale sarà necessario considerare la funzione retroattiva della teoria del soggetto di Lacan sul pensiero freudiano. Si è argomentato sopra, seguendo il commento di Turpin alle Note, come nei meccanismi di trasformazione del personaggio descritti da Saussure siano facilmente rintracciabili le leggi della condensazione e dello spostamento che Freud poneva alla base del lapsus, del motto di spirito, del linguaggio onirico (e che in Lacan, attraverso la mediazione della linguistica di Jakobson97, diventano metafora e metonimia: ancora una volta ritroviamo in embrione in Saussure quello che sarebbe poi stato sviluppato in ambito strutturalista). I meccanismi trasformazionali rinvenuti nelle Note non fanno che aggiungere un argomento alla nota questione dell’incontro mancato tra Freud e Saussure, ma gli appunti dedicati alle leggende, per come li abbiamo letti tramite il filtro lacaniano, possono portare a un ulteriore approfondimento del parallelismo tra il pensiero di Saussure e quello di Freud. La teoria lacaniana del soggetto diviso è improntata al noto saggio freudiano Psicologia delle masse e analisi dell’Io98 (oltre che al saggio sul narcisismo99), da cui Lacan ricava la visione di un io configurato come una cipolla: «lo si potrebbe pelare e si troverebbero le identificazioni successive che lo hanno costituito»100. Nel saggio del ’21, Freud, ormai dubbioso sulla priorità del complesso edipico nella formazione dell’io, propone un’idea d’identità come identificazione, secondo complessi meccanismi che variano dalla banale imitazione di una persona amata, alla più sottile 97 Roman JAKOBSON, «Due aspetti del linguaggio e due tipi di afasia», in Id., Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 22-45. 98 Sigmund FREUD, «Psicologia delle masse e analisi dell’Io», in Id., Opere, Torino, Boringhieri, 19671980, vol. IX, pp. 261-330. 99 Sigmund FREUD, «Introduzione al narcisismo», Opere, vol. VII, pp. 443-472. 100 Jacques LACAN, Gli scritti tecnici di Freud (1953-54), Torino, Einaudi, 1978, p. 213. 28 introiezione di questa persona nella zona dell’ideale dell’io, all’identificazione di una massa con un leader. Quello che ne risulta è la visione di un soggetto alienato, di un soggetto assoggettato, di un’identità come attraversata dall’alterità, per cui l’io non è che un aggregato di prodotti risultanti da meccanismi d’identificazione, sempre decentrato e incompiuto – Freud ha parlato di Hilflosogkeit, inermità, per enucleare questa condizione dell’individuo umano. La visione di un io stabile e centrato è decostruita dalla prospettiva di un’identità come meccanismo di sottili spostamenti, interpolamenti di schegge d’essere, identità come rapporto indefesso con l’alterità: come per il personaggio delle Note, l’identità è relazionale ed è definibile solo in rapporto a una serie d’identificazioni. È bene sottolinearlo: la prospettiva, il disegno del progetto, gli ambiti di studio in cui sorgono sono affatto diversi. Ma la visione saussuriana e quella freudiana condividono l’idea di una sorta di vortice identitario che condanna l’individuo a una costante fuga da sé, l’idea di un’irrisolutezza senza uscita, di un’identità da intendersi come estrapolazione e accaparramento di frammenti d’essere. In quel meccanismo fluido che caratterizza i processi di creazione e traslazione dei personaggi per come lo descrive Saussure, in quell’idea di personaggio come agglomerato instabile di tratti sottoposto a continua scomposizione e ricomposizione, è possibile cogliere un’eco della concezione relazionale dell’identità elaborata da Freud, che non sembrerà poi così lontana da quella bulle de savon tanto incisivamente descritta dallo studioso ginevrino. Che si parli di segno linguistico, di personaggio-simbolo, di leggenda, di soggetto o di soggetto desiderante, il discorso sembra affidarsi a un’assenza, a un essere che non coincide con se stesso, a un’immagine di perenne alterità. Nella teoria lacaniana, si dice, confluiscono i vertici – Hegel, Husserl, Heiddeger, Freud, Sartre – di un pensiero che ha voluto minare la salda immagine del soggetto cartesiano. Non resta che attendere che filosofi e psicanalisti s’interessino al materiale ancora troppo poco esplorato conservato nella Biblioteca di Ginevra (credo che molto ancora si possa ricavare, nel senso qui intravisto, dalle ricerche sugli anagrammi), per stabilire se un qualche posto nella serie non spetti anche a Ferdinand de Saussure. Nell’attesa, ci si limiterà a considerare quanto fin qui detto per quella che sembra un’operazione legittimata dallo stesso Saussure: utilizzare gli spunti forniti dalle Note per interrogarsi sui modi d’essere di un’identità finzionale, su come il meccanismo della costituzione di un personaggio operi nella testualità. 29 5. Dalla leggenda alla letteratura: Sigfrido non è Don Chisciotte Occorre chiarito subito: a rigore, l’operazione annunciata in chiusura del paragrafo precedente non sarebbe autorizzata. È quanto lascia espressamente intendere questa nota di Saussure: Les personnalités crées par [le romancier] le poète, ne peuvent être comparées pour une double raison; - au fond 2 fois la même. – elle ne sont pas un objet lancé dans la circulation avec abandon de l’origine: la lecture [d’Hamlet] rectifie continuellement ce qui arriverait à Don Chisciotte dès qu’on le laisserait courir sans recours à Cervantes ce qui revient à dire que ces créature ne passent ni par l’épreuve du temps, ni par l’épreuve de la socialisation, restent individuelles, hors d’état d’être assimilées à nos [ Important: ce n’est pas comme un mot. Il n’y a pas lieu de comparer101. Al fondo della questione le nozioni di autore e origine. I personaggi delle opere letterarie, contrariamente a quelli della leggenda e del mito, non sarebbero sottoposti alla prova della socializzazione caratteristica del segno linguistico: una qualche forma d’irrigidimento impedirebbe loro il movimento semiologico, vincolati come sono a una fonte originaria mai azzerabile. Don Chisciotte (inizialmente era Amleto, che forse è sembrato a Saussure un personaggio poco letterario) non conoscerebbe mutamento – e non potrebbe essere oggetto semiologico – poiché prodotto marchiato dalla firma di Cervantes e consegnato alla fissità della scrittura, marchio che negherebbe l’idea d’identità incalcolabile di cui Saussure parla a proposito del personaggio leggendario: L’identité d’un symbole ne peut jamais être fixée depuis l’instant où il est symbole, c’est-à-dire versé dans la masse sociale qui en fixe à chaque instant la valeur […] Où est maintenant l’identité ? On répond en général par sourire, comme [si c’était une chose en effet curieuse] remarquer la portée philosophique de la chose, qui ne va à rien que de dire que tout symbole, une fois lancé dans la circulation – or aucun symbole n’existe que parce qu’il est lancé dans la circulation – est à l’instant même dans l’incapacité absolue de dire en quoi consistera son identité à l’instant suivant102. La convinzione di una stretta connessione tra la letteratura e una scrittura da intendersi come forma cristallizzante, manovrata da un individuo cosciente, l’autore, sembra segnare un punto di non ritorno nell’attività di ricerca di Saussure. Convinto che la rintracciabilità di un’origine e l’intenzionalità di un individuo che confeziona un testo costituiscano un ostacolo alla circolazione libera dei segni, Saussure volge i suoi interessi alle tradizioni orali103. 101 Note, 3958.8.22. Note, 3958.4.risvolto di copertina. 103 Sull’argomento si veda Sandrine BEDOURET - Gisèle PRIGNITZ, a cura di, En quoi Saussure peut-il nous aider à penser la littérature?, Pau, Presses Universitaires de Pau et des pays de l’Adour, 2012. In particolare, si rimanda a: Michel ARRIVÉ, «De la lettre à la littérature: un trajet saussurien», pp. 33-49 e a Pierre-Yves TESTENOIRE, «Littérature orale et sémiologie saussurienne», pp. 61-77. 102 30 La sopravvalutazione di concetti come origine, intenzione cosciente, autore lo fecero d’altronde desistere dal portare a termine le sue ricerche sugli anagrammi. Nei circa cento quaderni dedicati al meccanismo anagrammatico nella poesia latina e neo-latina104, Saussure s’impegna a rintracciare fenomeni di ridondanza fonica che soggiacciono alla versificazione, soffermandosi su come spesso un verso riproduca i fonemi di un elemento, per esempio un nome proprio, non presente linearmente nel verso stesso. Saussure era convinto di trovarsi davanti a un processo intenzionalmente pilotato, un gioco poetico tipico della versificazione latina, una regola che il poeta si autoimpone. Quando interrogherà un compositore di versi latini vivente, Giovanni Pascoli, sull’intenzionalità o la casualità di casi anagrammatici secondo cui, tra i numerosi esempi, dietro ‘Cicuresque’ si celerebbe ‘Circe’ e dietro ‘facundi calices hausere alterni’ ci sarebbe ‘Falerni’105, il silenzio di Pascoli, che non rispose alla lettera, pare sia stato interpretato come un’ammissione di non intenzionalità, ragion per cui Saussure avrebbe abbandonato la ricerca. Per Saussure la poesia, scritta e suggellata da una firma, non potrebbe concepire un funzionamento analogo a quello della leggenda, un’immersione in quella fitta trama adulterante in cui tutto è sottoposto a deformazioni continue, all’insegna di un gioco libero e dinamico: la scoperta che l’opera possa andare oltre la coscienza autoriale lo farà desistere dall’addentrarsi nella questione. Saussure ha ostinatamente tenuto separati due ambiti di ricerca, quello della poesia e quello della leggenda, che lo conducevano, contro i suoi presupposti, verso la stessa visione: quella di uno sprofondamento di questi oggetti di linguaggio in una circolazione interdiscorsiva che trascende la sfera del singolo. Se il personaggio leggendario era il risultato di una ricombinazione fortuita di elementi noti, il verso saturnio utilizza e ricompone un testo che gli preesiste, senza che vi sia una coscienza orchestratrice alla base dell’operazione. A questo proposito, Starobinski, con una formula che vuole contrapporsi all’idea di una coscienza autoriale saldamente manipolatrice, parla di una «légalité linguistique»: Le langage est ressource infinie, et derrière chaque phrase se dissimule la rumeur multiple dont elle s’est détachée pour s’isoler devant nous dans son individualité106. Questa considerazione di Starobinski rivolta alle ricerche saussuriane sugli anagrammi è ugualmente appropriata a quanto finora detto sul personaggio leggendario, che s’isola dalla 104 Cf. Johannes FEHR, «Saussure: cours, publications, manuscrits, lettres et documents. Les contours de l’œuvre posthume et ses rapports avec l’œuvre publiée», Histoire Epistémologie Langage, t. 18, 2, 1996, pp. 179-199 (in particolare, si vedano le pp. 180-183). 105 Cfr. STAROBINSKI, Les mots sous les mots, pp. 149-150. 106 Ivi, p. 153. 31 nebulosa di tratti per acquistare, agli occhi di chi incontra la leggenda in un determinato stadio storico del suo percorso, una provvisoria identità, pronta a disgregarsi per farsi strumento di una nuova, futura combinazione. In questo senso, si potrà asserire che l’errore di Saussure nel porre paletti così rigidi tra casualità e intenzionalità nelle ricerche sugli anagrammi è lo stesso errore che Saussure commette nel contrapporre Sigfrido a Don Chisciotte, il personaggio leggendario a quello letterario: anche qui, è la sopravvalutazione dell’intenzionalità a creare un blocco. Tale sopravvalutazione, che emerge chiaramente nell’esperienza fallimentare della ricerca sugli anagrammi, ridimensiona il veto imposto da Saussure circa un’eventuale trasposizione sul versante letterario delle dinamiche interdiscorsive da lui minuziosamente descritte a proposito delle leggende. Non si può certo rimproverare a Saussure di non aver letto La morte dell’autore di Barthes o Che cos’è un autore di Foucault107. In sede di ricezione il testo letterario acquista una duttilità che trapassa e mortifica, non differentemente dalla leggenda per come è descritta nelle Note, ogni questione legata all’idea di origine, di creazione, e il mondo finzionale proposto dal testo sussiste e circola – circola tra il testo, il lettore e gli altri testi – indipendentemente dalla fase della sua produzione. Inoltre, in quanto oggetto di linguaggio, un testo è «un gioco di segni ordinato meno secondo il suo contenuto significato che secondo la natura stessa del significante»108 e, proprio come nel caso della leggenda, che non opera mai in vista di un senso veicolato e destinato alla stabilizzazione, ma è manipolazione sempre aperta di significanti, la scrittura si articola nella possibilità indefinita del discorso. Non si rimprovererà, si diceva, a Saussure di non aver letto Foucault, ma si apprezzerà semmai quella propensione a una teorizzazione che trascende le premesse della ricerca intrapresa e che, benché la prospettiva proposta sia preclusa alla letteratura, anticipa per certi aspetti lo stesso Foucault (si tornerà su quest’aspetto nel capitolo successivo). Saussure offre, sia nella ricerca sulle leggende sia in quella sugli anagrammi, la descrizione di una logica che sposta, ricompone, ridisegna secondo un piano mai abortito, ma sempre connotato d’incompletezza, provvisorietà, mutamento. Più che ai contenuti cui approdano queste ricerche, contenuti che al lettore di oggi possono apparire ingenui (è il caso degli anagrammi, ma sarà anche il caso della sovrapposizione del personaggio di Tristano con quello di Teseo), 107 Roland BARTHES, «La morte dell’autore» (1968), in Id., Il brusio della lingua, Torino, Einaudi, 1988, pp. 51-56; Michel FOUCAULT, «Che cos’è un autore» (1969), in Id., Scritti letterari, Milano, Feltrinelli, 2010, pp. 1-21. 108 FOUCAULT, «Che cos’è un autore?», p. 3. 32 è la definizione di quella logica che va salvaguardata, con un’attenzione al funzionamento più che ai fatti, al processo formale che trasforma un fatto in un altro, più che al fatto in sé. A proposito di questa logica fluida contemplata nelle Note, Massimo Bonafin ha accostato la riflessione saussuriana sul personaggio leggendario a quella dell’antropologo Rodney Needham sulle classificazioni politetiche109, tassonomie che, a differenza di quelle monotetiche, le quali prevedono la rispondenza a un insieme di proprietà necessarie e sufficienti perché si possa definire un membro di una classe, non considererebbero nessuna proprietà, nessun tratto, per dirla con Saussure, necessari per stabilire l’appartenenza di un determinato elemento a un gruppo. Una classificazione politetica raggruppa, duttilmente, elementi che condividono un certo numero di tratti, ma nessuno di questi è considerato indispensabile per stabilire che un elemento appartenga al gruppo, che ne costituisca un membro. Si tratterebbe di un principio riconosciuto dalla biologia110 e adottato in seguito dalle scienze umane, le quali «si confrontano con fatti e rappresentazioni a cui con difficoltà si possono applicare principi logico-formali troppo rigidi, mentre guadagnano in penetrazione ermeneutica dall’uso di categorie e tipologie più duttili (ma non meno rigorose)»111. Alla stregua della teoria biologica ricondotta da Needham alle scienze dell’uomo, Saussure parla del personaggio leggendario come di un paradigma politetico, di un’identità mobile le cui caratteristiche, sempre pronte a essere trasferite in un altro essere semiologico, possono considerarsi membri di un insieme-personaggio quel tanto che basta per garantire la sua riconoscibilità, caratteristiche mai fissate in un’unità, ma flessibili, sostituibili. Nessun tratto è garante dell’identità di un personaggio, nessuna caratteristica è condizione necessaria perché si possa parlare di tale o tal altro personaggio: La corrispondenza fra la riflessione saussuriana (tutt’altro che sistematica) e l’approccio politetico alle tassonomie rivela, a mio vedere, una concordanza epistemologica fra scienze umane differenti (antropologia, linguistica) che si può attribuire alla natura dei loro oggetti di studio (uomini, testi), che hanno contorni sfumati, che vivono nell’universo del pressappoco piuttosto che in quello della precisione, che si possono distribuire in classi e categorie diverse da quelle proprie 109 Massimo BONAFIN, Guerrieri al simposio. Il Voyage de Charlemagne e la tradizione dei vanti, Alessandria, Edizioni dell’Orso, pp. 2 1-211. Il lavoro di Roodney Needham a cui si fa riferimento è Against the tranquillity of axioms, Berkeley, University of California Press, 1983. Un approfondimento della questione compare inoltre in Andrea GHIDONI, «Il motivo dei vanti tra radici storiche e archetipi: alcune riflessioni di metodo sulle classificazioni politetiche», in Somiglianze di famiglia: tipologie e classificazioni fra scienza e letteratura, L’immagine riflessa, 2011, pp. 155-180. 110 Il riferimento è a Robert R. SOKAL - Peter H.A. SNEATH, The Principles of Numerical Taxonomy, San Francisco, W.H. Freeman, 1963. 111 BONAFIN, Guerrieri al simposio, p. 204. 33 della logica formale, ma non meno riconoscibili e in grado di stabilire relazioni cognitive112. La comparazione proposta da Boanfin illumina la polivalenza della riflessione saussuriana, riflessione sulle relazioni fluide che s’inserisce pienamente in quel filone di un pensiero oppositivo rispetto alla logica dicotomica della tradizione aristotelica, preferendo la polivalenza alla bivalenza: non si potrà dire che un personaggio è se stesso e non un altro, perché non si tratta che di una catena di relazioni. È questa logica della concatenazione libera, questa concentrazione sul processo più che su un contenuto fissato che ci ha spinto a rivedere la denominazione di personaggio-segno che si ritrova nel commento di Avalle alle Note, alla quale si preferirà quella di personaggiosignificante, avendo appurato come questa appaia più appropriata alla dinamica descritta da Saussure, in cui, più che puntare un riflettore su un significante che rimanda a un significato, si asseconda piuttosto una mai conclusa operazione di significazione113. In quest’ottica, Saussure avrebbe descritto un meccanismo di disseminazione del personaggio significante nel percorso della leggenda, interpretando questa come un meccanismo cieco in cui ciò che conta è, più che una trama, un rincorrersi di schegge d’identità. Nelle Note, infatti, non solo «si ribadisce la priorità del personaggio sull’intreccio»114 (contro le teorie che costringono il personaggio nella limitatezza della funzione, subordinandolo all’intreccio), ma si parla inoltre indifferentemente di personaggio e leggenda come di simboli, quasi a lasciarne intravedere un’intercambiabilità, se non una coincidenza. Trasponendo il tutto, contro il dettato di Saussure, sul versante letterario, quella disseminazione del personaggio significante nel farsi della leggenda diventerà una disseminazione del personaggio significante nel farsi della scrittura, come se questa si ramificasse e costruisse intorno a un meccanismo di richiami identitari che penetrano nel testo, lo attraversano, lo costituiscono. La sovrapposizione di leggenda e scrittura richiederà qualche chiarimento, non tanto per la volontà di Saussure di tenere ben separati leggenda e testo letterario, ostacolo che mi pare facilmente sormontabile, quanto per il passaggio da un discorso – quello di Saussure sulla leggenda – che verte sulla diacronia, sul movimento storico, a uno – quello che avrà come oggetto il testo letterario – che contemplerà un movimento sul piano della sincronia, il 112 Ivi, p. 208. Avalle stesso, del resto, argomenta ampliamente le incertezze linguistiche di Saussure. Cfr. AVALLE, Ferdinand De Saussure fra strutturalismo e semiologia, nota 14 alle pp. 85-87. 114 BONAFIN, «Prove di un’antropologia del personaggio», p. 8. 113 34 movimento di un personaggio all’interno di uno stesso testo. Si tratta cioè di ragionare sul funzionamento dell’intersezione dell’asse paradigmatico e di quello sintagmatico del personaggio, intersezione che, in un contesto letterario come quello medievale, in cui i personaggi si offrirebbero, quasi per definizione, come «attualizzazioni di tipologie già codificate nella cultura»115, può aprire proficue prospettive di analisi. 6. Il personaggio medievale: un anacronismo? Emmanuèle Baumgartner afferma che, se dovesse scegliere una parola per indicare la modalità di scrittura del romanzo medievale, sceglierebbe il prefisso ‘re’ 116. Il romanzo medievale non contempla la preoccupazione della novità della produzione, e il suo è sempre un gioco di riflesso, scarto, spostamento rispetto a una fonte. Il romanzo medievale è sempre frammento di una realtà testuale che lo sovrasta e lo attraversa e, in questa scrittura della riproposizione, il ritorno del personaggio gioca un ruolo di primo piano, poiché la memoria culturale di cui è latore pilota non solo la riscrittura, ma anche la ricezione del testo: autore e lettore viaggiano in una sorta di biblioteca babelica in cui ogni gesto di scrittura e di lettura nasce, potremmo dire, già smarrito in una rete di corrispondenze. Questo rinvio a una storia nota, a una costruzione già data, questo inserimento in un’enciclopedia condivisa sia sul piano della produzione che su quello della ricezione dà agevolmente luogo a un giudizio che, nel confronto con il personaggio della letteratura moderna, dipinge quello medievale come mancante, mancante di originalità, di evoluzione, di profondità psicologica: Loin d’être doués d’une singularité, les personnages appartiennent à des types facilement reconnaissables, dont les combinaisons s’effectuent selon des modalités limitées et programmables117. I personaggi medievali farebbero difetto di una «specifica psicologia che li individualizzi»118, sarebbero inevitabilmente «définis par la quantité de leurs qualités, et non par la qualité de 115 Ivi, p. 5. Emmanuèle BAUMGARTNER, «Retour des personnages et écriture du roman (XIIe-XIIIe siècles)», in Pierre GLAUDES - Yves REUTER, a cura di, Personnage et histoire littéraire, Actes du colloque de Toulouse 16/18 mai 1990, Toulouse, Presses universitaires du Mirail, 1991, pp. 13-22, p. 14. 117 Pierre GLAUDES - Yves REUTER, Le personnage, Paris, PUF, 1998, pp. 19-20. 118 Alberto VARVARO, «La costruzione del personaggio romanzesco nel XII secolo» in Francesco FIORENTINO - Luciano CARCERERI, a cura di, Il personaggio romanzesco. Teoria e storia di una categoria letteraria, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 23-44, p. 29. 116 35 leurs qualités»119 e, in opposizione al personaggio moderno complesso e propenso a dipanare la propria complessità nel percorso nel tempo, «dati una volta per tutte»120, affidati a una «scrittura narrativa dove l’azione domina sulla meditazione, sullo scavo nell’interiorità, sulla descrizione psicologica o l’analisi sociale»121. La letteratura medievale non contemplerebbe, quindi, una visione complessa dell’individuo, visione considerata d’altronde estranea all’uomo del medioevo, il quale si riconoscerebbe soltanto come parte di una forma collettiva (la famiglia, il popolo, etc.) e risponderebbe a un’idea di personalità «centrifuge et façonnée par des formes extérieures, tandis que la personnalité moderne est son propre centre»122. Il secondo termine di paragone è dunque un soggetto fondato su un centro organizzatore e realizzato da un vago e imprecisato interno, osservazione che rivela una qualche ingenuità qualora si considerino i duri attacchi cui il soggetto è stato sottoposto nel corso nel ventesimo secolo, in quel suo scoprirsi attraversato da forze – che si voglia chiamarle linguaggio, cultura, natura o inconscio è indifferente – che lo trascendono (il che metterebbe sulla pista di una pacificazione tra un medioevo costruito su forme esteriori, alieno a un’idea di originalità personale e un postmoderno che ha smarrito ogni idea di centro fondante e individualizzante, ma l’argomento ci porterebbe evidentemente troppo lontano). La concezione del personaggio medievale spesso proposta dalla critica è dunque, si diceva, ancorata a un’idea d’incompletezza: più tipo che individuo, il personaggio medievale è latore di una maschera codificata più che di un carico densamente umano123. Dietro queste considerazioni largamente condivise mi pare si possa intravedere lo stesso – benché apparentemente opposto – errore critico che, sul versante della letteratura sette-ottocentesca, ha portato a un approccio psicologistico al personaggio. Si tratterebbe cioè di pretendere che la nozione di personaggio si esaurisca nel suo rinvio alla persona, eludendo la trama testuale in cui prende forma, il suo essere oggetto di linguaggio che, solo nel e attraverso il linguaggio e le dinamiche della testualità, potrà dirci qualcosa sull’umano. Si tratta chiaramente 119 Evelyn B. VITZ, «Type et individu dans l’‘autobiographie’ médiévale. Etude d’Historia Calamitatum», Poétique, 24, 1975, pp. 426-445, p. 430. 120 Cesare SEGRE, «Personaggi, analisi del racconto e comicità nel Romanzo di Tristano», in Pier Lorenzo GRADIN, a cura di, Los caminos del personaje en la narrativa medieval, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2006, pp. 3-17, p. 16. 121 Maurizio VIRDIS, «Idee di letteratura. Medioevo e dintorni», in Duilio CAOCCI - Marina GUGLIELMI, a cura di, Idee di letteratura, Roma, Armando, 2010, pp. 56-69, p. 57. 122 Dominique IOGNA-PRAT, «La question de l’individu à l’épreuve du Moyen Age», in BEDOS-REZAK IOGNA-PRAT, L’individu au Moyen Age. Individuation et individualisation avant la modernité, pp. 7-29, p. 12. 123 Un libro interamente fondato sulla visione del personaggio medievale come concretizzazione di un’essenza è quello del già citato Pierre Berthiaume: Personae et personnage dans les récits médiévaux. L’illusion anthropomorphique. 36 dell’atteggiamento opposto rispetto a quello strettamente funzionalista, che nascerà proprio come riposta allo psicologismo, ma la verità sta nel mezzo: «Amleto e Falstaff non sono né esistenti né non esistenti»124. La pretesa di attingere direttamente dal testo la rappresentazione di una persona, confidando esclusivamente nel potenziale referenziale dell’atto diegetico, se può portare a un esito positivo per il romanzo sette-ottocentesco (nel novecento la mossa non funzionerà quasi più), si rivelerà fallimentare per il romanzo medievale, e allora, sì, si potrà parlare di tipi, di maschere codificate dalla cultura, di applicazioni letterarie di schemi disponibili. Qualcosa in più si potrà ottenere se ci si mette alla ricerca, attraverso un giro evidentemente più lungo, non di una rappresentazione della persona, ma di una rappresentazione delle dinamiche identitarie, se si presterà ascolto alle relazioni più che agli oggetti, non ai contenuti immediatamente presenti, ma ai loro flussi e riflussi. Hans Robert Jauss, richiamandosi a Blumerberg, ha fatto notare come ai testi medievali, pregni del linguaggio del mito, sia estranea l’idea di contenuto come riserva, come oggetto rigidamente dato: il contenuto si dà nel suo farsi, nel suo dipanarsi, è imprescindibile dall’atto della sua fabbricazione, da intendersi come processo sempre in fieri. Una simile prospettiva, riportata al nostro discorso, lascia intravedere la possibilità di problematizzare la questione del personaggio-tipo medievale, qualora si rinunci, appunto, a considerarlo come un contenuto dato, per collocarlo in una rete di relazioni che possa fornirci un’idea di soggetto, d’identità, che non è mai un oggetto ma un processo. È nel gioco del «simbolismo senza significanza», nella catena mai chiusa dei segni che bisogna addentrarsi per ricavare, oltre le maschere e i tipi, un discorso che verta sull’umano, giacché anche nella tipizzazione può esservi un contenuto di riflessione dell’uomo su se stesso: L’insieme delle avventure di Renart a ogni incontro riconduce il modo di essere esemplare degli eroi cavallereschi alla natura non ideale dell’uomo, alle sue ineluttabili brame e debolezze e al tempo stesso fa apparire, come contraffazione antieroica dell’epica cortese, un mondo tipizzato di caratteri compiuto e sottratto al mutamento storico, che non è stato ancora sufficientemente apprezzato come modello che conserva la sua validità nella comprensione che l’uomo ha di sé125. Seguendo un ragionamento che mi pare non lontano da quello di Jauss, Christian Dours, in un recente libro tratto dalla sua tesi di dottorato e dedicato alla questione filosofica delle finzioni dell’identità personale, appoggiandosi a un saggio di Catherine Elgin in cui si legge che un 124 125 FRYE, Anatomia della critica, p. 473. Hans R. JAUSS, Alterità e modernità nella letteratura medievale (1977), Torino, Boringhieri, 1989, p. 25. 37 esemplare, una figura astratta e codificata, nonostante la sua astrazione e non corrispondenza alla realtà, «procure un accès épistémique aux traits qu’il exemplifie», scrive: Et même si la générosité chevaleresque du chevalier n’existe pas dans notre monde, l’œuvre littéraire consiste en une exploration épistémique de la nature humaine et de ses limites126. L’attenzione, nello studio del personaggio medievale, all’idea di soggetto come «esplorazione epistemica», come costruzione operata da e nel linguaggio, è stata oggetto di alcune riflessioni da parte della studiosa Virginie Greene. Greene lamenta la situazione in cui si trova il medievista «lorsqu’on aborde toute question nécessitant de définir un individu, une personne, un sujet, un soi, un moi, un être, dans le contexte historique et culturel du Moyen Age»127, disapprovando definizioni di individuo vaghe, perché poco o per nulla propense a indirizzarsi a una tradizione teorica moderna e postmoderna. La studiosa non ha dubbi nell’affermare che una visione complessa del soggetto, la quale ha visto una sistematizzazione teoretica con Hegel, Marx, Nietzsche, Freud, Lacan, riguarda anche l’uomo medievale che ritroviamo nei romanzi che ancora leggiamo, poiché «la projection imaginaire littéraire suppose un sujet complexe et divisé»: «L’attention individuelle portée à un individu tend à le transformer en sujet, c’est-àdire en une entité complexe construite par et à travers un langage, car l’attention à l’autre est une écoute et non pas une vision»128. Si potrà quindi anche considerare i personaggi medievali come tipi involuti, codificazioni astratte, ma non si potrà ignorare che, nel momento in cui queste maschere diventano oggetto di una proiezione riflessiva, nel momento in cui delle maschere immobili diventano oggetto di pensiero e «di ascolto», tanto per un autore quanto per uno spettatore-lettore, ecco che anche dei tipi diventano, nell’esplorazione epistemica di cui si diceva, uno strumento per l’uomo nella comprensione di sé. Si tratta quindi di spostare l’asse dall’individuo al soggetto, dal personaggio-oggetto al personaggio-relazione, dalla rappresentazione dell’uomo al discorso sull’umano che da un testo si può ricavare. Non si tratta di fermarsi, come si diceva, alla rappresentazione diretta di un individuo offerta dalla cultura medievale, né d’interrogarsi su una soggettività messa in 126 Christian DOURS, Personne, personnage. Les fictions de l’identité personnelle, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2003, p. 131. Il saggio di Catherine Z. Elgin a cui si fa riferimento è «Comprendre: l’art et la science», in Roger POUIVET, a cura di, Lire Goodman, Combas, L’Eclat, 1992. La citazione si trova a p. 52 de libro di Dours. 127 GREENE, Le sujet et la mort dans La mort Artu, p. 161. 128 Ivi, p. 165. 38 gioco dal punto di vista autoriale (è la prospettiva di Michel Zink)129, né di porsi il problema di una ricezione del discorso sull’individuo da parte del pubblico medievale (è la prospettiva dello stesso Jauss). Non si tratta cioè di una prospettiva storica, prospettiva che la letteratura, ossia la storia delle storie che l’uomo si è raccontato su sé e sul mondo, può travalicare, essendo depositaria di un irrinunciabile residuo antropologico: il soggetto non è nell’immagine diretta di un individuo – autore, personaggio, lettore, uditore – ma in un tessuto che bisogna decodificare: «on doit l’abstraire, car on ne peut l’extraire»130. Ecco allora che è nei sommovimenti della diegesi, nel gioco di pieni e di vuoti che la scrittura propone, in quella «specie di rete irregolare e senza confini in cui avviene un continuo scambio, un’ininterrotta circolazione di elementi, ove ogni cosa è risucchiata indietro o attirata in avanti dal resto»131 che bisogna rintracciare un discorso sull’identità. Un’operazione simile richiede ovviamente strumenti teorici raffinati, di cui la critica della letteratura medievale lamenta spesso la mancanza, e, come annota Bouget, «les outils d’analyse pour comprendre le personnage de roman médiéval sont peu nombreux, et l’on mesure toute la distance entre les études théorique aujourd’hui de référence, fondées notamment sur le romans du XIXe et du XXe siècles, et le champ d’application qui nous intéresse»132. Gli studi medievali si ritrovano da ormai qualche tempo alle prese con il concetto di medievalismo, ossia con la definizione di un quadro teorico e metodologico dello studio della ricezione dei testi medievali tra XIX e XXI secolo133. Il termine è generalmente impiegato per indicare le riscritture moderne di testi e trame della letteratura medievale, ma la questione non può che inglobare anche la definizione dei termini entro cui considerare legittima l’applicazione di teorie nate da un corpus di testi moderni ai testi medievali, operazione sempre a rischio di anacronismo. Sulla legittimità dell’anacronismo non hanno dubbio i curatori di un numero della rivista Littérature dedicato a Le Moyen Age contemporain. Perspectives critiques: 129 Michel ZINK, La subjectivité littéraire. Autour du siècle de saint Louis, Paris, PUF, 1985. HAMON, «Per uno statuto semiologico del personaggio», p. 18. La citazione è utilizzata oltre le intenzioni dell’autore, il quale rileva che il personaggio, mai offerto immediatamente dal testo, va ricavato dagli enunciati. 131 Terry EAGLETON, Introduzione alla teoria letteraria, Roma, Editori Riuniti, 1998, p. 160. 132 Hélène BOUGET, «Li Chevaliers as deus espees: la fabrique ratée d’un personnage?», in Chantal CONNOCHIE-BOURGNE, a cura di, Façonner son personnage au Moyen Age, Actes du 31e colloque du CUER MA, 9, 10 et 11 mars 2006, Aix-en-Provence, Publications de l'Université de Provence, 2007, pp. 77-86, p. 81. 133 Si rinvia a Vincent FERRÉ, a cura di, Médiévalisme, modernité du Moyen Age, Itinéraires LTC, 3, 2010, Paris, L’Harmattan, 2 1 . 130 39 L’anachronisme permet d’établir un va-et-vient entre présent et passé qui est certainement la seule manière de saisir en quoi la littérature médiévale nous importe aujourd’hui sans dissoudre son altérité dans la nôtre»134. Una teoria, se valida, non dovrebbe prevedere limiti storici. Nel caso di una visione complessa del soggetto, non bisognerebbe considerarla, come si è cercato d’indicare sopra, appannaggio esclusivo di una produzione letteraria moderna e postomoderna. Il fatto di parlare di un qualche superamento delle barriere, proponendo la prospettiva di interrogare il passato secondo un nostro punto di vista, dà per scontata, appunto, un’idea di barriera che è, a mio avviso, un limite autoimposto. Si tratterà invece di preoccuparsi di rintracciare modelli interpretativi, modelli, come si diceva, di esplorazione epistemica, di rintracciare delle invarianti di figurazione secondo cui l’uomo si è rappresentato e ha rappresentato il suo modo d’essere nel mondo, oggetto per eccellenza della prassi del racconto, oltre i confini della storia. La parabola di una nota teoria, che nasce come una teoria letteraria per poi assurgere al rango di teoria antropologica, quella del desiderio mimetico di René Girard, oggi particolarmente al centro degli interessi della critica per via del prestigio conferitole dalle neuroscienze, potrà forse contribuire a esemplificare quest’inconsistenza dell’idea di anacronismo nell’approccio ai testi letterari. La sua trattazione critica ci permetterà, inoltre, di esaminare alcuni punti finora appena sfiorati: l’idea freudiana d’identità come identificazione, il suo legame con la visione saussuriana di un soggetto decentrato, l’intersezione di asse paradigmatico e sintagmatico nello studio del personaggio. 7. Mimesi, identificazione La teoria del desiderio mimetico di René Girard e il suo Menzogna romantica e verità romanzesca rappresentano un esempio eloquente dello stretto rapporto che intreccia letteratura e antropologia. Se, nel famoso saggio del ’61, la visione del desiderio secondo l’altro, «l’importanza della suggestione e dell’imitazione»135 nell’edificazione della personalità, l’oggetto del desiderio ridotto a un mezzo per arrivare al mediatore, in quanto «è 134 Nathalie KOBLE - Mireille SEGUY, a cura di, Le Moyen Age contemporain: perspectives critiques, Littérature, 148, 2007, p. 7. 135 René GIRARD, Menzogna romantica e verità romanzesca (1961), Milano, Bompiani, 2009, p. 9. 40 all’essere del mediatore che mira il desiderio»136, erano principi teoretici reperiti nei grandi romanzi della storia letteraria occidentale («soltanto i romanzieri restituiscono al mediatore il posto usurpato dall’oggetto; soltanto i romanzieri capovolgono la gerarchia del desiderio, comunemente accettata»)137, gli stessi principi confluiranno in seguito in una teoria antropologica (undici anni dopo, con La violence et le sacré138), fregiata poi, con la formulazione della celebre teoria dei neuroni specchio, del riconoscimento delle neuroscienze139. Le forme letterarie si appropriano di «quella dimensione relazionale in cui si costruiscono le nostre vicende e le nostre emozioni»140, facendo emergere «il potenziale simbolico dell’imitazione»141. L’ambiguità della prassi interazionale messa in moto dal desiderio, con quel gioco sottile di menzogna e verità, mascheramento e smascheramento, fa della teoria mimetica, annota Trigona, uno strumento utile nell’analisi dei testi «secondo un modello dinamico, complesso e relazionale». Nelle produzioni della modernità, continua la studiosa, «menzogna e verità, serietà e serenità, mascheramento e smascheramento non sono mai separati, sono intrecciati e si rimandano a vicenda»142. Ma la faccenda non riguarda le sole opere della modernità. Un recente volume dedicato a Girard, che raccoglie alcuni contributi di esperti di letteratura medievale, mostra bene come la teoria del desiderio mimetico possa offrire uno schema analitico fertile nella lettura dei testi medievali. Nell’introduzione al volume sembra che i curatori, Heckmann e Lenoir, si sentano in dovere di giustificare l’utilizzazione di una teoria antropologica per la lettura di un testo medievale. Mettono in guardia dalla possibile identificazione della società del medioevo con quelle della violenza descritte dagli antropologi, poiché essa, essendo una società che si 136 Ivi, p. 49. Ivi, p. 17. Si noterà, en passant, che la teoria girardiana del desiderio mimetico potrebbe dirsi marchiata del segno di Tristano e Isotta, sebbene la storia dei due amanti non occupi largo spazio nelle pagine di Menzogna romantica e verità romanzesca. Girard, infatti, ha spesso dichiarato il suo debito, riguardo alla formulazione della teoria del desiderio mimetico, nei confronti di L’amour e l’Occident di Denis De Rougemont, classico notoriamente dedicato alla leggenda tristaniana, della quale è indagata l’idea di un amore mai indirizzato a quello che è il suo apparente oggetto. Cfr. GIRARD, Menzogna romantica e verità romanzesca, p. 44; Denis de ROUGEMONT, L’amore e l’Occidente (1939), Milano, Rizzoli, 1977. 138 René GIRARD, La violence et le sacré, Paris, Grasset, 1972 (trad. it.: La violenza e il sacro, Milano, Adelphi, 1980). 139 Si segnalano: Giacomo RIZZOLATI - Leonardo FOGASSI - Vittorio GALLESE, «Neurophysiological Machanisms Underlyng the Understanding and Imitation of Action», Nature Reviews Neurosciences, 2, 9, 2001, pp. 661-670; Vittorio GALLESE, «The Two Sides of Mimesis, Girard’s Mimetic Theory», Embodied Simulation and Social Identification. Journal of Consciousness Studies, 16, 4, 2009, pp. 21-44. 140 Raffaella TRIGONA, «Il reale dell’immaginario e l’immaginario del reale», in Id. a cura di, Imitazione creativa. Evoluzione e paradossi del desiderio, Bergamo, Moretti e Vitali, 2004, pp. 16-30, p. 17. 141 Ivi, p. 20. 142 Ivi, p. 21. 137 41 appresta all’elaborazione di un sistema giudiziario, rappresenta semmai una «zone grise»143. Chiariscono inoltre che i testi medievali, latori di un’ideologia cristiana, se possono contenere schemi arcaici, possono contemporaneamente operare una loro messa in discussione, concludendo che «une lecture girardienne est pourtant possible, reconnaissant et dévoilant l’écart entre la théorie des structures sociales et la structure littéraire du récit médiéval»144. Annotazione indubbiamente saggia, ma credo vada sottolineato che la teoria antropologica di Girard non offre semplicemente un appoggio nell’analisi delle strutture storiche e sociali eventualmente rappresentate in un testo. Non porrei la questione, cioè, nei termini di un’oscillazione tra la rappresentazione di un contesto sociale arcaico improntato alle dinamiche della violenza e la rappresentazione di un contesto cristiano in cui queste forme arcaiche sono superate. La teoria girardiana offre più complessi strumenti analitici, in quanto, essendo fondata sulle articolate dinamiche del desiderio del soggetto umano, indirizza l’interprete non tanto verso dei contenuti sociali o storici da reperire nei testi, ma piuttosto verso una forma di articolazione testuale, verso il meccanismo di un movimento diegetico, un principio che penetra nella trama della scrittura. I testi letterari si offrono in questo senso come dotati di una funzione cognitiva, essendo capaci di condensare in rappresentazioni più o meno complesse le vicissitudini del desiderio – vicissitudini che sono umane tout court, con un ruolo estremamente rilevante nella definizione del soggetto, e non legate in maniera esclusiva a una fase storica. Non si tratta, cioè, di rintracciare una visione della società medievale improntata alla mimesi e alla violenza, il che vorrebbe sottomettersi al gioco, che direi minimalista ed euristicamente povero, di utilizzare i testi letterari come reperti storici, come riflessi immediati e semplicistici di un mondo dato. La funzione di un principio antropologico nella teoria e nella critica letteraria è quella di interrogare il testo circa il modo in cui si appropria di quel principio, il modo in cui costanti umane universali si annidano in un testo e «lo 143 HECKMANN - LENOIR, «Introduzione», in. Id., Mimétisme violence sacré. Approche anthropologique de la littérature médiévale, p. 2. 144 Ivi, p. 3 42 lavorano»145: in gioco vi è la messa in evidenza, attraverso una prospettiva teoretica, della «dimensione cognitiva ed educativa della produzione artistica»146. Il volume è aperto da un saggio dello stesso Girard, la traduzione francese di un contributo comparso in inglese già nel 1990147, contributo in cui Girard sottopone la sua teoria al testo medievale. Nel saggio si argomenta come la rivalità mimetica, la reputazione cavalleresca e il tentativo di dimostrare di essere il miglior cavaliere siano tratti precipui dei romanzi di Chrétien de Troyes. Non si può fare affidamento su un’autorità esterna che stabilisca chi fregiare del titolo di miglior cavaliere, ma saranno i cavalieri stessi ad ammirare il migliore tra di loro, in un vortice competitivo in cui, come suggerisce la teoria mimetica, il rivale è anche modello e la costruzione identitaria è legata a un rapporto di amore e odio in cui la mimesi opera attraverso ambigui meccanismi di specularità. Girard colloca al centro della sua analisi la scena, nel romanzo di Yvain, del combattimento tra il protagonista e Gauvain, mettendo in luce il principio di rivalità che l’attraversa e come ciascuno dei due cavalieri sia alle prese con un sentimento contrastante di amore e odio verso il proprio rivale-modello: «Chaque chevalier combat dans le but de devenir l’unique objet d’admiration et de désir de tous les autres, et surtout de son adversaire»148. Forse un po’ ingenuamente, Girard suggerisce al lettore come i nomi facciano pensare a una storia di doppio: alla stregua di Romolo e Remo, Yvain e Gauvain incarnerebbero la rivalità mimetica in quello che ha di più distruttore, e «la présence des deux 145 Scrive Marie Scarpa che interrogarsi sui rapporti che la letteratura intrattiene con fatti etnografici e forme della cultura significa «étudier comment [la littérature] se les réapproprie, dans sa logique spécifique, comment elle en est ‘travaillée’ dans son écriture même». Cfr. Marie SCARPA, «Pour une lecture ethnocritique de la littérature», Littérature et sciences humaines, CRTH / Université de Cergy-Pontoise, Paris, Les Belles Lettres, 2001, p. 285-297, p. 286. 146 TRIGONA, «Il reale dell’immaginario e l’immaginario del reale», p. 14. Tra l’altro, porre l’accento sull’elemento della violenza nella visione antropologica di Girard esclude un’altra importante dimensione individuata da questo studioso, particolarmente proficua in campo estetico, ossia quella della mimesi culturale pacifica, un’evoluzione positiva della crisi mimetica. La crisi mimetica, il desiderio continuamente proiettato non verso un oggetto d’amore, ma verso un mediatore cui s’indirizza l’istinto mimetico dell’uomo, può portare, è vero, a una lotta di tutti contro tutti, dove i legami sociali sono minacciati dal caos, dall’indifferenziazione, ma può anche dare vita, positivamente, alle dinamiche della creazione artistica. Si vedano sul punto: René GIRARD, Origine della cultura e fine della storia (2002), Milano, Cortina, 2003; TRIGONA, «Il reale dell’immaginario e l’immaginario del reale», pp. 18-20 e, più in generale, la nota bibliografica alle pp. 25-28; Giuseppe FORNARI, Fra Dioniso e Cristo. La sapienza sacrificale greca e la civiltà occidentale, Bologna, Pitagora, 2001. 147 René GIRARD, «Amour et Haine dans Yvain», in Mimétisme violence sacré, pp. 7-27, traduzione di Nicolas LENOIR del testo inglese: «Love and Hate in Yvain», in Brigitte Cazelles - Charles MÉLA, a cura di, Modernité au Moyen Age. Le défi du passé, Pubblications de la Faculté des lettre de Genève, Genève, Droz, 1990, pp. 249-262. 148 Ivi, p. 21. 43 doubles et leur combat sans fin suggère que ce roman devrait être défini comme une crise mimétique et sacrificielle, suivant un schéma tragique et mythique»149. Ogni altro elemento dell’universo cavalleresco passerebbe in secondo piano, e anche la dimensione sessuale andrebbe ricondotta nell’alveo della competizione mimetica, poiché questa prevede un’implicazione femminile. Il vortice del desiderio mimetico attrae nella propria orbita anche la vedova Laudine, che s’innamora dell’assassino del marito, poiché il titolo di migliore tra i cavalieri esercita su chiunque, uomo o donna, un fascino irresistibile: «la terrible vérité est qu’elle tombe amoureuse non en dépit de ce qu’Yvain a fait à son mari, mais à cause de ce qu’il lui a fait. Elle tombe amoureuse du champion»150. Se ne conclude che Laudine «entre en compétition par procuration»151. Girard non si lascia sfuggire l’occasione per ribadire il suo disappunto verso la teoria freudiana152. Un critico moderno, dice, è pronto a scartare l’aspetto competitivo della reputazione cavalleresca per motivazioni nascoste, come l’inconscio e le motivazioni sessuali, mentre «Chrétien place la chevalerie au sommet et y subordonne chaque chose, y compris le sexe. Dans son univers, la renommée n’est pas un déguisement du sexe; le plus souvent, c’est l’inverse qui est vrai»153. Ben oltre la dimensione sessuale, il testo medievale proporrebbe lo spessore profondo attribuito alla competizione mimetica dalla cavalleria e dalla cultura feudale (benché, chiarisce Girard, non si tratti di cadere nell’interpretazione socio-politica, il che comporterebbe un errore simile a quello della psicoanalisi). La pista suggerita dalla teoria del desiderio mimetico aprirebbe per Girard la prospettiva di un’indistinzione elastica, di un’indifferenziazione di sesso e fama, uomini e donne, interno ed esterno, amore e odio – la prospettiva di una costruzione edificata intorno a una retorica dell’ossimoro, che ogni grande autore lega agli effetti della mimesi. Non è necessario, in questa sede, occuparci della questione della rivalità – e dei diritti di precedenza cronologica – tra la teoria girardiana del desiderio mimetico e quella freudiana 149 Ivi, p. 23. Ivi, p. 14. 151 Ivi, p. 11. 152 Nel saggio si legge in filigrana – ma neanche troppo – la caparbia presa di distanza di Girard dal freudismo. Girard torna a insistere, dopo le critiche a Freud esposte in La violence et le sacré e nelle pagine di Des choses cachées depuis la fondation du monde (del 1978, trad. it.: Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Milano, Adelphi, 1983) dedicate alla «mitologia psicoanalitica», sulla pretesa estraneità della sua teoria del desiderio mimetico alla teoria freudiana, che, pur essendosi avvicinata a quello che lui avrebbe poi descritto, non riesce a cogliere l’idea di desiderio come desiderio triangolare, mediato da un terzo, ma resterebbe vincolata al complesso edipico, in cui il desiderio per l’oggetto materno è intrinseco e primario. E, se Freud parla d’identificazione con il padre, sembrando quindi aprirsi alla mimesi, in realtà non la teorizzerebbe mai come tratto basilare della natura umana, essendo l’identificazione con la figura paterna sempre secondaria rispetto al desiderio oggettuale per la madre. 153 GIRARD, «Amour et Haine dans Yvain», pp. 8-9. 150 44 dell’identificazione154, aspetto su cui il padre della psicoanalisi andava riflettendo già in alcune lettere del 1896155 e che lo porterà a mettere in dubbio il primato della sfera sessuale e del complesso edipico nell’edificazione dell’identità, per concentrarsi invece sul processo di «assimilazione di un Io a un Io estraneo, in conseguenza della quale il primo Io si comporta sotto determinati riguardi come l’altro, lo imita, lo accoglie in certo qual modo in sé»156. I due punti di vista non sono senz’altro oppositivi come pensa Girard e la loro collaborazione risulta fruttuosa in un’analisi letteraria che s’interroghi sulle rappresentazioni del soggetto umano e su come tali rappresentazioni influenzino le modalità diegetiche (o ne siano influenzate). Del resto è noto come la teoria freudiana dell’identificazione sia al centro degli interessi degli studi filosofici, psicoanalitici e teorico-letterari: Il soggetto desiderante non viene per primo, per essere poi seguito da un’identificazione che permetterebbe al desiderio di realizzarsi. uella che viene per prima è una tendenza all’identificazione che dà poi origine a un desiderio157. Mi limito a considerare (rinviando alle argomentazioni di Bottiroli per un’analisi puntuale della questione) che la teoria freudiana dell’identità come identificazione, elaborata nel citato saggio del ’21, offre un panorama più complesso di quello tracciato da Girard e uno strumento di analisi più duttile e ricco. Freud non fonda la sua teoria sulla centralità dell’imitazione, che implica a suo modo un atto di rigidità, ma considera più sottili meccanismi d’introiezione. Freud distingue, con l’introduzione dei luoghi della psiche, tra un’introiezione che investe l’Io da una che investe l’ideale dell’Io, distingue cioè un’imitazione meccanica, che presuppone un’introiezione dell’oggetto di desiderio o del modello di desiderio nella zona dell’Io, da un processo più mediato, che lavora elasticamente a una metamorfosi della personalità, processo 154 Sul punto, si rimanda a Giovanni BOTTIROLI, «Identità/ identificazione. Una mappa dei problemi a partire da Freud», in Id., Jacques Lacan, Arte linguaggio desiderio, pp. 205-255. Scrive Bottiroli: «Dunque la mimesis girardiana è identificazione, assai più che imitazione. E se vi sono differenze tra Girard e Freud, forse queste differenze non riguardano il carattere archetipico o generalizzato del modello triangolare, bensì la tipologia dell’identificazione» (ivi, p. 216). 155 Cfr. Sigmund FREUD, Lettere a Fliess (1887-1904), Torino, Boringhieri, 1986. 156 Sigmund FREUD, «Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni)», in Id., Opere, vol. 11, pp. 121284, p. 175. Così continua Freud in questo passo della lezione 31 (dedicata alla Scomposizione della personalità psichica): «Non inopportunamente l’identificazione è estata paragonata all’incorporazione orale, cannibalesca della persona estranea. L’identificazione è una forma molto importante di legame con un’altra persona, verosimilmente la più primitiva, e non è la stessa cosa di una scelta oggettuale. La differenza può essere espressa all’incirca così: se il fanciullo si identifica con il padre, egli vuole essere come il padre; se lo fa oggetto della sua scelta, lo vuole avere, possedere; nel primo caso il suo Io viene modificato secondo il modello del padre, nel secondo caso ciò non è necessario. Identificazione e scelta oggettuale sono in larga misura indipendenti; ci si può tuttavia identificare anche con una persona che, ad esempio, è stata assunta come oggetto sessuale, e modificare secondo essa il proprio Io». 157 Mikkel BORCH-JAKOBSEN, The Freudian Subject, Standford, Standford University Press, 1988, p. 47. Il passo è citato, tradotto e commentato in Jonathan CULLER, «Identità, identificazione e soggetto», in Id., Teoria della letteratura. Una breve introduzione, Roma, Armando Editore, 1999, pp. 125-135, pp. 130-131. 45 in cui il modello altera la zona dell’ideale dell’Io, zona depositaria di una propensione all’auto-osservazione, di un’istanza critica nei confronti dell’Io. Ancora, un altro elemento che mi sembra rilevante nel saggio di Freud sta nella possibilità di un’identificazione «parziale, assai circoscritta, che si appropria soltanto di un aspetto della persona che è oggetto d’identificazione»158. L’attenzione è, così, concentrata su un tratto identitario, su un’unica caratteristica che agli occhi del soggetto desiderante assume uno spessore pronunciato, diventando oggetto d’introiezione. Trovo questo dettaglio piuttosto rilevante qualora si utilizzi la teoria freudiana nell’analisi letteraria, perché potrebbe portare a una rivalutazione del concetto di tipo, del personaggio latore di un esclusivo tratto umano (si veda il precedente richiamo a Jauss): non sarebbe riduttivo e segno di mancanza di acume psicologico l’esasperazione, in un personaggio, di una qualità, poiché anche il meccanismo fondante dell’identità umana, l’identificazione, è basato sulla centralità di un tratto identitario, tratto intravisto nell’altro e che agli occhi del soggetto desiderante si amplifica spropositatamente. Il quadro tracciato da Freud è, insomma, più complesso di quello di Girard e, ritornando per esempio al rapporto tra Yvain e Gauvain, evita con agevolezza d’inciampare in un discorso in cui tutto è doppio di tutto, tracciando invece dinamiche relazionali di maggiore spessore analitico, che risaltano la complessità della metamorfosi di una personalità anziché concentrarsi sull’idea di una similarità immediatamente data. uello di Girard, lo si è visto, sembra più un discorso sugli estremi, sulle dicotomie – l’amore e l’odio, un cavaliere A contro un cavaliere B – che si capovolge in un discorso che annulla le differenze: A è doppio di B. Più fluida sembra invece la prospettiva freudiana, attenta più ai processi che alla cristallizzazione di un dato, e quindi più proficua nell’analisi critico-letteraria, essendo in grado di incunearsi, con le fitte dinamiche relazionali che contempla, nella rete della scrittura. Un recente contributo di Damien de Carné mostra bene – senza citare Girard né tantomeno Freud – che la mimesi e la costruzione identitaria attraverso un modello forniscono uno schema esplicativo del testo medievale. Lo studioso fa notare come l’idea di complessità del personaggio, di una sua articolata mobilità all’interno del romanzo, non sia per nulla un prodotto della letteratura moderna, ma sia rinvenibile negli esordi del romanzo europeo: L’identité du personnage est dès lors volatile. Un des facteurs qui conditionnent son évolution au fil de l’action, qui organisent son mouvement en lui donnant une direction, est la présence éventuelle, dans le récit, de modèles ou de contre-modèles 158 FREUD, «Psicologia delle masse e analisi dell’Io», p. 295. 46 proposés au personnage et auxquels ce dernier tente, accepte, refuse ou évite à tout prix de se conformer. Il arrive donc que la conquête par le héros de sa place dans le monde prenne la forme d’un affrontement non avec un monstre ou un typique «méchant», mais avec un modèle, qui est aussi un rival (parfois très positivement connoté), et que cette confrontation avec une sorte de double du héros soit un élément majeur de la fondation par ce dernier de son identité héroïque159. Il racconto, in Erec et Enide di Chrétien de Troyes, del tentativo del conte di Limors di sostituirsi a Erec, proponendo alla presunta vedova Enide di sposarlo; la presenza, nel romanzo di Thomas, di Tristano il Nano, la cui sensibilità ai dettami dell’amore lo rende «plus tristanien que Tristan»160; il Lancelot en prose che presenta un protagonista che «prend simultanément la place du roi auprès de la reine et sur le champ de bataille»161: sarebbero tutte spie di una «construction concurrentielle» del personaggio nel romanzo medievale. La concorrenza rappresenterebbe «le rapport entretenu entre un personnage et un rival qui lui renvoie une image de lui-même à laquelle il faut se confronter», rapporto che «peut s’avérer un important facteur de caractérisation, de définition identitaire du personnage considéré»162. Il personaggio protagonista si ritroverebbe alle prese con un rivale-modello che contribuisce, per antitesi o analogia, a edificare la sua fisionomia identitaria, per poi essere eliminato dal racconto, che non sopporterebbe una proliferazione di doppi. Tristan l’Amerus163, nel racconto di Thomas, sembra vedere usurpata la sua fisionomia di amante perfetto da Tristan le Nain, ma, una volta che il protagonista si è lasciato convincere dal suo rivale-modello a intervenire contro Estout («double monstrueux de Marc»164), ossia rimpossessatosi della sua posizione di nobile cavaliere pronto a tutto in nome dell’amore, il modello, ucciso, scompare dal racconto. Mi sembra evidente che questo principio della concorrenza, che mostrerebbe come il romanzo sia stato sin dalle origini attento alle «variations de l’identité, à sa perpétuelle mobilité, aux questionnements de l’individualité»165, e a come l’identità sia costruita attraverso l’alterità, rivela consonanze indiscutibili con le teorie di Freud e Girard. Se de Carné, riconoscendo che a un’analisi della costruzione concorrenziale del personaggio nel Lancelot en prose si era pensato prima di lui, chiarisce che «on voit ici combien le concept de 159 Damien DE CARNE, «Construction concurrentielle du personnage romanesque. Trois exemples tirés du roman médiéval», in CONNOCHIE-BOURGNE, Façonner son personnage au Moyen Age, pp. 87-97, p. 87. 160 Ivi, p. 93. 161 Ivi, p. 95. 162 Ivi, p. 95. 163 De Carné fa notare come l’emersione di un doppio richieda un’ulteriore specificazione dell’identità di Tristano, che diventa Tristan l’Amerus contrapposto a Tristan le Nain (ivi, p. 93). 164 Ivi, p. 94. 165 Ivi, p. 96. 47 concurrence ne fait que modéliser des phénomènes déjà ressentis et déjà exprimés par la critique», noi potremmo dire in ugual modo che anche a una modellizzazione, magari più complessa, si era già pensato166. La costruzione identitaria del personaggio è, dunque, affidata a un surplus, a un’appendice esterna, a un supplemento necessario all’edificazione di una personalità percepita come completa, inserita adeguatamente nel tessuto diegetico (e rispondente all’orizzonte d’attesa, si potrebbe anche dire). Il concetto di concorrenza, come quello d’imitazione, sfocia – lo si è visto sia con l’analisi di Girard che con quella di de Carné – in un discorso di doppi. Yvain e Gauvain rinunciano al principio d’identità, in un gioco di sdoppiamento che coinvolge i due avversari; il conte di Limors vuole sostituirsi a Erec; Tristano il Nano sembra sostituirsi per un attimo al protagonista del romanzo di Thomas. Il rischio è cioè quello di riproporre, in una relazione strettamente dicotomica, un principio poco elastico, che, semplicemente, sostituisca all’equazione A=A quella A=B, che è pur sempre una sovrapposizione rigida. A ben vedere, i testi citati non si limitano a esporre una relazione dicotomica, un gioco a due che si ripiega su se stesso. Se tra Yvain e Gauvain s’instaura un processo di reciproci richiami identitari, è perché ciascuno dei due vede nel rivale (come lo vede il lettore) la concretizzazione di un modello astratto, quello del prode cavaliere. Se tra Tristan l’Amerus e Tristan le Nain le identità si confondono fino a spingerci a parlare di doppio, è perché scatta una «concorrenza» in vista di un modello esterno e condiviso, quello dell’innamorato pronto a tutto in nome dell’amore, che ciascuno dei due personaggi crede di vedere incarnarsi nell’altro. Riprendendo la nota terminologia di Mensonge romantique et vérité romanesque, si direbbe che il diaframma tra mediatore esterno e mediatore interno va sfumandosi, ammorbidendosi. Non c’è esclusivamente, come per don Chiscotte o Emma Bovary, una distanza estrema rispetto a un modello o, come per Trusockij e Vel’caninov in Il marito ideale di Dostoevskij, una distanza minima rispetto al mediatore-rivale. I due piani si offrono simultaneamente nel testo, poiché il personaggio rivale si presenta come sdoppiato tra il segno della trascendenza di un modello astratto e l’immanenza del sistema sintagmatico dei personaggi. 166 Resta tuttavia innegabile il merito del contributo, che ha il valore di una conferma, almeno per il percorso da me intrapreso in questo lavoro, nel mostrare il funzionamento di tale modellizzazione in alcuni esempi tratti da romanzi medievali. Inoltre, mi sembra ammirevole il tentativo di de Carné di rompere la barriera, ancora tenacemente presente nella critica, tra romanzo medievale e romanzo moderno, quel suo considerare come tipicamente romanzesca, senza precisazioni cronologiche, la problematizzazione dell’identità. 48 Sulle relazioni sintagmatiche tra i personaggi si concentra Bottiroli, il quale, appoggiandosi alla teoria freudiana dell’identificazione, argomenta che «l’identità di un personaggio è legata al sistema dei personaggi di un determinato testo»167. Spostando l’asse del discorso sul testo medievale, Bonafin fa notare: Definire l’identità del personaggio a partire dal sistema di relazioni che lo lega agli altri personaggi di un’opera, dalla dinamica delle identificazioni possibili, presuppone una unicità, un’individualità, una soggettività che è senz’altro appropriata nel contesto letterario moderno e che si manifesta – o si aggrappa – al nome proprio, ma porta forse a trascurare l’aria di famiglia che spesso un personaggio ha con altri suoi simili presenti in altri testi: una relazione verticale o paradigmatica con personaggi di altre opere, epoche, lingue e culture, con i quali condivide caratteristiche che lo rendono subito riconoscibile dal lettore, in quanto, in un certo senso, replica di un tipo già noto e codificato nella sua enciclopedia168. Bonafin annota che, nell’analisi del personaggio medievale, per il quale tanto determinante risulta l’apporto della memoria culturale, «aumenta il rendimento di un confronto condotto non tanto sull’asse sintagmatico delle relazioni con gli altri personaggi all’interno di uno stesso testo, quanto sull’asse paradigmatico che unisce le diverse attualizzazioni di uno stesso eroe (Tristano, Orlando, Lancillotto, ecc.) nei testi che narrano le sue avventure, ma altresì che unisce su un piano ulteriore personaggi differenti che partecipano di tratti (attributi, modi d’essere) comuni»169. È oltremodo legittima la priorità di una valorizzazione dell’asse paradigmatico del personaggio medievale, della sua mobilità rispetto a un archetipo, a una figura della memoria culturale, a una sorta di condensatore antropologico, ma mi sembra che i pochi esempi fin qui citati mostrino bene quale rapporto di complementarità s’instauri tra la prospettiva paradigmatica e quella sintagmatica. La costruzione identitaria è affidata – anche nel testo medievale e non solo in quello moderno – a una relazione con l’altro, a un processo di continuo rinvio a un essere che non si è, a un’estetica dell’assenza, dell’avvicinamento, della catena sempre aperta. Il discorso vale palesemente per l’asse paradigmatico, per la memoria culturale del personaggio che, nel grande intertesto in cui si muove la letteratura medievale, rimanda sempre a una figura già nota, che proviene da altri testi, altre leggende, altre storie, in un groviglio tale da rendere impossibile, sostiene Saussure, dire sia che un personaggio coincida con se stesso sia che coincida con un altro. Ma il discorso coinvolge anche, sul piano sintagmatico, le dinamiche 167 Giovanni BOTTIROLI, «Differenze di famiglia», in Id., a cura di, Problemi del personaggio, Bergamo, Bergamo University Press, Sestante Edizioni, 2001, pp. 11-46, p. 15. 168 BONAFIN, «Prove di un’antropologia del personaggio», p. 4. 169 Ivi, p. 9. 49 interne al testo, che sembra avere come polo privilegiato la costruzione di uno statuto identitario fatto di richiami, analogie, dissonanze, contrasti, capovolgimenti che danno al lettore l’impressione della creazione di un profilo umano attraverso raddoppiamenti e sdoppiamenti, con un senso di ridondanza, di ritorno di tratti identitari noti: l’identità è identificazione. Le due prospettive s’incontrano in una simultaneità, e Yvain e Gauvain contribuiscono reciprocamente al processo della loro costruzione identitaria in quanto concretizzazioni immediatamente fruibili di un modello condiviso dal personaggio, dall’autore, dal lettoreuditore. Il testo propone un duplice piano di articolazione identitaria e, se il personaggio si propone, nella sua immanenza, come possibile modello per un personaggio contiguo, questa sua disponibilità è legata al fatto di essere attraversato dalla trascendenza di un archetipo che si riverbera nel gioco delle identificazioni sul piano sintagmatico. L’asse paradigmatico collassa su quello sintagmatico, e il richiamo a un modello esterno, modello della cultura, schema, archetipo, diventa, quasi immediatamente, una questione di rivalità rispetto a un modello-rivale interno. Se la teoria girardiana ci dice che il desiderio non è mai desiderio di avere un oggetto, ma è sempre desiderio di essere come un modello, il testo medievale mostra, in una forma spesso tacciata d’ingenuità, come questo modello sia di non unilaterale definizione. È così immediato, nel rapporto di amore e odio che Girard rintraccia nel romanzo di Chrétien, tracciare il confine tra il desiderio di Gauvain di essere Yvain e il desiderio di Gauvain di essere il miglior cavaliere? Benché Freud non parli di modelli archetipici o di figure della memoria culturale, mi pare che un passo di Psicologia delle masse e analisi dell’io definisca l’insormontabilità di quest’ambiguità: In talune forme di scelta amorosa salta addirittura agli occhi che l’oggetto serve a sostituire un proprio, non raggiunto ideale dell’Io. L’oggetto viene amato a causa delle perfezioni cui abbiamo mirato per il nostro Io e che ora, per questa via indiretta, desideriamo procurarci per soddisfare il nostro narcisimo170. È dal sentimento pungente di un’impossibilità che scatta l’identificazione. ual è il confine tra il rapporto a due con un altro individuo che ci attrae e il dialogo solipsistico di noi stessi con quell’inattingibile Io che vorremo essere? Dov’è il confine tra la concretezza di un modello a noi contiguo e la rappresentazione di cui questo si fa carico rispetto a un archetipo, un’immagine fantasmatica insita in noi? Dov’è cioè il confine tra un volere essere qualcuno e 170 FREUD, «Psicologia delle masse e analisi dell’Io», p. 300. 50 un voler essere qualcosa di codificato dall’immaginario e dalla cultura in cui siamo immersi? Come la letteratura si preoccupa di gestire tale confine? L’esempio di Yvain e Gauvain mostra bene che, se è vero che dietro un oggetto di desiderio c’è un modello di desiderio, è vero anche che dietro il modello c’è un altro modello. Un modello poco concreto, meno vicino, più ideale e inattingibile: mediatore interno e mediatore esterno sarebbero così categorie meno rigide di quanto sostenga Girard. Il personaggio funziona sia nell’immanenza delle relazioni sintagmatiche, secondo un meccanismo che potremo chiamare, secondo le preferenze, mimesi, concorrenza, identificazione, ma funziona anche come latore di schemi culturali, di maschere della cultura e dell’immaginario che attraversano il testo. Mai veramente individualizzato ma mai veramente puro schema, Yvain è un modello interno in quanto incarnazione di un modello esterno, che prolifica, irradia possibilità di identificazione per gli altri personaggi, su cui si riverbera come uno specchio frantumato, come una sorta di iper-personaggio che si dissemina nelle sue possibilità di significazione, mai immediatamente latore di un contenuto identitario, ma significante sempre aperto. In un approccio al testo che non tenga conto di compromissioni antropologiche e psicoanalitiche, ma che si accontenti di afferrare ciò che è immediatamente afferrabile, l’effetto è, sì, un pullulare di doppi, secondo un gusto per l’analogia, per l’antitesi, per la ripetizione, per i binarismi cari alla cultura medievale. Nell’elementarità di queste forme, il testo scopre, però, alcuni meccanismi chiave del comportamento umano, incarnandoli nella scrittura. La sintassi dei richiami speculari si configura così come una rete entro cui l’azione del testo ridisegna continuamente i confini identitari, in uno sconfinamento costante dell’identità. 8. Un condensatore relazionale e anaforico La costruzione dell’identità del personaggio seconda un’ottica relazionale è stata spesso rilevata dalla critica negli studi di medievistica, nonostante le analisi sembrino sempre attente più a un’elucidazione del singolo testo che alla formulazione di una teoria di ampio respiro. Per esempio, Jean Batany ha analizzato le dinamiche di confronto e conformità rispetto a un modello nei personaggi del Tristan di Béroul, in un’analisi che, pur non contemplando la preoccupazione di una sistematizzazione di ordine teoretico, propone dei risultati che mi sono 51 sembrati rilevanti per il discorso qui proposto. Partendo dalle tracce dell’utilizzazione di ‘con’ e ‘com’ nel testo, Batany arriva a mostrare come il personaggio inglobi un modello, si confronti con l’altro e vi si conformi, senza però creare dicotomie, secondo una dinamica confusiva tra soggetto e modello, i cui confini risultano poco netti: La véritable dissociation entre le modèle présupposé et le sujet (ou sa conduite) posé par le locuteur est rarement prise à son compte par le narrateur. Tous les exemples de comparaison proprement dite où com est suivi d’un groupe nominal sont mis dans la bouche des personnages, qui assument une sorte de masque ou en prêtent un à un autre sujet171. Ai versi 2663-4, annota Batany tra i vari esempi di funzionamento dell’avverbio e congiunzione ‘come’, l’eremita Ogrin, letta l’epistola in cui Marco dichiara di voler perdonare Isotta e di essere pronto ad accoglierla a corte, dice: «Ja parlera si com il doit / et con li roi qui a Dieu croit» (Ora sta per parlare così come egli deve e come il re, che crede in Dio). Nel gioco di com-con, si crea una rete di relazioni tra l’eremita, il re Marco, che rappresenterebbe un modello contiguo per Ogrin, il quale ammira la sua franchise (v. 2662, nobiltà), e l’uomo che ha fede in Dio, modello astratto incarnato da Marco, senza che tra i tre si possa individuare, nell’estrema sintesi operata dal ritmo del verso, una delimitazione dei soggetti. Nel rapportarsi all’altro, il personaggio non arriva a coincidere con il proprio modello, ma ne esce ridefinito, semanticamente riconfigurato, secondo una logica di conformità e oltrepassamento: Les acteurs de l’histoire que nous raconte Béroul (personnages surtout, mais parfois objets, lieux ou situations) sont confrontés à des modèles présupposés qui tendent presque toujours à les inclure, et par rapport auxquels on leur impose (ou ils s’imposent eux-mêmes) de se situer dans deux relations typiques, la conformité et le dépassement172. Virginie Greene, nel volume citato sopra, e, in particolare, nella parte dedicata al soggetto nel racconto medievale173, parla di «subjectivité désiderante et mortelle»174, di desiderio sempre mediato da un terzo (citando Lacan175 e non Girard, ma la prospettiva è la stessa). La studiosa, nella sua analisi del romanzo La Mort Artu, fa emergere quel rinvio continuo all’alterità 171 Jean BATANY, «Imagination et modèles. Comparaison et conformité dans le Tristan de Béroul», in Danielle BUSCHINGER - Wolfgang SPIEWOK, Tristan et Yseut. Un thème éternel dans la culture mondiale, Reineke-Verlag, Greifswald, 1996, pp. 1-11, p. 7. 172 Ivi, p. 10. 173 GREENE, Le sujet et la mort dans La mort Artu, pp. 160 ss. 174 Ivi, p.160. 175 Greene fa riferimento al Seminario I: capitolo 13, «La bascule du désir», e capitolo 14, «Les fluctuations de la libido». Cfr. LACAN, Gli scritti tecnici di Freud (1953-54). 52 secondo cui il soggetto amministra il proprio potenziale semantico: Lancillotto desidera Ginevra, che è la donna di Artù, Gauvain è in rapporto d’imitazione e rivalità con Lancillotto, Artù sembra che desideri annientare il desiderio degli altri di succedergli e indirizzarlo per altre vie al fine di conservare il suo potere. Ancora, il libro dedicato da Bénédicte Milland-Bove al personaggio della demoiselle nei romanzi medievali in prosa s’interseca con il nostro discorso per una ragione duplice. Milland-Bove, benché non sia questo il fulcro della sua trattazione, più attenta a un’analisi narratologica, rileva come già il romanzo medievale metta in discussione le categorie cartesiane della rappresentazione dell’io, facendo crollare le opposizioni interiorità-esteriorità, io-altro, coerenza-incoerenza e proponendo l’idea di un soggetto da intendersi, alla maniera moderna (o, rettificherei, che noi consideriamo moderna), come processo176. Inoltre, la studiosa insegue il legame stretto che si traccia tra personaggio e architettura del racconto. Le demoiselles realizzerebbero «la démultiplication des personnages et la diffraction de leurs traits principaux, dans un immense jeu de miroirs où les reflets sont tantôt reproductions fidèles, tantôt copies en modèles réduit, tantôt miroirs déformants»177. Con questo gioco di echi e di riflessi, con questo «décentrement des personnages»178, il testo rompe l’univocità del discorso per proporre un’esplosione di senso tramite la ripetizione, per analogia o per antitesi, di tratti noti: «dans l’art médiéval la nouveauté nait de la répétition»179. Tale sistema di ripetizioni in cui si articola l’identità evanescente del personaggio diventa un tutt’uno con la prassi diegetica, con la poetica del romanzo, in quanto «se conçoit avant tout comme un système rhétorique», per cui le demoiselles «renvoient, par métonymie, métaphore ou antithèse, à d’autres personnages»180. Le demoiselles rivelano dunque un «lien étroit avec le mode d’énonciation global de l’œuvre» e il sistema di relazioni identitarie che si dirama intorno a esse coincide con un sistema di avviluppamento della scrittura. Sia nell’argomentazione di Batany che in quella di Milland-Bove emerge, benché non si parli né d’identificazione né di mimesi, la nebulosità in cui si realizza l’identità romanzesca, la diffrazione a cui il soggetto è sottoposto. È nella dinamica dei richiami, dei riflessi, dei raddoppiamenti, sdoppiamenti, echi che, paradossalmente, il testo cerca di ritagliare per il 176 MILLAND-BOVE, La Demoiselle arthurienne. Ecriture du personnage et art du récit dans les romans en prose du XIIIe siecle, p. 20. 177 Ivi, p. 618. 178 Ivi, p. 624. 179 Ivi, p. 624. 180 Ivi, p. 385. 53 personaggio un’identità, instabile ed evanescente. Inoltre, le tesi di Milland-Bove ci offrono uno spunto di riflessione sulla doppia faccia della ripetizione, la cui valenza si divide tra semiologia e antropologia, tra esigenze della narratività e discorso identitario. Che la ripetizione sia un irrinunciabile meccanismo messo in atto dal testo per creare un personaggio, il quale possa essere individuato dal lettore come un’entità coerentemente data, era già notato da Philippe Hamon nel suo Per uno statuto semiologico del personaggio: Ma il significato del personaggio, o il suo ‘valore’, per riprendere un termine suassuriano, non si costituisce unicamente per ripetizione (ricorrenza di contrassegni, di sostituti, di ritratti, di temi conduttori) o per accumulazione e trasformazione (da un meno determinato ad un più determinato), ma anche per opposizione, per relazione con gli altri personaggi dell’enunciato181. Così come «ogni 182 grammaticali» enunciato è caratterizzato dalla ridondanza dei contrassegni , allo stesso modo il personaggio, nell’evolversi del racconto, costituirà un luogo in cui si fissa la ridondanza necessaria alla comprensibilità del racconto stesso. Diremo quindi che nella ripetizione si dipana il senso (più che il significato, come suggerisce Hamon). Quando Vincent Jouve183 riprenderà i risultati delle ricerche di Hamon per trasferire lo studio del personaggio dall’alveo semiologico a un ambito antropologico e psicoanalitico, il concetto di ritorno anaforico acquisterà, com’è prevedibile, tutt’altra connotazione. La ripetizione è, in via prioritaria, fondamentale per creare l’effet personnage, l’illusione referenziale: attraverso la ripetizione, il testo si assicura la coesione e la leggibilità dei personaggi, offrendo al lettore l’impressione di una logica narrativa «fondée sur la dissémination du signifiant-personnage dans l’ensemble du récit»184 (l’esempio proposto da Jouve è quello di Yvain e del leone che lo accompagna, segno di una disseminazione nel racconto delle qualità intrinseche del personaggio, della leggibilità di un modello antropologico). Fin qui la questione riguarda le necessità della diegesi, che cerca di rendersi trasparente creando fenomeni di coerenza. Ma Jouve, in seguito, spostando il discorso dal versante della 181 HAMON, «Per uno statuto semiologico del personaggio», p. 97. Ivi, p. 123. 183 Vincent JOUVE, L’effet personnage dans le roman (1998), Paris, Puf, 2001. La prospettiva di Jouve, imperniata sul personaggio come prodotto del lettore, come luogo di un investimento psichico da parte del lettore, è lontana da quella qui proposta, più legata alle dinamiche interne alla testualità (per quanto non mancheranno inevitabili riferimenti al versate della ricezione). Ciononostante, trovo che alcune indicazioni di Jouve sui processi d’identificazione tra lettore e personaggio siano perfettamente sovrapponibili al tipo d’identificazione qui proposta, ossia quella tra personaggi dello stesso testo e tra personaggi e modelli antropologici. 184 Ivi, p. 115. 182 54 semiotica della narratività a quello delle compromissioni psicoanalitiche che intervengono nella ricezione del testo, illustra il ruolo della ripetizione nell’identificazione del lettore con il personaggio. L’identificazione, che per Jouve è, sulla scia di Freud, il «fondement de la constitution imaginaire du sujet et le modèle des processus ultérieures grâce auxquels il continue de se différencier»185, sarebbe una questione di ripetizione per differenza, e l’interesse per i personaggi letterari non nascerebbe, come si sarebbe più propensi a credere, dal fatto di ritrovare in essi qualcosa di noi stessi, ma dalla scoperta «de l’autre qui est en soi»: La répétition selon le même. A travers la personnage-prétexte, le lecteur revit certaines scènes prohibées. Cette repetitio, cependant, ne se fait pas toujours selon l’identique. Le retour du refoulé dans la lecture est une formation de compromis. […] Il ne s’agit plus de revivre servilement une scène identique, mais de se réinvestir différemment dans une même scène. Il y a, dans la lecture, des effets en retour, qui affectent l’identité du sujet»186. Il riferimento di Jouve è al saggio freudiano Al di là del principio di piacere187, in cui il bambino alle prese con il gioco del rocchetto ricostruisce ridefinendolo, attraverso una ripetizione che gliene permette il controllo, l’evento traumatico dell’abbandono da parte della madre: allo stesso modo, nell’identificazione con il personaggio, il lettore ripete riconfigurando quanto rintraccia nel testo, alla luce del proprio vissuto, in una ridefinizione semantica dei confini tra io e altro. Il discorso di Jouve si sposta quindi da una prospettiva di semiotica della narratività, secondo la quale la ripetizione e la ridondanza, interne al testo, si configurano come strumenti di trasparenza nella comunicazione, a una prospettiva psicoanalitica e pragmatica per cui la ripetizione sarebbe un processo basilare nell’identificazione del lettore con il personaggio. Credo però che, stando a quanto finora detto, dovrebbe essere abbastanza palese l’esistenza di uno stadio intermedio tra le due prospettive, ossia la ripetizione come spia delle identificazioni tra i personaggi. L’impianto teoretico di Jouve relativo alla riconfigurazione di un vissuto da parte del lettore è rinvenibile negli stessi termini sul piano, stavolta interno al testo, delle relazioni sintagmatiche tra i personaggi. Come il lettore si appropria dell’istanza di significazione del testo riconducendo il mondo in esso rappresentato al proprio mondo, secondo una visione 185 Ivi, p. 235. Ivi, pp. 236-237. 187 Sigmund FREUD, «Al di là del principio di piacere», in Id., Opere, vol. 9, pp. 193-249. 186 55 pragmatica che vuole il testo come oggetto aperto, sempre sottoposto all’attualizzazione della lettura, allo stesso modo, all’interno del testo, è possibile seguire un meccanismo simile, una simile continua produttività del senso, per cui, posto uno statuto identitario, esso si ridisegna incessantemente nel rimbalzo tra personaggio e personaggio, personaggio e modello, in un gioco di riflessi, per analogia o opposizione, che rende oltremodo dinamica l’idea di soggetto che l’evento letterario evoca. Ecco che la disseminazione del personaggio significante è qualcosa di più di un’esigenza legata alla leggibilità del testo, alla sua trasparenza, poiché rappresenta un luogo d’incontro tra le regole della diegesi e quelle della costruzione identitaria, la quale fluttua insieme al movimento della scrittura. Sembrerà che ci siamo notevolmente allontanati dal punto di partenza, da quel Saussure che si preoccupava di identificare Sigfrido con Sigismondo, da un Saussure attento alla riconoscibilità dell’identità di un personaggio nel percorso diacronico della leggenda. Saussure, in quella che si presentava all’inizio come una ricerca delle fonti storiche delle leggende germaniche, ha raggiunto un livello di astrazione teoretica tale da tracciare timidi frammenti di una teoria del soggetto come ineluttabilmente attraversato dall’alterità, condannato al dissolvimento costante nelle miriadi di relazioni che lo legano all’altro. Saussure ha dipinto il personaggio della leggenda e del mito come un ente mai compiuto, mai dato, significante sempre aperto che circola in una continua elaborazione del senso, senza mai chiudersi in un significato, se non momentaneamente e illusoriamente, sul piano della ricezione, in cui urge, in nome dell’intellegibilità, la forzatura di una significazione univoca. La teoria freudiana dell’identità come identificazione, atto primo della costruzione della personalità umana, sposta il discorso diacronico di Saussure sul piano orizzontale delle relazioni, in una visione in cui l’identità si costituisce nella frantumazione dell’individuo, nel gioco di proiezioni e introiezioni rispetto all’altro. Non si vorrà sostenere che Saussure e Freud lavorassero, grossomodo negli stessi anni, e senza mai essersi incontrati, a una stessa decostruzione del soggetto, ma solo rilevare la complementarità delle due posizioni e la proficuità di una loro messa in prospettiva: l’idea di un io centrato e forte, l’idea di un io come oggetto definibile è sostituita dall’idea d’identità come processo, che si dipana sia nell’attraversamento diacronico che nell’esplosione sincronica dei riflessi che l’io riceve dall’altro. La teoria del desiderio mimetico di Girard fornisce un ponte verso un’utilizzazione critico-letteraria di queste prospettive: il personaggio, mai dato come oggetto definito e 56 definibile, si rinfrange nel gioco delle identificazioni – o, in maniera meno euristicamente densa, delle imitazioni – rispetto ad altri personaggi rintracciabili in praesentia o rispetto a modelli dati in absentia. Esso di disarticola instabilmente in una fitta trama di richiami, echi, riflessi interni ed esterni al testo, giacché l’identità individuale, se rimanda costantemente a un’altra identità individuale a essa contigua, rimanda spesso anche a un prototipo d’identità, uno schema, una figura astratta dell’immaginario che trova nel testo un’applicazione letteraria. Osservazione questa particolarmente valida per il testo medievale, che sembra suggerire l’impossibilità di tenere separate queste due prospettive, poiché in esso il gioco delle identificazioni coinvolge, contemporaneamente e con confini molto sfumati, la presenza e l’assenza, i personaggi contigui e il modello archetipico che trascende i singoli personaggi, rendendo sterile la contrapposizione girardiana tra mediatore esterno e mediatore interno, ma proponendo, invece, quello che abbiamo definito un collasso dell’asse paradigmatico su quello sintagmatico. Gli strumenti teorici fin qui presentati andranno ora verificati sui testi della tradizione tristaniana; ma, prima di addentrarci nell’analisi, è doverosa una parentesi, che occuperà il secondo capitolo. È evidente come la prospettiva saussuriana sia stata in questo capitolo sottoposta a un’elaborazione che ha colto alcuni spunti per spingersi oltre le intenzioni di Saussure, ma a lui va indubbiamente riconosciuto il merito di aver intrapreso un percorso che anticipa acquisizioni teoretiche che si faranno strada diversi decenni dopo di lui. Saussure non è riuscito, però, a fronteggiare l’abisso che si era aperto tra la novità dell’impianto da lui abbozzato e quello che era il suo punto di partenza, una ricerca in termini di fonti: da un lato l’elasticità di una logica fluida, dall’altro una sovrapposizione razionalistica e rigida. Nei suoi appunti dedicati alla leggenda tristaniana, si ostinerà a seguire la traccia di un’identificazione del personaggio di Tristano con quello di Teseo, per poi riconoscere che «plus on étudiera la chose, plus on verra que la question n’est même pas de savoir où réside plutôt qu’ailleurs l’identité, mais s’il y a un sens quelconque à en parler»188, ammissione di un fallimento che lo farà desistere dalla pubblicazione delle Note. A questo Tristano di Ferdinand De Saussure dedicheremo ora qualche riflessione. 188 Note, ed. Marinetti-Meli, p. 312. 57 II Il Tristano di Ferdinand De Saussure: dalla fonte all’immagine sfocata 1. Non si tratta che di saltare da un letto all’altro senza toccare la farina Il commento che Ferdinand De Saussure riserva al corpus dei testi medievali che ci hanno tramandato la leggenda di Tristano e Isotta non si distingue di certo per i toni ammirati: Si d’un certain coté, qui est celui du philtre d’amour, les choses prennent une grandeur imprévue, que sait utiliser à l’occasion un Thomas ou un Gottfried de Strasbourg, l’ensemble nous laisse impression d’un amour profondément bas et puéril, dans lequel tout le sel des récits résulte des farces ridicules jouées au roi Marc. Une scène quelconque, un mot, une demi-ligne, où Tristan et Isolt élèveraient leurs vues audessus de l’idée de rendez-vous vulgaires, est absente. Ils chantent de lais dans leurs séparation, mais leurs unions ne comportent jamais le moindre scrupule qui donnerait à leur amour une noblesse par le sentiment du crime ou autrement. Le narrateur est tellement en faveur des amants dans toutes les versions qu’il serait tout à fait ridicule de lui demander de prendre les choses au tragique. Et c’est pourquoi je me demande ce qui a créé la super-légende d’une sentimentalité de [ ] Il s’agit en général de sauter d’un lit à l’autre sans toucher si possible la farine189. Il riferimento è al celebre episodio in cui si racconta della trappola escogitata contro i due amanti dal nano Frocin, che fa seminare della farina tra il letto in cui dorme Tristano e quello di Marco e Isotta, convinto che, in assenza del re, Tristano cercherà di avvicinarsi all’amata, lasciando così le proprie orme sul pavimento. Il giudizio di Saussure, giudizio moraleggiante, si erge da un orizzonte tutto romantico, appare dettato da una visione alta e sublime della natura eroica, dalla quale apparirebbe recriminabile quell’indifferenziazione d’intelligenza e astuzia che contraddistingue l’eroe culturale-trickster del mito190: come scrive Joseph Campbell191, la mitologia non celebra come eroe l’uomo virtuoso, poiché il mito si spinge oltre le dicotomie moraleggianti, oltre i valori comunemente accettati. Saussure, che pure proprio alla traccia del mito nella leggenda tristaniana dedica la sua analisi, sentenzia invece che avrebbe gradito una parola di uno dei due protagonisti su quanto biasimevole sia la loro 189 Note, 3959.11, ed. Marinetti-Meli, p. 313. Si veda Eleazar M. MELETINSKIJ, Il mito. Poetica folclore ripresa novecentesca, Roma, Editori Riuniti, 1993, pp. 196-197. 191 Si veda Joseph CAMPBELL, L’eroe dai mille volti (1949), Parma, Guanda, 2000, p. 46. 190 situazione in rapporto a Marco, zio, padre adottivo, benefattore di Tristano, parola che non si trova, disapprova lo studioso, neanche nelle versioni più raffinate di Thomas e Goffredo di Strasburgo192. Al contrario, nessuno dei testi si preoccuperebbe del re di Cornovaglia, «qui joue tout au plus chez eux le rôle d’un personnage indifférent quand il n’est pas odieux»193. Il lato tragico e interessante della storia starebbe secondo Saussure, il cui punto di riferimento è evidentemente la riscrittura di Wagner, nella «fatalité de cet amour illégitime et contraire à certains sentiments»194, nel filtro che lega Tristano di un amore invincibile alla sposa dello zio. L’assenza del senso di colpa dovuto a questo legame dal potere indomabile, la non esasperazione di un dissidio interiorizzato tra legge morale e impeto del desiderio è ciò che della leggenda più disturba lo studioso ginevrino e si risolve in un qualche giudizio di valore: Déjouer Marc, le tromper, ouvertement, lui offrir des serments sophistiqués, est la seule préoccupation commune des amants; un sentiment de retenue, de respect humain, de dignité personnelle, de conscience de leur situation à défaut même d’égard pour Marc ne les aborde ni l’un ni l’autre. C’est en quoi il est faux malgré les plus hautes autorités, de vouloir donner au poème une aussi grande portée qu’on le fait. Poème de l’amour sans doute, et de l’amour sans frein, mais dépourvu de la chose qui en ferait l’intérêt, d’une barrière morale [à lois sûres] contre laquelle lutteraient les amants195. Di fronte a testi dalle grandi passioni è facile cedere a una sentenza stigmatizzante dai toni perentoriamente morali, a un giudizio nutrito di un pensiero ingenuamente scisso tra ciò che è buono e ciò che non lo è, camuffando la propria pretesa di onestà e rettitudine nei personaggi con la targa, banale ed euristicamente povera, di profondità psicologica (che rientra sempre in quella presunzione di voler afferrare l’immagine di una persona tonda in un testo letterario, il quale richiede invece, come si è visto nel primo capitolo, un giro più lungo). Un personaggio può essere intessuto di profondità di altro tipo, di complessità che esulano dalla morale, dalla logica del bene e del male. Tristano e Isotta non rispondono a quel senso di colpa auspicato da Saussure perché non contemplano l’orizzonte della colpevolezza, non arridono a un manicheo essere di qua o di là dalla legge, si pongono oltre la dicotomia regola-non regola, ed è proprio la loro trascendenza rispetto a qualunque prospettiva ideologica a renderli fertili nella rappresentazione dell’umano che incarnano. Aspetti, questi, su cui si tornerà – per ora si tratta di dar conto di quanto su Tristano ha detto Ferdinand De Saussure. 192 Note, 3959.11, ed. Marinetti-Meli, p. 313. Ivi, p. 310. 194 Ibid. 195 Ivi, p. 311. 193 60 Si tratta a dire il vero di recuperare, in un coacervo di dati dal dubbio interesse improntati a una fiducia tutta positivistica, una propensione all’autocritica pronta a generare, ben oltre il dato positivo, il salto verso il suo opposto, offrendo al fruitore degli appunti dedicati a Tristano la possibilità di leggere tra le righe un pensiero dell’alterità, della non cristallizzazione, dell’apertura fluida, un pensiero – decostruzionista ante litteram se si vuole – del vuoto, del margine, della non presenza. Più che guardare a quanto Saussure ha esplicitamente detto su Tristano, ci si dovrebbe soffermare sugli interstizi degli appunti, indagandone la portata epistemologica. La bibliografia critica (alquanto scarsa su quest’aspetto della riflessione saussuriana) considera normalmente cuore degli appunti che Saussure ha dedicato a Tristano il quaderno 3959.1 , ma non sarà inopportuno rilevare che pensieri dedicati all’eroe di Thomas e Béroul sono disseminati lungo tutti i quaderni qui indagati, cui però è invalso l’uso di attribuire come intitolazione Note sulle leggende germaniche. La riflessione sul romanzo di Tristano e Isotta accompagna Saussure per tutto l’arco della sua ricerca sulle leggende e inoltre, come cercheremo di vedere nel dettaglio, alcune delle note di carattere teorico, ossia quelle per cui questa parte del Fonds Saussure è stata considerata particolarmente degna d’attenzione da parte dei semiologi, sono inserite proprio tra gli appunti tristaniani, e sembrano dettate dall’articolata analisi imperniata sul personaggio di Tristano. Dato lo spazio, e, in un certo qual modo, l’autonomia, riservati alla materia tristaniana, sarebbe insomma doveroso tener presente nell’intitolazione anche quest’altro versante della ricerca196. Saussure fu colpito da una nota di Hermann von Fischer197 in cui si enucleano dei punti di contatto tra la leggenda di Tristano e quella di Teseo. Inoltre, il 30 luglio 1904 debuttò al Théâtre Romain di Orange il dramma Hippolyte couronné di Jules Bois e, qualche giorno dopo, lo studioso ginevrino s’imbatté in una recensione dello spettacolo, dove si discuteva la scelta del drammaturgo di introdurre nella nota storia una scena in cui la nutrice di Fedra porge a Ippolito «la coupe qui contient le philtre»: Il n’est pas sans intérêt de voir qu’un auteur contemporain, même s’attachant d’assez près à Euripide et Sénèque, est arrivé de son côté, comme l’auteur premier du Tristan, à ajouter la donnée d’un philtre versé par la nourrice au jeune homme198. 196 Come, a ragione, fa la studiosa Béatrice Turpin, nell’edizione di parte delle note saussuriane da lei curata. 197 Hermann VON FISCHER, Die Forschung über das Nibelungenlied seit Karl Lachmann, Leipzig, 1874. Cfr. Note, 3958.8.40. 198 Cfr. Note, 3959.4.38. 61 Sull’onda di un’intuizione, Saussure si dedica così a una ricerca meticolosa (cavillosa, a tratti) delle eventuali fonti mitologiche del Tristano, rintracciando, ricopiando, annotando, riassumendo brani tratti dall’opera di Ovidio, dalla Bibliotheca di Apollodoro, dalle Fabulae di Igino; è in particolare la versione della storia di Teseo e Ippolito che compare nel IV tomo della Bibliotheca historica di Diodoro Siculo che presenta, a suo avviso, tratti affini alla storia di Tristano199. I richiami tracciati da Saussure sono capillari e attenti ai particolari più insignificanti – soprattutto ai particolari più insignificanti. Le affinità tra Teseo e Tristano sono ben note e hanno alimentato, come mi preoccuperò di riassumere più avanti, un’abbondante bibliografia. Teseo, come Tristano, è allevato da un padre putativo e da un maestro, è un nuovo arrivato e straniero alla corte del re (suo padre), che non ha figli e lo nomina suo erede, cosa che suscita la gelosia dei cinquanta nipoti del sovrano. La parabola di Teseo è, inoltre, come quella di Tristano, segnata dalla vittoria su due mostri, prima sul Toro di Maratona, che terrorizza gli abitanti di Atene, poi sul Minotauro, che, come il Moroldo, esige un tributo di carne umana. Ancora, Teseo è aiutato nella sua impresa dalla figlia del sovrano, che, ucciso il mostro, porta via con sé. Nell’accumulare i tratti condivisi dai due profili, Saussure si rende ben presto conto di star disegnando un ipertesto ben noto al folklore e alle mitologie di tutto il mondo, soprattutto riguardo all’infanzia dei due eroi: Il est malheureux que l’histoire de Thésée commence par une donnée incapable de se distinguer par nature d’un autre début banal, la donnée d’un jeune homme de naissance plus ou moins régulière qui arrive en inconnu à la cour d’un roi chez lequel il doit accomplir ses exploits. Ce début est, dans le cycle, la façon pour ainsi dire obligatoire dont commence la carrière d’un héros, et par conséquent ne saurait constituer la moindre présomption en faveur de la comparaison générale que nous soutenons200. Benché si renda conto di quella che chiama una tendenza dei racconti leggendari verso «un certain type banal»201, Saussure resta persuaso della validità dell’indirizzo intrapreso e del fatto che questa regolarità non costituisca, riguardo all’incipit della vicenda di Teseo, una prova contro «son identité avec le début de Tristan», ma solamente «une absence de critère possible pour cette partie»202. In un passo degli appunti, lo studioso sembra essere determinato a confrontare la storia di Teseo con quella di una serie di altri personaggi, 199 Cfr. Note, 3959.2.9. Note, 3959.3.6. 201 Note, 3939.3.7. Poco prima lo chiama «prototype» (Note, 3959.3.6). 202 Note, 3959.3.6. 200 62 nell’intento di dimostrare, pur tra diversi «exemples de banalité», come una corrispondenza precisa e assoluta sia data solo con Tristano, ma quest’operazione di raffronto si arresta, con un’evidente titubanza da parte di Saussure, al primo nome della lista, quello di Perceval203. Nella solerte difesa dell’intuizione da cui è mossa la ricerca, le argomentazioni di Saussure si fanno un po’ forzate. Rinunciare a prendere in considerazione queste somiglianze che sembrano legate a un «tipo banale» equivarrebbe, dice, a non considerare oggetti degni d’analisi gli altrettanto banali combattimenti raccontati in una leggenda, che si assomigliano senza distinzioni, e che, continua, costituiscono uno dei temi più ordinari di cui occuparsi, essendo inevitabile che un combattimento abbia prima o poi luogo in una qualunque leggenda. Perché ci si dovrebbe sentire autorizzati allora a «traiter avec plus de négligence des aventures de naissance qui ressemblent à d’autres que des coups d’épée qui ressemblent encore plus à d’autres?»204. Saussure è irremovibile nella sua proposta di una posizione forte, che porti all’individuazione di una fonte, che arrivi a mostrare come, tenuto conto delle sue ascendenze, di Tristano resti poca cosa205: Il n’y a pas de méthode plus commode, tandis qu’on est accusé de hardiesse à ne pas la suivre, que de parler ‘d’influences’, de ‘réminiscences’, d’inspirations prises à droite et à gauche quand on aperçoit ça et là, à la surface d’un corps de légende quelque éclatant exemple d’emprunt fait à un mythe connu206. Contrariamente agli approcci basati su vaghe idee d’influenza e di reminiscenza di motivi, lo sforzo delle Note si orienta a rintracciare il testo che funga da modello esatto per i romanzi tristaniani del XII secolo. In quest’ottica, non può essere considerata condizione sufficiente la concomitanza degli aspetti più macroscopici, centrali dell’intrigo, che sono quelli che maggiormente si prestano a un gioco di «reminiscenze», ma bisogna invece investire sul particolare più insignificante: A quoi sert peindre Tristan et son amour fatal qu’il naisse, qu’il ait une aventure avec des pirates, qu’il [ ] que son père adoptif passe trois ans à sa recherche, qu’il venge son père sur Morgan. Ce sont là des choses tellement inutiles et peu intéressantes qu’elles portent nécessairement la marque d’être les vraies choses racontées d’abord sur Tristan, parce qu’il faudrait plaindre le poète qui les aurait inventées pour orner ou préparer son récit. Il les avait reçues et n’osait pas les taire207. 203 Note, 3959.3.7. Note, 3959.3.6. 205 Cfr. Note, 3959.11, ed. Marinetti-Meli, p. 310. 206 Note, 3959.8.71. 207 Note, 3959.1 .1 . Come fa notare Gildas Salmon, in quest’attenzione al particolare Saussure segue una linea di ricerca diametralmente opposta a quella della funzione comune di Propp, il quale, come gli è stato rimproverato da Lévi-Strauss, perveniva a una generalità e a un’astrazione tali da partorire un modello incapace di spiegare i testi particolari (si veda Gildas SALMON, «Les conditions d’une science de l’intertextualité: 204 63 Saussure cerca punti di appoggio improbabili. Alla nascita irregolare, all’infanzia oscura illuminata poi dal pieno riconoscimento del rango dell’eroe, ossia «un des grands lieux communs où revient [sic] sans cesse d’âge en âge, la légende et le conte de toutes les nations»208, affianca il dato, che considera assolutamente non trascurabile, per cui i genitori di Teseo, come quelli di Tristano, sono entrambi di razza umana e di stirpe reale, o, ancora, precisa che sia l’infanzia di Tristano che quella di Teseo non è un’infanzia abbandonata, giacché i due eroi saranno allevati nobilmente e istruiti in un ambiente degno del loro rango209. Un’analisi puntuale è dedicata alla struttura geografica delle due trame, dove Saussure si sofferma ampliamente sul dato per cui Teseo, come Tristano, ha quelle che si potrebbero chiamare una piccola e una grande patria210. Teseo cresce a Trezene, paese straniero sia per sua madre che per suo padre, per recarsi poi a sedici anni ad Atene, regno paterno. Tristano lascia l’Ermenia, terra in cui è stato concepito ed è cresciuto, paese natale di suo padre Rivalen ma straniero per sua madre Blanchefleur, per recarsi alla corte di Marco in Cornovaglia211. Per Saussure, il fatto che Tristano nasca e cresca nella terra paterna costituirebbe un’alterazione rispetto alla trama originaria e l’Ermenia doveva originariamente essere il regno della madre («la mère de Tristan devrait être chez elle212»), la quale, invece di concepire l’eroe in casa propria, ne è allontanata dallo straniero Rivalen: questa sarebbe la sola trasposizione importante rispetto al mito di Teseo213. La conclusione è salda nel sostenere la convinzione di partenza: «Parmi les histoires banales il sera difficile de retrouver ce type qui est celui de Thésée et de Tristan»214. La ricerca di parallelismi si estende ad altri racconti della mitologia greca, tanto che si potrebbe dire che Saussure tracci in questi appunti una sorta d’ipertesto mitologicoleggendario, in una fittissima e capillare rete di sovrapposizioni, rispecchiamenti, coincidenze. Benché il perno dell’analisi resti il confronto di Tristano e Teseo, lo studioso parla della réflexion sur les apories du comparatisme saussurien», Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio, 3, 2010, pp. 169-182, p. 170). 208 Note, 3959.8.45. 209 Ibid. 210 Cfr. Note, 3959.8.31. 211 Cfr. Note, 3959.8.28 e 3959.8.29. 212 Note, 3959.8.30. 213 Cfr. Note, 3959.8.30. 214 Note, 3959.8.45. 64 leggenda tristaniana come di un «entrelacement»215 di più storie, di più coppie di personaggi: Teseo-Arianna, Ippolito-Fedra, Cefalo-Procri, Paride-Enone. In questa ricerca di somiglianze Saussure appare infaticabile, con risultati che rasentano spesso una mania della sovrapposizione a tutti i costi. Per esempio, non contento dell’analogia di Isotta e Procri nella loro figura di guaritrici216, propone un confronto tra la «maladie dégoutante»217 di Minosse e l’episodio dei lebbrosi del romanzo di Béroul. Minosse è vittima di un sortilegio lanciatogli dalla moglie Pasifae: qualora una donna si fosse avvicinata a lui, il suo corpo avrebbe sprigionato animali ripugnanti, episodio che costituirebbe un’ascendenza della scena bérouliana che vede Marco cedere Isotta ai lebbrosi (con disinvoltura, si stupisce Saussure), scena in cui si farebbe della «maladie dégoutante» un «emploi encore plus innommable sur le corps d’Isolt»218: il lebbroso cui Marco consegna l’adultera sarebbe Minosse che accoglie Procri ripudiata da Cefalo. I punti di contatto individuati sono diversi: Procri, come Isotta, è colta in flagrante nella sua infedeltà al marito Cefalo; Procri che, dubbiosa che il marito possa a sua volta esserle infedele, lo spia da dietro un cespuglio ricorda a Saussure la celebre scena tristaniana del colloquio spiato; Isotta che accorre presso il Moroldo sarebbe una Procri «arianisée plus ou moins»; Tristano ferito e che cambia il suo nome in Tantris sarebbe, con un punto interrogativo che accompagna l’appunto, Cefalo che si maschera per mettere alla prova la fedeltà della moglie. Il parallelismo tracciato con la storia di Cefalo e Procri tocca uno dei punti più complessi nell’interpretazione dei testi tristaniani, quello della scena della spada tra i corpi. L’argomentazione di Saussure apparirà sopra le righe, ma, considerando la larga immaginazione cui gli interpreti hanno dato spazio nell’analisi di questo passo, non è forse inopportuno aggiungere al coro questa voce. Procri, dopo aver guarito Minosse (corrispondente al duca lebbroso nel nostro romanzo) e aver ricevuto da lui in dono una lancia che non fallisce mai il bersaglio e un cane prodigioso nell’inseguimento delle prede, torna in Attica travestita da uomo, diventando compagno di caccia di Cefalo. Allo stesso modo, dice Saussure, Isotta, strappata al duca lebbroso, si rifugia nella foresta del Morois con Tristano, dove vivranno di caccia. Isotta prende parte, per quel che può, alle fatiche di Tristano, elemento che, secondo Saussure, potrebbe essere una spia della primitiva partecipazione della 215 216 Note, 3958.8.1. Cfr. Note, 3959.8.1-6: i sei fogli sono quasi interamente dedicati al parallelismo con la storia di Cefalo e Procri. 217 218 Note, 3958.8.1. Note, 3959.8.1. L’argomento compare anche nel foglio 395 . .3. 65 protagonista alla caccia, spia che agevolerebbe, ancora, la sua sovrapposizione con Procri. Ci si troverebbe, però, di fronte alla questione che Isotta, al contrario di Procri, non è mascherata da uomo, particolare che persuade Saussure del fatto che si tratti di una «héroïne d’un sexe emprunté»: u’on prenne garde aux altérations littéraires d’une part, et de l’autre à ce qui est le fait caractéristique de toute [ ]. Lors que les amants sont surpris, il se trouve qu’il y a entre eux l’épée symbolique219. La famosa spada che separa i corpi dei due amanti dormienti quando Marco li rintraccia nella foresta sarebbe un residuo, un segno, una traccia di un antico travestimento d’Isotta? Secondo Saussure ci si potrebbe domandare se la convivenza dei due nella foresta non avesse una forma totalmente opposta a quella elaborata dai poeti medievali, dietro cui si celerebbe una primitiva convivenza dei due non in qualità di amanti, ma di colleghi di caccia: «Tristan et Isolt n’y représentait [sic] point deux amants, quoique d’autre part aussi bien que Céphale et Procris»220. Un altro punto di contatto tra i due intrecci sarebbe Husdent, il cane di Tristano che segue i due amanti nella foresta e che rivestirebbe lo stesso ruolo del cane regalato da Minosse a Procri221. È proprio a partire dall’episodio della fuga della foresta, fino a cui la memoria del personaggio di Cefalo sarebbe fortemente presente, che può avviarsi per Saussure una netta identificazione di Tristano e Teseo, che resta il perno della ricerca dello studioso, il quale sottolinea che «à travers tout le bas Moyen Age, c’est la légende de Thésée qui semble de toutes les fables grecques (avec Troie?) continuer à jouir de la plus grande popularité»222. Per Saussure, una volta delineate le influenze di altri racconti mitologici e le alterazioni cui hanno dato luogo, oltre che i mascheramenti letterari cui la leggenda primitiva è stata sottoposta dai poeti medievali, i due tessuti diegetici sono perfettamente assimilabili: L’histoire de Thésée se retrouve, non toute seule ni toute pure, mais du moins en ce qui la concerne entière, dans les événements qui sont mis autour du nom de Tristan, et cela dans une succession strictement conforme à la fable qui serait ainsi la fable originale. Il n’y manque pas un seul article que l’on puisse citer223. 219 Note, 3959.8.5. Ibid. 221 Saussure s’interroga anche sull’altro cane che compare nei romanzi tristaniani, Petitcriu, riguardo al cui nome si propone d’indagare se non possa essere una deformazione di Procri. Cfr. Note, 3959.10.1/2 e 3959.10.14. 222 Note, 3959.8.43. 223 Note, 3959.8.22. 220 66 Per fornire ancora un esempio della fitta trama di relazioni configurata nelle Note, la ferita di Tristano alla gamba sarebbe secondo Saussure una traduzione «honnête» della ferita di Teseo alle natiche, che «a donné lieu à d’interminables plaisanteries des comiques athéniens»224. Saussure tiene a precisare che la sua posizione è ben più drastica di quella di chi, prima di lui, si era interrogato sulle relazioni tra i due miti. Rispetto alle argomentazioni, meno perentorie, più sfumate, di Gaston Paris, che parlava di influenze del personaggio di Teseo sulla primitiva leggenda tristaniana, Saussure prende le distanze: «En somme, on admet des broderies théséennes sur une autre trame. J’admets des broderies quelconques sur trame théséenne»225. uesta è l’affrettata, e in realtà non pienamente argomentata, ipotesi di Saussure: Un récit en latin des aventures de Thésée, disposé à la façon d’un conte, est rédigé par un savant clerc qui connait de près les sources classiques et les respecte, mais est incité à l’écrire en même temps d’un sens narratif et [ ] qu’il emprunte aux modèles de sa nation. Cela coïncide bien avec un rédacteurs de l’ile britannique (entre autres très libre d’entournures et d’idées)226. Rispetto a questo imprecisato racconto latino scritto da un autore britannico, gli unici elementi importanti introdotti indipendentemente dalla base mitologica sarebbero il filtro e l’amore «non d’elle pour lui, mais de lui pour elle»227, laddove Ippolito non ama Fedra, Paride si allontana da Enone, Teseo abbandona Arianna: On peut au moins remarquer que c’est bien tout simplement de l’indifférence que témoigne Tristan à l’égard d’Isolt jusqu’au moment de l’ingestion du breuvage, et que c’est une des choses qui nous éloignent un peu, malgré tout ce qu’on a dit de toute cette donnée, singulièrement rude et d’une psychologie sauvage ‘peu psychologique’. ue la coupe magique, comme symbole, vienne sceller ce qui résulte déjà de l’attrait des cœurs, nous le comprenons, mais elle est la cause unique. Aussi on l’a dit, elle représente bien plus la ‘Fatalité’ que le principe de l’‘Amour’, et cela nous le croyons même directement [ ]. Dès lors la question psychologique est moins importante. C’est toujours la fatalité des antiques pour Pasiphaé et sa [ ]228 Come qualche anno dopo di lui faranno autorevoli filologi, Saussure insiste sulla chiave della fatalità come asse strutturante della vicenda di Tristano e Isotta, asse che la inserisce pienamente nel solco della mitologia greca. In un contributo del 1911 dedicato alle relazioni del Tristano con gli antichi miti greci, Egidio Gorra insisteva su come, nei romanzi tristaniani, non sia semplicemente questione di 224 Ibid. Note, 3959.3.1. Saussure fa riferimento a Gaston PARIS, «Note sur les Romans relatif à Tristan», Romania, 15, 1886, pp. 597-602. 226 Note, 3959.8.45. 227 Note, 3959.3.1. 228 Note, 3959.3.1-2. 225 67 adulterio, similmente al caso di Lancillotto e Ginevra, poiché «ciò che dà un’impronta agli amori del nostro romanzo è il fatto che essi sono amori incestuosi»229, laddove andrebbe riconosciuta nella nostra storia un’attenuazione della ripugnante immagine, di edipica memoria, di Tristano figlio di Marco, che diventa invece zio e padre adottivo del protagonista. Per Gorra, come per Saussure, la trama tristaniana è senza dubbio annoverabile «nei drammi fatali, i quali hanno contenuto e caratteri particolari»230. Quasi due decenni dopo, Nicola Zingarelli riprendeva e approfondiva gli argomenti di Gorra, passando in rassegna le reminiscenze classiche nel racconto di Tristano («non singole reminiscenze accessorie», chiariva, ma il «motivo principale della storia di Tristano e Isotta che è tutto classico, cioè il fato»231), così concludendo: E con tutti questi elementi a nostra disposizione, e a portata di mano, valeva la pena di annaspare sulle mitiche origini celtiche e indoeuropee della storia di Tristano e Isotta?232 Ancora negli anni sessanta, Antonio Viscardi si univa alla lista dei sostenitori della tesi del mito classico: È facile rilevare che alcuni dei temi di cui la complessa trama è intessuta derivano dai miti della tradizione classica. Tristano, vincitore del Moroldo e del mostro, richiama Teseo vincitore del Minotauro, e Giasone; Isotta ricorda Medea e Arianna; Marco dalle orecchie equine richiama l’antico Mida; e Tristano muore come muore Egeo all’annuncio che la nave di Teseo alza la vela nera… e Isotta e Tristano muoiono come Tisbe e Piramo233. In realtà la questione non manca di nutrire supposizioni, argomentazioni, dibattiti anche in tempi più recenti. In un volume che Chocheyras dedica a Tristan et Iseut. Genèse d’un mythe littéraire, viene riproposto un saggio del 1991 sulle fonti di alcuni motivi tristaniani234, in cui l’autore polemizza con gli studiosi Bédier e Varvaro per aver negato la pertinenza del 229 Egido GORRA, «Tristano», in Studi Letterari e Linguistici dedicati a Pio Rajna, Firenze, Fussi Ediore, 1911, pp. 577-592, p. 582. 230 Ivi, p. 5 6. Benché l’impostazione generale del saggio risulti oggi inaccettabile, vi appare una considerazione che mi pare valida per ridimensionare la tanto dibattuta questione morale nel Tristano (riprenderemo quest’aspetto nei capitoli successivi): «L’amore dei due adulteri è, in origine, anteriore al matrimonio sancito dalle leggi sociali; ed è questa anteriorità dell’amore illegittimo rispetto all’amore legittimo che giustifica in certa maniera i due amanti davanti alla nostra coscienza e alla nostra opinione. Soltanto per questa ragione, io credo che la legge naturale, cioè i diritti dell’anima, può nella nostra leggenda accampare la sua giustificazione di fronte alla legge sociale» (ivi, p. 583). 231 Nicola ZINGARELLI, «Tristano e Isotta», Studi medievali, 1, 1928, pp. 48-58, p. 53. 232 Ivi, p. 56. 233 Antonio VISCARDI, «I romanzi di Tristano e Isotta», in Id., Le letterature d’oc e d’oïl, Firenze-Milano, Sansoni-Accademia, 1967, pp. 167-173, p. 170. 234 Cfr. Jacques CHOCHEYRAS, «Les sources possibles de quelques motifs tristaniens» (1991), in Id., Tristan et Iseut. Genèse d’un mythe littéraire, Paris, Honoré Champion, 1996, pp. 115-140. 68 rapporto tra Tristano e Teseo. L’oggetto della discussione è il noto passo del commento di Servio al terzo libro dell’Eneide, un commento del IV secolo che potrebbe costituire un ponte tra il mito di Teseo e la leggenda tristaniana. Nel testo di Servio, che fornisce al lettore la spiegazione dell’origine del nome del mare Egeo, si racconta come il padre di Teseo, vedendo ritornare la nave del figlio con le vele nere issate (Teseo, una volta ucciso il Minotauro, si è semplicemente dimenticato di cambiarle) e pensando che il figlio sia morto, si getta in mare, che prende così da lui il nome. Il motivo delle vele è l’unica concessione che Bédier faceva a un qualche legame di Tristano con Teseo; Varvaro non accetta neppure questo. Non si tratterebbe per lo studioso italiano di un filone mitico, ma di un motivo popolare ovvio presso le popolazioni marinare e frequentemente attestato, per le quali il colore delle vele, bianche o nere, era segno di buone o cattive notizie. Bisognerebbe quindi vedervi un’operazione di organizzazione di motivi popolari, e sarebbe da escludere la fonte mitologica: «esso non è più che un motivo narrativo senza filigrana alcuna»235. Chocheyras accusa Bédier e Varvaro di concentrarsi sul motivo della vela, senza tener conto delle numerose analogie tra i due eroi, sulla cui base lo studioso si spinge a varie ipotesi di derivazione, che vanno dall’influenza diretta di Plutarco alla mediazione di un compilatore latino (ossia una posizione in linea con quella di Saussure, che, come stiamo per vedere, è stata però soltanto una posizione provvisoria)236. 235 Alberto VARVARO, «L’utilizzazione letteraria di motivi della narrativa popolare nei romanzi di Tristano (1970), in Id., Identità linguistiche e letterarie nell’Europa romanza, Roma, Salerno editrice, 2004, pp. 459-481, p. 477. 236 Poco interesse pare che invece Saussure rivolga all’altro versante della questione delle fonti del Tristano, quello celtico (compaiono pochi cenni sparsi, almeno stando alle conoscenze attuali del fondo), a cui gli studi hanno col tempo conferito un’importanza sempre maggiore, ridimensionando non solo la tesi delle fonti classiche, ma anche il primato francese. È noto l’interesse rivolto alla raccolta delle Triadi Gallesi, in particolare le triadi numero 26, in cui si menziona un «Drystan son of Tallwch», già inserito nell’orbita arturiana, guardiano dei porci di «March son of Meirchiawn» (The Welsch Triads, ed. a cura di Rachel BROMWICH, Cardiff, University of Wales Press, 1961, p. 45) e la triade numero 80, dove «Essyllt Fair-Hair è una delle «three faithless wives of the Island of Britain» (ivi, p. 200). Riferimenti a Drystan compaiono inoltre nelle triadi 19, 21, 43, 71. Ad attirare l’attenzione dagli studiosi che si sono impegnati nello scavo delle ascendenze del personaggio di Tristano vi è poi il racconto di Diarmaid e Grainne del ciclo eroico feniano (si veda Myles DILLON, Early Irish Literature, Chicago, University of Chicago Press, 1948, in particolare il capitolo II, pp. 32-50, dedicato al ciclo feniano). Un testo particolarmente citato negli studi delle fonti del Tristano, l’edizione di Joseph Loth delle quattro branches dei Mabinogion del 1889 (nuova edizione: Joseph LOTH, Les Mobinogion. Contes bardiques gallois, Paris, Presses d’Aujourd’hui, 1979), compare tra la bibliografia utilizzata da Saussure nella sua ricerca, ma, come accennavo, non sembra che questa pista abbia avuto sullo studioso una particolare presa. In generale, tra i motivi della leggenda tristaniana che lasciano pensare a un’origine nel folklore celtico compaiono: l’addestramento di Husdent, cui viene insegnato a cacciare senz’abbaiare, il sonaglio dell’altro cane di Tristano, Petitcriu, le abilità magiche di Isotta e di sua madre, l’arco con cui Tristano caccia nella foresta, le numerose decapitazioni, le orecchie equine di Marco, l’episodio dell’acqua ardita. Per una visione globale, si rimanda allo studio di Gertrude SCHOEPPERLE (del 1912, ma riproposto in un’edizione ampliata: Tristan and Isold. A study of the Sources of the Romance, Second edition, expanded by a bibliography and critical essay on Tristan Scholarship since 1912 by Roger SHERMAN LOOMIS, II voll., New York, Burt Franklin, 1960). A uno studio dei 69 La discussione, se ci allontaniamo per un attimo dalla preoccupazione filologica per la questione della fonte, coinvolge un aspetto sui cui credo valga la pena soffermarsi. Il romanzo di Tristano e Isotta, di là dalle letture sociologiche che se ne possono dare e dal suo inquadramento nel canale feudale-cristiano, di là dall’influenza diretta o meno che su di esso può aver avuto la mitologia greca, s’inserisce, come Saussure ed eminenti filologi suggerivano nei primi decenni del novecento, nel filone delle storie della classicità in cui è la fatalità a far da padrona. Anzi, più che la fatalità, etichetta lautamente generica che apparenta troppe storie del folklore mondiale, direi che il fulcro è quell’inestricabile connubio di desiderio e alterità, fulcro che il mito tristaniano, agli albori del romanzo francese medievale (e quindi agli albori di quella che etichettiamo come letteratura europea) sembra ricavare dal grande insegnamento della Grecia classica. Del resto, come nota Jean-Charles Huchet, la storia del romanzo francese, tra il Roman d’Alexandre et l’Apollonius de Tyr, si apre con la trasposizione del mito di Edipo, «le rappel d’un double forfait (un parricide et un inceste) qui doit être oublié, rédimé, par une reprise le transformant en métaphore de l’écriture»237. Certo, è oggi un dato acquisito dalla critica e dalla filologia, al contrario di quanto pensassero gli eminenti filologi di cui sopra, il ruolo svolto dal folklore celtico nell’elaborazione di motivi e scenari del romanzo medievale. Ma, messo da parte lo scrupolo filologico per soffermarsi invece sull’interpretazione e per interrogarsi su che cosa possano per noi rappresentare oggi questi testi, altrettanto innegabile mi pare che, guardando ai frammenti della leggenda di Tristano, non si possa prescindere dal saldo punto di riferimento dei capolavori della classicità latina e greca e del loro tortuoso e sempre aperto tentativo di disegnare le aggrovigliate dinamiche che legano l’io all’altro, che accendono il soggetto di una spinta all’uscita da sé fino alle più tragiche e imprevedibili conseguenze. materiali di origine celtica è inoltre dedicato lo studio di Bruno PANVINi: La leggenda di Tristano e Isotta. Studio critico, Firenze, Leo S. Olschki, 1951. Sul rapporto (le differenze) tra Tristano e il Diarmaid del ciclo feniano si veda Raymond J. CORMIER, «Open contrast: Tristan and Diarmaid», Speculum. A Journal of Medieval Studies, 51, 1976, 4, pp. 589-601; alcune considerazioni in merito si trovano in Jean FRAPPIER, «Structures et sens du Tristan: version commune, version courtoise», Cahiers de civilisation médiévale, 6, 1963, pp. 255-280 e pp. 441454, in particolare alle pp. 256-257, e in D’Arco Silvio AVALLE, «… de fole amor», in Id., Dal mito alla letteratura e ritorno, Milano, Il saggiatore, 1990, pp. 260-2 1, in particolare alle pp. 269 ss. Sull’incontro di fonti celtiche e classiche, tra celti e greci si sofferma Daniel POIRION nel suo articolo «Le Tristan de Béroul: récit, légende et mythe», L’information littéraire, 26, 1974, 5, pp. 199-207, p. 203. Alcuni contributi più recenti sulle fonti celtiche: Francesco BENOZZO, «Tristano e Isotta. Cent’anni di studi sulle origini della leggenda», Francofonia, 33, 1997, pp. 99-128; Mary BROCKINGHTON, «The Separating Sword in the Tristran Romances: Possible Celtic Analogues Re-Examined», The Modern Language Review, 91, 1996, 2, pp. 281-300. 237 Jean-Charles HUCHET, Le roman médiéval, Paris, PUF, 1984, p. 11. 70 2. La materia inerte che il pensiero ordina Saussure avrebbe quindi inseguito nei primissimi anni del novecento un’ipotesi che fa ancora discutere gli studiosi di letteratura medievale, o almeno quegli studiosi attenti più alla logica lineare della tradizione che a quella, meno lineare, dei processi di costruzione del senso. L’interesse delle Note non sta però in ciò che argomentano con tanta dovizia di particolari, quanto piuttosto nella messa in discussione di quelle stesse argomentazioni, nell’articolata e maniacale rincorsa a una traccia precisa che sfocia poi però nella consapevolezza di un’inesattezza insita in ogni dato che si presenti come puntuale, definitivo, ultimo. Prima di addentrarci in questa questione, mi preme soffermarmi su un merito preliminare degli appunti che Saussure dedica a Tristano, già accennato in apertura di questo capitolo. Benché con toni disapprovanti e in un discorso dal sapore moraleggiante, Saussure considera un aspetto della trama tristaniana, quello della ruse, dell’impronta del trickster, che era al suo tempo totalmente trascurato a profitto del tessuto tragico. Pur inseguendo l’esatta sovrapposizione rispetto alla linea diegetica dei grandi drammi antichi, Saussure, per cui «non si tratta che di saltare da un letto all’altro senza toccare la farina», nota che, nel Tristano, rispetto a quel tessuto noto, tramandato dalle vette antiche della cultura europea, qualcosa resta fuori, non si lascia assorbire, risponde a logiche diverse. Il tutto non arriva a un’elaborazione esaustiva, ed è anzi oggetto di una critica animosa, ma ciò non toglie che Saussure colga uno spirito carnevalesco nell’alba della letteratura medievale europea, il rovesciamento operato in forza di un punto di vista – altro, alternativo, adulterante – che si riversa dinamicamente nei testi e li attraversa sotto la superficie della linea forte, solenne, alta: un punto di vista basso-materiale-corporeo, direbbe Bachtin. Se per Gaston Paris il mito tristaniano si riassumeva in un «amour coupable de Tristan pour Iseut, la femme de son oncle, qu’il lui a amenée et qu’il a conquise pour lui, amour dont la fatalité et l’indestructibilité sont symbolisées par le ‘boire amoureux’ qu’ils ont partagé sans le vouloir, et duquel, comme le dit énergiquement Tristan lui-même, ils restent ‘ivres’ jusqu’à leur mort»238, Saussure si rende conto che col Tristano, si potrebbe dire, il riassunto non funziona, che oltre la trama dell’amore fatale scintilla un residuo che non si può ignorare senza far torto allo spirito di questi testi. Un merito che si realizza oltre le intenzioni di Saussure, certo, come, del resto, oltre le sue intenzioni si realizza anche l’altro merito delle 238 Gaston PARIS, «Tristan et Iseut», in Id., Poèmes et légendes du moyen-âge, Paris, Société d’édition artistique, 1990, pp. 113-180, p. 137. 71 Note, quello più macroscopico, quello che, agli occhi dello studioso, era invece un fallimento: aver elaborato una semiologia del discorsivo, oltrepassando la ristrettezza del concetto di fonte. Bernard Gicquel ha giustamente rilevato quanto poco giustificabile sia l’ipotesi saussuriana del racconto latino sulle vicende di Teseo, racconto che avrebbe dovuto costituire la base per la leggenda dei due amanti adulteri239. In effetti, non si tratta che di ingarbugliare ancor più la questione dell’archetipo tristaniano240, aggiungendo un archetipo all’archetipo. Vorrei però soffermarmi sulla debolezza che nelle Note viene conferita a quest’idea, che passa facilmente per un’idea portante dato l’ampio spazio che occupano, nell’economia generale degli appunti, le argomentazioni che vogliono surrogarla, ma che invece viene oscurata dalle considerazioni a margine, dal gioco di chiari e scuri, dalla pars destruens del discorso241. Ben presto, dopo aver già accumulato una serie non indifferente di dati con cui avallare la tesi di una precisa sovrapposizione tra il mito di Teseo e la leggenda tristaniana, le certezze di Saussure cominciano a vacillare, e compare un’«autocritique après le Ier chapitre»: L’histoire de la naissance et de l’enfance de Tristan appellerait-elle par elle-même un rapprochement avec la légende de Thésée qui s’impose plus ou moins par une coïncidence remarquable de circonstances? Nous ne le prétendons pas. Ce chapitre rentre pour nous dans la catégorie de ceux où il s’agit simplement de montrer qu’il n’y a pas au moins de désaccord en partant de la base indiquée242. In uno degli ultimi fogli del quaderno 3959.10, quello dedicato quasi interamente a Tristano, dopo le lunghe annotazioni circa l’ascendenza mitologica, compare una delle note teoriche che più hanno attirato l’attenzione degli studiosi, dato il suo spessore semiologico: 239 Scrive Gicquel: «Il transforme purement et simplement la question hypothétique en réponse conjecturale»; «dans le cas du mythe de Thésée, qui est assez fortement attesté, il n’est peut-être indispensable d’inventer un récit supplémentaire inconnu qui opérerait la synthèse de ceux que nous connaissons» (Bernard GICQUEL, «Le roman de Tristan et ses sources antiques selon Ferdinand De Saussure», Speculum Medii Aevi, 2, 1996, pp. 27-56, p. 54). 240 Cfr. Alberto VARVARO, «La teoria dell’archetipo tristaniano», Romania, 88, 1967, pp. 13-58. 241 Del resto, lo stesso Gicquel, in conclusione della sua critica, rileva, oltre il dato della tesi forte, la complessità di un processo pluricentrico: «Ce mode de composition progressive est en accord avec ce que l’on peut penser aujourd’hui du réseau hypertextuel que constitue un tel mythe littéraire. Toujours en construction et en renégociation, il est formé de nœuds et liens hétérogènes. Il ne possède ni unité organique, ni moteur interne, mais fonctionne ‘à la proximité, au voisinage’. Au lieu d’un centre auquel tout serait rapporté, il a, en permanence, plusieurs centres qui ont à la fois une capacité prédatrice vers l’extérieur pour développer des connexions imprévisibles par associations contingentes et disparates et, vers l’intérieur, une tendance à intégrer et stabiliser certaines singularités» (Ivi, p. 56). Tuttavia, nella centralità attribuita alla ricerca saussuriana della fonte mitologica, l’edizione degli appunti proposta da Gicquel non include alcuni frammenti autocritici e teorici che attraversano le note dedicate a Tristano e di cui darò conto in questo paragrafo. 242 Note, 3959.8.30. 72 Ce qui fait la noblesse de la légende comme de la langue, c’est que condamnées l’une et l’autre à ne se servir que d’éléments apportés devant elles et d’un sens quelconque, elles les réunissent et en tirent continuellement un sens nouveau. Une loi grave préside, qu’on ferait bien de méditer avant de conclure à la fausseté de cette conception de la légende: nous ne voyons nulle part fleurir une chose qui ne soit la combinaison d’éléments inertes, et nous ne voyons nulle part que la matière soit autre chose que l’aliment continuel que la pensée digère, ordonne, commande, mais sans pouvoir s’en passer. Imaginer qu’une légende commence par un sens, a eu depuis sa première origine le sens qu’elle a, ou plutôt imaginer qu’elle n’a pas pu avoir un sens absolument quelconque, est une opération qui me dépasse. Elle semble réellement supposer qu’il ne s’est jamais transmis d’éléments matériels sur cette légende à travers les siècles; car étant donnés cinq ou six éléments matériels, le sens changera dans l’espace de quelques minutes si je les donne à combiner à cinq ou six personnes travaillant séparément243. uello che è possibile inseguire sono minimali schegge d’essere, che, avvicendandosi vorticosamente, forniscono una materia amorfa alla costruzione del senso, che è il frutto puro e semplice di un’attività combinatoria. Alla base di tale attività si trovano quindi nucleari particelle di «materia», elementi che circolano nella massa culturale, su cui interviene il «pensiero» a «ordinarli», dando forma a un intreccio o a un personaggio, prodotti mai veramente compiuti, ma transeunti, mobili, sempre adulterabili. Basterebbe l’abbandono relativistico (di un relativismo intelligente) di questa nota – posta, è bene ribadirlo, verso la conclusione del quaderno 3959.10, quindi dopo la lunga raccolta di tracce mitologiche da associare al romanzo di Tristano e Isotta – a gettare un’ombra sulla tesi, ridicola alla luce di tanta avvedutezza teoretica, di una concomitanza perfettamente data tra due personaggi distinti, di un discorso condotto in termini di fonte. Ma, se questo non bastasse, si può notare dell’altro. Il quaderno 3959.11 è quello a più alta densità teoretica, quello che maggiormente contiene considerazioni di ordine generale, che esulano dai consueti richiami agli intrecci mitologici e leggendari. Ciò di cui la bibliografia critica non tiene quasi per nulla conto, in quella che è a mio avviso un’inspiegabile mancata valorizzazione del ruolo che la ricerca sui testi tristaniani ha rivestito nel percorso di Saussure, è che questo quaderno non solo segue naturalmente quello dedicato a Tristano, ma contiene ancora diverse note relative al nostro personaggio, presentandosi quasi come un’elaborazione di ordine epistemologico di un percorso fallimentare alla ricerca della fonte tristaniana, dell’identità tra Tristano e Teseo. È in questa collocazione che compare il tanto citato appunto sulla portata limitata dell’operazione che vuole rintracciare un’identità tra due personaggi, sull’impossibilità di 243 Note, 3959.10.18. 73 stabilire dove risieda l’identità, quale sia il criterio per riconoscerla, poiché «tout peut avoir été à la fois transformé et transporté de A à B»244. E allora, conclude Saussure, più si studierà la cosa più si comprenderà che il problema non è dove rintracciare l’identità, ma se ha un senso parlarne, per poi aggiungere – passo di non semplice leggibilità e che non compare in tutte le edizioni delle Note – che non bisogna credere «que cela soit une chose spéciale à la légende», considerazione che lascia davvero intravedere, come Avalle aveva mirabilmente fatto emergere, il pensiero di un essere improntato alla continua fabbricazione-manipolazione di sé, al gioco dei significanti che lo formano, alla mutazione inarrestabile, all’irrisolutezza del senso. Poco dopo Saussure, a riprova del ridimensionamento della questione della fonte tristaniana nel discorso generale che si dipana nelle Note, aggiunge: Dans une légende donnée, et sans autre moyen de contrôle, il est faux de croire qu’il soit plus ou moins possible de savoir quels sont les traits essentiels, quels sont les traits qui relient la légende présente et visible à la légende inconnue antérieure. Ceci est une chose impossible. Dans une légende donné, et avec des moyen de comparaison provenant de versions différentes, il est encore à affirmer que nous ne pouvons nullement juger de la valeur comparative des éléments, des incidentes communs, des mots placés dans tel ou tel contexte qui en change le sens. Je n’ai aucune foi non seulement dans le résultat concret qu’on prétend tirer de la comparaison de deux ou trois légendes, mais même dans le résultat de la comparaison des versions d’une seule légende, lorsqu’on est abandonné à la combinaison interne245. Sono diverse le note di carattere teorico e generale che sembrano nascere da riflessioni dettate dalla ricerca sul Tristano, alcune delle quali strettamente connesse all’individuazione di quella logica fluida, logica dello spostamento, di cui parlavo nel precedente capitolo. Nei fogli dedicati al «brevage d’amour» e al ruolo della fatalità nella storia di Tristano e Isotta, tra cui compaiono anche numerose considerazioni sul rapporto tra Elena e Isotta, Saussure (anticipando, qui come altrove, Propp) nota come, pur ammettendo somiglianze tra le azioni di due personaggi leggendari, l’alterazione cui la vita semiologica sottopone la leggenda fa quasi sempre sì che, anche se l’atto resta lo stesso, cambi il pretesto, la causa dell’azione, o il suo fine246. Le modifiche continue apportate al tessuto leggendario, sembra suggerire Saussure, si realizzano nonostante una tendenza conservatrice regni nel mondo della leggenda. Un autore vuole, salvo casi particolari, seguire quello che è stato raccontato prima di lui, ma spesso può capitare che, per eventuali «défaut de mémoire des prédécesseurs ou 244 Note, 3959.11.15. Note, 3959.11.19. 246 Note, 3959.3.2. 245 74 autrement», l’operatore che raccoglie la leggenda conservi per una determinata scena solo «les ‘accessoires’ au sens le plus théâtral»: Quand les acteurs ont quitté la scène il reste tel ou tel ‘objet’, une fleur sur le plancher, une [ ] qui reste dans la mémoire, et qui dit plus ou moins ce qui s’est passé. Mais qui, n’étant que partiel, laisse marge à [ ]247 Saussure propone una sorta di poetica economa della memoria, ispirata a un senso teatrale dell’oggetto scenografico evocatore di trame che s’intrecciano, senza riversarsi in un segno latore di un significato preciso: ancora una volta, significante aperto, libero di mettere in moto l’immaginazione, che, stimolata da un vuoto di memoria e ancorata a un’immagine vaga di un oggetto, una traccia, un frammento dai confini sbiaditi, è «le principal facteur de changement avec volonté de rester autrement dans la tradition»248. A proposito delle modalità di modifica e alterazione nel tessuto diegetico della leggenda di cui abbiamo parlato, Saussure nota, in questo caso esaminando specificamente la leggenda tristaniana, come una regola generale del Tristano (parla del romanzo in prosa) è che il viaggio, lo spostamento nello spazio producano innovazioni macroscopiche: qualunque personaggio, anche il più anonimo, che si sposti da un luogo all’altro, non arriva mai alla meta senza aver trovato sul suo cammino un personaggio estraneo alla trama primitiva: i viaggi, gli spostamenti «forment le prétexte pour ainsi dire régulier aux insertions»249. Si tratta di pochi cenni, cui diversi altri potrebbero aggiungersi, per affermare due concetti. L’ipotesi della fonte mitologica e del racconto latino che avrebbe tramandato la storia di Teseo non può essere letta senza considerare la fitta presenza di note di carattere teoretico che le stanno accanto. Il precoce interesse di studiosi come Starobinski o Avalle, che hanno isolato nei loro lavori le note di carattere semiologico degli appunti, ha evidentemente creato un’immagine del corpus saussuriano non corrispondente alla realtà, un’immagine in cui da un lato ci sarebbero interessanti considerazioni di ordine teoretico da affiancare o contrapporre al Corso di linguistica generale, dall’altro un’erudita compilazione d’intrecci leggendari e mitologici dal sapore positivistico. I due versanti sono al contrario fittamente intrecciati e, se la ricerca di Saussure parte da un retroterra chiaramente positivista e vessillifero di un’attenzione al concetto di fonte, lo studioso oltrepassa largamente i presupposti di un simile approccio per ergersi a più ampie vedute. Quella messa in tavola da 247 Note, 3959.3.2. Ibid. 249 Note, 3959.3.22. 248 75 Saussure è una trama interdiscorsiva250 e una teoria generale di trasformazione del segno, una semiologia del discorsivo che non perde mai però di vista la concretezza, benché difficilmente afferrabile, dei testi, o meglio, di quei barlumi di materia che il pensiero gestisce secondo logiche tutte sue, ma di cui, comunque, sottolinea Saussure, non può fare a meno. Oltre la fonte, Saussure incontra il discorso e la complessità delle dinamiche che lo rendono polimorfo, incompleto, mancante. In secondo luogo, spero di avere sufficientemente mostrato il ruolo, a mio avviso fino a oggi trascurato, dell’analisi dei testi tristaniani nella riflessione complessiva di Saussure, che non è solo il Saussure delle leggende germaniche. Penso di non spingermi troppo oltre affermando che, in diversi punti, la lettura delle Note offra quasi l’immagine del mito di Tristano come dell’officina, del laboratorio in cui vengono partorite, a partire da un affannato lavoro sui dati, diverse delle brillanti note di alta speculazione teoretica. La riflessione sull’impossibile identità del segno è evidentemente e strettamente legata all’onesta rinnegazione di quella tanto inseguita ipotesi della fonte mitologica. 3. L’immagine sfocata Teseo, che inizialmente incarna il miraggio della fonte, diventa un mero condensatore di quelle stesse schegge d’essere che alimentano Tristano, in una discesa del pensiero verso un’ambigua materialità (il cibo, la materia che il pensiero ordina), che è, insieme, ineliminabile (il pensiero la manipola e adultera, ma non ne può prescindere) e talmente inerte di fronte ai processi di trasformazione di cui è oggetto da vedere vacillare i propri diritti ontologici. Qui sta il grande paradosso della prospettiva saussuriana, che mi pare, da un punto di vista epistemologico, molto più interessante della questione del racconto latino che avrebbe fatto da mediatore tra la mitologia greca e la leggenda tristaniana. In via preliminare, la riflessione di Saussure chiarisce che Tristano è, non solo ontologicamente, ma anche 250 Data la prospettiva saussuriana, che travalica la testualità letteraria per aprirsi, non solo alla leggenda e al mito, ma anche alla fattualità storica, preferisco parlare, al contrario di quanto si riscontra in altri commenti alle Note, di ‘interdiscorsività’ piuttosto che di ‘intertestualità’, rifacendomi in questo a quanto appuntato da Cesare Segre: «Poiché la parola ‘intertestualità’ contiene testo, penso sia usata più opportunamente per i rapporti fra testo e testo (scritto, e in particolare letterario). Viceversa per i rapporti che ogni testo, orale o scritto, intrattiene con tutti gli enunciati (o discorsi) registrati nella corrispondente cultura e ordinati ideologicamente, oltre che per registri e livelli, proporrei di parlare di ‘interdiscorsività’ (Cesare SEGRE, «Intertestuale-interdiscorsivo. Appunti per una fenomenologia delle fonti», in Costanzo DI GIROLAMO e Ivano PACCAGNELLA, a cura di, La parola ritrovata. Fonti e analisi letteraria, Palermo, Sellerio, 1982, pp. 15-28, alle pp. 23-24). 76 semiologicamente, non dato, che solo nella ricezione si crea l’illusione di una sua identità, poiché a essere dotati di esistenza sono solo i tratti che lo costituiscono. Ma questi tratti, la cui co-ricorrenza è responsabile della tentazione di una sovrapposizione tra due personaggi distinti, sono talmente basilari, radicali, consueti e privi di una reale autonomia rispetto al processo articolatorio che li manipola, da risultare anch’essi ontologicamente poveri (ombre, fantasmi, come ha suggerito Avalle). In questo paradosso, di cui il caso tristaniano diventa nelle Note un’esemplificazione eloquente, s’intravede un invito a un’attenzione al discorso più che al fatto: non è il personaggio nella sua illusione referenziale a essere rilevante, come non lo sono le particelle d’essere che compongono quell’illusione. Il riflettore va invece puntato – ma è facilmente intuibile tutta l’inopportunità di un verbo che alluda a un’azione puntuale – sul movimento che rende quelle particelle adulterate nel loro stesso essere poste, in un’esortazione a pensare l’essere come definibile solo nel suo non essere altro e a interrogarsi non sull’uno che diventa altro, ma sul come questo passaggio si articoli, si costituisca, s’incarni nell’atto diegetico. Mi pare, insomma, che tutti gli sforzi compiuti dai teorici per mettere a frutto negli studi letterari il concetto di natura differenziale del segno contenuto nel Corso di linguistica generale fossero già stati ampiamente previsti, benché non pervenuti a un’elaborazione compiuta251, dallo stesso Saussure, che, interrogandosi sulla natura del concetto di personaggio tra leggenda, mitologia e letteratura, si erge a una visione dell’identità libera da luoghi comuni, al cui centro viene posto il discorso e la mania trasformazionale che lo anima. Negata la possibilità di asserire una sovrapposizione puntuale tra due entità, negato il valore del singolo prodotto compiuto, sempre frutto di un’illusione referenziale che ci fa leggere il mondo sotto il segno dell’interezza, della finitudine, e negato il valore delle sue costituenti, strutturalmente non autonome e ontologicamente deboli, quello che resta è la possibilità indefinita del discorso, del senso che si costruisce nello spostamento, nella variazione, nella combinazione. Uno spessore teoretico che nasce dal fallimento di un’operazione precipuamente empirista, che non merita di restare ai margini della riflessione su Ferdinand De Saussure e che offre una lezione contro certe accensioni teoretiche che troppo si distaccano dai testi: è partendo da questi che Saussure perviene a una visione articolata e di ampia portata epistemologica. 251 Saussure, nelle Note, non dirà mai esplicitamente che il personaggio-simbolo è ciò che gli altri personaggi-simboli non sono. 77 Ho già richiamato nel primo capitolo l’accostamento proposto da Massimo Bonafin tra gli argomenti saussuriani esposti nelle Note e l’approccio politetico alle tassonomie elaborato da Needham. Riportando il tutto al caso esemplare della leggenda tristaniana, diremo che l’impostazione delle Note, come quella enucleata nella teoria delle classificazione politetiche, oltrepassa la preoccupazione di una corrispondenza rigida tra Tristano e Teseo, secondo la quale i due termini debbano condividere un certo numero di qualità precise e riconoscibili. Si dirà invece che i due termini proposti condividano, nei loro contorni sfumati, una certa aria di famiglia e che, tra la loro assoluta estraneità e la loro mai pienamente calcolabile coincidenza, si dipana una scala di sfumature al centro di un discorso in cui a contare non sono gli estremi dell’essere e del non essere, ma il sempre ibrido essere tra. Come ci ha indicato Saussure, quello che conta è che «la base non cambia» e che ci troviamo di fronte a una rete di relazioni in cui l’unica certezza è una materia, un «aliment continuel», materia umbratile e quasi amorfa, che il pensiero ordina, digerisce, comanda. Bonafin prende in prestito da Wittgenstein un concetto, estremamente preciso nel suo essere pronunciatore di vaghezza, che bene illustra una simile visione: quello di «immagine sfocata»252. Spesso, annota Wittgenstein, non è possibile sostituire un’immagine sfocata con una nitida, perché è della prima che abbiamo bisogno. Tristano non è Teseo, ma questo non impedisce di elaborare, a partire dal pensiero di un loro rapporto, qualcosa che non è più né Tristano né Teseo, ma un terzo che non è mai veramente concesso di mettere a fuoco. In quella che definirei una critica saussuriana del concetto di fonte, mi sembra che Saussure abbia anticipato di decenni la decostruzione di rigide acquisizioni del pensiero occidentale. Michel Foucault si è interrogato sulla questione dell’origine e delle somiglianze, delle regolarità. Ha accusato il pensiero filosofico occidentale di essere inficiato dal vizio della ricerca di un’origine, di essere assillato dallo scrupolo di «risalire all’infinito la linea delle antecedenze»253, con una sorta di avversione verso il pensiero della differenza, «degli scarti e delle dispersioni»254: in una ferrea attenzione a preservare la forma dell’identico, si sono trascurati, dice, le potenzialità dei «sistemi di dispersione»255. Bisogna, annota Foucault, opporsi a tutta una serie di nozioni che alimentano il tema della continuità, tra cui quella di tradizione: 252 Ludwig WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1967, p. 49, citato in BONAFIN, Guerrieri al simposio, p. 211. 253 Michel FOUCAULT, Archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura (1969), Milano, Rizzoli, 2009, p. 17. 254 Ivi, p. 18. 255 Ivi, p. 52. 78 Essa tende a dare uno statuto temporale particolare a un complesso di fenomeni al tempo stesso successivi e identici (o almeno analoghi); permette di ripensare la dispersione della storia sotto la specie dell’identità; autorizza a limitare la differenza tipica di ogni inizio per risalire senza soluzione di continuità all’indefinita attribuzione dell’origine256. Foucault condanna la propensione a voler rintracciare, dietro ogni inizio, un inizio più vero e primitivo, un’origine «così segreta e così originaria che non la si può mai afferrare in se stessa»257, che ci riconduce «verso un punto sempre più remoto, mai presente in nessuna storia»: Non bisogna rimandare il discorso alla lontana presenza dell’origine; bisogna affrontarlo nel meccanismo della sua istanza. La sua riflessione attacca la cieca fiducia nel già detto, secondo cui dietro ogni discorso ci sarebbe un «discorso senza corpo», un testo in realtà mai pronunciato, «una scrittura che non è altro che il negativo della propria immagine»258, laddove il problema non dovrebbe essere quello della tradizione, della traccia, del fondamento, ma «quello delle trasformazioni che valgono come fondamento e rinnovamento delle tradizioni»259. Quando si tratterà di calare le sue riflessioni relative all’ordine del discorso nell’ambito che qui principalmente indaghiamo, quello letterario, Foucault dirà che l’opera «non si può considerare né come un’unità immediata, né come un’unità certa, né come un’unità omogenea»260, parlerà del libro come «nodo di un reticolo», dai confini mai rigorosamente limitati, ma immerso «in un sistema di rimandi ad altri libri, ad altri testi, ad altre frasi»261, definirà l’autore come un soggetto collocato in una «situazione transdiscorsiva»262, animata dalla «possibilità indefinita del discorso»263. L’enunciato, nel momento stesso in cui sorge nella sua materialità, entra in un reticolo, si colloca in un campo di utilizzazione, si offre a possibili trasferimenti e modifiche, si integra in operazioni e strategie in cui la sua identità si conserva o scompare264. Siamo portati a classificare idee, concetti, fatti, trame come «vecchio o nuovo, inedito o ripetuto»265, ragionando in termini di somiglianze, frugando «per ritrovare attraverso la storia 256 Ivi, p. 29. Ivi, p. 34. 258 Ibid. 259 Ivi, p. 8. 260 Ivi, p. 34. 261 Ivi, p. 32. 262 FOUCAULT, «Che cos’è un autore?», p. 14. 263 Ivi, p. 15. 264 FOUCAULT, Archeologia del sapere, p. 141. 257 79 il complesso delle anticipazioni o degli echi»266, per provare la regolarità degli enunciati. Ma che un enunciato sia portatore di una regolarità è per Foucault un fatto scontato; quello cui bisogna guardare è la «performance verbale», la funzione enunciativa che definisce l’esistenza puntuale di quell’enunciato (due performances possono coincidere dal punto di vista della grammatica e della logica, ma essere «enunciativamente differenti»267). Trovo proficuo, tenendo presenti le evidenti distanze tra la prospettiva semiologica di Saussure e quella archeologica di Foucault, utilizzare gli argomenti foucaultiani per approfondire e illuminare quanto nelle Note vi è di abbozzato, incompleto, ma teoreticamente ricco (e, intellettualmente, sofferto). La posizione di Foucault approda a un punto fermo, che consiste nel sostenere che di là dalle regolarità, bisogna indugiare sulla singolarità dell’evento, circoscrivere i limiti dell’oggetto inseguito: Non si cerca affatto sotto il discorso manifesto l’impercettibile brusio di un altro discorso; si deve mostrare per quali ragioni non poteva essere diverso da quello che era, in che senso sia esclusivo di ogni altro, come assuma, in mezzo agli altri e in rapporto ad essi, una posizione che non potrebbe occupare nessun altro. Il problema tipico di questa analisi si potrebbe formulare così: qual è dunque quella esistenza singolare che viene alla luce in quello che si dice, e non mai altrove?268 Certo, Foucault parla di classificazioni di enunciazioni, di formazioni discorsive, Saussure di leggende, mito e personaggi; ma quello cui propongo di guardare, nel tentativo di avvalorare la profondità e la complessità del pensiero dello studioso ginevrino, è il modo in cui i due affrontano la dialettica di regolare e singolare. Saussure, tenace inseguitore delle regolarità, delle somiglianze stabili lungo lo sviluppo diacronico della leggenda, si trova ad ammettere, come Foucault, che l’unico oggetto di studio dato al ricercatore è quella condensazione di tratti, unica e puntuale, della quale non si può mai dire che coincida con una combinazione altra, a cui può magari vagamente assomigliare, ma per la quale, fosse anche cambiato solo uno dei tratti che la costituiscono, bisognerà parlare di una nuova entità. Ammesso lo scacco di un pensiero dell’identità, Saussure sembrerebbe invitarci, pragmaticamente, a considerare l’unicità dell’evento-personaggio: il termine performance non compare nelle Note, ma non vi suonerebbe per nulla fuori luogo. Eppure, ben lontani da tanto ottimismo epistemologico, che si appoggia in Foucault su una storicizzazione del significato (è possibile, nell’analisi storicoarcheologica dei discorsi, cogliere il significato), gli appunti saussuriani mettono il lettore in 265 Ivi, p. 186. Ivi, p. 190. 267 Ivi, p. 192. 268 Ivi, p. 39. 266 80 guardia: è vero, il solo oggetto dato è quell’assemblaggio di tratti d’essere che prende la forma di un personaggio e che, benché carico di memoria, è unico e irripetibile, ma quest’assemblaggio rappresenta un’identità illusoria, pronta a esplodere per lasciar spazio a un nuovo arrivato: può veramente essere oggetto di una ricerca epistemologicamente valida? Sembra che Saussure non riesca a trovare una terza via alternativa all’impossibile rincorsa alle somiglianze e all’impossibile fiducia in un evento puntale. Preso atto della non validità delle sovrapposizioni rigide, constatata la vacuità del guizzo del qui e ora, l’insegnamento delle Note è che, oltre la ricerca dell’identico, oltre le interpretazioni esatte e l’approdo a un mai dato primum, quello che è concesso è di descrivere un sistema, labile, provvisorio, mobile, sfocato. Viene qui meno la fiducia nella storia e nella possibilità di guardare a essa per reperire dei significati compiutamente elaborati, e Saussure, pur parlando di leggende e di mito, si ritrova a fare i conti con la parabola dell’essere che rincorre vorticosamente – e vacuamente – un senso. La riflessione di Saussure non trova un porto. Tristano – è questa la sofferta certezza a cui approdano gli appunti saussuriani – non è Teseo, ma un microcosmo ineffabilmente vacuo. In quell’idea di personaggio articolato attorno a un vuoto, in quell’immagine sfocata riluttante a ogni definizione, Saussure, oltre le sue intenzioni e oltre il suo fallimento, ci invita a percorrere la strada di un Tristano disseminato, mai veramente messo a fuoco, ma riverberante nel movimento della sua vacuità. 81 III Ostensioni e latenze dell’identità nelle Folies Tristan 1. L’oltre del testo, l’oltre del personaggio Dopo la panoramica teoretica sul personaggio e dopo la parentesi saussuriana, si tratta ora di interrogarsi sulla visione del personaggio offerta dai primi testi che ci hanno tramandato il Roman de Tristan, sui modi di costruzione dell’identità qui messi in atto, sul funzionamento dei modelli identitari, sul ruolo che la rappresentazione dell’identità e la riflessione su di essa rivestono nell’articolazione dei testi. La scelta di partire, nell’analisi, dalle Folies Tristan mi pare richieda una qualche giustificazione. Negli studi dedicati al Tristano è inconsueto, fosse solo per ragioni cronologiche269, che i testi delle Folies assolvano a una funzione proemiale. A dire il vero, si potrebbe asserire che, negli studi tristaniani in genere, i due poemetti che ritraggono Tristano travestito da folle per raggiungere in incognito Isotta alla corte di Tintagel sono considerati alquanto marginalmente rispetto ai capolavori di Thomas e Béroul, e sono anzi spesso utilizzati come strumento d’interpretazione dei romanzi maggiori, delle cui ascendenze sui due brevi testi si è molto discusso, senza peraltro pervenire a una soluzione definitiva. La Folie di Berna e la Folie di Oxford sono state ricondotte la prima al modello di Béroul, la seconda a quello di Thomas, secondo la consueta tendenza a estremizzare la differenza delle due anime della materia tristaniana, quella della version commune e quella della version courtoise270. Comunque stiano le cose, il punto di vista qui adottato, punto di vista dell’interpretazione e non della 269 La Folie di Oxford ci è giunta attraverso un unico manoscritto: Oxford, Bodleian Library, Douce d. 6, ff. 12d-19a. Il manoscritto contiene anche il più lungo frammento del romanzo di Thomas, che precede immediatamente il testo della Folie. Anche la Folie di Berna è tradita da un unico manoscritto: Berne, Bürgerbibliothek, n. 354, ff. 151d-156d (ma un frammento di 61 versi compare nel manoscritto Cambridge, Fitzwilliam Museum, n. 302). Le Folies potrebbero essere datate anche agli inizi del XIII secolo, cioè circa un trentennio dopo la supposta data di composizione del romanzo di Thomas (1170-1173). Sulla questione dell’anteriorità del testo di Oxford o di Berna, si rimanda alla Notice curata da Mireille Demaules nel volume Pléiade Tristan et Iseut. Les premières versions européennes (pp. 1310-1323). Da questo volume sono tratte, come per gli altri testi, le citazioni. L’edizione dei due testi delle Folies, d’ora in avanti indicati con Fo e Fb, è curata dalla stessa Demaules (ivi, pp. 217-260). 270 Una confutazione difficilmente superabile di questa posizione mi pare si trovi in Cesare SEGRE, «Preistoria delle Folies Tristan», in BRUSEGAN, Le Roman de Tristan. Le maschere di Béroul, pp. 165-180, in cui lo studioso mostra il fitto intreccio del modello di Thomas e di quello di Béroul nei due testi (soprattutto in Fo). ricostruzione, propone una prospettiva diversa, prospettiva fondata su una sorta di primato dei testi delle Folies. In Fo e Fb Tristano, nei dialoghi con Marco, con Brangania e, soprattutto, con Isotta, che dovrà convincere della vera identità del folle, ripercorre metadiegeticamente il suo romanzo, con un passaggio, quindi, dalla scrittura della rappresentazione alla rappresentazione della scrittura, in un intricato gioco di memoria e racconto che apre agevolmente la strada alla riflessione teorica sulle modalità diegetiche della letteratura medievale. Huchet ha colto nei testi delle Folies una condensazione del tratto precipuo del romanzo del medioevo, quel suo presentarsi come translatio, come rinvio a un’origine mai veramente definita271, un essere, in un gioco di riflessi, scrittura della (nella) scrittura. I testi delle Folies rappresenterebbero il vuoto di cui pare marchiata la leggenda tristaniana, farebbero implodere quell’irrecuperabile primo testo che ne ha posto l’origine, e Tristano che si fa autore di se stesso chiamerebbe in causa la negazione del primo autore, in un invito a considerare le origini multiple della sua storia: «à l’origine, la dissémination de l’origine»272. La riflessione cui ci stimolano le Folies non investe però esclusivamente lo statuto del racconto, la costituzione del romanzo, come brillantemente messo in luce da Huchet. Mi sembra evidente che, se la struttura delle Folies offre l’immagine di un mito che vive di una parola autogenerantesi, di una scrittura smarrita nell’assenza della prima parola che l’ha posta e costantemente implodente in questo vuoto, ciò avvenga per il tramite di una relazione stretta tra rappresentazione della scrittura e rappresentazione dell’identità. La scrittura implode perché il personaggio implode, la scrittura riflette su se stessa perché il personaggio avvia una riflessione sulla propria identità, anche, come vedremo, oltre i processi immediatamente leggibili nei testi. La proliferazione diegetica cui si assiste nei due poemetti è strettamente e ambiguamente legata alla proliferazione identitaria che il dispositivo della follia mette in moto, laddove nella follia bisognerà riconoscere non un semplice travestimento, esteriore e vertente esclusivamente sul personaggio che lo attua, né un mero espediente narrativo, ma, appunto, un dispositivo273 atto alla disseminazione sia identitaria sia diegetica: cercheremo 271 Jean-Charles HUCHET, «Le mythe du Tristan primitif et les Folies Tristan», in Tristan et Iseut, mythe européen et mondial, Actes du Colloque du Centre d’Etudes médiévales de l’Université de Picardie, Amiens, 1 , 11 et 12 janvier 1986, publiés par le soins de Danielle BUSCHINGER, Göppingen, Kümmerle Verlag, 1987, pp. 139-150. 272 Ivi, p. 148. 273 Sono consapevole dell’ambiguità di questo termine, dovuta ai molteplici usi che se ne fanno nella teoria letteraria. ui lo utilizzo semplicemente per indicare un’organizzazione strategica del testo. Per un punto della questione si veda Roberto TALAMO, «Dispositivi e critica letteraria», Enthymema, II, 2010, pp. 247-255. Sull’suo 84 d’illustrare come il travestimento del personaggio diventi un travestimento del testo. Dunque, se Huchet ha ragione a insistere su quest’accesso alla riflessività della letteratura medievale, caratteristica mirabilmente enucleata nelle Folies, mi preme qui mettere in evidenza un aspetto che reputo complementare a questo. Lungi dal chiudersi in una riflessione autoreferenziale sulle proprie dinamiche diegetiche, il tessuto delle Folies opera su un’elaborazione densa e problematica dell’identità finzionale, in quello che è, a mio avviso, un esempio adatto a smentire l’idea di personaggio medievale come o mero riproduttore di un modello noto o funzione asservita all’intreccio. La diffrazione cui il travestimento sottopone, contemporaneamente, sia l’identità che la diegesi, ci porterà infatti, da un lato, a mostrare quale articolato movimento, lontano da un’assimilazione passiva, coinvolga i modelli identitari presenti nei testi, e, dall’altro, superando una lettura che voglia vedere nei testi delle Folies un gioco comico che mira semplicemente al proliferare delle avventure dei due amanti, a un ampliamento spropositato del bacino dell’intreccio274, come Fb e Fo oltrepassino la rappresentazione del motivo del marito beffato e la parabola del riconoscimento. Oltre l’evidente e superficiale fare, il personaggio si rivela nel suo essere; oltre la logica dell’intreccio lineare, oltre la logica del fine da raggiungere, il personaggio attraversa intricati labirinti identitari. È per via di questa loro articolata rappresentazione d’identità e narrazione che credo che i testi delle Folies possano costituire un buon punto di partenza per uno studio del personaggio nella materia tristaniana. Le Folies, nel loro binomio di alterazione dell’identità e gioco della scrittura, si prestano in maniera particolarmente proficua a un’analisi dei movimenti identitari, essendo la rappresentazione del soggetto fittamente intrecciata all’organizzazione formale del racconto, all’atto diegetico, alla scrittura. Ne deriva la visione di una dislocazione che investe lo statuto dell’io, di un soggetto spostato rispetto a un centro mai veramente localizzato. Prima di addentrarci nelle analisi, sono necessarie alcune considerazioni preliminari, innanzitutto sul particolare statuto della follia in Fb e Fo. Al contrario di quanto accadrà con la rielaborazione in prosa del XIII secolo della leggenda tristaniana, in cui il protagonista, alla stregua d’illustri colleghi, sarà affetto da una vera follia d’amore275, qui la follia di Tristano è del termine si rimanda inoltre a Giovanni BOTTIROLI, «L’inganno del cortile centrale. Interpretazione della Phèdre come testo diviso», Ermeneutica letteraria, 8, 2012, pp. 53-74, in particolare al punto 5. 274 La «schidionata potenzialmente infinita» di cui parla Cesare Segre, che consente un’apertura infinita dell’universo diegetico, una costante disponibilità di esso ad accogliere nuove avventure, un procrastinare la morte dei due amanti (Cfr. Cesare SEGRE, «Personaggi, analisi del racconto e comicità nel Tristano», in Los caminos del personaje en la narrativa medieval, a cura di P. Lorenzo GRADIN, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2006). 275 Sul rapporto tra le Folies e il Tristan en prose», si vedano, tra gli altri, Jean-Charles PAYEN, «Tristan, 85 denaturata dal travestimento, dalla finzione. In quest’apparente depauperamento, la follia acquista invece le potenzialità semantiche caratteristiche di una metafora, dilatando i confini del testo e del personaggio276. La follia è qui un amplificatore d’identità, e in quest’amplificazione il testo rivela le strategie, i conflitti che lo attraversano. Più che un puro espediente narrativo, ha annotato Salvatore Battaglia, è una «metafora dell’esistenza»: Nella sua dimora patologica convivono frammenti di menzogna e verità, motivi di sincerità e di simulazione, il ricordo e il presagio, e soprattutto il senso della vita che confina con l’aldilà, col regno dell’inconoscibile. Nella follia di Tristano si utilizzano questi motivi per creare un’atmosfera allusiva, ambigua, misteriosamente poetica277. L’ambiguità e l’allusività indicate da Battaglia sono due tratti primari di questi testi, tratti di cui ogni tentativo d’interpretazione non può non tener conto. Jean-Marie Fritz, nel suo studio dedicato alla follia medievale278, si richiama alla relazione che Foucault sostiene esista, alla fine del medioevo, tra la follia e l’elemento umorale, in particolare il mare: stipati in una nave, i folli erano abbandonati alla purificazione dell’acqua e all’incertezza del destino. Fritz utilizza la rappresentazione della follia in Fb e Fo per mostrare come, al contrario, in pieno medioevo la situazione fosse diversa, essendo evidente il legame positivo tra Tristano e il mare, a cui largo spazio è dedicato proprio nelle Folies. Oltre che il discutibile appaiamento di un discorso storico e di uno letterario, di un’utilizzazione di un testo poetico come documento, quello che trovo poco convincente nel discorso di Fritz è il non considerare come ogni aspetto nelle Folies sia filtrato, distanziato e complicato dalla finzione di cui la follia è oggetto, tanto da mettere in crisi qualunque idea di rappresentazione univocamente focalizzata su un referente. La finzione della follia, la follia come «artificio retorico», secondo la felice annotazione di Anne Barthelot279, intacca ogni l’amans-amens et le masque dans les Folies», in La légende de Tristan au Moyen Age, Actes du colloque des 16 et 17 janvier 1982 publiés par les soins de Danielle BUSCHINGER, Göppingen, Kümmerle Verlag, 1982, pp. 6168; Dominique DEMARTINI, «Le discours amoureux dans le Tristan en prose. Miroir et mirage du je», in L’individu au Moyen Age, pp. 145-165; Id., «Le Tristan en prose et le mémoire des Folies», in Des Tristan en vers au Tristan en prose. Hommage à Emmanuèle Baumgartner, Textes réunis avec Laurence HARF-LANCNER Laurence MATHEY-MAILLE - Bénédicte MILLAND-BOVE - Michelle SZKILNIK, Paris, Champion, 2009, pp. 255271. 276 Jean-Charles Payen nota come il romanzo in prosa risulti, rispetto alle Folies, impoverito dalla perdita dell’ambiguità tra follia finta e follia autentica (PAYEN, «Tristan, l’amans-amens et le masque dans les Folies», p. 66). 277 Salvatore BATTAGLIA, «La nave dei folli», in Id., Mitografia del personaggio, Napoli, Liguori Editore, 1991, pp. 137-157, p. 142. 278 Jean-Marie FRITZ, Le discours du fou au Moyen Age. XII-XIIIème siècles, Paris, PUF, 1992. 279 Anne BERTHELOT, «La Folie Tristan», in Danielle BUSCHINGER - Wolfgang SPIEWOK, a cura di, Tristan et Yseut. Un thème éternel dans la culture mondiale, 30ème Congrès du Cercle de travail de la littérature allemande au Moyen Age, Greifswald (Deutschland), Mont-Saint-Michel, 27 Septembre - 1 Octobre 1995, Greifswal, Reineke-Verl, 1996, pp. 27-33, p. 28. 86 aspetto del testo, fino a tangere la stessa forma fittizia della follia, fino a renderne polimorfo lo statuto, scisso tra verità e finzione: da un lato, la finta follia richiama la vera follia d’amore, la spersonalizzazione cui la potenza del desiderio piega l’individuo e, dall’altro, la finta follia di Tristano richiama la vera follia degli altri. La strategia che il testo mette in atto nel connubio di follia e finzione genera una poetica del decentramento, della fuga verso il contiguo, il somigliante, che sfiora talvolta il contrario; l’ambiguità identitaria creata dal travestimento del protagonista – ma vedremo come sarebbe più opportuno parlare di metamorfosi – adultera e disperde ogni segno. Qualche considerazione preliminare merita, inoltre, la metadiegesi, procedimento narrativo che informa i due testi. Con la tecnica del racconto nel racconto, «l’attenzione si sposta dal fatto al modo di fare»280, ci troviamo davanti a una struttura che, oltre a significare al livello della storia raccontata, significa anche al livello «del codice narrativo, della natura rappresentata, quindi artificiale ed interpretativa, di ogni racconto»281. Il linguaggio e la scrittura diventano presenze che il testo denuncia e, per Dällenbach, è come se il racconto dichiarasse: «je suis littérature»282. La metadiegesi implica che nel rapporto del lettore con il personaggio emerga un diaframma che ostacola la possibilità di un’identificazione e, nello stesso tempo, il lettore percepisce che lo stesso diaframma si frappone tra il personaggio e ciò che di lui si racconta283. La riflessività della letteratura apre al suo carattere di gioco metamorfizzante. Lotman, in alcune pagine della Struttura del testo poetico284, ha spiegato come l’effetto di gioco nel testo letterario non sia semplicemente riconducibile alla compresenza, magari contraddittoria, di due diversi significati, ma nella coscienza della costante possibilità di altri significati che esulino da quello immediatamente presente e comprensibile. Richiamandosi a quelle pagine, 280 Mario PERNIOLA, Il metaromanzo, Milano, Silva, 1966, p. 57. Giovanni B. TOMASSINI, Il racconto nel racconto. Analisi teorica dei procedimenti d’inserzione narrativa, Roma, Bulzoni, 1990, p. 22. 282 Lucien DÄLLENBACH, Le récit spéculaire. Essai sur la mise en abîme, Paris, Seuil, 1977, p. 79. 283 Riguardo alla metadiegesi nelle Folies, si può vedere, in particolare, Cesare SEGRE, «Un procedimento nella narrativa medievale: l’enucleazione», in Italica et Romanica, Tübingen, M. Niemeyer, 1997, v. III, pp. 361-7; Huguette LEGROS, « uand Tristan réécrit son histoire…», in Huguette LEGROS - Denis HÜE - Joël GRISWARD - Didier LECHAT, a cura di, Remenbrances et resveries. Hommage à Jean Batany, Orléans, Editions Paradigme, 2006, pp. 29-40. Sulla metadiegesi nella letteratura medievale, si veda, inoltre, La digression dans la littérature et l’art du Moyen Age, Etudes réunies par Chantal CANNOCHIE-BOURGNE, Senefiance, 51, 2005. 284 Jurij M. LOTMAN, «I molti piani del testo artistico», in Id., La struttura del testo poetico, Milano, Mursia, 1972, pp. 77-90. Scrive Lotman: «L’arte presenta una serie di tratti, che la apparentano con i modelli ludici. La percezione (e la creazione) di un’opera d’arte richiede un particolare comportamento, quello artistico, che ha una serie di tratti in comune con quello ludico»; «La determinazione rigorosamente monosemantica del significato del modello artistico è possibile solo nell’ordine della sua transcodificazione nella lingua dei sistemi di simulazione non artistici. Il modello artistico è sempre più largo e più vivo della sua interpretazione, e l’interpretazione è sempre possibile come approssimazione» (ivi, p. 85 e p. 88). 281 87 Philippe Daros ha illustrato l’effetto ludico della metatestualità, la quale agisce in due sensi (piège e jeu) apparentemente contraddittori. Da un lato, si ha un ripiegamento del testo su se stesso, con un effetto di rinvio autoreferenziale, chiuso e sterile, dall’altro, il processo che lega gli elementi riflessi e quelli riflettenti impedisce una cristallizzazione degli uni come degli altri, li dinamizza costantemente nell’autopresentazione ludica del testo, sempre sottoposto a un gioco di velamento e disvelamento285. Il testo, nella sua riflessività, nel rimando a se stesso e all’altro, sottopone ogni suo elemento a una vibrazione adulterante, in cui un dato non è mai fissato in un’entità chiusa, ma si apre ai suoi possibili altri. Vedremo come nelle Folies, in cui il gioco testuale si coniuga con un gioco identitario, questo tratto poetico assuma uno spessore antropologico286. 2. Dall’eroe dai mille volti all’eroe senza volto L’enunciazione di Tristano, la follia come artificio retorico, traccia, attraverso il racconto nel racconto, la figura di un personaggio da intendersi come processualità, come sintassi di tratti identitari che mai trovano una stabilizzazione. Il meccanismo della rimemorazione attuato dal protagonista travestito da folle consente il dipanarsi, nell’arco di meno di 600 versi per il manoscritto di Berna e di meno di 1000 per quello di Oxford, delle varie prospettive identitarie attribuibili al personaggio Tristano, in un meccanismo fluido fatto di spostamenti, di correzioni, di aggiustamenti, in cui il personaggio si definisce dicendosi, essendo ora eroe, ora trickster, ora cavaliere cortese, ora melanconico innamorato, ma non coincidendo in realtà mai con nessuno di questi volti, che la cornice istituita dal travestimento da folle e dalla metadiegesi distanzia costantemente rispetto al soggetto che li richiama. L’inizio di Fo insiste ampiamente sul languore di Tristano: 285 «Le moirage provoqué par la diffraction paradigmatique de l’œuvre sur elle-même instaure précisément un jeu d’altération de son identité en la métamorphosant en espace multidimensionnel et… transitionnel. A proprement parler, ce moirage lui confère son volume de «volume». La réflexivité relève alors du ‘piège’ et du ‘jeu’. Du piège parce qu’elle semble emprisonner l’œuvre dans des effets de renvois obtus et itératif, du jeu parce que ce piège, au fond, n’emprisonne rien véritablement puisque ni les éléments réflecteurs, ni les éléments réfléchis ne s’épuisent les uns les autres dans l’imparfaite clôture de leurs renvois. L’auto-présentation – lacunaire, factice, multiple et continue – de l’œuvre par elle-même ouvre au jeu infini des interprétations, infini puisqu’elle souligne tout autant qu’elle occulte et, qui plus est, masque ce qu’elle montre. Au total, la réflexivité double le mécanisme qui est celui du littéraire même. En ce sens, elle fonctionnerait comme monstration de la composante ludique – ‘le jeu nécessairement déréglé’ – du littéraire» (Philippe DAROS, «De la réflexivité en général et de la mise en abîme (comme procédé) en particulier», in La métatextualité, Textes réunis et présentés par Alain TUSSEL, Narratologie, 3, 2000, pp. 89-110, pp. 99-100). 286 Del resto, lo stesso Daros parla di una logica, oltre che poetica, antropologica ed epistemologica che deve governare il meccanismo illustrato (ivi, p. 101). 88 Tristan surjurne en sun païs Dolent, murnes, tristes, pensifs. Purpenset soi ke faire pot, Kar acun cunfort lu estot. Confort lu estot de guarir, U, si ço nun, melz volt murir. Melz volt murir a une faiz Ke tut dis estre si destraiz, E melz volt une faiz murir Ke tut tens en peine languir. Mort est assez ki en dolur vit; Penser cunfunt hume e ocist. Peine, dolur, penser, ahan Tu ensement cunfunt Tristan287. Il testo presenta il personaggio secondo quell’etichetta che Meletinskij chiamava dell’«uomo interiore»288, quello ritratto da Thomas nelle lunghe tirate in cui Tristano lamenta la lontananza dell’amata. L’eroe del mito e dell’epos è stato messo a nudo dal divario che in lui si è spalancato tra essere per il mondo ed essere per se stesso, tra il sociocentrismo del mito e il richiamo della sfera privata: Prima di bere il fatale filtro amoroso Tristano era un eroe fiabesco o un modello epico, vincitore di mostri, difensore del paese, non voleva pagare il tributo ai nemici, era il vassallo ideale e il degno erede di suo zio, il re Marco. Nella parte fondamentale, specificamente romanzesca di quest’opera, Tristano, schiavo del suo amore, compie gesta eroiche solo per la salvezza propria e di Isotta, per la difesa del proprio rapporto illegale dalle spie e dai delatori, e dalla persecuzione da parte del re Marco, legittimo marito di Isotta. Per gli stessi motivi Tristano arriva addirittura a organizzare stratagemmi di tipo novellistico289. L’appunto di Meletinskij coglie i volti, i tratti di Tristano: eroe mitico-fiabesco-epico, cavaliere, uomo interiore, trickster (il Tristano novellistico). Meletinskij separa questi volti secondo un prima e un dopo, secondo una logica temporale che accorda un ruolo strategico all’assunzione del filtro: il personaggio è il risultato, rigidamente definito secondo le sue qualità, dell’evoluzione degli eventi. Tristano, ingerita la bevanda magica, avrebbe definitivamente abbandonato il volto dell’eroe per rintanarsi nella più ristretta sfera delle sue pene d’amore. Il testo di Berna sembra convalidare questa posizione: 287 Fo, vv. 1-14 (Tristano soggiorna nel suo paese, dolente, mesto, triste, pensoso. Medita che cosa può fare, perché ha bisogno di qualche conforto. Ha bisogno del conforto di guarire, o, altrimenti, preferisce morire. Preferisce morire un’unica volta anziché essere sempre così tormentato, preferisce morire una sola volta anziché languire ognora in pena. È ben morto chi vive nel dolore; il pensiero abbatte e uccide l’uomo. Pena, dolore, pensiero, angoscia tutti insieme abbattono Tristano). 288 Eleazar M. MELETINSKIJ, Introduzione alla poetica storica dell’epos e del romanzo, Bologna, il Mulino, 1993, p. 236. 289 Ivi, p. 237. 89 Sovant sopire et mout se dialt De ce c’o lui nen a Ysiaut. Ysiaut a il, mais nen a mie Celi qui primes fu s’amie. Porpanse soi qu’il porra faire, Con la porra a soi atraire, Car n’ose aler en sa contree. «Ha! Deus, fait il, quel destinee! C’ai-je sofert en tel amor! Onques de li ne fis clamor Ne ne me plains de ma destrece. Por qoi m’assaut? por quoi me blece?290 Tristano chiuderà il lamento con una formula che lo identificherà spesso nella sua infelicità: «Las, fait il, ahi! con je sui / Malaürous et con mar fui!»291. Ma, se è vero che in Fo la sola preoccupazione del testo sembra quella di offrire al lettore-uditore un’immagine del Tristano triste e melanconico, «uomo interiore» che si lacera nel proprio mal d’amore (constatazione che farebbe sentire autorizzati a collocare il testo sulla linea di Thomas), Fb offre una rappresentazione in cui Isotta e il mal d’amore non sembrano costituire, stando alla voce del narratore, le sole preoccupazioni di Tristano: Mout est Tristanz mellez a cort, Ne set o aille ne ou tort. …………………………….. Formant redoute Marc lo roi, Que rois Mars formant lou menace Si viaut bien que Tristanz lou sache: Se de lui puet avoir saisine, Mout li vaudra po san n’orine Que par lui ne reçoive mort: De sa fame li a fait tort292. Il testo continua fino al verso 46 con una descrizione della situazione di grave conflitto tra Tristano e la corte del re di Cornovaglia. Marco, il cui onore Tristano ha gravemente offeso («De sa fame li a fait tort»), è deciso a mettere a morte il nipote e chiede ai baroni di rintracciarlo, dicendo che sarebbe molto riconoscente a chi glielo riconsegnasse («Quil me 290 Fb, vv. 47-58 (Spesso sospira e si tormenta per non avere Isotta con sé. Egli ha Isotta, ma non è quella che per prima fu sua amica. Pensa a che cosa può fare, come potrà farla venire a sé, poiché non osa andare nel paese. «Ah, Dio», dice, «qual destino! Che ho sofferto in quest’amore! Non me ne lamentai mai, non mi lamentai mai della mia angoscia. Perché mi assale? Perché mi ferisce?). 291 Fb, vv. 64-65 («Ahimè», dice, «come sono sventurato e come nacqui al dolore»). 292 Fb, vv. 1-9 (Tristano è in grave conflitto con la corte, non sa dove andare né dove rifugiarsi […] Teme molto il re Marco, perché re marco molto lo minaccia e vuole che Tristano lo sappia: se può impossessarsi di lui, senno e stirpe gli varranno poco perché non riceva morte da lui. Lo ha oltraggiato nella moglie). 90 randroit, gré l’an savroie / Et tot jorz plus chier l’an avroie»293). Quando Tristano viene a sapere dal siniscalco Dinas dell’odio di Marco e della sua richiesta ai baroni, il testo utilizza un distico formulare per sottolineare il rammarico del protagonista («Quant Tristanz oï la novele / Sachiez ne li fu mie bele»294): scatta in lui il richiamo di una mancanza, forse meno evidente rispetto a quella relativa all’oggetto d’amore, ma comunque una mancanza ulteriore che il testo mostra con evidenza. Parrebbe insomma che Fb indugi, accanto al noto malessere d’amore, sul malessere sociale di Tristano: bisognerà aspettare 47 versi perché compaia un riferimento alla pena d’amore per Isotta (Sovant sopire et mout se dialt / De ce c’o lui nen a Ysiaut», v. 4 ). Si potrebbe obiettare che l’ampio affresco del conflitto tra Tristano e la corte sia previsto per far risaltare strategicamente l’impresa del travestimento, per valorizzare l’audacia del protagonista che, pur rischiando la morte, sceglie di recarsi a Tintagel per unirsi all’amata, ma si trascurerebbe così il fatto che Fb colloca la descrizione del conflitto sociale, al contrario di Fo, prima di quella del malessere amoroso e privato, e che, inoltre, dedica alla prima così tanto spazio, mentre Fo soltanto sei versi e soltanto dopo oltre centocinquanta versi dall’inizio: Prueisse ne lu pot valer, Sen ne cuintise ne saver, Kar Marce li rois, so set il ben, Le het sur trestute ren, E si il vif prendre le poeit, Il set ben ke il le ocireit295. Sarà proprio dopo questa breve descrizione della sua esclusione sociale che Tristano deciderà di fingersi folle («feindre mei fol e faire folie»296). In Fo, il riferimento al dissidio con Marco e la corte, che compare brevemente dopo l’ampia panoramica sui tormenti d’amore e dopo che il protagonista è già approdato in Inghilterra, si presenterebbe dunque come un mero ostacolo al congiungimento con l’amata. Diversa invece è la caratterizzazione del protagonista offerta dal testo di Berna, dove il tratto dell’afflizione amorosa, della pena privata sembra convivere con l’altro Tristano, quello che per Meletinskij era il Tristano prefiltro, preoccupato del suo ruolo nella comunità da cui è stato allontanato. Potremmo così già intravedere una prospettiva un po’ più intricata rispetto a quella dell’unilaterale ossessione per 293 Fb, vv. 29-30 (Sarei grato a chi me lo consegnasse, e lo avrei sempre più caro). Fb, vv. 43-44 (Quando Tristano udì la notizia, non gli fu, sappiatelo, affatto gradita). 295 Fo, vv. 161-166 (Non gli può valere prodezza, senno, né astuzia né sapere; perché il re Marco, lo sa bene, l’odia sopra ogni cosa, e se potesse prenderlo vivo, sa bene che l’ucciderebbe). 296 Fo, vv. 180-181 (Fingermi folle, fare follia). 294 91 l’amata, che farebbe leggere l’intera storia come una ruse orientata al raggiungimento di un fine pratico: mettersi in ascolto del modo d’essere del personaggio può far scorgere isotopie poco immediate. Una volta avviata la rimemorazione, Fb continua a giocare sull’ambiguità delle due diverse mancanze in cui si logora Tristano. Dalle prime battute del racconto nel racconto, la voce del protagonista si spende in un elogio dell’oggetto d’amore, ma questo è subito offuscato, e spodestato quasi, da un’autorappresentazione dell’eroe: Mout me gari soëf ma plaie Que je reçui en Cornuaille Qant al Morhot fis la bataille En l’ile ou fui menez a nage Por desfandre lo treüssaje Que cil devoient de la terre; A m’espee finé la guerre297. Il tratto dell’innamorato melanconico ha portato Tristano a tessere le lodi di Isotta, rievocando come curò la sua ferita dopo la grande impresa del combattimento contro il Moroldo, ma subito il ricordo cambia centro e finisce per fornire un’autocelebrazione dell’eroe. Accanto all’uomo interiore appare l’immagine dell’eroe-tipo, uccisore di mostri e salvatore di popoli assoggettati a tiranni vessatori, che pone fine a ogni male con la sua spada. Varrà la pena notare che, in questo momento della rimemorazione, non si è ancora prodotto il travestimento da fol onbraje298, il che implica due aspetti. L’enunciazione di Tristano non è ancora sotto l’effetto del flusso amplificatorio della maschera da folle, che genera una sorta di furore affabulatorio in cui si accede a una qualche iperbolizzazione dell’io che narra di sé. Inoltre, si tratta di un’operazione svincolata dall’obiettivo pratico del riconoscimento da parte d’Isotta, che sembrerebbe il fine della metadiegesi prevista dai nostri testi: qui Tristano, attraversato dal ricordo, racconta a se stesso di se stesso. È possibile cogliere in questo passaggio una falla del personaggio, preziosa per l’interprete, in cui l’uno guarda contemporaneamente a due altri da sé. Tristano sente di non essere più l’innamorato che tiene tra le sue braccia la regina, di non essere più l’eroe che salva un popolo da un mostro che pretende un tributo in carne umana – il senso di mancanza si amplifica, il desiderio si esaspera, l’identità vacilla. La strategia testuale lascia cogliere i sommovimenti dell’identità, in cui Tristano oscilla tra la privatezza del suo sentimento e 297 Fb, vv. 77-83 (Con tanta dolcezza mi guarì la ferita che ricevetti in Cornovaglia, quando diedi battaglia al Moroldo nell’isola dove fui portato per mare a combattere per il tributo che dovevano quelli della terra; con la mia spada posi fine alla guerra). 298 Fb, v. 105 (Folle malinconico). 92 l’aspirazione alla restaurazione di un’immagine mitica di sé. Il richiamo al Tristano eroe compare nella prima parte di Fo in maniera ancora più sottile che in Fb. Al contrario del testo di Berna, dove il viaggio di Tristano in mare verso la Britannia è liquidato in due versi («quant il ot passé mer, / Passez est outre lo rivage»299), quello di Oxford dedica un certo spazio alla sua rappresentazione. Tristano, per non essere riconosciuto, raggiunge a piedi la costa e qui trova una grande nave mercantile diretta in Inghilterra; chiede ai marinai che stanno per imbarcarsi se sono disposti ad accoglierlo e, accettata la sua richiesta, parte alla volta della Britannia: Entrez dunc tost, venez avant! Tristan i vent e si entre enz. El vail amunte s’i fert li venz. A grant esplait s’en vunt par le unde, Trenchant en vunt la mer parfunde. Mult unt bon vent a grant plenté, A plaisir, a lur volunté. Tut droit vers Engleterre curent, Dous nuiz e un jur i demurent; Al secund jur venent al port, A Tintagel, si droit record300. Mi pare che il passo abbia una certa valenza intertestuale. Benché nessuno dei due più importanti romanzi francesi possa dirci nulla sulla prima parte della leggenda, il testo tedesco di Eilhart von Oberg conosce bene quest’immagine di Tristano in mare alla conquista di Isotta, la fanciulla dal capello d’oro301: Tristano parte con un equipaggio di cento cavalieri che «passèrent un mois en mer sans voir autre chose que le ciel et les flots»302. Ma, se in quel caso Tristano si metteva in mare alla conquista di una donna non destinata a lui, creando uno spostamento rispetto alla parabola prevista dal monomito dell’eroe, rispetto all’eroe-tipo del mito e del folklore, qui il paradigma viene realizzato nella sua pienezza: Tristano affronta il mare alla conquista della sua principessa e sembra quasi che il testo si preoccupi di risolvere un’anomalia congenita della leggenda. Nello stesso tempo, non si può però non tenere presente che a partire alla conquista d’Isotta non è una superba figura eroica con un folto 299 Fb, vv. 125-126 (Quando ebbe attraversato il mare, passò al di là della riva). Il testo valorizza invece la lunga marcia a piedi di Tristano: «D’errer ne fine nuit et jor, / Jusq’a la mer ne prist sejor» (Fb, vv. 118-119, Non cessa di errare notte e giorno, non si ferma fino al mare). 300 Fo, vv. 84-94 («Entrate, dunque, presto, venite avanti». Tristano avanza e s’imbarca. In alto il vento batte sulla vela. Se ne vanno rapidamente per le onde, vanno solcando il profondo mare. Hanno in abbondanza vento favorevole, a loro piacere, a loro volontà. Corrono dritto verso l’Inghilterra; viaggiano due notti e un giorno; al secondo giorno giungono al porto, a Tintagel, se ben ricordo). 301 Eilhart VON OBERG, «Tristrant», in Tristan et Iseut. Les premières versions européennes, pp. 263-388, pp. 282-285. 302 Ivi, p. 283. 93 seguito e una nave su cui è stato imbarcato «en grande quantité de l’or»303, ma un anonimo popolano che ha avuto la fortuna di essere ospitato su una nave mercantile. Anche in questo caso il mito è cioè distanziato, alluso ma non assimilato dal testo: il mito è citato. Tra il personaggio e il suo paradigma si frappone un diaframma, che non permette un’univoca identificazione. Il tormento d’amore di Tristano, tormento privato, lo fa sprofondare in un’incolmabile lontananza dalla sua matrice eroica, senza che però questa sia mai veramente annullata; ne resta un’ombra, un riflesso, e lo statuto identitario del personaggio perde in definizione, si converte per il lettore-spettatore in un’immagine fluttuante. uest’immagine, ibrida tra l’eroe e l’uomo interiore, si complica ulteriormente con il travestimento, che fa emergere l’altra faccia di Tristano, quella del trickster, del burlone, dell’escogitatore di stratagemmi304. La follia è finta, certo, ma, come abbiamo accennato, la maschera si rivelerà, ben oltre la superficie del travestimento, un amplificatore d’identità. Le differenze tra i due testi riguardo al travestimento sono minime: mutato il suo nome in Tantris (come aveva fatto quando Isotta, ignara, curò l’uccisore di suo zio), Tristano si straccia le vesti, si graffia il viso, si rasa i capelli, ha in mano una mazza. Fo aggiunge qualche particolare, come la scena dello scambio dei suoi sontuosi abiti con quelli di un pescatore, o il fatto che si tinga il viso di nero grazie a un’erba «Ke il aporta de sun païs» 305, ma l’elemento più importante, assente in Fb e fondamentale per il riconoscimento finale da parte d’Isotta, è il particolare del mutamento di voce («Tristan sout ben müer sa voiz»306). Tutti lo scambiano per un vero folle e gli lanciano sassi contro. Giunto alla corte di Cornovaglia, il folle è interrogato da Marco: Fous, con as non? – G’é non Picous. ui t’angendra? – Uns galerous. De qui t’ot il? D’une balaine307. 303 Ibid. Su Tristano trickster si rimanda a: Nancy FREEMAN REGALADO, «Tristan and Renart: Two Trickster», L’Esprit Créateur, 16, 1976, pp. 30-38; Mariantonia LIBORIO, «La logique de la déception dans les romans de Tristan et Iseut», Annali dell’Istituto Universitario Orientale. Sezione Romanza, 23, 1981, pp. 151-163; Meritt R. BLAKESLEE, «Tristan the Trickster in the Old French Tristan Poems», Cultura Neolatina, 44, 1984, pp. 167190; Massino BONAFIN, «Le maschere del trickster (Tristano et Renart)», L’immagine riflessa, 9, 2000, 1-2, pp. 181-196; Insaf MACHTA, Poétique de la ruse dans les récits tristaniens français du XII e siècle, Paris, Champion, 2010. 305 Fo, v. 214 (che ha portato dal suo paese). Sul travestimento di Tristano, su come «i dettagli a cui è fatto cenno nel testo della Folie non sono immaginari, rinviano a costumanze ben radicate nella cultura medievale», si veda D’Arco Silvio AVALLE, «Primo excursus. La Folie Tristan», in Id., Le maschere di Guglielmino, MilanoNapoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1989, pp. 92-111, pp. 106 ss. (la citazione si trova a p. 107). 306 Fo, v. 212 (Tristano sapeva mutar bene la sua voce). 307 Fb, vv. 160-162 «(Folle, quale nome hai?». «Ho nome Picous». «Chi ti generò?». «Un tricheco». «Da chi ti ebbe?». «Da una balena»). 304 94 Più articolato il racconto delle origini in Fo: Ma mere fu une baleine, En mer hantat cume sereine, Mes je ne sai u je nasqui. Mult sai ben ki me nurri: Une grant tigre me alettat En un roche u ele me truvat. Ele me truvat suz un perun, Quidat ke fusse sun foün, Si me nurri de sa mamele308. Il folle continua, in entrambi i testi, raccontando di avere una sorella che baratterebbe volentieri con Isotta, con cui si rifugerebbe in una dimora sospesa tra le nuvole e il cielo, che in Fo è più minuziosamente descritta come una reggia di cristallo (vv. 301-310). La descrizione della dimora aerea ha spinto gli interpreti a mettere a fuoco un evidente richiamo intertestuale alla convivenza dei due amanti nella foresta del Morrois o nella Minnengrotte309, ma mi pare che tutto l’episodio sia fitto di richiami intertestuali. Il racconto delle origini è evidentemente improntato alla caratterizzazione animalesca della figura del trickster, controfigura comico-parodica dell’eroe civilizzatore. Ma l’effetto parodico è ambiguo e, rappresentando il basso, il testo evoca l’alto-altro. Nell’effetto prodotto in sede di ricezione, basato sul gioco comico del contrasto e della menzogna, il ludico racconto del folle richiama l’altra matrice delle origini del protagonista, quella seria e alta – e non meno favolosa310 – che lo ritrae figlio di Blanchefleur, sorella di Marco, e di Rivalen, nobile cavaliere messosi al servizio del sovrano di Cornovaglia. L’effetto, ancora una volta, è quello di un’immagine ambigua e fluttuante del personaggio. Di là dall’ambiguità del gioco parodico, bisogna inoltre precisare che il tratto stesso dello zooantropomorfismo è pregno di ambiguità, appartenendo a una concezione della natura 308 Fo, vv. 273-281 (Mia madre fu una balena che abitava nel mare come sirena. Ma non so dove nacqui. So bene chi mi allevò: mi allattò una grande tigre su una rupe dove mi aveva trovato Mi trovò sotto una grande pietra, pensò che fossi un suo piccolo, e mi nutrì della sua mammella). 309 Si veda sull’argomento Rosanna BRUSEGAN, «La folie de Tristan: de la loge du Morrois au palais de verre», in La légende de Tristan au Moyen Age, pp. 49-59. 310 Tristano è, nella versione di Eilhart von Oberg, estratto dal grembo della madre, morta, specifica il testo, proprio a causa del bambino (Eilhart VON OBERG, «Tristrant», p. 264). In Goffredo di Strasburgo Tristano è invece orfano di entrambi i genitori e il suo concepimento ha un carattere singolare. Venuta a conoscenza dell’imminente morte dell’amato, ferito durante un combattimento, Blanchefleur, travestita da mendicante per raggiungerlo (elemento che richiama intertestualmente i travestimenti del figlio), si stende accanto al moribondo Rivalin, riaccendendone la passione. In questa versione della leggenda, la donna morirà dopo aver dato alla luce Tristano (Gottfried DE STRASBOURG, «Tristan et Isolde», in Tristan et Yseut. Les premières versions européennes, pp. 389-635, alle pp. 406-407 e 412). Per un approfondimento del motivo si rinvia a Jean-Marc PASTRÉ, «Les mères dans les romans de Tristan», in La mère au Moyen Age, Textes réunis par Aimé PETIT, Actes du colloque du Centre d’Etudes Médiévales et Dialectales de Lille 3, 25-27 septembre 1997, Bien dire et Bien Aprandre, 16, 1998, pp. 203-216. 95 eroica che non prevede dicotomie di nessun tipo: la ferinità sembra «eccedere di gran lunga i limiti della caricatura, rinviando invece a sostrati arcaici e memorie ancestrali»311. Il rapporto dell’eroe con l’animale è, in una fase arcaica del percorso umano, molto stretto, e il mito, con i richiami al totemismo dell’eroe e alla natura zooantropomorfa degli eroi civilizzatori312, non fa che affermare questa stretta parentela di eroe e bestia, di forza civilizzatrice e potenza animalesca di una natura primordiale. Sia che questi passi delle Folies si leggano in chiave parodica, sia che si opti per la lettura di un motivo antropologico denso di implicazioni semantiche, il risultato resta comunque quello di un oltrepassamento delle dicotomie, di una strategia di assimilazione, mai pienamente risolta, di due tratti del personaggio, che oscilla tra gli estremi dell’alto e del basso, della potenza civilizzatrice e di quella animalesca, della figura eroica e di quella dell’escogitatore di stratagemmi, in una concomitanza di gioco comico e spirito tragico mai veramente annullato. La coesistenza dei due tratti sembra costituire il gioco della scrittura delle Folies. Se un primo livello della lettura non può che avere come oggetto la lettera del testo, ossia il racconto di un travestito da folle che si dichiara figlio di un tricheco, con una connotazione in senso comico che valorizza «il Tristano novellistico» che si fa beffa di Marco, a un secondo livello il lettore, stimolato dall’allusione al motivo della nascita, non potrà evitare di tenere presente la cornice instaurata dal travestimento, in cui l’aneddoto è attirato, riconducendo quest’ultimo all’altra nascita di Tristano, eroe «nato al dolore». Nella ricezione del testo, l’identificazione del personaggio Tristano con uno dei due tratti, trickster o eroe-tipo, ha vita breve e all’evocazione dell’uno subentra immediatamente l’immagine dell’altro, secondo le dinamiche di una logica fluida, dove il confine identitario è disponibile alla ridefinizione continua, non solo sulla base degli enunciati presenti nel testo, ma anche delle associazioni verso cui questi enunciati pilotano il lettore-spettatore. I volti di Tristano si condensano e si sfumano reciprocamente. Più che un eroe multiplo, un eroe dai mille volti, come suggerisce la formula di Campbell 313, Tristano sembrerebbe un eroe scisso, oscillante, attraversante rappresentazioni estreme. Oltre la maschera e il travestimento, oltre le facciate che variano secondo gli episodi e le necessità dell’intreccio, i testi di Berna e di Oxford ci offrono la processualità di una costruzione identitaria, di un 311 Alvaro BARBIERI, «Ivain cavaliere-sciamano: elementi estatici e riti d’iniziazione del Chevalier au lion» in Figure della memoria culturale. Tipologie, identità, personaggi, testi e segni, a cura di Massimo BONAFIN, Atti del convegno di Macerata, 9-11 novembre 2011, L’immagine riflessa, 22, 2013, pp. 109-148, p. 120. 312 Si veda Eleazar M. MELETINSKIJ, Il mito. Poetica folclore ripresa novecentesca, pp. 185 ss. 313 Joseph CAMPBELL, L’eroe dai mille volti, Parma, Guanda, 2000. 96 soggetto ibrido rispetto ai modelli che evoca e mai pienamente definito. Il tessuto del testo si articola intorno alla processualità di una doppia performance: da un lato quella evidente, letterale, che s’impernia sul gioco del travestimento, dall’altro quella, più sottile e ambigua, che disegna l’articolazione di una strategia di decostruzione dell’io314. 3. Un personaggio liminale La categoria della performance è al centro della teoria dell’antropologo Victor Turner315. L’aspetto interessante ai nostri fini è che la teorizzazione di Turner mette in relazione la performance con un’altra categoria antropologica, quella della liminalità: l’alienazione rispetto al gruppo sociale di appartenenza e la messa in scena del proprio corpo rappresenterebbero, per Turner, due tratti trans-individuali costitutivi del rapporto che l’individuo instaura con il suo ambiente e attraverso i quali il soggetto opera l’edificazione di un sistema alternativo a quello con cui è costretto a interagire. È evidente come i due poli della teoria di Turner siano presenti nel tessuto della scrittura delle Folies, in cui, attraverso la costruzione di una condizione liminale, di messa ai margini, e attraverso un’utilizzazione dichiaratamente performativa del proprio corpo, Tristano riesce a sovvertire un sistema che non accetta. La performance e la liminalità, per come sono state presentate da Turner, offrono uno strumento di analisi che permette di indagare il potenziale di elaborazione della scrittura delle Folies nella costruzione del personaggio316. Turner si rese conto, nel corso delle sue ricerche, che le situazioni di crisi che ogni società vive non sono affatto degli eventi spontanei, naturali, ma che presentano uno schema identico a quello del dramma occidentale per come è stato concepito da Aristotele, quello cioè di una struttura processuale con un’introduzione, uno sviluppo, una chiusura. Turner parlerà di 314 Il termine performance comparirà diverse volte nel corso di questo capitolo. Tengo sin da subito a precisare che il termine sarà qui usato in maniera diversa rispetto a certi studi sui tratti performativi dei testi tristaniani, sul loro riprodurre stilemi della tecnica dei giullari (in particolare, si veda Evelyn B. VITZ, Orality and Performance in Early French Romance, Woodbridge-Rochester, Brewer, 1999). Si tratta qui di uno studio della rappresentazione della performance. 315 Si vedano: Victor TURNER, The Ritual Process. Structure and anti-structure, Chicago, Aldine Publishing Company, 1969, trad. it.: Il processo rituale. Struttura e anti-struttura, Brescia, Morcelliana, 1972; Id., From Ritual to Theatre. The Humain Seriousness of Play, New York, Performing Arts Journal Publications, 1982, trad. it.: Dal rito al teatro, Bologna, il Mulino, 1986; Id., The Anthropology of Performance, New York, Paj Publication, 1986, trad. it.: Antropologia della performance, Bologna, il Mulino, 1993. 316 Il concetto di liminalità è stato utilizzato da Marie Scarpa nella sua elaborazione della nozione di personaggio liminare applicata a diversi testi moderni. Si veda Marie SCARPA, «Le personnage liminaire», Romantisme, 145, 2009, 3, pp. 25-35. 97 «dramma sociale»: Il fatto che un dramma sociale, secondo la mia analisi della sua forma, corrisponda esattamente alla descrizione della tragedia greca che Aristotele fa nella Poetica, nel senso che è «imitazione di azione di carattere elevato e completa di una certa estensione» e che ha un inizio, un centro e una fine, non è dovuto, lo ripeto, a un mio tentativo illegittimo di imporre un modello etico occidentale dell’azione scenica al comportamento sociale di un villaggio africano, ma al fatto che esiste un rapporto di interdipendenza, forse un rapporto dialettico, fra i drammi sociali e i generi di performance culturale, probabilmente in tutte le società. Dopotutto, la vita è un’imitazione dell’arte, quanto l’inverso317. Questa caratteristica teatrale – dunque potenzialmente dotata di un valore estetico – si realizza pienamente negli spazi liminali dell’evoluzione del dramma sociale, situazioni in bilico tra un vecchio ordine entrato in crisi e un nuovo ordine ancora da stabilire, situazioni che rivelano uno schietto carattere performativo, poiché, nella messa in questione delle regole sulle quali si fonda il vecchio sistema, le parti in conflitto avviano una sperimentazione di ruoli, di comportamenti, di strutture atte a creare un ordine alternativo al precedente: All’interno della cornice liminale, si producono nuove strutture congiuntive, perfino ludiche, con le loro grammatiche e i loro lessici dei ruoli e delle relazioni318. Gli esseri liminali, nel loro tentativo di ridefinizione critica del reale, giocano con gli elementi cristallizzati nelle diverse forme culturali, scomponendoli e ricomponendoli secondo schemi inediti, facendo del familiare qualcosa di non familiare. Un luogo del congiuntivo in cui regna la formula del se io fossi te e «la nozione che un’idea o un evento generi il suo opposto»319, un luogo in cui «le distinzioni di rango e di status della vita ordinaria scompaiono o si livellano»320, un regno dell’ibrido e della trasformazione321. Come nell’esperienza dell’iniziazione, l’essere liminale mostra, in questa sua destrutturazione del sistema, un «comportamento ergotropico»322, caratterizzato da uno stato di eccitazione e di rinuncia al principio d’identità: l’iniziato vive in una situazione di mancanza, di non essere, di elasticità delle frontiere tra il sé e l’altro. Gli esseri liminali sono 317 TURNER, Dal rito al teatro, p . 134. TURNER, Antropologia della performance, p. 196. 319 Ivi, p. 105. 320 TURNER, Il processo rituale, p. 112. 321 I riferimenti al carnevalesco di Bachtin sono evidenti. Si rinvia a: Massimo BONAFIN, Contesti della parodia. Semiotica, antropologia, cultura medievale, Torino, Utet, 2001, p. 71-75. Si può vedere, inoltre, C. Clifford FLANIGAN, «Liminality, Carnival and Social Structure. The Case of Late Medieval Biblical Drama», in Kathleen M. ASHLEY, a cura di, Victor Turner and the Construction of Cultural Criticism. Between Literature and Anthropology, Bloomington, Indiana University Press, 1990, pp. 42-63. 322 TURNER, Dal rito al teatro, p. 31. 318 98 considerati invisibili, scuri, maschili e femminili insieme, pericolosi e intoccabili; «sono morti per il mondo sociale, ma vivi per quello asociale»323. È questa libertà rispetto a qualunque regola che consente loro di aprirsi a una straordinaria attività creatrice, di manipolazione dei significanti, che comporta una ridefinizione continua del senso, mai risolutamente dato. Se mi sono soffermato a descrivere alcuni aspetti della teoria di Turner (sulla quale, peraltro, molto ci sarebbe ancora da dire) è perché trovo le sue coordinate particolarmente pertinenti al percorso di Tristano nelle Folies, soprattutto in rapporto a quanto ci siamo proposti d’indagare, ossia lo statuto identitario del personaggio e le aperture semantiche che questo statuto comporta. Certo, la liminalità e la performance non bastano ad asserire le potenzialità euristiche della teorizzazione di Turner nell’analisi dei nostri testi: si potrebbe obiettare, infatti, che queste categorie non facciano che ripresentare, con etichette diverse, la traccia interpretativa di uno schema iniziatico e, magari, sciamanico, secondo una moda ormai consolidata nella critica della letteratura medievale e già adottata per l’analisi delle Folies324, delle quali si sono valorizzati la posizione del protagonista ai margini del sociale, la trasfigurazione di un corpo ibrido tra uomo e bestia, l’euforia poetica di Tristano cantore della propria storia. Un terzo aspetto della teoria di Turner, complementare alla performance e alla liminalità, mi persuade però della sua più densa ricchezza euristica in una prospettiva criticoletteraria. Gli esseri liminali, nella messa in scena del proprio corpo, nella messa in discussione del vecchio sistema, rispetto al quale si collocano ai margini, pongono le premesse per un nuovo sistema. Ma, precisa Turner, essi sono portati contemporaneamente a riflettere sul proprio passato, sul loro universo d’origine, che è così sottoposto a un’attualizzazione che, nella riflessione, lo ridefinisce, lo riconfigura. Turner parla di una funzione di meta-commento della liminalità, una storia che un gruppo, o un individuo, racconta a se stesso su se stesso325. In questa riflessività, una teoria antropologica si salda con una teoria estetica: è la predisposizione alla riflessione sul sé, quindi alla duplicazione dei livelli del discorso326, a 323 Ivi p. 59. Si veda Francesco ZAMBON, «Tantris o il narratore-sciamano», Medioevo Romanzo, 12, 1987, pp. 307328. Si rinvia inoltre alle argomentate e aggiornate indicazioni bibliografiche contenute in Barbieri, «Ivain cavaliere-sciamano: elementi estatici e riti d’iniziazione del Chevalier au lion». 325 Cfr. TURNER, Dal rito al teatro, pp. 37-39; Id., Antropologia della performance, pp. 190-196. 326 Turner dichiara come le nozioni di congiuntività e liminalità lo abbiano avvicinato alle idee di Gregory Bateson su metalinguaggio e metacomunicazione, indirizzando i suoi interessi verso le «proposizioni liminali», proposizioni in cui non c’è un predicato che, semplicemente, afferma o nega qualcosa del soggetto, ma che costituiscono spazi privilegiati «dove alla gente è concesso di pensare a come pensa, ai termini in cui conduce il suo pensiero», in cui gli individui, vedendo la realtà in modo nuovo, elaborano un linguaggio che li renda capaci di «parlare intorno a ciò di cui normalmente parlano». «La mia tesi», scrive Turner, «è che le culture di tipo 324 99 tracciare una linea di collegamento tra la performance liminale atta all’instaurazione di un nuovo sistema sociale e un’idea di prodotto artistico da intendersi come processo, come racconto performativo, come dinamica di riscrittura che permette al soggetto di rielaborare criticamente la propria storia e, nello stesso tempo, di ridefinire se stesso. I tre aspetti della teoria antropologica – ed estetica – di Turner si ritrovano, quindi, pienamente accolti nei testi delle Folies. Se, nella superficie dei testi, leggiamo il tentativo di capovolgimento di un sistema scomodo, tentativo rispetto al quale la costruzione della liminalità, con la performance che l’accompagna, ha il mero valore di uno stratagemma (un engin) che mira al raggiungimento di un fine, a ben vedere questa liminalità performativa prevede strategie più sottili, in cui, nella riflessione sulla propria storia, il soggetto, dicendo a se stesso di se stesso, si sottopone a una riconfigurazione. Ci siamo soffermati sull’ambiguo rapporto di Tristano con il modello eroico, che si stende come un’ombra sul personaggio e che realizza un’ambigua alchimia tra il Tristano in preda ai tormenti d’amore, il Tristano eroe del mito, il Tristano trickster. Con la terminologia di Turner, potremmo ora dire che Tristano è immerso sin da subito in un meta-commento, in una riflessione-ridefinizione della sua parabola, come se la storia riattualizzata riscrivesse il personaggio, creando articolate scissioni tra modelli mai univocamente realizzati. La riflessività complica ed espande le linee semantiche che attraversano i testi, i quali, oltre la vicenda della riunione dei due amanti separati, sembrano raccontare quella di un travaglio interiore legato a un conto in sospeso con se stesso più che con un oggetto di desiderio. Su queste basi, mi pare possibile un ridimensionamento dello schema del mascheramento da intendersi come ruse, come atto ludico, burlesco, finalizzato all’unione sessuale, ipotesi rispetto alla quale si può apportare qualche indizio ulteriore. Abbiamo già visto come i primi versi di Fb ritraggano ampliamente il dissidio di Tristano con la corte, la sua posizione di esiliato. A rigore, dunque, bisognerebbe parlare di due diversi tipi di liminalità, l’una fittizia, creata attraverso il mascheramento, l’altra reale: Tristano è emarginato dal suo mondo e di questo, almeno stando al testo di Berna, si duole quanto per la distanza dell’amata. Il travestimento da folle, l’ingresso cioè in una situazione di liminalità teatralmente connotata, costruita attraverso una maschera, e che assume il ruolo più vistoso nella ricezione del testo, non è altro che la rappresentazione estrema di una marginalità prescientifico, nei loro ambienti liminali (prevalentemente quelli rituali), hanno fatto precisamente questo, dandoci molti esempi di metacomunicazione e facendoci conoscere dei metamodelli» (TURNER, Antropologia della performance, p. 190). Cfr. Gregory BATESON, Verso un’ecologia della mente (1972), Milano, Adelphi, 1977. 100 realmente sperimentata da Tristano, che «N’ose repairier ou païs / sovant en a esté fuitis»327. Da qui la legittimità di una lettura che veda, accanto al desiderio di unirsi sessualmente a Isotta, un’ambizione a restaurare il ruolo perduto, secondo un’attenzione alla sociabilità di Tristano, da considerare complementare alla sua ossessione amorosa. Se in Fb Tristano si lamenta di non essere più rispettato (« Deus! con sui maz et confonduz / Et en terre mout po cremuz»)328, in Fo rinfaccerà a Isotta di essere responsabile del suo esilio: Raïne, pur vostre amité Fu de la curt lores chascé329. Soffermiamoci ora sull’operazione del travestimento da folle, cercando di mostrare quanto più opportuno sia il termine – meno superficiale – di liminalità, più attento alla caratterizzazione di una metamorfosi che altera lo statuto identitario, che intacca la compiutezza dell’io. La costruzione della maschera è graduale e comincia ben prima del travestimento. Fo descrive il comportamento dissimulatore del protagonista, attentissimo a non lasciar trasparire il suo progetto di «si desguiser / E sun semblant si remüer / Ke ja nuls hom nel conestrat»330. Tristano tace, finge, dissimula: Parent, prucein, per ne ami Ne pot saver le estre de li. Tant par se covre en sun curaje Ke a nul nel dit, si fait ke sage, Kar suvent avent damage grant Par dire sun cunseil avant331. Persino con il compagno Caerdino (vv. 27-28) è scrupolosamente concentrato a non lasciar trapelare nulla del progetto. La performance inizia dunque prima del travestimento: la distanza tra i due termini si presta a rappresentare due diverse letture dei testi (ma non contraddittorie). Tristano, come un attore, lavora su di sé, elabora, sperimenta («Si pense mult estreitement»332), lasciando intravedere, più che il prossimo travestimento, una vera e propria metamorfosi333. Prima ancora che la maschera del folle sia partorita, Tristano si pone ai 327 Fb, vv. 45-46 (Non osa ritornare nel paese, spesso ne è fuggito). Fb, vv. 94-95 (Dio, come sono oppresso e abbattuto e poco temuto in terra). 329 Fo, vv. 755-756 (Regina, per il vostro amore, fui allora bandito dalla corte). 330 Fo, vv. 41-42 (di travestirsi e di mutare il suo sembiante tanto che nessuno lo riconoscerà). 331 Fo, vv. 45-50 (Parente, congiunto o compagno non può sapere la sua condizione. Tanto la cela nel suo cuore che non la dice a nessuno, e opera saggiamente, perché spesso viene gran danno a dire prima la propria intenzione). 332 Fo, v. 58 (pensa molto attentamente). 333 Di metamorfosi nelle Folies, piuttosto che di travestimento, si parla in Jean-Marc PASTRÉ, «Les métamorphoses de Tristan», in André CREPIN - Wolfang Spiewok, a cura di, Tristan-Tristrant, Mélanges en l’honneur de Danielle Buschinger à l’occasione de son 6 ème anniversaire, Reineke-Verlag, Greifswald, 1996, pp. 328 101 margini del suo mondo attraverso un sapiente gioco di simulazione e dissimulazione. Il suo isolamento sociale assumerà semplicemente, con il travestimento, una forma plastica: Ses dras deront, sa chere grate, Ne voit home cui il ne bate334. Comme fous va, chascuns lo hue, Gitant li pierres a la teste335. Encuntre lui current li valet, Le escrïent cum hom fet lu: «Veez le fol! hu! hu! hu! hu!» Li valet e li esquier De buis le cuilent arocher336. Turner sottolinea che l’acquisizione della condizione di liminalità e di alterazione identitaria è segnata da uno spostamento nello spazio337: D’errer ne fine nuit et jor; Jusq’a la mer ne prist sejor338. Tristanz s’en va, plus n’i areste. Ensinc ala lonc tans par terre, Tot por l’amor Ysiaut conquerre339. Il percorso di negazione identitaria di Tristano è affidato con evidenza a una semiotica spaziale. Tristano si sposta dalla Petite Bretagne all’Inghilterra, in un viaggio che non è semplicemente fisico, ma che comporta una destrutturazione dell’identità. Decide di camminare a piedi fino alla nave che lo condurrà in Inghilterra, perché «de povre hom qui à pé vait / Ne en est tenu gueres de plait»340. La marcia a piedi e il viaggio in mare disegnano l’idea dell’ingresso in un non-luogo; inoltre, in Fo, arrivato a Tintagel, Tristano dovrà affrontare, prima del colloquio con Isotta, una serie di tappe, ciascuna legata a un personaggio e a un luogo di volta in volta più vicino alla camera della regina: il portiere della reggia, la 409-422. 334 Fb, vv. 128-129 (Si straccia le vesti, si graffia il viso; non vede nessuno che non lo percuota). 335 Fb, vv. 135-136 (Va come folle, tutti gli urlano contro, gettandogli pietre in testa). 336 Fo, vv. 249-252 (Gli corrono incontro i valletti e gli gridano come si fa col lupo: «Vedete il pazzo! Uh! Uh! Uh! I valletti e gli scudieri cominciano a lanciargli legni). Come afferma Cesare Segre, «domina l’opposizione lotmaniana noi/altri, si sottolinea la diversità, o meglio l’appartenenza a un mondo diverso» (Cesare SEGRE, «Quattro tipi di follia medievale», in Miscellanea di studi in onore di Aurelio Roncaglia, Modena, Mucchi, 1989, pp. 1275-83, p. 1275). 337 TURNER, Dal rito al teatro, p. 56. 338 Fb, vv. 118-119 (Non cessa di errare notte e giorno; non si ferma fino al mare). 339 Fb, vv. 137-139 (Tristano se ne va, senza attendere oltre. Andò così lungo tempo per la terra, solo per conquistare l’amore d’Isotta). 340 Fo, vv. 37-38 (Ma a un povero uomo che va a piedi non si bada affatto). 102 folla che gli corre incontro nel cortile, Marco nella sala del palazzo, Brangania sulla soglia della destinazione finale. Non travestimento superficiale, ma autentica metamorfosi, totalmente immersa in una liminalità da intendersi come una discesa verso la nullificazione dell’io; non semplice trasformazione, che troppo accentua gli estremi dello stadio di partenza e di quello di arrivo, ma flusso, apertura dei confini dell’io, processo che inizia alla riflessività. Nell’edificazione della liminalità, Tristano opera una vera e propria demolizione della figura del nobile cavaliere: Gerpi sa terre et son roiaume, Il ne prinst ne hauberc ne hiaume341. Turner spiega che la liminalità produce un abbassamento dei personaggi che coinvolge, ma, chiarisce, questa devalorizzazione non perde mai di vista l’obiettivo di un ritorno e di una consolidazione dell’antica posizione342. 4. Immagini perdute Le parole del folle disegnano, nei due poemetti, un’immagine perduta, che sembra sprofondare in un passato mitico e nostalgico. Tristano si aggrappa a laceri brandelli di un primato che gli è appartenuto e che ora può soltanto essere allusivamente evocato. Il tutto sembra spingersi ben oltre il fine pratico del riconoscimento; si direbbe che i dialoghi di Tristano siano piuttosto dei monologhi in cui la forza degli eventi passati lo riconforma retroattivamente. In questa riflessione sull’immagine perduta, in questo conflitto identitario in cui l’eroe e il nobile cavaliere si ritrovano confinati in una negazione liminare (che, lo abbiamo visto, non è solo legata alla costruzione performativa, ma è riflesso amplificato di una condizione reale, quella dell’esiliato), la relazione sintagmatica con il personaggio di Marco riveste una funzione di primo piano, funzione che i due testi rappresentano in maniera differente. Sembrerebbe che in Fo, dietro gli operosi sforzi che il folle dispiega nel divertire il re, si celi il desiderio di Tristano di rientrare nelle grazie dello zio. Tra i due vi è una certa intesa, si divertono a discapito di Isotta, che assiste infastidita. Il folle propone al re uno scambio, sua 341 342 Fb, vv. 116-117 (Lascia la sua terra e il suo regno, non prende né corazza né elmo). Cfr. TURNER, Il processo rituale, p. 181 e Dal rito al teatro, p. 56. 103 sorella per Isotta; la regina ascolta e sospira, Marco incita il folle a continuare con le sue facezie, Isotta esprime il desiderio di abbandonare la sala, ma il re la costringe a restare, tenendola addirittura per il mantello: Volt s’en aller e leve sus. Li rais la prent, si le aset jus. Par la mentel hermin le ad prise Si le ad dejuste lui resise : « Sufrez un poi, Ysolt amie, Si parorum ceste folie343. Il folle racconta le avvenutre di Tantris, il combattimento contro il Moroldo, la ferita guarita da Isotta, racconta di come questa avesse imparato a suonare e a comporre lais da lui; Isotta, che si ostina a non riconoscere l’amato, è contrariata, Marco ride: il riso indirizzato allo stesso oggetto stabilisce tra i due coridenti «une communication et un rapport particuliers qui n’existaient pas auparavant»344. In realtà, tutto il pubblico (la corte, in uno sdoppiamento diegetico che qui diventa uno sdoppiamento mimetico, costituisce un vero pubblico) è divertita dalla performance del folle, dal suo gioco di decomposizione e ricomposizione dei frammenti del romanzo di Tristano e Isotta: Marce del fol bonement rit, Si funt li grant e petit345. Tutti riconoscono che il folle si esprime con grande abilità: Cist est bon fol, mult par dit ben; Ben parole sur tute ren346. Nella rappresentazione dell’ambiguo soggetto che la performance ha creato, soggetto scisso tra un qui e un oltre, un essere e un voler essere, un soggetto che ha negato l’io, il successo del folle realizza l’illusione – effimera come qualunque messa in scena – di una ricostituzione dell’immagine perduta di Tristano, nipote amato e cavaliere d’indiscutibile valore stimato da tutta la corte. Nel testo di Berna la situazione è ben diversa, eppure mi pare che il desiderio di una 343 Fo, vv. 479-484 (Vuole andarsene e si leva. Il re la prende e la fa sedere. L’ha presa per il mantello d’ermellino e l’ha fatta risedere accanto a sé: «Pazientate un po’ amica Isotta, ascoltiamo fino alla fine questa follia»). 344 Massimo BONAFIN, «Rire, comique et parodie médiévale à la lumière d’une théorie bio-sociale», in Elisabeth GAUCHER - Luca PIERDOMINICI, a cura di, Ravy me treuve en mon deduire. Mélanges en l’honneur de Jean Dufournet, Fano, Aras, 2011, pp. 13-35, p. 17. 345 Fo, vv. 499-500 (Marco ride bonariamente del folle, così fanno grandi e piccini). 346 Fo, vv. 313-314 (Questo è un buon folle, parla molto bene, parla di ogni cosa). 104 restaurazione dell’immagine perduta sia lo stesso che anima Fo. Anche qui si chiama in causa l’impossibile riappropriazione di un paradiso perduto, che, attraverso il gioco di riflessi che la sua sola evocazione crea, rende l’immagine del personaggio spostata rispetto a qualunque centro, in un’oscillazione tra il folle – vero folle d’amore, folle mascherato –, il trickster, l’eroe, il cavaliere perfetto, l’esiliato, l’amante afflitto. Non c’è modello che non sia immediatamente inquinato da un modello contiguo. In Fb, però, la performance del folle non diverte né il re, né la corte. Tutt’altro: Marco è profondamente irritato (sembra quasi che l’irritazione d’Isotta in Fo sia qui stata trasferita sull’altro membro del trio). Del resto, il testo di Berna insisteva, nei suoi primi versi, sul conflitto tra Marco e Tristano, il quale, come gli aveva fatto sapere Dinas, per via del suo nonsavoir347 ha perso l’affetto del re. L’incontro tra nipote e zio segue in Fb quasi immediatamente l’arrivo di Tristano a Tintagel e, lontano dall’atmosfera di festa che si respirava in Fo, avvia qui una scena ombrosa. Si direbbe che Marco ascolti suo malgrado la storia di Picous nato da una balena e che chiede Isotta in cambio della sorella. Non ne è per nulla divertito e invita il folle a terminare lì il suo racconto («Et taire pois, dans Picolet»348). Approfittando del privilegio di poter dire sempre e a chiunque la verità, il folle assume toni arroganti, pieni di rancore, arrivando a dare del cornuto a Marco: «Dame, cist cous ait mal dahé!»349. Si mormora a mo’ di monito al re che non bisogna badare al folle («Or dient tuit li chevalier: / N’a fol baër, n’a fol tancier!»350), la corte teme che Marco possa reagire («Mien escïant, tost avandroit / Que mes sires cel fol crerroit»351), Marco abbandona la sala per andare a vedere ses oisiaus352 mentre cacciano le gru. Se il testo di Oxford presentava una qualche solidarietà tra i due personaggi, qui la scena è improntata a un’ostilità reciproca, il rancore dell’uno diventa il rancore dell’altro. Durante il dialogo tra il folle e Brangania, la quale sostiene che sarebbe buona cosa che qualcuno impiccasse quell’essere plains de melancolie353, il folle controbatte: Certes, Brangien, ainz feroit mal Plus fol de moi vait a cheval354. 347 Fb, v. 38 (stoltezza). Fb, v. 193 (Ora puoi tacere, signor Picolet). 349 Fb, v. 227 (Signora, sia maledetto questo cornuto). 350 Fb, vv. 200-201 (Ora tutti i cavalieri dicono: «Non badare al folle, col folle non litigare!»). 351 Fb, vv. 260-261 (A mio parere potrebbe facilmente accadere che il mio signore credesse a questo folle). 352 Fb, v. 263 (i suoi uccelli). 353 Fb, v. 285 (pieno di malinconia). 354 Fb, v. 288-289 (In verità, Brangania, farebbe molto male: uomini più folli di me vanno a cavallo). 348 105 Marco rappresenta qui per Tristano, in maniera imperfetta, l’immagine perduta del cavaliere che va a cavallo. Se in Oxford il modello del perfetto eroe e cavaliere era più astratto e assimilabile a quello che Girard chiama mediatore esterno (cfr. supra I.8), qui il modello, benché malamente rappresentato – o rappresentato per negazione – si fa più vicino, la relazione paradigmatica collassa su quella sintagmatica. Lo spirito di competizione rispetto a un modello astratto e lontano, incarnato da Tristano in un passato dipinto come un paradiso perduto, permetteva in Fo un tentativo di conciliazione virtuale impensabile in Fb, dove la competizione raggiunge il cuore delle relazioni identitarie tra personaggi. In entrambi i casi però, l’ambigua performance liminare di Tristano, sempre divisa tra un qui e un oltre, nasconde, dietro il gioco comico del travestimento e del desiderio sessuale, un gioco più profondamente conflittuale con un’immagine identitaria perduta (perduta non solo per via di un mascheramento). Di questo rapporto del protagonista con la sua ombra fantasmatica, i due testi offrono una prospettiva di figurazione diversa anche sul piano dell’autorappresentazione dell’io messa in opera da Tristano: Membrer vus dait quant fui nauvrez, – Maint home le saveit assez – Quant me cumbati al Morhout Ki votre treü aver volt355. Nel racconto del suo romanzo, il Tristano del testo di Oxford sembra particolarmente determinato nel tracciare un ritratto prestigioso di sé: Mais je ere chevaler mervilus, Mult enpernant e curajus: Ne dutai par mun cors nul home Ki fust de Scoce treske a Rume356. Non può, inoltre, fare a meno di menzionare, accanto alle sue virtù eroiche e cavalleresche, «Ke mult savoie ben harper»357. Quello di Fo è un Tristano inedito, particolarmente propenso all’autocelebrazione, a un’autorappresentazione narcisistica, inconsueta per un lettore-ascoltatore abituato a sentire tessere le sue lodi dagli altri (il popolo, Isotta, il re, i cavalieri pieni d’ammirazione per lui). 355 Fo, v. 329-332 (Dovete ricordarvi di quando fui ferito – molti lo sanno – allorché combattei col Moroldo, che voleva avere il vostro tributo). 356 Fo, vv. 405-408 (Ma ero un cavaliere straordinario, molto ardito e coraggioso: non temevo nessuno di fronte a me, che fosse dalla Scozia fino a Roma). 357 Fo, v. 356 (Perché sapevo arpeggiare assai bene). 106 Tristano travalica quelle che sarebbero le necessità legate all’intento – intento almeno apparente – del riconoscimento da parte di Isotta. Potrebbe semplicemente, come accade in Fb, menzionare gli avvenimenti della loro storia, invece qui la storia cede il passo al ritratto dell’eroe e sembra che la strategia che pilota l’enunciazione di Tristano, così autocelebrativa, non si curi troppo del riconoscimento, prenda altre strade. Vediamo di analizzare le possibili prospettive che intersecano quest’esaltazione ipertrofica dell’io. Yasmina Foehr-Janssens ha acutamente mostrato, mettendo al centro della sua analisi il personaggio d’Isotta e le motivazioni profonde che la rendono così ostinata nel non volere riconoscere Tristano sotto la maschera del folle, che le Folies c’inducono «à mettre la répugnance qu’éprouve Iseut à reconnaitre Tristan sous les habits du fou en relation avec la haine de la jeune princesse à l’égard du meurtrier de son oncle»358. In un profondo intrico di amore e odio, Isotta si ritrova costretta a riconoscere e ad accogliere Tristano nonostante il rancore che prova nei suoi confronti; in questo senso i testi offrirebbero la rappresentazione di una vera follia d’amore di cui la regina sarebbe vittima. Credo che, partendo dalla constatazione di Foehr-Janssens, e riportando l’analisi sul personaggio di Tristano e sulle sue relazioni sintagmatiche con quello d’Isotta, si possano forse ricavare ulteriori assi che attraversano il testo. Il fine del riconoscimento ci è sembrato insufficiente a spiegare gli eccessi autorappresentativi di Tristano, che sembra impegnare tutte le sue energie in una vera e propria scena di seduzione. Del resto, il folle, in quello che potremmo considerare il prologo di questa scena, lo aveva detto esplicitamente: Il fert ces ke il trove en sa vei, Del deis a l’us les cumvei, Puis lur escrïe: «Foles genz, Tolez, issez puis de cenz! Lassez moi e Ysolt cunsiler: Je la sui venu douneier359. Davanti alla ferma ostinazione della regina, il folle, nel suo delirio ambiguo tra realtà e finzione, scaccia gli astanti per douneier Isotta, farle la corte, parlarle d’amore, mostrarsi galante. Sembrerebbe che Tristano non debba semplicemente farsi riconoscere da Isotta, ma che debba conquistarla attraverso la malia di una parola che tessa un seducente ritratto eroico. 358 Yasmina FOEHR-JANSSENS, «Le chien et l’anneau: parcours de la reconnaissance dans les Folies Tristan», in Des Tristan en vers au Tristan en prose, pp. 273-291, p. 286. 359 Fo, vv. 375-380 (Colpisce quelli che trova sulla sua via, li accompagna dalla tavola fino all’uscio, poi grida loro: «Pazzi, andatevene, uscite di qui! Lasciatemi parlare con Isotta, io sono venuto per corteggiarla»). 107 Si assisterebbe dunque, per la prima volta nel Romanzo di Tristano, a una scena che vi è sempre stata potenzialmente contenuta, ma che non vi hai mai trovato una realizzazione, una scena sempre presente in absentia: l’eroe che conquista la principessa non per un altro (Marco), ma per sé. Il testo sembrerebbe rimediare, nell’implicitezza del suo tessuto, alla deviazione compiuta rispetto alla trama base del mito o della fiaba di magia 360, e suggerisce qui un suo possibile361 mai attuato. Del resto, Tristano precisa chiaramente che è grazie a lui che Marco ha potuto sposare Isotta, lasciando così intravedere la deviazione che contiene in sé un’altra possibilità diegetica: Ne vus menbre, raïne Ysolt, Quant li reis envaer me volt, Cum si fist? Il me envaiat Pur vus ke il ore esspusé ad362. La propensione riflessiva prodotta dalla conformazione metadiscorsiva delle Follie gioca qui su una collaborazione tra una falla dell’intreccio e una particolare intenzione del personaggio. Il personaggio liminare Tristano gioca con i simboli del tessuto diegetico del suo romanzo, esplorandoli e montandoli secondo prospettive inedite. Tristano non si limita a raccontare la sua storia e le Folies non sono soltanto un riassunto delle puntate precedenti, giacché il gioco con i segni del proprio passato comporta una riflessione critica su di esso. Le avversità dell’esilio, la messa in discussione di un sistema scomodo, la liminalità, la metadiegesi, la riflessività atta a ripristinare un mondo perduto, ma che, più che ripristinato, ne viene fuori riconfigurato: sono tutti aspetti di un unico processo in cui il soggetto viene ridefinito dalla parola che lo dice. C’è un’altra proposta interpretativa che possiamo avanzare ricollegandoci alle 360 Su questa deviazione, si veda LEGROS, «Quand Tristan réécrit son histoire…», in particolare alle pp. 35- 36. 361 Abbiamo già incontrato una simile prospettiva, a proposito del viaggio in mare del folle. Il testo si apre, in sede di ricezione, a un testo possibile, annotazione con cui faccio riferimento alla teoria dei testi possibili, elaborata e promossa, sulla scorta delle intuizioni di Michel Charles (Rhétorique de la lecture, Paris, Seuil, 1977), da Marc Escola e Sophie Rabau («Inventer la pratique: pour une théorie des textes possibles», in La Case blanche. Théorie littéraire et textes possibles, Textes réunis par Marc ESCOLA et Sophie RABAU, Actes du colloque Fabula à Oléron, 14-18 avril 2003, Reims, Publications Universitaires de Reims, 2006). La teoria dei testi possibili, che si colloca tra gli approcci teorici attenti a considerare l’oggetto letterario come completantesi nella lettura, valorizza quei punti di un testo che, sfuggendo a un’idea di opera come pilotata da una coerenza globale, lasciano intravedere una biforcazione verso un’altra storia, in direzione di una nuova forma testuale, che era latente nel testo di partenza, ma non attuata. La teoria dei testi possibili è stata applicata finora, almeno a mia conoscenza, a testi moderni, ma potrebbe essere uno strumento particolarmente idoneo a una descrizione retorico-poetica dei testi medievali, per i quali, giocati su sottili variazioni come sono, l’accesso di un testo a uno contiguo costituisce, per così dire, la regola. 362 Fo, vv. 391-394 (Non vi ricordate, regina Isotta, quando il re mi volle inviare, come fece? M’inviò per voi, che ora ha sposato). 108 considerazioni di Foehr-Janssens, le quali miravano a salvare Isotta dall’inspiegabile passività e mancanza di perspicacia che le sono attribuite nei testi delle Folies. Se, nella non disponibilità d’Isotta a riconoscere Tristano dietro la maschera del folle, dobbiamo leggere un suo essere scissa tra amore e odio, tra irresistibile passione e rancore legato a una ferita mai veramente rimarginata, se, insomma, dobbiamo leggervi una sorta di rinnegazione della storia d’amore che la vede protagonista, credo che la stessa rinnegazione possa essere attribuita a Tristano: Quant en haute mer nus meïmes, Ben vus dirrai quai nus feïmes. Li jur fu beus e fesait chaut, E nus fumes ben en haut. Pur la chalur eüstes sei; Ne vus membre, fille de rai? De un hanap bumes andui: Vus en beüstes e je en bui. Ivre ai esté tu tens puis, Mais mal ivrez mult i truis363. Per Tristano il suo amore è un’«ebbrezza perversa»; la riflessione critica sul proprio romanzo giunge così a uno stadio ulteriore. In un primo momento, l’euforia poetica ha manipolato il testo in vista di una sua apertura, ha riconfigurato il mondo finzionale che questo conteneva lasciandone intravedere un altro che gli era sempre stato adiacente, ma che non aveva mai trovato una formulazione. Ora, questa storia dalle infinite potenzialità diegetiche è vituperata dalle parole di Tristano, che condanna, come Isotta, il suo dover amare pur non volendo, rimettendo il filtro e l’involontarietà del sentimento al centro della questione. La rievocazione quasi ossessiva delle imprese dell’eroe dichiara l’aspirazione di Tristano a un modello che aveva incarnato in un passato dal sapore ormai mitico, annientato da un’ebbrezza insopprimibile, e quelle immagini ossessive sono costrette ora a mettersi al servizio di una seduzione che non farà che riprodurre, ancora una volta, l’errore di un’unione deleteria: la maledizione che pesa su Tristano e Isotta è quella di una coazione a ripetere e le Folies fanno di questo vortice della ripetizione un gioco letterario, che, nella scrittura, riverbera, amplifica e riconfigura un universo diegetico nel suo potenziale autoriproduttivo. Se si è disposti a fluidificare la barriera tra cornice e racconto nel racconto, a concepire la 363 Fo, vv. 467-476 (Ben vi dirò che cosa facemmo quando ci mettemmo in alto mare. Il giorno era bello e faceva caldo ed eravamo sul ponte. Per la calura aveste sete. Non ve ne ricordate, figlia di re? Bevemmo entrambi da una coppa: voi ne beveste ed io ne bevvi. Poi sono sempre stato ebbro, ma vi trovai un’ebbrezza perversa). Il v. 470 è alquanto oscuro: en haut potrebbe essere una scrittura alterata di en bliaud, ‘in tunica’ (cfr. vol. Pléiade, p. 1337). 109 performance liminale come una ridefinizione del passato alla luce del presente, a considerare sottile il confine tra follia finta e follia vera, si dovrà allora constatare che il racconto dei testi di Oxford e di Berna, svincolato dal fine pratico del riconoscimento e dal gioco della ruse ai danni di Marco, genera un’esplosione di senso. L’ambiguo statuto identitario del protagonista, che, nel regno del congiuntivo, dell’ibrido, della metamorfosi, scompone e ricompone i fili di un sistema, rende altrettanto ambiguo il tessuto del testo, lo scinde tra una fuga comica e uno spirito tragico che sempre s’infiltra tra le righe. La complessità del sistema delle relazioni che definiscono (o in-definiscono) il protagonista, diviso tra modelli e rapporti conflittuali con gli altri personaggi, si coniuga, attraverso la moltiplicazione dei piani del discorso, con una complessità del sistema testo, che, come Tristano, dilata i propri confini, si porta verso i suoi propri margini: il mascheramento di Tristano si fa mascheramento del testo. Liberatasi della sfera dell’evidenza e del senso univoco, la parola si accosta, in questa scrittura del personaggio, a quella che Zumthor chiama jonglerie: Périodiquement, dans le déroulement du texte, le signifiant revendique son autonomie; il se bricole lui-même de son et de fureur, surabonde en surplus de suggestions inépuisables. Toute jonglerie, ainsi, vise à la fois à démultiplier le sens et à en réduire (dans les cas extrêmes jusqu’à l’annulation) la sphère d’évidence364. Le Folies denunciano come il linguaggio non serva più a rappresentare le cose, ma processi, movimenti, traslazioni, passaggi, di storie e d’identità. La parabola comica del travestimento e del riconoscimento non esaurisce la densità di una scrittura che gioca con il vuoto, con l’assenza, con la mancanza. Del resto, è noto come in Fb, a rigore, non si abbia riconoscimento, poiché Isotta è semplicemente costretta dai dati di fatto ad ammettere che il folle sia il suo amato. Quanto a Fo, il riconoscimento è legato al disvelamento della vera voce di Tristano, in un finale che punta così tutto, non proprio felicemente, su un elemento che era stato accennato in un solo scarno verso nella prima parte del testo, e poi completamente abbandonato365. Il percorso tracciato, la discesa di Tristano in un vortice diegetico-identitario mi sembra suggerisca che l’etichetta del burlone, dell’escogitatore di stratagemmi, dell’anti-eroe, se è stata senz’altro utile per rilevare l’altro volto della materia tristaniana, non renda giustizia, 364 Paul ZUMTHOR, «Les masques du poème», in Marie-Louise OLLIER, a cura di, Masques et déguisements dans la littérature médiévale, Montréal, Les Presses de l’Université de Montréal, 19 , pp. 11-21, pp.14-15. 365 ui, sì, bisognerebbe ipotizzare, nell’ottica di una performance del testo, che il dicitore abbia per tutta la durata dell’esibizione utilizzato una voce alterata. 110 almeno riguardo ai testi delle Folies, all’intersezione di prospettive multiple che operano in questi testi, ragion per cui trovo più appropriata la categoria di personaggio liminale a quella di trickster366. La liminalità, con quell’accento posto sulla dialettica di sovvertimento e riflessività, mi pare rappresenti bene quell’ambigua intenzionalità del protagonista delle Folies, nella quale sembrano condensarsi, oltre le dicotomie, le due anime della parabola tristaniana. Ammesso che sia sensato parlare di due anime. 366 Non tanto per via del significato autentico della categoria, ma per quello affermatosi nell’uso. Sul trickster e sui risvolti bassi della leggenda tristaniana si tornerà nel capitolo V. 111 IV Fluttuazioni del personaggio 1. La visione fantasmatica del nostalgico Il frammento di Torino del romanzo di Thomas367 narra il celebre episodio della salle aux images368. Il passo ritrae Tristano, ormai stabilitosi in Bretagna e sposatosi con Isotta dalle Bianche Mani, in una sala in cui sono collocate due statue raffiguranti Isotta la Bionda e la sua fedele compagna Brangania. Lo stato del frammento lascia aperti diversi interrogativi: vi si ritrova il protagonista che monologa davanti alle due statue, senza che nulla sia detto dell’antefatto e del contesto. Stando a quanto narrato dal Sire Tristrem369, sembrerebbe che Tristano avesse fatto costruire da un gigante questa sala in una fortezza circondata d’acqua, disponendovi le due statue (ma saranno state soltanto due?) per consolarsi di tanto in tanto 367 È noto come il romanzo di Thomas sia ridotto allo stato di frammenti. Questi sono, in tutto, dieci, tramandati da sei manoscritti di varia provenienza, per un totale di 3294 versi, ossia circa un quarto di quella che doveva essere l’opera integrale (Cfr. Felix LECOY, «Sur l’étendue probable du Tristan de Thomas», Romania, 109, 1988, pp. 378-379). Fatta eccezione per il manoscritto di Carlisle (Carlisle, Cumbria Record Office, Holm Cultram Cartulary, f. 1 e 286), che racconta gli istanti immediatamente successivi all’assunzione del filtro magico, tutti gli altri manoscritti tramandano la parte finale della leggenda. Il manoscritto di Cambridge (Cambridge, University Library, Add. Ms. 2751-3), racconta l’episodio del verger, in cui Tristano e Isotta, che dormono abbracciati, sono scoperti dal re e dal nano delatore e costretti, quindi, a separarsi per non incappare nella vendetta del sovrano. Il manoscritto Sneyd (Oxford, Bodleian Library, French d. 16, ff. 4-17) contiene due frammenti, Sneyd 1 e Sneyd 2. Nel primo (ff. 4-10) si ritrae Tristano che riflette sull’opportunità di sposare Isotta dalle Bianche Mani, si raccontano il matrimonio e la prima notte di nozze, per poi passare all’immagine d’Isotta la Bionda che, nella sua stanza, compone un lai. Il frammento Sneyd 2 (ff. 11-17) coincide per buona parte con quanto contenuto nel più lungo testimone del romanzo, il manoscritto Douce, ma riporta anche, come unico testimone, la cosiddetta fine lunga del romanzo. Il manoscritto di Torino (Accademia delle Scienze di Torino, Mazzo 813, fasc. 43) narra l’episodio della sala delle statue e dell’acqua ardita, mentre il manoscritto di Strasburgo (di cui non resta che una trascrizione, essendo stato perduto in un incendio del 1870) riporta l’episodio del corteo della regina, oltre che alcuni momenti appartenenti alla fine del romanzo, che sono però tramandati anche dal manoscritto Douce (Oxford, Bodleian Library, Douce d. 6, ff. 1-12). uest’ultimo è, come si diceva, il più lungo testimone del romanzo di Thomas, con 1823 versi che narrano la parte finale della storia (il manoscritto contiene anche la Folie d’Oxford). Tutte le citazioni, salvo indicazioni in merito, sono tratte dall’edizione contenuta nel volume Pléiade Tristan et Yseut. Les premières versions européennes (pp. 123-212) e curata da Christiane Marchello-Nizia, con l’eccezione del frammento di Carlisle, curato da Ian Short. 368 In un celebre saggio, Aurelio Roncaglia rilevava la novità dell’operazione condotta da Thomas, che, capovolgendo una tradizione di statue automi dotate di qualità magiche, priva il motivo del suo sostrato fantastico per realizzare una scena in cui «domina l’uomo, con la forza tutta umana dei suoi sentimenti e la forza tutta umana della creazione artistica, che a quei sentimenti dà forma concreta e visibile modellando la statuaritratto». (Aurelio RONCAGLIA, «La statua d’Isotta», Cultura Neolatina, 31, 1971, pp. 41-67, p. 61). Sull’episodio si vedano, inoltre: Emmanuèle BAUMGARTNER, Tristan et Iseut. De la légende aux récits en vers, Paris, PUF, 1987, p. 87; Id., « uand l’Ymage se fait chair», in Ce est li fruis selonc la letre, Mélanges offerts à Charles Méla, Paris, Champion, 2002, pp. 133-146; Mireille SEGUY, «L’idole et l’effige», in Des Tristan en vers au Tristan en prose, pp. 205-220. 369 Cfr. «Sire Tristrem. Poème traduit du moyen anglais, XIVe siècle», in Tristan et Iseut. Les premières versions européennes, pp. 923-964, alle pp. 957-960. delle afflizioni della lontananza, di cui non può parlare con nessuno: Por iço fist il ceste image Que dire li volt son corage, Son bon penser e sa fole errur, Sa paigne, sa joie d’amor, Car ne sot vers cui descoverir Ne son voler, ne son desir370. In particolare, Isotta sarebbe stata immortalata nella scena dell’ultimo addio: i due amanti sono stati scoperti da Marco e la regina dona a Tristano un anello prima della fuga di questi verso terre lontane371 (ma il punto necessita di ulteriori precisazioni). Nell’effigie dell’amata si condensano i dolori e le delizie dell’amore: E les deliz des granz amors, E lor travaus et lor dolurs, E lor paignes, et lor ahans, Recorde a l’himage Tristrans372. I primi versi del frammento introdurrebbero dunque a una poetica della memoria 373, a una visione contemplativa e monologica in cui tutto è filtrato dal punto di vista dell’innamorato afflitto374. Cercheremo di rintracciare nel recupero memoriale operato dal personaggio un asse semantico propulsore, proprio come nelle Folies, di una dinamizzazione del testo, di una sua apertura a una riconfigurazione costante del senso attraverso la manipolazione dei segni attorno a cui il racconto si articola. Gli strumenti dinamizzanti che il frammento di Torino consente di prendere in considerazione sono due: il potenziale semantico della nostalgia e lo statuto dell’immagine. 370 Vv. 1139-1143 (Per questo fece questa statua, per poterle dire i suoi sentimenti, i suoi buoni pensieri e i suoi folli errori, la sua pena, la sua gioia d’amore, poiché non sa con chi manifestare né il suo volere, né il suo desiderio). 371 Si veda Tracy ADAMS, «Archetypes and Copies of Thomas’s Tristan: A Re-Examination of the Salle aux Images Scenes», Romanic Review, 90, 1999, pp. 317-332. 372 Vv. 1095-1098 (E le delizie dei grandi amori, e le loro sofferenze e i loro dolori, le loro pene e i loro tormenti Tristano ricorda davanti alla statua). 373 Sul tema della memoria nel romanzo di Thomas si rimanda a Brent A. PITTS, «Absence, Memory, and Ritual Love in Thomas’s Tristan, The French Review, 69, 1990, pp. 153-165. Sul rapporto tra assenza e memoria insiste anche la già citata Séguy («L’idole et l’effige», in particolare alle pp. 206-209). 374 Il frammento è spesso annoverato tra gli esempi del sapiente uso del monologo e dell’introspezione nel romanzo di Thomas. Si veda, per esempio, Punzi: «Il frammento di Torino, infatti, si apre direttamente con le parole rivolte da Tristano alla statua dell’amata, simulacro dell’assenza, ma anche della fissità del sentimento. La statua non risponde, può solo incarnare paradossalmente l’inutilità della presenza. L’ossessione del pensiero non ha interlocutori ma solo la memoria di un legame indissolubile, e si perde errando nei labirinti del pensiero» (Arianna PUNZI, Tristano. Storia di un mito, Roma, Carocci, 2005, p. 33). Sul monologo e sull’introspezione in Thomas, si rinvia, tra gli altri, a: Ruthmarie Hamburge MITSCH, «The Monologues of Tristan in Thomas», Tristania, 2, 1977, pp. 29-39; Roger PENSOM, «Rhetoric and Psychology in Thomas’Tristan», Modern Language Review, 78, 1982, pp. 285-297. 114 La statua d’Isotta suscita in Tristano uno stato d’animo contraddittorio; alle volte vi si rivolge amorevolmente, riempendola di baci, altre volte le rivolge uno sguardo rancoroso: Molte la baisse quant est haitez, Corrusce soi quant est irez, Que par penser, que par songes, Que par craire en son cuer mençoinges Que ele mette lui en obli Ou que ele ait acun autre ami, Que ele ne se pusse consurrer ue li n’estoce autre amer, ue mieuz a sa volunté l’ait375. Emerge fin qui una propensione contemplativa. La statua d’Isotta presenta le caratteristiche di un’icona, il cui potere rappresentativo crea l’illusione di una vicinanza dell’oggetto referenziale, permettendo un’emersione di un certo ventaglio di sentimenti che il testo descrive, esplorando l’interiorità del personaggio: Thomas, autore dal raffinato lirismo, scandaglia i moti dell’anima. Il testo offre, però, più sottili chiavi di lettura, che possono spingersi oltre l’idea della prassi contemplativa imperniata su soggetto osservante e icona, e lo scavo nell’interiorità produce qualcosa di più di una descrizione della passione. In uno studio dedicato alla nostalgia, Greimas376 ha indicato come la situazione del soggetto nostalgico si articoli su una stratificazione degli stati patemici377. Da un lato il soggetto si caratterizzerebbe per lo stato melanconico attuale, radicato nel presente, spesso descritto come una condizione di malessere fisico da cui è scombussolato, dall’altro questo stato di malessere presente vivrebbe di una proiezione verso un ulteriore stato patemico, uno «stato di coscienza doloroso causato dalla perdita di un bene»378, il quale, legato al rimpianto per la separazione da un oggetto e nutrito di una consapevole e cosciente analisi dello scarto tra passato e presente, si connota come un livello metacognitivo. Accanto allo stato di languore in cui il soggetto è immerso, coesiste, cioè, una disposizione di questo a dominare lo stato di cose, coesistenza data dall’asse della temporalità, dall’opposizione passato/presente; 375 Vv. 1099-1107 (La bacia tanto quando è contento, si fa furioso quando è in collera, immaginando che, nei suoi pensieri, nei suoi sogni, prestando fede a delle menzogne, lei possa dimenticarlo o possa avere un altro amico, che non possa privarsi di avere un altro amante, più disponibile alla sua volontà).. 376 Algirdas J. GREIMAS, «La nostalgia: studio di semantica lessicale», in PEZZINI, Semiotica delle passioni, pp. 19-25 (ora in Paolo FABBRI - Gianfranco MARRONE, a cura di, Semiotica in nuce II, Roma, Meltemi, 2001, pp. 231-236). 377 È facile vedere che abbiamo a che fare con (1) uno stato patemico (deperimento, languore, melanconia) che presuppone (2) un altro stato patemico (rimpianto, ossessivo o no), causato, a sua volta, da (3) una disgiunzione da un oggetto di valore (paese natale, cosa nuovamente desiderata ecc.). Dunque si tratta di una costruzione sintattica a tre livelli che, malgrado la «causalità» – che vorremmo interpretare come presupposizone logica – manifestata tra di loro, si presenta al tempo stesso come una stratificazione gerarchica» (ivi, p. 20). 378 Ivi, p. 21. 115 accanto al soggetto cognitivo, che esperisce lo stato del melanconico, vi è nella nostalgia un soggetto metacognitivo, che su quello stato d’animo riflette, mettendo a fuoco, nel confronto con il passato, un presente marcato dall’assenza. Direi, quindi, che è connaturata alla nostalgia una rielaborazione che, nell’incontro dei livelli di cognizione, annulla il passato e il presente come configurazioni autonome, generando una terza configurazione dialetticamente data, in cui il soggetto si ritrova ambiguamente scisso tra il ruolo di attore immerso negli eventi e quello di soggetto che pensa, manipola, gestisce i segni di questa inedita configurazione diegetico-passionale (perché è chiaro che la passione della nostalgia è in realtà, per via della stratificazione dei livelli, immediatamente racconto della nostalgia, testo gestito da un soggetto organizzatore). Riportando questo processo ai nostri testi, cercheremo di argomentare come il personaggio Tristano non si limiti a vivere la nostalgia e come il testo non offra unicamente la descrizione lirica di una passione. Il soggetto metacognitivo manipola le potenzialità semantiche dei segni che gli si offrono: le due statue non sono le semplici rappresentanti di un passato oggetto di contemplazione e la passione si fa in qualche modo azione – se non messa in scena379. Nel suo trasporto nostalgico, Tristano teme che Isotta possa, in sua assenza, cedere alle lusinghe di Cariado, giovane conte, ricco e bello quanto pavido e per nulla rispondente alle qualità richieste dalla cavalleria, il quale frequenta la corte di Marco e mira a ottenere i favori d’Isotta: Del biau Cariados se dote, ue ele envers lui ne turne s’amor. Entur li est nuit e jor, E si la sert e si la losange, E sovent de lui la blestange. Dote, quant n’a son voler, Que ele se preigne a son poer: Por ce que ele ne puet avoir lui, ue son ami face d’autrui380. Nell’innamorato lontano s’insinua il sospetto del tradimento381. Il testo di Thomas non si 379 Benché si tratti di una breve annotazione non sottoposta a un’elaborazione puntuale (elaborazione che si cercherà di offrire in queste pagine), sul ruolo di «metteur en scène» di Tristano nell’episodio della salle aux images si è soffermata Baumgartner: «Amant, poète et musicien hors pair, Tristan n’est ni sculpteur ni peintre (comme le sera plus tard Lancelot). Mais à ses multiples talents, il ajoute ici celui de metteur en scène, capable de recomposer son histoire moins par les mots – c’est là l’enjeu des Folies –, qu’en prêtant conscience, sentiments, à des statues de marbre qu’il transmute, le temps d’une étreinte, en êtres de chair» (« uand l’Ymage se fait chair», p. 141). 380 Vv. 1110-1118 (Teme il bel Cariado, che lei rivolga verso di lui il suo amore. Le è intorno notte e giorno, le si mostra servizievole e la lusinga, davanti a lei lo calunnia. Teme che, non avendo ciò che vuole, lei finisca per prendere ciò che può avere: che, poiché non può avere lui, faccia di un altro il suo amico). 116 limita, però, a descrivere i dubbi di Tristano e il suo malessere: Quant il pense de tel irur, Donc mustre a l’image haiur; Vient l’autre a esgarder, Mais ne volt ne soir ne parler. Hidonc emparole Brigvain, E dist donc: «Bele, a vos me plain Del change e de la trischerie ue envers moi fait Ysode m’amie»382. Sembra che l’introspezione abbia prodotto una qualche forma di scena nella scena 383, in cui vediamo Tristano, creatore del mondo finzionale delle due icone, oltrepassare la barriera, portarsi in questo mondo e rivolgersi ora a una statua ora all’altra, destreggiarsi tra i rimproveri verso Isotta e la ricerca di conforto presso Brangania. La contemplazione nostalgica ha ceduto il passo a un movimento mimetico, in cui Tristano diventa statua tra le statue, personaggio tra i personaggi, raggiunge il livello della rappresentazione da lui stesso orchestrata. Riprendendo la terminologia greimasiana, il soggetto metacognitivo Tristano gestisce i livelli di sperimentazione della propria melanconia384: melanconia vissuta hic et nunc da un lato, melanconia coscientemente gestita e manipolata dall’altro, tanto da sfruttarne le potenzialità diegetico-mimetiche. Non siamo lontani da quanto proponevano le Folies Tristan, che abbiamo letto alla luce della teoria antropologica di Victor Turner. Anche qui si tratta di un Tristano autore della sua storia385 e di altre storie a questa potenzialmente 381 Si veda Michelle ZINK, «Note sur la rivalité et la jalousie dans le Tristan de Thomas», in Conjunctures. Medieval Studies in Honor of Douglas Kelly, Amsterdam/Atlanta, Rodopi, 1994, pp. 589-596. 382 Vv. 1119-1126 (Quando ha pensieri così irosi, mostra ostilità alla statua; viene a guardare l’altra, non volendo più né vederla né parlarle. Così si rivolge a Brangania, e dice: «Bella, è con voi che mi lamento dell’infedeltà e del tradimento che mi ha riservato la mia amica Isotta»). 383 Per un’analisi dettagliata degli elementi teatrali nel romanzo di Thomas si veda Jean-Marie FRITZ, «Regards, gestes, voix: réflexions sur la mise en scène dans le Tristan de Thomas», in Danielle BUSCHINGER Claire ROZIER, a cura di, Les romans de Tristan de Gottfried von Strassburg et de Thomas d’Angleterre, Amiens, Presses de l’ufr de Langues, Université de Picardie - Jules Verne, 1999, pp. 15-28. 384 «Il est clair que le mélancolique est particulièrement prédisposé à entretenir en lui ce que Hildegarde de Bingen appelle les ‘fumées de l’imagination’. Il possède une aptitude particulière à ‘fantasmer’; c’est sans doute ce que suggère le célèbre épisode de Tristan dans la salle aux images. […] L’adjectif pensif pourrait bien être le véritable mot-clef de toute la théorie de l’éros mélancolique telle que l’illustre le texte littéraire. Il désigne l’extase devant les fantômes de l’imagination. Si le XIIe siècle n’a pas, comme on le dit parfois, inventé l’amour, en revanche il a, par la littérature, découvert la nature fantasmatique du phénomène amoureux. En associant les deux adjectifs pensif et amerus, Thomas établit donc un lien direct entre le mal d’amour et le tempérament mélancolique, sans qu’il soit parfaitement possible de décider si Tristan est mélancolique parce qu’il est amoureux ou s’il est amoureux parce qu’il est mélancolique» (Philippe WALTER, «Tristan et la mélancolie. Contribution à une lecture médicale des textes français en vers sur Tristan», in Sir Gawain and the Green Knight, Actes du XIVe Congrès International Arthurien, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 1985, pp. 646-657, p. 650). Parlando di natura fantasmatica dell’amore, Walter fa riferimento a Giorgio AGAMBEN, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 1977. 385 Baumgartner si spinge a considerare Tristano doppio di Thomas (Tristan et Iseut. De la légende aux récits en vers, p. ) e, forse con qualche forzatura, l’episodio delle statue come «une parfaite mise en abyme du 117 contigue; anche qui si tratta di un Tristano che è, insieme, autore e attore di una rappresentazione, segno rappresentato e manipolatore di segni. Il diaframma tra la cornice e la meta-rappresentazione è fluido, e il personaggio si realizza pienamente solo nell’attraversamento dei livelli. ualche riflessione merita, inoltre, il riferimento a Cariado, riguardo all’utilizzazione delle potenzialità diegetiche del testo messa in atto dalla nostalgia. Inscenando una storia in cui Isotta cede al fascino del bel cavaliere, Tristano crea un contrappunto a quanto raccontato in un'altra parte del romanzo, tramandata dal manoscritto Sneyd, in cui il giovane, determinato a conquistare la regina, le rivela che Tristano si è sposato con la figlia del duca di Bretagna386. Al contrario di quanto sospettato da Tristano, non otterrà però molto da Isotta: Ysolt respond par engaigne: «Tuit diz avez esté huan, Pur dire mal de dan Tristan. Ja Deus ne doinst que jo bien aie Si endreit de vos ne sui fresaie. Vos m’avez dit male novele, Ui ne vos dirai jo bele: En veirs vos di, pur nient m’amez, Ja mais de mei bien n’esterez. Ne vos ne nostre droeri[e] N’amerai ja jor de m[a vie]»387. Abbiamo già visto nel capitolo precedente (cfr. supra III.4, n. 361), come i testi delle Folies abbozzino realizzazioni di tracce diegetiche potenzialmente presenti nella trama ma che non vi trovano reale compimento. Qui Thomas, sfruttando la disponibilità del personaggio nostalgico a fantasticare su storie che lo vedano vittima di una sorte avversa, offre un esempio simile, creando, per opposizione, un collegamento interno al romanzo 388, attualizzando, nella visione fantasmatica messa in scena da Tristano, uno sviluppo potenziale della trama. L’asse semantico della nostalgia, dunque, amplifica gli orizzonti del personaggio e quelli del testo: sia Tristano che la storia si rinfrangono in una pluralità di livelli, che ne dilatano i confini, li récit: sont représentées, statufiées, les scènes essentielles du drame amoureux, de sa naissance à la rupture de l’exil» (« uand l’Ymage se fait chair», p. 140). 386 Cfr. vv. 1001 ss. 387 Vv. 1070-1080 (Isotta risponde con prontezza: «Siete sempre stato un uccello del malaugurio, sempre a dire male di sir Tristano. Che Dio mi danni se il mio non sarà per voi un canto di morte. Voi mi avete portato una triste notizia, ed io non ve ne darò una bella: ve lo dico chiaramente, mi amate invano, non avrete mai nulla da me. Non verrà mai giorno della mia vita che amerò né voi né la vostra galanteria). 388 L’esempio citato mi pare indicativo, pur nello stato frammentario del romanzo, di una sua coerenza strutturale. Come vedremo nel proseguimento dell’analisi, vi compare spesso un gioco di richiami che, per specularità o antitesi, approfondiscono, duplicandoli, alcuni elementi della trama. Il procedimento contribuisce in maniera particolare alla costruzione di una visione articolata del personaggio. 118 rendono ambiguamente fluttuanti389. A esasperare il movimento del personaggio e del testo interviene poi nel frammento il particolare status dell’immagine. A rigore, almeno in una prima descrizione dell’episodio, dovremmo parlare d’icona, e non d’immagine. Un’icona «renvoie all’apparence de l’objet reproduit»390, e le statue d’Isotta e di Brangania si caratterizzano proprio per il loro essere surrogato di un oggetto reale, per la loro funzione di rievocare il ricordo, per il loro essere oggetto di contemplazione da parte dell’osservatore. Ben presto, però, le cose prendono un’altra piega. Nel momento in cui Tristano cessa di porsi come semplice osservatore e si spinge oltre l’evocazione di un passato perduto, elaborando una nuova configurazione diegetico-mimetica, si ha il passaggio dall’icona all’immagine interna. La questione non riguarda più le statue, che sono annullate nella loro materialità, né il ricordo preciso e nitido a esse associato, ma l’universo immaginifico – la nuova configurazione diegetico-mimetica – verso cui le icone e l’osservatore sono proiettati: L’image interne acquiert une vie qui lui est procurée par le sujet de réception: elle peut être présente en l’absence de son modèle (par mémorisation, par le rêve ou l’hallucination). De là le glissement de l’image au fantôme, apparition visuelle en l’absence du modèle391. Tristano non è più davanti a due statue, ma davanti alla sua visione fantasmatica. Inoltre, questa lo ritrae totalmente immerso, come attore, nella rappresentazione da lui stesso ideata, rappresentazione in cui il personaggio sperimenta tutto un ventaglio di pose, umori, espressioni: Tristan d’amor si se contient: Sovent s’en vait, sovent revent, Sovent li mostre bel semblant, E sovent laiz, come diz devant392. 389 Nell’episodio della salle aux images, il racconto diventa così una riflessione sul racconto; come indica Milland-Bove descrivendo un passo del Lancelot-Graal, «le passage invite surtout à une lecture métatextuelle: grâce à ces représentations au second degré que sont statues et automates, il dévoile l’artifice littéraire et engage à voir […] les clefs des enchantements de la fiction» (MILLAND-BOVE, La Demoiselle arthurienne. Ecriture du personnage et art du récit dans les romans en prose du XIIIe siècle, p. 3 4). Per Séguy, l’episodio apre «à une réflexion sur le conditions et les modes de la création romanesque mais aussi sur les pouvoirs de la fiction»; in questo suo valore metaletterario, il frammento risponderebbe «à la question de savoir ce que peuvent la littérature et le chant face au désir, à l’absence et au deuil» («L’idole et l’effigie», p. 206). Come si è visto (cfr. supra n. 368), già Roncaglia poneva un accento sulla forza della creazione artistica. 390 Joël THOMAS, «Introduction», in Id., a cura di, Introduction aux méthodologies de l’imaginaire, Paris, Ellipses, 1988, p. 22. 391 Ivi, p. 23. 392 Vv. 1145-1148 (Tristano si comporta così sotto l’effetto dell’amore: ora va via, ora ritorna, ora le si mostra benevolo, ora ostile, come ho detto prima). 119 Se inizialmente la questione era quella della confusione tra il modello e l’oggetto che lo rappresenta (le due statue, Brangania, Isotta), si passa poi alla prospettiva della confusione del soggetto con l’universo che questo ha proiettato393. Tristano, ibrido nel suo essere creatore della rappresentazione e personaggio in essa agente, è, dalla particolare ottica della visione fantasmatica, un processo che oscilla tra questi due livelli, che li congloba e oltrepassa. La contemplazione della statua ha generato il risentimento di Tristano e il sospetto che Isotta lo tradisca con Cariado. Da lì è cominciata la finzione nella finzione, da lì Tristano si è fatto personaggio della sua visione, iniziando a chiedere conforto a Brangania e rivolgendo a Isotta espressioni corrucciate, scendendo così, anche lui, nel regno delle immagini. Con una sottigliezza e un’abilità estrema di gestione della materia romanzesca, Thomas, senza segni testuali evidenti, ha creato una cornice e, nello stesso tempo, l’ha fatta attraversare al suo protagonista. Da questo punto il lettore ha davanti la visione fantasmatica di Tristano, non più semplicemente il racconto del suo dolore da parte di una voce narrante: il personaggio si fa immagine tra le immagini, visione nella sua visione, il soggetto si risoggettivizza394. Altrettanta ambiguità investe il personaggio d’Isotta, che, nel passaggio dall’icona all’immagine, fino alla proiezione fantasmatica, cessa di coincidere sia con la statua che con il suo modello reale, per diventare un terzo mai dato. Nel regno delle immagini tutto è mobile, sfocato, scivolante verso il contiguo. Il centro della visione abbandona il macrosegno della statua d’Isotta, per illuminarne un particolare: uanque il pense a l’image dit, Poi s’en desenfle un petit, Regarde en la main Ysodt: L’anel d’or doner li volt, Vait la chere e le senblant Que au departir fait son amant; Menbre lui de la covenance u’il ot a la deseverance. Hidonc plure e merci crie De ce que pensa folie, E siet bien que il est deceü De la fole irur que il a eü395. 393 Rileva Joël Thomas: «Tout objet reproduit est un produit et, comme tel, reste objet. L’activité imaginaire consiste à subjectiver cet objet en lui insufflant une vie et une signification qui ressortissent du sujet. Les études sur l’imaginaire s’efforcent de repérer les modalités opératoires par lesquelles le modèle se confond avec sa représentation, et le sujet avec son univers objectal» (THOMAS, «Introduction», p. 23). 394 Sul concetto estetico-psicoanalitico di soggetto come «movimento continuo di risoggettivazione di ciò che è stato in vista di una nuova biografia» si rinvia a Massimo RECALCATI, Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica, Milano, Mondadori, 2011, p. XIII. 395 Vv. 1127-113 ( uello che pensa dice alla statua, poi si calma un po’, guarda verso la mano d’Isotta: vuole donargli l’anello d’oro, vede l’espressione che faceva al suo amante al momento della partenza; si ricorda 120 Se la statua d’Isotta, icona che propone un principio di coincidenza tra il modello e il segno che lo rappresenta in sua assenza, aveva generato un esito negativo, accendendo l’astio di Tristano, al contrario, una metonimia della regina, l’anello d’oro che aveva regalato all’amato durante il loro ultimo saluto, produce un effetto rasserenante. L’anello, al contrario della statua, la quale si appoggia su un’idea d’identità rigidamente data, propone una catena di associazioni in cui l’icona cede il passo all’immagine fluida e al viaggio memoriale. Si noti come il testo giochi sull’opposizione tra i verbi regarder et veoir: Tristano guarda la mano della statua e vede l’espressione del volto d’Isotta nel momento dell’addio. Credo, cioè, che non si debba necessariamente dedurre che la statua d’Isotta raffiguri la regina nel momento in cui, salutando l’amato, gli dona l’anello, ma mi pare che la visione dell’addio possa appartenere all’immagine elaborata da Tristano, e non all’icona. L’anello, per via del potere di scivolamento della metonimia, annulla l’inutile surrogato di presenza offerto dalla statua e attiva un recupero positivo del vuoto dell’assenza, aprendo la strada all’evocazione immaginifica del ricordo. Alla sovrapposizione rigida promossa dall’icona, segno di qualcosa che sta al posto di qualcos’altro, subentra un’evanescenza. Nella visione fantasmatica di Tristano, l’immagine del personaggio dell’amata oscilla tra il volto della statua, la circonferenza dorata dell’anello, il ricordo dell’espressione segnata sul volto d’Isotta al momento dell’addio; il referente sembra annullato e, al posto d’Isotta e al posto della statua, entra in gioco, come un terzo mai veramente precisato, un’immagine. L’anello apre la strada al ricordo, avviando uno scavo verticale attraverso le potenzialità semantiche insite nell’evocazione di Isotta396: il personaggio è un personaggio-immagine397, talmente fantasmatico, elaborato, aggrovigliato da aprire la strada a una sua rarefazione. della promessa che si sono scambiati durante l’addio. Allora piange e implora perdono per le follie che ha pensato. E sa bene che è fuori di sé per la folle collera che prova). 396 Sulle potenzialità semantiche dell’anello si veda Alain CORBELLARI, «Les jeux de l’anneau, fonctions et trajets d’un objet emblématique de la littérature narrative médiévale», in K. BUSBY - B. GUIDOT - L. E. WHALEN, a cura di, ‘De sens rassis’. Essay in Honor of Rupert T. Pickens, Amsterdam-New York, Rodopi, 2005, pp. 157-168. 397 La categoria di image-personnage è stata elaborata da Jouve (Vincent JOUVE, L’effet personnage dans le roman, in particolare alle pp. 40 ss.). Il punto di vista qui proposto è però diverso da quello dello studioso, il quale, in prospettiva pragmatica, parla del personaggio come di una «recréation imaginaire» operata dal lettore. Benché mi sembri indubbio che un testo trovi sempre compimento nell’atto di lettura e che l’immagine del personaggio sia il frutto di una cooperazione tra testo e lettore, la rappresentazione mentale qui descritta è, però, da intendersi come un oggetto del testo, radicato nella scrittura. 121 2. Doppio e castità L’episodio della salle aux images potrebbe essere considerato una cifra del modo in cui il romanzo di Thomas procede alla costruzione del personaggio: l’immagine, la scena, il fantasma ne sono elementi costitutivi. Il personaggio vive qui di un’evanescenza che lo rende vivo solo nel richiamo all’altro, in cui trova una sorta di appendice: tramite un sistema di richiami per omologia o opposizione, tramite, si potrebbe dire, un sistema retorico di ossimori e metonimie che imbastisce il tessuto della scrittura, si realizza un’idea di personaggio come processo. Il sistema di richiami di cui si diceva ha spesso spinto la critica a indagare le dinamiche del doppio nel sistema dei personaggi nel testo di Thomas398, ma il termine, ambiguo e abusato, richiede, per non incorrere in una facile genericità, qualche precisazione. I doppi a cui il romanzo allude esplicitamente sono le due Isotta e i due Tristano. Riguardo a Isotta la Bionda e Isotta dalle Bianche Mani, quello di cui si trova chiara traccia nel testo è la coincidenza del nome, mentre non vi compare nessuna allusione, almeno nei frammenti pervenuti, a una somiglianza fisica (si legge solo, come vedremo, che sono di pari bellezza). Se dobbiamo attenerci a una definizione stretta di doppio399, che preveda la parabola dell’emersione, nell’intreccio, di una figura esattamente corrispondente nelle sembianze fisiche a una figura data, con rilevanti conseguenze negli sviluppi futuri proprio per via della somiglianza, siamo alquanto lontani da un simile impostazione. Se ci spingiamo poi a cercare un’analogia con l’elaborazione del tema del doppio prodottasi con la letteratura fantastica del diciannovesimo secolo e indagata da Freud e dal suo allievo Rank attraverso i concetti di Doppelgänger e di Unheimliche400, allora siamo ancor più fuori strada: l’assonanza delle due Isotta non ha nulla dell’inquietante apparizione del doppio. Più sottile sembrerebbe, invece, il caso dei due Tristano, di cui ci racconta il codice Douce, e che dovrebbe essere 398 Susan Dannenbaum considera il motivo del doppio come un riflesso narrativo delle contraddizioni della storia. Cfr. Susan DANNENBAUM CRANE, «Doubling and Fine Amor in Thomas’s Tristan», Tristania, 5/1, 1979, pp. 3-14. Si veda inoltre: Morgan DICKSON «Female Doubling and Male Identity in Medieval Romance», in Ph. HARDMAN, a cura di, The Matter of Identity in Medieval Romance, Cambridge, D.S. Brewer, 2002, pp. 59-72. Sulla questione della coincidenza dei nomi delle due Isotta (o tre, se si considera la madre d’Isotta la Bionda che compare nelle versioni che raccontano la prima parte della leggenda), si vedano: Gerald J. BRAULT, «The Names of the Three Isolts in the Early Tristan Poems», Romania, 115, 1997, pp. 22-49; Terrence SCULLY, «The Two Yseults», Mediaevalia, 3, 1977, pp. 25-36. 399 Si rinvia a Massimo FUSILLO, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Scandicci, La Nuova Italia, 1998 (nuova edizione: L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Modena, Mucchi, 2012). Si veda anche Pierre JOURDE - Paolo TORTONESE, Visages du Double. Un thème littéraire, Paris, Nathan, 1996. 400 I classici punti di riferimento sono gli studi sul Doppelgänger di Rank e sull’Unheimliche di Freud: Otto RANK, Il doppio: il significato del sosia nella letteratura e nel folklore (1914), Milano, Sugarco, 1979; Sigmund FREUD, «Il perturbante» (1919), in Id., Opere, vol. IX, pp. 81-114. 122 un’invenzione di Thomas d’Angleterre, non presente negli altri testi della leggenda401. Cercheremo di indagare sul modo in cui il testo sviluppa le due tracce, seguendo l’idea che, più che di una rappresentazione della specularità, di doppio da intendersi come tema che attraversa lo sviluppo dell’intreccio, il romanzo di Thomas operi un’utilizzazione retorica della specularità, come se la doppiezza dei personaggi non fosse contenutisticamente rilevante, ma servisse, formalmente, a una costruzione in cui il personaggio non si rivela per descrizioni imperniate su di lui o per un discorso proferito da o su di lui, ma per associazioni di opposizione e somiglianza tra i vari personaggi, associazioni che scandiscono il movimento della scrittura romanzesca402. Oltre che sui due chiari casi di doppio menzionati, ci soffermeremo, inoltre, su un caso meno cristallino, quello del rapporto tra Isotta e Brangania, per spingerci, sulla base delle considerazioni attorno alle specularità degli attori, fino a una descrizione complessiva dell’intero sistema dei personaggi, di cui si rivelerà essere parte integrante la maschera dell’autore Thomas. La grande abilità della scrittura di Thomas sta nel trasferire quello che è un motivo della leggenda – la doppiezza delle due Isotta – in un’elucubrazione di Tristano. La coincidenza dei nomi e la parità della bellezza delle due donne, più che essere dei dati di fatto, appaiono come due segni risucchiati dall’introspezione, salde ancore del discorso di autoconvincimento cui il protagonista si dedica nell’episodio del mariage, dove s’interroga sull’opportunità di sposare Isotta dalle Bianche Mani, superando i sensi di colpa per il tradimento inferto così all’altra Isotta. Il dubbio nasce dalla possibilità, remota ma comunque valida, di poter rimediare alle pene d’amore consolandosi con l’altre. Tristano insiste sul fatto che, se non gli si fosse presentata l’occasione di essere coveité, desiderato dall’altra Isotta, avrebbe patito con maggiore agio le sue sofferenze: E si set bien ma grant dolur E l’anguisse que ai pur s’amur, Car d’altre sui molt coveité, E pur ço grifment anguissé. Se d’amur tant requis n’esteie, Le dé milz sofrir porreie; E par l’enchalz quid jo gurpir, S’ele n’en pense, mun desir403. 401 Si veda il Répertoire dell’edizione Pléiade a p. 1694. Il personaggio non è cioè, semplicemente, dato dalla parola che, palesemente, lo chiama in causa, ma la sua identità si rivela in un percorso più articolato. 403 Vv. 233-24 (Eppure conosce bene il mio immenso dolore e l’angoscia che provo per amor suo, poiché sono molto desiderato da un’altra e perciò profondamente angosciato. Se non fossi tanto richiesto d’amore, potrei sopportarlo meglio, e, attraverso il gioco della seduzione, potrei abbandonare, se lei non mi pensa, il mio desiderio). 402 123 È quindi, in una messa in evidenza del gioco del parallelismo del doppio, la possibilità della sostituzione, di un’intercambiabilità a far emergere l’angoscia di Tristano e a fargli intravedere la possibilità del matrimonio. E, se questa intercambiabilità non fosse avallata dall’identità dei nomi e da una bellezza che ricorda quella dell’amata, la questione non si porrebbe. Se venisse meno uno solo dei due elementi, nome o bellezza, Tristano non sarebbe assillato dal dubbio: Car Ysolt as Blanches Mains volt Pur belté e pur nun d’Isolt. Ja pur belté qu’en li fust, Se le num d’Isolt n’ëost, Ne pur le nun senz belté, Ne l’oüst Tristan en volenté. Ce dous choses qu’en li sunt Ceste faisance emprandre font, u’il volt espuser la meschine Pur saveir l’estre la reïne, [Co]ment se puisse delitier [Enc]untre amur od sa moillier404. Agevolato dalla posizione in rima, il binomio meschine-reïne sembra fondersi in un’immagine unica nel pensiero di Tristano riportato dalla voce narrante. I versi insistono in maniera pleonastica, quasi assordante, sulla rima meschine-reïne e sulla coincidenza di nun e belté: Le nun, la belté la reïne Nota Tristan en la meschine; Pur le nun prandre ne la volt, Ne pur belté, nu fust Ysolt; Ne fust ele Ysolt apelee, Ja Tristan ne la oüst amee; Se la belté Ysolt n’oüst, Tristan amer ne la poüst405. Il testo, con grande maestria retorica, propone, per via di una sorta d’immagine sonora, i tortuosi e ripetitivi pensieri di Tristano che cerca di autoconvincersi di quanto la compresenza, in Isotta dalle Bianche Mani, del nome e della bellezza d’Isotta la Bionda, giustifichino la 404 Vv. 403-414 (In effetti vuole Isotta dalle Bianche Mani per la bellezza e per il nome d’Isotta. ualunque fosse stata la sua bellezza, se non avesse avuto il nome d’Isotta, o se avesse avuto il nome ma non fosse stata bella, Tristano non l’avrebbe voluta. ueste due cose riunite in lei gli fanno intraprendere quest’impresa, poiché vuole sposare la fanciulla per conoscere l’essere della regina, come possa deliziarsi con la moglie contro amore). 405 Vv. 427-434 (Il nome, la bellezza della regina notò Tristano nella fanciulla; non l’avrebbe voluta per il nome, né per la bellezza, se non si fosse chiamata Isotta; se non si fosse chiamata Isotta, Tristano non l’avrebbe mai amata; se non avesse posseduto la bellezza d’Isotta, non l’avrebbe potuta amare neppure). 124 scelta del matrimonio. Thomas, manipolando la materia della leggenda, fa del motivo del doppio il frutto di un arrovellamento mentale di Tristano, il cui esito è di fondere i due nomi e le due bellezze in un’immagine ibrida che renderà sopportabile l’idea del matrimonio. Il discorso sembra mirare alla cancellazione del confine, della linea di demarcazione tra i profili delle due Isotta. In questo modo, Tristano potrà sperimentare che cosa prova la regina a stare accanto a un uomo che non ama («Pur saveir l’estre a la reïne»406). Nella messa a fuoco del rapporto speculare (e/o antitetico) tra le due Isotta, un ruolo di primo piano è svolto dall’elemento erotico. Descrivendo l’arrovellamento di Tristano, i versi insistono in maniera quasi ossessiva sull’unione sessuale tra Marco e Isotta, sul possesso fisico del corpo dell’amata da parte del re, sul potenziale erotico e la desiderabilità d’Isotta la Bionda: Jo perc pur vos joie e deduit, E vos l’avez e jur e nuit. Jo main ma vie en grant dolur, E vos vestre en delit d’amur. Jo ne faz fors vos desirer, E vos nel puëz consirer ue deduit e joie n’aiez, E que tuiz voz bienz ne facez. Pur vostre cors su jo empaine, Li reis sa joie en vos maine; Sun deduit maine e sun buen, Ço que mien fu ore est suen407. Il corpo d’Isotta la Bionda è oggetto di un vero e proprio assillo dell’amante, corpo scivolato dalle sue braccia a quelle di Marco. I piaceri dell’amore potrebbero aver spinto Isotta ad apprezzare la frequentazione del re, dimenticando il suo antico amante: Tant se deit deliter al rei, Oblïer deit l’amur de mei, En sun seignur tant deliter, Que sun ami deit oblier408. Par jueir, par sovent baisier Se puet l’en issi acorder. Tost li porra plaisir si bien, 406 V. 3 (Per conoscere l’essere della regina). Vv. 215-226 (Io perdo a causa vostra gioia e piacere, e voi l’avete giorno e notte. Io passo la mia vita in grande sofferenza, e voi la vostra in diletto d’amore. Io non faccio altro che desiderarvi, e voi non potete impedirvi di avere piacere e gioia, e di inseguire il vostro volere. Io mi torturo per il vostro corpo, il re coglie in voi la sua gioia; coglie il suo piacere e il suo volere, ciò che fu mio ora è suo). 408 Vv. 309-312 (Deve dilettarsi tanto col re da dimenticare l’amore per me, dilettarsi tanto col suo signore che deve dimenticare il suo amico). 407 125 De mei ne li menbera rien409. Dalle precedenti citazioni scaturisce la grande falla del discorso di autoconvincimento di Tristano, che, da un lato, sembra meticolosamente impegnato a demolire le differenze tra le due Isotta, a insistere su quella coincidenza di nome e bellezza che lo porta a fondere la fanciulla e la regina in un’unica immagine, dall’altro, esaspera le divergenze, accordando a Isotta la Bionda uno smisurato potenziale erotico, una prorompente desiderabilità, incentivando la sua caratterizzazione fortemente sessuata. In confronto a tanta esplosiva carica erotica, l’altra Isotta rappresenterà, com’è noto, una sorta di grado zero della sessualità, che la destinerà a un’impossibile deflorazione. Si sarebbe tentati, insomma, di leggere nel romanzo una dicotomia netta che segna i due personaggi e che potrebbe spingere a classificarli e opporli secondo le loro qualità: per l’una una connotazione accentuatamente sessuata, per l’altra un’aura di assoluta castità. Vedremo, invece, come Thomas sappia andare oltre un simile ingenuo binarismo e come utilizzi la dicotomia eros-negazione dell’eros per farne non delle qualità dei personaggi, ma un asse strutturale del romanzo, una linea che i personaggi attraversano, rivelandosi più complesse oscillazioni tra estremi. Dopo quattrocento versi che il manoscritto Sneyd dedica all’indecisione di Tristano e all’inarrestabile attrattiva d’Isotta la Bionda, la scelta di sposarsi con Isotta dalla Bianche Mani, il corteggiamento e il matrimonio stesso sono evocati in un’estrema sintesi: Pur ço que d’amur se dolt Ysolt, Par Isolt delivrer se volt. E tant la baisse e tant l’acole, Envers ses parenz tant parole, Tuit sunt a un de l’espuser, Il del prandre, els del doner. Jur est nomez, terme mis. Vint i Tristan od ses amis, Li dux ove les suens i est, Tuit l’aparaillement i est prest. Ysolt espuse as Blanches Mains410. 409 Vv. 321-324 (Godendo, baciandosi spesso si può andare d’accordo. Presto le potrà piacere tanto da non ricordarsi per nulla di me). 410 Vv. 569-5 9 (Poiché soffre per amore d’Isotta, attraverso Isotta si vuole liberare. E tanto la bacia, tanto l’accarezza, tanti discorsi rivolti ai suoi genitori, che tutti sono d’accordo a farli sposare, lui a prenderla, gli altri a dargliela. Il giorno è deciso, il termine fissato. Tristano è venuto con i suoi amici, il duca è con i suoi, tutti i preparativi sono pronti. Sposa Isotta dalle Bianche Mani). Al verso 5 l’edizione Pléiade riporta odve. Si corregge in ove, seguendo l’edizione Wind, quella Lecoy e quella Lacroix-Walter (Les fragments du Roman de Tristan. Poème du XIIe siècle, édités avec un commentaire par Bartina H. Wind, Genève-Paris, Droz-Minard, 1960; Tristan et Iseut. Les poèmes français, la saga norroise, Texte originaux et intégraux présentés, traduits et 126 Dopo l’insistita evocazione dell’espansività libidica del ritratto d’Isotta la Bionda, qui è questione di qualche bacio e di qualche carezza. La negazione dell’eros sarà estremizzata durante la prima notte di nozze. Tristano si sveste della tunica, che è ben stretta ai polsi, l’anello che Isotta la Bionda gli ha donato al momento del loro ultimo saluto gli si sfila dal dito411, il ricordo affiora, il dubbio lo investe nuovamente: Chulcher m’en voil ore en cest lit, E si m’astenderai del delit412. È ben nota la scusa apportata da Tristano per la sua astensione dai doveri coniugali: racconterà di aver ricevuto, durante un combattimento, una ferita al fianco destro a causa della quale preferisce non sottoporsi a sforzi. Isotta dalla Bianche Mani resterà vergine, ma, questo non basta ad attribuirle la maschera della castità, a connotarla come rappresentante della negazione dell’eros, da contrapporre all’altra Isotta, evocata, se non ritratta, nei suoi amplessi con Marco o con Tristano. L’eros è un’ombra costantemente calata su Isotta dalla Bianche Mani, ombra che sarà la chiave di volta della tragedia finale. Appena Tristano si stende accanto a lei, la novella sposa lo abbraccia, lo bacia, gli si stringe contro: Tristan colche, Ysolt l’embrace, Baise lui la buche e la face, A li l’estraint, del cuer susspire, E volt iço qu’il ne desire413. Si noti poi la risposta alla confessione di Tristano, risposta ambigua nel suo riferimento ora alla preoccupazione per la salute del marito, ora all’astinenza cui la ferita la costringerà: Del mal me peise, Ysolt resspont, Plus que d’altre mal en cest mond. Mais de l’el dunt vos oi parler Voil jo e puis bien desporter414. commentés par Daniel LACROIX et Philippe WALTER, Paris, Le Livre de Poche, 1989; Le roman de Tristan par Thomas, édité par Lecoy FELIX, Paris, Champion, 1991; cfr. rispettivamente le pagine 49, 358, 32). 411 Ritorna, come nella salle aux images, l’anello come macchina che attiva il ricordo. Oltre al già citato Corbellari, si veda, sul ruolo dell’anello nel romanzo di Thomas,Valeria Bertolucci PIZZORUSSO, «La clergie di Thomas. L’intertesto agiografico-religioso», in Luciano ROSSI, a cura di, Ensi firent li ancessor. Mélanges de philologie médiévale offerts à Marc-René Jung, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1996, t. I, pp. 335-348, in particolare a p. 335. La studiosa vede nell’anello un rappresentante del filtro d’amore (che non ha particolare spessore nei frammenti di Thomas). 412 Vv. 779-780 (Mi coricherò ora in questo letto, ma mi asterrò dal piacere). 413 Vv. 795-798 (Tristano ci corica, Isotta lo abbraccia, gli bacia le labbra e il viso, lo stringe a lei, sospira dal fondo del cuore, e vuole ciò che lui non desidera). 127 Il testo rappresenta dunque, ben oltre un’opposizione dicotomica tra un’Isotta ipersessuata e un’Isotta casta, una spiccata libidine anche nella moglie di Tristano. Il tratto raggiungerà una notevole amplificazione nell’episodio dell’acqua ardita (vv. 12 -1350). Isotta dalle Bianche mani «ovec son seignor jut pucele»415, tenendo questa verità nascosta a conoscenti e amici, acconsentendo alla richiesta che le aveva avanzato Tristano. Un giorno, durante una passeggiata a cavallo con il fratello Caerdino, il suo cavallo s’impenna, scivolando su una pozzanghera e producendo uno schizzo d’acqua fredda che s’insinua tra le cosce della donna: Contre les cuisses li sailli Quant ele ses cuisses enoveri Por le cheval que ferir volt. De la fraidure s’efroie Ysodt, Gete un cri e rien ne dit, E si de parfont cuer rit Que si ere une quarentaigne, Oncore s’en estent adonc a paigne416. Davanti all’irrefrenabile riso, a Caerdino viene il dubbio che possa aver detto qualcosa di grossolano e inopportuno, e chiede spiegazioni alla sorella, pregandola di non mentire a riguardo. Isotta dalle Bianche Mani non potrà così più tenere nascosta l’ombra della castità417 proiettata sul suo matrimonio: Ysode entent que il li dit, Set que, se de ce li escondit, ue il l’en savera molt mal gré, E dist : «Ge ris de mon pensé, D’une aventure que avint, E por ce ris que m’en sovint. Ceste aigue, que ci eclata, Sor mes cuisses plus haut monta ue unques main d’ome ne fist, Ne que Tristan onques ne me quist. Frere, ore vos ai dit le dont»418. 414 Vv. 851-854 (Il vostro male mi pesa, rispose Isotta, più che qualunque altro male in questo mondo. Ma, riguardo a quello di cui voi avete parlato, io voglio e posso sopportarlo). 415 V. 1279 (si corica vergine con il suo signore). 416 Vv. 1314-1321 (Le schizzò sulle cosce, quando le socchiudeva per spronare il cavallo. Dalla freddezza fu sorpresa Isotta, gettò un grido e non disse nulla, e rise di così buon cuore che, se ci fosse trovati in tempo di quaresima, avrebbe avuto difficoltà a trattenersi). 417 Cfr. Patrick Michael THOMAS, «Nuances of Chastity: The Tristan of Thomas», French Studies Bulletin, 41, 1991, pp. 1-3. 418 Vv. 1340-1350 (Isotta comprende ciò che le dice, sa che, se gli nasconde la verità, lui le serberà rancore, e dice: «Ho riso di un mio pensiero, ho riso per quello che ho ricordato. uest’acqua che mi è schizzata addosso 128 L’episodio dell’acqua ardita si è prestato a letture critiche improntate a una valorizzazione dell’immagine di un coito mancato419. Ai nostri fini, sarà sufficiente rilevare come in quel grido e in quell’esplosione di riso si offra un’immagine di Isotta dalle Bianche Mani alternativa a quella della fanciulla casta ed esente dal richiamo dell’eros. La fantasticheria della moglie di Tristano è segno di un’audacia che ricorda l’altra Isotta, sfacciata nella sua accensione sessuale, divisa tra uomini che la possiedono e uomini che la desiderano, in un gioco che è quindi ben più ambiguo di quello che una visione oppositiva dei due personaggi lascerebbe ammettere. La costruzione del personaggio lavora su una rete di richiami che manovrano tratti, echi, sfumature, senza che nessun personaggio possa essere identificato con una qualità che funga da sua matrice identitaria. Isotta dalle Bianche Mani, nella fugacità dello schizzo d’acqua, nell’acutezza dell’urlo e nell’irrefrenabile esplosione di riso, raggiunge l’immagine dell’altra Isotta, in una dislocazione del personaggio che avvicina la percezione del lettore a quella confusione identitaria con cui Tristano sembrava guardare alle due Isotta nel suo arrovellamento, quando cercava di convincersi dell’opportunità del matrimonio. Il tentativo di Tristano di annullare le differenze diventa una strategia del testo, un meccanismo diretto alla creazione di vortici d’immagini più che di enti latori di un’essenza univoca. La castità e la frenesia sessuale non sono così due qualità che segnalano un personaggio, ma i due estremi di un filo che attraversa il testo. Se Isotta dalla Bianche Mani eccede rispetto all’etichetta della castità, il suo doppio Isotta la Bionda travalica la connotazione ipersessuata e raggiunge, in alcuni punti del romanzo, il versante opposto. Il manoscritto Douce racconta come Tristano e Isotta la Bionda abbiano vissuto, in un fugace incontro, qualche momento di felicità; ma poi Tristano è dovuto ripartire420. Ormai a conoscenza delle pene dell’innamorato, che si strugge nel languore per la lontananza e che vive nella castità, Isotta vuole condividere pari sofferenze421: Pur lui s’esteut de maint afeire Qui a sa bealté sunt cuntraire, è salita sulle mie cosce più in alto di quanto fece mai mano d’uomo, dove Tristano non si spinse mai. Fratello, ora ve ne ho detto il motivo). 419 Si veda Jean-Charles HUCHET, Littérature médiévale et psychanalyse. Pour une clinique littéraire, Paris, PUF, 1990, pp. 43 ss. 420 Cfr. vv. 2149 ss. 421 Sul tema della sofferenza si veda, in particolare, Jean LARMAT «La souffrance dans le Tristan de Thomas», in Mélanges de langue et littérature françaises du Moyen-Age offerts à Pierre Jonin, Aix-enProvence, CUER MA, 1979, pp. 369-385. 129 E meine en grant tristur sa vie. E cele qui est veire amie De pensers e de grant suspires, E leise mult de ses desirs: Plus leale ne fud unc veüe; Vest une bruine a sa char nue. Iloc la portoit nuit e jur, Fors quant culchot a sun seignur. Ne s’en aparceurent nient. Un vou fist e un serement u’ele ja mais ne l’ostereit Se l’estre Tristan ne saveit422. Nell’ottica del personaggio immagine, della rete di richiami che muove dall’uno all’altro e dall’altro all’uno, il cilicio indossato da Isotta la Bionda rappresenta il punto più alto di abolizione del confine tra lei e Isotta dalla Bianche Mani. Il simbolo della passione amorosa, dell’avvenenza nefasta cui è impossibile non cedere, l’oggetto del desiderio di sovrani e cavalieri, frustra il suo corpo, lo piega alla sofferenza e a una simbolica castrazione, lo fa accedere a quella zona d’ombra di negazione dell’eros che incombe sulla relazione tra Tristano e la moglie. La parte finale del romanzo sembrerebbe confutare questa confusione dei due profili che il testo ci ha finora additato: mentendo, per vendetta, sul colore della vela, Isotta dalle Bianche Mani si connota come l’antagonista che avvia la tragedia finale, ben contrapposta alla sua omonima. Ma è forse possibile spingersi oltre un’impostazione funzionale, attenta alle azioni, e concentrarsi invece sulle intenzioni, leggendo tra le righe uno sviluppo che la superficie nasconde, poiché l’impressione è che, ancora una volta, parallelamente all’intreccio della leggenda, il testo tracci, nello scandaglio psicologico che propone, altre vie. 3. Immunità-non immunità all’eros: verso una polifonia dei personaggi Nella fine del romanzo troneggiano i versi che riportano il discorso diretto di Tristano, il quale si concluderà con una triplice invocazione a Isotta, prima che il ferito a morte «rent 422 Vv. 2179-2192 (Per lui s’impone molte prove che vanno contro la sua bellezza, e passa la sua vita in grande tristezza. Si dimostra una perfetta amante, nei pensieri e nei profondi sospiri, tanto leale nei suoi desideri: non ne fu vista una più leale; porta un cilicio sulla pelle nuda, lo porta giorno e notte, tranne quando si corica con il suo signore. Nessuno si è accorto di niente. Fece il voto e il giuramento che non l’avrebbe tolto fino a che non avesse avuto notizie di Tristano). Sulla bruine del v. 2186 si veda Marchello-Nizia: «Il s’agit bien d’un cilice» («Notes et variantes», in ed. Pléiade, pp. 1248-1287, p. 1274). 130 l’esprit»423. Il filtro del punto di vista di Tristano segna tutta la fine della storia, impregna lo spirito del testo, le sue parole alterano e pilotano la percezione della vicenda, il lettore legge con gli occhi del protagonista: Dunt a Tristan si grant dolur, Unques n’out n’avrad maür; E turne sei vers la pareie, Dunc dit: «Deus salt Ysolt e mei! Quant a moi ne volez venir, Pur vostre amur m’estuet murrir. Jo ne puis plus tenir ma vie. Pur vus muer, Ysolt, bele amie. N’avez pité de ma langur, Mais de ma mort avrez dolur424. Dalla visuale di Tristano, Isotta «non è voluta venire», non ha avuto pietà della sua sofferenza. La crudeltà che il livello dell’intreccio attribuisce a Isotta dalle Bianche Mani, è attribuita, dallo sguardo di Tristano, a Isotta la Bionda425. Come già nella lunga riflessione che ha preceduto il matrimonio, il filtro del protagonista confonde i confini tra le due donne: non si tratta di crudeltà dell’una o dell’altra, si tratta della non pietà di Isotta, senza specificazioni ulteriori. In quell’atto finale, in quel delitto indiretto, Isotta sembra portare a termine il progetto della scena del bagno raccontata in Goffredo di Strasburgo, quando, scoperto che Tristano era l’assassino di suo zio, lo avrebbe, se non fosse stato per l’intervento della madre, trafitto con la spada426. Nel delirio del protagonista, la sua storia, storia da sempre intrecciata di amore e di odio, di amore nonostante l’odio, trova un esito che era già inscritto in essa: il male, semplicemente, in un regolamento di conti dal primitivo sapore, torna indietro, e Tristano muore di quella stessa ferita fatale che inferse al Moroldo 427 (e che Isotta, questa 423 V. 3196 (spira). Vv. 3183-3192 (Allora Tristano provò un grande dolore, come mai ebbe, né ne avrà maggiore, e si volta verso il muro e dice allora: «Dio salvi Isotta e me! Poiché da me non volete venire, devo morire per il vostro amore. Non posso più trattenere la mia vita. Per voi muoio, Isotta, bell’amica. Non avete pietà della mia sofferenza, ma avrete dolore della mia morte). 425 Sul personaggio di Isotta nella scena finale si veda Toril MOI, «She Died Because She Came Too Late… Knowledge, Doubles and Death in Thomas’s Tristan», Exemplaria, 4, 1992, pp. 105-133 (anche in Id., What is a Woman? And Other Essays, Oxford, Oxford University Press, 2001, pp. 422-450). Sulla conclusione del romanzo di Thomas si rimanda, inoltre, a: PIERRE LE GENTIL, «Sur l’épilogue du Tristan de Thomas, in Mélanges de littérature du Moyen Age et du XXe siècle offerts à Mademoiselle Jeanne Lods, Paris, Collection de l'École Normale Supérieure de Jeunes Filles, 1978, v. I, pp. 365-370; Matilda T. BRUCKNER, «The Representation of the Lovers’ Death: Thomas’ Tristan as Open Text-Gothic Type, Tristania, 9, 1983, pp. 49-61; Jonna KJAER, «Le déguisement dans les ‘Folies Tristan’ et la mort chez Thomas d’Angleterre», in OLLIER, Masques et déguisements dans la littérature médiévale, pp. 65-73. 426 Cf. ed. Pléiade, pp. 517 ss. 427 Su questo concetto di male che torna indietro, di eccesso di energia pulsionale come modo d’essere del personaggio che gli si ripercuote contro, rimando a Giovanni BOTTIROLI, «Non diventare io. Ercole nel teatro 424 131 volta, non curerà)428. Abbiamo visto nel secondo paragrafo, analizzando l’episodio del mariage, come Thomas trasferisca il motivo della doppiezza delle due Isotta in un’elucubrazione di Tristano. La percezione che Tristano ha dell’evento finale della storia conferma questa visione secondo cui Thomas, con una raffinata elaborazione della trama della leggenda, trasporta il motivo del doppio nel soliloquio dai toni onirici di Tristano, lo filtra attraverso lo sguardo del protagonista, facendo di una traccia primitiva e dai tratti fiabeschi uno strumento d’analisi introspettiva, che, nello stesso tempo, diventa il luogo di rappresentazioni di notevole effetto. I volti delle due donne s’intersecano, si fondono, trascendono ogni concreta materialità, per farsi immagine fantasmatica che incarna quell’intrico imponderabile di amore e odio che attraversa il tessuto del romanzo. La confusione occasionata dalla coincidenza dei nomi e dall’equiparabile bellezza diventa quasi una confusione di azioni, come se l’indistinzione tra i due personaggi, l’annullamento delle differenze operato dal monologo di Tristano coinvolgesse anche il piano della condotta, configurando un’unica grande e terminale azione nefasta che, senza portare la firma di nessuno, è ascrivibile al rancore di cui una donna è capace. Nel suo discorso misogino, Thomas si è premurato di mettere in guardia dall’ira delle donne: Ire de femme est a duter, Mult s’en deit chascuns garder. Car la u plus amé avra, Iluc plus tost se vengera. Cume de leger vent lur amur, De leger vent lur haür, E plus dure lur enimisté, uant vent, que ne fait l’amisté. L’amur ne sevent amesurer, E la haür nent atemprer, Itant cum eles sunt en ire429. Il commento con cui il narratore introduce i propositi di vendetta d’Isotta dalla Bianche Mani assume una portata generica, che getta un’ombra su tutto il versante femminile del sistema dei greco», in Luca Carlo ROSSI, a cura di, Le strade di Ercole. Itinerari umanistici e altri percorsi, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2010, pp. 151-167. 428 Come scrive Moi, «Tristan’s death is excessively overdetermined» (MOI, What is a Woman?, p. 448). 429 Vv. 2749-2 59 (L’ira delle donne è da temere, ognuno se ne deve guardare. Perché, su chi avrà amato di più, più presto si vendicherà. Come facilmente viene il loro amore, facilmente viene il loro odio, e, quando viene, l’inimicizia dura più di quanto non faccia l’amicizia. Sanno amare con misura, ma non sanno moderare l’odio, quando sono in collera). 132 personaggi430. Un’altra figura di doppio aleggia intorno all’immagine d’Isotta, figura dalla specularità sicuramente meno immediata di quella con Isotta dalla Bianche Mani: si tratta della fedele compagna Brangania431. Benché di ardua leggibilità, il frammento di Carlisle432 mostra, nel racconto che dà della prima notte di nozze tra Marco e Isotta in cui Brangania si sacrifica prendendo il posto della regina, l’intercambiabilità tra i due personaggi: [B]ranguain s’ap[areille e äurne], Cum reïne fust [sei aturne]; Pur sa dame [met sei el lit], E la reïne [vest l’abit]433. La ricostruzione dei quattro versi ritrae l’abbandono fedele, se non servile, con cui Brangania ha ceduto alla richiesta d’Isotta, la quale, avendo perduto la sua verginità con Tristano, chiede alla giovane donna di sostituirla nel letto nuziale perché Marco non si accorga di nulla. Brangania si connota, dunque, come colei che ha immolato, in nome della fedeltà alla regina, la sua purezza, e lo scambio delle vesti e del ruolo, svoltosi con la complicità del buio nella camera, ne fa un’appendice d’Isotta, un suo surrogato. uest’immagine fedele di Brangania è destinata, però, a vacillare. Il frammento Douce riporta un lungo e rancoroso discorso di Brangania a Isotta, il cui antefatto, assente nei frammenti di Thomas, è ricostruibile sulla base delle altre versioni pervenute. Dopo aver ammirato nella sala delle statue l’effige di Brangania, Caerdino se ne innamora e vuole accompagnare Tristano alla corte di Cornovaglia per conoscerla. Qui, mentre Tristano e Isotta vivranno uno dei loro fugaci idilli d’amore, Brangania e Caerdino faranno altrettanto, finché Tristano non sarà costretto a partire nuovamente per fugare i sospetti di Marco, e il cognato, compagno fedele, lo seguirà. Brangania interpreterà la partenza come un’offesa nei suoi confronti, dichiarando tutti i sintomi della donna sedotta e abbandonata, e accusando Isotta di essere una volgare ruffiana. Si spingerà a rinfacciare alla 430 Sulla misoginia si veda Meritt R. BLAKESLEE, «Misogynie, fin’amur, et ambiguïté dans le Tristan de Thomas, PRIS-MA, 7, 1991, pp. 1-16. Un ridimensionamento della presunta misoginia di Thomas è proposto da FOEHR-JANSSENS, secondo cui, benché il narratore appaia misogino, il gioco polifonico della scrittura complica le cose, rendendo non semplice esprimersi in merito alla valutazione del femminile nel romanzo di Thomas (Yasmina FOEHR-JANSSENS, «Iseut ou la fin’amor rejouée», in Id., La jeune fille et l’amour, Genève, Droz, 2010, pp. 115-143). 431 Su Brangania come doppio d’Isotta si vedano: MILLAND-BOVE, La Demoiselle arthurienne, p. 288 ss., FOEHR-JANSSENS, «Iseut ou la fin’amor rejouée», pp. 123 ss. 432 Cfr. Michael BENSKIN - Ian SHORT, «Un nouveau fragment du Tristan de Thomas», Romania, 113, 1995, pp. 289-319. 433 Vv. 131-134 (Brangiana si prepara e si adorna, come se fosse la regina; al posto della sua signora s’infila nel letto, e la regina veste i suoi abiti). 133 regina tutto quello che ha subito a causa sua: «Dame, dit Brengvein, morte sui! Mar vi l’ure que vus cunui, E vus e Tristan vostre ami! Tut mun païs pur vus guerpi, E pus, pur vostre fol curage, Perdi, dame, mun pucelage. Jol fiz certes pur vostre amur; Vus me pramistes grant honur, E vus e Tristan le parjure, Ki Deu doinst ui mal aventure E dur encumbrer de sa vie! Par li fu ge primer hunie. Membre vus u vus m’enveiastes: A ocire me cummandastes. Ne remist en vostre fentise Que par les sers ne fui ocise: Melz me valuit la lur haür, Ysolt, que ne fiz vostre amur434. Si noti come, a ribadire le affinità tra i due personaggi, sia messa in evidenza la condizione di straniera di Brangania, tratto che caratterizza in maniera prominente – e speculare – anche Isotta: donne strappate alla propria terra, Isotta per essere data in sposa a un uomo che neanche conosceva, Brangania per seguirla435. Nel passo citato, Brangania fa riferimento a un episodio non pervenuto nel romanzo di Thomas e ricavabile da quello di Goffredo: Isotta, timorosa che Brangania possa raccontare a Marco della sua relazione adultera con Tristano, ordina a due servitori di ucciderla, ma questi, mossi a pietà dalla donna, le risparmieranno la vita436. Nonostante questo cruento gesto da parte d’Isotta, Brangania era ritornata al suo posto di fedele compagna, ma ora qualcosa sembra essere cambiato: Pur quei n’ai quis la vostre mort, Quant me la quesistes a tort? Cel forfez fud tut pardoné; Mes ore est il renovelé Par l’acheisun e par l’engin 434 Vv. 1423-1440 («Signora», dice Brangania, «sono morta. Fu infelice per me l’ora che vi conobbi, voi e il vostro amico Tristano! Ho abbandonato il mio paese per voi. Poi, per la vostra folle passione, ho perduto, signora, la mia verginità. L’ho fatto, certo, per amore vostro; Mi prometteste grande onore, voi e Tristano lo spergiuro, che Dio gli riservi la peggiore sorte ora e renda dura la sua vita. A causa sua fui disonorata per la prima volta. Ricordatevi dove mi inviaste: ordinaste di uccidermi. Non fu certo per merito vostro che non fui uccisa dai servi: mi valse di più il loro disprezzo, Isotta, di quanto non fu il vostro amore). 435 Isotta, nella sua replica, chiederà a Brangania, che vuole separarsi da lei, di considerare la fine che farebbe se l’abbandonasse, lasciandola «en terre estrange, senz ami» (v. 1542; in terra straniera, senz’amici). 436 Cfr. GOTTFRIED DE STRASBOURG, «Tristan et Isolde», in Tristan et Yseut. Les premières versions européennes, pp. 389-635, pp. 552-553. 134 Que fait avez de Kaherdin437. Isotta avrebbe spinto, in una cieca crudeltà, Caerdino a sedurre Brangania per comprometterla, duplicando la ferita inferta con il sacrificio della sua verginità. Inoltre, i rimproveri di Brangania non sono rivolti alla sola Isotta, ma coinvolgono anche Tristano. La coppia viene accusata di manipolare persone e sentimenti pur di appagare il proprio desiderio di unirsi: la storia d’amore di Tristano e Isotta, dopo la delusione avuta dalla sua relazione con Caerdino, diventa per Brangania – la quale pure aveva tanto protetto quella storia – oggetto di rancore. Stando alla teoria del desiderio mimetico di Girard, di cui abbiamo parlato nel primo capitolo (cfr. supra I. ), sembrerebbe che qui la sparizione delle differenze, l’esasperazione dell’ombra del doppio, stia facendo degenerare la situazione, caricandola di competizione e rivalità438. L’esperienza dell’amore, l’idillio vissuto con Caerdino (di cui purtroppo non ci resta traccia nel romanzo, rendendo inevitabilmente il tutto basato su supposizioni), deve aver fatto scattare in Brangania un odio acuto nei confronti d’Isotta. uest’odio è alimentato non tanto dai torti subiti, torti per cui avrebbe potuto odiarla ben prima, ma dal meccanismo d’identificazione che si è scatenato in lei: Brangania vorrebbe per sé una storia come quella di Tristano e Isotta, mentre si è finora accontentata di essere al servizio di quella storia. Delusa dal comportamento di Caerdino, che credeva un cavaliere degno di questo nome e che invece è, nella sua visione distorta, fuggito via spaventato da Cariado (ossia dal meno valoroso dei cavalieri), rimprovera a Isotta di averla gettata tra le braccia di un vigliacco: Guardé vus en dessornavant, Car de vus me quid ben vengier. Quant me vulez marier, Pur quei ne me dunastes vus A un hume chevalerus?439 La competizione mimetica corre di pari passo con la doppiezza; come Isotta è divisa tra l’amore di un re e quello del primo tra i cavalieri, Brangania pretende per sé un «hume chevalerus». Non si vendicherà rivelando a Marco tutta la verità (o, meglio, tutte le verità), 437 Vv. 1445-1450 (Perché non ho chiesto la vostra morte, dal momento che voi avete chiesto ingiustamente la mia? Questo misfatto ve lo perdonai, ma ora voi lo rinnovate con questa macchinazione, con quest’inganno che tramate con Caerdino). 438 Sul punto si rimanda a Pierre LE GENTIL «A propos du mariage de Tristan et de la colère de Brangain dans le romans de Thomas», in Mélanges de philologie romane offerts à Charles Camproux, Montpellier, Centre d’Estudis Occitans, 19 , pp. 4 1-405. 439 Vv. 1572-15 6 (State in guardia d’ora in avanti, poiché ho intenzione di vendicarmi di voi. Se volevate darmi in moglie, perché non mi avete dato a un vero cavaliere?). 135 ma procederà, meno crudelmente e più sottilmente, depistando i sospetti di Marco sulla relazione di Tristano e Isotta e facendogli invece intravedere una possibile relazione tra Isotta e Cariado, ottenendo così la responsabilità di una vigilanza serratissima sulla regina: Ore est Ysolt desuz la main E desuz le conseil Brengvein: Ne fait ne dit privement u’el ne seit al parlement440. Quando Tristano, nuovamente in preda alla nostalgia per Isotta, metterà in atto uno dei suoi mascheramenti per raggiungere in incognito la corte di Cornovaglia e incontrare l’amata, Brangania rivelerà il suo nuovo volto. Il frammento Douce vede, infatti, Tristano travestito da lebbroso, nel giorno in cui si celebra una grande festa a cui partecipano i sovrani. Appena la regina è uscita dal palazzo, il lebbroso comincia a seguirla fino alla chiesa in cui si celebrerà la messa a cui Isotta e Marco assisteranno, chiedendole insistentemente l’elemosina. Isotta tarda a riconoscerlo, ma, quando ciò avviene, vuole fargli dono dell’anello che porta al dito: Un anel d’or trait de sun dei, Ne set cum li puisse duner: En sun hanap le volt geter. Si cum le teneit en sa main, Aparceüe en est Brengven: Regarde Tristan, sil cunut, De sa cuintise s’aparçut; Dit lui qu’il est fols e bricuns, Ki si embat sur les baruns; Les serjanz apele vilains, Qui le suffrent entre les seins, E dit a Ysot qu’ele est feinte: «Des quant avez esté si seinte Que dunisez si largement A malade u a povre gent? Vostre anel doner li vulez: Par ma fei, dame, nun ferez»441. Brangania ordina ai servitori di buttare fuori dalla chiesa il lebbroso. Il frammento mostra, insomma, un altro volto della donna – si potrebbe parlare di una vera metamorfosi. Aveva sopportato di sacrificare la propria verginità, aveva sopportato di rischiare di essere uccisa per 440 Vv. 1903-1906 (Ora Isotta è sotto la guardia e l’autorità di Brangania: non fa né dice in privato nulla se non in sua presenza). 441 Vv. 1984-2000 (Si sfila dal dito un anello d’oro, non sa come possa darglielo: lo vuole gettare nella coppa. Mentre lo teneva ancora tra le mani, Brangania se ne accorse: guarda Tristano, lo riconobbe, capì l’astuzia; gli dice che è folle e dissennato a presentarsi così davanti ai baroni; chiama rozzi i servitori che lo tolleravano tra la gente sana, e dice a Isotta che è ipocrita: «Da quanto siete così santa da donare così generosamente ai malati e ai poveri? Volete dargli il vostro anello: in fede mia, signora, non lo farete»). 136 volontà d’Isotta, senza che tutto ciò apportasse in lei il minimo cambiamento, ma cristallizzandola, al contrario, in una maschera fissa, maschera della fedele compagna, imperturbabile nel suo essere asservita. L’unico evento capace di smuovere quella maschera è stata la fugace storia con Caerdino, quell’illusione di poter vivere un idillio amoroso pari a quello di cui è stata artefice (lei, che ha servito il filtro al posto del vino) e supporto. Quella doppiezza che finora era stata mero motivo di superficie, che aveva trovato una rappresentazione puramente formale nello scambio delle vesti durante la prima notte di nozze, fa esplodere ora il dramma della competizione, del desiderio mimetico, del desiderio di essere come l’altro. Brangania appare insondabile, passa, potremmo dire, dalla parte del nemico, e la sua metamorfosi offre al testo l’occasione di compiere una virata inaspettata. In effetti, i due amanti non sono mai stati realmente ostacolati nei lori incontri come in questo momento; gli stratagemmi messi in atto da Tristano e Isotta hanno sempre avuto la meglio su Marco, sui baroni, su nani e delatori, e, benché con tutte le conseguenze del caso, i loro fugaci incontri si sono sempre realizzati. Ora, la negazione proviene proprio da colei che ha sempre costituito il loro punto fermo, il loro appoggio, negazione che appare marcatamente crudele, se si considera che Tristano, in preda alla disperazione, rischierà la morte442. La svolta di Brangania e la particolare elaborazione del motivo della doppiezza delle due donne sembrano costituire un asse di strutturazione del romanzo. Se con il precedente caso di doppio, quello di Isotta la Bionda e Isotta dalle Bianche Mani, abbiamo parlato di asse della negazione dell’eros, qui la questione si svincola dalla sfera prettamente sessuale, legata all’assillo per il corpo e per l’unione fisica, e pare che sia sottoposta a una qualche sublimazione. Sembra che, tra i frammenti Sneyd e il frammento Douce, il testo si sposti da quella che abbiamo definito un’oscillazione tra negazione e non negazione dell’eros, a una più complessa oscillazione tra immunità e non immunità all’eros. Brangania si collocava, prima dell’incontro con Caerdino, al di qua della linea di demarcazione, in evidente antitesi con la coppia dei protagonisti, condannati dall’assunzione del filtro a un’immunità zero. Entrata in contatto con la realtà dell’esperienza amorosa, che finora aveva vissuto da spettatrice, standone ai margini, il demone del doppio scatena i suoi meccanismi di proiezione, reclama un trattamento pari a quello del modello d’identificazione. 442 Tristano, dopo il travestimento da lebbroso e l’ostacolo creato da Brangania al ricongiungimento con Isotta, si rifugia, preso dallo sconforto, in un sottoscala, dove patisce la sofferenza e il digiuno (vv. 2009 ss.). Per il riferimento alla leggenda di Sant’Alessio, si veda PIZZORUSSO, «La clergie di Thomas. L’intertesto agiografico-religioso», p. 342. 137 In realtà, questa prospettiva, questo essere al di qua o al di là di una linea che marca l’immunità all’eros, potrebbe coinvolgere l’intero sistema dei personaggi, fino a rappresentare una possibile isotopia del testo, una forma di coerenza che attraversa, pur nella frammentarietà degli episodi a nostra disposizione, lo sviluppo del romanzo. Proveremo ad approfondire quest’idea analizzando l’altro caso di doppio proposto da Thomas, quello tra Tristan l’Amerus e Tristan le Nains. Abbiamo già precisato come, nel gioco delle specularità imbastito da Thomas, siamo ben lontani dal doppio a carattere perturbante della letteratura fantastica moderna. Eppure, nel caso che ci accingiamo ad analizzare, si potrebbe dire che qualcosa dell’apparizione perturbante del doppio ci sia, con quell’effetto di furto dell’identità descritto da Freud e Rank. Tristano e Caerdino, attraversando la Blanche Lande, vedono arrivare alla loro destra un misterioso cavaliere: Mult par fud richement armé, Escu ot d’or a vair freté, De meïme le teint ot la lance, Le penun e la conisance. Une sente les vent gualos, De sun escu covert e clos. Lungs ert e grant e ben pleners, Armez ert e beas chevalers. Entre Tristan e Kaherdin L’encuntre attendent el chimin. Mult se merveilleient qui ço seit443. L’eleganza e la bellezza del cavaliere fa scattare una fervida ammirazione, che assume ancora più spessore se si considera che, nell’antefatto, è stato descritto sinteticamente un periodo glorioso per Tristano e Caerdino, i quali, divisi tra caccia e tornei, si dimostrano sempre primi in «chevalerie» e «honur»: En Bretaigne sunt repeiré Tristan e Kaherdin haité, E deduient sei leement Od lur amis e od lur gent, E vunt sovent en bois chacer E par les marches turneier. Il orent le los e le pris Sur trestuz ceuz del païs, 443 Vv. 2335-2345 (Portava delle armi splendide, uno scudo d’oro ornato di vaio, e una lancia con la banderuola e l’insegna dello stesso colore. Viene a galoppo verso di loro attraverso un sentiero, ben protetto dal suo scudo. Era slanciato, grande e di bella prestanza, ben armato, un magnifico cavaliere. Tristano e Caerdino attendono l’incontro sul cammino. Sono curiosi di sapere chi sia). 138 De chevalerie e de honur444. Tristano domanda al misterioso cavaliere dove stia andando e quale urgenza lo renda così ansioso di raggiungere la meta; lo straniero risponde con un’altra domanda: «Sire, dit dunc li chevaler, Savét me vus enseigner Le castel Tristan l’Amerus?». Tristan dit: «Que li vulez vus, U ki estes? Cum avez vus nun? Ben vus merrum a sa maisun; E s’a Tristan vulez vus parler, Ne vus estut avant aler, Car jo sui Tristan apellez. Or me dites que vus volez»445. Il testo continua a proporre un ambiguo gioco delle identità. Tristano, al contrario della sua amata, non ha mai avuto bisogno di denominazioni ulteriori che lo contraddistinguessero, mentre, dalla prospettiva del suo doppio, diventa Tristan l’Amerus, modello di amante perfetto. Si noti come Tristano controbatta «jo sui Tristan apellez», quasi a evidenziare un’unicità, l’inutilità di specificazioni. Tristano il Nano è lieto di aver trovato chi cercava; spiega di aver bisogno d’aiuto per liberare la sua amata dalla prigionia cui la costringe Estout l’Orgoglioso, che l’ha rapita e segregata nel suo castello. Ha pensato di rivolgersi a chi conosce bene le pene d’amore, le sofferenze che nascono dalla perdita di chi si ama: Sire Tristan, oï l’ai dire, Ki pert iço qu’il plus desire, Del surplus deit estre poy. Unkes si grant dolur nen oi, E pur ço sui a vus venuz: Dutes estes e mult cremuz, E tuz li meldre chivaliers, Li plus francs, li plus dreiturers, E icil qui plus ad amé De trestuz ceus qui unt esté446. Si disegna, insomma, il ritratto dell’amante perfetto, per il quale non vale la pena vivere se 444 Vv. 2311-2319 (Contenti, Tristano e Caerdino sono tornati in Bretagna, e passano piacevolmente il loro tempo con i loro amici e la loro gente, e vanno spesso a cacciare nei boschi e partecipano a tornei in giro per il regno. Primeggiano su tutti quelli del paese in reputazione cavalleresca e onore). 445 Vv. 2351-2360 («Signore», dice dunque il cavaliere, «sapresti dirmi dove si trova il castello di Tristano l’Innamorato?». Tristano risponde: «Che cosa volete da lui? E chi siete? Qual è il vostro nome? Vi condurremo volentieri alla sua casa; e se volete parlare a Tristano, non c’è bisogno che andiate più lontano, perché io sono chiamato Tristano». Ora ditemi che cosa volete»). 446 Vv. 2381-2390 (Sir Tristano, ho sentito dire che, se si perde ciò che più si desidera, il resto conta poco. Non ho mai sentito un così gran dolore, e per questo sono venuto da voi: siete temuto e rispettato, il migliore di tutti i cavalieri, il più franco, il più onesto, e, di tutti gli uomini, quello che ha più amato). 139 viene meno l’oggetto dei suoi desideri; Tristano il Nano si rivolge a chi è per lui il modello dell’innamorato, modello di cui riconosce la superiorità rispetto a qualunque altro, anche rispetto a se stesso. Ma corrisponde veramente Tristano a questo modello, a questa pretesa? Ritorniamo a considerare l’antefatto della vicenda e il punto in cui Thomas colloca quest’incontro con il doppio. Tristano e Caerdino, dopo essersi separati da Isotta e Brangania, si dividono tra tornei e feste, sembrano felici, passano il lor tempo con amici e compagni d’armi, vanno a caccia, primeggiano fra tutti. Certo, le pene d’amore non sono mai del tutto abbattute, ma basta loro rifugiarsi di tanto in tanto nel bosco «pur veer lé beles ymages»447. Il protagonista del romanzo di Thomas, così smarrito nel suo sentimento e così avvezzo a lamentare le sue pene d’amore, sembra che abbia trovato qui una vaga forma di quiete dalla passione ardente per Isotta. Mi pare, allora, che l’intervento del doppio, con quella sua evocazione di un modello impeccabile dell’amante, assuma un qualche tono ironico, cogliendo il protagonista proprio nel momento in cui maggiormente si è allontanato dal modello che ha sempre incarnato alla perfezione. Eloquente, in questo senso, la risposta di Tristano: Dunc dit Tristan: «A mun poeir Vus aiderai, amis, pur veir. Mes a le hostel ore en alum, Contre demain nus aturnerum, Et si parfeisums la busunie»448. Rinviando l’affare all’indomani, Tristano mostra la sua lontananza dal modello. Il cavaliere si convince, allora, di non avere davanti l’uomo che cercava, perché il vero Tristano compatirebbe il suo dolore, sapendo fino a che punto può spingersi la sofferenza degli amanti; il vero Tristano non gli lascerebbe prolungare l’atroce pena: E vus, amis, que ren n’amez, Ma dolur sentir ne poëz. Si ma dolur pussét sentir, Dunc vuldrïez od mei venir. A Deu seiez! Jo m’en irrai Quere Tristan, quel troverai. N’avrai confort se n’est par lui. Unques si esguaré ne fui. E! Deus! Pur quei ne pus murir, Quant perdu ai que plus desir? 447 V. 2322 (per vedere le belle statue). L’episodio, qui solo accennato, è sviluppato da Goffredo (cfr. GOTTFRIED DE STRASBOURG, «Tristan et Isolde», pp. 600-604). 448 Vv. 2397-2401 (Dice allora Tristano: «Per quanto è in mio potere, vi aiuterò, amico, in verità. Ma ora rientriamo, domattina ci prepareremo e risolveremo l’affare). 140 Meuz vousise la meie mort, Car jo n’avrai nul confort, Ne hait, ne joie en mun curage uant perdu l’ai a tel tolage, La ren el mund que plus aim449. La lunga battuta di Tristano il Nano si estende per circa il doppio dei versi citati, suggellata da un «Eissi se plaint Tristan Le Naim»450: il doppio sostituisce il protagonista nei suoi ridondanti lamenti d’amore che affollano il romanzo di Thomas. Il doppio, ambiguamente, non stimola solo uno spirito di competizione in Tristano invocando esplicitamente il modello che questo non incarna più, ma anche, implicitamente, incarnandolo lui stesso. È uno di quei casi, di cui si è parlato nel primo capitolo, di collasso dell’asse paradigmatico del personaggio su quello sintagmatico (cfr. supra I.8). Le relazioni competitive tra i personaggi sembrano improntate al riferimento a un modello astratto e perfetto, ma questo modello cessa di essere astratto e lontano (per Girard, mediatore esterno), per concretizzarsi in un attore ben individuabile. La frontiera tra il modello astratto che Tristano nel suo passato incarnava e il modello concreto che ha di fronte è labile, labilità che rende ancora più accentuato lo spirito di rivalsa, incanalato verso un desiderio di recupero di una posizione perduta che qualcun altro occupa, appropriandosi della sua immagine. Questa la reazione di Tristano: L’altre Tristan en ad pité, E dit lui: «Bels sire, ore esteez! E par grant reisun mustré l’avez, Que jo dei aller ove vus, Quant jo sui Tristan le Amerus. E jo volenteres i irrai! Suffrez, mes armes manderai»451. Tristano accetta l’etichetta dell’Amerus, che ribadisce il ritorno a uno status che sembrava vacillare: l’incontro con il doppio funge da approfondimento identitario, da interrogazione ed esplorazione dell’io452. In quest’esplorazione, Tristano riattraversa quella linea di 449 Vv. 2419-2433 (E voi, amico, che non siete innamorato, non potete sentire il mio dolore. Se poteste sentire il mio dolore, vorreste venire con me. Addio! Io me ne andrò a cercare Tristano, e lo troverò. Non avrò conforto se non grazie a lui. Non sono mai stato così smarrito. Dio! Perché non posso morire, quando ho perduto ciò che più desidero? Preferirei la morte, poiché non avrò più in cuore né conforto né gioia, ora che, con questo rapimento, ho perduto la cosa che più amo al mondo). 450 V. 2434 (Così si lamenta tristano il Nano). 451 Vv. 2436-2442 (L’altro Tristano ne ha pietà, e gli dice: «Caro signore, aspettate! Per il motivo che avete mostrato, io devo venire con voi, giacché io sono Tristano l’Innamorato. E verrò volentieri. Permettete solo che mandi a prendere le mie armi»). 452 Donald Maddox parla di una profondità ermeneutica degli «specular encounters»: «Medieval storytelling tended to confront their protagonists with dramatic accounts or evocations of some part of their own history. 141 demarcazione tra immunità e non immunità all’amore di cui dicevamo. Proprio chi rappresentava l’emblema stesso dell’amante perfetto aveva trovato una via di fuga da tale soggezione, ma l’incontro speculare lo richiama all’ordine, costringendolo a porsi nuovamente al di là della frontiera, suo luogo predestinato. Tutti i personaggi del romanzo di Thomas (i pochi personaggi del romanzo di Thomas) finiscono così per occupare questa posizione di assoggettamento alla potenza dell’eros. Brangania e Caerdino, che sembravano gli immuni della situazione, qualificati piuttosto come i fedeli sostenitori dell’amore di Tristano e Isotta, diventano invece i protagonisti di un nuovo plot, di una nuova travagliata storia d’amore che s’inserisce in quella maggiore; Tristano, che sembrava aver trovato, dopo un numero cospicuo di versi dedicati ai suoi tormenti d’amore, un qualche equilibrio, ritorna ad essere vessillo dell’amore che si spinge fino alla morte453; Isotta e Marco sono sempre marcatamente segnati dall’assillo amoroso; Cariado si affanna per conquistare Isotta. Eppure qualcosa resta fuori, a controbilanciare il tutto, a creare un sistema in cui l’ossequio all’eros non diventa mai la norma, non passa mai come dato scontato e assodato, ma è sempre indicato, per antitesi, come un eccesso, una potenza che lacera e divora. Uno dei personaggi non attraversa la frontiera. 4. La maschera di Thomas La critica della letteratura medievale non può non considerare preziosi gli interventi dell’autore, fonti d’informazioni rare su chi firma i testi, di cui le notizie sono scarse o, spesso, inesistenti. Preziosi sono dunque i punti del nostro romanzo in cui Thomas d’Angleterre parla di sé, si nomina, fa riferimento al proprio modo di procedere nell’adattamento del cunte che prende in prestito da Breri454: gli interventi del narratore diventano quindi fondamentali per scoprire, per quel poco che è possibile, l’uomo che vi è dietro. Propongo di considerare qui una prospettiva diversa, improntata alla moderna Consistently located at a major turning point in the intrigue, such moments are never trivial, never mechanical or monotonously conventional. On the contrary, the specular encounter shows a virtually inexhaustible capacity for accommodating new material, and its occurrences are typically among the most unusual and salient passages in the entire work, and are memorable precisely by virtue of their uniqueness and arresting hermeneutic depth» (Donald MADDOX, Fictions of Identity in Medieval France, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, p. 3). 453 Combattendo contro Estout l’Orgoglioso, Tristano si procurerà una ferita che avvierà il tragico epilogo. 454 «Mé sulun ço que j’ai oÿ, / Nel dient pas sulun Breri, / Ky solt lé gestes e lé cuntes / De tuz lé reis, de tuz lé cuntes / Ki orent esté en Bretaingne (vv. 2273-2277: Ma secondo quello che io ho ascoltato, non rispettano la versione di Breri, che conosceva le imprese e i racconti di tutti i re e di tutti i conti vissuti in Bretagna). 142 narratologia. È noto come, da un punto di vista narratologico, sia considerato un errore identificare la voce narrante di un testo con il suo autore, con un uomo reale che sia estraneo al mondo-testo. Nel nostro caso, poi, non si tratta di una voce impersonale, ma di una persona (con tutta l’ambiguità del termine) che si nomina, che racconta di aver recepito una storia e di averla adattata – incorniciando quindi il racconto –, una voce che filtra gli eventi esprimendovi il proprio parere. Se, sicuramente, questa voce costituisce una maschera di Thomas, potremmo considerarla, nel suo permeare profondamente la logica del testo, un personaggio pienamente inserito nel sistema: Hici ne sai que dire puisse, Quel de aus quatre a greignor angoisse, Ne la raison dire ne sai, Por ce que esprové ne l’ai455. Mais jo nen os mun ben dire Car il n’afert nient a mei456. La maschera di Thomas interviene ad affermare la sua estraneità ai sentimenti e alle vicende degli attori, costituendo il grado massimo di quella immunità all’eros di cui abbiamo detto. Bertolucci Pizzorusso ha rilevato come, dichiarando insistentemente questa estraneità, Thomas prenda le distanze dai suoi personaggi per imbastire un discorso razionalmente organizzato sulle conseguenze a cui può condurre l’amore: Schematizzando, possiamo dire che, conferendo a se stesso attraverso la maschera del narratore la minima, ed al suo interlocutore la massima, competenza in una materia che richiedeva decise e rinnovate dichiarazioni pro e contro […], egli è libero di prendere da essa la distanza necessaria per assumersi il ruolo puramente tecnico dell’analista, il quale fornisce i dati elaborati (la parole mettrai avant), senza la responsabilità della diagnosi (jugement). In tale veste egli isola artificiosamente nello spazio nudo del suo laboratorio i personaggi e ne scruta a fondo, con un distacco tuttavia dolente, la complessità sentimentale e i comportamenti, alla ricerca, che risulterà vana, di un principio razionale e etico coerente, di una ratio (raisun) che riesca a dominare la mutevole, scomposta nature457. La studiosa, interessata a un’analisi del discorso narrativo di Thomas, cerca di sviscerare 455 Vv. 1238-1241 (Ora io non so che cosa dire, chi dei quattro sente il dolore più grande, né so dirne la ragione, perché non l’ho provato). 456 Vv. 2760-2761(Ma non oso dire nulla a riguardo, poiché la cosa non mi coinvolge). 457 Valeria Bertolucci PIZZORUSSO, «Il discorso narrativo su Tristano e Isotta», in Id., Morfologie del testo medievale, Bologna, il Mulino, 1989, p. 15. 143 l’intentio auctoris, laddove a noi preme mettere in luce l’intentio operis458. Nel sistema testo la voce di Thomas è distaccata solo apparentemente, distacco che si annulla nel momento in cui si adotta la visione relazionale del personaggio che qui indaghiamo. Il polo estremo rappresentato dalla maschera di Thomas è, in quest’ottica, riferimento costituente dell’intero sistema dei personaggi; il personaggio Thomas scivola inevitabilmente all’interno del racconto, la sua maschera ne viene catturata. Considerarlo l’autore che rappresenta le pene d’amore altrui significherebbe postulare una dicotomia che non rende merito al romanzo. Thomas non si limita a rappresentare quattro individui sopraffatti dall’amore, ma ne rappresenta, come abbiamo visto, le oscillazioni, i passaggi da un grado massimo a uno minimo d’immunità all’assillo amoroso, i tentativi da parte del soggetto di spossessamento rispetto alla potenza dell’eros. In queste oscillazioni, il riferimento alla voce di chi non conosce nulla dell’amore è fondante, e questa voce non rinvia semplicemente a un giudice scrutatore che analizza con estrema raffinatezza i moti dell’animo, ma rappresenta un riferimento interno al sistema dei personaggi, riferimento che non isola e si isola, ma, al contrario, scende, s’inserisce, si frappone, opera da modello e da contro-modello. Del resto, l’ombra di una contraddizione si stende sul punto di vista di Thomas: pur dichiarandosi estraneo alle sofferenze dell’amore, ne conosce così profondamente i movimenti. Il personaggio Thomas, più che descrivere e analizzare con distacco i suoi personaggi, rappresenta il distacco, rappresenta cioè quell’al di qua della frontiera su cui si modellano gli attori. Da questa prospettiva, ogni interpretazione moraleggiante459 appare fuorviante: il romanzo di Tristano e Isotta non rappresenta i danni cui può indurre l’amore, ma la perenne altalena cui l’amore sottopone l’umano, il destreggiarsi del soggetto tra tentativi di spossessamento e il costante richiamo di una forza che lo trascende – soggetto mai dato, ma sempre in cerca di se stesso. La sofferenza che accompagna queste oscillazioni è rappresentata, pur nell’isolamento di ciascuno dei personaggi, in una coesione corale: Entre ces quatre ot estrange amor: Tut en ourent painne et dolur, 458 Il riferimento è alla nota terminologia di Eco: «Bisogna cercare nel testo ciò che esso dice in riferimento alla propria coerenza contestuale e alla situazione dei sistemi di significazione a cui si rifà (Umberto ECO, I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani, 1990, p. 22). 459 Sugli aspetti morali del romanzo si veda, tra gli altri, Xenia VON ERTZDORFF, «L’amour parfait des amants et le conflits de morale. Gottfried von Strassburg et Thomas de Bretagne», in BUSCHINGER, La légende de Tristan au Moyen Age, pp. 113-119. 144 E un e autre en tristur vit, E nun d’aus nen i a dedeuit460. Nel quartetto461, i personaggi perdono la loro autonomia per farsi pure voci di sofferenza, ombre di dolore – quel quartetto può allargarsi fino a tangere le figure di Brangania e Caerdino. Il grande escluso, Thomas, resta un personaggio tondo, coerente, uno e unitario, forte dell’idea di cui è latore. Nel quartetto, il dolore dell’uno rinvia al dolore dell’altro e, se i casi evidenti di doppio esasperavano una relazionalità della sofferenza, in realtà, di là del motivo della doppiezza, ogni personaggio sembra vivere del rinvio all’altro da sé, ogni dolore è dolore dell’altro, per l’altro, con l’altro: una polifonia della sofferenza, in una scissione dell’uno che si espande fino all’impossibilità di dire io. È in questa polifonia che si può cogliere il valore del personaggio, la cui fenomenologia vive di un prolungamento che travalica la rappresentazione dell’individuo per espandersi in un coacervo di rifrazioni, così fittamente distribuite da lasciare intravedere un’implosione del soggetto, un’evanescenza dei suoi confini identitari, una sua rarefazione. 5. Fluttuazioni metadiegetiche Nel terzo capitolo, dedicato alle Folies Tristan, abbiamo analizzato il particolare ruolo che la metadiegesi riveste nel processo di costruzione identitaria del personaggio: attraverso la pluralità dei livelli del racconto, il testo crea un’identità, articolata, rinfrangentesi. ualcosa di simile si è potuto constatare nell’episodio della salle aux images, poiché anche qui si è reperita un’articolazione di livelli che, con quella che possiamo considerare una scena nella scena, complica lo statuto del personaggio e il suo rapporto con la storia. Nel romanzo di Thomas ci sono però due casi più evidenti di metadiegesi – nel senso che sono marcati da segni testuali che dichiarano esplicitamente il procedimento del racconto nel racconto –: si tratta dell’episodio del gigante delle barbe e del lai di Guiron, di cui spiegheremo il valore in rapporto alla costruzione del personaggio. Il manoscritto Sneyd, dopo il racconto della prima notte di nozze di Tristano e Isotta dalle Bianche Mani, in cui Tristano apporta la scusa della ferita al fianco per astenersi dai doveri 460 Vv. 1165-116 (Fra questi quattro vi è uno strano amore: tutti ne hanno pena e dolore, e l’uno e l’altro vivono nell’angoscia, e nessuno di loro ne ha piacere). 461 Cfr. Gerald J. BRAULT, «Entre ces quatre ot estrange amor: Thomas’ Analysis of the Tangled Relationship of Mark, Isolt, Tristan and Isolt of the White Hands», Romania, 114, 1996, pp. 70-95. 145 coniugali, prevede un cambio di scena (v. 855 ss.). Il racconto si sposta a contemplare Isotta «en sa chambre», che pensa a Tristano e si mortifica per non avere da qualche tempo sue notizie; non sa né dove si trovi né se sia vivo o morto. Le ultime notizie che ha risalgono alla sua impresa in Spagna: Ne set pas qu’il est en Bretaigne, Encore le quide ele en Espaigne, La u il ocist le jaiant, Le nevod a l’Orguillus grant, Ki d’Afriche ala requere Princes e reis de tere en tere462. L’evocazione dell’impresa di Tristano offre all’autore l’occasione di raccontarne l’antefatto, introducendo nella trama la figura di re Artù, assente, per il resto, nel romanzo (diversamente dal romanzo di Béroul, dove Artù figura nella celebre scena dell’escondit, nel ruolo di autorevole testimone del giuramento d’Isotta). Orgoglioso il Grande aveva l’abitudine di sfidare a duello principi e re per strappare loro le barbe, con le quali si era confezionato una pelliccia. Sentendo parlare di re Artù e del suo rinomato valore, il gigante gli chiede se sia disposto a farsi tagliare la barba e a inviargliela, perché possa completare il bordo della pelliccia; in caso contrario, si sarebbe comportato con lui come con gli altri, sfidandolo a duello. Artù non accetta la proposta, il gigante gli lancia la sfida, i due si scontrano e il prode Artù vince la battaglia. L’autore tiene a precisare il carattere di digressione dell’episodio: A la matire n’afirt mie, Nequedent boen est quel vos die, Que niz a cestui cist esteit Ki la barbe aveir voleit Del rei e de l’empereür Cui Tristan servi a icel jor, Quant il esteit en Espaigne, Ainz qu’il reparaist en Bretaigne463. Il re di Spagna non trova nessuno tra parenti e amici che sia pronto a battersi per difendere il 462 Vv. 867-872 (Non sa che lui è in Bretagna, lo crede ancora in Spagna, là dove uccise il gigante, il nipote del Grande Orgoglioso, che, venuto dall’Africa, andava sfidando principi e re di terra in terra). L’episodio del gigante delle barbe, qui raccontato attraverso la digressione, si trova in Geoffroy de Monmouth. Cfr. Brut, La Geste du roi Arthur. Selon le Roman de Brut de Wace et l’Historia Regum Britanniae de Geoffroy de Monmouth, Présentation, édition et traduction par Emmanuèle BAUMGARTNER et Ian SHORT, Paris, Union générale d’Éditions, 1993, pp. 298-299. 463 Vv. 935-942 (Non riguarda la materia, ma tuttavia è necessario che ve lo racconti, perché è il nipote di costui che voleva avere la barba del re e dell’imperatore al cui servizio si trovava allora Tristano, quando era in Spagna, prima di recarsi in Bretagna). 146 suo onore. Tristano si propone per l’impresa: E Tristan l’emprist pur s’amur, Si lui rendi molt dur estur E bataille molt anguissuse; Vers amduis fu deleruse. Tristan i fu forment naufré E el cors blecé e grevé, Dolent em furent si amis. Mais li jaianz i fu ocis464. Credo che la digressione, benché breve, rivesta un ruolo notevole: «La digression innerve l’ensemble, dynamise la lecture; elle fait sens, permettant de ranger la diversité sous l’Unité»465. Sarebbe abbastanza agevole vedervi una semplice parentesi, un breve cenno a un ritratto eroico tra centinaia di versi impegnati a tratteggiare un personaggio ripiegato su se stesso, che si crogiola nelle sue pene d’amore, poco propenso all’azione. Bertolucci Pizzorusso, per esempio, considera le peripezie di Tristano in Spagna «del tutto secondarie e come tali presentate»466. La nostra prospettiva ci porta, invece, ad attribuire loro un ruolo meno marginale. Innanzitutto, mi pare d’obbligo considerare la posizione occupata nel romanzo di Thomas dal motivo del doppio. Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, l’intero romanzo si articola attorno a una serie di richiami identitari, d’immagini speculari, di echi e incroci di maschere e figure. Lo stretto parallelismo tracciato tra Tristano e Artù, il fatto che il protagonista compia la stessa impresa compiuta dal grande sovrano non può non far pensare a un meccanismo d’identificazione rispetto a un modello. A ciò si aggiunge la particolare posizione della digressione, cui seguirà poco dopo l’incontro di Isotta con Cariado. Interrotta nei suoi pensieri d’amore, Isotta è informata dal più vile dei cavalieri delle nozze di Tristano con Isotta dalle Bianche Mani. Così risponde la regina: Ne unques chaenz ne venistes Que males noveles ne desistes. Il est tuit ensement de vos Cum fu jadis d’un perechus, Ki ja ne levast de l’astrir Fors pur alcon home coroceir. De vostre ostel jan en isterez 464 Vv. 951-95 (E Tristano s’impegnò per amicizia del sovrano, e si batté contro il gigante in un combattimento duro e in una battaglia molto angosciosa; fu dolorosa per entrambi. Tristano fu colpito e si procurò una grave ferita, gli amici ne furono afflitti, ma il gigante fu ucciso). 465 Chantal CONNOCHIE-BOURGNE, «Avant-propos», in Id., a cura di, La digression dans la littérature et l’art du Moyen Age, Senefiance, 51, 2005, pp. 7-9, p. 8. 466 Valeria Bertolucci PIZZORUSSO, «Il discorso narrativo su Tristano e Isotta», pp. 7-17, p. 16. 147 Si novele oï n’avez Que vos poissiez avant conter. Ne volez pas luin aler Pur chose faire que l’en die! De vos n’irt ja novele oïe Dunt voz amis aient honur, Ne cels ki vos haient dolor. Des altrui faiz parler volez, Les voz n’irent ja recordez467. Mi sembra evidente il gioco dell’antitesi, della presentazione di un personaggio come esatto opposto di Tristano e del modello arturiano evocato nella digressione. Tanto Tristano è simile ad Artù nella sua eroicità, tanto è lontano da Cariado, che non esce da casa se non per raccontare le imprese altrui, senza mai intraprenderne una in prima persona. Le posizioni dei tre personaggi son ben calibrate nella struttura che le ospita, dalla quale emerge il volto dell’eroe468 finora passato sotto silenzio a profitto dei travagli sentimentali. Lo stretto parallelismo con Artù, il richiamo a questo come a un modello d’identificazione evocano un’eroicità che convive accanto all’eros. Se dovessimo riconsiderare le etichette proposte da Meletinskij per Tristano (cfr. supra III.2), diremmo che, seppur per mezzo di una digressione 467 Vv. 1041-1056 (Non siete mai venuto qui senza cattive notizie. Siete esattamente come quel pigro che abbandonava l’uscio solo per far incollerire qualcuno. Non uscirete mai da casa se non avete prima ascoltato qualche notizia che possiate raccontare. Non andrete mai lontano a compiere qualche impresa di cui si possa parlare. Non si sentirà mai di voi una notizia di cui i vostri amici siano onorati e che addolori i vostri nemici. Siete capace di parlare delle azioni altrui, le vostre non saranno mai ricordate). 468 Jean-Marc Pastré, commentando il confronto che il testo di Thomas propone con il modello eroico arturiano, ne parla in termini di subordinazione della materia tristaniana a quella arturiana. Non solo, dice lo studioso, le imprese di Tristano dipendono da quelle di Artù, costituendone una copia infedele, ma «Arthur en outre s’en sort beaucoup mieux que Tristan», visto che il secondo, durante il combattimento con il nipote del gigante Orgoglioso, riceve una ferita mortale (Jean-Marc PASTRÉ, «Digressions et transmission du modèle héroïque dans les romans de Tristan au Moyen Age», in CONNOCHIE-BOURGNE, La digression dans la littérature et l’art du Moyen Age, pp. 309-31 , p. 313). L’argomento è utilizzato da Pastré per sostenere una progressiva emancipazione della materia tristaniana da quella arturiana. Thomas farebbe già molto in questo senso, eliminando Artù dalla trama e facendolo comparire in una digressione, ma lascerebbe comunque intravedere una traccia di dipendenza, mentre Goffredo di Strasburgo completerà l’operazione, eliminando totalmente il riferimento ad Artù. Benché la nostra prospettiva di analisi sia diversa, dal momento che ci concentriamo qui sulla costruzione del personaggio, laddove Pastré parla di dipendenza e autonomia tra la materia arturiana e quella tristaniana, mi limiterò a dire che non condivido a pieno l’idea di una subordinazione della figura di Tristano a quella di Artù. Se è vero che Tristano resta gravemente ferito nel combattimento col gigante, è vero anche che il testo menziona le difficoltà incontrate da Artù nel suo combattimento: «Ensemble vindrent puis andui, / E la barbe e les pels mistrent, / Par grant irrur puis se requistrent. / Dure bataille, fort estur / Demenerent testruit le jor. Al demain Artur le vencui, / Les pels, la teste lui toli (vv. 926-932: Si ritrovarono uno contro l’altro, misero in palio la barba e la pelliccia, poi si affrontarono con violenza. Dura fu la battaglia, rude l’assalto, durò tutta la giornata. L’indomani Artù fu vincitore, gli tolse la pelliccia e lo decapitò). Mi sembra, insomma, che il rapporto sia totalmente paritario e che il testo si sforzi di esaltare il valore eroico di Tristano proprio tracciandone un perfetto parallelismo con Artù. Sulla figura eroica di Tristano nel romanzo si vedano inoltre: Geoffrey N. BROMILEY, «Deux géants assassins: un épisode du Tristan de Thomas, in Danielle BUSCHINGER, a cura di, Europäische Literaturen im Mittelalter, Mélanges en l’honneur de Wolfgang Spiewok à l’occasion de son 65ème anniversaire, Greifswald, Reineke-Verlag 1994, pp. 45-54; Gerald J. BRAULT, «The Birth of the Hero in Thomas’ Tristan, in J. TASKER GRIMBERT - Carol J. CHASE, a cura di, Philologies Old and New: Essays in Honor of Peter Florian Dembowski, Princeton, Edward C. Armstrong Monographs, 2001, pp. 227-236. 148 e di un fugace cenno, il Tristano melanconico e introspettivo sta accanto all’eroe, o, almeno, a una sua ombra. Oltre i lunghi monologhi di un personaggio ripiegato su se stesso, afflitto dalla pene d’amore, poco propenso all’azione, leggiamo di un Tristano pronto alla battaglia, fiero, prode, disposto a combattere per difendere l’onore altrui. Certo, questa propensione all’azione è distanziata dalla metadiegesi, interagisce minimamente con l’elemento più forte, quello del tormento amoroso, ma contribuisce nondimeno a definire lo statuto identitario del protagonista, la sua fluttuazione tra un ritratto eroico e votato all’azione e l’inabissamento in una cupa melanconia, in una predilezione per i moti dell’anima e del pensiero469. La digressione è legata in realtà a un doppio procedimento metadiegetico, che fa comparire nel manoscritto Sneyd, uno di seguito all’altro, il riferimento alla storia del gigante delle barbe e quello al lai di Guiron. Si tratta, per quanto riguarda quest’ultimo, di appena dieci ottosillabi, ma densi di senso nella struttura del romanzo: En sa chambre se set un jor E fait un lai pitus d’amur, Coment dan Guirun fu surpris, Pur l’amur de la dame ocis u’il sur tute rien ama, E coment li cuns puis li dona Le cuer Guirun a sa moillier Par engin un jor a mangier, E la dolur que la dame out, Quant la mort de sun ami sout470. Il passo potrebbe considerarsi una mise en abîme potenziale: Isotta, che non ha più notizie di Tristano, pensa alla sua possibile morte e si proietta in un tragico destino 471. Se ne evincono due aspetti. Sul piano della scrittura romanzesca, il passo ci permette di affermare, ancora una volta, il potenziale infinito della narrazione, il gioco di specchi in cui la scrittura si riflette, crea continue appendici di se stessa. Ma, contemporaneamente, questa riflessività della scrittura corre di pari passo con una riflessività del personaggio, con una riflessione del soggetto enunciatore sul proprio ruolo nella storia presente e in altre possibili storie contigue: 469 È possibile così ridimensionare, almeno in parte, la consueta contrapposizione tra il Tristano di Thomas, riflessivo e melanconico, e quello di Béroul, dinamico, dedito all’azione. Sulla divergenza tra i due personaggi insiste Barbara Franceschini: «Ephémeros. Per un’analisi dei caratteri nel Tristano di Thomas e di Béroul», Cultura neolatina, 61, 2001, pp. 275-299. 470 Vv. 987-996 (Un giorno, sta seduta nella sua camera e compone un pietoso lai d’amore: come ser Guiron fu scoperto, ucciso per l’amore della donna che amava sopra ogni cosa, e come poi, un giorno, il conte diede da mangiare alla moglie con un inganno il cuore di Guiron, e il dolore che provò la donna quando seppe della morte dell’amato). 471 D’altronde, l’importanza del passo, il suo carattere di segno preminente nel romanzo sono segnalati dal fatto che nel manoscritto compare una miniatura che ritrae Isotta che suona l’arpa. 149 Isotta colloca qui se stessa e Tristano sul trono degli amanti ideali, si dipinge come riflesso di un modello di cui ha piena coscienza. Il suo è, in qualche modo, un metalinguaggio, una forma di discorso con cui inquadra la propria posizione secondo un riferimento preciso, netto, quello dell’ideale dell’amore cortese472: anche qui, come nel caso di Tristano con Artù, c’è in gioco l’identificazione rispetto a un modello, modello esterno e assunto come l’espressione di un massimo grado, che si tratti di eroicità o di arte di amare. Come ha evidenziato Geoffrey Bromiley, il riferimento al lai di Guiron illustra «en miniature», un’idea direttrice del romanzo di Thomas, quella della completa integrazione degli amanti l’uno nell’altra: Le lai de Guiron illustre cette idée d’une façon frappante, et surtout d’une façon matérielle; la dame, en mangeant le cœur de Guiron, saisit son amant dans sa totalité, elle l’intègre complètement à son corps473. Dietro un meccanismo della scrittura romanzesca, dietro il modo di una scrittura che cerca se stessa, si cela, insomma, una densità nello statuto del soggetto, soggetto che pensa se stesso. uella d’Isotta potrebbe essere considerata una fantasticheria, un sogno ad occhi aperti. In Al di là del principio di piacere, Freud ci ha spiegato che i sogni non hanno solo un risvolto eufemistico, una connotazione di realizzazione dei desideri inconsci; un sogno o una fantasticheria, connotati da una rappresentazione che sembra andare contro il principio di piacere, mascherano una funzione di controllo su un evento traumatico o una paura. Isotta prende le redini della storia, ne controlla gli indirizzi, esaspera la tragedia che sente vicina, si 472 È ben noto il passo in cui Gaston Paris, commentando il Lancelot di Chrétien de Troyes, lo elegga manifesto dell’amore cortese. Il commento prevede un confronto con il Tristano: «Dans aucun ouvrage français, autant qu’il me semble, cet amour courtois n'apparaît avant le Chevalier de la Charrette. L'amour de Tristan et d’Iseut est autre chose: c’est une passion simple, ardente, naturelle, qui ne connaît pas les subtilités et les raffinements de celui de Lancelot et de Guenièvre. Dans les poèmes de Benoit de Sainte-More, nous trouvons la galanterie, mais non cet amour exalté et presque mystique, sans cesser pourtant d’être sensuel» (Gaston PARIS, «Etudes sur les romans de la Table Ronde», Romania, 12, 1883, pp. 459-534, p. 519). Benché l’amore di Tristano e Isotta preservi, in effetti, quel certo tratto primordiale di cui parla Paris, mi sembra che questo gioco di riflessi proposto da Isotta compositrice di lai crei una situazione che sfugge alla regola generale: nella proiezione messa in atto da Isotta, i due personaggi vengono trasfigurati – sublimati, si potrebbe dire – su un piano che ha qualcosa, appunto, di «exalté» e «mystique». 473 Geoffrey BROMILEY, «Autour di lai de Guiron dans Le roman de Tristan de Thomas», in BUSCHINGER SPIEWOK, Tristan et Yseut. Un thème éternel dans la culture mondiale, pp. 45-57, p. 57. Si legga anche Bruckner: «Les amants tristaniens, du moins dans les versions médiévales, cherchent à trouver dans la mort ce qu’ils cherchent à trouver dans la vie: une union qui dépasse leur séparation, une union telle que les deux ne font plus qu’un. uand ils imaginent la mort, ce qu’ils imaginent c’est donc une mort où ils peuvent continuer à être ensemble. La plus grande peur, c’est une mort solitaire (Matilda BRUCKNER, «L’imagination de la mort chez les amants tristaniens: prose et vers, chant et narration», in Des Tristan en vers au Tristan en prose, pp. 309-324, p. 309). Sul lai di Guiron si veda, inoltre, Emmanuèle BAUMGARTNER, «Lyrisme et roman: du Lai de Guirun au Lai di Chèvrefeuille», in Il miglior fabbro, Mélanges de langue et de littérature occitane en hommage à Pierre Bec, Poitier, CESCM, 1991, pp. 78-83. Sul motivo del cuore mangiato, cui il lai fa riferimento, si rinvia a Simon GAUNT, Love and Death in Medieval French and Occitan Courtly Literature: Martyrs to Love, Oxford, Oxford University Press, 2006, pp. 73-103. 150 prepara alla fine. In quest’ottica, ci premerà rilevare ancora una volta la coerenza di costruzione di quest’opera, pur nel suo stato frammentario, giacché sarà proprio un’Isotta disposta a gestire l’infinito potenziale diegetico della sua storia d’amore a chiudere il romanzo di Thomas: Icil orages seit destruit Que tant me fist, amis, en mer ue n’i poi venir, demurer! Se jo fuisse a tens venue, Vie vos oüse, amis, rendue, E parlé dulcement a vos De l’amur qu’ad esté entre nos474. Il personaggio che racconta la sua storia sembra davvero essere il grande fulcro della trama tristaniana, nello svisceramento di un legame – che definirei antropologico – tra desiderio e atto affabulatorio. 6. Desiderio, narrazione, spersonalizzazione Ogni desiderio, annota Ugo Volli, più che desiderio di un oggetto, è desiderio di storie 475. La macchina desiderante scatena la macchina diegetica, alimenta una concrezione di mondi finzionali, procrastina l’appagamento, la realizzazione, si proietta in una sempre nuova evasione narrativa. Il desiderio, come la narrazione, altera la realtà nel momento stesso in cui la pone, trasfigura il mondo in mondi possibili, deforma, informa, nello scopo preciso di rinviare la fine. Riportando quanto appena detto alla materia tristaniana, è immediato pensare alla famosa lettura che ne ha dato Denis De Rougemont (cfr. supra I.8), secondo cui i due amanti della leggenda sono innamorati, più che l’uno dell’altro, dell’amore, di un amore che è amore per l’ostacolo, per l’impedimento, per l’avventura che sempre si rinnova, fino all’avventura estrema e inesorabile: il romanzo di Tristano e Isotta inaugurerebbe così quel 474 Vv. 3246-3252 (Maledetta sia quella tempesta che mi fece tanto indugiare in mare che non potei venire. Se fossi venuta in tempo, vi avrei ridato la vita, e vi avrei parlato dolcemente dell’amore che c’è stato tra noi). Si tratta della cosiddetta fine lunga del romanzo, contenuta nel frammento Sneyd 2. 475 Ugo VOLLI, Figure del desiderio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002, pp. 158-159, citato in Alessandra DIAZZI, «Testo e narrazione: uno sguardo secondo il desiderio», Enthymema, 4, 2011, pp. 319-341, p. 329. Si rimanda al contributo di Diazzi per l’interessante excursus sul rapporto tra narrazione e desiderio. Tra i numerosi filosofi e teorici citati e commentati, un posto di primo piano spetta a Kant: «Kant, nella Critica del giudizio, giunge ad affermare che il piacere non deriva dalla realizzazione intesa come corrispondenza del mondo al desiderio ma dalla rappresentazione dei fatti: tale rappresentazione può essere pensata in termini di racconto, come narrazione del percorso orizzontale proprio del desiderio» [ivi, p. 327; cfr. Immanuel KANT, Critica del giudizio, Bari, Laterza, 1963, p. 10]. 151 legame, tutto occidentale, tra amore e morte. Vitz definisce il desiderio, relativamente a un personaggio in un testo, come «that dissatisfaction or need, on the part of a character, which provides narrative stimulus or “causal energy” in the text»476. Questa energia causale che dal personaggio s’irradierebbe al testo sarebbe nel romanzo di Thomas, per la studiosa, una «inefficient causality»477, in quanto il personaggio qui rappresentato si connoterebbe per un desiderio labile, che attiva una debole catena di causalità. Sarebbe, cioè, un personaggio «incompetente», che non produce trasformazione; il suo desiderio promuove un impulso minimo e che subito si estingue, lasciando sostanzialmente immutata la trama. Se ne conclude che l’amore e il desiderio sarebbero per Thomas più un oggetto di riflessione e analisi morale che un costrutto narrativo. Vitz non concorda con Rougemont sul fatto che Tristano e Isotta siano innamorati della morte, ma condivide l’idea che i due protagonisti non cerchino la realizzazione del desiderio. Le analisi proposte nei paragrafi precedenti, in cui si è cercato di far emergere l’energia propulsore che il desiderio e il senso di mancanza conferiscono alle dinamiche testuali, richiedono qualche precisazione a una tesi come quella appena descritta, che vede nel desiderio solo un oggetto di riflessione e analisi morale e non una chiave di costruzione del testo. Alla base di questa considerazione è rintracciabile la prospettiva di personaggio come funzione, come promotore di una concatenazione di azioni. In questo senso, si può accettare l’idea di un desiderio flebile, di un personaggio che non produce materia narrabile (anche se bisognerebbe sempre tenere a mente che possiamo leggere solo una parte ridotta del testo di Thomas e considerare che, comunque, anche in questa parte ridotta l’azione non è del tutto esclusa – si pensi al travestimento da lebbroso e si pensi che altri casi simili potrebbero essere contenuti nella parti non pervenute). Ma, lo si è visto, la produttività diegetica del desiderio va rintracciata su un altro piano, diverso da quello immediato dell’azione. Il desiderio di Tristano, nell’episodio della sala delle statue, non genera, è vero, nessuna azione che alteri lo sviluppo dell’intreccio principale, ma ciò non toglie che esso genera, più sottilmente, un’inedita testualità, una scena in cui Tristano gioca con i segni della sua storia, crea storie adiacenti, alternative, manipola personaggi ed eventi. Lo stato di castrazione d’Isotta dalle Bianche Mani crea, nell’episodio dell’acqua ardita, la scena fantasmatica di una deflorazione impossibile, producendo l’ombra, il fantasma di un’azione che esula dalla linea 476 Evelyn Birge VITZ, Medieval Narrative and Modern Narratology. Subject and Object of Desire, New York-London, New York University Press, 1989, p. 176. 477 Ivi, p. 194. 152 diegetica principale. Isotta la Bionda, nella sua stanza, mossa dalla nostalgia per l’amato, riproduce, con il lai di Guiron, la storia di cui è protagonista, munendola di un finale più crudo di quello a venire. Il desiderio agita il testo; il soggetto desiderante, se non produce azioni, ne evoca, e l’evanescenza e l’indeterminatezza identitaria cui lo condanna il senso di mancanza diventano evanescenza e indeterminatezza della storia. Il desiderio si rivela, dunque, forza strutturante della macchina romanzesca; non genera azione, ma genera, comunque, narrazione, una narrazione in cui l’azione è distanziata, citata, incorniciata. L’inanità è solo apparente e si tratta piuttosto di un vuoto produttivo, la cui produttività si manifesta da una prospettiva più sottile di quella che vede nell’azione l’asse portante di un romanzo. Il desiderio non è labile, semmai è talmente dirompente da essere ambiguo e contorto, anche contraddittorio. È, invece, il soggetto a essere labile, soggetto spostato, decentrato, spersonalizzato, il cui statuto è carico di contrasti e ambiguità: Sis corages mue sovent, E pense molt diversement Cum changer puisse sun voleir, Quant sun desir ne puit aveir478. I due frammenti Sneyd 1 e Sneyd 2, in cui Tristano s’interroga sull’opportunità di sposare Isotta dalle Bianche Mani, sono un manifesto della volubilità del soggetto, con un’insistenza sulla contrapposizione tra il desir indirizzato a Isotta la Bionda et il voleir indirizzato a Isotta dalle Bianche Mani, in un lungo discorso in cui, come ha rilevato Punzi, «le ragioni dell’amore coincidono con la negazione delle stesse»479. Di questa contrapposizione va ribadita la complessità, in quanto esula da una più banale dicotomia tra amore e ragione 480 e illumina bene la densità dello statuto del soggetto desiderante. La scelta di Tristano di sposare Isotta dalle Bianche Mani non si presenta come una costrizione autoimposta, una pena cui sottomettersi, una scelta obbligata. Sembrerebbe che il lungo discorso in cui Tristano ha riflettuto sulla coincidenza del nome e della bellezza della reïne e della meschine (cfr. supra IV.2) abbia riappacificato in lui voleir e desir: 478 Vv. 207-210 (Il suo cuore muta spesso, e pensa in modo vario come possa cambiare la sua volontà, dal momento che non può avere il suo desiderio). 479 PUNZI, Tristano. Storia di un mito, p. 30. 480 Si veda su questo punto Yasmina FOEHR-JANSSENS, «Lit d’amour, lit de mort», Le Moyen Age. Revue d’histoire et de philologie, 102, 1996, n. 3-4, pp. 403-417, in particolare alle pp. 406-408. Si rimanda, inoltre, per l’uso del termine ragione in Thomas, a Jean FRAPPIER, «Sur le mot raisun dans le Tristan de Thomas d’Angleterre, in Alessandro S. CRISAFULLI, a cura di, Linguistic and Literary Studies in Honor of Helmut A. Hatzfeld, Washington, Catholic University of America Press, 1964, pp. 163-176. Sul punto si veda anche Joan TASKER GRIMBERT, «Voleir vs. Poeir: Frustrated Desire in Thomas’s Tristan», Philological Quarterly, 69, 1990, pp. 153-165. 153 Pur le nun e pur la belté Que Tristan i ad trové, Chiet en desir e en voleir Que la meschine volt aveir481. Cade nel desiderio e nel volere: non è la volontà ad aver vinto sul desiderio, ma, più ambiguamente, è stato partorito un altro desiderio, è stato creato il desiderio per Isotta dalle Bianche Mani. Non a caso, così commenta il narratore: Oez merveilluse aventure, Cum genz sunt d’estrange nature, Que en nul lieu ne sunt estable482. Come nelle Follie, ci si trova qui davanti a quell’abilità metamorfica e a quella propensione attoriale di Tristano, a una trasformazione profonda che altera la predisposizione dello spirito, che mira all’edificazione di una maschera, esattamente come quando era attento a nascondere ad amici e conoscenti il progetto di imbarcarsi per la Cornovaglia e raggiungere Isotta (cfr. supra III.3). Come in quel caso, Tristano diventa un non luogo, la sua posizione resta indeterminata, sospesa tra un essere e un apparire, sospensione in cui la verità del personaggio è insondabile. Thomas descrive con la consueta profondità questo non essere di Tristano: Pur ço dei jo, m’est avis, dire Que ço ne fut amur ne ire; Car si ço fin amur fust, La meschine amé ne oüst Cuntre volenté s’amie; Dreite haür ne fu ço mie, Car pur l’amur la reïne Enama Tristan la meschine483. Non si tratta di amore vero, ma non si tratta neanche di odio; Tristano è inondato da una forza che lo divora senza che questa s’incanali verso nessun oggetto concreto, desiderio che riguarda l’essere più che l’avere, e che segna l’essere come eccesso, fuoriuscita, anomalia e smarrimento congeniti: il soggetto non è in nessun luogo, il personaggio è pura sospensione. uesta sospensione dell’essere, questo desiderio che non s’incanala in nulla, trova nel romanzo di Thomas una raffigurazione precisa, in un momento che, insieme all’episodio della 481 Vv. 435-438 (Per il nome e per la bellezza che Tristano ha trovato in lei, cade nel desiderio e nella volontà di avere la fanciulla). 482 Vv. 439-441 (Ascoltate un caso meraviglioso, come gli uomini sono di strana natura, che non stanno fermi in nessun luogo). 483 Vv. 523-530 (Per questo devo dire, a mio parere, che non fu amore né odio; poiché, se fosse stato amore perfetto, non avrebbe amato la fanciulla contro la volontà della sua amica; non fu neppure vero odio, poiché Tristano amò la fanciulla per amore della regina). 154 salle aux images, potrebbe essere assunto come segno precipuo di una poetica. Si tratta dell’episodio del cortège de la reine (vv. 1351-1418)484. Tristano è arrivato con Caerdino in Inghilterra per rivedere Isotta, che partecipa a un corteo regale; Caerdino è ansioso di vedere Brangania, di cui Tristano gli ha mostrato l’effigie nella sala delle statue. I due assisteranno il corteo dall’alto di una quercia, da cui potranno osservare senza essere osservati. Caerdino guarda incredulo le immagini meravigliose che scorrono sotto i suoi occhi e, credendo di aver visto Brangania, domanda a Tristano se si tratta di lei, domanda a cui Tristano risponde negativamente. Poco dopo, Caerdino rinnoverà la richiesta: Dunc dit Kaerdin: «Ore [la vei] Ceste devant est la reïne! E quele est Brengien la meschine?»485. Il destino del manoscritto di Strasburgo ha voluto che quest’episodio si chiudesse così, con questa domanda a cui nessuna voce risponde. L’effetto estetico del silenzio di Tristano è comunque notevole, ma, su questo punto, non possiamo esprimerci. Nonostante l’incompletezza dell’episodio (tramandato esclusivamente dal manoscritto di Strasburgo), una cosa abbastanza certa, però, è che, nonostante l’episodio assomigli ai tentativi di Tristano di ricongiungersi a Isotta nelle Folies, o nello stesso episodio del travestimento da lebbroso nel romanzo di Thomas, sequenze in cui l’intervento del protagonista è immediato, qui abbiamo invece un Tristano contemplatore, posto davanti a un quadro scintillante e sfarzoso, che vediamo con i suoi occhi. Un Tristano immobile, eppure tanto eloquente nella sua immobilità (e in quel suo, forse fortuito, silenzio finale). È proprio in quel vuoto, in cui una lettura superficiale potrebbe vedere un desiderio inconsistente che non porta a nessuno sviluppo, che è possibile scorgere un eccesso di desiderio, forza dirompente che accende il soggetto, che «acquista il potere di trascinare al suo interno, come per l’effetto di un vortice, il soggetto che sta guardando»: Investimento oggettuale e identificazione si mescolano, si confondono. L’identificazione nasce proprio dalla sensazione d’inaccessibilità. uando assistiamo a una scena di felicità paradisiaca, appartenente a due o più persone, e in cui non abbiamo la possibilità di penetrare, di avere un posto, come non potremmo mai averlo nel fregio di un tempio greco o in un affresco raffigurante un corteo, quando desideriamo avere l’impossibile, allora il desiderio è pronto a trasformarsi nel 484 Sull’episodio si veda Anna Maria FINOLI, «Il corteo di Isotta: metamorfosi e peripezie di un motivo letterario», Letteratura e filologia. Studi in memoria di Giorgio Dolfini, Milano, Cisalpino-Goliardica, 1987, pp. 165-179. 485 Vv. 1416-1418 (Dice dunque Caerdino: «Ora la vedo, quella davanti è la regina! E qual è la fanciulla Brangania?). 155 desiderio di essere. Allora è il desiderio a scegliere – là dove non possiamo scegliere – la sua e la nostra identità486. Nella contemplazione del corteo, in cui sfilano cavalieri e principesse e in cui si parla di amore e s’intonano dolci melodie, Tristano è uno spettatore che potrebbe (vorrebbe) esservi attore: A ce eis lur li chanberlangs; Après lui espessist le rangs De chevaliers, de dameisels, D’ensegnés, de pruz e de bels; Chantent bels suns e pastureles. Aprés vienent les dameiseles, Filles a princes e a baruns, Nees de plusurs regiuns; Chantent suns e chant delitus487. Il desiderio per la regina si amplifica nel desiderio di penetrare in quel mondo che non è più il suo, di entrare nella rappresentazione che prende forma davanti ai suoi occhi. Ancora una volta, il desiderio non produce azione, ma questo non gli impedisce di farsi forma plastica viva, agente che apre un nuovo scorcio nella trama primaria, v’incastona un nuovo frammento di testo, una nuova visione, rinfrangendo la scrittura in una pluralità di livelli, facendo del personaggio un punto di convergenza in cui desiderio e racconto, soggetto e scrittura s’incontrano. 486 BOTTIROLI, «Identità/ identificazione. Una mappa dei problemi a partire da Freud», p. 235. Vv. 1399-1407 (A questo punto arriva il ciambellano, dopo di lui sfilano le file dei cavalieri, dei giovani, insigni, valorosi e belli, che cantano belle melodie e pastorelle. In seguito arrivano le damigelle, figlie di principi e di baroni, originarie di regioni diverse; cantano melodie e canzoni deliziose). 487 156 V Tristano (e Isotta): l’ombra dell’eroe 1. Una visione prospettica Nell’analisi dedicata al testo di Thomas, pur nel gioco di echi, riflessi, sdoppiamenti e raddoppiamenti, abbiamo individuato un percorso del personaggio, di cui è stato possibile seguire le oscillazioni, gli spostamenti rispetto a un filo – quello di un’attrazione e, insieme, una repulsione nei confronti della potenza dell’eros – che sembra attraversare il romanzo e conferirgli, nonostante lo stato frammentario in cui ci è pervenuto, una struttura dotata di una certa coerenza. Del resto, quello dell’«uni dire»488 è un particolare interesse dell’autore, che si dichiara determinato a conferire coesione e rigore espositivo alla sua versione della leggenda di Tristano. In questo disegno contraddistinto da un’ambizione a una compattezza, le dinamiche relazionali tra i personaggi hanno rivelato un’architettura più ambigua e complessa (e più fluida) di quanto farebbe pensare un’assolutizzazione della «juridiction d’Amour»489 a cui i protagonisti sarebbero soggetti e rispetto a cui l’ideologia clericale dell’autore si porrebbe agli antipodi. Ci soffermeremo su questi aspetti nelle Conclusioni. La questione si pone diversamente con la versione della leggenda che porta la firma di Béroul490, dove rintracciare un percorso del personaggio potrebbe rivelarsi impresa ardua. Se in Thomas si poteva rinvenire uno sforzo di conferire alla sua opera una struttura ben 488 In un punto del frammento Douce (ed. Pléiade, v. 2262-2265), Thomas lamenta che la storia di cui racconta presenta versioni che differiscono tra di loro, dichiarando il proposito di assemblare i dati a sua disposizione e dire solo il necessario, senza comunque eccedere nella semplificazione. La critica ha associato quest’attenzione di Thomas per l’unità della composizione romanzesca alla conjointure di Chrétien de Troyes. Si vedano in proposito Douglas KELLY, «‘En uni dire’ (Tristan Douce 839) and the Composition of Thomas’ Tristan», Modern Philology, 67, 1969-70, pp. 9-17; FOEHR-JANSSENS, «Lit d’amour, lit de mort», in particolare alle pp. 409-410. 489 Jean FRAPPIER, «Structure et sens du Tristan: version commune, version courtoise», Cahiers de Civilisation Médiévale, 6, 1963, pp. 255-80, p. 274. 490 L’autore si nomina ai versi 1268 e 1790 (il nome compare, in entrambi i casi, nella forma del nominativo ‘Berous’). Il romanzo, datato tra gli anni sessanta e ottanta del XII secolo, è conservato in un unico codice, il ms. fr. 2171 della BNF di Parigi. Il frammento è mutilo della parte iniziale e di quella finale, prevede poco meno di 4.500 ottosillabi. Il manoscritto presenta numerosi problemi (in particolare, risulta difficile la lettura di alcuni passi contenuti nelle prime carte). Si veda Albert EWERT, «On the Text of Béroul’s Tristan», in Studies in French Language and Mediaeval Literature presented to Professor Mildred K. Pope by Pupils, Colleagues, and Friends, Manchester, Books for Libraries Press, 1939, pp. 89-98. Le citazioni sono tratte dal volume Pléiade: BEROUL, Tristan et Yseut. Texte établi, traduit, présenté et annoté par Daniel Poirion, pp. 3-121, 1127-1218. calibrata, la critica ha invece spesso rilevato nel testo di Béroul una struttura episodica data da una giustapposizione di scene che non seguono un disegno preciso491, con incongruenze interne che hanno fatto avanzare l’ipotesi di un doppio autore492. In un adattamento della leggenda tristaniana che si sviluppa nel segno dell’avventura, dell’imprevisto, del gioco comico del sovvertimento, il personaggio sembra contare più per l’azione inattesa, ardimentosa, violenta, o furfantesca, senza che vi sia traccia di quello scavo interiore di cui si fanno strumento i versi di Thomas. L’amore cesserebbe di essere l’aspetto centrale della storia di Tristano e Isotta, per cedere il passo a un affresco dalla fisionomia, più che sentimentale, sociale e politica, in cui a far da padrone sarebbe un violento gioco di potere 493 (ma non esente da risvolti ludici)494. Se un personaggio è dato da un essere e da un fare, quello di Béroul sembrerebbe più rappresentato dal suo fare495. I personaggi sono dipinti con cenni minimi, e i loro tratti non 491 Pierre Le Gentil definiva l’arte di Béroul «spontané, mais aussi fragmentaire» (Pierre LE GENTIL, «La légende de Tristan vue par Béroul et Thomas», Romance Philology, 7, 1953-54, pp. 11-129, p. 111). Sull’argomento «pause narrative ed episodi» si veda Alberto VARVARO, Il Roman de Tristan di Béroul, Torino, Bottega d’Erasmo, 1963, alle pp. 31-40. Per un’analisi della coerenza dell’impianto narrativo nonostante l’episodicità si rimanda a: Gioia PARADISI, «La costruzione del racconto nel Tristan di Béroul», in Anatole P. FUKSAS, a cura di, Parole e temi del romanzo medievale, Roma, Viella, 2007, pp. 39-66; Antoinette SALY, «Images récurrentes dans le Tristan de Béroul», in Id., a cura di, Structure et Sens. Etude Arthuriennes, Aix-enProvence, Centre universitaire d’études et de recherches médiévales d’Aix, 1994, pp. 135-148. 492 Sarebbe stata individuata la possibilità dell’intervento di un Beroul II intorno al verso 2760. Si veda, tra gli altri, G. Raynaud DE LAGE, «Faut-il attribuer à Béroul tout le Tristan?», Le Moyen Age, 64, 1958, pp. 249270. Per l’argomento contrario si rinvia a Micheline HANOSET, «Unité ou dualité du Tristan de Béroul», Le Moyen Age, 67, 1961, pp. 503-533 e a VARVARO, Il Roman de Tristan di Béroul, pp. 15 ss. 493 Scrive Bertolucci-Pizzorusso: «La storia d’amore diventa così soprattutto un caso sociopolitico, e i suoi oscuri retroscena devono essere illuminati in tutta la loro grottesca tragicità. Ciò che all’autore sembra premere è la dimostrazione di una sorta di giustizia insita nella necessaria “menzogna” dei due amanti, quale unica arma di difesa» (Valeria BERTOLUCCI PIZZORUSSO, «Béroul e il suo Tristan», in Rosanna BRUSEGAN, a cura di, Le roman de Tristan. Le maschere di Béroul, Atti del Seminario di Verona, 14-15 maggio 2001, Roma, Salerno Editrice, 2001, pp. 211-220, p. 214). Non bisognerebbe, tuttavia, sottovalutare gli aspetti sentimentali del romanzo, che, anzi, andando oltre la storia d’amore tra i due protagonisti, si allargano a un’insistita dichiarazione di affetto di Marco nei confronti di Tristano, elemento trascurato nella versione di Thomas (almeno nei frammenti pervenuti). A proposito del celebre episodio dello scambio degli anelli e della spada nella foresta del Morrois, su cui ritorneremo, Alberto Varvaro ha sostenuto che «Il nostro è dunque un caso esemplare di utilizzazione e magari rafforzamento di motivi giuridici, di costume sociale, i quali però si rivelano secondari dinanzi al prevalere delle ragioni sentimentali […] L’atto dello scambio degli anelli e della spada è simbolo in Béroul, ma non o non soltanto di un rapporto feudale: principalmente e dolorosamente, di una indissolubilità di legami, di una drammatica e irresolubile situazione del sentimento. Per questo commuove e rimane esemplare figura nella memoria». (VARVARO, Il Roman de Tristan di Béroul, p. 168). 494 Cfr. Jean BATANY, «Le Tristan de Béroul: une tragédie ludique», in Michel ZINK, - Danielle REGNIERBOHLER - Eric HICKS - Manuela PYTHON, a cura di, L’hostellerie de pensée. Etudes sur l’art au Moyen Age offertes à Daniel Poirion par ses anciens élèves, Paris, Presses Paris Sorbonne, 1995, pp. 27-40. Si vedano inoltre: Barbara N. SARGENT-BAUR, «Between Fabliau and Romance: Love and Chivalry in Beroul’s Tristan», Romania, 105, 1984, pp. 292-31; Keith BUSBY, «Le Tristan de Bèroul en tant qu’intertexte», in Norris J. LACY Gloria TORRINI-ROBLIN, a cura di, Continuations. Essays on Medieval French Literature and Language in Honor of Jonh L. Grigsby, Birmingham (Alabama), Summa Publication, 1989, pp. 19-38, in particolare alle pp. 28-30. 495 Secondo Bertolucci Pizzorusso i personaggi sono «descritti e risolti soprattutto nelle loro azioni» 158 sono rilevanti ai fini dell’intreccio496, che è, al contrario di quanto accadeva nei frammenti di Thomas, il vero tessuto del romanzo. Gli studi sul personaggio di Tristano nel testo di Béroul ne hanno valorizzato l’inclinazione all’azione vincente e risolutrice, la capacità metamorfica pronta a piegare l’evento a proprio vantaggio; nel personaggio di Tristano s’incarna il prototipo del trickster, del burlone, del polytropos, dell’escogitatore di stratagemmi, dell’uomo d’azione497. Si tratterebbe, cioè, di una riconducibilità a una maschera fissa pur nella sua versatilità: «i personaggi medievali appaiono statici nonostante le vicende in cui sono coinvolti»498. Il tratto è estremizzato e, direi, granitico: non siamo di fronte a quell’inclinazione melanconica che percorreva i testi delle Folies, e che rendeva possibile un’indagine basata sul modo d’essere del personaggio, per via di quel senso di mancanza che lo contraddistingueva e che apriva a una rete d’intricate relazioni identitarie. Qui il senso di mancanza non ha modo di prendere forma, cerca un appagamento immediato (spesso lo trova), diventa atto, alimenta l’intreccio. Se il filtro era diventato in Thomas un puro simbolo della passione, svuotato di un vero potere causale499, in Béroul l’impellenza della richiesta di appagamento cui il vin herbez obbliga gli amanti annulla lo spazio tra pensiero e azione, impedisce proiezioni che non siano volte all’immediata fattualità dell’unione dei due amanti e dell’annientamento di qualunque impedimento a essa. E anche il motivo della fine dell’effetto del filtro non sembra ridimensionare quest’impostazione500. (BERTOLUCCI PIZZORUSSO, «Béroul e il suo Tristan», p. 217). Tuttavia, Keith Busby ha notato come i protagonisti siano «en général plus passifs que ceux de Chrétien de Troyes, et leurs actions semblent être contrôlées par le destin plutôt que par leur propre volonté» (BUSBY, «Le Tristan de Bèroul en tant qu’intertexte», p. 19). 496 «On peut dire que Béroul peint la psychologie de ses personnages en mouvement par un mot, par un geste, par une attitude» (Philippe MÉNARD, «L’art de Béroul», in BRUSEGAN, Le roman de Tristan. Le maschere di Béroul, pp. 221-239, p. 235). 497 Si rinvia alla bibliografia sul trickster citata nel cap. III. Rifacendosi alle categorie di Detienne e Vernant (Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Milano, Mondadori, 1992), Franceschini insiste sulla connotazione del Tristano di Béroul come polytropos, contrapposto all’ephémeros di Thomas: «Tanto è triste e ripiegato su se stesso l’eroe di Thomas quanto quello di Béroul è attivo, mobile, agile, attento, vigile, capace in ogni momento di sfruttare l’occasione a suo vantaggio, abile nel parlare e nell’ingannare il suo prossimo, caratteristiche queste dell’uomo dotato di metis» (FRANCESCHINI, «Ephémeros. Per un’analisi dei caratteri nel Tristano di Thomas e di Béroul», p. 277). 498 BONAFIN, «Prove di un’antropologia del personaggio», p. 9. 499 «Aux yeux de Thomas, ni l’amour ne saurait s’affaiblir, ni le philtre qui le symbolise et se confond avec lui sans rien ajouter à son essence, car l’amour, la divinité Amour, est un absolu situé au-dessus de toutes les contingences [..] Il [le philtre] ne sert plus, contrairement à ce qui se passait dans la version commune, à excuser le péché des amants. Ceux-ci n’ont nul besoin d’un alibi moral. L’obéissance à l’Amour est devenue leur seul devoir. Leur seul devoir et leur volonté unique» (FRAPPIER, «Structure et sens du Tristan: version commune, version courtoise», p. 273). 500 La versione di Béroul parla di una durata del filtro limitata a tre anni. Si vedano sul punto: Sylvia HUOT, «A Tale much Told: the Status of the Love Philtre in the Old French Texts», Zeitschrift für deutsche Philologie, 124, 2005, pp. 82-95; Gioia PARADISI, «L’amore di Tristano e Isotta secondo Béroul (e un’ipotesi sul filtro)», 159 Tenuto conto di questo inconfutabile tratto, propongo d’indagare le dinamiche identitarie che attraversano il testo di Béroul alla luce di una questione che è assunta come un dato indubbio di questa versione della leggenda: la presenza di un narratore che, contro ogni morale cristiana e ogni imposizione sociale dettata dal sistema feudale, appoggia i due protagonisti adulteri, si schiera dalla loro parte501. Si tratterà, cioè, di indagare sulla possibilità di estrapolare dal romanzo di Béroul un processo testuale, una forma in cui si realizzi questo senso, una forma della diegesi che piloti una struttura ideologica così intrinseca nel romanzo da essere accettata senza riserve502. Bisogna accettare i commenti condiscendenti del narratore503 come un assunto, come il diretto riflesso dell’ideologia o dell’anti-ideologia dell’autore, o è possibile indagare la formalizzazione di questo segno del consenso, il suo modo d’incarnarsi nella scrittura504? Dalla particolare ottica del personaggio, quale forma assume questo sguardo consenziente del narratore? È sufficiente affidarsi alla motivazione del filtro apportata da Tristano e Isotta, e considerarla il solo strumento che l’autore assegna ai suoi personaggi per rendersi difendibili? In via preliminare, in uno studio del personaggio nel romanzo di Béroul, bisognerà rilevare che un dato costitutivo ne è l’esasperato soggettivismo, che opacizza e altera i fatti rappresentati. La scrittura di Thomas accordava un ruolo di primo piano al personaggio attraverso sottili indagini psicologiche che si sviluppavano a discapito dello spazio riservato agli eventi, i quali però, pur nella loro secondarietà, conservano una validità ontologica, si Introduzione a BÉROUL, Tristano e Isotta, a cura di Gioia Paradisi, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2 13, pp. 546. 501 «En effet le roman de Béroul cultive un paradoxe, sans en donner jamais de façon explicite la solution: ces deux héros manipulateurs, qui ont consommé régulièrement l’adultère, ne cessent même lorsqu’ils sont pris en flagrant délit, et conservent la sympathie du narrateur, du peuple, et de Dieu même» (Dominique BOUTET, «Vérité et responsabilité», in Catherine CROIZY-NAQUET - Anne PAUPERT, a cura di, Regards croisés sur le Tristan de Béroul, Textuel, 66, 2012, pp. 11-23, p. 16). A proposito della «solidarietà con gli eroi», Varvaro parlava di un «con-patire» dell’autore, del «suo sentire come anche sue le loro sofferenze, l’individuarle come esemplari di una situazione esistenziale non loro esclusiva ma potenzialmente comune a tutti» (VARVARO, Il Roman de Tristan di Béroul, pp. 87-88). Forse troppo trascurando questa portata estetica dell’operazione di Béroul, su cui verterà la nostra analisi, la critica si è in diverse sedi interrogata sulla questione morale nel romanzo, insistendo soprattutto sull’influenza dell’idea abelardiana d’intenzione: essendo l’adulterio dovuto al filtro, i protagonisti sarebbero esenti da colpa (cfr. infra n. 553). 502 È quanto rileva Bertolucci Pizzorusso («Béroul e il suo Tristan», p. 213). 503 Su come i commenti del narratore pilotino il senso che l’autore intende attribuire alla materia che rielabora (ma, anche sulla loro portata estetica), si veda Emmanuèle BAUMGARTNER, Tristan et Iseut. De la légende aux récits en vers, Paris, PUF, 1987, pp. 40 ss. Sulla funzione degli interventi d’autore nella costruzione del racconto cfr. Varvaro, Il Roman de Tristan di Béroul, pp. 74-86. 504 Parlare di scrittura per un autore che è stato dipinto come un menestrello dallo stile avvincente, ma ingenuo e improntato all’oralità, potrebbe suscitare qualche risposta dissenziente (si veda, tra gli altri, Evelyn B. VITZ, Orality and Performance in Early French Romance, Woodbridge-Rochester, Brewer, 1999, in particolare pp. 180 ss.). Ma la questione della naïveté di Béroul mi sembra definitivamente archiviata con la ponderata analisi di Ménard (Philippe MÉNARD, «L’art di Béroul», in BRUSEGAN, Le roman de Tristan. Le maschere di Béroul, pp. 221-239, a cui rimando per la bibliografia pregressa sul punto). 160 presentavano come univocamente dati. Al contrario, in Béroul, l’evento è sottoposto, attraverso il filtro del personaggio, a una decostruzione che fa vacillare la prospettiva di una verità unilaterale. Il paradigma è stato a più riprese rilevato dalla critica505, con analisi puntuali mirate a far risaltare l’abilità dei due amanti nel manipolare il linguaggio al fine di piegare il dato reale, di negare la loro relazione adultera. Proporremo qualche riflessione sul funzionamento del soggettivismo nel testo, cercando di coglierne uno spessore che direi euristico, legato a un modo di conoscenza del mondo, e non da intendersi semplicemente come manipolazione della verità attraverso la parola menzognera. Ci soffermeremo sul primo episodio che ci è pervenuto del frammento di Béroul, quello del colloquio spiato, considerato a ragione una cifra dell’intero romanzo506, e nel quale si profila sin da subito quello che è il soggettivismo che attraversa tutto il frammento. Tristano e Isotta hanno concordato un appuntamento nel giardino, Marco è stato informato dal nano Frocin del loro incontro e spia la scena dalla cima di un albero, ma i due si accorgono della presenza del re per via del riflesso proiettato in uno specchio d’acqua: gli amanti orchestreranno una messa in scena in cui il linguaggio si manifesterà in tutto il suo potere di occultamento del referente. Il primo verso leggibile dell’episodio recita, « ue nul senblant de rien en face»507, con evidente riferimento a Isotta, che si sforza di non lasciare apparire nulla del reale stato d’animo con cui si era recata all’appuntamento. Il senblant, che avevamo ripetutamente incontrato nell’episodio della salle aux images di Thomas, sembra intitolare l’episodio, valorizzato dalla sua ripetizione qualche verso dopo: «Or fait senblant con s’ele plore»508. Isotta rimprovera a Tristano di averla fatta chiamare nel cuore della notte, cosa che rende 505 Cfr. Mariantonia LIBORIO, «La complicità dell’arte. Il Tristano di Béroul», in Clara SIBONA, a cura di, Strategie della manipolazione, Ravenna, Longo, 1983, pp. 79-85; Barbara N. SARGENT-BAUR, «Truth, HalfTruth, Untruth: Béroul’s Telling of the Tristan Story», in Leigh A. ARRATHOON, a cura di, The Craft of Fiction. Essay in Medieval Poetics, Rochester (Michigan), Solaris Press, 1984, pp. 393-421; Marie-Louise OLLIER, «Le statut de la vérité et du mensonge dans le Tristan de Béroul», in BUSCHINGER, Tristan et Iseut. Mythe européen et mondial, pp. 298-318; HUCHET, Tristan et le sang de l’écriture, in particolare alle pp. 89 ss.; Norris J. LACY, «Where the Truth Lies: Fact and Believe in Béroul’s Tristan», Romance Philology, 52, 1999, pp. 1-10. Si rimanda, inoltre, alla già citata analisi di BOUTET, «Vérité et responsabilité». 506 Cfr. Maria-Luisa MENEGHETTI, «Béroul e il ‘male’ di re Marco», in BRUSEGAN, Le roman de Tristan. Le maschere di Béroul, pp. 240-256; Danielle BUSCHINGER, «Le rendez-vous épié dans le verger dans les romans de Tristan de Béroul, d’Eilhart von Oberg et de Gottfried von Strassburg, ou la mise en scène de l’amour», in Remembrances et resveries. Hommage à Jean Batany, Orléans, Paradigme, 2006, pp. 21-27; Jean MAURICE, «L’épisode du rendez-vous épié, modèle matriciel du Tristan de Bèroul», Textuel, 66, 2012, pp. 91-99. 507 V. 2 (Che non faccia trasparire qualcosa). 508 V. (Ora fa finta di piangere). Sull’importanza in quest’episodio del lemma senblant, e di quelli a esso associati voir, savoir, croire, si veda Paradisi: BÉROUL, Tristano e Isotta, p. 105, n. 497. 161 particolarmente compromessa la sua situazione di fronte al re, il quale sospetta, a causa dei baroni felloni, che lei e il nipote abbiano una relazione. Isotta fa sin da subito sfoggio non solo delle sue doti attoriali, sostenendo così abilmente la finzione, ma anche di quelle di sapiente manipolatrice dell’arte della retorica: Par Deu, qui l’air fist et la mer, Ne me mandez nule foiz mais. Je vos di bien, Tristan, a fais, Certes, je n’i vendroie mie. Li rois pense que par folie, Sire Tristan, vos aie amé; Mais Dex plevis ma loiauté, Qui sor mon cors mete flaele, S’onques fors cil qui m’ot pucele Out m’amistié encor nul jor!509 È ovviamente Tristano colui che la prese pucele e il passo, nel gioco di ripetizioni, richiami, anticipazioni e analessi di cui si avvale la scrittura di Béroul, anticipa la celebre scena dell’escondit, su cui ci soffermeremo in seguito. Ci limiteremo per ora a notare come Isotta abbia decostruito, nello spazio di venticinque versi, due verità in due maniere diverse. Nel primo caso si trattava di creare un’apparenza (il senblant) che cancellasse il dato reale, che mascherasse il presumibile stato d’animo con cui si era recata all’appuntamento, assumendo subito un atteggiamento contrariato nei confronti di Tristano. Nel secondo caso, invece, il mezzo di decostruzione del dato reale, ossia l’adulterio, non è la creazione di un’apparenza, ma la pura logicità del discorso; Isotta non mente, proferisce una verità rigorosa, ammette il proprio amore per chi ebbe la sua verginità. Solo nel primo caso si tratta di un capovolgimento della verità, nel secondo si tratta piuttosto di un’impossibilità della verità: Le vrai ne s’entend pas alors de la coïncidence de l’apparence et de l’essence, mais de la justesse d’un raisonnement. La persuasion, elle, est le fait d’un sujet, et s’adresse à un autre sujet; elle est essentiellement désir de convaincre: le temps pendant lequel elle s’exerce, se livre une sorte de lutte qui n’est jamais acquis une fois pour toutes; dans sa composition, entrent toutes sortes de paramètres instables, qui définissent une configuration essentiellement ponctuelle. Le succès de la persuasion se mesure à ses résultats: lorsqu’elle a déterminé l’autre à l’action, ou provoqué chez lui quelque changement510. Questa lotta per la persuasione verso il destinatario muto, puro bersaglio di una parola che 509 Vv. 16-25 (In nome di Dio, che creò il cielo e il mare, non mandatemi più a chiamare. Ve lo dico chiaro, Tristano, davvero, non verrò. Il re pensa, Tristano, che io vi ami di una passione folle, ma Dio è testimone della mia lealtà, che il suo castigo si abbatta su di me se mai qualcuno, tranne chi mi prese vergine, ebbe mai il mio amore). 510 OLLIER, «Le statut de la vérité et du mensonge dans le Tristan de Béroul», p 309. 162 mira a plasmare la sua coscienza, spiega l’atteggiamento egotistico dei due protagonisti, che sembrano ciascuno preoccupato della propria posizione, del riuscire a creare agli occhi di Marco un’immagine positiva di sé, che ne riaccenda l’affetto. In una sorta di espansività prospettivista, ognuno è impegnato a nobilitare il proprio ritratto: Je quidai jadis que ma mere Amast mot les parenz mon pere; Et disoit ce, que ja mollier N’en avroit ja son seignor chier ui les parenz n’en amereit. Certes, bien sai que voir diset. Sire, mot t’ai por lui amé. E j’en ai tot perdu son gré511. Il riferimento all’autorità materna evoca nella scena, con un tratteggio fugace, il retroterra del personaggio d’Isotta, quello di una regina raffinatamente educata, che si trova però ora infamata dalla maldicenza dei felloni. Dopo qualche verso, Tristano le si rivolgerà chiamandola «fille de roi, franche, cortoise», e, ancora dopo, Isotta lamenterà, come faceva nel dialogo con Brangania in Thomas, che «Tote sui sole en ceste terre»512, lasciando intravedere quel destino di regina strappata alla sua terra per soddisfare il desiderio di Marco. Dall’altro lato della scena, Tristano controbatte con l’esaltazione del suo valore cavalleresco. Tristano rivendicherà la sua superiorità sui felons, privi di coraggio e di prontezza nel difendere il regno dello zio, e chiederà a Isotta d’intercedere per lui, affinché possa recuperare il suo equipaggiamento e cercare un altro signore da servire, conscio che chiunque sarà onorato di accoglierlo: Fors a vos ne sai a qui plaindre. Bien sai que mot me het li rois. Engagiez est tot mon hernois. Car le me faites delivrer: Si m’en fuirai, n’i os ester. Bien sai que j’ai si grant prooise, Par tote terre ou sol adoise Bien sai que u monde n’a cort, S’i vois, li sires ne m’avot513. Bèroul cede la parola ai suoi personaggi, lascia loro aprire un mondo messaggero di un punto 511 Vv. 73-80 (Compresi un tempo che mia madre amava molto i parenti di mio padre, e diceva questo, che non ha caro il marito la moglie che non ne ama i parenti. So di certo che diceva la verità. Sire, è per lui che ti ho amato, e per questo ho perduto il suo affetto). 512 Vv. 101-102 (figlia di re, nobile, cortese); v. 174 (sono completamente sola in questa terra). 513 Vv. 202-210 (Non so a chi rivolgermi se non a voi. Sono consapevole che il re mi odia. Il mio equipaggiamento è dato in pegno. Fatemelo riscattare: così andrò via, non oso restare. So di avere grande prodezza, so che, ovunque andassi, non ci sarebbe al mondo corte il cui signore non mi accolga, se vado). 163 di vista tutto personale. Si noterà la differenza tra l’impostazione generale della scena, mirata alla decostruzione della verità davanti agli occhi di Marco, a un fine pratico che avvierà nuovi sviluppi dell’intreccio, e queste due ultime annotazioni, in cui Tristano e Isotta tratteggiano un modello che sentono d’incarnare, quello della regina impeccabilmente lontana da ogni colpa e quello del prode cavaliere, modelli che non riescono a trovare una realizzazione nel fosco cosmo della corte di Marco. La lotta per la persuasione opera cioè attraverso l’imposizione di un modello: non si tratta qui di far coincidere l’apparenza e l’essenza di un evento, non si tratta di una manipolazione, ma di ricreare una legittima coincidenza tra il personaggio e il modello che in esso si riflette. Alla rivendicazione di non colpevolezza (basata su una contorsione logico-linguistica) subentra la rivendicazione di un’autorità che trascende la pochezza, gli angusti limiti della corte di Marco: Se li felon de cest’enor, Por qui jadis vos conbatistes O le Morhout quant l’oceïstes, Li font acroire (ce me senble) Que nos amors jostent ensemble, Sire, vos n’en avez talent, Ne je, par Deu omnipotent, N’ai corage de drüerie Qui tort a nule vilanie514. La negazione, da parte d’Isotta, dell’amore adultero, è corredata, quasi come se questo costituisse un apporto probante, del riferimento alla grande impresa tristaniana dell’uccisione del Moroldo. Di tutti i riferimenti analettici alla parte della leggenda non presente nel frammento a nostra disposizione, questo è il più insistito. Se in un primo momento Isotta rileva il valore dell’amato, in seguito entra nella cornice di questo ritratto autoritario, vi si colloca al centro, accanto a Tristano: Mot vos estut mal endurer De la plaie que vos preïstes En la batalle que feïstes O mon oncle. Je vos gari515. Tristano insisterà sull’azione contro il Moroldo, a ribadire lo scarto tra lui e i baroni: Mot les vi ja taisant et muz, 514 Vv. 26-34 (Se i felloni di questo regno, per il quale voi combatteste contro il Moroldo, quando l’uccideste, gli fanno credere, così mi sembra, che noi abbiamo una relazione, signore, voi non ci pensate affatto; né io, in nome di Dio onnipotente, ho in animo una relazione illecita che mi possa disonorare). 515 Vv. 50-53 (Vi è toccato sopportare molto dolore per via della ferita che avete ricevuto nel duello contro mio zio. Io vi ho guarito). 164 Quant li Morhot fu ça venuz, Ou nen i out uns d’eus tot sous Qui osast prendre ses adous. Mot vi mon oncle iluec pensis, Mex vosist estre mort que vis. Por s’onor croistre m’en armai, Combati m’en, si l’en chaçai516. Abbiamo imparato, nel nostro percorso, a considerare i momenti analettici, i giochi della memoria, come dei punti di disvelamento importanti nella riflessione che il personaggio conduce su se stesso, e il riferimento alla battaglia contro il Moroldo costituirà un punto centrale nella nostra analisi. Tuttavia, in questa fase, in cui siamo interessati a mettere in luce il prospettivismo517 che connota il romanzo di Béroul e l’importanza che il punto di vista del personaggio riveste nell’elaborazione del senso, sarà sufficiente rilevare che Tristano e Isotta si collocano sin da subito – e con insistenza – sul piano di una coppia ideale, superiore alla meschinità della corte di Marco, contrapponendovi la prospettiva di un passato dai tratti mitici che li blocca nella loro eroicità518. L’analessi opera nel romanzo di Béroul – e già in questo primo episodio – in un senso duplice. Da un lato, si tratta di rievocare parti della leggenda non presenti nel romanzo (almeno nel frammento pervenuto), ma dall’altro comporta la ripresa di punti raccontati anche a breve distanza, come proprio nel caso del colloquio spiato. Ciascun personaggio che ha partecipato all’evento ripercorrerà l’episodio, illuminandone alcune sfumature piuttosto che altre519. Conclusasi la messa in scena dei due amanti, Marco, rimasto solo e ripercorrendola, 516 Vv. 135-142 (Li ho visti tacere, muti, quando il Moroldo venne qui, quando non ce ne fu uno solo di loro che osò prendere le armi. Allora vidi mio zio molto turbato, avrebbe preferito essere morto. Per accrescere il suo onore presi io le armi, combattei, ed ebbi la meglio). 517 Qualche indicazione su quest’aspetto è fornita in Annalisa PONTI, «I Tristani di Thomas e Béroul: prospettivismo monologico e prospettivismo dialogico», Medioevo Romanzo, XIII, 1988, pp. 183-202. Ponti parla, per i personaggi di Béroul, di «un’effettiva possibilità di rappresentare se stessi e la propria visione del mondo indipendentemente dal narratore, dalla sua mediazione linguistica e, soprattutto, ideologica» (ivi, p. 193). 518 uest’appunto, interessato, come si vedrà, a illuminare una logica diegetica, si coniuga con la prospettiva storica proposta da Maria Luisa Meneghetti, che ha letto nel romanzo di Béroul una lotta per la successione a un re incapace di governare: «Non mi sembra improprio avanzare un’interpretazione di tutto il Tristan […] in chiave di racconto di un tentativo (fallito) di passaggio – di translatio – del potere da un sovrano ormai considerato non meritevole di regnare a un altro, ritenuto più degno o capace (MENEGHETTI, «Béroul e il ‘male’ di re Marco», p. 243). In effetti, il romanzo presenta spesso i due protagonisti come potenziali sovrani ideali, cosa che, a mio vedere, è realizzata proprio in forza di quella continua identificazione rispetto al modello trascendente della coppia mitica. Sul ruolo d’Isotta in questa idealizzazione della coppia, si veda Valeria BERTOLUCCI PIZZORUSSO, «La corte e le sue immagini nel Tristan di Béroul», in Id, Morfologie del testo medievale, pp. 19-33. Su come il testo presenti un forte protagonismo della coppia, e non del solo Tristano, si veda anche Bénédicte MILLAND-BOVE - Vanessa OBRY, «Appel et rappel des personnages dans le Tristan de Béroul», Textuel, 66, 2012, pp. 59- («Tristan et Yseut sont d’abord des individus qui peuvent être parfois vus comme une entité supérieure», ivi, p. 73). 519 Cfr. Donald MADDOX, «L’auto-réécriture béroulienne et ses fonctions», in BRUSEGAN, Le roman de Tristan. Le maschere di Béroul, pp. 181-190, in particolare a p. 184. Procedimenti simili di rinarrazione 165 ne suggella la riuscita, pentendosi di aver creduto al nano e ammettendo la profonda commozione che il racconto della moglie e del nipote hanno suscitato in lui: Marco s’illude di savoir, di aver colto il vero: Or puis je bien enfin savoir, Se feüst voir, ceste asenblee Ne feüst pas issi finee. S’il s’amasent de fol’amor, Ci avoient asez leisor, Bien les veïse entrebaisier. Ges ai oï si gramoier, Or sai je bien n’en ont corage. Porqoi cro je si fort outrage? Ce poise moi, si m’en repent: Mot est fous qui croit tote gent520. Con una risoluzione grottescamente esagerata, il re concederà molto più del previsto: Marco lascerà ai due amanti «la chanbre tot a lor voloir»521. Se la retrospettiva di Marco è improntata a un punto di vista alterato dalla verità performativa522 creata dai due protagonisti, e rientra, dunque, ancora nel quadro dell’azione furfantesca, di cui si vuole mettere in risalto il successo, più complessa appare, invece, la retrospettiva d’Isotta, che, appena tornata nella reggia, riassumerà quanto accaduto a Brangania, che l’ha trovata particolarmente scossa e gliene ha chiesto le ragioni: Ele respont: «Bele magistre, Bien doi estre pensive et tristre. Brengain, ne vos vel pas mentir: Ne sai qui hui nos vaut traïr, Mais li rois Marc estoit en l’arbre, Ou li perrons estait de marbre. Je vi son onbre en la fontaine. Dex me fist parler premeraine. Onques de ce que je i quis N’i out mot dit, ce vos plevis, Mais mervellos conplaignement Et mervellos gemissement. Gel blasmé que il me mandot, Et il autretant me priout prospettica caratterizzano anche il Roman de Renart: cfr. Massimo BONAFIN, «Specchi narrativi», in Id., Le malizie della volpe. Parola letteraria e motivi etnici nel Roman de Renart, Roma, Carocci, 2006, pp. 183-206. 520 Vv. 298-308 (Ora finalmente so; se fosse stato vero, quest’incontro non sarebbe finito così. Se si amassero di un amore colpevole, questa sarebbe stata la buona occasione, li avrei di certo visti baciarsi. Io li ho sentiti disperarsi. Ora so che non ci pensano proprio. Perché ho creduto a una tale offesa? Ciò mi pesa, me ne pento. È tanto folle chi crede a tutti). 521 V. 297 (libero accesso alla camera nuziale). 522 Lacy definisce la verità in Béroul a speech act (LACY, «Where the Truth Lies: Fact and Believe in Béroul’s Tristan», p. 4). 166 ue l’acordase a mon seignor, Qui, a grant tort, ert a error Vers lui de moi; et je li dis Que grant folie avoit requis, Que je a lui mais ne vendroie Ne ja au roi ne parleroie. Ne sai que je plus racontasse. Conplainz i out une grant masse; Onques li rois ne s’aperçut Ne mon estre ne desconnut, Partie me sui du tripot523. Il resoconto d’Isotta corrisponde con sufficiente precisione all’evento, ma è immediato notare come la predisposizione emotiva del personaggio conferisca al racconto una qualche forma di pathos, laddove nella messa in scena si mostrava la lucida risolutezza della regina nel celare il vero motivo dell’appuntamento. Isotta, direi, esagera alquanto la portata della sua performance, insistendo sui «mervellos complaignement et mervellos gemissement», ribaditi poi in quel «Conplainz i out une grant masse». Emerge quel sentimento di paura 524 che nella scena era stato tenuto celato, e la riscrittura d’Isotta, latrice del particolare universo del personaggio, crea un passaggio dal gioco comico che permeava la finzione della scena, pilotata dalla ruse a discapito del re, a una prospettiva più delicata che lascia intravedere, seppur nel frangente di qualche verso, un mondo interiore. Mi sembra che il passo mostri bene come, nella scrittura di Béroul, il gusto per la ripetizione implichi notevoli risvolti estetici, che ci preoccuperemo di approfondire. Anche Tristano racconta al suo maestro Governal la scena del colloquio spiato, ma non ci è dato conoscere la sua versione: Tristan ravoit tot raconté A son mestre com out ouvré. uant conter l’ot, Deu en mercie ue plus n’i out fait o s’amie525. Resta comunque indicativo questo rincorrere la storia da parte dei personaggi, farla propria, 523 Vv. 345-369 (Isotta risponde: «cara signora, devo ben essere pensosa e triste. Brangania, non voglio nascondere la verità: non so chi oggi abbia voluto tradire, ma il re Marco era sull’albero, dove il bordo della fonte è di marmo. Ho visto la sua ombra nella fontana. Dio mi fece parlare per prima. Di quello che cercavo lì non ho detto nulla, ve lo assicuro, ma grandi lamenti e pianti straordinari. L’ho biasimato per avermi fatto chiamare, e per sua parte mi ha pregato di riconciliarlo con mio marito, che si è sbagliato di grosso su di noi. E io gli ho detto che mi aveva chiesto un’enorme follia, che non l’avrei mai più raggiunto, né avrei parlato al re. Che cosa raccontare di più? Ci furono tanti lamenti. Il re non si è accorto di niente, non ha capito il mio gioco. Poi me ne sono andata da quell’intrigo). 524 Sul punto si veda Yasmina FOEH-JANSSENS, «Une poétique de la peur chez Béroul?», Textuel, 66, 2012, pp. 43-57. 525 Vv. 381-384 (Tristano aveva raccontato al suo maestro quello che aveva fatto. Ascoltandolo, [Governal] ringrazia Dio che non si è spinto oltre con la sua amante). 167 fissarla, renderne partecipe gli altri personaggi, riscriverla dal proprio mondo particolare. Nel successivo incontro con Isotta, Marco, ancora una volta, riproporrà la scena del colloquio nel giardino, insistendo sulla profonda commozione che aveva suscitato in lui: «Sire, estiez voc donc el pin? - Oïl, dame, par saint Martin. Onques n’i ot parole dite Ge n’oïse, grant ne petite. « ant j’oï a Tristan retraire La batalle que li fis faire, Pitié en oi, petit falli ue de l’arbre jus ne chaï. Et quant je vos oï retraire Le mal q’en mer li estut traire De la serpent dont le garistes, Et le grans bien que li feïstes, Et quant il vos requist quittance De ses gages, si oi pesance; Ne li vosistes aquiter Ne l’un de vos l’autre abiter, Pitié m’en prist an l’arbre sus. Souef m’en ris, si n’en fis plus526. L’operazione di penetrazione nella coscienza di Marco ha dato un esito che si spinge ben oltre i presupposti. Si noti il verso 485, che richiama il serpent, il dragone che terrorizzava l’Irlanda e da cui Tristano, pronto a combatterlo, ricevette una ferita mortale. Nella scena del colloquio spiato si fa riferimento soltanto al combattimento con il Moroldo, che, verosimilmente, è la batalle che Marco rievoca cinque versi prima del serpent. Il passo potrebbe essere collocato dai filologi nella lista delle numerose incoerenze che il testo di Béroul presenta (ma non mi risulta, a mia conoscenza, che il punto abbia suscitato particolare interesse)527. Ma, dalla prospettiva analitica qui adottata, attenta all’intenzione del personaggio e al suo particolare microcosmo, diremo che la performance di Tristano e Isotta ha talmente manipolato la coscienza del re da creare in lui un’associazione d’immagini per cui il Moroldo richiama il dragone, mettendo a fuoco le due grandi imprese che fissano Tristano nel segno dell’eroicità528. Ancor più di quanto non avessero fatto Tristano e Isotta, Marco colloca i due 526 Vv. 475-492 («Sire, eravate dunque sul pino?». «Sì, signora, per san Martino. Non c’è stata parola che io non abbia udito, grande e piccola. Quanto ho sentito Tristano raccontare il duello che gli ho fatto combattere, ne ho avuto pietà, mancò poco che non cadessi dall’albero. E quando vi ho sentito raccontare il male che gli toccò sopportare in mare, della ferita inferta dal drago, da cui lo avete guarito, e il gran bene che gli avete fatto, e quando vi ha chiesto di riscattare i suoi beni, ho provato una gran pena; non avete voluto liberarlo dal debito, né vi siete avvicinati l’uno all’altra. Pietà mi ha preso lì sull’albero. Ne ho sorriso dolcemente, non ho fatto altro). 527 Anzi, Varvaro, notando come la vicenda del Moroldo sia più volte ricordata, sottolinea che «del dragone irlandese invece il frammento non dice nulla» (VARVARO, «Il Tristan di Béroul, quarant’anni dopo», p. 337). 528 Il riferimento al Moroldo, associato a quello al dragone, sembra ispirato, come nel romanzo di Eilhart 168 amanti sul piano trascendente di un richiamo a un mondo mitico: Tristano è il vincitore di mostri e liberatore di popoli, Isotta è colei che, puntualmente, lo guarisce da ferite mortali. Possiamo forse trarre, dall’analisi di questi primi passi, qualche considerazione sul soggettivismo bérouliano, sul potere di appropriazione del reale che conferisce ai suoi personaggi. Mi sembra chiaro che questo potere di appropriazione soggettiva si sviluppi in due sensi diversi. Il testo presenta sicuramente una manipolazione da parte dei protagonisti del fatto, una negazione della realtà dell’adulterio. Come abbiamo visto, e come vedremo meglio nella scena dell’escondit, Isotta gestisce retoricamente il reale, affidando al linguaggio l’impostazione di un testo che «apparaît d’un bout à l’autre comme une mise en scène du caractère insaisissable de la vérité»529. Il linguaggio, linguaggio diviso, non segue la verità: Le langage confirme ici son impuissance à dire toute la vérité dont il n’actualise qu’une partie. Mensonge (par omission) et vérité se mêlent dans le texte de Béroul, redécouvrant la relativité de la vérité et scellant la faillite de La Vérité. Contrairement à ce que croyaient la tradition platonicienne et la patrologie, la vérité n’est plus une essence mais une dialectique: elle requiert le mensonge, et l’ordre d’une structure qui fait de la vérité une affaire de place, sinon d’oreille…530 Secondo Huchet la modernità del romanzo viene proprio dalla rappresentazione del linguaggio umano come afflizione, dalla constatazione che l’uomo mal si accorda alla verità e che «seul le désir de ne pas savoir l’anime, dès lors même qu’il s’engage dans une quête de vérité»531. Per Ollier, lo abbiamo visto, lo statuto della verità è, nel romanzo di Béroul, opaco, in quanto, più che di certezze delle quali riconoscere oggettivamente il valore, si tratta di «un assentiment à obtenir de l’autre ou à lui imposer»532, di un desiderio di convincere. La studiosa vi vede una «stupéfiante découverte» del XII secolo 533, che avrebbe valorizzato il potere della scrittura di finzione, la quale si fa veicolo di una verità multipla, che si può dire von Oberg (éd. Pléiade, p. 26 ss.) a una figura arcaica. Il personaggio assumerà tutt’altro aspetto nel romanzo di Goffredo di Strasburgo, in cui appare nei panni di un cavaliere (ed. Pléiade, p. 469 ss.). Si rinvia a Fabrizio CIGNI, «Da un’avventura tristaniana al mito di Eracle: la sconfitta del Moroldo», in Anna Maria BABBI, a cura di, Rinascite di Ercole, Verona, Edizioni Fiorini, 2002, pp. 183-198. Si vedano, inoltre, Jean-Marc PASTRÉ, «Morhold et le Tricéphale: les sources indoeuropéennes du mythe tristanien», in L’unité de la culture européenne au Moyen Age, Greifswald, Reineke-Verlag, 1994, pp. 77-94; Id., «Le personnage de Tristan: un archétype revisité», in Façonner son personnage au Moyen Age, pp. 285-296; Id., «La matière de Tristan et le conte merveilleux», in Tristan et Yseut. Un thème eternel dans la culture mondiale, pp. 191-204. Sull’importanza del richiamo analettico all’impresa contro il Moroldo nel romanzo di Béroul insiste la già citata Huguette Legros (LEGROS, « uand Tristan réécrit son histoire…»). 529 OLLIER, «Le statut de la vérité et du mensonge dans le Tristan de Béroul», p. 299. 530 HUCHET, Tristan et le sang de l’écriture, pp. 90-91. 531 Ivi, p. 93. 532 OLLIER, «Le statut de la vérité et du mensonge dans le Tristan de Béroul», p. 299. 533 Ivi, p. 315. 169 solo attraverso un linguaggio, quello umano, «capable d’énoncer les contraires»534. Anche per Howard Bloch con la storia di Tristano, «novel of countless partial half-truths», il romanzo diventa, già modernamente, il prodotto di una «subjective vision»535. Tutta la scena del colloquio spiato, attraverso la padronanza dell’arte della retorica dei due personaggi, rende la verità performativa, la plasma agli occhi del re, la inventa, la pilota: chiamerei questo prospettivismo un prospettivismo decostruzionista. La dislocazione dei segni, la loro incapacità di cogliere l’oggetto, la manipolazione retorica del reale e la moltiplicazione delle verità sono senz’altro aspetti che partecipano in maniera rilevante al tessuto della scrittura bérouliana. Ma abbiamo poi visto, con il racconto della scena a opera prima d’Isotta e poi di Marco, una forma, per così dire, più tenue di prospettivismo, che riproponeva la stessa storia da angolazioni diverse, dal microcosmo unico e particolare del personaggio. Lì non si mirava a decostruire la verità, non si manipolava il linguaggio verso un fine pratico; veniva meno quel desiderio di persuasione di cui parla Ollier e il flusso del linguaggio non serviva a mascherare il dato, ma a lasciar trasparire i moti interni del personaggio, la sua visuale, la sua riscrittura della storia, il suo filtro rispetto al mondo. Già Varvaro, analizzando i ricordi e i preannunci presenti nel testo, coglieva la portata estetica della riproposizione di uno stesso evento in punti diversi: Insomma, in Béroul ogni sentimento, ogni moto dell’animo e del cuore, nel momento in cui si genera o affiora alla coscienza e all’espressione ha bisogno di presupporsi eterno, di crearsi una durata; e ottiene ciò mediante questa fittizia proiezione nel tempo536. Il romanzo trova così una sua coesione interna attraverso la disseminazione delle sue componenti, che vengono illuminate e rivisitate da un moto del personaggio. Mi pare che sia in questo secondo prospettivismo, in questo gioco per cui ogni personaggio è latore di una sua storia, più che nell’idea di una negazione della verità, che si debba rintracciare la modernità del nostro romanzo. Si tratta di un prospettivismo romanzesco, è il tipo di prospettivismo che Bachtin ci ha insegnato a leggere nella costruzione, attraverso il personaggio, di un universo in cui voci diverse si accordano. Per Bachtin, nell’architettonica del romanzo, l’eroe costituisce un centro di valore, un punto di vista che elabora il senso delle vicende narrate 534 Ivi, p. 316. R. Howard BLOCH, «Tristan, the Myth of the State and the Language of the Self», Yale French Studies, 51, 1974, pp. 61-81, p. 81. 536 VARVARO, Il Roman de Tristan di Béroul, p. 58. 535 170 attraversandole con le sue particolari intonazioni537, le quali s’incrociano con quelle altrui. Non si tratta di un relativismo che annulla la verità, ma di una verità che si connota come processo, come costruzione, come incontro di voci intonate ciascuna dal suo particolare microcosmo. 2. Un tempo duplice: la storia perduta Soffermiamoci ora sul rapporto tra questa verità ambigua, performativa, e il messaggio di giustificazione dei due amanti adulteri che il testo veicola. Ottenuta l’autorizzazione di Marco ad accedere alla camera nuziale («Allent et viengent a lor buens»)538, i due amanti possono tranquillamente godere della reciproca frequentazione, ma l’urgenza del loro amore («Car Amors ne se puet celer»539) li rende troppo indiscreti, aizzando l’antagonismo dei tre baroni felloni: Qar, en un gardin, soz une ente, Virent l’autrier Yseut la gente Ovoc Tristan en tel endroit Que nus hon consentir ne doit; Et plusors foiz les ont veüz El lit roi Marc gesir toz nus540. L’opposizione dei baroni sembra legittimata dalla nitidezza della verità, il loro punto di vista è vincolato all’unilateralità del fatto541: «Qar bien savon de verité»542. Marco oscilla tra la 537 «[L’intonazione] è il segno della posizione emotiva di chi parla, esperisce, valuta» (Stefania SINI, Michail Bachtin. Una critica del pensiero dialogico, Roma, Carocci, 2011, p. 106). Si legge in Bachtin: «la verità dell’evento non è un vero identicamente uguale, per contenuto, a se stesso: è invece la giusta posizione di ogni partecipe, la verità del suo reale dover essere concreto» (Michail BACHTIN, Per una filosofia dell’azione responsabile, Lecce, Manni, 1998, p. 57). 538 V. 465 (Vadano e vengano a loro piacimento). 539 V. 576 (Perché Amore non può nascondersi). 540 Vv. 589-594 (In effetti, avevano visto un giorno, in un giardino, sotto un albero fruttato, la nobile Isotta con Tristano in un atteggiamento intollerabile; e diverse volte li avevano visti giacere nudi nel letto di Marco). 541 Per Ollier i baroni sono gli unici a cercare la verità, che, come abbiamo visto, la studiosa considera multipla e inafferrabile (OLLIER, «Le statut de la vérité et du mensonge dans le Tristan de Béroul», p. 315). Baumgartner rileva che, pur nella loro connotazione negativa, i baroni «sont finalement les seuls à rappeler les exigences de la loi, l’obligation où se trouve le roi, l’époux, de demeurer le garant de la morale publique et de la morale privée» (Emmanuèle BAUMGARTNER, «A la cour, il y avait trois barons», in BRUSEGAN, Le roman de Tristan. Le maschere di Béroul, pp. 269-283, p. 278). Ammetto di non condividere pienamente queste affermazioni. Stando all’intima logica del racconto, i baroni non cercano una verità, ma la danno per presupposta, e il loro antagonismo è primordiale, risale all’invidia per il valore di Tristano, a prescindere dall’eventuale colpa morale dell’adulterio (come del resto riconosce la stessa Baumgartner qualche pagina prima, ivi, p. 269). Il loro ruolo, cioè, non mi pare quello di difensori di un qualunque ordine sociale, politico o morale. Mi pare invece più plausibile l’intuizione di Machta, che, analizzando le motivazioni che spingono 171 verità dei baroni e quella degli amanti («ne set qu’il die, sovent erre»543), ma si lascia convincere a interpellare il nano Frocin, noto per le sue virtù profetiche544, al fine di indagare sui rapporti tra la moglie e il nipote. La voce del narratore anticipa il disastro imminente, schierandosi contro i delatori: (Dehez ait il), conme boçuz545. Dehé aient tuit cil devin! Qui porpensa tel felonie Con fist cist nain, qui Deus maudie?546 Il re, su suggerimento del nano, incaricherà Tristano di mettersi in viaggio per consegnare una lettera ad Artù, costringendolo quindi ad assentarsi dalla corte per qualche giorno. Il nano è certo che, al pensiero della lontananza, il nipote del re vorrà passare un’ultima notte con Isotta. Tristano dorme nella stessa camera dei sovrani, «Entre son lit e cel au roi avoit bien le lonc d’une lance»547. Frocin cosparge di farina lo spazio tra un letto e l’altro, spazio bianco su cui vuole che si fissi la sua (e dei baroni) verità, la prova dell’unione dei due amanti: «la flor la forme des pas tient»548. Ma Tristano, fingendo di dormire, si accorge della trovata di Frocin e, appena il nano e il re saranno usciti dalla camera, tenterà l’impresa che lo tradirà, un salto da un letto all’altro, che sarà reso sterile dall’apertura di una ferita alla gamba procuratasi il giorno prima: Tristan se fu sus piez levez. Dex! Porqoi fut? Or escoutez! all’azione ingannevole tanto i protagonisti (difendersi da accuse e condanne) quanto i loro nemici (cogliere in flagrante i due amanti), annota come le motivazioni di questi ultimi, a differenza di quelle di Tristano e Isotta, mostrino una certa «opacité»: «Cette différence au niveau des motivations donne lieu à une valorisation de la logique amoureuse au détriment de la logique du pouvoir» (MATCHA, Poétique de la ruse dans les récit tristaniens français du XIIe siècle, p. 361). 542 V. 615 (Perché conosciamo la verità). 543 V. 612 (Non sa che cosa dire, fa avanti e indietro). Sul personaggio di Marco, sulla sua volubilità, sull’ambiguo rapporto che lo lega ai due amanti, si vedano Colette-Anne VON COOLPUT, «Le roi Marc dans le Tristan de Béroul», Le Moyen Age, 84, 1978, pp. 34-51; Peter S. NOBLE, «Le roi Marc et les amants dans le Tristan de Béroul», Romania, 102, 1981, pp. 221-226. Si veda inoltre PONTI, «I Tristani di Thomas e Béroul: prospettivismo monologico e prospettivismo dialogico», in particolare alla p. 202, dove si discute della non appartenenza di Marco a nessuno dei due schieramenti rivali. 544 Sulla figura del nano si vedano, tra gli altri, Charles RIDOUX, «Trois exemples d’une approche symbolique. Le tombeau de Camille, le nain Frocin, le lion», in Et c’est la fin pour quoy sommes ensemble. Hommage à Jean Dufournet, Paris, Ėditions Champion, 1993, tome III, pp. 121 -1221; Philippe WALTER, «Orion et Tristan ou la semantique des étoiles», in Le soleil, la lune e les étoiles au moyen âge, Aix-en-Provence, Publications du CUER MA, Université de Provence, 1983, pp. 438-49. 545 V. 640 (Che sia maledetto, quel gobbo). 546 Vv. 646-468 (Siano maledetti tutti questi indovini! Chi avrebbe pensato una tale perfidia, come fece quel nano, che Dio lo maledica). 547 Vv. 694-695 (Tra il suo letto e quello del re c’era la distanza di una lancia). 548 V. 6 (La farina conserva l’impronta). 172 Les piez a joinz, esme, si saut, El lit le roi chaï de haut. Sa plaie escrive, forment saine; Le sanc qui’en ist les dras ensaigne. La plaie saigne, ne la sent, Qar trop a son delit entent. En plusors leus li sanc aüne. Li nains defors est. A la lune Bien vit josté erent ensemble Li dui amant. De joie en trenble, Et dist au roi: «Se nes puez prendre Ensemble, va, si me fai pendre»549. Il narratore, nella sua assoluta parzialità, non esita ad accusare Isotta di scarsa prontezza: Ha! Dex, que deul que la roïne N’avot les dras du lit ostez! Ne fust la nuit nus d’eus provez550. La constatazione del narratore (sarebbe bastato che Isotta avesse tolto le lenzuola) illustra bene la labilità dei segni, che, pur nella loro apparente disposizione a rappresentare un referente, potrebbero scivolare facilmente nel contrario di ciò che sembrano rappresentare. Si tratta sempre di una sospensione tra due asserti, e la via dell’equilibrio sembra negata. Del resto, il nano non ha ottenuto veramente quello che voleva, la prova del passo fissato sulla farina – che la forme des pas tient –, segno che avrebbe scritto definitivamente la sua versione della storia. La prova ottenuta è, invece, densa di ambiguità – una prova liquida –: da un lato Isotta tra le lenzuola insanguinate, dall’altro Tristano con una ferita che sanguina. Si tratta di inferire la verità, attraverso un’interpretazione dei segni, non di averla sotto gli occhi. Il dato resta inquinato dall’ombrosità delle apparenze. I due saranno condannati al rogo, ma l’evidenza della colpevolezza (evidenza che, benché non totale, è comunque riconosciuta da tutti) non basta a tenere a freno un discorso, quello di Tristano, ispirato a una tracotanza pronta a eliminare chi accusi i due amanti: « ar il n’a home en ta meson, 549 Vv. 727-740 (Tristano si alzò in piedi. Dio! Perché lo fece? Ora ascoltate. A piedi giunti, prende la distanza, salta, cade sul letto del re dall’alto. La ferita si apre, sanguina molto; il sangue che ne esce macchia le lenzuola. La ferita sanguina, non la sente, perché è tutto intento al suo piacere. La macchia di sangue si estende. Il nano è fuori. Al chiarore della luna, vede i due amanti abbracciati. Trema di gioia, e dice al re: «Se non riuscite a sorprenderli insieme, allora fatemi impiccare»). 550 Vv. 750-752 (Ah, Dio, che peccato che la regina non avesse tolto le lenzuola dal letto. Non si sarebbe provato nulla, quella notte). La partigianeria del narratore arriva ad accusare anche Tristano, che, nel suo procrastinare l’uccisione dei tre felloni, sembra peccare di troppa prudenza: « ar, s’il seüst ce que en fut / Et ce qui avenir lor dut, / Il les eüst tüez toz trois, / Ja ne les en gardast li rois. / Ha! Dex, porqoi ne les ocist? (vv. 821-825: Poiché, se avesse saputo quello che sarebbe successo, quello che doveva capitare, li avrebbe uccisi tutti e tre, se non avessero avuto la protezione del re). 173 Se disoit ceste traïson Que pris eüse drüerie O la roïne par folie, Ne m’en trovast en chanp, armé»551. Una tracotanza che tende ad annullare il dato; il suo essere «héros démesuré, capable d’exploites insensés»552 pone Tristano su di un piano che trascende l’idea di verità – ispirata alla dicotomia colpa vs innocenza – in cui la corte di Marco vuole limitarlo. Tanta sicurezza potrebbe essere conferita ai due amanti dalla loro bone foi, elemento su cui tanto la critica ha insistito553. Come gli amanti, in fuga nella foresta dopo essere scampati alla condanna al rogo, cercano di spiegare all’eremita Ogrin554, la loro irrefrenabile passione non è inscrivibile nel segno della responsabilità, ma è dovuta all’incidente del filtro: Tristan li dit: «Sire, par foi, ue ele m’aime en bone foi, Vos n’entendez pas la raison: ’el m’aime, c’est par la poison. Ge ne me pus de lié partir, N’ele de moi, n’en quier mentir555. 551 Vv. 799- 3 (Perché non c’è nessuno del tuo seguito che, se mi accusasse ingiustamente di avere una relazione con la regina, non mi troverebbe armato, pronto alla battaglia). 552 Michelle SZKILNIK, «Avant-propos», in Des Tristan en vers au Tristan en prose, pp. 7-15, p. 9. 553 Si tratta dell’interpretazione del testo di Bèroul in chiave abelardiana. Facendo dire ai due amanti che la responsabilità incombe sul filtro, l’autore immunizzerebbe Tristano e Isotta dal peccato dell’adulterio, peccato non intenzionale. Si vedano: Jean-Charles PAYEN, «Ordre moral et subversion politique dans le Tristan de Béroul», in Mélanges de littérature du Moyen Age et du XXe siècle offerts à Mademoiselle Jeanne Lods, Paris, Collection de l’Ecole Normale Supérieure de Jeunes Filles, 1978, vol. I, pp. 473-484; Tony HUNT, «Abelardian Ethic and Béroul’s Tristan», Romania, 98, 1977, pp. 501-540; Philip E. BENNETT, «Jugement de Dieu, parole d’auteur. Béroul et le débat sur l’intentionnalité au XIIe siècle, in Tristan et Iseut. Un thème éternel dans la culture mondiale, pp. 13-25. Per Bennett non è possibile ammettere perentoriamente che Béroul abbia assunto una posizione abelardiana. Più decise, e a mio vedere più condivisibili, le conclusioni di Sargent-Baur: «Une leçon de morale chrétienne n’est pas un trait saillant de ce récit» (Barbara N. SARGENT-BAUR, «La dimension morale dans le Roman de Tristan de Béroul, Cahiers de Civilisation Médiévale, 31, 1988, pp. 49-56, p. 54). Si noterà come solo Ogrin (e, presumibilmente, Dio) sia a conoscenza dell’incidente del filtro. Accentuare quest’aspetto significa trascurare un altro importante elemento del romanzo, ossia l’appoggio della vox populi ai due protagonisti, su cui ci soffermeremo nelle prossime pagine. Inoltre, nella versione di Béroul il filtro ha una durata limitata nel tempo, scaduto il quale i due non mostreranno alcun pentimento di tipo morale, ma rimpiangeranno invece la posizione di privilegio sociale a cui hanno dovuto rinunciare, e continueranno comunque ad amarsi. Flori parla a questo proposito di «amour conscient» (Cfr. Jean FLORI, «Amour et chevalerie dans le Tristan de Béroul», in Tristan-Tristrant, pp. 169-176, p. 174, n. 16). Si legga quanto scrive lo studioso: «La diversité de ces interprétations tient pour une large part à une trop totale acceptation de l’idée selon laquelle l’influence profonde de l’Eglise et de sa morale aurait interdit une telle valorisation de l’amour adultère, si présent pourtant dans tant d’œuvres médiévales, particulièrement au XII ème siècle. C’est à la fois surestimer cette influence sur les milieux aristocratiques et sous-estimer le rôle de la littérature comme mode de transgression par le moyen de rêve (ivi, pp. 173-174, corsivo mio). 554 Sulla figura dell’eremita di veda Danielle BUSCHINGER, «Le rôle de l’ermite chez Bèroul, Eilhart et les derivés du Tristrant allemand», in Exclus et systèmes d’exclusion dans la littérature et la civilisation médiévale, Aix-en-Provence, CUER MA, Senefiance, 5, 1978, pp. 269-280. 555 Vv. 1381-1386 (Tristano gli risponde: Signore, credetemi, ella mi ama in buona fede, e voi non potete saperne la ragione. Io non posso separarmi da lei, né lei da me, non sto mentendo). 174 Iseut au pié l’ermite plore, Mainte color mue en poi d’ore, Mot li crie merci sovent: «Sire, por Deu omnipotent, Il ne m’aime pas, ne je lui, Fors par un herbé dont je bui Et il en but: ce fu pechiez. Por ce nos a li rois chaciez»556. L’evento della colpa è, ancora una volta, filtrato, problematizzato, fino a una sua polverizzazione. Dio, che più che il dio cristiano sembrerebbe una divinità che sorride ai suoi eroi557, è dalla parte dei due amanti: Mot grant miracle Deus i out, Qui garanti, si con li plot558. Oez, seignors, de Damledé, Conment il est plains de pité; Ne vieat pas mort de pecheor. Receü out le cri, le plor Que faisoient la povre gent Por ceus qui eirent a torment559. Il peccato degli amanti è ammesso dal narratore, ma subito trasceso dalla mediazione di un dio che ascolta la voce del popolo: 556 Vv. 1409-1416 (Isotta piange ai piedi dell’eremita, cambia più volte colore in poco tempo, ne implora ripetutamente pietà: «Signore, per Dio onnipotente, egli non mi ama, e io non amo lui, se non per un elisir d’erbe che entrambi bevemmo: questo fu lo sbaglio. Ed è per questo che il re ci ha scacciato»). 557 Dussol (Etienne DUSSOL, «À propos du Tristan de Béroul. Du mensonge des hommes au silence de Dieu», in Et c’est la fin pour quoy sommes ensemble, t. II, pp. 525-533) si è interrogato sull’enigma per cui «Dieu est totalement silencieux» (ivi, p. 526), silenzio che è difficile non considerare come un’approvazione. Secondo lo studioso quest’aspetto sarebbe sorprendente per una società medievale che assegna al verbo uno statuto demiurgico analogo a quello divino. Dussol interpreta il silenzio di Dio come il giusto contrappeso alla parola menzognera degli umani, rispetto a cui Dio esprimerebbe una radicale alterità, denunciando come il discorso degli uomini sia «un discours en quelque sorte incomplet, trompeur, mensonger». (ivi, p. 531). Secondo Bennett, che riprende le tesi di Frappier, Dio non lascia intravedere la sua vera sentenza, è insondabile nel suo giudizio (Philip E. BENNETT, «Jugement de Dieu, parole d’auteur. Béroul et le débat sur l’intentionnalité au XIIe siècle). Più convincente mi pare la posizione di Paradisi: «Si tratta forse di pensare a una concezione del sacro altra, in origine, che può essere stata più evidente negli strati più antichi della leggenda» (PARADISI, «L’amore di Tristano e Isotta secondo Béroul (e un’ipotesi sul filtro)», p. 12). Più in generale, come cercherò di argomentare nelle pagine che seguono, qualunque compromissione morale, sia religiosa che sociale, mi pare esclusa dall’universo del romanzo. Si legga Noble: «The attitude of Beroul towards religion is hard to asses. The action unfolds in a Christian setting, and the characters are clearly aware of the presence and importance of God, to whom they refer frequently. Many of these references, however, seem to be little more than conventional formulae, exclamations or assertions to add strength to the statement or to express the character’s dismay (Peter S. NOBLE, Beroul’s Tristan and the Folie de Berne, London, Grant and Cutler Ltd, 1982, p. 56). Sul ruolo della religione e della figura di Dio insiste l’interpretazione teologica di Ribard (Jacques RIBARD, «Pour une interprétation théologique du Tristan de Béroul», Cahiers de civilisation médiévale, 28, 1988, pp. 235-242). 558 Vv. 755-756 (Un grande miracolo fece dio, che li salvò, come a lui piacque). 559 Vv. 909-914 (Udite, signori, come Dio è pieno di pietà. Non vuole la morte del peccatore. Ha accolto il grido, il pianto della povera gente per coloro che andavano incontro al supplizio). 175 Pleurent li grant et li petit, Sovent l’un d’eus a l’autre dit : «A! las, tant avon a plorer! Ahi! Tristan, tant par es ber! uel damage qu’en traïson Vos ont fait prendre cil gloton! Ha! Roïne franche, honoree, En quel terre sera mais nee Fille de roi qui ton cors valle?560 Il sostegno del popolo, «personaggio-coro»561, non è gratuito: Ahi! Tristan, si grant dolors Sera de vos, beaus chiers amis, Qant si seroiz a destroit mis! Ha! Las, quel duel de vostre mort! Qant le Morhout prist ja ci port, Qui ça venoit por nos enfanz, Nos barons fist si tost taisanz Que onques n’ot un si hardi ui s’en osast armer vers lui. Vos enpreïstes la batalle Por nos trestoz de Cornoualle Et oceïtes le Morhout. Il vos navra d’un javelot, Sire, dont tu deüs morir. Ja ne devrïon consentir Que vostre cors fust ci destruit»562. Tristano e Isotta sono collocati dal popolo sotto il segno di un’autorità che travalica la loro colpa, quella stessa autorità che i due protagonisti reclamavano per sé nell’episodio del colloquio spiato: Tristano ha ucciso il Moroldo, e sarebbe morto se non fosse stato per le cure prestategli da Isotta. Il popolo, riconoscente a Tristano per averlo liberato da una tirannia, rivendica per i due amanti il ruolo di garante del tessuto sociale. Come abbiamo visto nelle Folies, o nel racconto del gigante delle barbe in Thomas, l’analessi pone Tristano (e, con lui, Isotta) su un piano mitico, che lo immortala nella sua levatura eroica. Emmanuèle Baumgartner ha rilevato come il romanzo di Béroul, nella sua utilizzazione 560 Vv 831-839 (Piangono i grandi e la gente del popolo, e continuano a ripetersi l’un l’altro: «Ah, tanto ci tocca piangere! Ahi! Tristano, sei così coraggioso. Che peccato che quei malfattori vi abbiano fatto prendere a tradimento. Ah! Nobile regina onorata, in quale terra potrà mai nascere una figlia di re del tuo valore?). 561 VARVARO, Il Roman de Tristan di Béroul, p. 94. 562 Vv. 844-859 (Ahi, Tristano, che enorme dolore proveremo per voi, caro amico, quando sarete suppliziato! Ah, che dolore la vostra morte! Quando il Moroldo è sbarcato qui per prendersi i nostri figli, fece ammutolire i baroni, tanto che non ce ne fu uno così temerario da osare prendere le armi contro di lui. Voi avete affrontato il combattimento per tutti noi della Cornovaglia, e avete ucciso il Moroldo. Egli vi ferì con un giavellotto, signore, e ne sareste dovuto morire. Non dovremmo permettere, ora, che siate messo a morte). 176 dell’analessi, proponga due tipi di passato. Uno, per così dire, interno, che rinvia a una dinamica di richiami che si offrono al lettore-spettatore, un passato che ripresenta spezzoni della storia già contemplati nello stesso romanzo; l’altro, esterno, richiama una sorta di passato remoto che influenza la costruzione di senso: Il y a ainsi, chez Béroul, toute une série de moments où l’on assiste en direct à la création d’un passé qui n’est pas vraiment restitué à loisir ni rigoureusement inséré dans la chaîne des causes et des conséquences, mais qui surgit lorsqu’il en est besoin, d’un coup de baguette magique563. In questa distinzione tra un’analessi interna e una esterna, va ovviamente precisato che non possiamo essere certi che gli eventi che sembrano affondare in questo passato primitivo, come il combattimento con il Moroldo o la battaglia con il dragone, non fossero presenti nella versione originale del romanzo di Béroul564. Ma, stando al frammento a nostra disposizione, essi assumono un’aura mitica dotata di un’estrema autorevolezza. Il riferimento al combattimento contro il Moroldo sarà ripreso ancora una volta anche da Marco nell’episodio della foresta del Morois, quando, sorpresi gli amanti a dormire insieme vestiti e con una spada che separa i loro corpi, sostituirà la propria spada con quella di Tristano: Et, quant vendra au departir, Prendrai l’espee d’entre eus deus Dont le Morhot fu del chief blos»565. uando, finito l’effetto del filtro, i due si pentiranno e accetteranno, per il tramite dell’eremita Ogrin, di inviare una lettera a Marco con una richiesta di perdono, si porrà come premessa alla richiesta l’altra grande impresa di Tristano, l’uccisione del dragone che affliggeva l’Irlanda e, eliminando il quale, l’eroe ottenne la mano d’Isotta566: Rois, tu sez bien le mariage De la fille le roi d’Irlande. Par mer en fui jusqu’en Horlande, Par ma proece la conquis, Le grant serpent cresté ocis, 563 BAUMGARTNER, «A la cour, il y avait trois barons», p. 272. Si veda anche MADDOX, «L’auto-réécriture béroulienne et ses fonctions». 564 «In effetti tutte le attualizzazioni della storia che noi conosciamo, siano esse lunghe o brevi, presuppongono – più che un testo archetipo – una linea biografica che va almeno dal duello con il Morholt alla morte degli amanti, la quale si sostanzia volta a volta attingendo ad una costellazione mobile, e soprattutto aperta, di episodi» (VARVARO, «Il Tristan di Béroul, quarant’anni dopo», p. 325). 565 Vv. 2036-2038 (E, al momento di andar via, prenderò la spada tra loro due, quella con cui fu tagliata la testa al Moroldo). 566 Cfr. Brian PITTS, «Writing and Remembering in Beroul’s Roman de Tristan: the Role of Ogrin in the Second Hermit Episode, Tristania, 13, 1987-1988, pp. 1-18. 177 Par qoi ele me fu donee567. In questo modo, si denuncia un’alterazione rispetto alla legittima trama del mito: Isotta sarebbe dovuta andare in sposa a Tristano, non a Marco568 (cfr supra III.4). L’anomalia sarebbe così capovolta, essendo imputabile all’indebita appropriazione del re, piuttosto che all’amore extraconiugale. Il doppio piano del racconto assolutizza una storia presupposta, la pone nella sfera di un’autorità trascendente che pilota il senso della storia attuale, l’attira in un universo superiore agli intrighi della corte di Cornovaglia. Dall’ottica della storia della coppia mitica, l’ostilità dei baroni non è imputabile all’adulterio, ma a un atavico odio nei confronti di Tristano per il suo valore. Come si ricordava nella scena del colloquio spiato, i baroni felloni, nessuno dei quali fu in grado di alzare la spada contro il Moroldo, non vorrebbero che a fianco di Marco «Eüst home de son linage»569. Il pechié570 di Tristano e Isotta è, dunque, sminuito da una loro continua identificazione rispetto a un modello superiore che percorre il testo. Nel romanzo di Béroul, la visione a favore degli amanti si formalizza in una particolare configurazione della scrittura, in un rinvio a una storia altra che sembra appartenere a un passato da cui il personaggio trae il proprio archetipo, in un gioco di prospettive per cui il testo rinvia a un altro testo e i due eroi sono contemporaneamente inscritti in un qui e in un altrove. Il romanzo si costruisce attorno allo scarto tra il modello (in absentia) cui gli eroi fanno riferimento e la loro sfortunata collocazione nella corte di Marco (in praesentia). Il concetto di verità decostruita non basta a spiegare il particolare statuto dei due eroi di Béroul e il giudizio complessivo che si dà sulla loro condotta. Non è la scissione tra dato e apparenza a costituire la scissione primaria del romanzo. Se è indiscutibile la convivenza di due verità – i due sono colpevoli, i due non sono colpevoli – s’impone una verità ulteriore che potremmo dire dialettica, in quanto congloba e trascende le altre due: in questa dialettica il romanzo di Tristano cita il mito di Tristano571, in 567 Vv. 2556-2561 (Re, tu sai come si è realizzato il matrimonio con la figlia del re d’Irlanda. Mi sono recato in Irlanda per mare, l’ho conquistata grazie alla mia prodezza, ho ucciso il gran drago crestato, per cui ella mi fu concessa). 568 «A nouveau, le message est clair: celui qui a accompli l’exploit qualifiant mérite en récompense la fille du roi; Yseut lui revenait donc de droit» (LEGROS, « uand Tristan réécrit son histoire…», p. 36). Si veda anche Mariantonia LIBORIO, «Come dire l’indicibile: il Tristano di Bèroul», in BRUSEGAN, Le roman de Tristan. Le maschere di Béroul, pp. 257-268, p. 260. 569 V. 125 (ci fosse uomo del suo lignaggio). 570 È stato mostrato come il termine non sia connotato nel romanzo di Béroul come il peccato cristiano, ma come cattiva sorte, sfortuna o errore. Si vedano: Janet H. CAULKINS, «The Meaning of pechié in the Roman of Tristan by Béroul», Romance Notes, 13, 1972, pp. 545-549; Marie-Louise OLLIER, «Il peccato secondo Isotta nel Tristan di Bèroul», Paragone, 39, 1988, pp. 3-23. 571 Non semplicemente lo cita, ma, citandolo, lo crea. Condivido, infatti, la riflessione di Poirion, secondo cui, più che riproporre e riscrivere un mito, gli autori del XII secolo hanno creato un «effet de mythe»: 178 una costellazione di riflessi che, ancora una volta, ci fa guardare al testo di Béroul sotto la luce delle Folies. Ho già citato nel primo capitolo (cfr. supra I.9) un appunto di Batany su un particolare aspetto linguistico (che diventa un aspetto costituente dei personaggi) nel frammento di Béroul. Attraverso una sottile analisi linguistica delle modalità secondo cui il testo, nelle subordinazioni comparative o nelle interrogazioni indirette, realizza la comparazione tra due elementi, lo studioso mostra come questa comparazione si sostanzi in un obbligo alla conformità. I personaggi (ma anche gli oggetti, chiarisce Batany) sono rapportati a delle «images modèles», dei «modèles présupposés»572 a cui l’attante si conforma e che l’uditore riconduce facilmente a una sua classificazione normativa. Mi pare, sulla base dei numerosi riferimenti analettici alla carriera dell’eroe, che questo scambio confusivo tra soggetto e modello costituisca un dispositivo che agisce in maniera significativa nella costituzione del personaggio bérouliano, il quale si vede trasceso da un’immagine mitica che ne approfondisce le potenzialità semiotiche. Il romanzo di Béroul incorpora il mito non nel più consueto senso di riscrivere, di rifunzionalizzare il mito, ma collocandolo al suo centro, creando un dialogo con esso. Il popolo, riflesso del pubblico o del lettore, si raccoglie intorno alla storia di Tristano e Isotta, e in quella storia riconosce una garanzia per la coesione del tessuto sociale. Il riferimento a un’autorità trascendente, di cui la maschera vuota di Dio è un segno, carica il personaggio di una hybris che lo pone al di sopra di ogni ideologia moralmente o socialmente connotata. La contrapposizione tra le due verità, quella dell’adulterio o quella dell’innocenza, è isterilita e oltrepassata dall’unica verità inoppugnabile, che tutti accettano, narratore, Dio, popolo, re e felloni: Tristano ha ucciso il Moroldo, ha ucciso il dragone d’Irlanda, e Isotta lo ha puntualmente salvato da una ferita mortale. Collocando il mito al suo centro, ponendo una cesura tra una storia presente e un passato ancestrale, facendo del personaggio il latore di una sua storia altra rispetto a quella in cui è attualmente immerso, il testo di Béroul invita a considerare la riflessività come atto primario della forma romanzesca sin dai suoi esordi, e propone la rappresentazione di un soggetto per il quale la consapevolezza di sé è una consapevolezza narrativa: «Convergence créatrice d’un mythe, et non divergence destructrice d’un mythe celte, tel apparait le sens de la création littéraire au XIIe siècle, autour de Tristan» (Daniel POIRION, «Tristan: du mythe antique au symbole médiéval», in Id., Résurgences, mythe et littérature à l’âge du symbole, XIIe siècle, Paris, PUF, 1986, pp.79-97, p. 81). 572 BATANY, «Imagination et modèles. Comparaison et conformité dans le Tristan de Béroul», p. 10. 179 Svolta sul piano del tempo, la categoria principale della nostra consapevolezza, la parola diviene necessariamente narrazione, e racconto: termini che definiscono il più originario e fondamentale modo di relazione con noi stessi, con gli altri e col mondo. Altrimenti detto, io credo che noi, da sempre, abbiamo una consapevolezza essenzialmente narrativa del nostro io e del mondo che ci circonda573. Il testo di Béroul ci invita a riflettere sul senso di una forma, sulla scissione della sua scrittura574. Oltre il gioco opaco delle verità, oltre la giustificazione dell’incidente del filtro, il testo ci lascia assistere allo scontro di due storie, e tutto l’intreccio, tutto il vortice di azioni che tanto i protagonisti quanto i loro nemici orchestrano con estrema abilità, non sono che mezzi con cui i due schieramenti tentano di fissare questi due racconti: quello di una colpa morale, e quello di un pensiero dell’eccesso, dell’oltrepassamento del limite, dell’ἐνέργεια che è oltre la legge. Non sappiamo come si concludesse il Tristan di Béroul, ma, stando a quanto abbiamo, la lotta tra le due storie sembra senza via d’uscita, i due punti di vista inconciliabili. E anche laddove il testo lasciava intravedere una qualche possibilità di assestamento, il tutto si risolve in un’ennesima fuga, quasi a mostrare l’inesauribilità del racconto di un non incontro. Mi riferisco alla celebre scena della spada tra i corpi. Un guardiacaccia avverte Marco di aver trovato Tristano e Isotta che dormono insieme in una capanna nella foresta. Marco decide di recarvisi da solo, «l’espee nue an la loge entre»575: ant vit qu’ele avoit sa chemise Et q’entre eus deus avoit devise, La bouche o l’autre n’ert jostee. Et qant il vit la nue espee Qui entre eus deus les desevrot, Vit les braies que Tristan out: «Dex! Dist li rois, ce que peut estre? Or ai veü tant de lor estre, Dex! je ne sai que doie faire, Ou de l’ocire ou du retraire576. Marco deciderà di non uccidere moglie e nipote, ma lascerà loro una demostrance, la prova di 573 Carlo DONÀ, «Dal mito alla letteratura e ritorno: dalla parte del mito», Medioevo romanzo, 34, 2010, pp. 33-56, p. 40. 574 È evidente che questa mia lettura deve molto, nonostante le differenze dei due percorsi, all’interpretazione che dei testi tristaniani ha dato Huchet, per il quale il testo medievale, che sembrerebbe così alieno alla scrittura, «par un paradoxe, dont il faudra se souvenir, a toujours déjà été écrit, une première fois, ailleurs, autrement; et ce qui se donne à lire consacre l’exil de cette origine restituable comme absence, par sa doublure inversée» (HUCHET, Tristan et le sang de l’écriture, p. 63). 575 V. 1987 (Entra nella capanna con la spada sguainata). 576 Vv. 1996-2 4 ( uando vide che ella aveva la sua camicia, e che tra i due c’era una distanza, le bocche non erano unite, e quando vide la spada nuda che li separava, vide che Tristano aveva i calzoni, «Dio», disse il re, «che significa ciò? Ora ho visto di loro tanto da non sapere più che cosa fare, se ucciderli o ritirarmi). 180 essere stati oggetto della pietà del re: Je lor ferai tel demostrance ue ainçois que il s’esvellont, Certainement savoir porront u’il furent endormi trové Et q’en a eü d’eus pité, Que je nes vuel noient ocire, Ne moi ne gent de mon enpire577. Marco vuole, dunque, piegare Tristano e Isotta alla sua logica colpa-non colpa. Quel suo atto di pietà, che si pone apparentemente oltre la morale, in realtà la presuppone, in quanto insiste sull’atto del perdono. Il re, che si ritrova davanti a quella che è stata definita come una semiotica folle578, manipolerà i segni della scena disponendoli secondo la sua prospettiva, una prospettiva che vuole scrivere una storia del perdono: Li rois a deslié les ganz, Vit ensenble les deuz dormanz, Le rai qui sor Yseut decent Covre des ganz mot bonement. L’anel du doi defors parut: Souef le traist, qu’il ne se mut. Primes i entra il enviz; Or avoit tant les doiz gresliz u’il s’en issi sanz force fere; Mot l’en sot bien li rois fors traire. L’espee qui entre eus deus est Souef oste, la soue i met579. Ma Tristano e Isotta non si lasceranno fissare in questa scrittura. A dispetto della sicurezza di Marco, secondo cui i due, al risveglio, sarebbero stati certi di essere stati perdonati, gli amanti non penetreranno la sua logica, il senso della predisposizione dei segni, che è costantemente 577 Vv. 2020-2026 (Proverò loro che, una volta svegli, potranno sapere con certezza che sono stati trovati addormentati e che ne ho avuto pietà, che non ho voluto ucciderli, ne io né quelli del mio seguito). 578 Cfr. MAURICE, «L’épisode du rendez-vous épié, modèle matriciel du Tristan de Bèroul», p. 96. 579 Vv. 2039-2050 (Il re ha slegato i guanti. Guardò i due che dormivano insieme. Copre col guanto, dolcemente, il raggio che scende su Isotta. L’anello sembra cadere dal dito: lo sfila piano, che non si muova. Un tempo ci era entrato a fatica, ora aveva le dita così smagrite che l’anello scivolò via senza sforzo. Il re lo seppe sfilare con facilità. Toglie piano la spada tra i due, e vi pone la sua). Si è insistito sul valore simbolico e giuridico del gesto di Marco, da ricondurre a un’ideologia feudale. Procedendo a un’investitura per gantum, per anulum, per ensem, Marco ricondurrebbe i due amanti al legame feudale. Cfr. Jean MARX, «Observation sur un épisode de la légende de Tristan», in Recueil de travaux offerts à M. Clovis Brunel par ses amis, collègues et élèves, Paris, Société de l’Ecole des chartes, 1955, t. 2, pp. 265-273. Si veda, inoltre, Pierre LE GENTIL, «L’épisode du Morois et la signification du Tristan de Béroul», in Studia philologica et litteraria in honorem Leo Spitzer, Bern, Francke Verlag, 1958, pp. 267-274. Come ho già appuntato nella n. 494, Varvaro, pur riconoscendo la validità del motivo giuridico, ammette la priorità delle «ragioni sentimentali». Sull’episodio si veda anche Eugène VINAVER, «La forêt de Morois», Cahiers de civilisation médiévale 11, 1968. pp. 1-13, in particolare alla pp. 8-9; Tony HUNT, «Béroul’s Tristran: The Discovery of the Lovers in the Forrest», in Reading Around the Epic. A Festschrift in Honour of Professor Wolfgang van Emden, London, King’s College London, pp. 233-248. 181 filtrato da una soggettività adulterante: La roïne vit en son doi L’anel que li avoit doné, Le suen revit du dei osté. Ele cria: «Sire, merci! Li rois nos a trovez ici.» Il li respont: «Dame, c’est voirs. Or nos covient gerpir Morrois, Qar mot li par somes mesfait. M’espee a, la soue me lait: Bien nos peüst avoir ocis580. Tristano e Isotta non sono addomesticabili, non sono inscrivibili in un circuito di colpa e perdono, e, proprio laddove il destino sembrava essere dalla loro parte, la carica eversiva, l’eccesso che li connota li condurrà per tutt’altra via. Il nostro romanzo non si accontenta di mostrare l’incompenetrabilità dei due mondi, la trascendenza di chi è oltre la norma e che mai si subordinerà all’immanenza di una storia d’adulterio. Il lettore è condotto a intravedere un impossibile compromesso, che il testo affida, ancora una volta, a una storia nella storia, al sogno d’Isotta: Mais or oiez des andormiz, Que li rois out el bois gerpiz. Avis estoit a la roïne u’ele ert en une grant gaudine, Dedenz un riche pavellon: A li venoient dui lion, Qui la voloient devorer; El lor voloit merci crïer, Mais li lion, destroiz de fain, Chascun la prenoit par la main. De l’esfroi que Iseut en a Geta un cri, si s’esvella581. Nel sogno582, Isotta coglie molto più di quanto non coglierà da sveglia. Lo sdoppiamento della scrittura mostra la via dell’impossibile, Isotta presa per mano dai due uomini, in un’armonica 580 Vv. 2084-2093 (La regina si vide al dito l’anello che questi le aveva regalato, e il suo tolto via. Grida: «Signore, pietà! Il re ci ha trovato qui». E Tristano risponde: «Signora, è vero. Ora dobbiamo abbandonare il Morrois, poiché abbiamo gravi colpe ai suoi occhi. Ha la mia spada, mi ha lasciato la sua: avrebbe potuto ucciderci»). 581 Vv. 2063-2074 (Ma ora ascoltate dei due addormentati, che il re aveva lasciato nel bosco. La regina sognò di trovarsi in una grande foresta, dentro una tenda lussuosa. Le si avvicinavano due leoni, che volevano divorarla. Avrebbe voluto gridare pietà, ma i leoni, affamati, la presero ciascuno per la mano. Per il terrore, Isotta lanciò un urlo, e si svegliò). 582 Interessante la riflessione di Batany, che collega il sogno al gesto di Marco di coprire con un guanto gli occhi d’Isotta, considerando il guanto come un prisma o un cristallo magico che provoca il sogno (BATANY, «Le Tristan de Béroul: une tragédie ludique», p. 34, n. 14). Un altro indizio, insomma, che mostra la coerenza dell’impianto narrativo del romanzo. 182 convivenza. In forza di questo fugace miraggio, il rifiuto dei due protagonisti rispetto a qualunque forma di assoggettamento è accentuato e la storia di Tristano e Isotta si risolve in una storia che non si lascia scrivere, eterna fuga che, come i protagonisti, eccede talmente rispetto a se stessa da restare materia senza forma – o sempre disponibile a una forma nuova. Come Corbellari ha affermato in maniera incisiva, il testo di Béroul si configura così come «un anti-récit qui, de ressassement en répétition, reconduit sans cesse la fiction d’un amour dont la perfection nie l’inscription dans l’histoire»583. 3. Eccesso e abbassamento In questa impossibile inscrizione, Tristano si connota come personaggio della dismisura, non integrabile in un sistema che vorrebbe assoggettarlo alla sua logica. Si è parlato, dunque, di Tristano come di un personaggio marginale: «Tristan est un marginale et un fou qui doit être condamné ou ramené dans le rang des amants parfait»584. Il testo di Bèroul semplificherebbe così «i tratti mitici costitutivi, selezionando e attivando quelli del guerriero […] e del cacciatore abilissimo»585; «la fole amor che egli incarna non appare compatibile con l’ordine feudale e sociale della corte»586. Eppure, questa esclusione richiede qualche chiarimento, va inquadrata nell’impianto generale del racconto, se non si vuole correre il rischio di accentuare dicotomie, quelle tra nobile eroicità e sovversione dell’ordine, cortesia e ruse, alto e basso, tragico e comico, che, a mio vedere, il nostro testo non contempla. Uno degli episodi del frammento di Béroul che più rappresentano la tracotanza, il non limite, il senso dell’eccesso del personaggio di Tristano è quello del salto dalla cappella (vv. 881 ss.). Dopo lo stratagemma della farina escogitato dal nano e la condanna al rogo dei due amanti stabilita dal re, Tristano, convincendo le guardie di aver diritto a una preghiera in una cappella situata lungo la strada che li sta conducendo al luogo deputato all’esecuzione, riuscirà a fuggire da una finestra: Triés l’autel vint a la fenestre, A soi l’en traist a sa main destre, 583 Alain CORBELLARI, «Béroul et les choses», Tristania, 20, 2000, pp. 44-57, p. 49. SZKILNIK, «Avant-propos», p. 10. 585 BERTOLUCCI PIZZORUSSO, «Béroul e il suo Tristan», p. 219. Su Tristano guerriero e cacciatore si rimanda, tra gli altri, a Rosanna BRUSEGAN, «L’“Arc qui ne faut” et le message des armes», in Ce est li fruis selonc la letre. Mélanges offerts à Charles Méla, Paris, Champion, 2002, pp. 211-225. 586 PARADISI, «L’amore di Tristano e Isotta secondo Béroul (e un’ipotesi sul filtro)», p. 16. 584 183 Par l’overture s’en saut hors. Mex veut sallir que ja ses cors Soit ars, voiant tel aünee. Seignors, une grant pierre lee Out u mileu de cel rochier: Tristan i saut mot de legier. Li vens le fiert entre les dras, uil defent qu’il ne chie a tas. Encore claiment Corneualan Cele pierre le Saut Tristan587. Si noterà come il salto dalla cappella riprenda il motivo del salto tra i due letti nell’episodio della farina588, ma, se nel primo caso l’accento era posto sulla ruse, sull’astuzia di Tristano che, nell’intento di infilarsi nel letto della regina, contrasta la ruse del nano589, qui il tutto subisce una qualche forma d’ingentilimento, è trasfigurato in un’impresa dai tratti eroici e pregna di miracoloso: il vento gonfia l’abito di Tristano facendolo atterrare con agevolezza, e la roccia prenderà addirittura il nome dall’eccezionale impresa. uesta nobilitazione del salto si realizza ancor più in una terza tappa. Fuggito dalla cappella, Tristano riuscirà a liberare anche Isotta e i due fuggiranno insieme nella foresta del Morrois (vv. 1141 ss.), in esilio dalla corte di Marco. Il fedele bracco di Tristano, Husdent, è inquieto per l’assenza del padrone («ne vout mengier ne pain ne past»)590, e il re, consigliato dai suoi, deciderà di farlo slegare: Tantost com il fu deslïez, Par mié les renz cort, esvelliez, ue onques n’i demora plus. De la sale s’en ist par l’us, Vint a l’ostel ou il soloit Trover Tristan. Li rois le voit, Et li autre qui après vont. Li chiens escrie, sovent gront, Mot par demeine grant dolor. Encontré a de son seignor: 587 Vv. 943-954 (Raggiunge la finestra, dietro l’altare, la tira a lui con la mano destra, dall’apertura salta fuori. Preferisce saltare piuttosto che essere bruciato, davanti a tale adunata. Signori, c’era una grande pietra levigata nel mezzo della roccia: Tristano vi salta su, con agilità. Il vento gli gonfia i vestiti, e gli impedisce di cadere pesantemente. I Cornovesi chiamano ancora quella pietra il Salto di Tristano). 588 Cfr. SALY, «Images récurrentes dans le Tristan de Béroul». La studiosa, nel rintracciare la coerenza nel sistema d’immagini presente nel testo, si spinge a valorizzare il parallelismo tra salto e sangue: come il primo salto era risaltato dal rosso del sangue, nel secondo Tristano rompe una vetrata color porpora («Nous sommes devant un ensemble indissociable construit sur le motif du saut et l’image de la couleur pourpre, qui perd et qui sauve», ivi, p. 139). Si veda anche Pascale CHIRON - Fabielle POMEL, «Le jeu de la reversibilité dans le Tristan de Béroul», in Tristan et Yseut. Un thème éternel dans la culture mondiale, pp. 83-94, in particolare alle pp. 8889. 589 L’aspetto comico è avvalorato dall’immagine di Tristano che, ritornato nel proprio letto, fa finta di dormire e russa (vv. 760-761). 590 V. 1449 (Non voleva mangiare né pane né pastone). 184 Onques Tristan ne fist un pas ant il fu pris, qu’il dut estre ars, Que li brachez nen aut après; Et dit chascun de venir mes. Husdant an la chanbrë est mis O Tristan fu traït et pris; Si part, fait saut et voiz clarele, Criant s’en vet vers la chapele; Li peuple vait après le chien591. Ogni passo percorso da Tristano condotto al rogo è ripercorso dal cane, fino al formidabile salto: Ainz, puis qu’il fu fors du lïen, Ne fina, si fu au moutier Fondé en haut sur le rochier. Husdent li bauz, qui ne voit lenz, Par l’us en la chapele entre enz, Saut sor l’autel, ne vit son mestre. Fors s’en issi par la fenestre. Aval la roche est avalez, En la janbe s’est esgenez, A terre met le nes, si crie592. Il bracco, continuando a seguire il percorso compiuto da Tristano, raggiungerà il padrone nella foresta. Duplicando l’impresa del protagonista, Husdent si connota come suo doppio593. Del resto, la stretta relazione tra cane e padrone sarà ribadita anche in seguito, al momento della separazione dei due amanti, quando la regina, ormai pronta a tornare a corte, chiederà a Tristano di lasciarle il suo bracco, quasi a prospettare un’intercambiabilità tra i due: Iseut parla o grant sospir: «Tristan, entent un petitet: Husdent me lesse, ton brachet. Ainz berseret a veneor N’ert gardé e a tel honor Con cist sera, beaus douz amis. 591 Vv. 1489-1507 (Non appena fu slegato, corre tra le fila delle gente, attento, senza mai fermarsi in nessun punto. Esce dalla sala per la porta e arrivò alla casa dov’era solito trovare Tristano. Il re lo vede, e quelli che lo seguono. Il re abbaia, uggiola, mostra grande sofferenza. Ha trovato le tracce del suo padrone: quando fu preso, e doveva essere bruciato, Tristano non fece un passo che il bracco non faccia a sua volta; e tutti lo incitano a continuare. Husdent è condotto nella camera dove Tristano fu tradito e fatto prigioniero; allora se ne va di nuovo, salta e guaisce, si dirige abbaiando verso la cappella. Tutti vanno dietro al cane). 592 Vv. 1508-1517 (Dopo che fu slegato, non si fermò fino alla cappella costruita in alto sulla roccia. Il baldo Husdent, a tutta velocità, entra nella cappella attraverso l’uscio, salta sull’altare, non vede il suo padrone, esce per la finestra. Precipita giù dalla roccia, si ferisce a una zampa, tiene il naso a terra, abbaia). 593 Cfr. PARADISI, «La costruzione del racconto nel Tristan di Béroul», pp. 58 ss.; MADDOX, «L’autoréécriture béroulienne et ses fonctions», alle pp. 184-185. Si veda, inoltre, Gerard JACQUIN, «Husdent, le chien de Tristan», in Eric FOULON, a cura di, Mélanges Georges Cesbron, Angers, Presses de l’Université d’Angers, 1997, pp. 99-105. 185 ant gel verrai, ce m’est avis, Menberra moi de vos sovent. Ja n’avrai si le cuer dolent, Se je le voi, ne soie lie594. La specularità di Tristano e Husdent chiama senz’altro in causa l’animalesco che è nel protagonista, il motivo della familiarità dell’eroe con il mondo animale 595. Il testo insiste, infatti, sulla connotazione animalesca della vita dei due nella foresta, dove si cibano di sola carne, mai di pane, e in cui Tristano è temuto come una belva a cui nessuno osa avvicinarsi: De Cornoualle li païs De Morrois erent si eschis u’il n’i osout un sol entrer. Bien lor faisoit a redouter; Qar, se Tristan les peüst prendre, Il les feïst as arbres pendre: Bien devoient donques laisier596. Ma, se questo versante animalesco è sicuramente presente, il testo insiste sull’apporto civilizzatore del protagonista in questo mondo dai tratti primitivi597, apporto che si realizza soprattutto proprio per il tramite di Husdent. Tristano e Isotta si renderanno subito conto del pericolo che il cane costituisce, poiché, abbaiando, potrebbe richiamare l’attenzione dei loro nemici. Tristano pensa di eliminarlo, ma, su indicazione d’Isotta (a dimostrazione, ancora una volta, del ruolo di primo piano della protagonista femminile), si adopererà per addestrarlo a cacciare senza abbaiare. Nel margine viene, quindi, incorporata la civiltà, l’educazione, e Tristano e Isotta realizzano nella foresta, in qualche modo, un controcanto al mondo disordinato e cupo della corte di Cornovaglia598. D’altronde così la voce del narratore introduceva l’episodio di Husdent, ponendo in primo piano l’idea di noreture: Qui veut oïr une aventure, Con grant chose a an noreture, 594 Vv. 2694-2703 (Sospirando profondamente, Isotta disse: «Tristano, ascoltami un pochino: lasciami Husdent, il tuo bracco. Mai un cane da caccia sarà onorato come questo, mio dolce amico. Quando lo vedrò, lo so, mi ricorderò di voi. Se avrò il cuore dolente, vedendolo, mi sentirò felice). 595 Cfr. Eleazar M. MELETINSKIJ, Il mito. Poetica folclore ripresa novecentesca, pp. 185 ss. Sul rapporto tra eroe e animalità si rimanda, inoltre, al già citato BARBIERI, «Yvain cavaliere-sciamano: elementi estatici e riti d’iniziazione nel Chevalier au lion». 596 Vv. 1661-1667 (Quelli di Cornovaglia si tenevano lontani dal Morrois, tanto che nessuno osava entrare. Facevano bene ad avere paura, poiché, se Tristano li avesse presi, li avrebbe fatti impiccare: dovevano, dunque, starne lontani). 597 Sull’importanza della funzione civilizzatrice si veda Monique SANTUCCI, «Cri du roi, cri du chien cri du cœur», in Et c’est la fin pour quoy sommes ensemble, t. III, pp. 1255-1259. 598 Si legga Batany: «entrer dans le désordre animal, c’est y retrouver le fondement de l’ordre, de l’ordre supérieur que peut effleurer l’être humain en tant qu’animal doué de déraison» (BATANY, «Le Tristan de Béroul: une tragédie ludique», p. 33). 186 Si m’escoute un sol petitet!599 Ritorniamo al motivo del salto, che mi pare un esempio indicativo di una scrittura calibrata e attenta alla costruzione dell’insieme. Il salto di Tristano tra i due letti assume la forma della ruse, di un gioco comico indirizzato ad aggirare l’ostacolo creato dal nemico e a realizzare il soddisfacimento sessuale del protagonista. In un secondo momento, lo stesso salto si carica di una grandiosità dai tratti miracolosi, esalta, sì, l’abilità del protagonista, ma questa volta l’abilità viene in un certo qual modo trasfigurata in un ritratto eroico. In una terza fase, il salto è riconfigurato dalla relazione di specularità tra Tristano e il suo cane, relazione in cui si condensa un’immagine densa d’ibridismo tra animale e umano, natura e educazione, forza e intelligenza, alto e basso600. Ecco che il personaggio di Tristano, colto nelle istantanee dei suoi salti, non si lascia chiudere in una definizione univoca. Quello che viene presentato, in uno dei primi episodi del frammento di Béroul, come il gioco comico del sovvertimento, è in seguito oggetto di un approfondimento, che fa oscillare l’immagine di Tristano dal trickster all’eroe civilizzatore, dall’abbassamento dell’impellenza del desiderio di accoppiamento con Isotta alla proiezione di una corte ideale in cui l’ordine dell’intelligenza trionfa sul disordine della natura: l’eroe del mito è «oltre le coppie di contrari»601. Come ci ricorda Meletinskij, nelle figure del mito confluiscono tratti che solo per la nostra sensibilità moderna suonano come contraddittori: Gli eroi mitici agiscono spesso con l’astuzia e l’inganno perché la coscienza primitiva non distingue tra intelletto e astuzia. È solo col progressivo chiarirsi nella coscienza mitologica della differenza tra astuzia e intelletto, inganno e rettitudine, organizzazione sociale e caos, che si sviluppa la figura del briccone mitologico come doppio dell’eroe culturale […] Un personaggio bivalente come l’eroe culturaletrickster fonde in un’unica persona il pathos della regolarizzazione del cosmo e della collettività e l’espressione di un ordine non ancora costituito602. Un altro esempio evidente di ruse e abbassamento che troneggia nel romanzo di Béroul sono le scene del Mal Pas e della Blanche Lande, dove Artù, i suoi cavalieri, Marco, i baroni e tutto 599 Vv. 1437-1439 (Chi vuole sentire una storia, come l’educazione sia una cosa straordinaria, mi ascolti solo un pochino). 600 L’importanza del motivo del salto è confermata dalla sua ripetuta evocazione. Ai versi 1351-1353 la voce del narratore ricorda ai seignors il salto di Tristano dalla roccia; ai versi 2385-23 l’eremita ricorderà a Tristano il salto «qu’il n’a home / de Costentin entresqu’a Rome, / Se il le voit, n’en ait hisdor (che nessuno, dal Cotentin fino a Roma, se lo avesse visto, non ne sarebbe rimasto sconvolto). 601 CAMPBELL, L’eroe dai mille volti, p. 46. 602 MELETINSKIJ, Il mito. Poetica folclore ripresa novecentesca, p. 196. Per lo studioso, l’eroe-trickster, proprio in forza dei tratti oppositivi di cui è costituito, rappresenterebbe «il fulcro del sincretismo dei generi letterari», a partire dal quale questi si sarebbero formati, a seconda della diversa valorizzazione «delle gesta civilizzatrici e creatrici, delle malefatte comiche, della biografia eroica» (ivi). 187 il popolo di Cornovaglia si riuniranno per assistere al solenne giuramento d’Isotta, occasione per la quale la regina chiederà a Tristano di travestirsi da lebbroso. Tutta la scena che precede il giuramento è segnata da «toni di bassa volgarità»603, da quell’«isotopia di livello tematico-stilistico basso»604 che segna la scrittura di Béroul; un abbassamento reso plastico dal fango della palude – da cui tutti, i baroni felloni come i cavalieri di Artù, vengono toccati605 – e dal motivo della lebbra, segno di malattia, lussuria, osceno606: La scena assume una prospettiva singolare: il travestimento di Tristan e il fango che insozza i cavalieri sono il segno di un calare cosciente del tono del racconto verso un piano di comicità estremamente rude607. Eppure, come abbiamo già visto nel caso della nobilitazione della ruse del salto, che diventa un’immagine duplicata in cui si condensano alto e basso, anche in questo caso l’abbassamento non è fine a se stesso e isolato, ma è lavorato costantemente da una più complessa orchestrazione in cui il personaggio congiunge gli estremi. Già Luciano Formisano ha liberato l’episodio dall’etichetta dell’abbassamento, mostrando come questo sia inserito in una fitta rete di richiami e parallelismi che fanno piuttosto pensare a una scrittura del «distanziamento», del gioco ironico che pilota consapevolmente registri diversi608. Cercheremo di aggiungere qualche dettaglio alle argomentazioni dello studioso. Il nucleo tematico della lussuria e dell’osceno sembra concentrarsi nel dialogo tra Tristano travestito da lebbroso e Marco: «Dom es tu, ladres? fait li rois. - De Carloon, filz d’un Galois. 603 VARVARO, Il Roman de Tristan di Béroul, p. 243. BERTOLUCCI PIZZORUSSO, «Béroul e il suo Tristan», p. 217. 605 «Molt a grant presse en cel marchés; / Esfrondré l’ont, mos est li fans. / Li cheval entrent jusq’as flans, / Maint en i chiet, qui que s’en traie (vv. 36 -3673: C’è una gran folla in quella palude, l’hanno calpestata tutta, il fango è molle, i cavalli vi entrano fino ai fianchi, parecchi ci cadono dentro, se ne tira fuori chi può). 606 Oltre ai citati Varvaro e Pizzorusso, si vedano: Jean DUFOURNET, «Présence et fonction de la lèpre dans le Tristan de Béroul», in Q.I.M. MOK - I. I. SPIELE - P.E.R. VERHUYCK, a cura di, Mélanges de linguistique, de littérature et de philologie médiévales offerts à Jean-Robert Smeets, Leiden, Presses Universitaires, 1982, pp. 87-103; BLAKESLEE, Love’s Masks. Identity, Intertextuality, and Meaning in the Old French Tristan Poems, pp. 67-72; MATCHA, Poétique de la ruse dans les récit tristaniens français du XII e siècle, pp. 323-331. 607 VARVARO, Il Roman de Tristan di Béroul, p. 243. 608 «Nell’episodio di Mal Pas vi sono tratti che sfuggono alla facile etichetta di una visione del mondo arcaicamente volta a esaltare gli aspetti più vitalistici e teatrali, gioiosamente arcaici, che si nascondono dietro le forme cortesi, e che la stessa dissonanza registrale può essere ricomposta quando la si legga nella prospettiva del distanziamento proprio della comicità e dell’ironia. In ogni caso, la presunta distanza di Béroul dalla narrativa cortese non implica sempre e comunque l’adesione a «moduli e modelli arcaici», ma può essere il risultato di un distanziamento estetico, quanto a dire di un’arte matura in cui il piacere del racconto prevale sulla coerenza stilistica. Smitizzante, il Mal Pas invita anche a smitizzare» (Luciano FORMISANO, «Tristano al Mal Pas», in BRUSEGAN, Le roman de Tristan. Le maschere di Béroul, pp. 301-311, p. 311). 604 188 - Qanz anz as esté fors de gent? - Sire, trois anz i a, ne ment. Tant con je fui en saine vie, Mot avoie cortoise amie. Por lié ai je ces boces lees; Ces tartaries plain dolees Me fait et nuit et jor soner Et o la noisë estoner Toz ceus qui je demant du lor Por amor Deu le criator.» Li rois li dit: «Ne celez mie Conment ce te donna t’amie. - Dans rois, ses sires ert meseaus, O lié faisoie mes joiaus, Cist maus me prist de la comune. Mais plus bele ne fu que une. - Qui est ele? - La bele Yseut: Einsi se vest con cele seut609. È evidente qui lo schema delle Folies, schema in cui la maschera da lebbroso consente a Tristano di dire la verità senza censure. Ma l’aspetto interessante è la relazione triangolare evocata attraverso la mediazione della lebbra, segno della carica erotica che investe i tre personaggi: il male viene dalla comune, dalla condivisione sessuale, dalla divisione d’Isotta tra due uomini. Formisano610 ha rilevato come non si possa leggere questo passo senza tener presente il riferimento all’altro episodio che ruota attorno all’immagine della lebbra, quello in cui, una volta che Isotta è stata condannata al rogo, il lebbroso Yvain propone a Marco di riservarle un supplizio ben peggiore, cederla a lui e alla sua comitiva: Veez, j’ai ci conpaignons cent: Yseut nos done, s’ert conmune. Paior fin dame n’ot mais une611. Anche in quel caso, s’insisteva sugli aspetti più torbidi della sessualità e sulla comune, sulla condivisione della donna. Ma, se tra i due episodi il richiamo è diretto e giocato sul parallelismo, mi pare che l’immagine del partage sessuale evocata nel dialogo tra Tristano e 609 Vv. 3757- 3776 («Di dove sei, lebbroso?», fa il re. «Di Carleon, sono figlio di un gallese». «Quanti anni sei stato fuori dal mondo civile?». «Sire, sono tre anni, non mento. Finché sono stato in salute, avevo un’amica molto cortese. È per lei che ho questi bozzi tumefatti. Questa raganella bella liscia mi fa suonare notte e giorno e stordire col rumore tutti coloro a cui chiedo l’elemosina per l’amore di Dio creatore». Il re gli dice: «Non nasconderlo, com’è che la tua amica ti ha fatto questo regalo?». «Signor re, suo marito è lebbroso, mi prendevo i miei piaceri con lei: il male l’ho preso dal possederla entrambi. Ma più bella ce n’è una sola». «Chi è?». «La bella Isotta: si veste come faceva la mia amica»). 610 FORMISANO, «Tristano al Mal Pas», pp. 304-305. 611 Vv. 1192-1194 (Vedete, ho qui cento compagni. Dacci Isotta, sarà di tutti: mai dama ha avuto fine peggiore). 189 Marco richiami, per antitesi stavolta, anche un’altra scena cardine del romanzo, quella del sogno d’Isotta, in cui due leoni, Marco e Tristano, la prendevano per le mani, se la spartivano in un’atmosfera soave, pacifica, dai toni altamente sentimentali. Se prima la condivisione della donna era dipinta in uno spazio onirico, sotto il segno dell’impossibile, ora ce ne viene offerto il lato degradato. Il testo insiste così su uno stesso tema, presentandolo da angolature diverse, se non opposte, quasi parodiandone la versione alta all’interno del testo stesso: il movimento dialettico penetra nelle strutture profonde della testualità. Il ritratto del personaggio, sempre disposto a concentrare in sé i contrari, segue queste oscillazioni. Questa la descrizione del travestimento di Tristano: Vestu se fu de mainte guise: Il fu en legne, sanz chemise; De let burel furent les cotes Et a quarreaus furent ses botes. Une chape de burel lee Out fait tallier, tote enfumee. Affublez se fu forment bien, Malade senble plus que rien612. Ma, qualche verso dopo, il testo corregge: Ne senbla pas home contret, Qar il ert gros et corporuz, Il n’ert pas nains, contrez, boçus613. La degradazione del corpo di Tristano non è mai assoluta, ma sempre corretta da uno spostamento, uno scivolamento verso l’opposto. Allo stesso modo, nell’episodio del Mal Pas, d’Isotta si fa risaltare, insieme, la carica erotica, quasi animalesca, e la nobiltà della fiera regina. Vestita di «de soie dras»614, Isotta chiederà a Tristano lebbroso di farle attraversare la palude: Un cercle d’or out sor son chief, Qui empare de chief en chief, Color rosine, fresche et blanche. Einsi s’adrece vers la planche: «Ge vuel avoir a toi afere. - Roïne franche, debonere, A toi irai sanz escondire, 612 Vv. 3567-3574 (Si vestì in maniera non uniforme: un vestito di lana, senza camicia, le tuniche erano di panno grosso e gli stivali fatti di pezze. Aveva fatto tagliare una cappa di tessuto ruvido, tutta annerita. Si è coperto molto bene, sembra proprio un lebbroso). 613 Vv. 3622-3624 (Non sembrava uno storpio, alto e corpulento com’era, non era nano, deforme, né gobbo). 614 V. 3903 (vesti di seta). 190 Mais je ne sai que tu veus dire. - Ne vuel mes dras enpalüer: Asne seras de moi porter Tot souavet par sus la planche. - Avoi! Fait il, roïne franche, Ne me requerez pas tel plet: Ge sui ladres, boçu, desfait. - Cuite, fait ele, un poi t’arenge! Quides tu que ton mal me prenge? N’en aies doute, non fera. - A! Dex, fait il, ce que sera? A lui parler point ne m’ennoie.» O le puiot sovent s’apoie. «Diva! Malades, mot et gros! Tor la ton vis et ça ton dos: Ge monterai comme vaslet»615. È evidente come la forza espressiva del passo sia data dallo stridore tra il distinto ritratto della regina e l’immagine lubrica di lei a cavallo di un lebbroso paragonato a un asino – una sorta di concentrato di bramosia sessuale. Immagine subito riconfigurata, trascesa, oltrepassata dalla raffinata arte retorica sfoggiata da Isotta nel suo solenne giuramento davanti alla corte di Artù e a tutto il popolo di Cornovaglia: - Seignors, fait el, por Deu merci Saintes reliques voi ici. Or escoutez que je ci jure, De quoi le roi ci aseüre: Si m’aït dex et saint Ylaire, Ces reliques, cest saintuaire, Totes celes qui ci ne sont Et tuit icil de par le mont, ’entre mes cuises n’entra home, Fors le ladre qui fist sorsome, Qui me porta outre les guez, Et li rois Marc mes esposez616. L’elemento dell’abbassamento in Béroul non è mai isolato o gratuito, ma si presenta come 615 Vv. 3909-3931 (Una corona d’oro sul capo, che racchiude tutt’intorno il viso roseo, fresco e chiaro. Così s’avvia verso la passerella: «È con te che voglio avere a che fare». «Nobile regina, di illustre stirpe, verrò da te senza tirarmi indietro, ma non capisco che cosa tu voglia dire». «Non voglio infangare le mie vesti: sarai l’asino che mi porterà delicatamente sulla passerella». «Come?», replica Tristano, «Nobile regina, non fatemi una richiesta simile. Io sono lebbroso, pieno di pustole, invalido». «In fretta», fa lei, «mettiti in posizione! Pensi che possa prendermi il tuo male? Non temere, non succederà». «Ah, Dio», fa lui, «che cosa succede? Comunque, non mi dà di certo noia palare con lei». Si appoggia sulla stampella. «Andiamo, lebbroso, sei bello grosso! Gira la testa verso là e il dorso verso qua: ti monterò come un ragazzo»). 616 Vv. 4197-4208 («Signori», fa lei, «grazie a Dio vedo qui sante reliquie. Ora ascoltate ciò che giuro e di cui assicuro il re: in nome di Dio e di sant’Ilario, su queste reliquie, sul reliquario, su tutte le reliquie che non sono qui e su tutte quelle che ci sono per il mondo, mai tra le mie cosce entrò uomo fuorché il lebbroso che si fece bestia da soma e che mi portò oltre il guado, e il re Marco, mio sposo). Sul giuramento d’Isotta si veda Richard N. ILLINGWORTH, «The Episode of Ambiguous Oath in Beroul’s Tristan», Zeitschrift für romanische Philologie, 106, 1990, pp. 22-42. 191 l’altra faccia della medaglia, come il profilo incompleto di un volto che è possibile cogliere solo nella complessità della struttura. Il bachtiniano basso-materiale-corporeo che si rintraccia nei due protagonisti è sempre riscritto, amplificato da un riferimento alto, in un gioco dialettico di cortesia e rovesciamento comico-carnevalesco617. Come abbiamo visto nel capitolo III passando in rassegna alcuni aspetti della teoria antropologica di Victor Turner, la liminalità non costituisce una sospensione evasiva, ma guarda sempre a un modello che non funziona più, è sempre da accostare alla riflessione su un’assenza. Le trovate basse e comiche di Tristano e Isotta, la menzogna, la ruse rappresentano la concretizzazione di una mancanza, sono l’unico mezzo a disposizione per farsi valere in un universo in cui il modello eroico di cui i due protagonisti si sentono latori non riesce a imporsi, modello che si proietta come un’ombra in un mondo in cui il mito sembra tramontato. La scrittura di Béroul si risolve così nella scrittura di un compromesso, di un’ibridazione feconda tra una verità che non riesce a farsi strada e una menzogna necessaria. D’altronde, l’eremita Ogrin, prodigo di consigli verso i due amanti, aveva ben suggellato quell’irrinunciabile politica del compromesso: Tristanz, roïne, or ecoutez Un petitet, si m’entendez. Por honte oster et mal covrir Doit on un poi par bel mentir618. 617 Per una puntuale precisazione sulla dialettica degli opposti che connota il carnevalesco bachtiniano, si rimanda a Massimo BONAFIN, «Carnevale, antropologia e semiotica della cultura», in. Id., Contesti della parodia, pp. 68-92. 618 Vv. 2352-2354 (Tristano, regina, ora ascoltate un po’, prestatemi attenzione. Per cancellare la vergogna e coprire il male, si deve mentire un po’). 192 Conclusioni Una riflessione sul personaggio non può prescindere da una riflessione sul soggetto. Lungi dall’addentrarsi in un’analisi psicologistica dell’essere di finzione, l’obiettivo sarà delucidare l’intricato rapporto di costruzione identitaria e costruzione testuale. Nella polifonia dei personaggi s’incrociano i nodi del tessuto romanzesco, si celano dispositivi che agitano le strutture profonde di un testo. Il personaggio sfugge. La lezione degli appunti saussuriani dedicati all’essere della leggenda e del mito sta nell’impossibilità di una sua descrizione come oggetto, di un’individuazione dei criteri che ne definiscano l’identità. Saussure, in quella che è una visione decostruzionista ante litteram, parla di un’impossibilità sul piano della diacronia, denuncia l’infondatezza di una ricerca epistemologica che voglia seguire le tracce, attraverso l’evoluzione della leggenda, dell’être sémiologique, che si contraddistingue per la labilità di una bolla di sapone, per l’inconsistenza di un fantasma. Inconsistenza che non riguarderebbe, secondo lo studioso ginevrino, il discorso letterario, in cui il personaggio è stabilizzato dall’azione di un autore, che nullifica il rischio di un suo smarrimento nella rete di particelle d’essere che circolano nella leggenda. Eppure, la prospettiva di Saussure, approfondita dalla visione freudiana (o girardiana) dell’identità come identificazione, si amplifica in un’impossibilità che investe radicalmente la condizione di esistenza del personaggio, sempre aperto a una ridefinizione identitaria anche sul piano sintagmatico della sua presenza in un testo, la quale si colloca al centro di una rete di relazioni-identificazioni con gli altri personaggi, rendendo l’essere di finzione costituzionalmente inibito alla cristallizzazione in un oggetto. Non oggetto, ma processo: è proprio in questo che il personaggio si rivela un vettore di costruzione della scrittura romanzesca, oltre il suo fare (le azioni di cui è agente), ma anche oltre il suo essere (le qualità che lo connotano). Più proficuo sarà studiarne il suo modo d’essere. La collaborazione delle due prospettive, un’interrogazione del modo d’essere del personaggio tanto sul suo asse paradigmatico – nel suo rinvio a modelli e schemi della cultura e dell’immaginario –, quanto sull’asse sintagmatico – nel gioco di ripetizioni, parallelismi, ossimori che complicano lo statuto identitario all’interno di un testo – si rivela euristicamente ricca nell’analisi del testo medievale. Se in esso il personaggio è latore di un modello codificato, di un tipo noto, ciò non esclude tuttavia una rappresentazione complessa dell’identità, che può utilizzare proprio quello schema astratto per farlo esplodere in tutte le sue possibilità di significazione all’interno del sistema dei personaggi, farne un modello d’identificazione che si dissemina, in un gioco di doppiezza, rivalità e mimesi, nelle relazioni che legano i personaggi e dinamizzano il testo. Un percorso come quello proposto in questo lavoro non mira, al contrario di un approccio filologico o storico-letterario, a spiegazioni esaustive, interpretazioni storico-culturali, ricostruzioni di un testo primo. André de Carné, in un saggio già citato (cfr. supra I.7) e incentrato su un tipo di analisi testuale che prevede metodi e prospettive critiche affini a quelli qui adottati, annota come simili approcci non costituiscano tanto «une manière d’expliquer», quanto «une manière de regarder»619, come non si tratti di spiegare, ma di parafrasare. Si tratta, aggiungerei, di leggere i testi rivendicando quella libertà, limitata solo da un attento ascolto delle opere, con cui Leo Spitzer definiva la critica letteraria un «abituale processo di pensiero»620. Si tratta, ancora, di seguire un ammonimento di Georges Devereux 621, il quale metteva in guardia dall’approccio, nell’indagine sull’umano, basato su un solo metodo ben definito, che maschererebbe una forma di difesa, d’isolamento, di protezione rispetto all’angoscia di poter scoprire il sé nell’altro. L’auspicio è di avvicinare il testo medievale (senza annullarne, come si spera di aver fatto, la sua alterità), alla sensibilità del lettore moderno622. Se, infatti, le teorie che ruotano attorno al concetto di medievalismo (cfr. supra I.6, n. 133) hanno ormai fornito validi e numerosi strumenti metodologici per lo studio delle riscritture moderne e contemporanee di opere medievali, mi pare che molto resti ancora da fare per la definizione di un orientamento teoretico al testo medievale stesso, per l’inquadramento, nel sistema della produzione letteraria medievale, di metodi e teorie nati (molto spesso) da un corpus di testi moderni. La convinzione alla base di quest’auspicio è che una teoria, se ben fondata, può contenere elementi che travalicano i confini di epoche e culture, trascendono il rischio dell’anacronismo, perché dicono qualcosa sul come, perché e privilegiando quali oggetti, l’uomo, nel suo 619 DE CARNÉ, «Construction concurrentielle du personnage romanesque. Trois exemples tirés du roman médiéval», p. 95. 620 Leo SPITZER, Critica stilistica e semantica storica, Laterza, Bari, 1966, p. 280. 621 Georges DEVEREUX, From Anxiety to Method in the Behavioural Sciences, La Haye-Paris, Mouton, 1967. 622 «Tentativi di questo tipo [di critica eterodossa] sono a mio parere tutt’altro che inutili. Essi innanzitutto mantengono il romanzo medievale all’interno del circuito delle letture contemporanee, senza relegarlo tra i vecchiumi muffiti di una soffitta letteraria. Poi essi possono farci sperare in qualche reale novità di interpretazione. Sono come puntate di commando che saggiano il terreno davanti all’avanzata delle formazioni più tradizionali» (VARVARO, «Il Tristan di Béroul, quarant’anni dopo», p. 346). 194 percorso, si è raccontato delle storie. Eppure, chiarita questa sorta di gratuità dell’operazione, bisogna riconoscere che cento anni di studi tristaniani richiedono una qualche presa di posizione. Uno studio del personaggio come quello di cui si è offerto un saggio trova una sua collocazione, mi pare, nel ridimensionamento dell’importanza degli aspetti morali nella materia tristaniana, aspetti che, spesso, la critica considera quasi consustanziali ai nostri testi. Il tema ha trovato spazio nel capitolo dedicato al romanzo di Béroul; mi soffermerei ora su come la questione si configuri nel testo di Thomas, il freddo chierico analista che dà forma con i suoi versi a una condanna degli eccessi della passione: Ogni ripresa narrativa della storia tristaniana s’inserisce a buon diritto nel dibattito sull’amore in rapporto alla morale sociale, centrale nella seconda metà del XII secolo: un ampio dibattito, che coinvolge molti esponenti della cultura letteraria settentrionale e meridionale galloromanza, e che impone prese di posizione nel merito della vicenda. Il tentativo di Thomas, l’altro grande autore di una versione narrativa della storia, di prenderne le distanze astenendosi dal jugement (note ormai, credo, le sue esplicite dichiarazioni di neutralità dal punto di vista ‘sentimentale’) e affievolendone i risvolti sociali, è solo apparente, se finisce per offrire il suo pessimistico récit a tutti coloro che amano uno specchio [sic] da cui trarre insegnamenti contro le pene e gl’inganni dell’amore623. Non è mia intenzione, con le riflessioni che mi accingo a proporre, negare che Thomas abbia scritto il suo romanzo con il proposito di offrire una lezione morale sui danni de fole amor, ma suggerire semplicemente che i frammenti che della sua opera ci sono stati tramandati offrono (per fortuna) qualcosa di molto più complesso della visione di una condanna dai toni austeri e moraleggianti. E che contestualizzare un testo e sforzarsi di riportarlo alle intenzioni del suo autore può talvolta significare isterilirlo: Pourquoi, somme toute, cette amoralité et complète insouciance des amants envers toutes obligations morale, sociales et religieuses? Bien sûr, ce sont les effets du philtre magique, mais ce n’est pas une réponse… En tout cas, ce n’est pas du tout l’amour courtois modèle d’intégration dans la société aristocratique thématisé pas les autres romans du cycle arthurien. Je répète: il n’y a pas de réponse à ces questions – et Gottfried et Thomas n’avaient peut-être pas l’intention de la donner624. Asserzione condivisibilissima, sennonché preciserei che, almeno a mio vedere, non si tratta di un’assenza di risposte, ma di un’assoluta non contemplazione della questione stessa. Si rileggano le pagine di un celebre saggio di Jean Frappier: 623 BERTOLUCCI PIZZORUSSO, «Béroul e il suo Tristan», p. 213. VON ERTZDORFF, «L’amour parfait des amants et le conflits de morale. Gottfried von Strassburg et Thomas de Bretagne», pp. 118-119. 624 195 Mais nous n’avons pas à juger Thomas sur ce qu’il aurait dû faire. Il faut voir ce qu’il a fait, ou voulu faire. Or, il est bien certain que pour sa part il n’a pas considéré un seul instant l’amour de Tristan et d’Iseut comme un amour coupable. Il donne tort à la loi et raison à l’amour625. Per Frappier la fine amor si colloca, nel romanzo di Thomas, «au-dessus de la loi sociale et religieuse», e l’autore illustrerebbe, senza troppe ambagi, «la fine amor justifiée parce qu’elle est la fine amor». Anche la clergie di Thomas andrebbe per Frappier ridimensionata: uant à la «clergie» de Thomas, il ne faut pas l’exagérer, au détriment des éléments courtois, sur la foi de passages isolés, non replacés dans un ensemble, ou mal interprétés. Lui a-t-elle jamais donné le pli d’un auteur pieux, d’un moraliste chrétien? Si oui, par quelle singularité ou plutôt par quelle aberration aurait-il entrepris de composer, œuvre de longue haleine, un nouveau Tristan dédié «à tous les amants?»626. L’analisi dedicata al romanzo di Thomas ha indicato in quei «passages isolés» una maschera retorica, voce che coadiuva la sottile analisi dei moti dell’anima. La parola di Thomas, con le sue dichiarazioni di estraneità ai dolori dell’amore, s’inserisce pienamente nel sistema dei personaggi, ne diventa un punto di riferimento, facendosi segno di uno dei due poli tra cui i personaggi oscillano, nei loro passaggi da un grado minimo a uno massimo di assoggettamento all’eros, nell’altalenante destreggiarsi tra tentativi di affrancamento e richiamo di una forza che li trascende. Al contrario di quanto lascia intendere Frappier, che radicalizza il potere della juridiction d’Amour, mi pare, infatti, che uno dei fili che costituiscono il tessuto della scrittura thomasiana sia proprio quell’oscillazione tra opposti che connota i personaggi. Rappresentativa, in questo senso, la figura del doppio di Tristano, Tristano il Nano, invenzione di Thomas, che avvierà la tragedia finale richiamando il protagonista ai doveri dell’amante perfetto, doveri da cui sembrava essersi allontanato, in un momento di fuga dal modello che il personaggio di Tristano è destinato a incarnare. Dunque, da un lato, l’infondatezza di un discorso morale che attraverserebbe il testo627, dall’altro l’estrema complessità dello statuto del personaggio, che, se non è ossequioso alla legge morale, sembra che tenti di sfuggire anche a quella d’Amour. Più che una rappresentazione dei danni cui conduce l’amore, il romanzo di Thomas offre 625 Jean FRAPPIER, «Structure et sens du Tristan. Version commune, version courtoise», in Cahiers de civilisation médiévale, 6, 1963, pp. 255-280, 441-454, p. 263. 626 Ibid. 627 Anche Foehr-Janssens ridimensiona il presunto moralismo di Thomas: «Le moralisme clérical se met au service d’une profonde compréhension de la passion, qui ne pousse pourtant jamais la sympathie jusqu’à l’aveuglement» («Lit d’amour, lit de mort», p. 416). 196 così la rappresentazione dei moti del soggetto in un’esperienza, quale è quella amorosa, che lo mette di fronte alle dinamiche di una fluidificazione dei propri confini, di una «negazione dell’isolamento dell’io, che conosce il pieno soddisfacimento soltanto estenuandosi, oltrepassando se stesso nell’abbraccio in cui la solitudine dell’essere si perde»628. Quanto a Béroul, in un acuto saggio del 1988, Barbara Nelson Sargent-Baur, in polemica con i vari studi sull’influenza dell’etica abelardiana nel romanzo, ha fatto notare come una lezione di morale cristiana non vi costituisca un tratto precipuo: En conclusion, on peut lire le roman de Béroul dans une perspective morale, c’est une approche qu’il faut tenter, tout comme une autre. Mais à la lumière de cette expérience, il semble que l’éthique chrétienne, comme l’éthique tout court, n’a pas guidé le poète dans ses jugements, et que son roman n’est pas à classer parmi la littérature moralisante629. Per la studiosa, i due protagonisti di Béroul sono dei «sauvages, inapprivoisé et inapprivoisables»630, «qui commettent l’adultère aussi souvent que possible, qui mentent régulièrement et avec virtuosité, qui se moquent de normes de leur société, qui sont motivés par la soif de vengeance»631. Ecco, inoltre, quanto annotato a proposito di «Tristan en tant que chevalier»: Nous entendons parler de ses prouesses anciennes avec le Morholt et le dragon irlandais; mais dans le fragment qui nous est parvenu, il ne fait que menacer des lépreux du haut de son destrier, jeter un défi à ses pairs qui l’accusent (défi que personne n’ose relever, comme on peut s’y attendre), combattre incognito à la Blanche Lande (où il se borne à casser le bras d’Andret) […] Somme toute, un ensemble d’actions peu recommandables et qui sont loin d’être héroïques632. Come Frappier, che cristallizzava i protagonisti di Thomas in una chiusa ossessione amorosa, anche Sargent-Baur cede all’inquadramento del personaggio in uno schema rigido. Per nostra parte, l’analisi proposta si è indirizzata, affrontando la questione dal punto di vista della costruzione del personaggio, a individuare una forma-senso che illustrasse il modo in cui il testo di Béroul prescinde da una connotazione morale, oltrepassa l’idea di colpevolezza o non colpevolezza degli amanti. Ne è emersa una visione del personaggio più articolata di quella descritta da Sargent-Baur, che, come tanta critica tristaniana, valorizza gli aspetti bassi del personaggio. La stessa studiosa riconosce, d’altronde, che Tristano e Isotta «sont au-dessus de 628 Georges BATAILLE, La letteratura e il male, Milano, SE, 1987, p. 16. SARGENT-BAUR, «La dimension morale dans le Roman de Tristan de Béroul, p. 56. 630 Ivi, p. 55. 631 Ivi, p. 54. 632 Ivi, p. 53. 629 197 commun des mortel», che «si Béroul fait la preuve d’un zèle partial à l’égard de Tristan et Yseut, ce doit être à cause non de ce qu’ils font mais de ce qu’il sont», ossia esseri «supérieurs aux autres»; ma, continua Sargent-Baur, «supérieurs d’après des critères qui ne sont jamais explicités»633. Al contrario, i criteri che definiscono questa superiorità sono ben enucleati nel romanzo, e corrispondono proprio a quelle «prouesses anciennes avec le Morholt et le dragon irlandais» che la studiosa liquida con troppa fretta. Rinunciare a concentrarsi esclusivamente sul presente della storia e valorizzare i frequenti riferimenti a un passato remoto dai tratti arcaici ci ha portati a leggere il romanzo di Béroul come attraversato dall’ombra di un racconto mitico (l’ombra dell’eroe), che adultera costantemente il presente in forza di un’ibridazione tra il basso di una concretezza viva e attuale e l’alto di un modello trascendente e a-temporale. È il riferimento a quel modello che rende Tristano e Isotta esseri superiori, oltre ogni morale religiosa e sociale, portatori di una hybris, di una fierezza ostile alle regole che li apparenta ai grandi eroi del mito, benché creature del medioevo feudale e cristiano: Se pose, alors, inévitablement, la question de savoir comment et pourquoi un tel amour maudit a pu, en plein Moyen Age féodal et chrétien, donner naissance à cet admirable roman et lui assurer le succès que l’on sait. C’est là un problème difficile et d’importance634. La risposta starebbe, per Ribard, nell’intimo legame tra peccato e morte, nella morte dei due amanti come conseguenza del loro peccato, e nella realizzazione redentrice, proprio attraverso la morte, del sogno di un amore assoluto: la storia di Tristano e Isotta, percorso di redenzione, lungi dall’essere eversiva, sarebbe «au contraire éminemment exemplaire»635. Personalmente, non trovo il problema proposto da Ribard né difficile né importante, e la domanda mi sembra, invece, carica di una certa banalità, una domanda che contiene già in sé una risposta, altrettanto banale. Il successo è assicurato alla storia di Tristano proprio dalla sua trasgressività, tratto che ha da sempre assicurato consensi a un’opera letteraria, e non si vede perché la letteratura medievale, pur con tutte le sue caratteristiche peculiari che l’allontanano dalla moderna idea di letteratura, debba costituire un’eccezione. Come rileva Jean Flori, accentuare gli aspetti morali nell’interpretazione dei testi medievali significa trascurare il ruolo della letteratura come modo di trasgressione che si realizza attraverso la mediazione del 633 Ivi, p. 55. Jacques RIBARD, « uelques réflexions sur l’amour tristanien», in BUSCHINGER, La légende de Tristan au Moyen Age, pp. 69-79, p. 73. 635 Ivi, p. 78. 634 198 sogno (cfr. supra V.2, n. 553). Di là di questi aspetti, cui ho voluto dedicare qualche considerazione in queste pagine conclusive, il filo conduttore del nostro percorso è da rintracciarsi nella riflessività, in quella propensione estensiva che sembra caratterizzare, nella parabola tristaniana, il personaggio e la sua storia. Nell’impossibilità della sua interezza (per quanto ne possiamo dire, il Roman de Tristan è un’impossibile interezza), la storia di Tristano vive di un costante sdoppiamento dei livelli diegetici, non è semplicemente scrittura disseminata ma messa in scena della disseminazione. In questo senso, si è proposto di leggere la storia di Tristano alla luce dell’esperienza delle Folies, dove lo sdoppiamento dei livelli, con il passaggio dalla scrittura della rappresentazione alla rappresentazione della scrittura, diventa asse di organizzazione formale esplicitamente dichiarato. I testi di Oxford e Berna si appropriano di dinamiche ludiche, facendo del gioco un percorso di formalizzazione tanto del tessuto diegetico quanto delle dinamiche identitarie. Attraverso l’effetto ludico della metatestualità e del travestimento (che abbiamo preferito considerare come un’autentica metamorfosi), nella conquista di quella che abbiamo descritto come una condizione liminare, il personaggio avvia un racconto performativo con cui rielabora criticamente la sua storia e, manipolando i segni del romanzo di Tristano e Isotta, lo riconfigura, proponendo altri possibili narrativi. Ben oltre quello che è apparentemente un riassunto degli episodi precedenti, le Folies inscenano la coazione a ripetere a cui è condannata la storia dei due amanti, che, nel gioco della ripetizione, non conosce confini, ma si amplifica costantemente nel suo potenziale autoriproduttivo, rimandando non solo a se stessa, ma anche al sempre possibile altro da sé. In queste fluttuazioni diegetiche, il personaggio non è semplice agente della rimemorazione. La riconfigurazione diegetica si dipana parallelamente a una riconfigurazione del suo statuto identitario, in un rifiuto del principio d’identità che è solo superficialmente dato dal travestimento da folle, ma dietro il quale è invece possibile rintracciare un’autentica tendenza alla risoggettivazione, una riscrittura costante del soggetto in un gioco di rinvii tra passato e presente, tra realtà e realtà possibile, o tra realtà e impossibilità. Lo sdoppiamento dei livelli, forma-senso esplicita nelle Folies, è già in nuce nei due testi più antichi. Ben oltre i casi evidenti di metadiegesi, i frammenti della leggenda di Tristano mostrano una frantumazione della linearità del racconto, una disponibilità della storia ad aprirsi a storie adiacenti, a scivolamenti verso il contiguo o l’opposto. Tristano nella sala delle statue o davanti al cortège de la reine, Isotta che compone il lai di Guiron, la visione 199 fantasmatica d’Isotta dalle Bianche Mani sorpresa da uno schizzo d’acqua sono, nel romanzo di Thomas, esempi di un imprescindibile legame di desiderio e atto affabulatorio, di un’osmosi in cui il desiderio è motore di una sempre aperta e inedita testualità e in cui il personaggio, manipolando i segni della sua storia, crea storie adiacenti, alternative, dilata gli orizzonti del racconto. Béroul, con il suo già moderno prospettivismo, conferisce ai suoi personaggi la possibilità di filtrare gli eventi, di riscriverli dal loro microcosmo particolare, di ridisegnare costantemente l’universo romanzesco alla luce delle loro intonazioni. La storia di Tristano pone al centro della sua stessa costituzione diegetica una rappresentazione di quella «caratteristica antropologica fondamentale» della finzione letteraria: creare «estensioni dell’umano, superamenti di sé, grazie alla sua libertà da limiti pragmatici»636. Immerso in questo sistema di riflessi diegetici ritroviamo il centro di valore del personaggio, con «l’irrefrenabile tensione dell’individuo a superare se stesso e i confini del mondo reale, ovvero la spinta alla creazione di immagini fittizie»637. Il Tristan en prose valorizzerà il motivo di Tristano cantore, autore del suo stesso romanzo638. Le grandi compilazioni in prosa del XIII secolo, ormai libere dai vincoli formali della versificazione e dotate di una più consolidata padronanza della scrittura romanzesca, avvieranno un qualche ripiegamento del romanzo su se stesso, quella congenita riflessione dell’arte della prosa sulle proprie dinamiche e i propri strumenti639. Ma il tratto è già ben presente, in maniera più sfumata (ma, forse, più complessa) nelle opere in versi, dove però, più che una caratteristica della prassi romanzesca, vi leggerei, riprendendo le parole di Gambino commentatrice di Iser640, una caratteristica antropologica. Ci siamo soffermati sull’importanza che nella visione antropologia di Victor Turner riveste la riflessività, quel particolare fenomeno intimamente umano per cui si è contemporaneamente il proprio soggetto e il proprio oggetto diretto641, fenomeno in cui si realizza una manipolazione del linguaggio (manipolazione che ha sempre una forte componente passiva), un attraversamento della molteplicità dei suoi livelli. La riflessività del 636 Renata GAMBINO, «Antropologia letteraria», in Michele COMETA, Dizionario degli studi culturali, Roma, Meltemi, 2004, pp. 72- 78, p. 74. 637 Ibid. 638 Sul punto si veda la già citata raccolta di saggi Des Tristan en vers au Tristan en prose. Si veda, inoltre, Emmanuèle BAUMGARTNER. Le «Tristan en prose». Essai d'interprétation d'un roman médiéval. Genève, Droz, 1975. 639 Specificamente sul Tristano, si veda Dominique DEMARTINI, Miroir d’amour, miroir du roman. Le discours amoureux dans le Tristan en prose, Paris, Champion, 2006. 640 Gambino fa riferimento a Wolfgang ISER, The Fictive and the Imaginary: Charting Literary Anthropology, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1993. 641 TURNER, Antropologia della performance, pp. 125 ss. 200 soggetto si realizza nella (attraverso la) riflessività del linguaggio. Nel momento in cui l’individuo scopre che «i segnali sono segnali» e che un messaggio può essere incorniciato – rileva Gregory Bateson nel suo Una teoria del gioco e della fantasia – si ha non solo l’invenzione del linguaggio, ma «si possono avere la complessità dell’empatia, dell’identificazione, della proiezione, e così via»642. La scoperta del gioco del linguaggio, che è evidentemente la condizione primaria del sorgere dell’atto affabulatorio, sembra dunque strettamente legata alla propensione del soggetto a creare estensioni di sé, proiettarsi, identificarsi, raggiungere l’altro. Un soggetto che non può interrogarsi su se stesso e sulle dinamiche che lo legano all’alterità se non narrativizzandosi, oltrepassando il limite dell’attuale nel gioco dell’affabulazione, soggetto che si risoggettiva e si riscrive. Mi è sembrata questa una delle dinamiche che percorrono quello che è uno dei capisaldi, pur nel suo stato di lacerti, della cultura letteraria europea. 642 Gregory BATESON, «Una teoria del gioco e della fantasia», in Id. Verso un’ecologia della mente, pp. 218-235, p. 220. 201 Bibliografia 1. Edizioni dei testi consultate BÉROUL, Tristan et Yseut, Texte établi, traduit, présenté et annoté par Daniel POIRION, in Tristan et Iseut. Les premières versions européennes, Édition publiée sous la direction de Chistiane MARCHELLO-NIZIA, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, Gallimard, 1995, pp. 3121. BÉROUL, Tristano e Isotta, a cura di Gioia PARADISI, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2 13. 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