Down Under - D`ARS MAGAZINE

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Down Under
Per raccontare l’Australia di oggi – o almeno per riuscire a metterla a fuoco – credo sia necessario
affidarsi a storie molto diverse tra loro, storie che spesso non s’incrociano nonostante il comune
intento di ri-significare una terra e di definirsi in relazione ad essa. Dopo aver fatto tabula rasa della
civiltà aborigena attraverso uno sterminio umano e culturale sistematico, riconosciuto ufficialmente
soltanto l’anno scorso dal neoeletto primo ministro Kevin Rudd con la sua storica apology nei
confronti della Stolen Generation, mai come qui il sogno coloniale è stato coltivato e, in parte,
realizzato ad ogni costo. Non c’è dubbio che l’Australia sia una paese multiculturale ma il modo in
cui le differenti comunità si sono distribuite a livello sociale, geografico, identitario dimostra come
questi flussi siano stati rigidamente monitorati secondo un progetto utilitario, di matrice economica,
asservito per quasi tutto il secolo scorso alla cosiddetta “white Australia policy”. Negli ultimi anni la
sfida della sostenibilità ambientale, gli effetti della globalizzazione e il fallimento di una politica
conservatrice anacronisticamente intrappolata nella nostalgia coloniale, stanno disegnando uno
scenario nuovo, in pieno fermento, i cui esiti sono ancora difficilmente prevedibili.
Lee
Grant, The Day Mag Wore a Dress, 2007
Per la prima volta l’Australia fa i conti con la sua collocazione geografica ovvero taglia il cordone
ombelicale con l’Europa e si rivolge all’Asia lasciandosi alle spalle la paranoia politica di una
possibile invasione da parte della Cina, un tempo tra i principali argomenti pro isolazionismo. Tutto
è cominciato lentamente negli anni Settanta grazie ad alcuni artisti e scrittori che hanno aperto un
dialogo con queste culture, allora considerate esotiche e remote. Oggi questo dialogo è diventato
priorità politica: il nuovo primo ministro parla perfettamente mandarino, i campus universitari
accolgono tantissimi studenti asiatici che con il loro contributo economico permettono al sistema
educativo australiano di mantenersi su standard molto alti dato che (a differenza dell’Europa) non
può beneficiare di un ingente finanziamento pubblico; il governo bandisce borse di studio per
incentivare gli studi e gli scambi con questi paesi, mentre i musei sviluppano nuove collezioni
totalmente dedicate agli artisti orientali. Una vetrina particolarmente interessante in proposito è
l’Asia Pacific Triennial of Contemporary Art, nata nel 1993 e giunta alla sesta edizione quest’anno.
Tra gli eventi artistici più amati dal pubblico c’è senz’altro l’Archibald Prize, un premio di
ritrattistica la cui mostra si tiene annualmente all’Art Gallery of New South Wales di Sydney
attirando sempre un numero record di visitatori: un mix di anacronismo e gossip considerato che la
maggior parte dei soggetti sono celebrities che fanno a gara per essere immortalate mentre la giuria
è composta, per lo più, da persone estranee al settore dell’arte. Eppure la potenza iconica di certi
dipinti selezionati per il concorso sembra persistere nell’immaginario collettivo e alimenta spesso un
vivace dibattito, anche a distanza di tempo.
Una mostra che ho trovato affascinante e utile per approfondire la questione identitaria di questo
continente è stata Inheritance, tenutasi all’Australian Center of Photography di Sydney, dove undici
autori si sono confrontati sul tema della famiglia nella società australiana contemporanea partendo
dalla celebre serie Scarred for life di Tracey Moffatt. La famiglia, infatti, ha rappresentato
storicamente un luogo controverso di negoziazione affettiva e politica. Basta pensare alla Stolen
Generation, espressione usata per indicare tutti quei bambini aborigeni che, dalla seconda metà
dell’Ottocento fino agli anni Settanta, venivano sottratti alle famiglie di origine per essere adottati
dai coloni bianchi nel tentativo di assimilare e cancellare la civiltà indigena. In parallelo le varie
ondate migratorie si sono spesso intrecciate attraverso matrimoni “interculturali” mentre sul sogno
suburbano della villetta singola con auto e giardino venivano costruite distese di quartieri, in un
paese dove il 90% dell’attuale popolazione abita in città. Senza dimenticare che da qualche anno si è
registrato un vero e proprio baby boom a dispetto della crisi economica e della minaccia di un
generale abbassamento del tenore di vita, finora tra i più alti al mondo.
Tamara Dean, The tea party, 2008
Nelle immagini di Tamara Dean troviamo proprio una cronaca partecipata degli eventi domestici
legati alla maternità mentre Toni Wilkinson si concentra sui lati oscuri del legame, talvolta morboso,
che unisce madre e figlio; Lee Grant esplora l’enigma dell’essere fratelli e sorelle con alcuni ritratti
frontali, intensi e concetrati, che per certi aspetti ricordano la serie che Diane Arbus dedicò ai
gemelli. La tipica famiglia di classe media è protagonista dei lavori di Bronek Kozka dove la realtà
appare congelata dentro un’atmosfera di fiction, artificialità, silenzi. Aaron Seeto e Ka Yin Kwok,
invece, si confrontano con la loro personale storia familiare d’immigrazione in Australia e l’artista
aborigena Bindi Cole mostra le dinamiche dissocianti che la cultura dominante applica alle persone
senza tener conto della comunità a cui appartengono e delle esperienze che progressivamente
formano la complessità di un individuo.
Attraverso Inheritance (titolo che sottolinea l’aspetto di trasmissione intergenerazionale) lo sguardo
di questi giovani fotografi sulle sfaccettature della vita familiare non funziona soltanto come
incursione nel privato o come riappropriazione del genere album e diario, ma sviluppa un racconto
alternativo dall’interno sui cambiamenti di una società, quella australiana, che si sta ripensando in
maniera radicale.
Clara Carpanini
D’ARS year 49/nr 198/summer 2009