Teti 2011 Gervasio Afriche-Orienti Cercando un altro Egitto

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Teti 2011 Gervasio Afriche-Orienti Cercando un altro Egitto
Cercando un altro Egitto: tra democrazia e contro-rivoluzione
Gennaro Gervasio* e Andrea Teti†
Afriche e Orienti
vol. 11, n. 1, 2011
Seguendo l’entusiasmo derivante dalla “rivoluzione tunisina”, dove il movimento popolare aveva
costretto l’odiato autocrate Ben ‘Ali a lasciare il potere e il Paese dopo quasi 24 anni di regime di
polizia, attivisti di diverse tendenze politiche, ma con una profonda connotazione laica, avevano
convocato il popolo d’Egitto a manifestare la propria insoddisfazione e rabbia contro il regime, la
corruzione della classe politica e la brutalità dell’apparato di sicurezza, per il 25 gennaio, proprio il
giorno della festa della polizia. Eppure, nemmeno i più ottimisti tra gli organizzatori della
manifestazione avrebbero mai potuto immaginare che non solo quel giorno centinaia di migliaia di
loro connazionali sarebbero scesi in piazza, spesso per la prima volta nella loro vita, ma che questo
movimento di massa avrebbe costretto, dopo appena 18 drammatiche giornate, il presidente
Mubarak a cedere il suo potere quasi trentennale al Consiglio Supremo delle Forze Armate.
L’Egitto post Mubarak ha contorni ancora confusi, tra le paure di un putsch militare, la “strana
amicizia” tra i superstiti del Partito nazionale democratico, ex partito del potere, e l’ala
conservatrice dei Fratelli Musulmani, e la prevalente incertezza sul lungo cammino delle riforme,
economiche, politiche e sociali, che sono le richieste urlate dai manifestanti negli “eroici giorni”
dell’occupazione di piazza Tahrir, nonché da lavoratori, studenti e comuni cittadini nelle settimane
successive. Se lo spettro della “contro-rivoluzione” (al-thawra al-mudadda) si aggira per le vie del
Cairo e delle altre città del Paese, è innegabile che lo spirito della rivoluzione continua a permeare
gli eventi in Egitto.
Tali incertezze e il succedersi frenetico degli eventi non impediscono però di svolgere alcune
considerazioni, che certo necessiteranno una ulteriore elaborazione in futuro, sulla portata e il
significato della cosiddetta “rivoluzione del 25 gennaio” (Thawrat 25 Yanayr), anche in chiave
comparativa con quanto sta succedendo e potrebbe avvenire nella regione nordafricana e
mediorientale.
*
†
Docente di storia, politica e relazioni internazionali del Medio Oriente, Macquarie University, Sydney (Australia)
Docente di relazioni internazionali e politica mediorientale, University of Aberdeen (Regno Unito)
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L’insostenibile leggerezza dell’autoritarismo
Un primo dato emergente dagli eventi in Nordafrica, su cui una riflessione critica da parte di
studiosi e policymakers sarà necessaria, è la fragilità di regimi autoritari della regione, considerati a
lungo resistenti a qualsiasi cambiamento. Difatti, uno dei temi principali del dibattito –sia
nell’accademia che nelle cancellerie e nella stampa specializzata– sulla politica mediorientale, negli
ultimi anni, è stato senz’altro dedicato all’analisi dei regimi autoritari della regione. La “terza
ondata” democratica che secondo Huntington (1991) stava travolgendo i regimi satelliti dell’Urss
dal 1989 in poi, sembrava avere accuratamente evitato medio oriente e nordafrica, suscitando, al
principio, un ulteriore dibattito ad hoc sulle ragioni di questa presunta “eccezione araba e/o
islamica”. Nel tentativo di spiegare questo presunto “eccezionalismo”, studiosi più o meno
affermati ricorsero ai sempreverdi miti dell’Orientalismo classico, inserendoli nel vivace dibattito
sulla democratizzazione nel Terzo Mondo (Teti 2006). Bernard Lewis (1990) rintracciava le “radici
della rabbia islamica” nelle sconfitte storiche dei Musulmani, ed altri, seguendo la sua falsariga,
identificarono
nella “cultura islamica” o
“arabo-islamica” il
principale ostacolo
alla
democratizzazione del Medio Oriente e del Nordafrica. L’accento sulla presunta unicità culturale
della regione, in parallelo alla crescita dei movimenti e partiti islamisti in molti Paesi arabi negli
anni ’90, permetteva alla legione “neo-orientalista” di spiegare persino eventi di carattere
sostanzialmente democratico, come le elezioni in Algeria (1991/2) e Palestina (2006), in chiave
eccezionalista, tanto che piuttosto che registrare il comportamento dell’elettorato e indagare le
ragioni delle vittorie dei partiti islamici (il FIS in Algeria, Hamas nei Territori palestinesi), si preferì
consolidare il mito della “minaccia islamica” e quello dell’Islam politico come unico fattore,
“ovviamente” anti-democratico, capace di mobilizzare le masse arabe. In anni successivi, il dibattito
scientifico, nonostante la popolarità di testi riciclanti stereotipi orientalisti dopo l’11 settembre
2001, ha cercato in parte di allontanarsi dall’analisi della mancanza di democrazia nell’area
mediorientale, dedicandosi piuttosto a studiare i sistemi autoritari al potere, nella loro versione
modernizzata, pseudo-democratica solo per citare alcuni esempi. Il pregio maggiore di siffatte
analisi è quello di svelare che il ricorso dei regimi a istituzioni democratiche come i Parlamenti, la
dichiarata adesione alla salvaguardia dei diritti umani, delle donne o delle minoranze, lungi
dall’esser dettati dalla sincera volontà di coinvolgere le opposizioni e i cittadini nel processo
decisionale, servivano solo rinforzare i regimi sia all’interno che all’esterno, grazie a questa facciata
democratica. Infatti, la retorica democratica è ampiamente bilanciata dal ricorso allo stato
d’emergenza (in vigore in Egitto dal 1981), alla legislazione speciale anti-terrorismo, ai tribunali
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speciali, usati principalmente per combattere la “minaccia islamica”, e soprattutto alla repressione
poliziesca.
In ogni caso, anche le analisi più sofisticate, in cui gli studiosi rinunciavano a spiegare le ragioni del
deficit democratico arabo e islamico in termini esplicitamente culturali, per concentrarsi sui
meccanismi dei regimi al potere, restituivano un’immagine di sistemi autoritari inossidabili e
resilienti a qualsiasi cambiamento, grazie alla “sapiente” miscela di repressione, cooptazione (o
divide et impera) di parte delle opposizioni, e del supporto, politico ed economico, dei Paesi
occidentali. Eppure, anni fa il politologo egiziano Nazih Ayubi (1994) aveva distinto tra “stati
egemonici”, che si basano (anche) sul consenso popolare, e stati “feroci”, che ricorrono
esclusivamente alla repressione.
Quel che è certo è che, nonostante il tramonto di stati autoritari egemonici, pochissimi si
aspettavano che due dei più “stabili” autocrati arabi potessero essere abbattuti in seguito a una
sollevazione popolare di massa, per lo più non-violenta. Pertanto, la prima considerazione che
s’impone, guardando agli ultimi “miracolosi” mesi, è che questi regimi si sono dimostrati molto più
fragili di quanto sia alcuni studiosi che i loro sponsor occidentali potessero immaginare.
Questa fragilità ha delle ragioni precise, e difatti uno sguardo non superficiale avrebbe saputo
riconoscere vari segni della crescente debolezza del regime egiziano. Mentre i burocrati delle
istituzioni economiche internazionali consideravano l’Egitto una esemplare success story con
l’aumento del Pil e la riduzione del debito pubblico nel corso degli anni Duemila, pochissimi –per
quanto grottesco sembri– sembravano registrare la ricaduta sociale dell’applicazione delle ricette
neo-liberali. Con l’inflazione quasi raddoppiata, il crollo del potere d’acquisto di salari spesso
bloccati, e un vero e proprio esercito di disoccupati o sottoccupati l’immagine non era poi così
rosea.
Ma il prezzo delle riforme non è stato pagato solo dalle classi più povere, con quasi il 40% della
popolazione che vive nei pressi o al sotto della soglia di 2 dollari al giorno, ma anche dalle classi
medie, impoverite dalla mancanza di un impiego adeguato ai propri studi e ridotte quasi senza
alcuna prospettiva, nel momento in cui anche il sogno dell’emigrazione in Europa sta tramontando a
causa dell’implementazioni di leggi che hanno reso l’UE sempre più una “fortezza” impenetrabile.
A inasprire siffatta situazione e ad alimentare la rinascita di una mai sopita lotta di classe
provvedeva l’ostentazione della nuova classe di oligarchi, riuniti intorno al delfino Gamal Mubarak,
e “rinchiusi” nei nuovi compound al di fuori della capitale o nelle nuove città turistiche sulla costa
mediterranea.
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In tale contesto, non dovrebbe essere sorprendente che negli ultimi quattro o cinque anni scene di
proteste e scioperi di lavoratori di ogni settore siano entrate nel panorama cittadino quasi quanto le
Piramidi e il Museo Egizio, in particolare nel biennio 2009/2010.
Per rispondere a queste tensioni, negli anni Novanta il regime era ricorso alla “liberalizzazione
politica”, ancorché incerta e insincera, ma nell’ultimo periodo questa strategia non è stata più
percorsa, principalmente per i contrasti sorti interno al sistema al potere, a scapito della legittimità.
Come già ricordato proprio in queste pagine (Teti & Gervasio, 2010), le ultime elezioni per
l’Assembla del popolo dello scorso novembre dimostravano, con la scarsissima affluenza alle urne,
gli episodi diffusissimi di brogli ed intimidazioni, con ampio ricorso alla violenza sia delle forze di
sicurezza che dalla temuta baltagiyya (ragazzotti disoccupati in borghese pagati per terrorizzare gli
elettori), quanto il regime fosse in difficoltà e costretto a ripiegare sempre di più sulla repressione e
sulla censura – la “ferocia” additata da Ayubi – per mascherare sia la crisi di consenso che al lotta
intestina in vista delle elezioni presidenziali. In tale senso, la percentuale del 93,1% di consensi e la
scomparsa dell’opposizione dal Parlamento non potevano essere più fuorvianti nel segnalare un
consenso politico e sociale del tutto inesistente. In realtà, un regime che ha bisogno di reprimere
ogni minimo dissenso, tramando per liquidare le voci più note della stampa indipendente, come
Ibrahim ‘Isa, fino al grottesco divieto di impedire l’invio di sms multipli dallo stesso numero di
cellulare allo scopo di ostacolare le comunicazioni e le “adunate sediziose”, dimostra una intrinseca
debolezza, con buona pace dei tanti “esperti” occidentali e locali.
Lungi da una interna stabilità o da ogni forma di legittimità popolare, carismatica o di classe, in
questa condizioni la sopravvivenza del regime dipende da una miscela di paura, demobilizzazione
politica e “protezione” esterna. Tuttavia, adesso si può affermare che siffatta stabilità è
potenzialmente durevole ma strutturalmente precaria e travolgibile da movimenti sociali e si
protesta popolare. Le centinaia di migliaia di cittadini che si sono riversati nelle piazze del Cairo e
dell’intero Egitto a partire dal 25 gennaio 2011, sfidando il consolidato terrore delle forze di
sicurezza (al-Amn al-markazi) e la loro effettiva violenza stanno a dimostrare quanta poca
legittimità fosse rimasta a un regime che pure una volta era stato l’esempio di legittimità
rivoluzionaria e carismatica nell’area araba. Pertanto, se è vero che Mubarak ha saputo mantenere il
potere per quasi tre decenni, dosando sapientemente il bastone e la carota, è altrettanto evidente che
l’emergenza di una opposizione popolare lo ha costretto a lasciare la presidenza in pochi giorni,
essendo egli stesso divenuto il simbolo della corruzione e del fallimento sociale, economico e
politico del sistema al potere.
Qualunque sia l’esito della “rivoluzione” o “rifo-luzione”, come suggerisce Bayat (2011), egiziana,
resta il dato che essa ha dimostrato la debolezza e la fragilità dell’autoritarismo.
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I limiti del neo-liberalismo
La seconda riflessione offerta dalla Thawra egiziana è che ci sono limiti concreti alla velocità e
all’intensità delle riforme economiche neoliberali. Forse non è un caso che solo pochi giorni prima
del 25 gennaio, il Fondo monetario internazionale aveva raccomandato al governo egiziano di
tagliare ulteriormente i sussidi per i beni di prima necessità, ancora una volta ignorando la ricaduta
sociale di tali scelte. Eppure, la rivolta egiziana del gennaio 1977, che aveva quasi abbattuto il
regime di Sadat, era stata causata proprio da un’analoga decisione, dettata dagli organismi
economici internazionali. Come allora, la rivolta del 2011 dimostra che la liberalizzazione
economica senza democratizzazione del sistema politico non solo marginalizza i ceti che promette
di beneficiare, ma favorisce l’emergenza di monopoli e di una nuova classe di oligarchi, che non
può che inasprire la rabbia delle classi subalterne, vittime sacrificali delle riforme. Perciò, non è un
caso che la prima manifestazione, sull’esempio tunisino, sia stata convocata come un “giorno di
rabbia” e che gli slogan di giustizia (‘adala) e dignità (karama) sociale siano andati di pari passo
con la agognata hurriyya (libertà). Se la politicizzazione, intesa come partecipazione organizzata,
delle masse egiziane è sempre stata limitata e precaria per varie ragioni, solo la frustrazione e la
disperazione derivanti dal deteriorarsi delle condizioni economiche possono spiegare la massiccia
partecipazione popolare alla rivoluzione, che ha superato di gran lunga anche le aspettative degli
organizzatori. Nonostante le proteste fossero state organizzate da gruppi dell’opposizione laica
come il movimento dei giovani del “6 Aprile”, da sindacati indipendenti o da altri gruppi della
società civile, la presenza preponderante di cittadini senza alcuna esperienza politica o di protesta
ha spinto alcuni osservatori a definire il movimento una “rivoluzione senza leader”, proprio per il
ruolo sostanzialmente marginale dei gruppi politici organizzati nei giorni decisivi.
Va precisato che non erano certo solo i ceti più poveri a scendere in piazza, anzi, soprattutto nelle
aree urbane, come Il Cairo, Alessandria e Suez, probabilmente il ruolo principale nella rivolta è
stato assunto da studenti e dall’esercito di neolaureati che, come già accennato, non trova adeguata
collocazione professionale, pur essendo dotato di buona preparazione e globalmente connesso
grazie alla diffusione di internet tra i giovani (urbani) egiziani. Analogamente, sottolineare la
mancanza di una leadership non vuol dire negare il peso dei gruppi organizzati sia nella
preparazione delle manifestazioni che nell’assicurare il carattere per lo più pacifico delle stesse.
Una rivoluzione post-islamica
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La terza considerazione che si impone riguarda il ruolo dell’Islam politico nelle rivolta egiziana e
negli storici avvenimenti che tutta la regione sta vivendo nel 2011. I Fratelli Musulmani, usati e
abusati dal regime come spauracchio per “giustificare” la mancanza di aperture politiche in nome
della presunta minaccia islamica, sono stati, in realtà, i grandi assenti della rivoluzione, quanto
meno per quanto riguarda le prime giornate e la leadership della Fratellanza, peraltro divisa in
correnti come ogni movimento politico di una certa grandezza. Non solo, infatti, anche l’ala
“riformista” e “politica” dell’organizzazione aveva risposto molto cautamente all’invito dei giovani
del 6 aprile a partecipare alla giornata del 25 gennaio, ma lo stesso leader dei “riformisti”, ‘Isam al‘Aryan, si difendeva dalla accuse del Ministero dell’Interno affermando con veemenza che “i
Fratelli erano del tutto estranei alla rivolta”. Le settimane successive hanno visto una crescente
partecipazione soprattutto dei giovani islamisti, soprattutto nei governatorati minori, ma hanno
altresì confermato sia la crescente insofferenza della nuova generazione nei confronti della vecchia
guardia all’interno della Fratellanza, sia l’atteggiamento di sostanziale “quietismo” e la manifesta
incapacità della leadership in carica di offrire un’alternativa chiara e credibile al regime, soprattutto
in campo economico e sociale, dove le più recenti piattaforme dei Fratelli, a favore di
privatizzazioni e riforme varie, erano ben poco distinguibili dalle scelte promosse dall’élite al
potere. Questa sostanziale moderazione di una cospicua parte della Fratellanza, confermato anche
dalla scelta di allearsi di fatto con i sopravvissuti del Pnd per il referendum costituzionale di marzo,
non può sorprendere se si considera il ruolo secondario, se non del tutto inesistente, della
Fratellanza nella ripresa dell’attivismo operaio a partire dal 2006, e ciò aveva fatto emergere la
contraddizione tra la presunta egemonia degli islamisti nella società egiziana e la loro sostanziale
assenza dalle lotte dei lavoratori del Paese.
Queste considerazioni non intendono negare che i Fratelli Musulmani potranno avere un ruolo di
primo piano nei prossimi mesi, quanto sottolineare, di fronte alla persistenza di miti sul complotto
islamico e sulla paura che si possa ripetere uno scenario iraniano, che le forze islamiste hanno avuto
finora un ruolo abbastanza secondario e soprattutto che le loro leadership in particolare non sono
portatrici, nonostante le divisioni accennate, di istanze rivoluzionarie. Ciò detto, sarà imperativo,
per le forze democratiche, ingaggiare la Fratellanza in un dialogo costruttivo se si vuole ambire a un
vero cambiamento in Egitto, offrendole un’alternativa reale all’alleanza con elementi chiave del
vecchio regime.
Inoltre, riguardo la presunta connotazione religiosa, va ricordato anche che l’ “Islam ufficiale”
rappresentato da al-Azhar si era dapprima pronunciato contro le protesta, salvo poi cambiare
opinione dopo le prime giornate e gli scontri di piazza. Allo stesso modo, mentre il papa Shenuda
aveva raccomandato ai copti di non partecipare, l’insurrezione ha abolito, almeno per qualche
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giorno, ogni differenza confessionale poiché gli egiziani si sono riversati nelle piazze del loro Paese
in massa, senza distinzione confessionale, e nei giorni drammatici della repressione delle forze di
sicurezza, la formazione di comitati spontanei interconfessionali era l’ennesima manifestazione del
carattere popolare ed essenzialmente secolare della Rivoluzione. Da questo punto di vista, è
evidente la distanza che separa le leadership religiose dai comuni cittadini scesi in strada a
manifestare la propria rabbia e la propria voglia di cambiamento senza farsi ingabbiare nella
trappola della violenza interreligiosa. In definitiva, il punto principale resta che l’appartenenza
religiosa e l’ideologia islamista hanno avuto un ruolo marginale nella rivolta.
Qualche conclusione
Non è dato prevedere quale sarà il corso degli eventi in Egitto, se la rivoluzione diventerà una “refoluzione” capace gradualmente di imporre una nuova classe politica e un nuovo sistema producendo
istituzioni democratiche ed una costituzione laica, oppure se i militari assieme ad eventuali nuovi
alleati riusciranno ad assicurare la sopravvivenza di alcuni elementi dell’ancien régime. Poco dopo
le dimissioni di Mubarak, i militari hanno brevemente riaperto la dogana di Rafah e concesso
passaggio a due navi della marina iraniana in tragitto per la Siria. Da allora i cambiamenti di rotta in
politica estera sono stati notevoli: favorire la riconciliazione Fatah-Hamas, bloccare la costruzione
del muro d’acciaio ‘blocca-tunnel’ al confine con Gaza (pagato con fondi statunitensi), indicare una
nuova linea sulla ‘pace fredda’ con Israele, e la dichiarazione – da parte di Sami Anan, il generale
forse più vicino agli Usa – la riapertura permanente di Rafah sono tra le iniziative più in vista del
regime militare. Se da un lato ciò potrebbe segnalare una nuova sensibilità all’opinione pubblica
egiziana, è anche vero che in passato è tramite la politica estera che il regime ha cercato una
legittimità evanescente nel contesto interno. E dalla scena interna provengono gli sviluppi che più
lasciano perplessi: decreti anti-sciopero, arresti e processi sommari in tribunali militari, riforme solo
cosmetiche delle forze di sicurezza, le nomine di vecchie conoscenza del regime a nuovi
governatori regionali, e soprattutto quella legge sull’emergenza che i militari si ostinano a non
cancellare. Elementi incoraggianti ci sono, a partire dal pluralismo delle forze Islamiste e
soprattutto dal forte dibattito interno alla Fratellanza musulmana che rischia di spaccarsi, a finire al
movimento operaio che continua ad essere la fonte più costante di pressione sul governo militare.
Se la democrazia in Egitto è lungi dall’essere consolidata, le forze democratiche in Egitto sono
chiaramente presenti.
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Quale che sia il futuro immediato, la lezione principale della rivolta di gennaio consiste nella
dimostrazione che l’opposizione reale risiede nelle masse piuttosto che nei partiti legali e nelle
leadership che pretendevano di rappresentare il popolo, e ciò vale non solo per gli islamisti ma
anche per i liberali del Wafd e la sinistra moderata del Tagammu‘. Sconfessando ogni fantasia
razzista e orientalista, che voleva gli Egiziani docili e pronti ad accettare il “despotismo faraonico”,
centinaia di migliaia di cittadini sono scesi in piazza sfidando la repressione, la propaganda e
finanche i propri leader religiosi e politici, costringendo uno dei più longevi governanti della
regione a ritirarsi ed abbandonare le pretese dinastiche per la propria famiglia. Le cause prime della
rivolta vanno cercate nelle ricadute sociali ed economiche delle riforme strutturali intraprese dal
regime negli ultimi anni che hanno inferto un colpo durissimo a buona parte della popolazione. Il
deteriorarsi della situazione economica, l’intensificazione dell’attivismo operaio, la diffusione,
anche attraverso i nuovi media, di richieste di democratizzazione politica, uniti a eventi contingenti
come l’assassinio da parte delle forze di sicurezza del giovane attivista Khaled Sa‘id (giugno 2010)
e il successo della rivolta tunisina sono alla base degli eventi in Egitto. Le altre lezioni principali
della thawra restano il monito sulla possibile fragilità dei sistemi autoritari, il dato che le riforme
neoliberali hanno un alto rischio politico, oltre che un alto costo sociale, e infine l’invito alla cautela
nel leggere la politica d’opposizione egiziana e mediorientale solo in chiave religiosa (islamica),
dimenticando la politica di classe alla base delle domande di giustizia sociale.
Queste lezioni si impongono non solo agli studiosi e all’opinione pubblica ma anche ai governi
occidentali interessati a promuovere una reale stabilità nell’area, attraverso politiche di sostegno
alla democratizzazione che tengano conto degli attori locali prima che dei propri interessi strategici
ed economici.
Riferimenti Bibliografici
Ayubi, N. (1994), Over-stating the Arab State, IB Tauris, London.
Bayat, A. (2011), Paradoxes of Arab refo-lutions, «Al-Masry al-Youm English edition», 13 March,
http://www.almasryalyoum.com/en/print/351032
Lewis, B. (1990), The Roots of Muslim Rage, «The Atlantic Monthly», Volume 266, No. 3
(September).
Huntington S. P. (1991), The Third Wave: Democratization in the Late Twentieth Century,
University of Oklahoma Press, Norman.
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Teti, A. (2006), Democrazia, transitologia e Orientalismo. Riflessioni sulla democratizzazione nel
‘Grande Medio Oriente’, in Cappelli, O., G. Gervasio, A. Teti (a cura di), Oltre la
democratizzazione. Elezioni, politica e potere nel ‘Grande Medio Oriente’, numero speciale di
«Meridione», VI, 1.
Teti, A, G. Gervasio (2010), Le elezioni parlamentari in Egitto: nozze o aborto della democrazia?,
«afriche e orienti», vol. 12, n. 3-4.
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