La letteratura della sofferenza dell`uomo

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La letteratura della sofferenza dell`uomo
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LA LETTERATURA DELLA SOFFERENZA DELL'UOMO
Dopo un grande dolore viene un senso solenne,
stanno composti i nervi, come tombe,
il cuore irrigidito chiede se proprio lui
soffrì tanto? Fu ieri o qualche secolo fa?
I piedi vanno attorno come automi
per un’arida via
di terra o d’aria o di qualsiasi cosa
indifferenti ormai:
una pace di quarzo, come un sasso.
Questa è l’ora di piombo, e chi le sopravvive
la ricorda come gli assiderati
rammentano la neve:
prima il freddo, poi lo stupore, infine
l’inerzia.
(Emily Dickinson, Tutte le poesie, a cura di M. Bulgheroni, Mondadori, Milano 1997, n.
°341)
Parlare del dolore con giustizia, con rettitudine... per riuscirci, o almeno per disporci
a tentare, possiamo soltanto agire come Mosè nel deserto di fronte al roveto ardente:
toglierci i sandali e coprirci il capo alla presenza della fiamma che sale e del roveto
che ne è penetrato e insieme avvolto - al suono della voce che esce dal roveto e dalla
fiamma: essa dichiara con chiarezza che la terra su cui ci troviamo è santa, e non
pone limite a tale santità.
Il dolore, per lo più, lo attraversiamo - o così, almeno, ci sembra: eppure, esso si
avvicina a noi, entra e brucia in noi e intorno a noi, come salendo dalla nostra carne e la voce che esce dalla fiamma, impossibile da riconoscere per noi benché sia anche la
nostra voce, esprime tutto di noi nell'immediatezza insostenibile del gemito o del
grido. Il dolore, per chiunque di noi, non sussiste mai in forma di puro spirito: esso è
carne umana che brucia, vita umana che arde e consuma - ci vuole per sé, ci circonda,
ci assedia, entra in noi e si nutre di noi - ed esce da noi, intorno a noi, come una
fiamma circonda il ciocco robusto che brucia in lei. Possiamo intravedere, nel fuoco,
ciò che così si consuma: una forma crepitante o affilata, un profilo che si sfalda,
riconoscibile ancora eppure già altro da sé; ma non possiamo stendere la mano, non
possiamo entrare nel fuoco e toccare, nemmeno per una carezza minima, dovuta nessuna mano può mai arrivare fin là. I retti di cuore chinano il capo e si avvicinano
a passi cauti, come verso un altare - e la barriera di fuoco li ferma; una voce si leva:
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un mormorìo parlante. Ciò accade ovunque arda un roveto: e dunque, poiché è
infinita la sofferenza intorno a noi e vicino a noi, e mai la voce si concede una pausa,
la terra in cui siamo è santa.
Quando l'abbiamo attraversato, il dolore, quando ci siamo allontanati dalla santità
rovente di quella terra - sia che fossimo noi il roveto, sia che lo contemplassimo da
vicino, al di fuori del fuoco ma lambiti e bruciati da lui - il capo è ancora coperto, i
piedi sono scalzi: il fuoco alto ha consumato molto di noi o di chi amavamo - tutto, a
volte: può accadere. La fiamma si è ritirata - chissà dove, chissà per quanto - e noi
andiamo in silenzio, increduli e stupefatti, solenni nel passo del corpo e nell'anima
che non è più la stessa. La fiamma del roveto ci torna alla memoria, e ripensiamo a lei
esattamente "come gli assiderati ricordano la neve": eppure, aveva una voce quella
fiamma, e la terra che sentivamo ardente sotto la pianta nuda dei piedi era santa.
Le poesie di Emily Dickinson, sempre, sono un verbo immacolato. Vorremmo,
stasera, riflettere sul dolore - o, almeno, tentare di farlo ascoltando alcune voci della
letteratura: ma con giustizia, con rettitudine - con il capo coperto e i piedi scalzi,
l'orecchio teso alla voce del fuoco e alle forme che possiamo scorgere ancora e sempre
dentro di lui. Facciamo nostro un auspicio, un "desiderio di espressione fedele";
perché "noi siamo ciò che ascoltiamo". E' Roberta de Monticelli a pronunciare per noi
questo voto, in una pagina recente alla quale possiamo soltanto assentire in silenzio,
senza aggiungere nulla di nostro - riconoscendo il timbro di una voce giusta, di una
riflessione retta: rivolta al figlio e al miracolo delle sue piccole mani che suonano
Bach sulla tastiera del pianoforte, questa pagina può farci da segnavia, darci il "la"
per ascoltare e iniziare a parlare, a rispondere.
E così, vedi, le tue piccole mani fanno ogni giorno un breve miracolo più
facilmente che tutte le mie parole. "Il cielo ride" - Der Himmel lacht è il titolo
della cantata che suonavi al piano: ma in Bach è tutto diverso, il sì è sì e il non
è il no, il cielo è il cielo e l'inverno è l'inverno.
Già: potessero anche in noi, improvvisamente, tutti i sospiri del giorno dar
voce come a canne d'organo, così che anche il pianto si facesse sinfonico e
armonico. Allora ogni lamento avrebbe la sua propria consolazione: la sua
propria nota, un segno eterno. Diventerebbe musica. Poche giornate
basterebbero a dare la chiave armonica di una vita.
Ma non è così. Solo alcuni attimi ci sono dati, brevi e tuttavia perfettamente
compiuti come degli Impromptus schubertiani, in cui possiamo ascoltare,
svolto in un ragionamento musicale limpido e sereno, ciò che siamo e di cosa
viviamo. Allora succede qualcosa di simile al vedere sapendo che si è veduto
qualcosa oltre il visibile, ma senza sapere cosa. La stessa nostalgia ci prende,
e lo stesso desiderio di espressione fedele. Ma quando quello che ci afferra,
assai più che un vedere, è un udire, quando il suo oggetto è un accordo o un
tema e l'inizio di un ragionamento musicale, allora noi siamo tutti
nell'orecchio che ascolta, non nell'occhio che vede.
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E insieme, però, io non sono l'orecchio che ascolta, sono anche ciò che ascolto. (Roberta De Monticelli, Dal vivo, Rizzoli, Milano 2001, pp.117-118)
Ascolteremo, ora, alcune poesie di Umberto Bellintani, Carlo Betocchi, Giuseppe
Ungaretti e Emily Dickinson: la scelta è stata operata in coerenza con lo spazio sacro
che ci ospita e con il tempo di grazia che vi viene celebrato in queste settimane - un
esercizio di ascolto, dunque, e non un esercizio accademico. Nelle intenzioni della
chiesa cristiana, la Quaresima vuol essere un tempo di ascolto - perché davvero noi
siamo quello che ascoltiamo, e la parola che ascoltiamo ci plasma nei limiti in cui
glielo permettiamo.
Penso che le parole della letteratura siano innanzitutto una riserva di consapevolezza
e di felicità nell’ascolto, perché chi ascolta scopra chi è e sappia ascoltare sempre
meglio. “Letteratura” non è un termine del tutto adatto: chi vi si accosta e ne gusta la
vicinanza, si sente più portato a dire parola amica, parola che dice un po’ di noi con
una sincerità disarmante; parola che ci fa vibrare, che si esprime e ci viene incontro
per metterci in vibrazione con lei grazie a un senso esatto del giusto e del bene;
parola come talismano, che ci accompagni e ci guardi dall’ottusità del male (il male
non sa ascoltare, mai; e se parla, qualunque cosa dica, la distorce); parola che ci
riconosca e che ci aiuti a riconoscere chi siamo e chi ci vive intorno in una verità di
riconciliazione; parola fraterna che ci viene incontro con vestito di festa e mani
cariche di doni, con stupende mani: nella qualità dello stile, cioè nella capacità
purissima e alta di significare.
Per questa sera, la scelta è caduta su alcuni testi poetici, per la coincisione e la
penetrante nitidezza della loro presenza sulla pagina: possono essere accolti
immediatamente, per il loro semplice essere qui assieme a noi.
Laddove il pensiero e l’espressione riescano a cogliere la nuda profondità del nostro
essere, la sofferenza esiste come dato originario: essa ha a che fare con la nascita e con
la morte, con il tempo e con il mutamento. Nella loro varietà e unicità, diversi
momenti della nostra esistenza possono essere riuniti sotto quest’unico segno, e
identificati come forme o manifestazioni di un unico soffrire. C’è una differenza
netta, si sente dire, tra chi ha conosciuto il dolore e chi non lo ha conosciuto - e non si
specifica, in genere, di quale tipo di dolore si tratti: basta un’esperienza dolorosa, una
sola, a comporre come il gradino di un percorso di iniziazione alla vita e alla
saggezza, di conquista della dignità.
Eppure, l’esperienza del dolore tende ad una assolutezza intrinseca: ogni dolore si
pone come unico, e non accetta se non raramente misure o confronti. E' misurabile - o
si presenta come tale - solo sulla base di se stesso, e sempre in scala 1:1; difficilmente
tollera di essere sminuito nel confronto con altri dolori o con dolori altrui. Pur
essendo percepito come esperienza universale, universalmente condivisa, ha un
aspetto soggettivo ineliminabile e preponderante. E’ impossibile da comunicare,
nella propria realtà; eppure, non ama più di tanto la discrezione: tende per natura
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propria a farsi presente, chiede di essere confidato e si trasmette quasi
spontaneamente, per un bisogno che gli è connaturato. E’ opinione comune che
raccontare un dolore significhi di per sé alleviarlo, e che chi soffra abbia bisogno di
parlare o di ascoltare il racconto di altri dolori chiunque, inoltre, giudicherebbe
degno di ammirazione un uomo che sapesse tacere un dolore forte - o anche un
piccolo dolore. L’espressione del dolore è immediata e sonora: il gemito, il lamento che deforma la
voce al punto da renderla irriconoscibile; il suo regno è l’inarticolato, il primordiale;
la ripetizione, nel pianto, dell’unico singhiozzo bussa tragicamente al silenzio
dell’aria, sempre uguale, solo più o meno fioco; come nell’infanzia, quando si ripete
un gesto più volte (l’oscillare del capo, il picchiare in terra con il piede), all’infinito. Il
volume di suono può variare dal fortissimo al pianissimo, senza che venga meno
l’intensità del dolore che si trova espresso.
Di noi, tutto viene a comporsi, prima o poi, nell’unità del dolore: viene il momento, e
può venire più volte, in cui siamo tesi nella percezione del dolore - tutt’uno con tale
percezione. Al dolore chiediamo spesso conto di tutta l’esistenza, nostra e dell’intero
universo: esso è un denominatore comune, che ci affratella a tutti gli altri esseri,
senza distinzione alcuna - e al tempo stesso, testimonia della nostra unicità, ci
identifica e ci isola in una solitudine incomunicabile. E il dolore, infatti, così pronto a
uscire da noi come gemito o racconto, a un certo punto diventa silenzio - e fissità o
impenetrabilità dei lineamenti; e desiderio di solitudine e solitudine reale,
perfettamente avvertita come tale.
E’ difficile che il nostro desiderio di espressione trascuri il dolore - e che lo trascurino
dunque le parole che si dotano di stile e di bellezza per donare luce o per raccontare
l’inquietudine dell’ombra. Le nostre parole, però, quando esprimono il dolore,
rischiano di essere impudiche o inopportune - o, ancora, così violentemente
possedute dal dolore da essere insostenibili.
Un ricordo di guerra apre Canto autunnale, l’ultimo libro di Umberto Bellintani, poeta
mantovano scomparso nel 1999: la scena si presenta ai nostri occhi in tutta la propria
tragica evidenza, e il linguaggio rende presente la memoria. Assistiamo a una liturgia
di morte, a un rito di dolore efferato ed estremo voluto dall'uomo contro l'altro
uomo, programmato e giustificato, messo in atto con la chiara intenzione di uccidere:
un’impiccagione davanti alle macerie di una chiesa diroccata dai bombardamenti.
Qui, la distruzione celebra il proprio trionfo su un uomo inerme - ma non è questa,
per Bellintani, l’ultima parola: il rito d’orrore cerca un canto di speranza,
un’affermazione di luce e un invito alla pace.
Qui è la forca elevata contro il muro
d'antico tempio abbandonato, e qui vedrai
un uomo appeso. Al rullo del tamburo
s'avanza sostenuto dal soldato,
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nel cicaleccio innocente dei monelli
che gaio irrompe in quest'ora di sventura.
Qui è la voce terrena, in questa dura
sorte. E la bellezza si spezza; e dall'offeso
tempio diroccato del Signore
ancora è un falco che stride sulla morte.
Ma qui tu fonda, ché puoi, la tua speranza;
qui, di giustizia in altro tempo e in altro spazio,
per questa umana sentenza che trascina
al palo ritto della morte l'innocente,
eleva un grido esultante di certezza.
Non dubitare che una mano non riporti
all'occhio cieco della madre il dolce figlio;
non dubitare che un bel giorno non congiunga
divisi rami.
Ma ti spaventi la morte per l'eterno:
alleva in cuore la forza di combatterla.
(Umberto Bellintani, Canto autunnale, a cura di I. Bosetto, Perosini Editore, Verona
1998, p.23)
"La bellezza si spezza": la voce dell’uomo che assiste alla "dura sorte" dell’innocente
ucciso - chi soffre ed è ucciso, sembra suggerire il poeta, non può che essere
innocente: nulla può meritare ad un uomo questa fine - cerca di farsi "grido" sì, ma
"di certezza", tenta l’esultanza di chi spera. Con la speranza non si può scherzare:
essa è un osare assoluto, uno scatto di tutte le forze morali disponibili, un
trasformarsi del grido. C’è già un falco che "stride sulla morte": o sostiamo in
silenzio, o eleviamo un grido a nostra volta, ma di speranza: è possibile, Bellintani
non ha dubbi. C’è già il falco ad approvare la morte, a ripeterla nel cielo come un eco:
non c’è bisogno di un’altra voce - al dolore e alla morte non è giusto concedere la
vittoria che conquistano comunque, senza il nostro aiuto. C’è da combattere "la morte
per l’eterno": impedire che l’offesa del dolore e della morte contemplati o patiti ci
trasformi in falchi a nostra volta, ci renda schiavi della disperazione. Sarà bello il
giorno del trionfo della vita e della gioia, se pure mai verrà; ora, però, dobbiamo
combattere rifiutando di essere falchi che stridono sulla morte, tentando "un grido
esultante di certezza". Bellintani ci dà un imperativo assoluto, che è davvero un
paradosso: dobbiamo fondare qui la nostra speranza. Le parole sono dense, pregnanti:
si tratta di fondare la speranza in ciò che sta accadendo, non di mantenerla nonostante
lo spettacolo orribile che si svolge di fronte ai nostri occhi. Dobbiamo cercare le ragioni
per sperare esattamente in quello che vediamo, ci dice Bellintani, non al di fuori o al di
sopra di esso. La ragionevolezza dell'imperativo del poeta, così chiaro nella sua
formulazione (tu fonda, ché puoi=perché puoi), ci appare forse comprensibile se
consideriamo che la "dura sorte" dell'uomo che muore è "voce terrena", e che la
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sentenza che lo "trascina al palo ritto della morte" è "umana". Dal massacro a cui
assistiamo, dunque, nulla sorge a negare una "giustizia in altro tempo e in altro
spazio", anzi: ne afferma la necessità, ne garantisce l'esistenza. Si tratta di
lungimiranza, non di illusione consolatoria, o di colpevole indifferenza; spesso,
infatti, nelle consolazioni religiose alle nostre sofferenze ci sembra di avvertire un
intento mistificatorio, un minimizzare la realtà dei fatti rapportandoli ad altri o
invitando a distogliere lo sguardo da essi. A chi soffre, spesso si dice di pensare alle
sofferenze di Gesù e non alle proprie, e gli si garantisce che così le sue appariranno
più piccole e quindi più tollerabili; o, peggio, si afferma che Gesù soffrì più di lui
benché innocente, mentre noi che siamo peccatori, in fondo, non soffriamo come
meriteremmo; si invoca un disegno misterioso di Dio in cui ciò che a noi appare un
male (una malattia incurabile, una menomazione, un incidente invalidante) sarebbe il
nostro vero bene, e che tale ci apparirà quando vedremo le cose da lassù. Il
campionario sarebbe molto lungo, e credo che i cristiani dovrebbero prestare più
attenzione a non offendere la sofferenza nel tentativo di consolarla, perché essa non
può né vuole, per la propria dignità, essere consolata in questo modo. Bellintani
accetta la realtà, la riconosce e la contempla appieno, senza trucchi che possano
diminuirne l'atrocità (e quante vigliaccherie sono frutto delle buone intenzioni!):
questa è la voce terrena, ed è una "dura sorte"; nulla resiste, nemmeno la bellezza. La
giustizia non si mescola all'ingiustizia: i rami divisi saranno congiunti, e possiamo
sperarlo e gridarlo con certezza semplicemente perché è così orribile la vicenda che
porta alla loro divisione, così infinito il dolore della madre a cui è strappato il figlio,
che dovrà esistere una riparazione, e una salvezza non potrà mancare. Per Bellintani,
questa salvezza che saprà trionfare sul dolore e sulla morte non è grazia, ma giustizia pura
e semplice. Il dolore ha una sua legittimità nella nostra esistenza, e chiede un proprio spazio,
anzi: viene e se lo prende, ci invade e ci scuote come un terremoto sa scuotere le
montagne e farle gemere - e Dio, dov'è? Noi, che cosa siamo? Ascoltiamo una poesia
di Carlo Betocchi.
Lui che mi dette con la vita il corpo,
questo campo robusto che assicura
l'anima, in cui alligna e matura la grazia,
Lui non ha avuto paura che mi guastassi,
che perdessi la fede: ed ha lasciato
che il nemico infierisse. Che cos'è
che voleva, allora, se non che alla fine
mi ricordassi che non si vive di solo pane, e nemmeno soltanto di grazia,
ma anche di buio coraggio di quando
Lui può mancarci: e occorre rifarlo in noi,
e riconoscersi vivi nei gemiti
delle montagne squassate dai terremoti,
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perché l'evenienze del mondo sono
infinite, le catastrofi miserevoli
e senza alcuna spiegazione plausibile
alla nostra esigenza d'amore. Lèvati
allora, e datti da fare col tuo
coraggio. Dio ti riconoscerà per suo.
(Carlo Betocchi, Tutte le poesie, a cura di L. Stefani, Garzanti, Milano 1996, p. 571)
Una voce purissima, questa di Carlo Betocchi: una presenza appartata nel
Novecento, un po' come Bellintani: un "vero cristiano" nella testimonianza di Alda
Merini e di chi lo conobbe - un uomo buono, incapace di mentire per virtù di
perfezione. Egli ci invita a "riconoscerci vivi" anche nel "gemito" - perché no?
Nessuna realtà - ad eccezione dell'esatto opposto del dolore, cioè della gioia - ha il
potere di unificare il nostro essere, di "assicurare" saldamente l'anima al corpo come
sa fare il dolore. Noi siamo un corpo animato, e corporea è la vita che ci è stata data:
nel dolore, siamo pura percezione, corpo che soffre e percepisce il patire, corpo in cui
percezione e pensiero, ansia e ricordo, speranza e proiezione al futuro si uniscono in
una realtà indivisibile, cioè nella vita terrestre del corpo. Nel corpo e non altrove
"matura la grazia"; nel corpo viene data la vita, e non altrove. Il dolore ci svela il
corpo come "campo robusto", lo coinvolge e lo colpisce, lo unisce saldamente a sé e lo
mostra come imprescindibile per l'anima, per la vita e per la grazia - tutt'uno con la
vita che è stata data e con la grazia che matura in esso, tutt'uno con l'anima che il
corpo tiene stretta come può fare un'àncora con una barca, assicurandola saldamente
a sé. Non ha importanza, ora, chiarire ciò che ognuno di noi intenda con le parole
"anima" e "grazia".
Il gemito ha in sé la legittimità di tutto ciò che esiste: è espressione sincera e fedele di
una realtà indubitabile - del corpo, dell'anima, della vita e della grazia unite nella
percezione del dolore. Il gemito può essere così alto da oscurare il cielo e nascondere
Dio - e Dio, ci dice il poeta, non ha paura che ciò accada. Non si vive di solo pane, ma
neanche di sola grazia: al pane e alla grazia si affianca il "buio coraggio" di quando
lui "può mancarci" - perché può accadere questo, e non è per nostra colpa che Dio può
venire meno in noi quando il dolore viene a riempirci di sé. Pensiamo al grido di
Gesù sulla croce: "Perché mi hai abbandonato?". Nessuno dica che lo gridava non per
sé ma per noi, nel quadro della soddisfazione vicaria che andava compiendo nei
confronti della divina giustizia in ragione della divina misericordia, o che così si
espresse per significare la propria piena e concreta solidarietà con gli uomini
peccatori, realmente convinti di essere abbandonati da Dio quando, invece, è certo
che Dio non abbandona mai, cosa che Gesù sapeva benissimo - non offendiamo il
Verbo che accusava il Padre gemendo e gridando verso di Lui (sarei per dire: contro
di Lui), che gli chiedeva ragione del massimo delitto che un padre possa compiere:
l'abbandono del figlio nelle mani del dolore e della morte. C'è da riconoscersi vivi
anche allora, ci dice il poeta, anche nel gemito che solo esiste e riempie l'orizzonte
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scacciando e accusando Dio: è vita legittima, questa - e il gemito è ineludibile,
inspiegabile, impossibile da minimizzare. Non si offenda il dolore togliendogli lo
spessore di realtà che possiede e che gli va riconosciuto: "le evenienze del mondo - ci
dice ancora il poeta - sono infinite, le catastrofi miserevoli" - lo sono realmente. E'
bene piangere quando è giusto piangere, senza trattenere le lacrime che vedono e
sentono l'anima, il corpo e la grazia - le lacrime sensitive, percipienti. Il corpo - e in
lui la vita, la grazia, l'anima - ha una sola esigenza: l'amore. E' questa la misura di
tutte le cose, e alla luce della nostra esigenza d'amore non c'è spiegazione al dolore nessuna spiegazione plausibile.
A volte - divorati dal dolore o da lui attraversati e arsi ma alla fine risparmiati - è
necessario e onesto "rifare Dio in noi", "levarsi", "darsi da fare" con un "buio coraggio":
perché davvero "lui può mancarci", e non è per colpa che ciò accade. Il poeta è certo che
Dio ci riconoscerà per suoi se avremo fatto questo - perché "non c'è spiegazione
plausibile per la nostra esigenza d'amore". Gemere non è una colpa, né sentire che
Dio può mancarci, né darci da fare con esiti alterni ed incerti per salvare in noi
almeno un po' di lui; e non lo è dubitare delle spiegazioni che tenta a volte chi vuole
consolarci, plausibili forse per altre esigenze d'amore, ma non per la nostra.
Restano, pur nel dolore, l'anima e la grazia; resterà anche il corpo, se è vera la
promessa di Cristo e se Dio si è fatto corpo e ha realmente patito, ed è realmente
risorto come i cristiani proclamano nella notte di Pasqua. Insostenibili, se li
guardiamo, il corpo e il volto del crocifisso: un corpo appeso e trafitto, che ha sofferto
fino allo sfinimento estremo, e che ha gridato un perdono e una frase impossibile da
ripetere fino a quando non sarà perfettamente vera anche per noi. Quelle poche
parole, echeggiate una volta e così presenti, ancora, nel silenzio delle immagini, come
ferme e diffuse nell'aria intorno a loro e tra noi e loro... E noi che ci sentiamo in colpa
perché Dio può mancarci, e occorre a volte rifarlo in noi con un buio coraggio,
levandoci e dandoci da fare come possiamo e senza riuscirci più di tanto; e abbiamo
vergogna di non riuscire ad accettare spiegazioni ragionevoli a ciò che non ha
spiegazione plausibile per la nostra esigenza d'amore.
E' ancora Bellintani a venirci in aiuto, rivolgendo lo sguardo al crocifisso - con le
parole forti e dure di chi era capace di stupende tenerezze. La lirica inizia con un
monito durissimo, che può urtare e offendere - ma il poeta lo rivolge solo a se stesso,
e non è suo desiderio accusare nessuno: vuole che la contemplazione del crocifisso
porti all'espressione di un desiderio liberatore che si leva come un pensiero di
fiamma e apre a nuove possibilità di vita e di pace.
Ipocrita
Continuamente ipocrita
Soltanto.
Lo sento. Lo sono.
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Lo sento ogni volta che t'incontro.
E ti vedo grondante di sudore
perderti e ritrovarti nell'Orto
del Getsemani.
Sei là,
luce nel buio, tenebra
nella luce.
Là, dove decidi l'accettazione.
E la croce è afferrata,
caricata sulle spalle
martoriate.
Ti massacri.
Sei tutto una piaga.
E finalmente ti vedrò irrigidito cadavere
(corpo nel nostro corpo,
corpo del nostro mondo)
riposare nel sepolcro
di Giuseppe d'Arimatea.
Rialzati e rapiscimi.
Inchiodami a te.
Gesù irato Gesù ridente
Gesù morente che muori
di continuo,
ala comunque
della bianca colomba
dell'Arca.
(Umberto Bellintani, Canto autunnale, a cura di I. Bosetto, Perosini Editore, Verona
1998, pp.58-59)
Durissimo il monito del poeta, comprensibile soltanto se Cristo è "corpo del nostro
corpo, corpo del nostro mondo" - se questo è vero, c'è una connessione intima tra
Cristo e il dolore che è nostro - quello stesso che unisce l'anima e il corpo, la vita e la
grazia, quello stesso che ci obbliga a darci da fare con un buio coraggio per rifare Dio
in noi, anche se non sempre ciò è possibile - se Cristo è "corpo del nostro corpo, corpo
del nostro mondo", ed è l'ala della bianca colomba che esce dall'arca di Noè in cerca
di terra asciutta, alta sull'ira del mare rigonfio, e torna con un ramo d'ulivo dopo aver
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compiuto il più rischioso dei voli, la più temeraria delle traversate - la colomba
lasciata andare sulle acque, fuori dall'arca, forse con poca o nessuna speranza: altre
colombe erano uscite da quello stesso pertugio, erano sparite alla vista e non avevano
fatto ritorno alle mani tese di Noè. Sconvolti e annichiliti i discepoli nel vedere e
sapere il maestro preda del dolore, trafitto e trattenuto dai chiodi del patibolo - e poi
chiusi nel cenacolo, a porte sbarrate, mentre i chiodi e la croce avevano compiuto su
di lui la loro opera, e l'avevano reso irrigidito e sfigurato cadavere, massacrato e
scagliato lontano dalla luce e dalla vita, piagato nell'aria e poi sepolto nella terra. E
lui, "corpo del nostro corpo, corpo del nostro mondo", torna ed entra, torna e mostra
le mani ferite, sorride e guarda come nessun uomo ha mai guardato e sorriso, allarga
le mani piagate e risorte e dice: "pace a voi". Egli non chiede, non spiega, non
racconta nulla, soltanto ritorna con una pace per noi; conosce la nostra esigenza
d'amore e il potere feroce dei chiodi, perché è "corpo del nostro corpo e corpo del
nostro mondo" - e questo è tutto.
La nostra voce, ora, può chiamarlo, rivolgersi a lui - come questa di Giuseppe
Ungaretti che ci viene da Roma occupata, durante l'ultimo conflitto: Roma devastata,
percorsa da orde di mostri, assediata da terra e dal cielo, riversa su di sé e sulle
proprie macerie, sonora dei pianti e del gemito dei provvisori spauriti superstiti,
irrigidita nell'attesa del domani. E' l'ora del dolore, e Cristo è invocato in un pianto
solenne, in un singhiozzo che brucia la gola:
Mio fiume anche tu, Tevere fatale,
ora che notte già turbata scorre;
ora che persistente
e come a stento erotto dalla pietra
un gemito d'agnelli si propaga
smarrito per le strade esterrefatte;
che di male l'attesa senza requie,
il peggiore dei mali,
che l'attesa di male imprevedibile
intralcia animo e passi;
che singhiozzi infiniti, a lungo rantoli
agghiacciano le case tane incerte;
ora che scorre notte già straziata,
che ogni attimo spariscono di schianto
o temono l'offesa tanti segni
giunti, quasi divine forme, a splendere
per ascensione di millenni umani;
ora che già sconvolta scorre notte,
e quanto un uomo può patire imparo;
ora, mentre schiavo
il mondo d'abissale pena soffoca;
ora che insopportabile il tormento
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si sfrena tra i fratelli in ira a morte;
ora che osano dire
le mie blasfeme labbra:
"Cristo, pensoso palpito,
perché la Tua bontà
s'è tanto allontanata?"
(Giuseppe Ungaretti, Il dolore, Mondadori, Milano 1992, pp.64-65)
Perché la sua bontà s'è tanto allontanata? Ma c'era, era presente quella stessa bontà
che adesso manca, e occupano il vuoto lasciato da lei macerie e cenere, e invadono lo
spazio aperto della sua mancanza i gemiti e i singhiozzi? Pensiamo a cos'è vagare tra
le macerie recenti, ancora fumanti - a molti di noi è accaduto, metaforicamente ma
con piena forza di realtà; ad altri, invece, accadde concretamente, come già ad
Ungaretti; a molti uomini, in questi mesi, accade quotidianamente - quando il mondo
intero si svela ai nostri occhi soffocando in una pena indicibile, abissale - e nessun
luogo è più al riparo: le case sono divenute delle "tane incerte", "agghiacciate" dai
"singhiozzi infiniti", e la notte "corre straziata" e l'attesa, se pure ce n'è una, è di altro
male ancora e di nient'altro che male. Le labbra serrate si fanno blasfeme: "Perché la
tua bontà s'è tanto allontanata?" Una ben strana bestemmia: dubitiamo che sia stato
possibile, che davvero abbia potuto allontanarsi una tenerezza divina, una bontà che
c'era, e ne chiediamo conferma, increduli: davvero s'è allontanata, e così tanto?
Eppure, in questo chiedere, giureremmo che quella bontà sia esistita e che ancora
esista - ma non più qui, dove sarebbe necessaria e giusta la sua presenza, esattamente
qui dove l'abbiamo conosciuta, dove ci stava accanto. Dubito che questa blasfemìa,
che è santità pura e semplice, possa o debba essere evitata; e queste "blasfeme
labbra", che chiedono e osano la domanda adorante e dolorosa - la domanda
annichilita di chi vaga e teme "per le strade esterrefatte", nella nuda verità della
"notte straziata" - queste labbra così santamente blasfeme danno del tu alla bontà
lontana, la chiamano come e dove è giusto che sia, che torni, che si sveli se è nascosta,
che si faccia presente:
Fa piaga nel Tuo cuore
La somma del dolore Che va spargendo sulla terra l'uomo;
Il Tuo cuore è la sede appassionata
Dell'amore non vano.
Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nell'umane tenebre,
Fratello che t'immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l'uomo,
!12
Santo, Santo che soffri,
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo , Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D'un pianto solo mio non piango più,
Ecco, Ti chiamo, Santo,
Santo, Santo che soffri.
(Giuseppe Ungaretti, Il dolore, Mondadori, Milano 1992, pp. 68-69)
Penso, ora, alle tante colombe bianche che si levano in volo sull'ira vasta delle acque,
e che scompaiono alla nostra vista: e ai pertugi dolorosi attraverso i quali le vediamo
passare per uscire dall'arca della vita presente, e andare a perdersi là dove non
possiamo seguirle - e dove mai vorremmo che andassero. E ai tanti olocausti di cui il
tempo si nutre, alle vite che il dolore sta consumando proprio ora.
Penso anche a una moltitudine di pagine, a uno sciame di parole impossibili da
contare: poesia, narrativa, di diversi tempi e di molti luoghi - e a come il dolore sia
ospite certo della nostra vita: e a come mai si debba negare la legittimità del pianto; al
dio fatto "corpo del nostro corpo e corpo del nostro mondo", a quel "maestro e
fratello e Dio che ci sa deboli" e dunque conosce tanto il nostro "buio coraggio"
quanto la nostra esigenza d'amore - e il cui amore non è vano, ma appassionato.
Ungaretti ci dice solo che l'amore di Cristo è appassionato e non vano, e che nel suo
cuore il dolore dell'uomo, tutto il dolore che esiste sulla terra, "fa somma" insieme a
tutto l'amore appassionato e non vano che è nel mondo. Dunque, mai l'amore è vano.
Siamo in un luogo di preghiera, in cui si celebra un tempo di grazia: credo che sia
giusto portare qui anche la voce di un turbamento, una verità di gemito: a colui che è
"corpo del nostro corpo e corpo del nostro mondo". Il tema dell'incontro di stasera
era "La letteratura della sofferenza dell'uomo": non ho voluto riprendere e riproporre
le tante pagine, spesso altissime, dedicate espressamente alla Passione di Cristo
(penso alla recente Via Crucis di Mario Luzi, o alla Rappresentazione della croce di
Giovanni Raboni, solo per citare testi editi da poco; ma la tradizione letteraria
europea, da Jacopone da Todi in qua, ci fornisce una messe di capolavori). Mi è parso
meglio cercare alcune liriche ancorate al dolore puramente umano, presente e
condiviso, e che riferiscono a Cristo soltanto un dolore nostro pienamente vissuto e
ricordato e contemplato ed espresso nella sua dimensione di pura umanità: esse, mi
sembra, fanno di Cristo un punto di arrivo della riflessione anziché un punto di
partenza. Dubito che si possa riflettere con giustizia sul dolore percorrendo il
cammino inverso.
Proprio qui, alla presenza dell'immagine del crocifisso, tra le tante parole che
possiamo incontrare, vorrei tornare a Umberto Bellintani:
!13
[...]
Non più dormire,
non ridurre il giorno a poche ore
i mesi a pochi istanti
gli anni a nulla.
Ci alzeremo di buonora
avanti l'alba, quando ancora
dobbiamo coricarci.
Non resteremo un solo istante ad occhi chiusi,
un solo istante adagiati sulle afone
immobilità del nulla.
Guardiamolo nascere, il sole;
contiamoli vigili
i petali delle rose.
(Le rose, giovane sangue, tenero
profumato della primavera.)
Poi berremo a sorsi il vino,
guardinghi e destri come il giocoliere
eviteremo e coglieremo
ciò che conta sul cammino.
[...]
(Umberto Bellintani, Canto autunnale, a cura di I. Bosetto, Perosini Editore, Verona
1998, pp.37-38)
Amiamola tenacemente questa vita - con tenerezza tenace, consapevoli e desti:
"guardiamolo nascere il sole, contiamoli vigili i petali delle rose"; e così, amando
tenacemente, sapremo scegliere ciò che conta sul cammino - anche i gemiti e i dolori,
umanamente - nella misura della nostra esigenza d'amore e della nostra umanità che
Dio sa debole, egli che è "corpo del nostro corpo e corpo del nostro mondo".
E ancora:
Bisogna continuare a credere nella poesia,
bisogna continuare a vivere di poesia,
a vivere la vita.
Bisogna uscire dalla folla,
credere ancora in Dio, tornare fanciulli nel cuore,
tornare alla contemplazione dei fiori,
della luna, delle piccole e grandi cose.
[...]
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Tutto è così difficile, impossibile... Ma chissà.
È nel mistero il clamore bianco della gioia.
(Umberto Bellintani, Canto autunnale, a cura di I. Bosetto, Perosini Editore, Verona
1998, p.36)
Cederei adesso la parola a Emily Dickinson, attingendo a una sua lettera del 1883: la
destinataria, la cognata Sue, piangeva in quei giorni un figlio morto a 8 anni, in un
dolore insostenibile. E' bene che questo verbo immacolato risuoni così, in una chiesa
cristiana in cui si celebra un tempo di grazia: se Bellintani ci invita alla speranza, e ci
chiede di fondarla in ciò che vediamo di straziato, questo luogo e questo tempo ci
invitano a ricordare una promessa: "sono venuto perché la mia gioia sia in voi e la
vostra gioia sia perfetta; là dove sono io sarete anche voi e nessuno potrà togliervi la
vostra gioia" - è una promessa esplicita, chiara.
Cara Sue -
Una promessa è più salda di una speranza, benché sia meno vasta -
La speranza non conosce mai orizzonte -
Il timore è la prima mano che ci viene tesa -
La disperazione col suo primo velo di lacrime non deve durare - Bloccherebbe lo spirito, e nessuna intercessione potrebbe farlo - Dopo molto tempo un'intimità col mistero prenderà il suo posto - Muovendosi nel buio, come navi cariche, di notte, benché non vi sia una rotta
sicura, vi è l'immensità - (Emily Dickinson, Lettere, a cura di M. Guidacci, Bompiani, Milano 1995, p.284)
Stasera, volevamo solo ascoltare alcune poesie, e lasciarle vibrare nell'aria e contro i
nostri corpi che sanno percepire - per levarci, per darci da fare, per contemplare il
dolore e ricordare una promessa - nella speranza che Dio, anche per questo piccolo,
umile e irrilevante coraggio, ci riconosca per suoi fin da ora, quand'anche mancasse
in noi per un po'.
La terra è santa, e chi ricorda il dolore non può che farlo camminando in silenzio o
meditando tra sé e sé, scalzo e con il capo coperto; la voce tende al sussurro, se pure
osa levarsi per dire del più grande dei misteri che ha vissuto - e nessuna parola può
essere più che un balbettìo, per quanto disposta alla fiducia e alla speranza.
Una promessa eterna di gioia ci venne, un tempo, dall' "uomo dei dolori" - e un'
"intimità con il mistero" ce la ricorda anche stasera. "E' nel mistero il clamore bianco
della gioia".
Grazie.