Fabio Lando - Progetto Fahrenheit

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Fabio Lando - Progetto Fahrenheit
FONDAMENTI STORICO EPISTEMOLOGICI
DELLA GEOGRAFIA
ALCUNE IPOTESI
Fabio Lando
Dispensa per l’a. a. 2011-2012
1
1 – L’interpretazione paradigmatica.
Non si può capire la scienza di nessun periodo senza conoscere i
principî esplicativi accettati dagli esperti.
Thomas Samuel Kuhn, 1974, “La nozione di causalità in
fisica”, p.14
A voi tutti è noto come poche scienze sieno state concepite, nei
tempi diversi e dai diversi autori, in modo più disparato della
geografia, poche diedero luogo a maggiori dispute sopra
contenuto, limiti, divisioni e perciò posseggono una più ricca
letteratura metodologica.
Olinto Marinelli, 1902, Alcune questioni… p.218.
Throughout its history geography has been characterised by an
unceasing methodological debate upon its scope and content, a
debate that has occasionally scorched the pages of its varied
journals.
Wayne K.D. Davies, 1969, Theory, science and geography, p.44.
La géographie, comme toute science, s’est adaptée a l’évolution de
son objet… C’est en ce sens que l’on peut parler d’ «ancienne» et
de «nouvelle» géographie. A un moment donnée, une science, et
surtout une science d’observation (le terme n’excluant
évidemment pas la recherche de l’explication) est conditionnée à la
fois par l’état de son objet e par les moyens dont elle dispose pour
l’étudier.
Pierre George, 1981, “Introduction”, p. 9.
1.1 – Premessa
La geografia è un ramo della conoscenza presente sin dall’antichità ed il suo carattere era –
a dire di tutti– lo studio e la descrizione della terra. Ne conseguiva che il suo campo d’indagine
doveva comprendere sia la natura (conformazioni della terra, piante, rocce, mari, clima…) sia
le società umane (i gruppi sociali con la loro storia e la loro cultura spazialmente considerate)
sia i loro rapporti, relazioni, influenze, influssi… Inoltre l’interesse per problemi geografici e la
presenza di scritti di resoconti di viaggi e descrizioni di regioni apparvero molto prima che la
geografia fosse riconosciuta come disciplina scientifica. Come nota Arild Holt-Jensen,
“è difficile immaginare che non vi sia mai stato un qualsiasi popolo che non abbia
pensato geograficamente, che non abbia tenuto in considerazione le condizioni del
territorio in cui viveva e che non si sia mai domandato se altri popoli vivessero in
altri luoghi” (Holt-Jensen, 1999, p.17).
Nel corso della sua storia la geografia, forse per la vastità del suo campo d’indagine, ha
dovuto confrontarsi con due fondamentali problemi d’ordine epistemologico:
––
il primo, il più vecchio e sicuramente il più importante, riguarda la sua duplice valenza: la
disciplina poteva essere considerata o una scienza fisico–matematica (perché rivolta allo studio
della struttura fisica della terra), o una scienza storica (perché legata alla descrizione di luoghi
attraverso l’osservazione e l’indagine).
––
il secondo, sviluppatesi più recentemente nella seconda metà del 1900, è relativo al
problema della descrizione.
2
Ed è questo ultimo che, probabilmente, rappresenta l’elemento paradigmatico chiave: da
una parte definisce il campo d’azione della geografia caratterizzando la sua valenza, dall’altra
esprime la sua ambiguità. Come nota Franco Farinelli (1987, p.8)1:
“l’ambiguità fondamentale della parola geografia (e di conseguenza del sapere che
essa identifica) risiede prima di tutto nel duplice significato del secondo dei due
termini che la compongono. Geo viene dal greco antico e vuol dire Terra. Ma Grafia
vuol dire sia immagine che scrittura, sia disegno (carta geografica) che discorso
scritto, cioè descrizione. La differenza fra i due significati è cruciale. Il primo si
riferisce ad un sistema chiuso di modelizzazione del mondo, ad un codice apodittico
e normativo… La seconda accezione del termine grafia rimanda alla presenza,
implicita in qualsiasi pagina scritta, di un codice aperto per la concettualizzazione
della realtà”.
La Geografia è quindi, e fin dalla sua origine, sia disegno del mondo [termine con cui qui si
vuole evidenziare la sua capacità di sintetizzare e quindi ridurre il mondo, in quanto oggetto di
pensiero, “ad una precisa carta”] sia discorso sul mondo [termine con cui si vuole evidenziare
la sua capacità di essere una scienza capace sia di interpretare “il mondo ed i suoi oggetti” sia
di esprimere un sapere che supporti il loro possesso].
È partendo da quest’ultimo punto che possiamo affermare come, nella sua sostanza, la
geografia fornisca le varie strutture concettuali che informano i nostri atti territoriali e
permettono ai geografi di studiare, analizzare e descrivere –dato il paradigma dominante quel
momento– il processo secondo cui la superficie terrestre [luogo, territorio o paesaggio] si
forma e si evolve.
Nei capitoli che si susseguiranno cercheremo, nel ripercorrere alcune tappe comunemente
ritenute tra le più significative nello sviluppo del pensiero geografico, di individuare i momenti
di continuità e i momenti di rottura che si sono alternati dal 1800 in poi, per meglio capire la
doppia natura –fisica e antropica– che caratterizza la geografia e che ancora oggi, assieme al
problema della descrizione, è oggetto di discussione tra i geografi stessi.
Per fare questo ci avvarremo dell’interpretazione paradigmatica legata allo schema
interpretativo ideato da Thomas Samuel Kuhn, tenendo conto che questo tipo di approccio è
stato adottato anche da numerosi geografi che hanno analizzato l’evoluzione della disciplina2.
1.2 – L’interpretazione paradigmatica dello sviluppo della scienza.
Fino a non molto tempo fa tra ricercatori e scienziati, ma anche a livello di percezione
popolare, regnava la presunzione che esistesse una costante accumulazione di conoscenza e
1
Affermazione simile è anche di A.Lorenzi, 1940, p.5: “Com’è noto, la parola geografia è di origine greca. Pare abbia
significato dapprima la sola carta geografica, come si trova presso Plutarco, poi significò anche descrizione scritta della
Terra, come si rileva da una lettera di Cicerone ad Attico… Nell’opera De Mundo, che per lungo tempo fu attribuita ad
Aristotele… [non] è chiaro se qui si voglia riferirsi al disegno o alla descrizione scritta”. Di F.Farinelli si veda anche
l’agile ed importante volume dal titolo Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo pubblicato nel 2004 per i tipi
Einaudi nella collana P.B.E. serie Filosofia.
2
Interessante è al riguardo il bel articolo di A.Mair (1986) in cui effettua un’ampia analisi circa le modalità con cui
molti ed importanti geografi nordamericani hanno usato –bene o male– il modello kuhniano. Circa la geografia italiana
si vedano gli interventi alla Sezione III dell’importante Convegno di Varese del 1980 (G.Corna Pellegrini C.Brusa,
1980) ed in particolare gli interventi di A.Celant, G.Dematteis ed A.Turco.
3
cioè che le teorie diventassero sempre più precise e sempre meglio funzionali alla spiegazione
dei fatti. Tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso uno storico della scienza, Thomas
Samuel Kuhn (1922-1996), rigettò questa visione elaborando uno schema interpretativo che
cambiò il “sentire” comune a proposito delle comunità scientifiche e dei loro “prodotti”. Nel suo
testo base, The Structure of Scientific Revolutions, egli prese posizione contro alcune ipotesi
sulla scienza, allora ritenute valide, iniziando col rifiutare la comune concezione che la scienza
potesse sempre presentarsi come un processo di sviluppo lineare e cumulativo; confutando
cioè quella:
“persistente tendenza a fare apparire la storia della scienza come un processo
lineare o cumulativo, tendenza che influenza persino gli scienziati che si volgono
indietro a riconsiderare la loro stessa ricerca” (Kuhn, 1978, p.169).
O meglio, per dirla con Imre Lakatos “egli respinge l’idea che la scienza cresca per
accumulazione di verità eterne” (1984, p.165).
La scienza non poteva essere quella coerente e ben regolata attività per mezzo della quale
ogni generazione di ricercatori costruiva automaticamente il proprio sapere sulla base dei
risultati ottenuti dai loro maestri: risultati certi ed incontrovertibili da cui partire per le proprie
ricerche e su cui innestare le proprie scoperte. Al contrario, secondo Thomas S. Kuhn, l’intero
processo di sviluppo della scienza avviene:
“senza l’aiuto di un insieme di finalità, o di una verità scientifica stabilita una volta
per tutte, della quale ciascuno stadio di sviluppo della conoscenza scientifica
costituisca una coppia migliore rispetto alla precedente” (Kuhn, 1978, p.207).
Si tratta piuttosto di un processo che vede l’alternanza di “tranquilli” periodi di scienza
normale, caratterizzati da uno stabile accrescimento della conoscenza, a momenti di crisi che
rappresentano una condizione preliminare necessaria all’emergere di nuove teorie, durante i
quali si manifestano le rivoluzioni scientifiche “episodi rivoluzionari… centrali per il progresso
scientifico” (Kuhn, 1985, p.246). O meglio, come suggerisce Paul Hoyningen-Huene,
“La scienza normale si esaurisce quando la scoperta di anomalie significative rende
gradualmente sempre più difficile, se non impossibile, la sua continuazione. Inizia
allora una fase di scienza straordinaria, nella quale si va in cerca di nuove teorie e
di nuovi strumenti di ricerca (2000, pp.XII-XIII).
Per spiegare il modo in cui le varie scienze si evolvono egli, a differenza dei precedenti
filosofi della scienza da Rudolf Carnap a Karl Raimund Popper, non analizza un corpo
strutturato di proposizioni o teorie ma analizza il modo con cui una comunità scientifica lavora
e trasforma la proprie “credenze scientifiche”3. Da questa serie di riflessioni egli ricavò il
concetto di paradigma e di mutamento di paradigma.
“Nell’uso corrente per paradigma si intende un modello o uno schema accettato, e
questo aspetto del suo significato mi ha permesso qui, in mancanza di uno
migliore, di appropriarmi del termine ‘paradigma’… In grammatica, ad esempio,
amo, amas, amat è un paradigma, perché mostra lo schema da usare nel
coniugare numerosi altri verbi latini, ad esempio nell’ottenere laudo, laudas, laudat.
In questa applicazione convenzionale, la funzione del paradigma è quella di
3
Per un’interessante interpretazione del suo modo di operare si veda T.S.Kuhn (2008)
4
permettere la riproduzione di esempi, ciascuno dei quali potrebbe servire in linea di
principio a sostituirlo. In una scienza, però, un paradigma è raramente uno
strumento di riproduzione. Invece, analogamente ad un verdetto giuridico
accettato nel diritto comune, è lo strumento per un’ulteriore articolazione e
determinazione sotto nuove o più restrittive condizioni” (Kuhn, 1978, p.43)4.
Con il termine di paradigma scientifico Thomas S. Kuhn vuole così indicare una serie di:
“conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo,
forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un
certo campo di ricerca”5.
Il paradigma nei periodi di scienza normale risulta implicito in quanto la scienza stessa è
parte dell’ordinamento entro il quale viene portata avanti. Ordinamento che non racchiude
solamente concetti e visioni del mondo, ma anche valori e modi d’agire “comprendendo tutti gli
impegni condivisi da un gruppo scientifico” (Kuhn, 1985, p.322). In altre parole, tutta l’attività
scientifica fa parte del paradigma dominante, per cui inevitabilmente
“la ricerca normale… poggia saldamente su di un consenso permanente acquisito
per mezzo dell’educazione scientifica e rafforzato dalla successiva attività nella
professione scientifica” (Kuhn, 1985, p.246).
È chiaro quindi come la percezione dei ricercatori risulti fortemente condizionata dal proprio
paradigma tanto che la loro identificazione con esso
“è tale da produrre una sorta di attaccamento che, in generale, porta il ricercatore
ad opporsi sistematicamente all’aggressione contro il paradigma che gli serve da
modello” (Racine Cunha 1984, p.126).
Non solo ma “ciascun gruppo usa il proprio paradigma per argomentare in difesa di quel
paradigma” (Kuhn, 1985, p.121).
Per questo motivo è estremamente difficile delineare il paradigma corrente, mostrare dove
sono i suoi limiti, dove corrono i suoi confini; soltanto nei periodi in cui il paradigma cambia se
ne vedono i limiti: anzi, se cambia è proprio a causa dei suoi limiti. Quando l’interpretazione di
un particolare problema scientifico presenta un’anomalia che, permanendo, alcuni ricercatori
considerano non risolvibile entro il paradigma dominante, allora si verificano delle situazioni di
crisi che possono portare alle rivoluzioni scientifiche.
“Le rivoluzioni scientifiche sono introdotte da una sensazione crescente… che un
paradigma esistente ha cessato di funzionare adeguatamente nella esplorazione di
un aspetto della natura verso il quale quello stesso paradigma aveva
precedentemente spianato la strada. Sia nello sviluppo sociale che in quello
4
Affermazione analoga è stata anche ripresa in T.S.Kuhn, 1985, p.XVIII.
Questa, occorre ricordare, è la prima definizione di paradigma che appare alla p.10 della premessa del testo base di
T.S.Kuhn; definizione per me particolarmente pregnante. Circa un’analisi critica del concetto di paradigma, così come
appare in The Structure of Scientific Revolution si veda M.Masterman, 1984, pp.129-163. Occorre però ricordare che il
concetto di paradigma, con il suo corollario mutamento di paradigma, non è stato tranquillamente e normalmente
accettato –come ricorda lo stesso T.S.Kuhn “le reazioni sono state varie e talvolta rumorose” (1985, p.321)– dalle varie
comunità scientifiche. La discussione meglio conosciuta è un colloquio del 1965, nel quale T.S.Kuhn difende se stesso
contro una serie di critiche filosofiche, confluito nel libro di I.Lakatos A.Musgrave, 1984. Non si vuole qui entrare nel
merito di queste discussioni; si vuol solo far notare che ormai, a quasi cinquant’anni della sua prima esposizione (la
prima edizione del testo base di T.S.Kuhn The Structure of Scientific Revolution è del 1962) lo schema interpretativo di
T.S.Kuhn è sicuramente un dato comunemente (se non proprio tranquillamente) accettato.
5
5
scientifico, la sensazione di cattivo funzionamento che può portare alla crisi è un
requisito preliminare di ogni rivoluzione” (Kuhn, 1978, pp.119-120)6.
Rivoluzioni scientifiche che provocando dei cambiamenti, negli strumenti ed attrezzature
concettuali delle discipline, romperanno la continuità dei periodi di scienza normale dando
origine a quello che egli definisce un ”riorientamento gestaltico” dell’intero dominio conoscitivo
della scienza7. Ciò significa introdurre una radicale innovazione nel modo di vedere ed
interpretare un dato fenomeno; rimettere in discussione le premesse epistemologiche sulle
quali si fonda la struttura di ricerca di quella scienza e ridefinire i criteri in base ai quali si
giudica circa la validità e la scientificità dei risultati. Ovviamente, come nota Thomas S. Kuhn,
l’assimilazione di un simile “riorientamento gestaltico” richiede:
“la flessibilità e l’apertura mentale che caratterizza, o in verità definisce, il
pensatore divergente… non vi sarebbe alcuna rivoluzione scientifica e
l’avanzamento delle scienze sarebbe molto piccolo se molti scienziati non
possedessero questa qualità in grado elevato” (Kuhn, 1985, p.246).
È chiaro, però, che agli inizi il nuovo paradigma potrà essere accettato solamente da una parte
della comunità scientifica e che, per qualche tempo, coesisterà assieme al precedente. Non
potrebbe essere altrimenti, poiché:
“la nuova teoria implica un mutamento delle regole che governavano la precedente
prassi della scienza normale e perciò, inevitabilmente, si ripercuote su gran parte
del lavoro scientifico che essi hanno già compiuto con successo” (Kuhn, 1978,
p.25).
È però ovvio, secondo Thomas S. Kuhn, che: se le rivoluzioni comportano, alla fine, un
mutamento di paradigma e se la scienza non procede in modo lineare e cumulativo allora “è
impossibile sostenere che esse hanno portato a qualcosa di meglio” e quindi non è certamente
scontato che il nuovo paradigma sia migliore o più perfetto sotto ogni aspetto di quelli
conosciuti prima (Feyerabend, 1984, p.283).
Quasi come corollario al suo concetto di paradigma Thomas S. Kuhn pone poi il fatto che la
scienza è definita dalle comunità di ricercatori e non dai singoli ricercatori. È pur vero che i
singoli ricercatori facendo ricerca producono conoscenza scientifica ma sono le comunità di
6
Interessante è questa sua analogia tra sviluppo sociale e sviluppo scientifico: “le rivoluzioni politiche mirano a mutare
le istituzioni politiche in forme che sono proibite da quelle stesse istituzioni… All’inizio è soltanto una crisi che
indebolisce il ruolo delle istituzioni politiche, allo stesso modo che -come abbiamo visto- indebolisce il ruolo dei
paradigmi. In numero sempre maggiore gli individui si allontanano sempre più dalla vita politica ufficiale e si
comportano in modo sempre più indipendente. Quindi, con l’approfondirsi della crisi, parecchi di questi individui si
riuniscono intorno a qualche proposta concreta per la ricostruzione della società in una nuova struttura istituzionale. A
questo punto la società è divisa in campi o partiti avversi, l’uno impegnato nel tentativo di difendere la vecchia struttura
istituzionale, gli altri impegnati nel tentativo di istituirne una nuova” (Kuhn, 1978, pp.120-121).
7
O meglio come nota T.S.Kuhn (1978, p.139): “durante le rivoluzioni, gli scienziati vedono cose nuove e diverse anche
quando guardano con gli strumenti tradizionali nelle direzioni in cui avevano guardato prima”. È una posizione
probabilmente assimilabile al “mutamento di contesto” analizzata da A.Koyré (1967, 1970). Per un’interpretazione del
“riorientamento gestaltico” si veda T.S.Kuhn, 1978, pp.139-165. Come nota S.Toulmin, 1984, p.109: “Il grande merito
dell’insistenza di Kuhn sul carattere “rivoluzionario” di alcuni mutamenti nelle teorie scientifiche sta nell’aver costretto
molti studiosi ad affrontare fino in fondo e per la prima volta la profondità delle trasformazioni concettuali che hanno
caratterizzato talora lo sviluppo storico delle idee scientifiche”.
6
ricercatori che, definendo i paradigmi, fanno della loro ricerca una scienza. Qualche anno dopo
la stesura del suo testo base nel rispondere ad alcuni suoi critici egli afferma:
“il termine paradigma entra in stretta vicinanza sia fisica che logica con la frase
comunità scientifica. Un paradigma è ciò che i membri di una comunità scientifica,
ed essi soli, condividono. Inversamente è il possesso di un paradigma comune che
fa di un gruppo di uomini, per altri versi disparati, una comunità scientifica” (Kuhn,
1985, p.322) 8.
Per Thomas S. Kuhn la scienza non è un fatto personale, legato a pochi ricercatori separati
e fra loro in contrasto, ma un fatto fondamentalmente e profondamente sociale:
“una comunità scientifica consiste, secondo questa concezione, degli esperti di una
specialità scientifica. Vincolati l’uno all’altro da elementi comuni nella loro
educazione e nel loro apprendistato, essi si considerano e sono considerati dagli
altri, come coloro che sono responsabili del perseguimento di un insieme di
obiettivi condivisi, compreso l’addestramento dei loro successori. Queste comunità
sono caratterizzate dalla relativa abbondanza delle comunicazioni all’interno del
gruppo e dalla relativa unanimità nel giudizio del gruppo in campo professionale.
Con una notevole ampiezza i membri di una data comunità avranno assimilato la
medesima letteratura e tratto da essa le medesime lezioni” (Kuhn, 1985, p.324)9.
È chiaro quindi che una comunità scientifica, che forse ora potremmo meglio definire scuola
di pensiero, è l’elemento chiave per la formulazione, accettazione ed eventualmente difesa di
quel insieme di tradizioni, risultati, conquiste, teorie, regole, schemi concettuali che formano
un paradigma scientifico.
Se un ricercatore particolarmente novativo (il pensatore divergente, così come definito
prima) definisce una nuova scoperta, una migliore soluzione ai problemi che il paradigma
dominante non riesce a risolvere o risolve solo in parte, e dopo questo si distacca dalla
comunità di riferimento è certo, secondo Thomas S. Kuhn, che da solo non darà mai origine ad
un nuovo paradigma:
“se uno scienziato sceglie questa via, la sua azione si riflette non sul paradigma ma
su lui stesso. Sarà inevitabile che i suoi colleghi lo considerino come il carpentiere
che dà la colpa ai suoi strumenti” (Kuhn, 1978, p.105)10.
Al contrario, la sua novazione solo quando sarà fatta propria da una comunità di ricercatori
potrà far parte del vecchio paradigma oppure, scardinandolo, ne darà origine ad uno nuovo. I
ripetuti insuccessi del vecchio paradigma e la dimostrata efficacia di una novazione possono far
cambiare l’opinione ad un gruppo di ricercatori così:
“le soluzioni che soddisfano non possono essere puramente personali ma devono
essere accettate come tali da molti. Il gruppo che le condivide non può tuttavia
essere ricavato a caso dalla società nel suo complesso, ma deve essere, al
contrario, la comunità nettamente definita costituita dai colleghi della stessa
specializzazione scientifica” (Kuhn, 1978, p.202).
8
Affermazione simile appare anche nel Poscritto della Struttura delle Rivoluzioni scientifiche (1978, p.213) si veda
anche quanto da lui affermato in Riflessione sui miei critici (1984, p.337).
9
Al riguardo si veda anche quanto da lui affermato nel Poscritto della Struttura delle Rivoluzioni scientifiche (1978,
pp.213-219)
10
Si veda anche C.G.Hempel (1975, p.66) che discutendo di nuove teorie o nuove ipotesi nota come “la credibilità di
una certa [nuova] ipotesi apparirà infirmata quando questa viene a trovarsi in conflitto con ipotesi o teorie che sono
accolte, in quel momento, come ampiamente confermate”.
7
Non è certamente il singolo scienziato che definisce (o muta) i contenuti della matrice
disciplinare del paradigma dominante la scienza normale di cui fa parte; tutti i cambiamenti o
le accettazioni hanno bisogno dell’approvazione della comunità dei suoi colleghi:
“la scienza non è la sola attività i cui esperti possono essere raggruppati in una
comunità ma è l’unica in cui ogni comunità ha il suo pubblico ed il suo giudice
esclusivi” (Kuhn, 1984, p.338).
E’ importante sottolineare come all’inizio l’accettazione del nuovo paradigma non sia un
processo “completamente razionale” ma avvenga, al contrario, “soggettivamente”. È ben
difficile per ciascun ricercatore valutare obbiettivamente la supremazia di un paradigma
rispetto ad un altro dal momento che non è possibile fare appello ad un’autorità “super partes”
che possa definire quale teoria sia più scientifica:
“ciò che differenziava le varie scuole non era questo o quel difetto di metodo –tutte
erano ‘scientifiche’– ma ciò che chiameremo le loro incommensurabili maniere di
guardare al mondo e di praticare la scienza in esso” (Kuhn, 1978, p.22).
Ne consegue che, non essendovi nessuna possibilità di una valutazione superiore e acritica,
solo una profonda persuasione può far prevalere un paradigma sull’altro e colui che cambia:
“deve aver fiducia che il nuovo paradigma riuscirà in futuro a risolvere molti vasti
problemi che gli stanno davanti… [e la sua accettazione]… può essere presa
soltanto sulla base della fede” Kuhn, 1978, p.190)11.
O meglio e ben più correttamente -come Thomas S. Kuhn in uno dei suoi ultimi interventi ha
spiegato- ciò che gli scienziati concretamente debbono valutare:
“non è la convinzione tout court ma il cambiamento di convinzione… [poiché]…
quello che la valutazione mira a selezionare non sono le convinzioni che
corrispondono al cosiddetto mondo esterno, concreto, ma semplicemente a un
migliore o al migliore complesso di convinzioni effettivamente esistente nel periodo
in cui chi valuta esprime il giudizio” (Kuhn, 2000b, p.178) 12.
La transizione paradigmatica, in effetti, può anche apparire come un preciso “atto di fede”,
ma tale atto dipende dal contesto in cui è posto il ricercatore e riflette i vincoli posti dal
momento storico e dalle circostanze personali. Ogni svolta nella storia della scienza è frutto,
infatti,
della
contemporanea
presenza
di
condizioni
sociali
favorevoli
e
di
proposte
d’innovazione convincenti. Da un lato è, infatti, necessario che le risposte date da quella
scienza alle domande degli individui e della collettività, fino a quel momento giudicate
adeguate e sufficienti, comincino a rilevarsi limitate o insoddisfacenti. Dall’altro occorre che,
quando si manifestano i sintomi di una crisi del genere, siano disponibili alternative concettuali
capaci di cogliere, al di sotto delle apparenze caotiche, quei nessi e quelle relazioni fra elementi
del mondo reale che hanno rilevanza per le nuove domande nate dall’evoluzione della struttura
11
Questo è un passo molto criticato, circa una sua difesa si veda sia T.S.Kuhn, 1984, p.344-351 sia P.Feyedabend,
1984, pp.291-295.
12
In modo analogo si esprime anche C.G.Hempel (1975, p.67) “Una teoria molto generale che abbia avuto buon esito in
molti campi verrà di solito abbandonata solo quando sia disponibile una teoria alternativa più soddisfacente; e delle
buone teorie sono difficili ad ottenersi”
8
sociale13. Comunque, qualsiasi sia il modo con cui un paradigma viene accettato e fatto
proprio:
“la comunità degli scienziati si impegna, consapevolmente o meno, nei confronti
dell’idea che i problemi fondamentali ivi risolti siano in realtà stati risolti una volta
per sempre” (Kuhn, 2000a, p.11).
Se è vero quindi che la scelta di abbandonare il vecchio paradigma per il nuovo non è
un’impresa facile ed indolore occorre ammettere che la transizione paradigmatica non potrà
certamente essere né rapida né totale. Non è certo razionalmente possibile pensare che la
comunità di ricercatori possa passare in toto ed immediatamente al nuovo. Nel presentare
queste difficoltà Thomas S. Kuhn cita ironicamente un passo di Max Plank che afferma come
ogni nuova verità scientifica non venga, di solito, accettata facilmente dai suoi oppositori:
“piuttosto essi, gradualmente, muoiono uno dopo l’altro, e una nuova generazione
cresce familiarizzandosi con la verità fin dall’inizio” (Kuhn, 2000a, pp.4-5).
È chiaro quindi che, fino a quando il nuovo paradigma non riuscirà ad imporsi scalzando il
vecchio, possono coesistere più paradigmi contemporaneamente:
“durante il periodo di transizione, vi sarà una sovrapposizione abbastanza ampia,
ma mai completa, tra i problemi che possono venir risolti col vecchio paradigma e
quelli che possono essere risolti col nuovo” (Kuhn, 1978, p.111).
Per le “scienze sociali”, poi, questo discorso si complica ulteriormente. Se nelle “scienze
esatte”, dopo un periodo di assestamento, un paradigma finisce per prevalere sull’altro,
divenendo così la matrice disciplinare della scienza normale adottata dall’intera (o da buona
parte della) comunità scientifica, per le “scienze sociali”, al contrario, la situazione è ben
diversa: diversi paradigmi possono convivere uno accanto all'altro, senza che nessuno riesca a
scalzare in toto gli altri.
Gli esempi che Thomas S. Kuhn presenta nei suoi lavori sono sempre tratti dalla fisica o
dalla matematica, comunque dalle scienze esatte, dove dopo periodi preparadigmatici o di
instabilità si definiscono lunghi periodi di scienza normale. Nelle scienze sociali, invece, i nuovi
paradigmi non riescono in genere a stabilizzarsi abbastanza bene da permettere un periodo
relativamente lungo di scienza normale e questo limite si traduce in una relativamente minore
chiarezza nella definizione della successione diacronica dei vari paradigmi. In questo caso non
è certo possibile affermare che delle osservazioni o analisi territoriali possano essere
compatibili, interpretabili o spiegabili con paradigmi logicamente incompatibili tra loro
(incommensurabili) anche se, in relazioni a quelle osservazioni territoriali, questi possono
sembrare empiricamente equivalenti. Si tratta però sempre di spiegazioni o interpretazioni che,
appartenendo a paradigmi diversi e incommensurabili, non possono essere considerate
equivalenti14. Così nei periodi caratterizzati dalla simultanea presenza di diverse matrici
disciplinari in concorrenza ci si trova sicuramente in difficoltà sia a voler dare una precisa data
13
Si veda al riguardo M.Cini, 1994, pp.17-24.
Su posizione simile si veda anche W.V.Quine (1996, pp.103-156) nel discutere, dal punto di vista linguistico,
sull’ontogenesi del riferimento.
14
9
di inizio o di fine di ciascun paradigma sia, e principalmente, a ben precisare, constatare o
schematizzare le caratteristiche proprie di ciascuno. E questo potrebbe essere uno dei limiti
che il modello interpretativo kuhniano pone alla sua applicazione in geografia dove non è quasi
mai esistito un preciso dominio di un singolo paradigma.
In questa prospettiva è possibile applicare alla geografia lo schema interpretativo delineato
sopra? Sono convinto che ciò sia possibile, tenendo presente che fin dai primi anni settanta
molti geografi –in particolare nord americani15– hanno già tentato, usando lo schema kuhniano
di individuare e definire alcuni “paradigmi geografici”. È chiaro quindi che nei capitoli che
seguiranno daremo, analizzando il succedersi delle varie scuole di pensiero, un’impostazione
“paradigmatica” di stampo kuhniano. Ne deriverà una struttura che appare come una
stratificazione di “varie geografie” succedutesi nel tempo. Una tale successione di strati non
implica necessariamente un progresso o un ordine gerarchico ma è indice di un vario
avvicendarsi di diversi modi di vedere il mondo: vari modi che si sovrappongono e come le
foglie cadute quando termina la loro stagione, diventano humus per la stagione successiva.
Tutto questo ci permette di considerare la geografia una scienza matura nell’accezione che
ne dà Paul Feyerabend (1984, p, 292):
“la scienza matura è una successione di periodi normali e rivoluzioni. I periodi
normali sono monistici; gli scienziati cercano di risolvere i rompicapo conseguenti ai
tentativi di vedere il mondo nei termini di un unico paradigma. Le rivoluzioni sono
pluralistiche finché emerge un nuovo paradigma, che ottiene sufficiente appoggio
da poter servire come base per un nuovo periodo normale”.
Occorre però avere ben presente che quella di Thomas S. Kuhn non è altro che una teoria,
ossia un’interpretazione della realtà, con tutti i suoi limiti e proprio per questo motivo soggetta
a critiche e ad accese discussioni. Non solo, ma in quanto teoria (e la stessa interpretazione
kuhniana è una teoria) soggiace ad una interpretazione di tipo paradigmatico: se essa ora
appare come l’interpretazione più efficace (rappresenta cioè la scienza normale) può essere
perfettamente scalzata da un’altra possibilità di interpretazione. Ma, a mio parere, a tutt’oggi
essa rappresenta ancora il paradigma dominante, la scienza normale, atta ad interpretare
l’evoluzione dei vari pensieri scientifici.
15
Si veda al riguardo il bell’articolo di A.Mair (1986).
10
2 – La fase preparadigmatica.
Così la geografia coltiva e incivilisce nel medesimo tempo, ed è
una parte assai importante della cognizione del mondo…
Sarebbe inutile dire di più sull’utilità della geografia… ciascun
capitolo lo proverà abbastanza da sé.
Immanuel Kant, Geografia Fisica, pp.XXXV-XXXVI
2.1 – Premessa
Prima di prendere in considerazione i vari paradigmi della moderna geografia sarà bene
fare un accenno a quella fase preliminare che Thomas S. Kuhn indica come preparadigmatica e
che per buona parte delle scienze si fa generalmente finire nella prima metà del XVIII secolo. È
quella fase che precede la formazione di un paradigma ed in cui ogni scienziato, non essendo
vincolato ad alcun corpo di teorie o matrici disciplinari e mancandogli un preciso insieme di
metodi e tecniche cui fare riferimento, si sente “spinto a ricostruire il suo campo dalle
fondamenta” (Kuhn, 1978, p.32).
2.2 – La fase preparadigmatica ottocentesca della geografia europea.
Ovviamente
non
è
qui
mia
intenzione
e
funzione
analizzare
tutto
il
periodo
preparadigmatico della geografia europea ma solo accennare a quella che i comuni manuali di
Geografia Generale (Lorenzi, Toniolo, Almagià, Toschi) definivano “geografia scientifica
ottocentesca”. Periodo questo ultimo in cui le idee di tre grandi pensatori divergenti ne hanno
caratterizzato la sua fine preparando l’inizio, anche per la Geografia, del periodo paradigmatico
che caratterizza le scienze mature.
Immanuel Kant (1724-1804), conosciuto per le sue opere filosofiche, fu anche geografo16.
Nei suoi quarant’anni d’insegnamento, dal 1756 al 1796, tenne ben 48 corsi di geografia a
fianco dei 54 di logica, 49 di metafisica e 20 di fisica e fu il primo ad insegnare stabilmente
geografia all’Università prima che questa fosse definitivamente istituzionalizzata come corso
universitario. Il suo testo geografico più importante e conosciuto è il ponderoso Physische
Geographie17 in cui, nonostante il titolo, si discute non solo di geografia fisica ma anche
dell’uomo e delle sue attività economiche in rapporto alle condizioni naturali18. Le pagine
16
Su I.Kant geografo si veda prima di tutto le importanti interpretazioni di J.A.Mayr (1970), di V.Berdoulay (1991,
pp.75-94) e di P.Richards (1974); poi D.L.Livingstone R.T.Harrison (1981a), A.L.Sanguin (1994) e F.Farinelli (2004b);
interessante è anche il discorso di R.Hartshorne (1967).
17
In effetti, questo testo, non autografo ma ricavato dalle sue lezioni di geografia sulle basi degli appunti presi da alcuni
studenti, è stato pubblicato agli inizi del 1800. Riguardo la storia, un po’ complessa, della sua pubblicazione di veda
F.Farinelli (2004b). Di questo testo ne esiste una traduzione italiana in tre volumi e sei tomi effettuata nel 1807/1811;
nel 2004, la casa editrice Leading ne ha prodotto una copia anastatica.
18
Per questo, il termine kantiano Geografia Fisica potrebbe essere meglio avvicinabile –pur tenendo conto del secolo e
mezzo di differenza– a quello di Geografia Generale così com’è stato utilizzato dai geografi italiani negli anni 19401980; si veda anche A.L.Sanguin, 1994.
11
introduttive sono state spesso considerate la parte più significativa mentre il resto, divulgativo,
appare di scarso interesse19.
Physische Geographie, ed in particolare la sua introduzione, è sicuramente un’opera
importante ma che ha avuto alterne vicende (è stata più spesso ignorata) nell’elaborazione del
pensiero geografico mentre il suo pensiero filosofico, sull’opposizione tra natura e storia come
rifiuto al monismo positivista, ebbe una notevole importanza anche in campo geografico.
Physische Geographie fu ignorata dai geografi italiani, non appare mai citata in nessuna opera
di storia della geografia, nonostante la sua traduzione in lingua italiana effettuata già nel 1807;
anche Richard Hartshorne (1967, p.85) nota come:
“l’opera di Kant ed il suo interesse per la geografia furono ampiamente ignorati per
quasi un secolo dopo la sua morte”.
Solo recentemente, in particolare con la disputa fra Richard Hartshorne e Fred K. Schaefer, si è
sempre più fatto ricorso ad essa per l’interpretazione della duplice valenza della geografia:
nomotetica o idiografica, fisica o umana20. Solo da questo punto di vista è certamente possibile
accettare l’affermazione di George Tatham (1957, p.38) secondo cui:
“la definizione data nell’introduzione alle sue lezioni, descrive così completamente
lo scopo della geografia che essa ha agito, direttamente o indirettamente, su tutte
le successive discussioni metodologiche”21.
Immanuel Kant delinea anche due differenti modi per classificare i fenomeni empirici: uno
legato alla loro natura e l’altro alla loro posizione nel tempo e nello spazio. Il primo definisce la
classificazione logica legata ai fondamenti delle scienze sistemiche, mentre il secondo –per noi
più importante- definisce la classificazione fisica e pone le basi scientifiche alla storia e alla
geografia: la storia (scienza cronologica) studia i fenomeni nel tempo mentre la geografia
(scienza corografica) studia i fenomeni che appartengono al medesimo luogo. O, meglio, per
dirla con le parole di Immanuel Kant:
“La storia e la geografia potrebbero essere chiamate, per così dire, una descrizione,
con la differenza che la prima è una descrizione secondo il tempo e la seconda una
descrizione secondo lo spazio. La storia e la geografia aumentano la nostra
conoscenza rispetto il tempo e lo spazio. La storia riguarda quegli eventi che,
riguardo al tempo, sono accaduti uno dopo l’altro. La geografia riguarda i fatti dal
punto di vista dello spazio e che accadono contemporaneamente… La storia e la
geografia dunque differiscono solo rispetto il tempo e lo spazio… La storia è una
narrazione, la geografia una descrizione. Quindi possiamo avere una descrizione
della natura ma non una storia della natura… Geografia è il nome dato alla
descrizione della natura e al mondo nel suo complesso. La geografia e la storia
19
Sprezzante è il giudizio che ne dà F.Ratzel (1905/7, p.56) “Kant nelle sue lezioni sopra la geografia fisica si mostrò
affetto dalla comune tendenza a enunciare delle aride enumerazioni e cercò di ravviare mediante aneddoti la morta
materia. Uno scambio di concetti, un alternarsi di nomi, senza penetrar più addentro nella cosa…”.
20
I primi a darle una certa considerazione sono sicuramente stati A.Hettner e P.Vidal de la Blache ma è con i lavori di
R.Hartshorne che la sua premessa, in particolar negli Stati Uniti, venne conosciuta diventando un argomento di
discussione.
21
Su questo è da notare l’importante contributo V.Berdoulay, 1991, pp.75-94; si vedano anche A.Holt-Jensen, 1999,
p.24 e D.N.Livingstone, 1992, p.116.
12
occupano tutta l’area della nostra percezione: la geografia quella dello spazio, la
storia quella del tempo”22.
Così la storia e la geografia permettono all’uomo la razionalizzazione della sua esistenza23 ed
attraverso la geografia l’uomo apprende la capacità di orientarsi:
“e questo nei due significati della parola: individuare il luogo e le coordinate
naturali della propria esistenza e posizionarsi nella buona direzione”24.
Un’altra importante conquista kantiana fu la deteologizzazione dello studio scientifico. Egli
aveva, infatti, distinto i noumena dai phenomena. Noumena è la realtà come effettivamente è,
oggetto della conoscenza razionale pura, mentre phenomena è il mondo della conoscenza
snsibile, il mondo dei sensi, il mondo colto dalla scienza:
“la scienza, di conseguenza, opera solo nella sfera dei phenomena: è relativa alle
osservazioni, alle relazioni causa-effetto, alle proprietà spazio temporali. La scienza
non potrà mai aprire una breccia nell’irreale mondo dei noumena” (Livingstone,
1992, p.116).
Ovviamente la geografia in quanto scienza opera solo nel regno dei phenomena ed è,
quindi, teleologicamente neutrale. Egli così anticipa quanto avverrà in seguito e cioè il
progressivo allontanamento della posizione della geografia capace di descrivere la creazione
divina ed interpretare il piano di Dio nell’universo, per arrivare alla geografia come scienza che,
più semplicemente, permette all’uomo di razionalizzare la sua esistenza nel mondo.
Per Immanuel Kant, quindi, la geografia in quanto scienza empirica è teleologicamente
neutra e, avendo come fondamento lo spazio, è la scienza delle relazioni spaziali che studia i
fenomeni che avvengono sulla superficie terrestre. È una scienza che fornisce una visione
olistica del mondo dandone una conoscenza unificata ed è solo da questo punto di vista che si
occupa dell’uomo.
Ma più che Immanuel Kant è bene ricordare le due figure che per certi aspetti possono
essere considerati sia gli ultimi rappresentanti della geografia classica, sia gli iniziatori della
geografia come disciplina scientifica: Alexander von Humboldt (1769-1859) e Karl Ritter
(1779-1859) le cui opere principali sono rispettivamente Kosmos e Erdkunde25. Il primo è
22
La citazione è dalla “Introduzione” del testo Physische Geographie di I.Kant, questa traduzione italiana è stata fatta
sulla base della traduzione inglese effettuata da J.A.Mayr (1970, pp.255-264) i passi tradotti sono alle pp.261-262. Gli
stessi passi sono stati tradotti in inglese in modo analogo anche da F.K.Schaeffer, (1953, pp.232-233) di cui esiste una
parziale traduzione italiana in H.Capel (1987, p.185).
La traduzione di J.A.Mayr è la seguente: “We can call both history and geography, at the same time, a description, but
with the difference that the former is a description of time while the latter is a description of space. History and
geography enlarge our knowledge with respect to time and space. History concerns events which, under the aspect of
time, have occurred one after the other. Geography concerns appearances under the aspect of the space which occur
simultaneously… History therefore differs from geography only in respect to space and time… History is a narrative,
but geography is a description. Therefore we may have a description of nature, but not a history of nature… The name
of geography therefore designates a description of nature, and that of the whole earth. Geography and history fill up the
total span of our knowledge, geography namely that of space, but history that of time”.
23
Si veda anche l’interessante analisi di J.M.Besse M.C.Robic, 1986.
24
Il riferimento è di E.Weil, citato da J.M.Besse M.C.Robic, 1986, p.68: “et cela dans le deux sens de ce mot: trouver le
pôle et les coordonnées naturelles de son existence, et se placer dans la bonne direction”.
25
I titoli per esteso sono rispettivamente: Kosmos. Entwurf einer physischen Weltbeschreibung, pubblicato in 5 volumi
dal 1845 al 1862; Die Erdkunde im Verhältnis zur Natur und zur Geschichte des Menschen oder allgemeine
13
ritenuto tra l’altro “il più importante esploratore scientifico dell’epoca moderna prima di
Darwin” (Metken, 2000, p.33) mentre il secondo fu il primo geografo a delineare in modo
chiaro il suo metodo.
Questi due personaggi –quasi coetanei, in relazione epistolare e deceduti nello stesso anno–
pur essendo molto diversi fra loro hanno in comune la stessa visione del mondo: nella diversità
ricercarono l’unità allo scopo “di realizzare sintesi globali del Tutto terrestre” (Capel, 1987,
p.24). Se prima l’attività del geografo era limitata all’accumulazione di dati, per poi disegnare o
far disegnare carte miranti a descrivere un determinato territorio, con loro quella stessa
attività si fa molto più attiva e comincia a diversificarsi: il geografo compara le varie regioni
indagate per scoprire caratteristiche simili e individuare le leggi che regolano la loro
organizzazione. La novazione consisteva appunto nell’effettuare una precisa strutturazione del
materiale raccolto e, attraverso una deliberata ricerca fra le similarità e le differenze dei vari
paesi e regioni, cercare di comparare fra loro le differenti parti del mondo.
Alexander von Humboldt filosofo, letterato, naturalista, geologo, astronomo e geografo è
considerato –assieme al fratello Karl Wilhelm ed a Johann Wolfgang Goethe– uno dei grandi
savant dell’illuminismo tedesco a cavallo tra il XVIII ed il XIX secolo26. È stato anche un
valente esploratore scientifico soggiornando a lungo nell’America Meridionale, in Italia ed in
Siberia.
I
viaggi
di
esplorazione
erano
per
lui
una
necessità
scientifica
in
quanto
rappresentavano il momento di verifica e di prova della sua visione della natura intesa come
un unicum27.
Da buon illuminista incoraggiò l’uso della ragione e credé profondamente nell’utilità della
scienza volta ad interpretare le leggi generali che governano la natura nella sua totalità:
“una semplice giustapposizione dei fatti non servirebbe allo scopo… È nell’ordine
stesso del progresso scientifico che i singoli fatti, rimasti a lungo senza legami con
l’insieme, successivamente si ricolleghino con esso e si inquadrino in leggi generali.
Indico qui solo la strada dell’osservazione e dell’esperienza… in attesa che si giunga
al momento in cui, come voleva Socrate (a quanto scrive Platone) la natura venga
interpretata secondo ragione”28.
Ma non solo la scienza, per descrivere la natura in tutta la sua grandezza:
“è necessario descrivere anche il riflettersi della natura sull’uomo e vedere come
essa, ora vi si esprima attraverso il mondo dei miti, che con suggestive e
vergleichende Geographie, als sichere Grundlage des Studium und Unterrichts in physikalischen und historischen
Wissenschaften, pubblicato in 19 tomi e 21 volumi tra il 1822 ed il 1859.
26
Riguardo la sua importanza interessante è notare il passo tratto dall’Autobiografia di C.Darwin (1964, p.49)
“Nell’ultimo anno di Cambridge lessi con profondo interesse i Ricordi Personali di Humboldt. Questo libro e la
Introduzione allo studio della filosofia naturale di Sir J.Herschel accesero in me il desiderio ardente di portare un
contributo, anche il più umile, al nobile edificio delle scienze naturali. Nessun altro libro ebbe su di me un’influenza
simile a quella di queste due opere. Copiai dai Ricordi di Humboldt lunghi brani su Tenerifa che lessi poi al alta voce...”
27
Come egli afferma, prima di partire per il viaggio nelle regioni equinoziali: “Je collecterai des plantes et des fossiles
et me livrerai à des observations d’astronomie. Mais là n’est pas le but premier de mon expédition. Je m’efforcerai de
découvrir l’interaction des forces de la nature et les influences qu’exerce l’environnement géographique sur la vie
végétale et animale. En d’autres termes il me faut explorer l’unité de la nature” citato in J.P.Deléage (1992, pp.39-40).
28
A.von Humboldt, 1975, p.221. E ancora “ho sempre preferito alla conoscenza di fatti isolati, anche se nuovi, la
comprensione alla concatenazione di quelli noti da tempo, e la scoperta di una specie sconosciuta mi è parsa meno
interessante dell’osservazione sui rapporti geografici” citato in M.Ciardi (2008, p.418).
14
fantasmagoriche immagini interpretano i fenomeni fisici, e ora faccia sbocciare il
nobile germe dell’arte” (von Humboldt, 1975, p.235).
Perché nel momento in cui si va oltre “il mondo oggettivo” degli scienziati:
“si apre davanti a noi un mondo interiore che noi esploreremo in questo libro della
natura, non per distinguere –come si richiede alla filosofia dell’arte– ciò che, nelle
nostre impressioni estetiche, è da riferirsi all’azione delle forze esterne sui
sentimenti da ciò che è invece legato alle molteplici disposizioni dell’attività
spirituale, ma piuttosto, per descrivere in qual modo nel nostro spirito nasca uno
schietto senso della natura e per cercare le cause che, soprattutto nei tempi
moderni, hanno profondamente contribuito, attraverso il risveglio dell’immagine,
all’impegno per lo studio della natura e alla propensione per i viaggi in terre
lontane” (von Humboldt, 1975, pp.234-235).
In realtà Alexander von Humboldt, aspirando a comprendere il Kosmos29 parla anche di
“senso della natura come emozione semplice e immediata” e dedica decine di pagine a
discutere di “descrizioni letterarie della natura”, di “sentimenti della natura a seconda dei
tempi e delle razze” e di “pittura paesaggistica”. In questo modo egli, oltre a spingere verso
un’interpretazione scientifica, si fa contemporaneamente promotore di una “concezione poetica
del mondo”, che scaturisce proprio dalla sensibilità (e quindi dalla soggettività) dell’individuo.
Lo scienziato che studia la natura assomma all’osservatore distaccato, che si avvale
dell’obbiettività della scienza, il partecipante che la interpreta con spirito poetico: egli deve
studiare la natura sotto i due aspetti:
“una volta in maniera obiettiva attraverso l’osservazione dei fenomeni reali e poi
attraverso il riflesso di essa sui sentimenti dell’umanità” (von Humboldt, 1975,
p.267).
Assommava,per dirla con David N. Livingstone (1992, p.134):
“l’empirismo baconiano del naturalista navigatore dello stampo di Cook, l’ideale
filosofico kantiano di una scienza universale, la passione di Gorge Forster per la
bellezza della natura e la ricerca idealistica goethiana per un principio coordinatore
trascendentale”.
La sua cultura, i suoi viaggi ed i suoi studi lo portarono a sempre più considerare l’uomo
come l’elemento chiave del Kosmos “parte integrante del quadro ambientale, al quale è
soggetto in quanto essere vivente ma che modifica con la sua attività di essere pensante, pur
essendone, complessivamente, condizionato” (Milanesi, 1975, p.13) tanto che lo studio della
distribuzione dell’uomo sulla terra rappresentava per lui “l’ultimo e più nobile scopo di una
descrizione fisica del mondo” (von Humboldt, 1975, p.220). Egli è stato forse il primo ad
imprimere alla geografia quel impulso che tenderà a trasformarla da scienza corografica a
disciplina antropica. Importante sarà poi la sua influenza sugli studi sull’integrazione
uomo/natura ed il riflesso che hanno sugli uomini i vari fenomeni naturali non tanto a livello
materiale quanto, e principalmente, a livello spirituale ed emotivo30.
29
Termine che, secondo F.Farinelli (1992, p.139) per lui non significa semplicemente mondo ma “ordine nel mondo”.
Non si vuole qui fare riferimento al determinismo ma a quegli studi che andavano sotto il nome di “Geografia
Poetica” o di “Geopsiche”, che saranno fortemente avversati dai geografi positivisti. Circa l’idea di Geopsiche si veda
l’interessante lavoro di W.Hellpach (1960).
30
15
Inoltre egli, nonostante consideri la carta geografica come lo strumento principe dei
geografi, ma arriva a sostenere che
“le carte geografiche esprimono le opinioni e le conoscenze, più o meno limitate, di
chi le ha costruite, sono anzi il luogo in cui più evidente risulta come in geografia
fatti e opinioni interagiscono mutuamente e finiscono spesso per confondersi”
(Farinelli, 1992, p.131).
Nuovo è inoltre il concetto di studio della regione. Egli vede il mondo diviso in una serie di
regioni naturali, ciascuna con il proprio insieme di piante e animali, e questo si rivelò terreno
estremamente fertile per la geografia successiva segnando un cambiamento radicale. Come,
infatti, nota David N. Livingstone:
“la forte inclinazione di Humboldt nei confronti delle analisi regionali sulla
vegetazione può essere vista con un cruciale ingrediente dello scivolamento da un
sistema analisi basato sulle evidenti caratteristiche morfologiche verso un nuovo
epistema che enfatizza l’intera sottostante coesione ecologica” (Livingstone, 1992,
p.138).
Fu molto attivo per quanto riguarda la diffusione della geografia e partecipò attivamente
all’organizzazione delle prime società geografiche intervenendo direttamente nella creazione
della Società di Geografia di Parigi, la prima del tempo. Egli però,come giustamente nota Paul
Claval (1972, p.26):
“non fu all’origine di una scuola, non ebbe discepoli diretti; la sua influenza si
manifestò un poco per volta, via via che un ambiente geografico prendeva forma”.
Karl Ritter (1779-1859) il primo geografo a coprire una cattedra ufficiale di geografia
all’università di Berlino –cattedra che tenne per circa un quarantennio dal 1820 fino alla sua
morte– è stato anche il primo geografo a delineare in modo chiaro il suo metodo che espose in
un unico volume in cui riunì tutti i suoi scritti teorici31. Come afferma nella prefazione del suo
lavoro vi è un forte bisogno di una riflessione teorica in quanto si è assistito, fin’ora:
“ad una proliferazione di opere geografiche ma il loro apporto teorico lascia molto a
desiderare… lo scopo [di questa raccolta] è di stimolare l’evoluzione del pensiero
geografico” (Ritter, 1974, p.37).
Gli studi precedenti –sempre secondo Carl Ritter– si erano costantemente accontentati
“di descrivere e classificare sommariamente le diverse parti del Tutto [la Terra] ed
è per questo motivo che la geografia non ha potuto interessarsi delle relazioni e
delle leggi generali: le sole in grado di trasformarla in scienza e dargli un’unità”
(Ritter, 1974, p.166).
La moderna geografia quindi non può più accontentarsi di “descrivere e classificare” ma deve
andare oltre: deve comparare fra loro le varie parti della Terra. Per questo egli cerca di definire
un metodo determinando delle regole precise:
“la regola fondamentale, che dovrebbe garantire la verità al Tutto, consiste nel
procedere da osservazione in osservazione e non da opinioni o ipotesi
all’osservazione… procedere dal semplice al complesso; dagli aspetti secondari del
problema a quelli essenziali e da ciò arrivare alla sua verità; dalla regola alle
31
Di questo volume ne esiste una traduzione francese a cura di G.Nicolas-Obadia (Ritter, 1974) cui ci si riferirà per
tutte le citazioni. Per un’interessante analisi del pensiero ritteriano si veda M.Korinman (1981).
16
eccezioni procedendo così verso tutte quelle direzioni che rientrano nel campo delle
relazioni spaziali” (Ritter, 1974, pp.57-58).
La Geografia Generale Comparata non dovrà mai venir meno a simili regole generali ma se così
non fosse
“occorrerà incriminare o la mancanza di dati ed informazioni o il geografo stesso
ma mai il carattere intrinseco del metodo che, nonostante le difficoltà
dell’applicazione, sarà sicuramente capace di tener fede a molte delle sue
promesse” (Ritter, 1974, p.58).
Come nota Franco Farinelli, per Karl Ritter lo scopo della sua Geografia Generale
Comparata
“è innanzitutto quello della precisa individuazione degli oggetti naturali, per
arrivare a stabilire sulla base dell’accertamento di ogni forma autonoma e specifica,
i tipi fondamentali delle formazioni che costituiscono lo spazio riempito di cose
terrestri e la loro reciproca relazione” (Farinelli, 1992, p.122).
Secondo Carl Ritter, infatti, la Geografia Generale Comparata è giustamente definita da due
aggettivi:
“Generale, non perché essa voglia dire tutto ma perché –pur senza darsi uno scopo
ben definito– essa si sforza di studiare, secondo la loro natura e con la medesima
attenzione, ogni parte della terra ed ognuna delle sue forme… [in altri termini] solo
partendo dai tipi fondamentali… sarà possibile elaborare un sistema naturale.
Comparata, nel senso di quelle scienze che [prima della geografia] si sono
costituite come discipline istruttive,… la nostra conoscenza dei vari luoghi
disseminati sulla superficie della terra è arrivata a tal punto che è possibile
auspicare la comparazione delle forme simili e comparare il loro modo d’azione”
(Ritter, 1974, pp.55-56)32.
Se per Immanuel Kant storia e geografia sono due discipline separate che assieme
permettono all’uomo di razionalizzare la sua esistenza, per Carl Ritter il loro legame si cementa
e la geografia non può certo fare a meno della storia
“la scienza geografica non può essere privata del fattore storico se vuole essere la
vera disciplina delle relazioni spaziali terrestri e non essere solamente
un’accozzaglia di astrazioni” (Ritter, 1974, p.133).
Così egli pone sulla superficie terrestre l’elemento umano con la sua storia33 ma lo pone in
modo così dominante da trasformare la geografia da scienza puramente corografica (cioè
fisica) in disciplina antropica:
“il sistema terrestre è stato sottomesso… [alle] forze meccaniche, fisiche ed
intellettuali in cui l’evoluzione s’è mescolata con la storia dell’umanità… l’abilità
dell’uomo [ha] trasformato la penuria in abbondanza ed ovunque la civiltà ci ha
insegnato a resistere alla natura” (Ritter, 1974, pp.139-140).
32
Per una prima analisi critica del termine comparata si vedano l’articolo S.Mehedinti (1901) e la critica di F.Porena
(1901).
33
E sarà la maggior critica che gli verrà fatta dai geografi successivi di matrice positivista o che comunque
privilegeranno gli aspetti fisici: pesante è l’attacco di H.Wagner (1911, p.27) “si diffuse il concetto che la geografia
fosse una scienza ausiliaria, priva di uno scopo a sé”. R.Almagià (1919, p.4) afferma “i Ritteriani… lasciaron
soverchiamente prevalere l’elemento storico, astraendo troppo spesso dalla considerazione dell’ambiente naturale”; si
veda anche A.R.Toniolo (1947, p.55) “trascurando i fattori dell’ambiente e giungendo così a conclusioni spesso fallaci
o ingenue”; M.Ortolani (1983, p.145) “l’insegnamento di Ritter fece presa forse più sugli storici che non sui geografi”.
17
In questo modo, lo scopo della Geografia Generale Comparata diviene quello di studiare le
relazioni tra la Terra e l’uomo ma, pur nella reciprocità delle loro influenza, dando maggior
peso all’uomo. Lo scopo della Terra, nella varietà delle sue forme e regioni, è quello di servire
l’uomo, soddisfare i suoi bisogni ed indirizzarne le aspettative verso il suo bene:
“Dio ha donato a l’uomo la natura come compagna. Deve essere per lui come
un’amica fedele, porsi sia consigliera sia confidente nella sua vita mortale. Per
l’individuo e per l’umanità intera deve essere come l’angelo custode che aiuta a
trovare la pace interiore. Nello stesso modo, come pianeta, la Terra è la madre che
sostiene l’umanità intera, così ogni cosa nella natura è destinata a svegliare le
coscienze, guidarle e formarle. Autentico elemento organizzatore dell’umanità essa
la prepara, destino più nobile, a cogliere e comprendere l’infinito entro ciò che non
è visibile” (Ritter, 1974, pp.70-80).
In questo modo la Terra, nella sua diversità e nella sua unità, è vista al servizio dell’uomo e
Karl Ritter giustificò tale visione riconducendola a Dio: la diversità nell’unità non è casuale ma
voluta da un’Entità Superiore34. La geografia diventò così studio delle leggi generali che
regolavano l’unita del mondo apparentemente diversificato, opera suprema di Dio. D’altra
parte non bisogna neppure dimenticare che questo suo atteggiamento teleologico fu
influenzato dalla filosofia idealista hegeliana per il quale tutte le cose hanno senso in Dio,
nell’Assoluto. Karl Ritter fece sua la visione dialettica di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, con la
convinzione che, al di là della diversità, c’è la razionalità dell’Assoluto35. Come nota Franco
Farinelli:
“la mira di Ritter è quella di comprendere finalmente la storia degli uomini e dei
popoli anche da un lato meno considerato, dal punto di vista del teatro totale della
loro attività, oppure –ed è la stessa cosa– la Terra nel suo rapporto essenziale con
l’umanità. E tutto ciò con una dichiarata intenzione produttiva: predire, a partire
dai dati generali, la cadenza necessaria all’evoluzione di un dato popolo in un dato
luogo, cadenza che dovrebbe essere fissata ed adottata dal popolo in questione per
accedere alla prosperità che il Destino eterno e giusto assegna ai popoli dotati di
fede” (Farinelli, 1992, p.123).
Il tentativo di Alexander von Humboldt di conciliare le scienze naturali empiriche con lo
spirito del classicismo tedesco non ha seguaci, né sembra particolarmente recepita la sua
fondamentale esigenza dell’unità del sapere rappresentata efficacemente dal Kosmos, quale
tentativo di conciliare le scienze naturali empiriche con lo spirito del classicismo tedesco
(Milanesi, 1975, p.22). Ma nemmeno il grande disegno d’interpretazione teleologica del mondo
di Karl Ritter avrà un grande seguito e sarà anche oggetto di forti critiche nello sforzo di
esorcizzare la sua aspirazione teleologica (Livingstone, 1992, p.262). Nonostante la loro
notevole importanza culturale ebbero però, come nota Friedrich Ratzel, una scarsa importanza
per il pensiero geografico sia perché:“nelle università e nelle accademie la scienza della
geografia come tale non era in niun luogo rappresentata” sia, e principalmente, perché le loro
34
Lo stesso F.Ratzel (1914, p.72) nota come per K.Ritter l’ambiente fisico sia “stato apprestato appositamente per
[l’uomo] affinché egli vi possa compiere il proprio sviluppo secondo il disegno del Creatore”.
35
K.Ritter e G.W.F.Hegel furono colleghi all’Universtà di Berlino. Circa l’influenza della geografia ritteriana su
G.W.F.Hegel si veda P.Rossi (1975, pp.24-46).
18
dottrine “rimasero, l’una accanto all’altra, due organismi a sè, autonomi, rispecchiando
entrambe due concezioni troppo originali per poter fare scuola nel consueto senso della parola”
(Ratzel, 1905/7, vol.I, pp.56 e 58).
Ciò che comunque accomuna i due geografi pur nella loro diversità –Alexander von
Humboldt l’esploratore e Karl Ritter il geografo da tavolino– è la volontà di individuare l’unità
nella diversità, un’unità che trova giustificazione nel Volere Divino (Ritter) o nel Destino della
Natura (von Humboldt). Erano pensatori di transizione che cercarono di mettere assieme, in
grado diverso, la filosofia romantica della natura ed il misticismo religioso premoderno con le
nascenti teorie scientifiche moderne. Un tipo di concezione basato sulla teologia naturale che
non potrà reggere nei confronti dell’empirismo scientifico di stampo positivista e non sarà in
grado di fornire i presupposti necessari per una legittimazione scientifica della geografia. Sarà
proprio la mancanza di tali presupposti a giustificare lo spostamento delle basi concettuali del
pensiero geografico verso la biologia evoluzionistica, dando vita a quello che chiameremo
paradigma determinista.
2.3 – L’istituzionalizzazione della geografia in Europa.
La seconda metà del 1800 rappresenta un momento molto importante perché, segnando il
passaggio dall’episteme classica a quella moderna, definisce “l’inizio della nostra modernità”36.
L’obiettivo della scienza non era più quello di essere il testimone del Volere Divino o del
Destino della Natura e di dover trovare nel Grande Progetto la Causa Finale: la scienza
moderna cercava di determinare la legge della natura come la causa primaria quale possibile
spiegazione della realtà osservata. Come nota Michel Foucault (2006, p.12):
“non che la ragione abbia fatto progressi; è il modo d’essere delle cose che è stato
profondamente alterato: delle cose e dell’ordine che, ripartendole, le offre al
sapere”.
In questo periodo la spinta allo sviluppo della geografia è inoltre legata a tre importanti
motivazioni: il diffondersi dell’idea di nazionalismo, con la definitiva formazione degli stati
nazionali37,
l’espansione
del
colonialismo
europeo,
e
–forse
la
più
importante–
la
riorganizzazione dell’intera struttura scolastica, in particolare delle università, con la connessa
istituzionalizzazione delle varie discipline.
Il nazionalismo, con la relativa formazione degli stati nazionali38, richiedeva studi sempre
più precisi sulla struttura geologica del territorio connessi alla ricerca di materie prime, alla
canalizzazione dei fiumi, alla costruzione della rete ferroviaria, alle analisi climatico–
pedologiche per favorire l’agricoltura. L’imperialismo, con la stabilizzazione dei vari “imperi
coloniali”, aveva bisogno di studi volti ad aumentare la conoscenza delle colonie sia in vista
della loro possibilità popolamento sia per la conoscenza delle loro ricchezze naturali da
36
Per un’approfondita analisi della transizione epistemica si veda l’importante lavoro di M.Focault (2006, la citazione è
a p.12).
37
Al riguardo si veda C.Tilly (1984).
38
Sull’importanza degli États civilisés si veda E.De Martonne (1925, pp.19-20).
19
utilizzare nella crescente produzione industriale. Significative sono le parole che Friedrich
Ratzel pone all’inizio dei suoi volumi divulgativi:
“la politica e la strategia devono conoscere il terreno sul quale vogliono avanzare;
per conoscerlo devono studiarlo geograficamente; e nel mentre determinano la
posizione dei luoghi, aprono strade e disegnano le carte, rendono più sicura
l’occupazione... quando maggiore è la potenza e più imperioso è il bisogno di una
espansione politica ed economica, affluiscono in copia le novità geografiche ed è
più sentita la necessità di allargare in questo campo le proprie cognizioni” (Ratzel,
1905/7, vol.I, p.2).
Tuttavia, stando alle tesi di Horacio Capel e di Paul Claval39, è soprattutto l’evoluzione dei
sistemi educativi dei paesi europei a favorire il decollo della geografia universitaria. La
“borghesia”, infatti, sia per dar vita al “nuovo stato nazionale” sia per conquistare, controllare
ed organizzare le colonie aveva bisogno di migliorare ristrutturando, fra l’altro, tutta la vecchia
struttura scolastica e quindi anche l’insegnamento universitario delle discipline geografiche40.
Ristrutturazione che, avvenuta nella seconda metà del 1800, portò al diffondersi –in particolare
in Germania e Francia– dell’insegnamento delle materie geografiche in tutti i tipi di scuola ed al
definirsi di cattedre universitarie di geografia. In questo modo già nel 1890, tutte le università
tedesche e francesi disponevano di insegnamenti specializzati di geografia41.
Il notevole ampliarsi dell’insegnamento della geografia offriva, tra l’altro, nuove e importanti
possibilità professionali. Tutto ciò ha sicuramente spinto molti ad aderire alla disciplina che,
forse anche per questo, è riuscita a rinnovarsi più facilmente: i nuovi geografi erano, per la
maggior parte, quasi autodidatti:
“non hanno imparato la geografia sui banchi di una università, vi sono pervenuti
per strade diverse. La vocazione di alcuni è stata dai viaggi. Per altri, proviene da
qualche ragione di opportunità: hanno visto un nuovo ambito, nel quale avrebbero
potuto ritagliarsi senza difficoltà uno spazio culturale” (Claval, 1972, p.32)42.
A fianco ciò vi è stata anche una sempre maggior richiesta di testi di geografia e di atlanti
proveniente, non solo dalla nuova e crescente domanda scolastica, ma anche dall’interesse del
grande pubblico per la descrizione di paesi. Tutto questo ha poi agito come stimolo per lo
sviluppo di collane di pubblicazioni geografiche e per la nascita di istituti cartografici
specializzati. In questo modo si era venuto a creare un sostrato sia culturale sia editoriale
capace di sostenere la geografia quando, dopo i primi passi, inizierà a diffondersi
nell’insegnamento superiore.
39
P.Claval ed H.Capel sono, a mio parere, i due più importanti storici del pensiero geografico europeo e le loro analisi
sulla sua evoluzione sono a tutt’ora insostituibili.
40
Come nota F.Ratzel, 1905/7, vol.II, p.818: “non sono più i tempi in cui il mercante commerciava per mezzo
dell’interprete”.
41
Come nota H.Capel, 1987, p.33: “In Germania al 1870 esistevano tre sole cattedre universitarie di geografia (Berlino,
Gottinga e Breslavia)… nel 1890 in pratica tutte le università tedesche possedevano insegnamenti di geografia”. Per
quanto riguarda la Francia P.Claval (1972, p.31) giustamente annota: “Negli anni successivi alla sconfitta del 1870
coscientemente ci si sforzò di imitare l’insegnamento superiore tedesco, di cui improvvisamente si comprendeva
l’efficacia”.
42
Su posizioni analoghe è anche H.Wagner, 1911, p.27.
20
Se questo rappresenta “l’humus” sociale e culturale che permetterà, dalla seconda metà del
1800, lo svilupparsi della disciplina, il “seme” è, nella sua sostanza, rappresentato
dall’istituzionalizzazione universitaria e dallo sviluppo dell’insegnamento superiore43. E questo
perché, seguendo il ragionamento di Paul Claval,
“il corso universitario… viene subìto maggiormente dall’ascoltatore di quanto lo sia
ciò che è scritto, dal lettore; ha una continuità, una presenza che rende più
percepibile le opinioni fondamentali dell’insegnante. Molto spesso il lettore… può
rimanere completamente estraneo ad un autore che vuole utilizzare. Il corso invece
è spesso intercalato da considerazioni che, pur essendo equivalenti alle note di un
lavoro, sono tuttavia molto più efficaci perché costituiscono un’integrazione
organica dell’esposizione. Il corso trasmette in diverse maniere l’inespresso che la
parola scritta ignora. Le intonazioni del professore possono informare sul suo
scetticismo riguardo ad una teoria mentre il testo scritto può apparire a volte
completamente neutrale e senza un partito preso” (Claval, 1972, p.33).
In questo modo la creazione di cattedre istituzionalizzate all’interno di una struttura
universitaria ben definita ed organizzata ha consentito la nascita di vere e proprie scuole di
pensiero caratterizzate dal raggruppamento di discepoli intorno ad un maestro. Si è avuto così
un cambiamento notevole rispetto alla formazione dei geografi della generazione precedente,
spesso solitari e per la maggior parte autodidatti: “casi isolati, senza grande influenza diretta,
nonostante il prestigio che li accompagnò in vita” (Capel, 1987, p.23). E questo può
sicuramente spiegare la sostanziale discontinuità che si venne a creare tra il sapere geografico
di prima del 1800 e quello successivo: la mancanza di un insegnamento continuativo e definito
non fa certo nascere scuole di pensiero44.
Nei tre più importanti stati nazionali europei, pur con delle sostanziali differenze nella
“filosofia” delle relative scuole di pensiero, la logica dell’istituzionalizzazione è molto simile.
In Germania, nel corso del XIX secolo, vi è stato un evidente e costante tentativo di
migliorare il grado di scolarizzazione della popolazione come mezzo per rafforzare il sentimento
di unità nazionale, al di là delle differenze proprie delle regioni del Reich45. In questo contesto
la geografia viene vista come disciplina adatta per eccellenza a rafforzare tale sentimento.
Come nota Franco Farinelli (1992, p.121):
“nella ‘Prussia tra riforma e rivoluzione’ della prima metà dell’ottocento già si
registrano i primi segni dell’istituzionalizzazione delle espressioni della società nello
Stato di diritto in via di formazione: come nel caso dell’introduzione a Berlino, nel
1820,… della geografia borghese all’Università e all’Accademie militare”.
In Francia il processo di istituzionalizzazione della geografia ha inizio a partire dagli anni ‘70
dell’Ottocento e ricalca grosso modo quello tedesco46. La sconfitta nella guerra francoprussiana ha grandi ripercussioni ed induce i francesi a promuovere un ampio rinnovamento
43
“Si mûre que fût la science géographique, elle ne commença à porter des fruits que du jour où elle eut pris racine dans
le sol universitaire, en contact intime avec les sciences au développement desquelles elle doit être associée”: E.De
Martonne, 1925, p.20.
44
Emblematico è il caso di Immanuel Kant che –come notato prima– ha insegnato a lungo geografia e raramente, nei
vari manuali di storia o filosofia, viene ricordato il suo ponderoso trattato di “Geografia Fisica”; in ogni caso, anche se i
manuali accennano a ciò, non viene mai data nessuna spiegazione al riguardo.
45
Sull’istituzionalizzazione della geografia in Germania si veda: H.Capel (1987, pp.23-38.
46
Sull’istituzionalizzazione della geografia in Francia si veda: H.Capel (1987, pp.39-56).
21
sociale che si traduce tra l’altro in una revisione degli studi e in una ristrutturazione delle
facoltà universitarie sul modello di quelle tedesche. La presenza della geografia in ogni ordine e
grado della scuola induce anche qui un aumento delle cattedre universitarie e una conversione
a questo campo del sapere soprattutto degli storici.
Infine, il caso della Gran Bretagna offre un’ulteriore conferma dello stretto rapporto
esistente in questa fase fra istituzionalizzazione e insegnamento primario e secondario47.
Infatti, qui il ritardo nello sviluppo della scolarizzazione della geografia si riflette nel suo
mancato decollo nelle università. Questo ultimo risulta alquanto lento e difficile anche dopo la
prima guerra mondiale nonostante l’Inghilterra si presentasse come la potenza coloniale per
eccellenza. La geografia qui è legata essenzialmente ai viaggi e alle esplorazioni e la sua
presenza nella scuola di base serve come mezzo di controllo sociale per far conoscere ai
giovani la potenza del loro Stato, i luoghi verso cui si dirige l’emigrazione, o ancora le colonie
dove sono deportati i detenuti. La crisi è, evidentemente, soprattutto a livello universitario
dove la geografia viene considerata parte delle discipline naturali e insegnata da naturalisti.
Sarà solamente con il 1887 che, a seguito di un contributo elargito dalla Royal Geographical
Society di Londra, l’università di Oxford istituirà il primo insegnamento di geografia e Halford
John Mackinder ne fu il primo Reader in Geography; la stessa operazione venne effettuata
l’anno seguente anche con Cambridge48.
Un’ulteriore forte spinta allo sviluppo della Geografia venne anche data sia dalle Società
Geografiche sia dai Congressi Geografici49.
La prima fu la Société de Géographie de Paris, istituita nel 1821, a cui seguì nel 1828 la
Gesellschaft für Erdkunde zu Berlin e, due anni dopo, la Royal Geographical Society di Londra;
ma già nel 1885 ne esistevano 94 che raccoglievano complessivamente 50.000 soci; di esse 80
erano europee (26 ubicate in Francia con 18.000 membri e 34 riviste; 24 in Germania con
9.300 membri e 28 riviste). Nel 1986 erano salite a 107 e di queste 48 si trovavano in Francia,
42 in Germania e 15 in Gran Bretagna. All’inizio i loro membri erano principalmente militari,
naturalisti, naviganti, commercianti, uomini politici e missionari e solo nel 1900, a mano a
mano che la geografia si istituzionalizza, diviene significativo il numero dei geografi, insegnanti
e docenti universitari.
Gli obiettivi delle varie società appaiono complessi ma i più importanti riguardavano
l’organizzazione dei viaggi e delle esplorazioni –che rappresentava una importante costante
degli scopi di tutte le società– assieme alla salvaguardia del commercio, la divulgazione dei
progressi nelle Scienze Geografiche assieme alle notizie relative a viaggi ed a esplorazioni.
47
Sull’istituzionalizzazione della geografia nel Regno Unito si veda H.Capel (1987, pp.57-70).
Si veda al riguardo D.I.Scargill (1976), D.R.Stoddart (1975), P.Gribaudi (1902) e L.Gallois (1906);
un’interpretazione più generale ne dà T.R.Slater (1988). Nel 1989 la rivista The Geographical Journal dedica un intero
fascicolo monografico dal significativo titolo “Hundred Years of Geography at Oxford and Cambridge”.
49
Sul ruolo delle Società Geografiche e dei congressi si veda H.Capel, 1987, pp.99-142.
48
22
Oltre ciò, ed in vario modo, le varie società si interessano dell’impianto di stazioni
meteorologiche, dell’effettuazione di osservazioni astronomiche e di studi etnografici.
Per quanto riguarda i fondi disponibili essi sono costituiti essenzialmente dalle quote dei soci
ma la buona presenza di uomini politici (ministri, senatori...) garantisce un efficace canale per
conseguire aiuti economici che, spesso, giungono per vie indirette sotto forma di contributi per
le pubblicazioni, di sottoscrizioni a riviste, o come finanziamenti per progetti di viaggi ed
esplorazioni.
I Congressi Geografici hanno, da sempre, costituito un momento irrinunciabile per l’incontro
di studiosi interessati alla disciplina in quanto capaci di stimolare collaborazione e confronti fra
vari studiosi e diverse scuole di pensiero. Inoltre, occorre tener presente la notevole quantità
di documenti, pubblicazioni varie ed atti finali che accompagnano normalmente ogni
congresso. Il loro valore è stato universalmente riconosciuto, tanto è vero che già dal sesto
congresso, quello di Londra del 1885, assumono un carattere periodico. Ospitare un congresso
divenne, per ogni comunità nazionale, un fatto importante sia perché agiva da stimolo sulle
attività di ricerca, dando luogo a studi sulla geografia del proprio paese, sia -e principalmenteperché permetteva di presentare sul piano internazionale i propri progressi in ambito
scientifico.
Il primo congresso geografico internazionale vero e proprio ha avuto luogo ad Anversa il 14
agosto del 1871, alla presenza di oltre 600 partecipanti, e ben altri dieci si susseguirono, a
scadenza abbastanza regolare, fino al 1913. Generalmente essi hanno avuto luogo in Europa
tenendo conto della preminente posizione dei paesi europei nel campo scientifico; il congresso
di Washington (1904) rappresenta la prima eccezione a questa regola.
I primi congressi sono caratterizzati da una grande varietà di partecipanti sotto il profilo
professionale (diplomatici, militari, giudici, avvocati, uomini di Stato, medici, ingegneri,
studiosi, uomini d’affari, giornalisti, nobili) mentre coloro che si dichiaravano geografi tout
court erano una minoranza: questi ultimi rappresentavano appena il 22% dei partecipanti al
primo congresso di Anversa del 1871 per salire al 85% al ventesimo di Londra del 1964. Molto
probabilmente tutto questo è da attribuire al fatto che la loro organizzazione spettava (almeno
fino al 1922 anno di fondazione dell’Unione Geografica Internazionale50) alle società
geografiche che ovviamente lasciavano molto spazio ai propri soci. Fra questi ultimi, come
visto prima, i geografi veri e propri erano in netta minoranza data, appunto, l’ancora incerta
istituzionalizzazione della disciplina nelle università.
I vari congressi furono strutturati fin dall’inizio in sessioni di lavoro riguardanti temi
particolari. Interessante è la curiosa associazione, riproposta in alcuni dei primi congressi, fra
geografia, glottologia e filologia che si spiega “con l’interesse allora esistente per i problemi
attinenti la nomenclatura. Nel corso del XIX secolo una delle motivazioni fondamentali per
50
L’U.G.I. rappresenta l’associazione dei geografi universitari che, appunto dal 1922, gestisce i congressi internazionali
assieme a molte altre riunioni scientifiche.
23
organizzare congressi scientifici era proprio la necessità di unificare la terminologia ed
introdurre alcune convenzioni in campi specifici della scienza. In geografia essa venne avvertita
anzitutto per quanto concerne i toponimi, che occorreva unificare e poi spiegare” (Capel, 1987,
p.125).
24
3 – Il determinismo geografico e la scuola tedesca.
È anzitutto da notare, che tutto quanto si riferisce alla natura,
all’ambiente, è immutabile in confronto a ciò che si riferisce
all’uomo…
soltanto la scienza naturale progredisce come scienza ricercatrice
di leggi, ma la storia non muove un passo innanzi.
Friedrich Ratzel, Geografia dell’uomo, pp.13-15.
3.1 – Premessa
Il riconoscimento della geografia in quanto disciplina universitaria, come accennato
precedentemente, è stato abbastanza lento e questo sia per suo impianto sostanzialmente
cosmografico e teleologico sia per l’opinione che la geografia fosse complementare alla storia.
Per contro, gli elementi che giocarono a suo favore furono, come visto, il diffondersi delle
Società Geografiche e lo svilupparsi del nazionalismo. Le Società Geografiche permisero alla
geografia di radicarsi nella borghesia quale conoscenza che poteva favorire l’espansionismo
coloniale e lo sfruttamento di nuove terre. Il nazionalismo ne favorì lo studio come punto
chiave per rinforzare il sentimento nazionale diffondendo nozioni sull’economia, sulle possibilità
di commercio ed espansione. Alla geografia mancavano soltanto delle solide basi scientifiche
per potersi affermare ed istituzionalizzare: basi che vennero trovate nel positivismo comtiano e
nell’evoluzionismo darwiniano.
3.2 – Il positivismo e l’evoluzionismo: le basi della geografia determinista.
Il positivismo comtiano, per lo meno nel periodo in esame, non può certo essere inteso
solamente come una filosofia ma deve essere considerato sia un metodo scientifico sia una
concezione del mondo e dell’uomo. Dal nostro punto di vista fondamentale è il metodo
scientifico positivo che –quali unici criteri di scientificità applicabili a qualsiasi disciplina–
presupponeva la valorizzazione della ragione, l’utilizzo del metodo empirico-induttivo, il
modello delle scienze della natura e l’affermazione di una posizione monista e materialista.
Dal punto di vista del metodo scientifico positivo, secondo Walter M. Simon, per le scienze
dell’uomo era fondamentale che
“il presupposto che i fenomeni del pensiero umano e della vita sociale siano
collegati ai fenomeni del mondo inorganico e organico della natura e siano perciò
suscettibili d’indagine con metodi analoghi, in grado di produrre risultati
comparativamente attendibili” (Simon, 1980, p.14).
In questo modo il metodo scientifico positivo portava ad eliminare dalle varie scienze [della
natura o dell’uomo] tutte quelle interpretazioni non legate all’osservazione diretta dei “fatti
reali” che avrebbero portato a valutazioni metafisiche, vale a dire non direttamente derivate da
quei “fatti reali”. Questo perché le scienze debbono:
“subordinare sempre le concezioni scientifiche ai fatti dei quali esse sono destinate
soltanto a manifestare il legame reale” (Comte, 1979, p.203).
25
Così qualsiasi disciplina:
“se vuole assumere un effettivo carattere scientifico… dovrà limitarsi, nel modo più
scrupoloso, a cercare le leggi: quelle mediante cui i rapporti fenomenici particolari
vengono inseriti in rapporti generali. Dovrà infine respingere con la massima
decisione qualsiasi riferimento all’assoluto, dato che l’assoluto trascende per
definizione il mondo dell’esperienza: una scienza fondata sull’esperienza non può
essere altro che scienza del relativo” (Geymonat, 1971, p.439).
Solo così quelle leggi generali avranno valore scientifico universale e, attraverso esse, si
potranno in seguito definire delle spiegazioni universalmente valide da cui derivare delle
previsioni attendibili. In altri termini, secondo Auguste Comte:
“teorie direttamente connesse con le leggi dei fenomeni e destinate a fornire
previsioni reali, sono oggi valutate come le sole in grado di regolarizzare la nostra
azione spontanea sul mondo esterno. Per questa ragione lo spirito positivo è potuto
divenire sempre più teorico e tendere ad impadronirsi a poco a poco di tutto il
campo speculativo” (Comte, citato in Ferrarotti, 1977, p.43).
Inoltre, la base irrinunciabile per ogni scienza è rappresentata dall’esperienza del reale cioè
dall’osservazione dei fatti:
“la filosofia positiva è innanzitutto profondamente caratterizzata, in qualsiasi
soggetto, da questa subordinazione necessaria e permanente dell’immaginazione
all’osservazione, il che consiste soprattutto lo spirito scientifico propriamente detto,
in opposizione allo spirito teologico e metafisico” (Comte, 1979, p.202).
Solo in questo modo sarà possibile scoprire o perfezionare l’esatto coordinamento
dell’insieme dei fatti osservati e così ottenere i mezzi per intraprendere nuove indagini che
permetteranno di risalire a quelle asserzioni generali che rappresentano le relazioni costanti
che esistono tra quei fatti. Avendo posto quale postulato base che la vera conoscenza deriva e
si basa sull’osservazione di fatti concreti, è chiaro che qualsiasi scienza che poggi su
interpretazioni metafisiche e cerchi di dare spiegazioni finali è inconsistente appunto perché
inesistente è il suo contenuto o il suo oggetto, in quanto non legato ai fatti. O meglio, come
nota Ludovico Geymonat:
“i concetti, le proposizioni, le teorie che non ammettono in ultima istanza una
verifica empirica debbono venir considerati essenzialmente metafisici e perciò non
possono trovare cittadinanza entro la scienza” (Geymonat, 1971, p.439).
Tali relazioni costanti non sono altro che quelle leggi di natura51 atte a governare i fatti concreti
e quindi permettere una previsione attendibile:
“lo scopo dell’indagine scientifica –nota appunto Nicola Abbagnano– è la
formulazione delle leggi perché la legge permette la previsione: e la previsione
dirige o guida l’azione dell’uomo sulla natura” (Abbagnano 1969, pp.282-283).
Qualsiasi scienza non può essere fine a sé stessa, ma deve essere utile alla società ed il suo
livello più alto di utilità consiste, non tanto, nel dare spiegazioni razionali ma nel prevedere:
“il principio fondamentale della sana filosofia consiste necessariamente
nell’assoggettamento continuo di tutti i fenomeni inorganici e organici, fisici o
51
Per un’analisi epistemica dei concetti di Legge
sovrapposizione/contrapposizione, si veda M.Casamonti (2006).
di
Natura
e
Legge
Scientifica
e
la
loro
26
morali, individuali o sociali, a leggi rigorosamente invariabili, senza le quali,
essendo impossibile ogni previsione razionale, la scienza sarebbe ridotta a sterile
erudizione” (Comte, citato in W.Tega, 1982, p.56).
Ma quelle “leggi di natura” così definite non possono essere considerate un “dato assoluto” –
sarebbe metafisica– in quanto la loro ricerca
“è assolutamente relativa, poiché presuppone immediatamente un progresso
continuo
della
speculazione
subordinata
al
perfezionamento
graduale
dell’osservazione, senza che l’esatta realtà possa essere mai, in alcun campo,
perfettamente rivelata” (Comte, 1979, pp.204-205).
La scienza positiva è quindi sempre attiva e sempre in grado di osservare “senza
prevenzioni” fatti reali da cui derivare leggi definite, procedendo sempre “con quello spirito
francamente positivo che devono oggi sviluppare i sani studi scientifici” (Comte, 1979, p.201).
Le scienze naturali divennero il modello scientifico cui riferirsi: solo attraverso l’osservazione e
comparazione dei fatti della natura era possibile dimostrare come ovunque si potessero
individuare delle relazioni costanti che rispondevano a leggi generali utilizzabili per previsioni
certe. Persino la società diventò analizzabile con il procedimento delle scienze naturali in
quanto, come nota Lewis A. Coser (1983, p.23):
“l’obiettivo che Comte si propose fu quello di creare una scienza della società, che,
costruita sul modello delle scienze naturali, fosse in grado di spiegare il precedente
sviluppo dell’umanità e di prevederne il corso futuro”.52
Dal punto di vista generale, il metodo scientifico positivo richiedeva, per la legittimazione
scientifica delle varie branche del sapere, cinque punti fondamentali53:
1) Le dichiarazioni scientifiche devono basarsi su un’esperienza del mondo diretta, immediata
ed accessibile empiricamente, quindi le dichiarazioni basate sull’osservazione vanno
privilegiate rispetto a quelle basate sulla teoria. E’ l’osservazione, infatti, a guidare
l’indagine scientifica; essa può essere condotta indipendentemente da qualsiasi
dichiarazione teorica: è quest’ultima che verrà costruita sulla base dell’osservazione.
2) Le osservazioni scientifiche devono essere ripetibili, e la loro generalità dev’essere garantita
da un metodo scientifico unitario accettato e definito correntemente dalla comunità
scientifica come un tutto.
3) La scienza dovrà poi avanzare attraverso la costruzione formale di teorie che, se verificate
empiricamente, assumeranno lo statuto di Leggi Scientifiche.
4) Queste Leggi Scientifiche avranno una funzione puramente tecnica, nel senso che
riveleranno l’efficacia o persino la necessità di specifiche congiunzioni di eventi; in altre
parole, dovranno avere la seguente forma: ‘Se A…, allora B…’.
5) Le leggi scientifiche dovranno venire progressivamente unificate e integrate in un unico e
incontestabile sistema di conoscenza e verità.
È
chiaro
che
tutto
ciò
rappresentava,
dal
punto
di
vista
geografico,
la
strada
dell’individuazione delle costanti alle quali ubbidivano o si uniformavano i fenomeni naturali: si
52
Sotto questo aspetto Auguste Comte viene ampiamente riconosciuto quale “fondatore della sociologia” o “almeno
della sua denominazione”, come suggerisce A.Akoun (1975, p.77). Al riguardo, secondo N.Abbagnano (1969, p.281)
per A.Comte “la scienza alla quale tutte le scienze sono subordinate, come al loro fine ultimo, è la sociologia”; si
vedano anche W.M.Simon (1980) e F.Ferrarotti (1962, 1968; 1974, pp.33-58); sul rapporto tra il positivismo comtiano e
le “scienze dell’uomo” si vedano M.Harris (1971, pp.80-90) ed i vari interventi nel volume collettaneo di A.Cantucci
(1982).
53
Su questo si veda il lavoro di R.J.Johnston D.Gregory D.M.Smith (1998, pp.358-361)
27
veniva così a definire ed a costituire un sapere scientifico che finiva per coincidere con l’idea
stessa di natura che fungeva da sfondo unitario sul quale la geografia trovava la sua ragione di
essere come scienza.
Assieme al positivismo nel XIX secolo si sviluppò un’altra grande “rivoluzione scientifica”:
l’evoluzionismo che scardinò il concetto di un universo statico, immutato dalla Creazione Divina
in poi, il cui caposaldo scientifico poggiava sulle teorie naturalistiche della fissità o
dell’immutabilità della specie espresse dalla fondamentale opera di Carlo Linneo Sistema
Naturae in cui categoricamente affermava “specie tot numeramus quot a principio creavit
infinitum Ens”54.
Il primo progresso nel senso evoluzionistico venne da Jean-Baptiste Lamarck con la sua
opera Philosophie zoologique in cui sostiene che tutte le specie viventi subiscono continue
mutazioni legate alle influenze ambientali:
“la natura, producendo successivamente tutte le specie di animali, e iniziando dai
più imperfetti… ha complicato gradualmente la loro organizzazione… ogni specie ha
ricevuto dall’influenza delle circostanze nelle quali si è imbattuta le abitudini che le
conosciamo e le modificazioni nelle proprie parti che l’osservazione ci mostra in
essa” (Lamarck, 1976, p.173).
Sostanzialmente la necessità di adattarsi ai diversi ambienti faceva sì che gli organi si
sviluppassero o si atrofizzassero a seconda che fossero usati o diventassero inutili. Quindi, la
diversità “delle circostanze” che il globo terrestre offriva agli esseri viventi alterava l’originaria
uniformità dando origine ad esseri e specie diverse.
Un passo ben più importante, dal nostro punto di vista, fu quello connesso alle conquiste nel
campo della geologia con la dottrina dell’uniformismo legata ai lavori di Charles Lyell55 e della
sua scuola attualista56. Essa contribuì a dimostrare che vi erano basi storico–scientifiche
accurate per dichiarare che la terra si era evoluta nel corso di milioni di anni ed era giunta
all’attuale conformazione dopo una lunghissima serie di lente trasformazioni.
Ma l’evento che, rivoluzionando la concezione dell’universo terrestre, meglio di tutti definì il
paradigma evoluzionista è legato alla fondamentale opera di Charles Darwin L’origine delle
specie pubblicata nel 1859. Basandosi strettamente sull’osservazione della realtà –procedendo
quindi con metodo scientifico positivo– Charles Darwin spiegò la dinamica dell’evoluzione in
termini di “selezione naturale”. Questa ultima, per dirla con le sue parole:
“è una forza sempre pronta all’azione, immensamente superiore ai deboli sforzi
dell’uomo, così come le opere della natura sono superiori a quelle dell’uomo”
(Darwin, 1967, p.131).
54
Citato da G.Montalenti, 1967, p.10.
Che definisce la geologia come “the science which investigates the successive changes that have place in the organic
and inorganic kingdoms of nature: it inquires into the causes of these changes, and the influence which they have
exerted in modifying the surface and external structure of our planet”, C.Lyell, 1847, p.1.
56
Si vedano P.F.Federici, (1987, pp.324-325); R.C.Lewontin R.Levino, (1978, p.1011). Sul legame fra C.Lyell e
C.Darwin, F.Mondella (1982, p.315) afferma: “un’opera [Principles of geology] che ebbe una grande influenza anche
sul giovane Darwin”; su questo anche D.R.Stoddart (1966, pp.684-686) e G.Montalenti (1967).
55
28
Come gli allevatori o gli agricoltori praticano una sorta di “selezione artificiale” per ottenere
individui migliori fra il bestiame e le piante, così la natura pratica una “selezione naturale”
favorendo la sopravvivenza e lo sviluppo degli individui che si sanno maggiormente adattare
alle difficoltà dell’ambiente. La selezione si attua come conseguenza
“della lotta per la vita. In virtù di questa lotta, le variazioni, per lievi ch’esse siano
e da qualsiasi causa provengano, purché siano utili in qualche modo agli individui di
una specie nei loro rapporti infinitamente complessi con gli altri organismi e con le
condizioni fisiche della vita, tendono alla conservazione di questi individui, e a
trasmettersi ai loro discendenti… Questo principio per il quale ogni lieve variazione,
se utile, si mantiene, è stato da me denominato “selezione naturale”, per indicare
la sua analogia con la selezione operata dall’uomo. Ma l’espressione “sopravvivenza
del più adatto”, spesso usata da Herbert Spencer, è più idonea, e talvolta
ugualmente conveniente” (Darwin, 1967, p.131).
Si tratta di interazioni competitive che generano piccole variazioni fortuite, che favoriscono
alcuni individui, il cui accumularsi in una direzione costante conduce al graduale differenziarsi
delle specie57. In questo modo i caratteri posseduti dagli individui più forti e più competitivi,
quindi meglio atti ad imporsi sugli altri, vengono trasmessi ereditariamente: la selezione
naturale è la chiave di volta della teoria darviniana.
Dal punto di vista evoluzionistico la terra nella sua totalità –rocce, piante e animali,
umanità compresa– diventò interpretabile come un unico organismo vivente le cui diverse
parti, svolgendo differenti funzioni collegate al tutto, si sviluppano ed evolvono interagendo
con l’intero sistema di riferimento. Ne consegue che le concezioni cartesiana e kantiana che
vedevano il mondo diviso in due –quello fisico e quello morale– non avevano più senso: i due
mondi sono soltanto due aspetti diversi della medesima realtà, interpretabili con la stessa
logica. Di più:
“la filosofia evoluzionista consentiva di prescindere da ogni principio sovrannaturale
per spiegare l’insieme di tutti i fatti osservati, ivi compreso il pensiero umano e
schiudeva così alla scienza l’ultimo ambito sino a quel momento inaccessibile… Il
pensiero, in rapporto al resto del mondo… diveniva un fenomeno tra i fenomeni.
Faceva parte del mondo e doveva essere spiegato come il mondo” (Claval, 1972,
p.52).
Così l’evoluzionismo, avvolgendo il mondo in una concezione globale e dinamica, permise di
interpretarlo come un unico grande organismo e di spiegarlo con il medesimo schema teorico
privo di qualsiasi idea teologica a priori58.
In questo modo l’ambiente, cioè la natura in generale, diventò l’elemento più importante
attorno al quale ruotavano l’uomo e tutti gli esseri viventi. Un ambiente, una natura non più
statica, eterna ed immutabile –casa dell’uomo dalla quale l’uomo, essere superiore, ne era
escluso– ma una natura dinamica in cui elementi e fatti nuovi, se empiricamente accertati, non
dovevano essere visti come eccezioni ma elementi normali da interpretare e nella quale l’uomo
57
Proprio questo è il punto, nella dottrina darwiniana, che causò gli scontri maggiori: l’aleatorietà delle mutazioni
rovesciava l’immagine di una natura armonicamente finalizzata secondo il disegno Divino.
58
O meglio, come nota D.R.Stoddart, 1966, p.697: “Darwin established a sphere of scientific enquirity free from a
priori theological ideas, and freed natural science from the arguments of natural theology”.
29
occupava il posto che gli competeva. Un posto importante e privilegiato ma non così diverso al
punto da sovvertire i criteri d’indagine. Così le teorie evoluzioniste, nate e sviluppate all’interno
delle scienze della natura, poterono essere estese anche alle scienze sociali tramite l’uso di
analogie organiche fondate sui concetti biologici di organizzazione e competizione. E’ ciò che fa
ad esempio Herbert Spencer59 parlando dello stesso progresso scientifico sostenendo che,
come qualsiasi conoscenza:
“anche la scienza e la tecnica dovevano considerarsi uno strumento di adattamento
della specie all’ambiente, e il loro progresso era quindi determinato in ultima
istanza dalla pressione demografica e dalla conseguente competizione” (Pancaldi,
1982, p.204).
Fu questo particolare rilievo dato all’ambiente, inteso come causa prima dell’adattamento e
del cambiamento di tutti gli esseri viventi uomo compreso, che permise alla geografia di
trovare quel forte fondamento perché potesse essere ritenuta una dottrina scientifica. Questo
almeno per due ordini di motivi:
--da una parte proprio la geografia, in quanto disciplina, aveva come uno dei suoi principali
campi di studio la struttura fisica della terra, intesa come l’ambiente darwiniano;
--dall’altro perché i geografi stessi si convinsero a concentrare le ricerche sulle relazioni tra
l’ambiente fisico e l’uomo e a ritenere che gli stessi canoni evoluzionisti, con cui era
interpretata la natura, potessero essere utilizzati per spiegare come le comunità si insedino sul
territorio e ne sfruttino le risorse (Vallega, 1989, p.68).
Come infatti nota Ronald J. Johnston (1988, p.36) i geografi
“anziché presentare semplicemente l’informazione in maniera organizzata, per
argomento o per area, cercavano spiegazioni per i modelli dell’attività umana sulla
superficie della Terra. La loro principale fonte per queste spiegazioni era l’ambiente
fisico, per cui si venne a creare una posizione teorica in base alla quale la natura
dell’attività umana era controllata dai parametri del mondo fisico”.
3.3 – L’accettazione del positivismo e dell’evoluzionismo in geografia.
Il positivismo non rappresentò una completa ed assoluta rottura con le principali idee sulle
quali poggiava la geografia di Immanuel Kant, Alexander von Humboldt e Karl Ritter. Lo studio
diacronico, e cioè l’importanza dell’analisi storica per capire e descrivere i fatti territoriali,
proprio di quei tre grandi precursori era ritenuto basilare anche in ambito positivista: la rottura
fu su come interpretare le forze che definendo l’evoluzione fornivano la possibilità di formulare
previsioni60. I positivisti rifiutavano infatti qualsiasi conoscenza metafisica che pretendesse di
comprendere e spiegare tramite posizioni assunte a-priori, non verificabili scientificamente. Di
qui il continuo sforzo di comprendere le leggi che controllavano la natura, ossia le relazioni
costanti che esistono tra i fenomeni osservati, adottando un approccio alla scienza di tipo
nomotetico. E’ in questo contesto che si assiste allo sforzo, a livello accademico, di trasformare
la geografia –da disciplina puramente descrittiva capace solo di catalogare ed ordinare dati ed
59
60
Sul suo pensiero si vedano L.A.Coser (1983, pp.141-192) e F.Ferrarotti (1968, pp.79-92).
Si veda al riguardo A.Holt-Jensen (1999, pp.26-28).
30
informazioni– in una disciplina nomotetica in modo da conferirle credibilità e renderla
accettabile come “scienza empirica”.
Se in questo modo possiamo capire e interpretare l’impatto del positivismo sulla geografia
ottocentesca, un po’ più complesso è spiegare l’inserimento dell’evoluzionismo darwiniano61.
Qui occorre tener presente il tradizionale dualismo tra geografia fisica e geografia umana.
La geografia fisica essendo relativa a fenomeni fisici (clima, acque, vulcani, pedologia,
morfologia…) è chiaramente legata alle scienze naturali e quindi è “per sua natura” una
“scienza empirica” interpretabile con i canoni del positivismo. In altri termini, per la geografia
fisica è possibile partire dalle osservazioni, analizzare i fatti, individuarne le relazioni costanti e
così formulare quelle leggi di natura, generali ed astratte, con cui definire delle previsioni
scientificamente coerenti. A differenza dei geografi fisici, però, i geografi umani non sono in
grado di verificare le loro ipotesi attraverso prove ripetibili in laboratorio e i metodi statistici
dell’epoca non erano ancora abbastanza sviluppati da offrirsi come appropriati strumenti nei
casi più complessi. Per la geografia umana il problema è, infatti, molto più arduo: come fa lo
“scienziato umano” ad osservare, analizzare e definire per prevedere, se l’esperimento
(l’individuo o la società) non è da lui totalmente sperimentabile in quanto la durata
dell’esperimento è spesso più lunga della vita dello scienziato stesso? In mancanza di
possibilità di sperimentare prima e verificare poi, la geografia umana, al pari della storia e della
filosofia, non può essere considerata una “scienza empirica” ma può solo far parte delle
“scienze umane”, delle humanities. La geografia umana potrà diventare scienza empirica solo
facendo riferimento all’evoluzionismo darwiniano
“la geografia dell’uomo non potrà avere una solida base scientifica, se non quando
avrà posto come pietre angolari delle sue fondamenta le leggi generali che
regolano la diffusione di tutta quanta la vita organica sulla Terra” (Ratzel, 1914,
p.9).
È l’evoluzionismo, quindi, che assume il ruolo di banco di prova dello scienziato, di punto di
riferimento che, dopo aver analizzato i fatti (relativi al comportamento dell’uomo ed alla storia
della sua società sulla superficie terrestre), permette di individuare quelle relazioni costanti
(dell’uomo in quanto animale) attraverso cui formulare le leggi di natura con cui definire
previsioni scientificamente coerenti: la geografia umana
“si vale degli stessi metodi delle scienze naturali… [ma] non può avvantaggiarsi
dello sperimento che in piccola misura. A questa deficienza essa trova compenso
valendosi ampliamente della comparazione” (Ratzel (1905/7, vol.I, p.60).
Comparazione che, basandosi sull’analisi dello sviluppo storico dei vari popoli o Stati ed
essendo utilizzata all’interno delle basi teoriche dell’evoluzionismo, rappresenta l’esperimento
richiesto dal metodo scientifico positivo.
In questo modo la geografia, sia fisica che umana, della seconda metà del 1800 trovò la sua
base filosofica nel metodo scientifico positivo e la sua base scientifica nell’evoluzionismo
darwiniano: due strutture concettuali che permisero ai geografi ottocenteschi di interpretare
61
Circa il problematico “impatto di Darwin sulla geografia” si veda D.R.Stoddartt (1966).
31
quel collegamento tra natura ed uomo, o meglio tra ambiente e cultura, e dare un forte
contenuto scientifico alla disciplina. Friedrich Ratzel (1844-1904) è il geografo cui usualmente
si fa riferimento quale fondatore del primo grande paradigma geografico denominato geografia
determinista62.
3.4 – La geografia determinista tedesca: il metodo e l’influenza di Friedrich Ratzel.
Nel corso della prima metà del 1800 in tutti gli Stati tedeschi formanti la Confederazione
Germanica venne razionalizzata l’organizzazione scolastica tanto che “intorno al 1840 soltanto
il 10% delle reclute prussiane non sapeva scrivere” ed al momento della formazione
dell’Impero l’obbligo scolastico poteva dirsi ormai consolidato (Cipolla, 1971, p. 87). La
geografia, in particolare in Prussia63, era insegnata in ogni ordine di scuola ed il suo
insegnamento universitario venne diffuso ed organizzato ben prima che negli altri paesi
europei tanto che verso il 1890 in tutte le università tedesche vi erano insegnamenti
specializzati in geografia64.
In quest’ambito estremamente favorevole la geografia umana comincia a definirsi come un
preciso ramo scientifico alla scuola di Friedrich Ratzel (1844-1904) considerato il fondatore
della moderna geografia ed il capofila di quella geografia politica che “ha permeato gran parte
della scuola germanica e profondamente influenzato i geografi americani e italiani” (Pecora,
1986, p.38)65. Egli, dopo un primo diploma come farmacista, s’iscrisse al Politecnico di
Karlsruhe seguì corsi di scienze naturali; si trasferì infine a Heidelberg dove, sotto la guida di
Ernst Haeckel, completò i suoi studi66. Fervente nazionalista si arruolò nella guerra del 1870 e
fu decorato con la Croce di Guerra. In seguito, come giornalista, viaggiò molto in Europa e
62
Sul pensiero ratzeliano si vedano gli interessanti lavori di: F.Farinelli (1992, pp.133-145); C.Minca L.Blialasiewicz
(2004, pp.137-151) e C.Raffestin D.Lopreno Y.Pasteur (1995, pp.29-75).
63
Circa il ruolo trainante, se non egemone, della scuola prussiana nei confronti dell’intera Germania si veda: P.Schiera
(1986). Sull’importanza della geografia per una politica espansiva della Prussia si veda P.Lorot, 1997, pp.7-8.
64
Secondo E.De Martonne (1925, p.20): “l’enseignement géographique universitaire a été organisé plus tôt que dans
les autres pays”. Si veda anche N.Broc (1977, p.73): “En 1890, pratiquement toutes les universités allemandes ont un
enseignement spécialisé de géographie”. Circa la sequenza delle varie cattedre di geografia ed i rispettivi titolari si veda
G.Sandner (1994, p.73). Sull’importanza delle Università nella Germania ottocentesca si vedano A.Missiroli (1986),
P.Schiera (1986) e H.Capel (1987, pp.26-30).
65
Come afferma A.Demangeon (1932, p.22): “Avant Ratzel, l’étude de la géographie politique n’avait jamais formé
une discipline systématique”; si veda al riguardo anche B.Nice (1943a, p.149). Circa la sua influenza sula geografia
italiana occorre ricordare che i suoi scritti più importanti sono stati prontamente tradotti anche in italiano: fra il 1891 ed
il 1896 vennero pubblicati, col titolo Razze Umane, i tre volumi di Völkerkunde, nel 1909 se ne tradusse la seconda
edizione; nei due anni 1901/1902 vennero pubblicati a dispense i due volumi La terra e la vita; nel 1906 venne tradotto
Il Mare. La traduzione dell’Antropogheographie è del 1914 e si basa sulla 3° edizione. Di Politische Geographie ne
venne iniziata una traduzione (probabilmente basandosi sulla seconda edizione) da Cesare Battisti che, sfortunatamente
mai completata, è stata data alle stampe solo nel 1988 quando è stato pubblicato il suo carteggio.
66
Molte sono le biografie di Friedrich Ratzel: fra tutte molto interessante è quella di M.Korinman (1990, pp.33-50). Fra
quelle in italiano si suggeriscono –anche se molto limitate– quelle presenti nei testi di P.Lorot (1997) di O.Marinelli
(1905) e di J.O’Loughlin (2000). Fu un prolifico scrittore e, come nota O.Marinelli, la sua produzione scientifica è stata
“straordinariamente abbondante, abbracciando quasi tutto il vasto dominio della geografia”; oltre all’interessante analisi
dei suoi principali scritti che ne fa O.Marinelli (1905, la citazione è a p.10) si veda l’importante necrologio che ne fa
J.Brunhes (1904, p.104) che enumera ben 24 libri ed oltre 100 articoli.
32
negli Stati Uniti67. Al ritorno dal suo viaggio negli Stati Uniti ottenne, nel 1875, la cattedra di
Geografia all’Università di Monaco e nel 1886 passò all’Università di Lipsia, dove insegnò
Geografia fino alla sua morte avvenuta nel 1904.
Egli vede nel metodo sperimentale la migliore delle procedure d’indagine ma, poiché la
geografia non può operare applicandolo letteralmente, occorre prima di tutto procedere ad una
classificazione e poi utilizzare l’analisi comparativa68. Il geografo in quanto scienziato positivo:
“non deve limitarsi semplicemente a far un elenco dei fatti geografici, ma deve
altresì studiarne gli effetti sopra i sensi e la mente dell’uomo… [poiché] la
comparazione dei numerosi casi che si trovano dispersi sulla terra nelle più diverse
condizioni è uno strumento indispensabile per afferrarne e comprenderne le leggi
che li governano” (Ratzel, 1905/7, vol.I, p.VI).
Il geografo deve cioè “esporre le reciproche relazioni che intercedono fra i fenomeni della
superficie terrestre” (Ratzel, 1905/7, vol.I, p.V) osservando e confrontando tra loro i molti
esempi storici che, la panoramica dei secoli passati e la casistica del suo tempo, riescono ad
offrire69.
Allievo di Ernst Haeckel70 fu certamente un profondo conoscitore delle teorie evoluzioniste
ed innegabile é il peso che le idee di Charles Darwin71 hanno avuto sulla sua geografia ed
ancora di più su quella della sua scuola. La sua posizione nei confronti dell’evoluzionismo
darwiniano è sempre chiaramente espressa:
“La geografia dell’uomo non potrà avere una solida base scientifica, se non quando
avrà posto come pietre angolari delle sue fondamenta le leggi generali che
regolano la diffusione di tutta quanta la vita organica sulla Terra… Se noi
consideriamo l’uomo dentro il quadro generale della vita terrestre, non sarà
possibile comprendere il posto ch’egli occupa sulla Terra se non seguendo quello
stesso metodo di cui ci serviamo per studiare la diffusione delle piante e degli
animali… Tutta la storia dell’umanità è una continua evoluzione sulla Terra e colla
Terra; e non è questa una semplice coesistenza, ma umanità e Terra vivono,
soffrono, progrediscono ed invecchiano insieme. Basta pensare quali profondi
legami debbano nascere da un tal genere di coesistenza, per rendersi subito conto
quanto sia superflua ogni domanda dubitativa circa l’esistenza o meno di un nesso
fra la Terra e l’uomo, circa l’influenza o meno che il territorio e tutto quanto
67
Circa l’importanza del suo viaggio negli USA si vedano le interessanti analisi che ne fanno C.O.Sauer (1971) e
M.Bassin (1984).
68
F.Ratzel, 1914, pp.89, 90 e 91: “Classificazione [che] è necessario stabilire prima di procedere innanzi nello studio
scientifico. È questa una necessità, di cui non si rendono conto coloro i quali, affrontano una scienza descrittiva,
pretendono ristabilire senz’altro delle leggi naturali… [sotto questo aspetto] la classificazione rappresenta il primo
passo del metodo induttivo… [mentre] il processo di comparazione si rende già manifesto in tutto il lavoro di
classificazione… Se per la geografia la possibilità dello studio sperimentale fosse così vasta com’è per altre scienze, la
necessità del procedimento comparativo sarebbe meno grande”.
69
F.Ratzel, 1914, p.91: “per lo studio di questi fenomeni può solo servire l’esperimento che ci presenta la natura stessa
mediante il ripetersi di processi analoghi in condizioni diverse… Dal che si deduce come la geografia debba compiere
un vasto lavoro di comparazione, senza lasciar inosservato neppure un angolo della terra” (corsivo dell’autore).
70
Circa i profondi legami di F.Ratzel con E.Haeckel si veda l’analisi che ne fanno C.Raffestin D.Lopreno I.Pasteur
(1995, pp.36-53). Sulla fondamentale importanza delle idee e dell’insegnamento di E.Haeckel riguardo alla diffusione
del pensiero darwiniano si veda F.Mondella (1971, pp.258-270); per G.Landucci (1977, p.81) “con Haeckel, il
darwinismo diventò una vera e propria metafisica monistica e si saldò definitivamente con una certa visione della
società”; come nota P.Acot (1989, p.42) “il termine ecologia è stato coniato nel 1866, da uno dei più ferventi discepoli
di Charles Darwin: Ernst Haeckel”.
71
Che definisce “il più grande dei pensatori” (Ratzel, 1914, p.47).
33
l’ambiente fisico esercitano sulla storia, sui popoli, sugli Stati, sulle società umane”
(Ratzel, 1914, pp.9; 75 e 95).
È chiara anche l’influenza haeckeliana nella sua concezione organica della Terra. Friedrich
Ratzel considera infatti il pianeta come un unicum:
“noi dobbiamo per prima cosa considerare e studiare l’insieme… come un tutto
inscindibile, collegato dalla storia e da reciproche e ininterrotte azioni, noi la
chiamiamo concezione organica della terra e la contrapponiamo a quella che tiene
disgiunte le parti del globo terrestre, quasi ritrovassero accidentalmente insieme
riunite” (Ratzel, 1905/7, vol.II, pp.1 e 2).
Questo lo porta ad una netta opposizione ad una visione e ad uno studio che consideri
separatamente
la
l’Anthropogeographie
geografia
72
fisica
da
quella
umana.
Il
suo
lavoro
più
noto
si apre con:
“La vita terrestre è una nella materia e nello spazio. La nostra terra costituisce in
sé un unico complesso… tutte le cose sulla Terra trovansi legate ed unite in un
tutto unico da una legge di così profonda necessità” (Ratzel, 1914, p.1).
Alla base delle sue idee c’è quindi la profonda convinzione nella concezione organica73: le
parti del tutto svolgono funzioni diverse ma sono tutte collegate fra loro, per cui é impossibile
studiare un fenomeno separatamente dall’intero contesto in cui é inserito. La geografia:
“deve studiare la Terra unita, come essa é, insieme coll’uomo, epperò non può
disgiungere tale studio da quello della vita vegetale ed animale. Le scambievoli
relazioni esistenti fra la Terra e la vita, che sopra di essa si produce e si sviluppa,
costituiscono appunto il nesso fra l’una e l’altra e pertanto debbono essere
particolarmente considerate” (Ratzel, 1914, p.13)74.
Rispetto all’uomo, continua Friedrich Ratzel, “l’ambiente, la natura é immutabile” e perciò é
naturale che “determinate condizioni naturali assegnino al movimento della vita sempre
72
La prima edizione del primo volume di Anthropogeographie è del 1891, cui segui una seconda, riveduta e corretta,
nel 1899. Una prima ampia recensione ne fa G.Cora (1892/93); E.Durkheim (1898/9, p.550) la definisce: “l’œuvre
fondamentale de M.Ratzel, celle où se trouvent exposés les principes essentiels de la science qu’il a entrepris de
fonder”. Ne seguì terza, una semplice ristampa, nel 1909 a cinque anni dalla sua morte; l’edizione italiana del 1914 -il
cui titolo è Geografia dell’Uomo (Antropogeografia). Principi d’applicazione della scienza geografica alla storia- si
basa proprio su quest’ultima edizione.
73
Nell’articolo scritto ad oc per la Rivista Italiana di Sociologia F.Ratzel arriva ad affermare “secondo il nostro
concetto geografico, non v’è soltanto luogo ad un paragone tra società ed organismo, ma si tratta invece di un fatto”
(Ratzel, 1898, p.147). È ben vero che le posizioni critiche più recenti attenuano di molto il fatto di considerarlo
“semplicemente come un organicista”: C.Raffestin D.Lopreno Y.Pasteur (1995, pp.34-36), ma anche G.Dijkink (2001),
F.Farinelli (1992, pp. 133-145), C.Minca L.Bialasievicz (2004, pp.137-151); posizione che C.Raffestin ha sostenuto in
modo molto forte nelle sue quattro pagine della postfazione (1988). A parer mio, però, tutti i lavori e tutto il costrutto
teorico ratzeliano sono così profondamente intrisi da metafore organiciste che non è possibile interpretarli senza
considerare il suo radicato organicismo. Lo stesso V.Berdoulay (1982, p.582) afferma: “Ratzel dont le discours est
émaillé de métaphores organicistes sur l’Etat”. Sicuramente più interessante è la posizione di M. Korinman secondo cui:
“Comparer l’État à un organisme ne signifiait pas, dans l’esprit de Ratzel, assimiler l’un à l’autre, c’était indiquer au
lecteur qu’on pouvait, en géographie comme en biologie, avancer la possibilité de grandes constructions
explicatives…[in questo modo] les géographes se rendraient capables d’énoncer des règles générales susceptibles de
clarifier l’Histoire” (Korinman, 1990, p.43) ; vicini a questa interpretazione sono anche D.Lopreno Y.Pasteur
G.P.Torricelli (1994).
74
Qui ben si sente l’influenza di E.Haeckel che definisce l’ecologia “la scienza dell’insieme dei rapporti degli
organismi col mondo esterno in generale, con le condizioni organiche ed inorganiche dell’esistenza; ciò che abbiamo
chiamato l’economia della natura, le mutue relazioni di tutti gli organismi che vivono in un solo medesimo luogo, il loro
adattamento all’ambiente che le circonda, le trasformazioni prodotte dalla lotta per l’esistenza” (citato in P.Acot, 1989,
p.43).
34
identiche vie e, rinnovandosi perennemente, vi pongano sempre e nello stesso senso ostacolo
o limitazione” (Ratzel, 1914, p.13). La geografia umana deve studiare le varie influenze che la
natura esercita sugli esseri viventi cercando di ricondurre queste a leggi generali rigettando la
tradizione geografica precedente che si basava esclusivamente su descrizioni e generalizzazioni
prescientifiche che portavano solo a “confutare parole con altre parole” né lasciarsi trascinare
“dall’amore
della
costruzione
stilistica
a
respingerebbe” (Ratzel, 1914, pp.39 e 40)
coordinamenti
che
la
loro
fredda
ragione
75
. Il geografo secondo Friedrich Ratzel, che in
questo modo fa proprie alcune posizioni del positivismo comtiamo76, prima di affrontare lo
studio complessivo, che concerne l’influenza della natura sui destini dell’umanità doveva
analizzare specificatamente le particolari “forme dell’influenza della natura sull’uomo”:
– “un’influenza che si esercita sugli individui e produce in questi una modificazione intima e
durevole” ma soltanto se estesa ad un intero popolo questa potrà diventare materia della
geografia e della storia;
– “un’influenza che indirizza, accelera od ostacola l’espansione delle masse dei popoli” e questa
riguardando il problema spaziale é basilare materia della geografia;
– “un’influenza mediata sull’intima essenza di ciascun popolo, la quale si esercita assegnando
ad esso delle condizioni geografiche che favoriscono il suo isolamento” e in questo caso il
popolo mantiene le proprie caratteristiche, “oppure facilitano la mescolanza con altri popoli e
quindi la perdita delle caratteristiche stesse” favorendo così la formazione di un nuovo popolo,
elementi basilari della sua Antropogeografia;
– infine un’influenza che agisce “sulla costituzione sociale di ciascun popolo” e “si esercita
coll’offrirgli maggiore o minore ricchezza di doni naturali” e quindi indirizza un popolo nei suoi
costumi e mentalità, influenza che forma la struttura della sua Politische Geographie (Ratzel,
1914, pp.45-46)77.
Questi influssi appaiono molto netti quando, cercando di trovare delle giustificazioni per i
cambiamenti che avvengono all’interno di un popolo, ricorre ai concetti di variabilità ed
ereditarietà specificando che “la prima produce delle modificazioni e la seconda le trasmette
poscia alla discendenza”. Inoltre egli volontariamente sostituisce il concetto darwiniano di
selezione naturale con quello più compatibile nel campo della geografia di migrazione e
isolamento78. La migrazione, infatti, favorisce il mescolamento delle caratteristiche dei popoli
che si spostano con quelle dei popoli residenti, mentre l’isolamento preserva le caratteristiche
uniche di quei popoli.
75
O, meglio, come afferma qualche pagina prima: “fu merito della geografia l’aver trasportato la teoria delle influenze
dell’ambiente sul terreno prettamente scientifico dell’indagine particolare” (Ratzel, 1914, p.29).
76
Circa l’accettazione critica del positivismo comtiano si veda l’intera parte prima della sua Antropogeografia ed in
particolare alle pp.25-30.
77
Influenze, o meglio influssi, che saranno oggetto degli strali più violenti da parte di L.Febvre, 1980, p.421: “la parola
«influssi» non appartiene al linguaggio scientifico, bensì a quello astrologico. Lasciamola dunque una buona volta ad
astrologi e ad altri «ciarlatani»”.
78
A cui dedica l’intera seconda parte del suo Antropogeografia (pp.111-208).
35
Possiamo così sintetizzare la posizione della geografia determinista ratzelina: l’ambiente, in
quanto dato attivo, agisce sull’uomo, lo plasma e ne determina il suo comportamento, ed il
risultato è una determinata società che, con la sua cultura, vive su di un preciso suolo.
Concetto questo ben recepito da molti suoi continuatori divenendo per lungo tempo il principio
guida della geografia determinista.
Sua principale divulgatrice in ambiente nordamericano fu Ellen Churcill Semple (1863-1932)
il
cui
più
importante
lavoro
significativamente
s’intitola
Influences
of
Geographical
79
Environment ; il suo incipit è estremamente significativo:
“L’uomo è un prodotto della superficie terrestre. Questo non significa
semplicemente che è figlio della terra, polvere della sua polvere; ma che la terra gli
ha dato la vita, l’ha nutrito, gli ha assegnato i suoi compiti, ha diretto i suoi
pensieri, l’ha messo di fronte a difficoltà che hanno rafforzato il suo corpo e
aguzzato il suo ingegno…
Nelle valli fluviali lo vincola al suolo fertile, circoscrive le sue idee e le sue ambizioni
in un cerchio opaco di doveri tranquilli ma esigenti, restringe la sua prospettiva
all’orizzonte limitato della sua fattoria. Sugli altopiani spazzati dal vento, nelle
distese sconfinate delle praterie e nelle regioni aride del deserto, dove erra con le
sue greggi da pascolo a pascolo e da oasi a oasi, dove la vita conosce molte
privazioni ma sfugge alla monotonia opprimente di un lavoro faticoso, dove la
sorveglianza del gregge al pascolo gli lascia il tempo per la contemplazione e la vita
errabonda gli concede un vasto orizzonte, le sue idee assumono una semplicità
quasi sovrumana: la religione diventa monoteismo, Dio si fa uno, impareggiabile
come la sabbia del deserto e l’erba della steppa, che si estende ampiamente senza
interruzioni o cambiamenti…”80.
Dal passo qui sopra appare chiaro come le civiltà agricole non possano essere altro che
animiste e politeiste mentre, ed è quello che è più evidente, solo nelle tribù nomadiche delle
steppe asiatiche potevano avere origine le grandi religioni monoteiste. L’ambiente per Ellen
Churcill Semple è così attivo nella sua azione sull’uomo che non solo plasma i suoi muscoli ma
gli fornisce anche gli strumenti per le sue idee ed il suo Credo: lo stesso concetto di Dio è
frutto delle idee nate dal condizionamento ambientale.
Molto meno impegnativa, ma sempre significativa nel confronti del determinismo, è
l’affermazione di Roberto Almagià (1968, II, p.72):
“La maggior parte delle forme, che si ritengono inferiori, dell’umanità attuale sono
raccolte nelle regioni tropicali ed australi dell’Ecumene, in spiccato contrasto con
l’Eurasia, che è l’area occupata dalle forme più evolute (neoforme). Queste forme
superiori, dotate di grandi possibilità di espansione, sono quelle che nel periodo
storico (ultimi millenni) si sono più affermate, imponendosi spesso alle inferiori”81.
79
Il cui sottotitolo On the basis of Ratzel’s system of Anthropo-geography definisce in modo netto la posizione
dell’autrice. È stato un testo fondamentale per la divulgazione delle idee ratzeliane la cui basilare importanza per la
geografia anglofona è rimarcata dal fatto che J.K.Wright (1966), affermando che “Books are not unlike people, and
some books, like some people, deserve biographies”, gli dedica appunto una “bibliobiografia”. Su questo si veda anche
N.Broc (1981). Per una biografia di E.Churcill Semple si veda C.C.Colby (1933; 1976).
80
La citazione è tratta da A.Pecora (1986, pp.40-41) che ha tradotto alcune pagine del libro di E.Curcill Semple (1911).
81
Il testo cui tale citazione si riferisce si intitola Fondamenti di Geografia Generale ed è stato utilizzato per lungo
tempo quale testo base nelle università italiane; la prima edizione è del 1945, l’ultima è del 1961, a cui seguirono
numerose ristampe.
36
3.5 – Lo Stato come popolo e suolo, nella concezione ratzeliana.
Lo Stato –inteso non tanto come un’istituzione giuridico-formale ma, sostanzialmente, come
il risultato finale del processo che trasforma un popolo, una società, in un potente organismo
vivo e vitale82– è l’elemento principe dei suoi studi. Nell’Anthropogeographie le ha riservato
solo il terzo capitolo, ma è più facile comprendere il suo pensiero se i termini popolo e società,
da lui frequentemente usati, vengono sostituiti dal più congruente termine Stato; mentre è un
concetto che informa tutto il suo Politische Geographie. Un lavoro, questo ultimo, che lo stesso
Emile Durkhein definisce un testo base il cui scopo è quello di proporre la Geografia Politica
come scienza sociale”83.
Le due opere, che rappresentano l’espressione della sua teoria, sono in ogni caso
abbastanza simili nella struttura e si completano a vicenda nei contenuti84.
“Allorché più genti si collegano fra loro a scopo di offesa o di difesa, la nuova unità
che si forma non è altro che uno Stato. Questo ha così sormontato prima l’unità
economica, poscia l’unità affinitaria, e si eleva al di sopra di esse comprendendole
entrambe…” (A, p.68) 85.
Questa è la prima definizione di Stato che appare nell’Antropogeografia e come si vede
viene presentato come la forma ultima derivante dallo sviluppo dell’aggregazione di un popolo.
Molto probabilmente questa definizione gli derivava dalla conoscenza sia il pensiero hegeliano
sia di quello di Herbert Spencer86. Molto più interessante da punto di vista evoluzionista e più
precisa da quello territoriale è la definizione che ne dà nel suo Politische Geographie “Jeder
Stadt ist ein Stück Menschheit und ein Stück Boden”: cioè ogni Stato è formato da una
82
Su questo concetto di Stato si veda anche C.Hussy (1988, p.IV).
E.Durkhein (1898, pp.522-523) che afferma: “a pour objet de constituer la géographie politique à l’état de science et
même, plus spécialement, de science sociale”; qualche riga dopo egli poi critica l’oggetto di questa nuova scienza
“étudier l’État dans ses rapports avec le sol” definendolo come “expression bien vague [qui] délimite mal un champ de
recherches” più avanti però, afferma che se lo scopo di di questa nuova scienza è quello di studiare l’evoluzione
territoriale di uno Stato in modo di individuare “les lois de cette évolution, les conditions dont dépendent les divers
éléments di facteur territorial et les fonctions qu’il remplissent dans la société… [così, ed in questo caso]… le système
de recherches qu’on désigne par ce mot cesse d’être… un simple inventaire descriptif de divisions politiques ou
administratives, pour devenir une véritable science explicative”.
84
I riferimenti per le analisi sono i due testi Antropogeografia (Ratzel, 1914) e Politiche Geographie (Ratzel, 1923);
tutte le citazioni, se non indicato differentemente, si riferiscono a questi due lavori: la sigla “A” è riferita al primo e
“PG” al secondo.
85
E poi prosegue: “… raggiunto in tal modo lo stadio nel quale lo Stato soltanto è capace di un incremento territoriale
compatto. Dopo essersi così formata, quest’unità si è venuta via via accrescendo, fino a raggiungere l’ampiezza
degl’imperi mondiali” (corsivo dell’autore).
86
Alla fine del 1800 è ben certo che i pensatori tedeschi dovessero ben conoscere questi due autori ed utilizzassero
talune loro definizioni; sui rapporti del pensiero ratzeliano con quello di G.W.F.Hegel ed H.Spencer si vedano
D.Lopreno Y.Pasteur G.P.Torricelli (1994) ed in particolare i primi due capitoli dell’interessante lavoro di C.Raffestin
D.Lopreno Y.Pasteur (1995). La definizione di cui sopra ricalca molto quella di G.W.F.Hegel (1972, p.22): “Una
moltitudine di uomini può darsi il nome di Stato soltanto se è unita per la comune difesa di tutto ciò che è sua
proprietà… Onde una moltitudine formi uno Stato si esige che essa costituisca un comune apparato militare e un potere
statale”. Anche H. Spencer (1881, pp. 161 e 180), nell’analizzare l’aspetto sociologico della condotta, afferma: “La vita
dell’organismo sociale deve essere, come un fine, collocata innanzi alla vita delle sue unità… Appena lo stato sociale si
stabilisce, la conservazione della società diviene un mezzo di preservazione delle sue unità… Donde la conservazione
sociale diventa un fine prossimo che acquista precedenza sullo scopo finale, la conservazione dell’individuo… [e
conclude]… il più elevato grado di vita essendo raggiunto solamente quando, oltre l’aiuto scambievole della vita per
mutui favori specifici, gli uomini in altra guisa s’aiutano a completare la loro vita”
83
37
frazione di umanità e da una porzione di suolo87. In questa sua affermazione popolo e suolo
sono i soli due elementi costituenti lo Stato che, così, non è più legato a “problemi dinastici”
ma è divenuto un’entità con vita propria dipendente dalla profonda interazione che viene a
stabilirsi fra i suoi due elementi. Egli, infatti, continua:
“Lo Stato è un organismo legato ad una determinata parte della superficie terrestre
e le sue caratteristiche risultano dalla stretta associazione tra quelle del popolo e
del suo suolo”88.
Subito dopo però aggiunge:
“ma quando si parla di “nostro paese” a questa base naturale vi si aggiunge tutto
ciò che l’uomo ha creato ed i ricordi che vi sono radicati”89.
In questo modo il termine unserem Land (nostro paese) acquista un significato non solamente
politico-amministrativo ma esprime anche un “legame spirituale ed affettivo”90, tramite la
storia, fra “il popolo ed il suolo”. Ed è per questo che:
“lo Stato ci appare come un organismo non solamente perché sul suo immutabile
suolo si sviluppa la vita di un popolo, ma anche perché questo legame si rafforza
reciprocamente al punto che se ne forma uno solo ed i suoi due elementi [popolo e
suolo] non possono essere pensati l’uno senza l’altro. Il suolo ed il popolo
contribuiscono a questo risultato in quanto posseggono le proprietà necessarie per
agire uno sull’altro”91.
La posizione ratzeliana, con l’analogia Stato-organismo, sembra qui in perfetta sintonia con
l’interpretazione ecologista/evoluzionista: in questo modo le problematiche concernenti la
geografia politica appaiono ben connesse al “banco di prova” haeckeliano/darwiniano. Di fatto
però simili enunciati sembrano poco congruenti con lo “spirito scientifico positivo”: la
“connessione spirituale e sentimentale”, che fa da perfetto collante fra popolo e suolo
all’interno dello Stato, appare molto vicina ad un enunciato “metafisico” individuante un
finalismo statale mancante di verifica empirica e quindi non funzionale per un’analisi scientifica
che osservi, senza prevenzioni, fatti reali.
87
Questo è il titolo del secondo paragrafo: qualche riga dopo (PG, p.2) tale definizione viene un po’ ampliata; “una
frazione di umanità o un’opera umana e, nello stesso tempo, una porzione di suolo terrestre” (ein Stück Menschheit
oder ein menschliches Werk und zugleich ein Stück Erdboden). Egli usa sempre, a questo riguardo il termine Boden,
traducibile con il termine Suolo ed i suoi traduttori si attengono a questo significato utilizzando parole analoghe: C.
Battisti (Ratzel, 1987c) usa sempre “suolo”, P. Rusch (Ratzel, 1988) e F. Ewald (Ratzel, 1987a) –nelle loro due
traduzioni francesi– utilizzano sempre il termine “sol” mentre U. Cavallero nella traduzione italiana
dell’Anthropogeographie utilizza i due termini suolo e territorio come sinonimi.
88
PG, p.4: “der Staat zu einem Organismus wird, in den ein bestimmter Teil der Erdoberfläche so mit eingeht, daß sich
die Eigenschaften des Staates aus denen des Volkes und des Bodens zusammensetzen”. Sul legame suolo-Stato egli
afferma anche (Ratzel, 1987b, p.203): “le rôle du sol apparaît avec plus d’évidence dans l’histoire des États que dans
l’historie des sociétés”.
89
PG, p.4: “Sprechen wir aber non von unserem “Land”, so verbindet sich in unserer Vorstellung mit dieser
natürlichen Grundlage alles, was der Mensch darin und darauf geschaffen und von Erinnerungen gleichsam
hineingegraben hat”.
90
PG, p.4: “er geht eine geistige und gemütliche Verbindung mit uns, seinen Bewohnern, und mit unserer ganzen
Geschichte ein”.
91
PG, p.4: “Der Staat ist uns nicht ein Organismus bloß weil er eine Verbindung des lebendigen Volkes mit dem starren
Boden ist, sondern weil diese Verbindung sich durch Wechselwirkung so sehr befestigt, daß beide eins werden und
nicht mehr auseinandergelöst gedacht werden können, ohne daß das Leben entfliehet. Boden und Volk tragen beide zu
diesem Resultate in den Maße bei, als sie die Eigenschaften besitzen, die notwendig sind zum Wirken des einem auf das
andere”.
38
Di fatto, però, egli si muove sempre nell’ambito ecologico di Ernst Haeckel in quanto, subito
dopo quella definizione, afferma “Lo Stato vive necessariamente del suolo”92. La sua è, in
effetti, una posizione che si fonda su di una condizione “biologica” dello Stato:
“dappertutto si riconoscono somiglianze di forma fra tutti gli esseri viventi, in
quanto essi traggono dal loro legame al suolo la loro vitalità. Questo legame, in
effetti, costituisce per tutti loro –che siano licheni, coralli o uomini- la caratteristica
universale, una caratteristica vitale in quanto costituisce la loro stessa condizione
di esistenza”93.
Inoltre
quell’enunciato,
di
“sapore
metafisico”,
viene
sempre
attenuato
spostando
continuamente il ragionamento sul suolo:
“un suolo inabitabile non nutre nessuno Stato… un suolo abitabile, soprattutto se
dotato di confini naturali, favorisce lo sviluppo degli Stati… qualsiasi sviluppo di uno
Stato è legato all’organizzazione progressiva del suolo attraverso una connessione
sempre più stretta col popolo”94.
Affermazioni ribadite, ancora prima, nel suo Antropogeografia95:
“Il suolo rappresenta l’unico legame materiale esistente nell’interno di ciascun
aggregato etnico… lo Stato più semplice non si può concepire senza il suo
territorio… la considerazione del suolo si impone più nella storia dello Stato che non
in quella della società” (A, pp. 2 e 63).
Non solo ma lì la sua affermazione si fa ancora più decisa:
“sia grande o piccola la società che consideriamo, essa vorrà pur sempre e
soprattutto mantenere il possesso del territorio, sul quale e grazie al quale essa
vive. Allorché questa società si organizza per tale scopo, essa si trasforma in Stato”
(A, p.67).
Tutte le comunità, dalla famiglia alle tribù, hanno bisogno di un territorio di stretta pertinenza
ma solo lo Stato è capace ottenere un incrementi territoriali stabili. Inoltre i vari stadi di
sviluppo di uno Stato sono strettamente legati alle modalità di controllo del territorio in
quanto:
“il territorio, essendo un fattore costante fra mezzo al variare degli avvenimenti
umani, rappresenta in sé e per sé un elemento universale”96.
92
PG, p.3: “Der Staat muß von Boden leben”. E ancora: “Nella politica, come nella storiografia, se si dimentica il
suolo, si studiano i sintomi invece delle cause” (Ratzel, 1898, p.150). Sul “radicamento dello Stato nel suolo” si veda
C.Raffestin D.Lopreno I.Pasteur (1995, pp.59-63).
93
PG, p.2: “überall erkennt man die Formähnlichkeiten aller zusammengesetzten Lebensgebilde, die aus ihrer
Verbindung mit dem Boden herauswirken. Ist doch für sie alle, ob Flechte, Koralle oder Mensch, diese Verbindung
allgemeine Eigenschaft, Lebenseigenschaft weil Lebensbedingung”.
94
PG, p.4: “Ein unbewohnbar Boden nährt keinen Staaten… Ein bewohnbar Boden begünstigt dagegen die
Staatenentwickelung, besonders wenn er natürlich umgrenzt ist… So ist denn auch die Entwicklung jedes Staates eine
fortschreitende Organisierung des Bodens durch immer engere Verbindung mit dem Volk”.
95
Occorre tener presente che, se F.Ratzel usa sempre il termine Boden, U.Cavallero il traduttore italiano
dell’Anthropogeographie utilizza i due termini suolo e territorio come sinonimi.
96
Le due citazioni sono di A, pp.68 e 71. In qualche punto, però, egli si lascia un po’ prendere la mano e sembrerebbe
inevitabile accusarlo di un pesante determinismo: “Invero il suolo ci appare come la sorgente più profonda dell’umana
soggezione in quanto esso permane rigido, immobile ed immutato… e si erge dominatore ogniqualvolta l’uomo scordi
la sua presenza, per ammonirlo severamente come nel suolo sia unicamente la radice della vita…” non solo ma ben più
pesantemente poi afferma “dal suolo trae alimento l’egoismo della condotta politica dei popoli, costretti ad agire
secondo che impongano le condizioni del loro territorio” (A, p.74). Ed ancora: “La questione del suolo, che anch’oggi
commuove le società umane, è stata sempre un problema fondamentale della creazione… non potendo mai aver fine
l’importanza del suolo per la vita. Il suolo preserva la vita dal ristagno, costringendola a lottare per lo spazio; e questo è
39
Chiaro quindi che suolo rappresenta il fattore costante, invariante ed invariabile di fronte a
tutti i possibili cambiamenti umani.
Nel Politische Geographie procede poi ad una precisa interpretazione, dal punto di vista
biologico, dell’interazione tra “organismo Stato” e quel –un po’ troppo metafisico– “legame
spirituale”:
“Nel regno animale e vegetale l’organismo più perfetto è quello in cui le parti
sacrificano interamente la loro indipendenza al servizio del tutto. Da questo punto
di vista lo Stato è un organismo estremamente imperfetto. I suoi membri
mantengono una indipendenza che non esiste fra le piante e gli animali inferiori…
Ma è il fatto che si tratta di un organismo spirituale e morale che lo rende così
produttivo e potente: un legame spirituale unisce ciò che è materialmente
separato. Da questo punto di vista non è possibile nessuna comparazione biologica,
gli altri organismi non conoscono affatto ciò che governa l’organismo Stato” 97.
Quel “legame spirituale” è quindi direttamente connesso alla vitalità di una specifica comunità
e solo se tale comunità esiste sarà possibile pensare all’esistenza di uno Stato: “allorché
questa società si organizza… essa si trasforma in Stato” (A, p.67).
Nel secondo capitolo, interamente dedicato alla funzione del suolo nello sviluppo dello Stato,
egli attenua molto l’analogia Stato/organismo affermando: che se è vero che “lo sviluppo dello
Stato è un fatto spaziale”98 è altrettanto vero che la connessione tra Stato e suolo:
“non è sempre la stessa è più o meno forte a seconda del livello di sviluppo: un
basso livello culturale del popolo è strettamente legato ad uno scarso senso
territoriale”99
Ne consegue che lo sviluppo territoriale:
“è legato assai strettamente alla maturazione politica dei popoli, nella misura in cui
essa comporta a sua volta un’estensione ed una intensificazione dei rapporti con il
suolo”100.
limitato dal suolo in guisa, che la lotta per lo spazio non è altro che una lotta per il suolo” (1898, p.140). Determinismo
che appare più evidente nei due volumi La terra e la vita dove, fra l’altro, afferma: “Nato sulla terra e formato dalle
sostanze di questa, sviluppatosi da una lunga serie di predecessori aventi lo stesso legame colla terra, l’uomo non può
essere concepito altrimenti come un essere vincolato alla terra” (1905/7, vol.II, p.762).
97
PG, p.8: “Unter Tieren und Pflanzen ist der Organismus am vollkommensten, in dem die Glieder dem Dienst des
Ganzen die größten Opfer an Selbständigkeit zu bringen haben. Mit diesem Maße gemessen, ist der Staat der Menschen
ein äußerst unvollkommener Organismus; denn seine Glieder bewahren sich eine Selbständigkeit, wie sie schon bei
niederen Pflanzen und Tieren nicht mehr vorkommt… Was nun diese als Organismus unvollkommene Vereinigung von
Menschen, die wir Staat nennen, zu so gewaltigen, einzigen Leistungen befähigt, das ist, daß es ein geistiger und
sittlicher Organismus ist. Der geistige Zusammenhang verbindet das körperlich Getrennte, und darauf paßt allerdings
dann kein biologischer Vergleich mehr”. Anche qui si risente un po’ del pensiero hegeliano “Per patriottismo, s’intende
frequentemente soltanto la disposizione a sacrifici ed azioni straordinarie, Ma, essenzialmente, esso è il sentimento che,
nella situazione consueta e nei rapporti della vita, è avvezzo a conoscere la cosa pubblica come ragione e fine
sostanziale” (Hegel, 1965, p.223).
98
PG, p.19: “Die Entwickelung des Staates ist also eine räumliche Tatsache”.
99
PG, pp.19-20: “So wenig die Menschen, die das Volk des Staates ausmachen, sich über den Boden erheben können,
so wenig vermag es ihr Staat; wohl aber hängt er nicht auf allen Stufen der Entwickelung gleich innig mit dem Boden
zusammen end Kulturarmut ist immer auch räumlich arm, beschränkt”.
100
PG, p.19: “Und diese Entwickelung hängt mit der politischen Entfaltung der Völker auf das engste zusammen, und
zwar so, daß diese sich über immer weitere Räume ausgebreitet und sich dabei immer inniger mit dem Boden
verflochten hat”.
40
Egli così, partendo dal postulato base “ogni Stato è formato da una frazione di umanità e da
una porzione di suolo”, spiega i profondi legami fra i due elementi e, interpretandoli sulla base
delle scienze naturali, ne dimostra la congruità all’interno della logica heckeliano/darwiniana.
Privilegiando poi il dato suolo e connettendo il “legame spirituale” alla sola evoluzione storica
dello Stato riconduce il tutto nel filone sperimentale positivista:
“l’evoluzione degli Stati permette di osservare, prima di tutto, che il radicamento al
suolo comune è legato al lavoro degli individui e della collettività, solo poi si forma
quel legame spirituale, riferito al suolo, che lega gli abitanti alla loro terra in
funzione di uno scopo comune”101.
L’idea fondante è dunque la “l’influenza del suolo” che, gestito dal “popolo” che lo vive,
manifesta le sue influenze sulla struttura della “società” che lo organizza102. Una simile
struttura teorica di base, “eminentemente semplice ed utilizzabile”103, viene interpretata,
analizzata e discussa con abbondanti riferimenti ad analisi storico/geografiche. In ogni
paragrafo, con continuità ed un’insistenza a volte ossessiva104, Friedrich Ratzel analizza dal
punto di vista storico quegli eventi sociali, politici o economici che mettono in evidenza il ruolo
del suolo nello sviluppo o nel declino di uno Stato: egli, attraverso questi confronti ed analisi.
“dà allo Stato il suo significato spaziale, lo teorizza geograficamente” (Raffestin, 1983c, p.29).
3.6 – Posizione, Spazio, Confini.
Tre sono poi gli elementi fondamentali, sufficienti per articolare un simile costrutto teorico:
la posizione (die Lage) che permette di porre in relazione gli elementi locali del suolo con la
situazione generale della Terra, lo spazio (der Raum) con la sua influenza legata alla
dimensione, forma e struttura ed infine i confini (die Grenze) che regolano i rapporti con i
popoli confinanti.
“Situazione, spazio e confini dell’umanità e dei popoli sono iscritti nella superficie
terrestre” (Ratzel, 1905, vol.II, p.762) 105
Si tratta delle strutture chiave di un potente costrutto teorico che, come nota Charles Hussy
(1988, p.IV), sono riconducibili alla triade euclidea di “punto, superficie, linea”.
La posizione (die Lage) è, nella sua sostanza, un concetto intuitivo: rappresenta “il posto”
che uno Stato occupa sulla superficie terrestre106. La sua importanza è legata al fatto che essa,
con tutti i suoi elementi, lega una determinata società o Stato ad un preciso territorio
favorendo o meno il suo rapportarsi al resto del mondo:
101
PG, p.8: “Sehen wir die Entwickelung des Staates, so ist da einmal die Einwurzelung durch die Arbeit der Einzelnen
und der Gesamtheit auf dem gemeinsamen Boden, und dann haben wir die Herausbildung der geistigen
Zusammenfassung aller Bewohner mit dem Boden auf ein gemeinsames Ziel hin”.
102
Si veda al riguardo il suo interessante studio sulla Corsica (Ratzel, 1899).
103
C. Hussy, 1988, p.IV: “une théorie éminemment simple et utilisable”.
104
I riferimenti storico-territoriali che F. Ratzel utilizza appaiono, a volte, un po’ forzati tanto che C. Battisti annota, a
margine della sua traduzione: “Sembra metafisica! Per Dio!” (Ratzel, 1987c).
105
Si veda anche O.Marinelli (1903, pp.275-276) che a questi tre elementi aggiunge anche un quarto le forme del suolo
(die Bodenformen), a parer mio concetto incluso nella posizione.
106
Si veda PG (pp.180-249), A (pp.209-227), ma anche J.Gottmann (1952, pp.78-120, citazione di p.119) secondo cui
“de tous les caractères du territoire, il semble que le plus important soit la position”.
41
“la posizione è una profonda costante del suolo terrestre che influenza tutti i
movimenti della storia”107.
In essa è cioè incluso “il concetto d’una reciprocità d’influenze” in quanto non rappresenta una
mera giustapposizione di entità (clima, pedologia, vicinanza ad altri Stati) ma una relazione
viva e ricca di influenze reciproche fra lo Stato e il più vasto quadro in cui esso si inserisce (A,
p. 209). Essa trasmette molte caratteristiche peculiari al popolo che la occupa, “il quale
fintantoché conserva la sua posizione conserva la propria identità”108. Per questo è la posizione
che determina l’influenza e le linee dello sviluppo dei vari Stati:
“la Gran Bretagna deve oggi la sua potenza sia alla dimensione che alla felice
posizione dei suoi possedimenti… la Russia, al contrario, nonostante la sua
dimensione ha una posizione poco vantaggiosa in quanto delimitata all’ovest, a sud
ed a nord da mari chiusi”109.
Viceversa un paese che occupi una posizione centrale –ed è il caso della Germania– potrà
esercitare, e al tempo stesso subire, molte pressioni. In particolare questa posizione centrale:
“è così potente da essere minacciata, quando è debole; essa incita un paese tanto
all’offensiva quanto alla resistenza”110
e, conclude nel caso concreto,
“la Germania può esistere solo se è forte”111.
Effettivamente il discorso è molto congruente considerando che per Friedrich Ratzel “la guerra
è scuola di spazio”112: valutando il problema militare anche solo da un punto di vista difensivo,
un paese completamente circondato da altri Stati potenzialmente nemici, svilupperà un
“carattere” più diffidente rispetto ad un altro che abbia posizioni marginali113.
107
PG, p.180: “Die geographische Lage bezeichnet ein dem Erdboden angehöriges Beständige in der geschichtlichen
Bewehrung”.
108
PG, p.180: “Indem ein Volk seine Lage und damit sein Land erhält, erhält es sich selbst”. Ovviamente pero, non si
tratta di una caratteristica completamente fissa, ma di un ambito nel quale il paese è situato: “uno Stato può anche
cambiare di forma all’interno della medesima posizione, senza modificare il suo contenuto politico” [“ein Staat mag in
ihr die Formen wechseln, ohne dass der politische Gehalt entsprechende Veränderungen erführe” (PG, p.181)].
109
PG, p.188: “Großbritannien ist heute groß durch den Raum einiger und die glückliche Lage anderer seiner
Besitzungen… Rußland hat dagegen im Verhältnis zu seiner Raumgroße zu wenig Vorteile der Lage, da es im Westen,
Süden und Norden nur an geschlossene Meere grenzt”; si veda anche di PG il paragrafo 169 “Le potenze mondiali” [die
Weltmächte].
110
PG, p.218: “Die zentrale oder Mittellage ist in der Stärke ebenso gewaltig wie in der Schwäche bedroht, fordert zum
Angriff und zum Widerstand heraus”.
111
PG, p.220: “Deutschland ist nur, wenn es stark ist”. L’ossessione dell’accerchiamento era sicuramente ancorata in
modo molto forte nelle idee del popolo tedesco se Martin Heidegger nel 1935 affermava: “Siamo presi nella morsa. Il
mostro popolo, il popolo tedesco, in quanto collocato nel mezzo, subisce la pressione più forte della morsa; esso, che è
il popolo più ricco di vicini e per conseguenza il più esposto, è insieme il popolo metafisico per eccellenza”. È ben
chiaro però che la frase heideggeriana si colloca in un contesto ben diverso di quello ratzeliano: “Questa Europa… si
trova oggi nella morsa della Russia da un lato e dell’America dall’altro. Russia e America rappresentano entrambe, da
un punto di vista metafisico, la stessa cosa: la medesima desolante frenesia della tecnica scatenata e dell’organizzazione
senza radici dell’uomo massificato”. (Heidegger, 1968, pp.48-49).
112
PG, p.264: “Der Krieg als die Schule des Raumes”. Ma si veda comunque tutto il capitolo 13 (pp.261-276).
113
Si veda al riguardo PG (pp.205-223).
42
Lo spazio (der Raum), inteso come “estensione superficiale” a cui è legata la vita e
l’evoluzione, è il secondo elemento chiave che, ispirando i progetti e le politiche, definisce le
ambizioni territoriali dei popoli e degli Stati114:
“Ogni declino politico è la risultante di una regressione del pensiero spaziale… uno
Stato che sta ingrandendosi apparirà sempre più grande di uno Stato, pur della
stessa dimensione, in fase stagnante e questo perché la sua grandezza attuale
viene aumentata, agli occhi di un osservatore, di una parte della sua grandezza
futura”115.
È certo però che lo spazio di pertinenza di ciascuna specie non è l’intero orbe terracqueo ma
solo una parte di esso: l’Ecumene, inteso come, “lo spazio che [una specie] occupa sulla terra
e dalla cui forma e grandezza dipende una parte della sua capacità di vita” (Ratzel, 1905/7,
vol.II, p.722). In altri termini l’ecumene rappresenta quell’horbis habitatus che definisce l’area
della vita di una singola specie. Per la specie umana “costituisce una grande zona sita
frammezzo ai due poli” (A, p.231) a cui, ovviamente, occorre levare le aree considerate
inabitabili (mari, oceani, poli, deserti, alte cime…)116. A scala geologica è variabile, ma –ed è
quello che conta per la specie umana– a scala storica è stabile e immutato117. Il fatto che sia
stabile e immutato ha un peso determinante nei rapporti fra i popoli e gli Stati in quanto la
specie umana, estremamente mobile ed adattabile, ha occupato interamente nel corso della
sua esistenza tutto il proprio ecumene dividendosi in popoli e Stati: non esiste nessuna parte
dell’ecumene che non sia di stretta pertinenza di un popolo o Stato118. In questo modo ciascun
gruppo, sia popolo che Stato, occupa una precisa posizione con una determinata estensione
superficiale che viene definita Spazio Vitale (Lebensraum)119. Una nozione estremamente
malleabile, una sorta di “ossessione politica”120, che sarà uno dei principi base della successiva
geopolitica tedesca attraverso la quale il termine assunse un significato esclusivamente
ideologico. Non è facile trovare una sua precisa definizione e la più pertinente potrebbe essere
quella definita da Umberto Toschi (1943, p.113) “lo spazio in cui un popolo vive, o meglio che
esso occupa in continuità”121.
114
Si veda PG (pp.249-388), A (pp.228-256).
PG, pp.262-263: “Jeder Zerfall ist der Ausfluß einer zurückgegangenen Raunauffassung … daß ein waschender Staat
bei gleichen Dimensionen immer größer erscheinen wird als ein im Stillstand begriffener, denn ein Stück von der erst
kommenden Größe fügt sich vor unserem geistigen Auge der Größe an, die wir heute fassen und greifen können”.
116
È ben vero che egli annota come nessun clima terrestre sia di per sé intollerabile per l’uomo in quanto organismo fra
i più adattabili (Dem Menschen ist keines der Klimate unserer Erde unerträglich” PG, p. 196), ma in tutte le sue analisi
degli spazi occupati fa spesso riferimento a degli spazi anecumenici per l’uomo. Sull’influenza del clima si vedano le
ultime due parti del’Antropogeografia (pp.469-578) ed in particolare l’intero secondo volume del suo La terra e la vita.
117
Si veda al riguardo A (pp.228-254).
118
PG, p.29: “L’umanità, che cresce al ritmo della sua cultura, ha occupato tutte le zone abitabili della Terra, così le
zone inabitate sono diventate sempre più rare. Ora non si può più parlare di aree inabitate se non dal punto di vista
storico o per pura astrazione” [Da die Menschheit in ihrem mit der Kultur immer zunehmenden Wachstum auch immer
weiter auf dem bewohnbaren Boden der Erde gegriffen hat, ist vollklossen Land immer seltener gewonden. Für uns
gehört es innerhalb der Ökumene der Geschichte oder dem Reich der Gedanken an.]
119
Per una sua critica si vedano C.Raffestin D.Lopreno Y.Pasteur (1995, pp.31-34) e W.D.Smith (1980); una buona
analisi del concetto contrapposto a grande spazio si trova in B.Nice (1943b).
120
C.Raffestin D.Lopreno Y.Pasteur, 1995, p.31 : “Le Lebensraum: aux sources d’une obsession politique”.
121
Circa la non precisa definizione si veda anche C.Raffestin D.Lopreno Y.Pasteur (1995, p.33).
115
43
Se ciascuno Stato si comporta come organismo vivente è chiaro che fin dalla nascita egli
deve costantemente crescere: quando l’organismo smette di crescere comincia il suo declino
fisico “un popolo decade allorché subisce perdite territoriali” (A, p.64)122. È certo quindi che
nella loro fase vitale gli Stati sono obbligati ad espandere il loro spazio vitale. Questa
espansione si scontra però con due grosse limitazioni, proprie dell’ecumene stesso: da una
parte è già interamente occupato da vari Stati, ciascuno con il proprio spazio vitale in
espansione, e dall’altra è fisso e limitato in quanto non estensibile a scala storica. Ne consegue
che ciascuno Stato, per poter ampliare il proprio spazio vitale, deve per forza scontrarsi con
altri: è una legge biologica, si tratta della lotta per l’esistenza, la stessa che Darwin pone come
legge naturale di selezione:
“l’espressione tanto abusata e ancora più fraintesa di ‘lotta per l’esistenza’ vuol
significare anzitutto la lotta per lo spazio” (Ratzel, 1905/7, vol.II, p.718).
La forza dello spazio, inteso come estensione di superficie, è tale che Friedrich Ratzel,
nell’analizzare e descrivere gli effetti politici dello spazio, utilizza, a volte, sia il concetto scuola
dello spazio sia di concezioni dello spazio123:
“la grandezza degli spazi sui quali noi proiettiamo le nostre idee ed i nostri progetti
politici è subordinata alla superficie sulla quale ci muoviamo. Per questo esistono
delle grandi e delle piccole concezioni dello spazio e queste concezioni aumentano o
diminuiscono al variare della superficie su cui si vive”124.
Elementi così importanti che Jean Gottmann ha immaginato pensasse all’esistenza di una sorta
di un Raumsinn: un “senso dello spazio” che i popoli posseggono in gradi diversi e che li rende
più o meno atti a politiche d’espansione125.
I confini (die Grenzen) sono l’elemento più potente della triade in quanto rappresentano il
luogo in cui si manifestano, nella loro interezza, gli effetti e le forze definite dai primi due126.
Sempre legato alla concezione organicista, Friedrich Ratzel, afferma: “il confine, considerato
come periferia di un popolo, è un elemento costitutivo del popolo stesso” (A, p.259). Come la
pelle è parte integrante e, nello stesso tempo, organo periferico di qualsiasi essere vivente,
“esso appartiene al corpo vitale di cui rappresenta la periferia“ (A, p.260)127. Il confine poi “è
122
Posizione che verrà poi rafforzata (Ratzel, 1987b, p.204): “Un peuple régresse en tant qu’il perd du terrain. Il peut
compter moins de citoyens et tenir encore assez solidement au territoire où résident les sources de sa vie. Mais que son
territoire se resserre, c’est, d’une manière générale, le commencement de la fin”.
123
Si veda in particolare PG pp.262-266.
124
PG p.261: “Die Größe der Räume in die hinein wir politisch denken und planen, hängt von dem Raume ab, in dem
wir leben. Deswegen gibt es kleine und große Raumfassungen, und wächst die Raumfassung oder geht mit dem Raum
zurück, in dem wir leben”.
125
Si veda J.Gottmann (1952, p.41; 1966, p.1757). A mio parere J.Gottmann con il suo “sens de l’espace” enfatizza un
po’ troppo il concetto ratzeliano di “die Schule des Raumes”. In ogni caso J.Gottmann è l’unico studioso che utilizza un
simile concetto; un riferimento si trova anche in E.Migliorini (1966) che riporta, però, integralmente le parole di
J.Gottmann.
126
Si veda PG (pp.384-446), A (pp.259-313). Sull’importanza del concetto di confine e sull’analisi che ne fa F.Ratzel si
veda l’affermazione di B.Zientara (1979, p.403) “Anche oggi, a distanza di un secolo, c’e poco da aggiungere”.
127
Si veda di PG l’intero capitolo 19 che si intitola appunto “Die Grenze als peripherisches Organ”. Ancora, in PG (p.
434) afferma “il confine è la periferia dello Stato, della sua economia, della sua popolazione” [Die Grenze ist die
Peripherie des Staats-, Wirtschafts- Völkergebietes] si veda anche PG (pp.387-388).
44
per sua essenza mobile”128 in quanto legato a popoli e Stati che storicamente non sono mai
fissi ma soggetti a migrazioni, ampliamenti o perdite129:
“la precisa determinazione dei confini trova ragion d’essere solo in taluni
momentanei arresti e nella miopia del nostro intelletto” (A, p.259).
O ancora di più, in quanto, per tutti:
“i fenomeni della natura organica o inorganica… il confine si ferma solo quando
cessa il movimento e tale arresto corrisponde all’irrigidimento della morte” (A,
p.260).
Per questo:
“La zona di frontiera rappresenta il fatto reale, la linea di frontiera la sua
astrazione”130
e, attraverso una simile astrazione, si presenta “una situazione transitoria… un istante
sospeso”131.
Ovviamente la linea si forma solo in quanto esiste una zona di confine ma, anche in questo
caso, resta sempre e comunque una membrana periferica che si deforma in funzione
dell’espansione (o ripiegamento) dello Stato132. Confine, quindi, mai visto come limite rigido,
simbolo tradizionale di stabilità, ma sempre segno di dinamismo, di superficie fluida, molto
vicino al concetto turneriano di frontiera133.
Il confine è quindi sia l’organo che definisce popoli e Stati, sia espressione del loro
movimento134. È un organo molto complesso la cui forma (zona o linea) varia in funzione della
capacità di espansione della forza dei vari popoli. Non è infatti possibile definire i confini “negli
stadi inferiori della civiltà…[quando i popoli] non hanno ancora sentito il bisogno di dare ai loro
concetti politici una forma ben definita” sarà soltanto quando quel popolo arriverà ad
128
PG, p.387: “Die Grenze ist… immer ihrem Wesen nach veränderlich”; si veda anche quanto affermato in A (pp.259260): “l’origine di tutte queste aree è la stessa, e risiede nel movimento ch’è proprio di ogni cosa vivente e che si
arresta, o pel mancare delle condizioni necessarie alla vita, come la foresta ad una certa altitudine nelle nostre
montagne, come l’uomo nelle aree ricoperte di nevi e di ghiacci delle regioni polari o sub polari, oppure per la
resistenza oppostagli da un movimento proveniente da altra direzione col quale esso sia venuto ad incontrasi… Per
questo il confine è per sua essenza mutevole”. E ancora: “Territorial growth is effected on the periphery of the state by
the displacement of the frontier” (Ratzel, 1896, p.356).
129
“Nessun popolo della terra risponde al mitico postulato di essersi generato sul suolo che esso occupa; ne consegue
che esso debba essere migrato e cresciuto… Una proprietà essenziale della vita dei popoli è la mobilità… ciò che noi
chiamiamo movimento storico è ciò che già Carlo Ritter ha riassunto nel concetto di vita storica e di evoluzione dei
popoli” (Ratzel, 1905/7, pp.762 e 764). Sulla “mobilità dei popoli” e i rapporti con le zone di frontiera di veda anche
quanto affermato in A (pp.111-206).
130
PG, p.385: “Der Grenzsaum ist das Wirkliche, die Grenzlinie die Abstraktion davon”.
131
PG, p.385: “die eine ruhende Bewegung abzeichnet, als ob sie einen Augenblick stehen geblieben wäre”.
132
Si vedano al riguardo PG, pp.398-402 e l’analisi che ne fanno P.Giuchonnet C.Raffestin (1974, pp.9, 21 e 29-38).
133
Un accenno ad una possibile influenza delle idee di F.J.Turner ne fa solo M.Foucher (1988, p.30). Influenza che
presumo non probabile in quanto il viaggio di F.Ratzel nel Nord America avvenne negli anni 1873-75 mentre
F.J.Turner lesse la sua relazione sulla frontiera americana al Congresso dell’American Historical Association solo nel
1893 e la pubblicò in un volume nel 1920.
134
A, p.261: “Immediatamente al di fuori della grande compatta area linguistica delle genti germaniche stanno le isole
linguistiche maggiori, più oltre alcuni comuni tedeschi, e più innanzi ancora si trovano soltanto degli sparsi individui
isolati… Anche le incursioni dei popoli nomadi hanno la loro zona di confine, costituita all’interno dal limite della
massa compatta, all’esterno da quello delle sue propaggini. E però per rappresentare tali confini non è mai sufficiente
una linea unica, ma si richiedono un paio di linee, le quali vengono così a racchiudere una striscia di confine”; si veda
anche PG (pp.390-391).
45
organizzarsi in “ente politico, o Stato”, che riuscirà a “determinare e a difendere il proprio
confine”135. Gli Stati poi hanno la tendenza a semplificare la zona di frontiera appoggiandosi ad
una “linea di confine” molto più funzionale “agli scopi pratici della politica”: è facile da
determinare, rappresentare e difendere ed è tipica delle “civiltà più evolute”136.
Interessante è anche la sua opinione nei confronti dei “confini naturali” che, non potendo
essere considerati una “buona frontiera”137, non possono assolvere la funzione di confini
politici. I confini naturali pongono solo il limite all’ecumene:
“questo limite è assoluto e separa le zone abitate dall’uomo dagli spazi inabitati…
[in quanto] la specie umana mostra che nulla, entro i limiti dell’ecumene, ha mai
potuto separare durevolmente i popoli”138.
Nonostante la categorica chiarezza di simili posizioni molto spesso egli ne attenua la portata
in considerazione dell’evoluzione della vita di un popolo associata alle caratteristiche dei suoi
confini naturali139. Da questo punto di vista essi hanno una fondamentale importanza per i
popoli non completamente sviluppati o, meglio, per gli Stati in via di formazione e questo
perchè:
“il confine è unicamente l’espressione del movimento esterno ossia dell’incremento
etnico, il quale trae vigore dalla stessa sorgente di energia etnica che l’incremento
interno” (A, p.262)140.
In altri termini un popolo per formarsi ed uno Stato per svilupparsi producono una sorta di
energia etnica141 che viene utilizzata secondo due finalità. La prima, la più importante, è volta
verso l’interno e consente di definire la struttura etnico-culturale che, tenendo in vita popolo o
Stato, e permette loro di esistere, prendere coscienza di sé e definire il proprio “spazio vitale”.
È un lavoro importante e vitale senza il quale il popolo o lo Stato non esistono. La seconda,
volta verso l’esterno, sostiene quello sforzo politico-culturale-economico che permette di
mantenere prima ed ampliare poi lo “spazio vitale”, così:
135
Le citazioni sono da A, pp.260 e 261.
PG, p.392: “Die mathematische scharfe Bestimmung der Grenze gehört nur der höchsten Kultur”; si veda anche A
(pp.264-267).
137
PG, p.420: “Die natürliche Grenze ist also nicht ohne weiteres auch eine gute Grenze. Di Güte einer Grenze hängt
ebenso wohl von der Art des Landes und von seinem Volke, als von seiner Lage ab”. Ed anche A (pp.349-354 corsivo
dell’autore): “I fiumi non adempiono la funzione di confini… [se non quando] costituiscono le linee di suddivisione di
vasti territori privi di limiti definiti… [in ogni caso] posseggono una grande importanza nella storia delle guerre”.
“Solo le montagne ed il mare sono elementi di separazione abbastanza spiccati da poter costituire dei confini veri e
proprii”. Ed ancora in F.Ratzel (1905/7, p.740: “La geografia politica ha rinunziato all’opinione che i fiumi siano
confini maturali; in realtà essi sono più importanti come vie”.
138
PG, p.407: “Diese Grenze ist absolut; sie sondert den Menschen vom zusammenhängend Menschenleeren… Die
Menschheit zeigt, daß nichts innerhalb der Ökumene die Völker dauernd trennen konnte”.
139
Si veda tutto il capitolo 18 di PG (pp.404-427) significativamente intitolato “Die natürlichen Grenzen”; sui confini si
veda l’intera parte quarta di A (pp.259-313) mentre sulla funzione dei fiumi come confini si veda A (pp.349-352).
140
Posizione analoga viene espressa anche in PG, p.419: “Irgendeine natürliche Grenze, die zugleicht eine nationalgleichartige Bevölkerung umschließt, wird dadurch wirksamer, daß sie in dieser Einheitlichkeit eine Quelle von
politischer Kraft hervortreibt, die wieder der Grenze zugute kommt”.
141
Nella sua sostanza questa energia etnica può essere assimilabile a quel “legame spirituale ed affettivo” che lega
abitanti e suolo che egli utilizza nello spiegare la formazione di uno Stato; sotto questa forma è forse possibile
comprendere il concetto di Raunsinn nell’accezione che ne fa J.Gottmann.
136
46
“quanto maggiore è il consumo che [dell’energia etnica] si fa pel primo dei due
movimenti, tanto meno ne resta disponibile pel secondo; e quanto più il primo
perdura, tanto lentamente il secondo si compie” (A, pp.262-263).
È chiaro quindi che l’esistenza di importanti “confini naturali” è di estrema importanza per
definire l’esistenza di un popolo, fortificare la posizione di uno Stato e favorire poi la “lotta per
lo spazio”142.
3.7 – Conclusione.
“L’opera
di
Ratzel
è
un
monumento
epistemologico,
sia
che
si
tratti
della
sua
Antropogeografia o della sua Geografia Politica”143 e tutto il suo discorso sottende una
fortissima concezione nomotetica mirante a dare base teorica -con l’Antropogeografia- agli
studi sui popoli ed ai loro movimenti/migrazioni e -con il suo Politische Geographie- al rapporto
tra il nascente Stato-Nazione ed il suolo/territorio. Inoltre mettendo l’uomo al centro della sua
“antropogeografia” riesce a ricostruire l’unità della disciplina, che lo sviluppo delle scienze
sembrava aver compromesso, dimostrando come il geografo non sia legato solo alla
conoscenza naturalistica ma debba possedere anche un’ottima cultura storica, economica e
filosofica144.
Seguendo il pensiero darwiniano ed haeckeliano fu certamente un evoluzionista–organicista:
sotto questo aspetto fu anche un “determinista” ma le sue posizioni non definiscono mai degli
a-priori ed i suoi testi sono sovrabbondati di esempi atti a spiegare come lo spazio (Raum) e la
posizione (Laghe) influenzino (non determinino) il destino storico dei popoli. Per lui, inoltre, il
genere umano rimane unico, non esistono “razze pure” stabilmente definite da elementi
genetici ereditari ed immutabili: fatto per lui inaccettabile data la sua posizione evoluzionista–
organicista. È vero che gli esseri umani evolvono differenziandosi sotto l’influsso dell’ambiente
ma tutte le migrazioni, i traffici, i commerci e le conquiste, che si sono succedute nel corso
della storia, hanno mescolato i vari caratteri culturali e genetici145. Egli non ha mai affermato in
modo esplicito che l’ambiente determina automaticamente i vari popoli, Stati o civiltà
sostenendo anzi che gli elementi culturali, materiali o spirituali, migrano compenetrandosi fra i
142
Interessante è l’esempio Riportato in A, p.263 (corsivo dell’autore): “I popoli isolani e peninsulari sogliono giungere
presto ad acquistare un carattere etnico e politico ben definito; ed è questo uno dei dati di fatto fondamentali della storia
antica e moderna… soprattutto della Grecia ed anche della Gran Bretagna, si suole troppo facilmente trascurare questo
concetto, del risparmio del lavoro esterno a profitto di quello interno”.
143
C.Raffestin, 1983c, p.26. O.Marinelli (1905, p.126) così concludeva il suo lungo articolo sulle opere di F.Ratzel: “Lo
ripeto, il Ratzel piuttosto che imitato, deve essere seguito… L’opera del Ratzel, per rifulgere in tutto il suo splendore,
non richiede che numerosi continuatori”.
144
L.Raveneau (1891, p.347) nella sua prima lunga recensione nota come “Son principal mérite est d’avoir réintégré
dans la géographie l’élément humaine. Par là il a donné à cette science une orientation et une impulsion nouvelles”. Si
vedano i necrologi di P.Vidal de la Blache (1904, p.467) in cui afferma: “Rétablir dans la géographie l’élément
humain…et reconstituer l’unité de la science géographique” e di J.Brunhes (1904, p.104) : “Il est impossible de faire de
la bonne géographie humaine sans une forte culture historique, économique et philosophique”. É chiaro che si tratta di
due necrologi sono però convinto che rispecchiano pienamente non solo il pensiero dei due autori ma anche, ed è quello
che qui conta, il modo con cui veniva unanimemente considerato il fondamentale apporto di F.Ratzel alla fondazione
della moderna geografia. Si veda anche P.Claval, 1972, pp.55-57.
145
Come nota M.Korinman, 1990, p.40: “l’avancée culturelle serait elle-même fonction de l’intensité et du brassage
dans les migrations”.
47
vari popoli nel momento in cui questi vengono a contatto: una sorta di diffusionismo culturale
legato al succedersi delle incessanti migrazioni146. Solo il dato culturale trasforma un popolo in
una società e poi in uno Stato permettendogli così di diventare più forte e più grande. Lo
stesso dato culturale permette ai popoli non tanto di affrancarsi dalla natura ma di ridurre le
sue “influenze accidentali”:
“si può pertanto accettare come regola, che una gran parte dei progressi della
civiltà sono ottenuti mediante un più accorto sfruttamento delle condizioni
naturali… La civiltà è indipendente dalla natura non nel senso di completo
affrancamento, bensì nel senso di un collegamento più molteplice, più vasto e
meno imperioso… [la cultura ci rende] più indipendenti da talune sue [della natura]
manifestazioni o influenze accidentali… perché sappiamo meglio trarne vantaggio”
(A, pp.61-62).
Il testo più noto e più studiato è stato sicuramente il suo Politische Geographie a cui deve la
sua fama di fondatore della moderna Geografia Politica. Un testo non indirizzato solamente ai
geografi ma pensato anche per gli uomini di governo147 che voleva dotati di quel senso
geografico che non dovrebbe mai fare difetto:
“agli uomini di Stato prammatici e che caratterizza nazioni intere, a volte
dissimulato sotto il concetto di istinto d’espansione, di vocazione coloniale, o senso
innato di potere… [che] potrebbe essere, se non appreso, almeno sviluppato e che
potrebbe dare un grande contributo alla comprensione ed alla giusta
interpretazione dei fatti e degli sviluppi storici e politici”148.
Nel suo lavoro egli propone una teorica semplice e facilmente utilizzabile. Semplice in
quanto basata sull’idea di Stato inteso come principio di convergenza interna del popolonazione e poi elemento di formidabile affermazione verso l’esterno; facilmente utilizzabile
anche dal punto di vista politico in quanto fondata sui tre elementi territoriali di base:
posizione, dimensione e confini. L’innovazione radicale della sua analisi risiede non tanto nella
sua concezione dello Stato come organismo biologico vivente, che nasce si ingrandisce e
declina, ma nel fatto che analizza la vitalità di tale organismo dal punto di vista dell’interazione
tra un popolo (Volk) ed uno specifico suolo (Boden) visto, quest’ultimo, nei suoi tre elementi
territoriali di base149. Concezioni queste assolutamente novative se raffrontate alla staticità
delle descrizioni di altri geografi o geografi-statistici.
146
Sull’importanza di F.Ratzel nel campo dell’etnologia si veda U.Bianchi (1971, pp.128-132) che evidenzia il suo
fondamentale contributo nell’aver individuato il “concetto di zone marginali utile per rendersi conto di come certe
civiltà molto arcaiche abbiano potuto sopravvivere in certe parti periferiche o estreme dei continenti, fuori dalle grandi
vie seguite e conquistate dalle civiltà più giovani, più dinamiche e demograficamente più ricche” (Bianchi, 1971,
p.131).
147
Su questa posizione si veda O.Marinelli (1903, p.272) e M.Korinman (1987, p.12); nella premessa (PG, p.IV)
F.Ratzel afferma infatti: “questo libro non interesserà solamente i geografi” [dieses Buch werde nicht bloß Geographen
interessieren].
148
PG, p.IV: “ein geographischer Sinn… den praktischen Staatsmänner nie gefehlt und zeichnet auch ganze Nationen
aus. Bei ihnen verbirgt er sich unter Namen wie Expansionstrieb, Kolonisationsgabe, angeborener Herrschergeist… so
doch entwickelt werden kann, und daß er viel zum Verständnis und zur gerechten Beurteilung geschichtlicher und
politischer Verhältnisse und Entwicklungen beitragen wird”.
149
Come nota lo stesso P.Vidal de la Blache (1898, pp.98-99): “Il cherche à grouper des faits et à dégager des lois, afin
de mettre à disposition de la géographie politique un fond d’idées sur lesquelles elle puisse vivre… [vi sono certo]
quelques hésitations en présence de propositions qui paraissent affecter une forme dogmatique… [certamente però si]
admire ce trésor d’observations et de faits”.
48
Certamente tutta la sua teorica era figlia del suo tempo –il peso dello Zeitgeist, come nota
Claude Raffestin (1983c,p.29), non deve essere sottovalutato– e risentiva non solo delle
influenze spenceriane, darwiniane ed hegeliane, ma anche del suo essere un tedesco della fine
dell’Ottocento150. Friedrich Ratzel era chiaramente filogermanico e probabilmente voleva anche
trovare una giustificazione teorica alla nascita, crescita ed affermazione del nuovo Stato
tedesco. In tutti i suoi lavori i riferimenti alla Germania non sono certo privi della [supposta]
neutralità del ricercatore151 e non sorprende certo il fatto che questo lavoro abbia segnato, per
molti autori dell’inizio del Novecento e sicuramente contro la sua stessa volontà, il principale
punto di partenza della nascita della Geopolitica, non solo tedesca.
150
Molto interessante è, al riguardo, l’articolo di M.Korinman (1983); sul ruolo di F.Ratzel e, in particolare, della
geografia tedesca nella definizione del nazionalismo tedesco di veda G.Sandner (1994).
151
Circa la posizione centrale della Germania, difficile da difendere perché priva di “confini naturali” contornata da
Stati avversi, afferma (PG, pp.219-220, corsivo mio): “Gli Stati in questa posizione, come la Germania e l’Austria
molto avvantaggiati dal punto di vista politico e poco da quello geografico, devono sovente rinunciare ad espandersi in
una direzione in quanto non sufficientemente coperti dall’altra… Così assalito da tutte le parti un popolo può
conservarsi [libero] solo con una solida organizzazione, una profonda coscienza di sè, con il suo lavoro, la sua
perseveranza, la sua vigilanza, la sua capacità e la sua rapidità di risposta. Ancora una simile posizione contribuirà a
rendere agguerrito un popolo capace di mobilitarsi, mentre un popolo debole è destinato a soccombere. La Germania
può esistere solo se forte” [Staaten von dieser Lage, wie Deutschland, viel mehr nur politische als geographische
Begriffe, oder Österreich, müssen in vielen Fällen ein Ausgreifen nach einer Seite hin unterlassen, weil die Deckung
nach der andern zu fehlte… in diesem Andrängen von allen Seiten hält nur eine starke Organisation, ein starkes
Bewußtsein seine selbst, Arbeit, Ausdauer, Wachsamkeit, Schlagfertigkeit ein Volk stählend, während ein schwaches
ihren Anforderungen Erliegt. Deutschland ist nur, wenn es stark ist].
49
4 – La Geopolitica classica: le Concezioni Strategiche Globali.
Per la prima volta possiamo percepire qualcosa della reale
proporzione delle caratteristiche e degli avvenimenti sulla
scena mondiale, cercando una formula che esprima almeno
alcuni aspetti della causalità geografica nella storia universale.
Se saremo fortunati, tale formula avrà un valore pratico,
poiché permetterà di vedere in prospettiva alcune delle forze
antagoniste nell’attuale politica internazionale.
Halford John Mackinder, The Geographical Pivot of History,
p.299.
4.1 – Premessa.
La base teorica delle varie Geopolitiche è fortemente ancorata al pensiero di Friedrich
Ratzel. Nell’Antropogeografia si
propone di
spiegare le ragioni
della diffusione degli
insediamenti umani sulla Terra, interpretando le migrazioni dei popoli nell’ecumene e
l’aggregazione degli stessi in varie entità, dalla tribù allo Stato, definenti i relativi spazi vitali.
Nel suo Politische Geographie restringe l’attenzione al condizionamento territoriale degli Stati –
le più importanti organizzazioni umane sulla terra– spostando l’analisi sui macrorapporti
esistenti tra questi ultimi ed i tre fondamentali elementi (posizione, spazio, confini) del loro
suolo. L’oggetto di studio della geografia politica ratzeliana è quindi lo Stato: non lo Stato
dinastico pre-moderno ma gli Stati-Nazione cui la geografia politica poteva/doveva fornire
strumenti di interpretazione per la loro politica territoriale152.
Il periodo entro cui tale teorica viene formulata e trova facile diffusione è posto a cavallo tra
il XIX ed il XX secolo: un momento storico in cui gli Stati-Nazione cominciano ad esprimere la
loro aggressività politica imponendo i loro valori153. Aggressività che non viene più motivata da
“situazioni dinastiche” ma sostanzialmente legata a forme sempre più spinte di nazionalismo:
un’ideologia di massa di straordinaria potenza capace di veicolare, attraverso l’idea di nazione
e di nazionalità, forme di egoismo nazionale sempre più prevaricatrici154. Inoltre, nel 1871,
sulla scena europea si era affacciata una nuova e grande potenza politica, militare ed
economica: l’impero tedesco. Per il quale, come nota Gino Luzzatto,
“le vittorie del ’70 e dopo di esse il progresso industriale… hanno aperto d’un tratto
l’orizzonte della piccola Germania prussiana del ’66 e han diffuso in strati sempre
152
Su questo si veda F.Farinelli (2000).
Un periodo in cui, come nota Z.Bauman (2007, p.141): “la gerarchia di valori imposta al mondo governato
dall’estremità nordoccidentale della penisola europea era così salda e sostenuta da potenze così smisuratamente
dominanti che per un paio di secoli essa rimase l’orizzonte della visione del mondo”. Sulla “presa di coscienza politica”
degli Stati europei si veda anche il saggio di D.Groh (1980).
154
Come nota E.J.Hobsbawm (1987, p.163). “nel periodo che va dal 1880 al 1914 il nazionalismo ebbe un fortissimo
sviluppo, e il suo contenuto ideologico e politico si trasformò… a favore di quella espansione aggressiva del proprio
stato”; sempre E.J.Hobsbawm (1991, pp.125-126) “il nazionalismo etnico fu enormemente rafforzato… ‘Razza’ e
lingua venivano facilmente confuse e scambiate… [così per] ‘razza’ e ‘nazione’ l’abitudine di usarle pressoché come
sinonimi”. Sul concetto di Nazione e Nazionalismi si vedano anche: G.Hermet (2000, in particolare alle pp.119-168);
E.J.Hobsbawm (1991, pp.119-153) e l’interessante volumetto di F.Tuccari (2000).
153
50
più larghi della popolazione un senso di terrore per la ristrettezza dei propri confini
nazionali”155.
Le grandi trasformazioni industriali abbinate allo sviluppo tecnologico dei trasporti,
determinate dall’utilizzo del vapore come forza motrice con la conseguente diffusione della
ferrovia e l’avvento dei “piroscafi” ad elica, mutano i rapporti nei confronti dei grandi spazi
amplificando il ruolo delle materie prime accentuando così le spinte colonialistiche. Stati Uniti e
Russia, i due grandi stati continentali, potevano facilmente espandersi -con la ferrovia- nei loro
“enormi spazi interni vuoti”. Per le potenze europee, prive di quei grandi spazi, l’apertura del
Canale di Suez nel 1869 ed il sempre più importante utilizzo del vapore per la navigazione
accentuarono quelle spinte colonialistiche mettendo le basi per una riorganizzazione del
controllo dei mari. Riorganizzazione sempre meno legata ai problemi del vento e sempre più al
controllo dei punti chiave: isole e strozzature lungo le linee di comunicazioni marittime e
approdi connessi allo stoccaggio del combustibile. Dal punto di vista sociale la rivoluzione
industriale portò da un lato il diffondersi di un relativo benessere e dall’altro accentuò i conflitti
sociali spingendo i ceti proletari e le campagne verso un vasto movimento migratorio, complice
anche una diminuzione della mortalità legata alle migliorate pratiche igenico-sanitarie.
Stante queste situazioni è abbastanza chiaro che gli intellettuali e le elite economicopolitiche cominciassero a farsi “interpreti”156 dell’autocoscienza nazionale dei vari Stati157
interpretando la teorica ratzelliana sotto una luce funzionale allo “spirito di potenza dello Statonazione”. Ne nasce una nuova dottrina sulla valutazione dei rapporti Stato-territorio che va
sotto il nome di “geopolitica”. Quest’ultima, fra le varie discipline nate a cavallo del XIX e XX
secolo che:
“hanno avanzato la pretesa di essere riconosciute come scienza, è forse quella che
si regge sulle basi più malsicure” (Portinaro, 1982, p.1).
4.2 – Il termine Geopolitica.
Il termine Geopolitica venne coniato agli inizi del Novecento da Rudolf Kjellén (1846-1922),
un professore svedese di storia e scienze politiche, sicuramente conoscitore dei lavori di
Friedrich Ratzel, cui fa sempre riferimento per l’elaborazione del suo pensiero158. Il suo
pensiero politico e la sua idea di geopolitica prendono forma, sostanzialmente, nei primi anni
del Novecento: il fatto che il suo concetto di geopolitica assuma un ruolo importante, per
l’influenza che esercita, solo nel 1914-1918 è rivelatore del ruolo catalizzatore giocato dalla
guerra e dell’interesse che questa disciplina ha sempre assunto nelle guerre e nei periodi di
155
È un’affermazione che G.Luzzatto (1918/19, p.VI) fa nella prefazione del libro di F.Naumann Mitteleuropa, un testo
base per la comprensione dell’espansionismo tedesco. Sulla nascita della “ideologia tedesca” si veda N.Merker (1977).
Sul “pangermanismo” a cavallo fra il 1800 ed il 1900 si veda M.Korinman (1999).
156
Si usa qui in concetto di “intellettuale interprete” nell’accezione che ne fa Z.Bauman (2007).
157
Come nota E.J.Hobsbawm (1987, p.173): “la nazione fu la nuova religione civica degli Stati… un contrappeso a
coloro che facevano appello a vincoli di solidarietà che scavalcavano la solidarietà verso lo Stato: alla religione, alla
nazionalità o eticità non identificate con lo Stato”.
158
Per un’analisi del pensiero e delle opere di R.Kjellén si rimanda C.Raffestin D.Lopreno Y.Pasteur (1995, pp.77-102);
una sintesi ne fa J.O’Loughlin (2000a, pp.179-183); si veda anche L.K.D.Kristof (1960, pp.22-26).
51
crisi internazionali159. Nel suo lavoro base Staten som lifsform (Lo stato come forma di vita),
uscito nel 1916 in Svezia e subito tradotto in tedesco160, egli la definisce come:
“lo studio dello Stato considerato come organismo geografico o fenomeno spaziale,
cioè come una regione, un territorio, uno spazio o, ancora più esattamente, un
Reich”161.
Una definizione un po’ neutra se non fosse per l’ultima parola Reich interpretabile come
“impero, regno, dominio territoriale” sul quale tutta la geopolitica ha basato il suo ambito di
riferimento.
La Geopolitica, pur derivando dalla Geografia Politica ratzeliana ed avendo lo stesso
oggetto di studio (lo Stato), se ne differenzia per le finalità. La Geografia Politica ratzeliana,
mirando a comprendere le leggi che governano lo sviluppo territoriale degli Stati, ha fornito un
preciso arsenale di concetti che la Geopolitica, ponendosi come supporto e motivazione
dell’imperio di uno Stato, ha utilizzato per dare giustificazione teorica alle conquiste territoriali
e all’esercizio del dominio sul territorio162. Il discorso geopolitico, così come si è venuto a porre
dalla fine del 1800 ai giorni nostri, è divisibile in tre grandi articolazioni: la Geopolitica Classica,
la Geopolitica Critica e la Geopolitica Realista163. La prima, che prende origine sul finire del
1800 e si conclude con la fine della Seconda Guerra Mondiale, è influenzata dalla logica di
conquista che ha permeato le due guerre mondiali mentre le altre due emergono nell’ultimo
ventennio del 1900, dopo un declino quasi un rifiuto della prima. La Geopolitica Critica nasce
negli ambienti accademici ed è legata, in ambito nordamericano, alla Critical Geopolitics e, per
quanto riguarda l’Europa, alla sua riarticolazione da parte di Yves Lacoste e di Claude Raffestin
mentre la Geopolitica Realista è legata all’azione delle grandi Segreterie di Stato.
Nella “geopolitica classica” è possibile individuare due grandi filoni: le Concezioni
Strategiche Globali e la Geopolitica di Propaganda. Per le prime si può parlare di una sorta di
Geografia Politica Applicata prodotta da alcuni autori164 che, cercando di legittimare le politiche
di potenza nazionali connesse a ipotetiche “condizioni geografiche effettive” abbinate a
presunte “opportunità o necessità storiche”, gettarono le basi (più o meno) concettuali della
Geopolitica di Propaganda, assolutamente a-scientifica mirante a dare un supporto alla volontà
di conquista dei regimi nazi-fascisti.
159
Come in effetti notano C.Raffestin D.Lopreno Y.Pasteur, 1995, p.79: “mais qu’elle ne prend de l’importance, par
l’influence exercée, qu’en 1914-1918, est révélateur du rôle de catalyseur de la guerre”.
160
L’importanza di questo lavoro in ambito tedesco è documentata dalle quattro edizioni che si susseguirono tra il 1917
ed il 1924.
161
R.Kjellén, 1917, p.46: “Die Geopolitik ist die Lehre über den Stadt als geographischen Organismus oder
Erscheinung in Raum: also der Staat als Land, Territorium, Gebiet oder, am ausgeprägtesten, als Reich”.
162
Si vedano anche C.Raffestin (1989) e l’analisi che ne fa L.K.D.Kristof (1960, pp.33-37).
163
Si è preferito avvicinarci alla terminologia usata da J.O’Loughlin (2000b, pp. 15-16) in quanto la sua periodizzazione
è apparsa meglio proposta nei termini dell’evoluzione del pensiero geopolitico; quella definita da G.ÓTuathail (1998, p.
5) è sembrata meno adatto in quanto molto più connessa ai soli “rapporti politici” della disciplina. J.O’Loughlin lega,
però, il termine “geopolitica classica” ad un periodo più ristretto: fino la fine della I Guerra Mondiale. Qui invece lo si
estende fino alla II Guerra Mondiale in quanto, pur in un contesto storico diverso, i suoi concetti base [Stato-organismo,
Spazio Vitale, Heartland, opposizione tra potenze marittime e continentali] permangono sempre gli stessi. Occorre
ricordare però che le fasi individuate da J.O’Loughlin (2000a) sono solo accennate nell’introduzione al suo Dizionario
ma non utilizzate all’interno del testo, dove si preferisce un’analisi delle varie geopolitiche nazionali.
164
Che C.Raffestin D.Lopreno I.Pasteur (1995, p.102) li collocano “A la lisière de la géopolitique”.
52
Le Concezioni Strategiche Globali si possono, a loro volta, articolare nella “Geopolitica del
Mare”, elaborata da Alfred Tayer Mahan (1840-1914) e dallo stesso Friedrich Ratzel165, e nei
“Modelli Geopolitici Formali” elaborati dall’inglese Halford John Mackinder (1861-1947) e dallo
statunitense Nicholas John Spykman (1893-1943). Due concezioni che, abbandonando lo
scientismo dei primi dell’Ottocento, accampavano solo marginalmente delle velleità scientifiche
presentandosi sempre come dei progetti politici in grado di suggerire un concreto aiuto politico
alle decisioni dei vari Stati.
4.3 – Le Concezioni Strategiche Globali.
Gli anni che vanno dalla seconda metà del 1800 agli inizi del 1900 segnarono un periodo
storico in cui la prosperità economica, il progresso tecnico e la potenza militare dei grandi Stati
Nazione appariva pienamente definita e nelle elite al potere si faceva strada, con la voglia di
potenza e di conquista, un nuovo e forte desiderio di espansione coloniale166. La navigazione
non si presentava più come un’avventura per pochi ed il mare, stante l’avvento del vapore e le
migliorate tecniche di navigazione, veniva sempre più considerato un’importante via di
comunicazione da difendere o conquistare. Sulla scena mondiale si erano affacciate due nuove
potenze, gli Stati Uniti e la Germania, ed Alfred T. Mahan e Friedrich Ratzel si ponevano come
due “intellettuali interpreti” al servizio delle rispettive elite di governo offrendo loro una
riflessione sul ruolo e funzione della marina da guerra per il controllo del mare e del suo
dominio.
4.3.1 – Il potere marittimo di Alfred Tayer Mahan.
Probabilmente il primo lavoro, basato sui legami tra le situazioni geografiche ed i problemi
politico-militari, che attirò l’attenzione del mondo politico e militare europeo di fine Ottocento
fu The Influence of Sea Power upon History 1660-1783 di Alfred T. Mahan167: lavoro
generalmente considerato uno dei punti di partenza della riflessione geografico-politica168. In
esso l’autore, basandosi sull’interpretazione della storia navale, si muove dall’analisi della
“posizione dello Stato” e l’interconnette –con un notevole pragmatismo operativo– al ruolo
dell’azione combinata della Marina Commerciale e Militare nel garantire, con l’espansione
coloniale ed il controllo delle vie di commercio marittime, la sicurezza politico-economica dello
Stato-Nazione. La sua preoccupazione principale riguardava la possibilità degli Stati Uniti,
stante la loro potenzialità in quanto si affacciano su due oceani ed hanno risorse di dimensione
165
A.T.Mahan e F.Ratzel non sono certamente etichettabili come geopolitici, nell’accezione che ne fanno sia C. Jean
(1995) che Y. Lacoste (1993/4), anche se, in particolare per A.T.Mahan si è parlato di un suo forte ruolo come
precursore: si veda in particolare l’interessante analisi che ne fa J.Sumida (1999).
166
Si veda E.J Hobsbawm (1987; 1991).
167
Ammiraglio della Marina Militare statunitense, insegnò Storia e Tattica Navale al U.S. Naval War College di
Newport di cui divenne presidente.
168
Su questa posizione si vedano: L.Bonante (1979, p.410), P.P.Portinaro (1982, p.11), P.Moreau Defarges (1996,
p.34); C.Raffestin D.Lopreno L.Pasteur (1995, p.103). Come nota A.Flamigni (1994, p.5): “Egli trovò la storia navale
come un elenco di battaglie e la trasformò in un argomento che era intimamente collegato con la politica estera e la
storia generale della nazione-stato”.
53
continentale, di assumere il ruolo di potenza mondiale169 organizzando una forte flotta che
permettesse il “domino del mare”
170
. Ruolo che era allora limitato dall’isolazionismo, dalla
mancanza di una forte flotta militare e dallo scarso coinvolgimento nella politica mondiale171.
Per il suo paese non si trattava di proporre mire espansionistiche ma di reali necessità legate,
come minimo, alla semplice difesa della sua influenza nell’area americana, derivante
dall’applicazione della Dottrina Monroe172. Se la Dottrina Monroe implicava l’opposizione a
qualsiasi intervento europeo sul “Nuovo Continente” è chiaro che per Alfred T. Mahan la
protezione del territorio americano passava per il controllo dei mari173. Questo richiedeva,
come strumento primario della difesa ed espressione del Sea Power degli Stati Uniti, l’esistenza
di una forte marina da guerra.
Tutti i suoi lavori vogliono dimostrare come il Sea Power, dalle guerre puniche alle moderne
battaglie combattute con le navi a vapore, sia stato d’importanza fondamentale per qualsiasi
Stato che volesse mantenere integra la sua indipendenza politica ed economica. Di fatto però
egli non dà mai una precisa definizione di “potere marittimo”174 anche se nel primo capitolo del
suo testo fondamentale175 ne definisce gli elementi base e le caratteristiche principali. Gli
“elementi base” su cui uno Stato deve poggiare il suo “potere marittimo” sono sostanzialmente
legati all’esistenza di un commercio marittimo con una buona flotta mercantile, alla sua
169
“Gli Stati Uniti nonostante una notevole superiorità originaria che deriva dalla loro compattezza geografica e dalle
immense risorse… non sono preparati né intenzionati a far valere nel Mare Caraibico e nell’America Centrale
un’influenza proporzionata all’importanza dei loro interessi. Non abbiamo un’armata e, quel ch’è peggio, non vogliamo
averla… non abbiamo né ci curiamo molto d’avere difese le coste… non abbiamo, come hanno le altre Potenze, stazioni
nel Mare Caraibico… di più non abbiamo nel golfo del Messico neppure una larva d’arsenale che possa servire come
base alle nostre operazioni” (Mahan, 1904, p. 9).
170
Egli usa il termine Sea Power: interpretabile sia come “dominio del mare” sia come “potere marittimo”. Le due
traduzioni verranno qui utilizzate secondo il contesto di riferimento.
171
“Lo Stato non può, come non può l’uomo, vivere da solo; non può cioè vivere [nell’] isolamento politico, simile
all’isolamento fisico” (Mahan, 1904, p.107).
172
Negli anni in cui egli scrive si discute del taglio dell’Istmo di Panama ed egli vede in ciò un ritorno dell’influenza
europea nell’America Centrale. Per questo, appoggiandosi alla Dottrina Monroe, considera di fondamentale importanza
il controllo dell’Istmo e dell’eventuale canale ovunque venga fatto: si vedano il primo ed il terzo capitolo della sua
opera (1904, pp.1-19 e 41-72) significativamente titolati “Gli Stati Uniti e la politica estera” e “l’Istmo e il dominio
marittimo”. Circa una sua interpretazione della Dottrina Monroe in senso interventista si veda A.T.Mahan (1904,
pp.100-107) in cui afferma “Per la sicurezza d’uno Stato, ogni principio nazionale chiaramente affermato e fermamente
mantenuto deve non solo volersi, ma potersi sostenere efficacemente” (p.105).
173
“noi abbiano una lunga costa indifesa” (Mahan, 1904, p.6).
174
L’unico accenno ad una definizione è probabilmente questa: “Domino del mare, col relativo commercio marittimo e
colla relativa supremazia navale, vuol dire vuol dire influenza predominante nel mondo, perché il mare è il gran
medium di comunicazione della natura” (Mahan, 1904, p.84). Egli era un marinaio e non certamente uno studioso
teoricamente impegnato: da qui il suo scarso interesse per l’approfondimento metodologico dei problemi sollevati dalla
ricerca. A questo riguardo occorre ribadire che il suo scopo principale, oltre a quello strategico legato alla sua funzione
di docente al U.S. Naval War College di Newport, era quello di spingere il Governo degli Stati Uniti a dotarsi di
un’efficiente marina da guerra con funzioni non solo difensive. Compito quest’ultimo svolto con molta efficacia:
“bisogna pur convenire che, tanto in commercio quanto in guerra, la difesa passiva è pure una gran povera politica…
Gli Stati Uniti sono disposti a veder occupate da una Potenza rivale quelle numerose ed importanti posizioni nelle isole
e sul continente [da intendersi il Nord America] che ora sono tenute da stati deboli o instabili? Ma quale ragione
possono addurre essi contro un tale cambiamento di padrone? Una sola, quella di una ragionevole politica sostenuta
dalla forza.” (Mahan, 1904, pp.12 e 14-15).
175
È l’unico capitolo a forte contenuto teorico di tutti i suoi lavori, titolato “Discussione sugli elementi del potere
marittimo” (Mahan, 1994, pp.61-121).
54
protezione mediante una potente flotta militare ed alla disponibilità di punti di controllo delle
rotte che, posti in posizione strategica, permettano il rifornimento e la difesa delle flotte176.
Stante questi “elementi base” che definiscono l’esistenza stessa del “potere marittimo” egli
individua poi sei “caratteristiche principali” che ne condizionano lo sviluppo e le peculiarità: tre
relative ai dati fisici del territorio (la posizione geografica dello stato177; la conformazione fisica
della linea di costa178; l’estensione del territorio statale179) e tre connesse alla situazione
demografico-politica (la numerosità della popolazione180; il carattere nazionale181; la volontà
del Governo182). Le prime tre, legate alla struttura fisica dello Stato, diventano efficaci solo se
vi è un “interesse nel mare e un intelligente apprezzamento” da parte della classe politica e
una certa quantità di popolazione “abituata al mare”183. È una sorta di “possibilismo” ante
litteram in quanto per Alfred T. Mahan la struttura fisico-naturale di uno Stato può esprimere
soltanto delle possibilità che vengono attivate solo ed esclusivamente quando vi è una forte
volontà politica mantenuta a lungo nella direzione del Sea Power.
Alfred T. Mahan è sicuramente influenzato dal peso dello Zeitgeist del suo tempo184
connesso ad un forte eurocentrismo, se non proprio razzismo, da cui fa derivare la missione
176
A.T.Mahan, 1994, pp.61-64 : “Il mare si presenta [come] una grande via di comunicazione [in cui i traffici] sono
sempre stati più facili e meno costosi… Ed è aspirazione di ogni nazione che questi trasporti siano effettuati con proprie
navi. Queste devono avere porti sicuri ai quali fare ritorno e devono essere, per quanto possibile, protette dal loro paese
per tutto il viaggio… La necessità di una marina militare… nasce pertanto dall’esistenza di un pacifico naviglio
mercantile… [Inoltre] nel momento in cui una nazione si spinge con le sue navi mercantili e militari oltre le proprie
coste, avverte subito la necessità di punti d’appoggio… per rifugio e per rifornimento. [Così per l’Inghilterra] nacque il
bisogno di basi lungo la rotta, come Capo di Buona Speranza, Sant’Elena e le Mauritius, non principalmente per il
commercio, bensì per la difesa e la guerra; nacque la necessità del possesso di luoghi come Gibilterra, Malta,
Louisburg, all’ingresso del golfo di San Lorenzo, luoghi il cui valore era principalmente strategico”
177
Che corrisponde sostanzialmente allo stesso concetto espresso in modo più generale da F.Ratzel. Per F Ratzel (1923,
pp.180-249; 1914, pp.209-227) la posizione (die Lage) è, nella sua sostanza, un concetto intuitivo: rappresenta “il
posto” che uno Stato occupa sulla superficie terrestre. La sua importanza è legata al fatto che essa, con tutti i suoi
elementi, lega una determinata società o Stato ad un preciso territorio favorendo o meno il suo rapportarsi al resto del
mondo: “la posizione è una profonda costante del suolo terrestre che influenza tutti i movimenti della storia” (“Die
geographische Lage bezeichnet ein dem Erdboden angehöriges Beständige in der geschichtlichen Bewehrung” 1923,
p.180). La sua importanza, per A.T.Mahan (1994, pp.64-70), è legata al fatto che essa detta ad uno Stato delle precise
condizioni: vie d’acqua interne ben connesse al mare, apertura verso più mari con la possibilità di controllare rotte e
basi strategiche.
178
“un paese con una estesa linea di costa, ma interamente priva di porti non avrebbe, di per sé, alcun commercio
marittimo, né naviglio né Marina Militare… [al contrario] porti numerosi e con buoni fondali sono fonte di forza e
ricchezza” ma ciò non conta nulla se non vi è “l’interesse nel mare e un intelligente apprezzamento” da parte della
classe politica” (Mahan, 1994, pp.70 e 74).
179
Che corrisponde non solo “alla lunghezza della sua linea di costa e alle caratteristiche dei suoi porti” ma anche
all’entità di una popolazione “abituata al mare” (Mahan, 1994, p.77).
180
Sostanzialmente il “numero di gente che prende il mare o, per lo meno, che è immediatamente disponibile per
l’imbarco e… per la costruzione e la manutenzione del materiale navale” (Mahan, 1994, pp.79-80).
181
In particolare “la disposizione al commercio… è la caratteristica nazionale più importante nello sviluppo del potere
marittimo” (Mahan, 1994, p.87).
182
“In pace: il governo, con la sua politica, può favorire la crescita delle industrie e la tendenza del popolo a ricercare
avventura e profitto per mezzo del mare… Per la guerra: l’influenza del governo sarà sentita… nel mantenere una
Marina da guerra di dimensioni adeguate alla crescita della Marina mercantile e all’importanza degli interessi ad essa
connessi” (Mahan, 1994, p.115).
183
Sono affermazioni che, quasi un’ossessione, vengono spesso ripetute con pesanti critiche ai governi di Spagna,
Portogallo, Olanda e Francia nell’analizzare la loro posizione nei confronti della gestione del “potere marittimo” mentre
fa sostanziali apprezzamenti alla politica del Regno Unito ed auspica che gli Stati Uniti abbiano una volontà politica
simile a quella inglese.
184
Si veda anche C.Raffestin D.Lopreno L.Pasteur (1995, pp.103-108).
55
civilizzatrice dell’occidente185, ovviamente connessa al colonialismo apportatore di civiltà e
ricchezza. Significativa è la sua enfatizzazione del ruolo del Sea Power nel garantire non solo la
sicurezza di ciascuno Stato ma anche la sua prosperità economica connessa al sostegno
dell’espansione coloniale e al conseguente svilupparsi del commercio: sicurezza e prosperità
che potevano essere garantite solo da una forte Marina Commerciale ben sostenuta da
un’altrettanto forte Marina Militare186.
Ma più che questo egli è fondamentalmente americano, marinaio e stratega che,
insegnando storia e tattica navale al U.S. Naval War College di Newport di Rhode Island, mira
a favorire la nascita di una potente marina da guerra statunitense187. Per questo egli mostra la
forte volontà politica del Regno Unito volta al dominio dei mari e la contrappone
all’inadeguatezza di Olanda, Spagna e, principalmente, della Francia di Luigi XIV e di
Napoleone188. Secondo il suo pensiero, il dominio degli oceani da parte degli inglesi costituisce
un modello da imitare e superare: il controllo dei fondamentali punti marittimi di passaggio
(Gibilterra, S. Elena, Città del Capo, Cipro, Suez, Aden, Singapore…) rappresenta il modo per
garantire la sicurezza dei collegamenti tra la Madre Patria e il suo impero coloniale189. L’intera
opera di Alfred T. Mahan è, infatti, impregnata di ammirazione ed esaltazione nei riguardi dello
Sea Power inglese. Il suo scopo è quello di tracciare un legame tra il passato, i fondamenti del
dominio mondiale britannico, ed il presente, gli Stati Uniti con le loro grandi potenzialità. Agli
Stati Uniti spettava il compito e la possibilità di mantenere e consolidare il dominio inglese sui
mari reincarnando i principi e il fondamento dell’impero marittimo anglosassone190.
185
“La civiltà della moderna Europa è cresciuta all’ombra della Croce, e ciò che v’ha di meglio in essa respira ancora lo
spirito del Crocefisso… Molti popoli sono spinti a cercare nuove terre da occupare, nuovi spazi per espandersi e vivere.
Come ogni altra forza naturale…sempre si è visto una razza inferiore essere sospinta e scomparire innanzi all’urto
persistente di una razza superiore… Ogni popolo non ha il diritto inalienabile al possesso d’una regione, quando esso
riesce di danno al mondo in generale, dei popoli vicini in particolare e talora anche dei suoi stessi membri… Tutto
attorno a noi è lotta: la lotta per la vita, la gara per la vita sono frasi così familiari che il loro significato si presenta
evidente… Qualsiasi episodio della lotta per il progresso umano… si basa tuttora sull’esercizio e sul continuato
mantenimento della forza fisica organizzata” (Mahan, 1904, pp.155; 111; 112; 12;173; il corsivo è dell’autore).
186
Così A.Flamigni sintetizza lo schema che definisce “mercantilista” di A.T.Mahan “le colonie forniscono le materie
prime, la Marina mercantile le trasporta nella madrepatria, che le trasforma in prodotti finiti; la stessa Marina mercantile
li riesporta in altri paesi, producendo così la ricchezza; il tutto dipende dalla Marina militare che ha bisogno di basi
oltremare, possibilmente nelle stesse colonie per difendere il traffico commerciale così istaurato… [e la Marina militare
è l’elemento chiave perché] senza di essa il ciclo può essere interrotto ed il flusso di ricchezza passa al nuovo
dominatore del mare” (Flamigni,1994, pp.6-7). Più che di mercantilismo in senso stretto per A.T.Mahan si deve parlare,
a parer mio, di colbertismo data l’enfasi che egli pone sul fatto che le materie prime non debbano essere lavorate nelle
colonie ma sul suolo nazionale.
187
“Poiché l’obiettivo di questo studio è di ricavare dalle lezioni della storia, considerazioni applicabili al proprio Paese
e alla propria Marina, è opportuno domandarci fino a che punto la situazione degli Stati Uniti… richieda l’azione
governativa per la ricostruzione del loro potere marittimo” (Mahan, 1994, p.116).
188
Buona parte della sua riflessione teorico-pratica è legata allo studio degli antagonismi marittimi e coloniali tra
Francia e Regno Unito: si veda in particolare A.T.Mahan (1892), ma anche buona parte del suo The Influence of Sea
Power è centrata sulla discussione delle battaglie navali inglesi e francesi.
189
Così per gli Stati Uniti lo è il controllo del Canale di Panama: “Se questo fosse realizzato… il Mar dei Caraibi
diventerebbe… una delle maggiori linee di comunicazione mondiale… L’ubicazione degli Stati Uniti, relativamente a
questa rotta, assomiglierà a quella dell’Inghilterra nei confronti della Manica e a quella dei Paesi del Mediterraneo nei
confronti di Suez” (Mahan, 1994, p.69).
190
Il tutto è inteso come una sorta di “patriottismo di razza” connesso alla “famiglia che parla inglese” come appunto
afferma A.T.Mahan: “Quando cominceremo realmente a guardar fuori, e aver cura dei nostri doveri… stenderemo le
56
Probabilmente è per queste sue posizioni, ed in particolare per la sua accentuazione della
centralità del mare, che il suo testo teorico più importante, The Influence of Sea Power upon
History, è diventato “la bibbia marinara di Tirpitz”191 ed il punto di partenza delle riflessioni di
geografia-politica applicata sia di Friedrich Ratzel che di Halford J. Mackinder.
4.3.2 – Friedrich Ratzel ed il controllo del mare.
La Germania non aveva grandi tradizioni marinare ma verso la fine del 1800,
probabilmente a motivo della sua espansione coloniale da cui prese avvio un considerevole
traffico marittimo, si dovette porre il problema della “flotta da guerra”192. Problema che tentò
di risolvere l’ammiraglio Alfred von Tirpitz quando, nominato nel 1897 Segretario di Stato per
la Marina, presentò una prima legge che prevedeva cospicui finanziamenti per la costruzione di
una moderna e potente flotta da guerra. Per far approvare la legge egli mise in campo,
coadiuvato da influenti gruppi di pressione193, un’intensa propaganda mirante a dimostrare
l’assoluta necessità di quel tipo di flotta. Per questo reclutò molti intellettuali194 fra i quali una
cospicua quota di professori universitari, i cosiddetti Flottenprofessoren195, che, con il prestigio
della loro posizione, si impegnarono a far accettare il programma di costruzione della flotta e,
indirettamente, a spingere verso la guerra con l’Inghilterra.
Con il libro Das Meer als Quelle der Völkergrösse196 Friedrich Ratzel è stato un importante
sostenitore della politica di Alfred von Tirpitz ed uno dei mentori dei Flottenprofessoren197. In
mani alla Gran Bretagna, provando che nell’unità di sentimento fra le razze che parlano inglese, consiste la migliore
speranza dell’umanità” (Mahan, 1904, pp.174 e 175).
191
Sull’importanza di questo lavoro per la politica navale tedesca voluta dall’Ammiraglio A. von Tirpitz si vedano:
J.R.Holmes (2004); U.H.Wheler (1981, p.173) che afferma: “I libri di Mahan divennero, anche per espresso desiderio di
Guglielmo II, lettura obbligatoria per gli ufficiali di marina tedeschi. La Influence of Sea Power fu la ‘bibbia marinara’
di Tirpitz”; mentre per E.Geoff (1980, p.71) per aiutare “the announcement of Tirpitz’s ambitious Navvy Bill, an
impressive campaign unfolded during the winter months of 1897-8: the Colonial Society held 173 lectures and
distributed 140.000 leaflets and pamphlets, including 2.000 copies of Mahan The Influence of Sea Power upon History”.
192
Si vedano al riguardo P.Schiera (1987, pp.301-303) e G.Corni (1995, pp.116-124). “L’élite guglielmina riteneva che
una flotta dalle elevate capacità offensive… avrebbe potuto fungere da leva nei confronti di Londra e indurla a
concessioni sul piano coloniale” (Bordonaro, 2009, p.14)
193
Come nota G.Corni oltre al Kolonialgesellachaft e ai pangermanisti dell’Alldeutscher Verband venne fondata la
Flottenverein un’associazione a cui aderirono “decine di migliaia di cittadini, anche di modeste condizioni, convinti
dalla bontà delle argomentazioni della propaganda” (Corni, 1995, p.120).
194
Lo stesso M.Weber, come nota W.J.Momsen (1993, p.232), “approvò di tutto cuore, perlomeno nei suoi inizi, la
politica della flotta di Tirpitz, in cui vedeva uno strumento per far valere la politica del Reich”.
195
Secondo T.Nipperdey (1993, p.599): “an der von Tirpitz initiierten Flottenagitation haben sich 270
Flottenprofessoren beteiligt”; inoltre, come aggiunge J.A.Moses (1969, p.51) quella lista “does not include those who
took part indirectly, especially those who where members of the German Colonial Society”. Sui rapporti tra i professori
universitari e la politica tedesca si vedano T.Nipperdey (1993, pp.590-601) e J.A.Moses (1969).
196
Libro prontamente tradotto in italiano nel 1906 col titolo Il mare origine e grandezza dei popoli. Sostanzialmente si
tratta di un rifacimento, in funzione della propaganda per la Kriegsmarine, di alcuni capitoli dell’ottava sezione del suo
Politische Geographie ed in particolare il capitolo XXII “Das Meer und die Seevölker” [Il mare ed i popoli marittimi].
Occorre considerare che il problema dei rapporti mare/terra è sempre stato considerato importante da F.Ratzel che gli
dedica ben due sezioni del Politische Geographie la settima “Übergänge zwischen Land und Meer” [La fascia di
contatto tra i continenti ed il mare] e l’ottava “Die Welt des Wassers” [Il mondo marittimo] per un totale di ben 96
pagine quasi un ottavo (16,1%) del totale.
197
Nella breve prefazione egli afferma: “Le idee, qui espresse, sono state sviluppate più minutamente in diversi luoghi
della mia “Politische Geographie” quando non v’era ancora alcuna ardente questione per la flotta. Esse appaiono ora
opportune… di guisa che il lettore sarà costretto, alla fine, a condividere la mia convinzione ben fondata: dover la
57
quel testo Friedrich Ratzel sottolinea la grande differenza esistente fra “il mare e la terra” circa
i “problemi connessi al controllo del territorio”198. Gli spazi oceanici non sono facilmente
controllabili “nel mare non vi sono né separazioni, né confini naturali”199 ed è attraverso questa
formidabile apertura che il mare dà “il vantaggio immenso di dominare la terra”200. È pur vero
che l’uomo è una creatura terrestre che deve adattarsi al mare ma è “dagli infiniti orizzonti [del
mare che] si sviluppa il grande ardimento”201.
Se sulla terra la conquista “segue di solito la bandiera del commercio” per il mare la
conquista ed il commercio vanno di pari passo e la forzatura del mercato giapponese ne è la
prova lampante202. Lo stesso concetto di mare territoriale legato alla portata delle batterie
costiere non è più attuale in quanto, seguendo il pensiero di Alfred T. Mahan, prende sempre
più importanza il controllo dei passaggi oceanici: il mancato controllo di questi comporta il
blocco del traffico203. La Germania corre questo rischio perché i passaggi dal Mare del Nord
verso l’Atlantico sono controllati dagli inglesi così “soltanto una flotta da battaglia, che regga e
mantenga libero il Mare del Nord, assicurerà i passaggi” (F.Ratzel, 1906, p.34). Il controllo dei
passaggi, dei piccoli punti, è anche l’elemento chiave per l’espansione coloniale. Quest’ultima
passa, per sua natura, per il mare e per questo ha bisogno di una potente flotta il cui scopo
iniziale è il controllo dei passaggi e dei punti di approdo. Se all’inizio è sufficiente solo “un buon
Germania, cioè, esser forte anche sul mare, per adempiere alla sua missione nel mondo”. Nel suo Anthropogeographie
egli esclude nettamente il mare dall’Ecumene dell’uomo e nella sua Politische Geographie appare solo come uno spazio
da percorrere o attraversare: è chiaro quindi lo scopo politico del testo scritto in esclusivo appoggio della politica in
favore della flotta. Sulle problematiche relative alla “Politica del mare” di F.Ratzel si vedano gli importanti lavori di
M.Korinman (1984; 1987, pp.40-45; 1990, pp.76-85; 1999, pp.185-202).
198
Uso qui l’enunciato “problemi connessi al controllo del territorio” in quanto, a parer mio, per F.Ratzel, come per
A.T.Mahan, non è possibile utilizzare l’enunciato “problemi geopolitici”.
199
F.Ratzel, 1906, p.57; poi continua “la grande unità del mare cancella le tendenze separatiste… poiché il mare è uno
solo, anche il suo dominio tende al dominio della totalità ed il commercio marittimo ne segue l’esempio, con tendenze
monopolizzatrici”. Concetti che riprendono ed ampliano di molto l’affermazione “In der Natur des Meeres liegt weder
Absonderung noch Grenze” (Ratzel, 1923, p.490).
200
F.Ratzel, 1906, p.11; più avanti poi continua “il mare, come massima manifestazione unificatrice, esprime i rapporti
dello spazio, molto più nettamente che la terra… il mare acuisce, e dilata nel tempo stesso, lo sguardo politico ed
economico”. Sono affermazioni queste che ritroviamo, ampliate, anche nel suo Politische Geographie, pp.489-490: “Un
grande Stato non si può concepire senza una sua potenza marittima. Il controllo del mare implica la dominazione di
numerosi paesi anche se esso deriva da uno territorio poco esteso e debole per questo resta dipendente dalle vie
marittime. Da ciò la sua grandezza e la sua debolezza” [Ein wahrer Groβstaat ohne Seemacht nicht mehr zu denken. Die
Beherrschung der See führt zur Herrschaft über viele Länder, wenn sie auch von einem engen und schwachen Lande
ausgegangen sein sollte; sie ist aber immer von dem Verkehr über die Salzflut abhängig. Darin liegt ihre Größe und ihre
Gefahr].
201
E poi continua “la preveggenza nello spirito e nel carattere dei popoli marittimi che ànno essenzialmente contribuito
all’ingrandimento delle misure politiche… Soltanto il mare può allevare vere forze mondiali” (Ratzel, 1906, p.39). Frasi
che sostanzialmente ricalcano l’affermazione: “con i suoi orizzonti infiniti conferisce, ai caratteri politici dei popoli
marittimi, audacia, resistenza e visione prospettica: tutto ciò contribuisce enormemente all’ampliamento della scala
politica” [Die Beherrschung des Meers trägt aus den endlosen Horizonten einen groβen Zug von Kühnheit, Ausdauer
und Fernblick in den politischen Charakter der Seevölker hinein. Sie haben am wesentlichsten beitragen zur
Vergröβerung der politischen Maβstäbe. Die enge territoriale Politik ist ihrem Wesen nach kurzsichtig; das weite Meer
erweitert den Blick nicht bloβ des Kaufmanns, sonder auch des Staatsmannes] (Ratzel, 1923, p.510).
202
“Il commercio… non segue la bandiera e la bandiera non segue lui, esso va con la bandiera. Il primo bastimento di
commercio deve essere armato…come nel 1854 e nel 1864 nel Giappone” (Ratzel, 1906, p.43).
203
“Angusti passaggi, ove l’arrivo e la partenza delle navi possono essere sorvegliati da cannoni costieri: qui cessa
totalmente la libertà dei mari… ogni perturbazione alla stabilità del suo possesso nel Canale di Suez o nello stretto di
Gibilterra è quasi così sensibile per lo stato britannico, come una perdita nello stesso Canale della Manica”.
58
fondo per l’ancoraggio od un pezzo di terra asciutto per depositi di carbone e di provvigioni e
per le cisterne” 204 poi è chiaro che questo si trasforma in conquista di ampi territori in quanto
sono le potenze che dominano il mare che “monopolizzano il commercio oltremarino e
guadagnano prestamente in estensione” (F.Ratzel, 1906, p.72).
Il mare, stante lo sviluppo della moderna flotta i cui movimenti non sono più legati alle sole
forze della natura, sarà sempre più importante per il dominio mondiale: flotta ed esercito
dovranno sempre più integrarsi205. È il mare che dà una visione panoramica globale in quanto
è il suo dominio che porta, pena la decadenza, a considerare il mondo intero: “soltanto il mare
può allevare vere forze mondiali”206.
È pur vero che sono sempre esistiti grandi Stati senza dominio marittimo207 ed altri con una
forte potenza marittima208 ma ora è solo l’azione combinata del domino marittimo e di quello
terrestre che definisce una vera potenza:
“se si chiedono degli effetti duraturi, questi poggiano soltanto sulla supremazia in
terra, supremazia che è stata acquistata e mantenuta mediante la potenza
marittima”209.
4.4.
I Modelli Geopolitici Formali.
Il suolo –considerato come ambiente le cui influenze indirizzano lo sviluppo di un popolo o
di uno Stato– o il territorio –considerato come struttura complessa– erano sempre stati pensati
come delle precise entità concrete che presentavano delle inequivocabili caratteristiche storicomateriali riferibili all’operato delle società umane e ai dati naturali presenti. La loro
trasformazione, come nota Raimond Aron, a mero “teatro delle azioni politiche” con una
fortissima semplificazione dei loro contenuti materiali “per diventare un ambito astratto” allo
204
F.Ratzel, 1906, p.59, e poi prosegue: “da ciò ecco l’impercettibile e semplice fatto del primo annidarsi su una costa
straniera, e lo stupire del mondo per il rapido estendersi, qualora divenga visibile la rete che lega i piccoli punti isolati”
in quanto (p.60) “il dominio del mare si può assomigliare ad un albero che, da un debole germoglio, si è propagato
sempre maggiore e più robusto” e questo perché (p.64) “il possesso della terra tocca necessariamente ad una Potenza
marittima, che abbia proseguito costantemente le sue vie”.
205
F.Ratzel, 1906, p.73: “Dacché un grande stato senza interessi mondiali è divenuto inconcepibile, non è più da
pensarsi un vero e grande Stato, senza potenza marittima. Le flotte diverranno altrettanto necessarie come gli eserciti”.
206
F.Ratzel, 1906, p.39; che, qualche riga prima, afferma: “Dagli infiniti orizzonti si sviluppa il grande ardimento, la
preveggenza nello spirito e nel carattere dei popoli marittimi che ànno essenzialmente contribuito all’ingrandimento
delle misure politiche”. Interessante notare che proprio con questo argomento, l’estensione planetaria della logica
marittima (commercio, guerra o conquista), motiva la caduta di Venezia, arroccata e chiusa nel Mediterraneo: “sulla
decadenza di Venezia agì più profondamente la scarsa conoscenza della navigazione oceanica, cosicché naturalmente
essa restò troppo indietro dei popoli atlantici nell’arte di costruir le navi” (Ratzel, 1906, p.19).
207
“Non mancano popoli, che vivono lontani dal mare, che hanno creato civiltà e costituito Stati, La storia dell’Egitto e
della Cina non è in alcun modo senza glorie. Ma al suo monotono corso mancano i contrasti viventi e presto questo
s’arena”; quasi due anni prima della sconfitta dei Boeri afferma “E sarà ora considerato dappertutto, come argomento di
un’anormale e forse fatale miopia politica, il non aver saputo le due Repubbliche dei Boeri assicurarsi alcuna costa
marittima”; la stessa Francia “rimase tuttavia Potenza troppo terrestre per diventare Potenza Marittima” (Ratzel, 1906,
pp.51; 62 e 63).
208
Questo “si può agevolmente comprendere dalla grandezza del domino di Roma, della Spagna, dell’Inghilterra”
(Ratzel, 1906, p.56).
209
F.Ratzel, 1906, p.56. Qualche pagina prima afferma: “la Potenza terrestre si sviluppa lentamente; al contrario, la
Potenza marittima si sottomette mezzo mondo, mentre quella allunga la mano soltanto ad una provincia confinante…
lunghe guerre terrestri saranno evitate e si ricercherà il successo piuttosto nella pronta occupazione di importanti punti
costieri” (Ratzel, 1906, pp.53 e 54).
59
scopo di “trarre previsioni o ideologie da una lettura geografica della storia universale”
(R.Aron, 1970, pp.232 e 240, corsivo dell’autore) è sicuramente legato al pensiero di Halford
John Mackinder e successivamente a quello di Nicholas John Spykman.
4.4.1. Gli schemi di Halford John Mackinder.
Halford J. Mackinder210 importante e complessa figura di intellettuale inglese –geografo,
economista, esploratore, diplomatico e uomo politico– è stato uno dei migliori figli dell’era
vittoriana: di quell’Inghilterra al culmine della sua potenza, padrona dei mari e signora di un
vastissimo impero coloniale, quando sembrava che fosse nell’ordine naturale delle cose che il
Regno Unito dovesse dominare i mari211. Egli, sebbene considerasse tutto ciò un indiscutibile
assioma, fu sicuramente anche uno dei primi a scorgere i pericoli per l’impero inglese. Pericoli
legati non tanto agli sviluppi della marineria statunitense212 quanto alla politica della Germania
guglielmina213 con l’operato dell’ammiraglio Alfred von Tirpitz214 ed il progetto della ferrovia
Berlino-Bagdad215 visto come un preciso disegno mirante ad interferire con la politica inglese
nel Golfo Persico e quindi nell’Oceano Indiano216.
La sua concezione della geografia come scienza unitaria è stata chiaramente definita nella
relazione esposta nel 1887, l’anno stesso in cui divenne il primo Reader in Geography ad
210
Nel 1887 divenne professore ufficiale di Geografia ad Oxford e due anni dopo fondò la Oxford School of
Geography; dal 1903 al 1908 fu rettore della London School of Economics and Political Science; sua è la prima ascesa
del 1899 sul Monte Kenya; fu Alto Commissario britannico in Russia nel 1919/20; deputato alla Camera dei Comuni
dal 1910 al 1922; presiedette molti Comitati Imperiali. Per una sua approfondita biografia si veda B.W.Blouet (1987) e
R.E.Dickinson (1976b). In italiano si possono consultare P.Mareau Defarges (1996, pp.36-38) e J.O’Loughlin (2000a,
pp.193-195).
211
Come H.J.Mackinder (1962a, p.56) affermava, in modo più esteso: “It vas a proud and lucrative position, and
seemed so secure that the mid-Victorian folk thought it almost in the natural order of things that insular Britain should
rule the seas”.
212
Un accenno si trova H.J.Mackinder (1994, p.173) “Anche gli Stati Uniti stavano rapidamente assurgendo al rango di
grande potenza”. Un riferimento allo schema di A.T. Mahan si trova in H.J. Mackinder (1904, pp.432-433) quando ne
riassume brevemente il pensiero chiave, adattandolo alle sue concezioni: “The one and continuous ocean enveloping the
divided and insular lands is, of course, the geographical condition of ultimate unity in the command of the sea, and of
whole theory of modern naval strategy and policy as expounded by such writers as Captain Mahan…”. Una seconda
analisi si trova in H.J.Mackinder (1962a, pp.28-30).
213
Problemi che nascono con Bismark definito “the Napoleon of the Prussian” ma continuano con “the Kaiser
Wilhelm”: si veda H.J.Mackinder (1962a, pp.16-27)
214
Una chiara indicazione si ha in H.J.Mackinder (1994, p.173) “trent’anni dopo, alla fine del secolo, von Tirpitz
intraprese la costruzione di una flotta d’alto mare tedesca… la mossa intrapresa dalla Germania significava che la
nazione che già disponeva della superiorità militare terrestre e che occupava la posizione strategica centrale in Europa
stava per dotarsi anche di una potenza navale sufficientemente forte da neutralizzare quella britannica”. Come nota
G.Corni (1995, p.121) “la minaccia di una grande flotta da guerra tedesca suscitò in Gran Bretagna forti
preoccupazioni; una ventata di nazionalismo radicale si diffuse e la politica britannica fu spinta anche per questa
ragione a uscire dal suo isolamento”.
215
Progetto, mai completato, che la Gran Bretagna vedeva come “una minaccia per la via alle Indie” (Corni, 1995,
p.122) si veda anche E.Obst (1927, pp.94-95). Come nota H.J.Mackinder (1962a, p.21) “Berlin-Bagdad, Berlin-Herat,
Berlin-Pekin –not heard as mere words, but visualized on the mental relief map- involve for most Anglo-Saxons a new
mode of thought, lately and imperfectly introduced among us by the rough maps of the newspapers”. Circa i programmi
ferroviari della Germania guglielmina riguardanti la ferrovia Berlino-Bagdad, con le relative problematiche
diplomatiche e finanziarie, si veda l’interessante analisi che ne fa M.Korinman (1999, pp. 78-184).
216
Circa il contesto politico-diplomatico in cui si pone l’opera di H.J.Mackinder si veda P.Venier (2005).
60
Oxford, alla Royal Geographical Society217. Secondo il suo pensiero la geografia, pur essendo
una scienza unitaria, si presentava come un sapere complesso, articolato in più branche, in
grado di rispondere a vari quesiti: il “perché” di un “dato territoriale” sarebbe stato spiegato
dalla fisiografia, il “dove” dalla topografia, il “perché è li” dalla geografia fisica e “come
interagisce con l’uomo nella società” dalla geografia politica218. Fra le varie branche quella più
importante, quella su cui egli basa buona parte dei suoi lavori più autorevoli, era la geografia
politica che, appoggiandosi alla geografia fisica, aveva la capacità di individuare e dimostrare le
relazioni esistenti tra l’uomo, membro di una società, e il proprio ambiente219.
Halford J. Mackinder è però conosciuto soprattutto per teoria dell’Hertland, la teoria del
“nucleo centrale”, probabilmente il più famoso prodotto intellettuale della geografia politica poi
fatto proprio da tutti i “geopolitici”220. Il valore geopolitico di questa teoria è legato al fatto che
con essa è possibile interpretare il territorio non più come una struttura concreta e complessa
ma come un ambito astratto analizzabile sotto un duplice aspetto: da un lato rappresenta lo
scacchiere su cui si impostano le operazioni diplomatico-strategiche miranti alla sua conquista
o controllo e dall’altro diventa, contemporaneamente, “la posta in gioco” da conquistare.
Discussa per la prima volta nel 1904 (casualmente anche l’anno della morte di Friedrich Ratzel)
con il saggio The geographical pivot of history221, è stata sostanzialmente definita nel 1919,
alla fine della Prima Guerra Mondiale, nel libro Democratic Ideals and Reality e rilanciata in The
Round World and the Winning of the Peace, pubblicato nel 1943 alla fine della Seconda,
considerato il testamento delle sue riflessioni geopolitiche. Si tratta di uno schema teorico
elaborato e perfezionato nell’arco di un quarantennio che, pur rispondendo a un preciso intento
di salvaguardia e conservazione dell’Impero Britannico, venne sicuramente utilizzato anche da
Karl E. Haushofer e probabilmente fornì la base teorica alla logica della “Guerra Fredda” di
questo secondo dopo guerra.
L’efficienza delle argomentazioni di Halford J. Mackinder era legata alla sua capacità di
associare al “territorio/scacchiere” alcuni semplici schemi interpretativi che, correlando e
217
“Are physical and political geography two stages of one investigation, or are they separate subjects to be studied by
different methods, the one an appendix of geology, the other of history?” In effetti continua: “Physical geography has
usually been-undertaken by those already burdened with geology political geography by those laden with history. We
have yet to see the man who taking up the central, the geographical position, shall look equally on such parts of science
and such parts of history as are pertinent to his inquiry. Knowledge is, after all, one, but the extreme specialism of the
present day seems to hide the fact from a certain class of minds” Per questo secondo lui la geografia è: “the science
whose main function is to trace the interaction of man in society and so much of his environment as varies locally”. O
meglio, come precisa nella discussione finale: “It is science of distribution, the science, that is, which traces the
arrangement of things in general on the earth’s surface” (H.J.Mackinder, 1887, pp.142-145 e 160).
218
Physiography asks of a given feature, “Why is it?” Topography, “Where is it?” Physical geography, “Why is it
there?” Political geography, “How does it act on man in society, and how does he react on it?” (H.J.Mackinder, 1887,
p.147).
219
“The function of political geography is to detect and demonstrate the relations subsisting between man in society and
so much of his environment as varies locally” (H.J.Mackinder, 1887, p.144).
220
Un’interessante analisi del pensiero di H.J.Mackinder si trova in R.Aron (1970).
221
Il saggio, prima di essere pubblicato sul Geographical Journal, è stato presentato e discusso il primo gennaio 1904
nella prestigiosa sede della Royal Geographical Society ed in quell’occasione H.J.Mackinder “pronuncia uno dei più
famosi discorsi geografici che la storia ricordi” (C.Minca L.Bialasiewicz, 2004, p.152).
61
combinando situazioni storiche con dati territoriali basilari222, fossero capaci di interpretare e
spiegare le logiche di conquista storicamente definite e quindi atti a far vedere in prospettiva
alcune delle forze antagoniste nell’attuale politica internazionale223. In altri termini egli,
tracciando una correlazione tra le più grandi generalizzazioni geografiche e storiche, voleva
definire una formula che esprimesse alcuni aspetti della causalità geografica nella storia
universale224. Una formula molto semplice e facilmente utilizzabile, che potesse dare delle
precise soluzioni politicamente gestibili: “una formula geografica nella quale possa trovar
spazio qualunque equilibrio politico”225. O meglio, come afferma nel suo ultimo lavoro, una
struttura interpretativa d’impostazione nettamente “realista” capace di:
“tracciare una linea di demarcazione ben netta tra disegni idealistici e, invece,
mappe realistiche ed erudite che presentino concetti –politici, economici, strategici
e così via– basati sul riconoscimento di realtà che non si possono modificare” (H.J.
Mackinder, 1994, p.179).
Il punto di partenza delle schematizzazioni di Halford J. Mackinder era rappresentato da
due concetti geografici chiave: l’esistenza, sempre più importante e marcata, di un unico
“sistema mondo” e del “dualismo terra/mare”. L’interazione del sistema mondo e l’opposizione
tra le potenze continentali e marittime era fortemente connessa, nella sua evoluzione, ad un
elemento storico: lo sviluppo della tecnologia, in particolare quella legata alla mobilità, fattore
di mutamento nei rapporti fra le potenze continentali e quelle marittime per il controllo del
sistema mondo226.
Il Pianeta è sostanzialmente composto di spazi marittimi che ne coprono i nove dodicesimi
e costituiscono il grande Oceano Mondiale227. Gli altri tre dodicesimi sono le terre emerse: due
di questi sono definiti dal Vecchio Continente formato da Europa, Asia e Africa, mentre l’ultimo
è dato dalle Americhe con l’Australia e le isole minori. In questo quadro egli collocava la sua
Pivot Area (regione perno) meglio precisata, nei suoi scritti successivi, come Heartland (cuore
222
H.J.Mackinder, 1904, p.422: “I propose … describing those physical features of the world which I believe to have
been most coercive of human action, and presenting some of the chief phases of history as organically connected with
them, even in the ages when they were unknown to geography. My aim will not be to discuss the influence of this or
that kind of feature, or yet to make a study in regional geography, but rather to exhibit human history as part of the life
of the world organism. I recognize that I can only arrive at one aspect of the truth, and I have no wish to stray into
excessive materialism. Man and not nature initiates, but nature in large measure controls.”
223
H.J.Mackinder, 1904, p.422 “as setting into perspective some of the competing forces in current international
politics”.
224
H.J.Mackinder, 1904, p.422, “It appears to me, therefore, that in the present decade we are for the first time in a
position to attempt, with some degree of completeness, a correlation between the larger geographical and the larger
historical generalizations. For the first time we can perceive something of the real proportion of features and events on
the stage of the whole world, and may seek a formula which shall express certain aspects, at any rate, of geographical
causation in universal history”.
225
H.J.Mackinder, 1904, p.443, “My aim is not to predict a great future for this or that country, but to make a
geographical formula into which you could fit any political balance”. Il termine formula viene sempre usato nel testo
ogni qualvolta egli fa riferimento alla sua interpretazione della “causalità geografica nella storia universale” e ricorre
per ben 4 volte nelle due pagine del suo intervento conclusivo il dibattito finale (Mackinder, 1904, p.442-443).
226
Si vedano P.J.Hugill (2005) e F.Bordonaro (2009, pp. 52-60).
227
H.J.Mackinder, 1904, pp.432-433: “The one and continuous ocean enveloping the divided and insular lands is, of
course, the geographical condition of ultimate unity in the command of the sea, and of the whole theory of modern
naval strategy and policy as expounded by such writers as Captain Mahan and Mr. Spencer Wilkinson”.
62
della terra). Questo cuore della terra, dominato dalle forze terrestri, è circondato nella sua
parte meridionale da una sorta di struttura cuscinetto la mezzaluna interna (inner or marginal
crescent), composta dagli stati della vecchia Europa con la Turchia l’India e la Cina, che si
frappone alla mezzaluna esterna (outer or insular crescent) che raggruppa la Gran Bretagna,
gli USA, il Canadà, l’Australia ed il Giappone, stati dove domina la forza marittima.
L’Heartland, la regione perno, è l’elemento centrale del suo schematismo ed è formato
dalla:
“parte settentrionale e interna dell’Eurasia. Essa si estense dalla costa dell’Artico
fino ai deserti centrali, e ha come confine occidentale l’ampio istmo tra il Baltico e il
Mar Nero. Questo concetto non ammette una definizione precisa sulla carta, poiché
esso si basa su tre diversi aspetti della geografia fisica” (H.J. Mackinder, 1994,
p.178).
L’Heartland, questa “cittadella della potenza terrestre nella parte continentale del mondo” è
quindi caratterizzata da tre dati fisici che si combinano senza “coincidere con esattezza”: la più
vasta pianura dell’intero pianeta che comprende il grande bassopiano settentrionale dell’Asia
con le steppe russe per poi continuare nel cuore agricolo dell’Occidente attraverso Germania,
Olanda, Belgio e Francia; pianura attraversata da alcuni grandi fiumi navigabili ma privi di
sbocco sul mare aperto e, per ultimo, è un’immensa zona di pascolo che ha permesso ai
63
nomadi una perfetta mobilità228. In conclusione è una grande struttura fisica sostanzialmente
omogenea che, senza sbocco nei mari aperti e preclusa agli interventi delle potenze marittime,
non ha permesso ai popoli che la abitano di avere una mobilità marittima e quindi di dare
origine ad una potenza marittima. Ha favorito però un altro tipo di mobilità: il nomadismo con
la possibilità di dar origine ad una potenza terrestre.
La schematizzazione iniziale di Halford J. Mackinder, che parte dalla contrapposizione tra la
vecchia Europa agricolo-stanziale e la grande mobilità delle orde nomadi delle steppe
euroasiatiche, è sintetizzabile nella precisa formula geografica:
“l’Europa e la sua storia…[debbono essere considerate]… come dipendenti dall’Asia
e dalla storia di questo grande continente, poiché la civiltà europea è, in senso
letterale, il risultato della secolare lotta contro l’invasione asiatica” (Mackinder,
1904, p.423).
Roma aveva arginato le invasioni con la funzione unificante della sua potente organizzazione
politico-miltare rendendo mobile la potenza delle sue legioni per mezzo delle strade. Crollato il
suo sistema di potere una serie di popolazioni a cavallo irruppe dall’Asia attraverso l’ampio
passaggio tra i Monti Urali e il Mar Caspio229. È il grande “martello asiatico” che, attraverso un
branco di spietati uomini a cavallo, si è abbattuto come un maglio sulle popolazioni europee
influenzandone la storia e la civiltà e questo non solo per i popoli della Vecchia Europa perché
“Russia, Persia, India e Cina furono rette da dinastie mongole o ne divennero tributarie”230.
La velocità di spostamento e la capacità di controllo del vasto territorio steppico da parte
dei nomadi, legati agli spostamenti a cavallo e su cammello, era molto limitata dalla mancanza
di strade ed aveva un preciso confine nella foresta e nelle montagne. Ora, però, con la
costruzione della ferrovia Transiberiana “le strade ferrate transcontinentali stanno mutando le
condizioni della potenza terrestre” (Mackinder, 1904, p.434). Nella vasta steppa euroasiatica le
ferrovie, data la loro velocità, diventeranno estremamente efficaci nel controllo e conquista del
territorio se abbinate ad una potenza statale con una struttura politico-miltare efficiente.
La sua formula geografica lo porta a concludere che se il cuore della terra viene controllato
da una forte potenza terrestre con mire oceaniche (la Germania si allea o conquista la Russia
oppure il Giappone si allea o conquista la Cina) ci sarebbe una rottura dell’equilibrio di potere a
favore di questa nuova potenza terrestre-marittima. Questo si risolverebbe nella sua
espansione sulle terre periferiche dell’Eurasia e permetterebbe l’impiego di vaste risorse
228
Le citazioni sono tutte prese da H.J.Mackinder, 1994, pp.178 e 175.
H.J.Mackinder, 1904, p.427: “For a thousand years a series of horse-riding peoples emerged from Asia through the
broad interval between the Ural mountains and the Caspian sea, rode through the open spaces of southern Russia, and
struck home into Hungary in the very heart of the European peninsula, shaping by the necessity of opposing them the
history of each of the great peoples around-the Russians, the Germans, the French, the Italians, and the Byzantine
Greeks”.
230
H.J.Mackinder, 1904, p.427: “Such was the harvest of results produced by a cloud of ruthless and idealess horsemen
sweeping over the unimpeded plain -a blow, as it were, from the great Asiatic hammer striking freely through the vacant
space”. E poi continua (p.430): “Thus it happened that in this typical and well-recorded instance, all the settled margins
of the Old World sooner or later felt the expansive force of mobile power originating in the steppe. Russia, Persia,
India, and China were either made tributary, or received Mongol dynasties. Even the incipient power of the Turks in
Asia Minor was struck down for half a century”.
229
64
continentali per la costruzione di flotte, con la conseguente possibilità di conquistare il dominio
del mondo231. In altri termini se la grande potenza economica, industriale e politica della
Germania potesse controllare gli spazi siberiani e le ricchezze della Russia Europea potrebbe
conquistare alcune regioni periferiche della mezzaluna interna: tutto ciò le permetterebbe di
dotarsi di una forte flotta oceanica necessaria al dominio del mondo. Per evitare questo la Gran
Bretagna dovrà agire sulla regione periferica “mantenendovi l’equilibrio di potenza rispetto alle
forze interne espansive” (Mackinder, 1904, p.443). Ovviamente il futuro del mondo dipenderà
dal mantenimento di questo equilibrio. Ne consegue che nel lungo periodo:
“sarà inevitabile l’esistenza di due dominî economici differenti, uno basato
principalmente sul mare e l’altro sul cuore del continente e sulle ferrovie”
(Mackinder, 1904, p.442).
Nel suo lavoro Democratic Ideals and Reality. A Study in the Politics of Reconstruction232
pubblicato nel 1919, alla fine della I Guerra Mondiale, egli riprende lo schema dell’Heartland e
lo completa ampliandolo con il concetto della World Island (l’isola mondiale). L’Europa, l’Asia e
l’Africa formano un unico blocco continentale che definisce appunto World Island233: un’isola
mondiale contornata dall’oceano e circondata da potenze marittime. Una potenza continentale
che possedesse una base continentale così grande e ricca come l’isola mondiale e controllasse
tutte le sue basi marittime, potrebbe dotarsi di una flotta capace di escludere dal proprio
territorio le potenze marittime e così dominare l’intero pianeta: “sarebbe l’ultima minaccia per
la libertà del mondo”234. La contrapposizione, suggerisce Halford J. Mackinder, è sempre stata
tra le potenze marittime portatrici di libertà e le potenze continentali portatrici di oppressione:
è questo il senso preciso delle sue schematizzazioni così ben espresso dal motto che, pensato
come uno slogan235, è chiaro, preciso e facile da ricordare:
Chi governa l’Europa Orientale, domina l’Heartland
Chi governa l’Heartland, domina la World Island
Chi governa la World Island, domina il mondo.236
231
H.J.Mackinder, 1904, p.436: “The oversetting of the balance of power in favour of the pivot state, resulting in its
expansion over the marginal lands of Euro-Asia, would permit of the use of vast continental resources for fleet-building,
and the empire of the world would then be in sight”.
232
Il testo è stato poi ristampato nel 1962 col titolo Democratic Ideals and Reality. With additional papers.
233
H.J.Mackinder, 1962, p.62: “The joint continent of Europe, Asia, and Africa, is now effectively, and not merely
theoretically, an island. Now and again, lest we forget, let us call it the World-Island in what follows”.
234
H.J.Mackinder, 1962, p.70: “What if the Great Continent, the whole World-Island or a large part of it, were at some
future time to become a single and united base of sea-power? ... Ought we not to recognize that, that is the great
ultimate threat to the world’s liberty so far as strategy is concerned, and to provide against it in our new political
system?”
235
Che sia pensata come uno slogan è chiaramente espresso dalle righe che la precedono: “A victorious Roman general,
when he entered the city, amid all the heat-turning splendour of a “Triumph”, ha behind him on the chariot a slave who
whispered into his ear that he was mortal. When our some airy cherub should whisper to them from time to time this
saving” (Mackinder, 1962, p.150).
236
H.J.Mackinder, 1962, p.150: “Who rules East Europe commands the Heartland; Who rules Heartland commands the
World Island; Who rules World Island commands the World”. Come notano C.Minca LBialasiewicz: “dietro questo
slogan si celava una raccomandazione strategica chiara e semplice: bisognava impedire l’espansionismo Tedesco in
Europa orientale e, soprattutto, l’alleanza tra i tedeschi e quello che un tempo era stato l’Impero Zarista, destinato a
divenire l’Unione Sovietica nel corso degli anni Venti” (2004, p.161).
65
La sua interpretazione è basata su di un preciso schematismo territoriale dato dalla
contrapposizione, mirante al controllo del sistema mondo, tra potenze marittime e potenze
continentali237.
Contrapposizione
connessa
allo
sviluppo
della
tecnologia
legata
sia
all’evoluzione della mobilità terrestre o marittima sia alla possibilità di sfruttamento delle
risorse utilizzabili. È ben vero che egli auspica l’esistenza di un ideale giustizia e libertà fra le
nazioni ma, poi afferma che in ogni caso l’uguaglianza fra i vari stati è naturalmente
impossibile in quanto la diversa distribuzione fra terra e mare, la diversa fertilità, la diversa
ricchezza della terra porterà per sua natura “l’espansione degli imperi ed infine l’esistenza di
un unico impero”238.
Di fatto il messaggio che egli trasmette è connesso ad una precisa ideologia geografica
legata alla storia universale: “geographical causation in universal history” 239. Ne consegue che
la conoscenza della geografia, in quanto elemento condizionante i fatti storici, è un formidabile
aiuto per i governanti240. I fatti storici sono vincolati al quadro geografico e la mobilità è stata il
miglior modo per adattarsi agli ambienti e conquistare territori: una volta cavalieri e velieri ora
ferrovie e navi a motore. La storia scorre, plasma o modifica gli attori, mentre la geografia
rappresenta la “realtà che non si può modificare”: la base (il quadro geografico) rimane
sempre la stessa cambiano solo i popoli e le condizioni storiche di riferimento. Così per
mantenere l’equilibrio mondiale e la libertà dei popoli si è trattato di impedire, alla Germania
prima ed ora –nel 1943– all’Unione Sovietica241, l’unificazione dell’Heartland.
È abbastanza facile concludere come questo suo schema, basato sostanzialmente sul
“controllo dell’ Heartland”, sia diventato l’architrave di tutte le concezioni geopolitiche del XIX
secolo e fatto proprio non solo dalla Geopolitick tedesca ma anche dagli ideologi della guerra
fredda, come Nicholas John Spykman.
4.4.2. Lo schema di Nicholas John Spykman.
Nicholas John Spykman (1893 - 1943), nato in Olanda e trasferitosi nel 1920 negli Stati
Uniti, è stato, dal 1935 al 1940, direttore dell’importante Istituto di Studi Internazionali
dell’Università di Yale242. È considerato il capofila della scuola realista della geopolitica
237
Nel suo articolo scritto sul finire della II Guerra Mondiale (H.J.Mackinder, 1994, p.179), presenta solo un accenno ai
problemi dell’aviazione “Sembra che alcuni oggi sognino una potenza aerea mondiale che “liquiderà” sia le flotte che
gli eserciti”.
238
H.J.Mackinder, 1962a, a p.3 afferma: “It is our ideal that justice should be done between nations, whether they be
great or small”, mentre alla pagina precedente (p.2) nota come “ there is in nature no such thing as equality of
opportunity for the nations… the grouping of lands and seas, and of fertility and natural pathways, is such as to lend
itself to the growth of empires, and in the end of a single world-empire”
239
Per un’interessante analisi dell’ideologia geografica di H.J.Mackinder si veda il lavoro di R.Aron (1970, pp.239253).
240
Elemento condizionante, non determinante: “Man and not nature initiates, but nature in large measure controls”
(Mackinder, 1904, p.422).
241
H.J.Mackinder, 1994, p.178: “Tutto considerato, si deve concludere che, se l’Unione Sovietica uscisse da questa
guerra come vincitrice della Germania, essa risulterebbe inevitabilmente la maggior potenza terrestre del mondo…
dotata della posizione difensiva strategicamente più forte. Il nucleo centrale è la più vasta fortezza naturale della terra.
Per la prima volta nella storia, essa è presidiata da una guarnigione numericamente e qualitativamente adeguata”.
242
Di lui si veda P.Moreau Defarges (1996, p.44), J.O’Loughlin (2000a, pp.257-259), F.Bordonaro (2009, pp.94-98) e
l’articolo un po’ apologetico di O.Sevaistre (1988) e la stroncatura che ne fa J.Gottmann (1952, p.62) “Il n’y a pas là
66
americana che ha ispirato la politica estera e la dottrina militare statunitense dalla fine della
Seconda Guerra Mondiale.243.
Negli anni 1938 e 1939 pubblica due importanti articoli sui rapporti tra la geografia e la
politica estera degli stati. Partendo dall’affermazione di Napoleone “la politique de toutes les
puissances est dans leur géographie” egli nota come la geografia sia effettivamente il
principale fattore condizionante la politica nazionale degli stati244. Questo perché “le
caratteristiche geografiche degli stati sono relativamente stabili e immutabili e le loro
aspirazioni geografiche restano le stesse nel corso dei secoli” non solo, ma ciò che conta è che
“mentre i governi e le dinastie si succedono, alla geografia sono ascrivibili le lotte che si
perpetuano
attraverso
la
storia”245.
Quelle
“caratteristiche
geografiche
degli
Stati”
comprendono l’insieme delle risorse, la localizzazione ed i confini. Le risorse del territorio, pur
influenzate dalla topografia e dal clima, definiscono direttamente la struttura economica e
quindi la forza dello Stato246. La localizzazione, sia assoluta (come posizione nel mondo) sia
relativa (come riferimento agli altri Stati), pur essendo immutabile cambia di valore al variare
della tecnologia e, determinando nemici e potenziali alleati, definisce il ruolo dello Stato nello
scacchiere mondiale247. I confini appaiono come l’elemento più critico in quanto non esiste una
frontiera naturale o politica ideale, ma essi sono definiti da strutture artificiali e temporanee,
frutto di mutevoli equilibri di potenza248 ed appaiono stabili solo “during the temporary
armistice called peace”249.
une vue nouvelle des choses, mai uniquement une répétition de Mackinder en l’accommodant à une cartographie
centrée sur l’Amérique”.
243
C.Raffestin DLopreno Y.Pasteur: “On ne peut s’empêcher de voir dan l’œuvre de Spykman un modèle théorique de
la politique étrangère américaine d’après-guerre” (1995, p.282).
244
Conzionante, mai determinante (Spykman, 1938a, pp.29 e 30): “It is the most fundamentally conditioning factor in
the formulation of national policy because it is the most permanent… It should be emphasized, however, that geography
has been described as a conditioning rather than as a determining factor”.
245
“Because the geographic characteristics of states are relatively unchanging and unchangeable, the geographic
demands of those states will remain the same for centuries, and because the world has not yet reached that happy state
where the wants of no man conflict with those of another, those demands will cause friction. Thus at the door of
geography may be laid the blame for many of the age-long struggles which run persistently through history while
governments and dynasties rise and fall” (Spykman, 1938a, p.29); e ancora più incisivo: “Geography is the most
fundamental factor in the foreign policy of states because it is the most permanent. Ministers come and ministers go,
even dictators die, but mountain ranges stand unperturbed” (Spykman, 1942a, p.41).
246
“Size affects the relative strength of a state in the struggle for power. Natural resources influence population density
and economic structure, which in themselves are factors in the formulation of policy… [occorre però considerare]… the
modifying effects of topography and climate. Topography affects strength because of its influence on unity and internal
coherence. Climate, affecting transportation and setting limits to the possibility of agricultural production, conditions
the economic structure of the state, and thus, indirectly but unmistakably, foreign policy” (Spykman, 1938a, pp.29 e
30).
247
“The location of a state may be described from the point of view of world-location, that is, with reference to the land
masses and oceans of the world as a whole, or from the point of view of regional location, that is, with reference to the
territory of other states and immediate surroundings…. It conditions and influences all other factors for the reason that
world location defines climatic zones and thereby economic structure, and regional location defines potential enemies
and thereby the problem of territorial security and potential allies, and perhaps even the limits of a state’s rôle as a
participant in a system of collective security” (Spykman, 1938a, p.40).
248
Ogni Stato vive su di un territorio “whose limits are defined by an imaginary line called a “boundary”… the position
of that line may become an index to the power relations of the contending forces. Stability then suggests an
approximation to balanced power, and shifts indicate changes in the relative strength of the neighbors, either through
67
La sua è una visione sicuramente influenzata dal quadro politico internazionale, ancora
fortemente condizionato dalle vicende belliche, che lo pone abbastanza vicino ad un darvinismo
sociale250 in cui la vita stessa è una serie di lotte per l’esistenza:
“un mondo senza lotta è un mondo in cui la vita ha cessato d’esistere. Un mondo
ordinato non vuol dire che sia privo di conflitti… [ma che] questi si sono trasferiti
dal campo di battaglia ai parlamenti ed ai tribunali” 251.
Per la sua analisi si rifà direttamente alla geopolitica intesa come il campo d’azione della
politica estera, rifiutando le concezioni “metafisiche” della Geopolitick tedesca252. Sotto
quest’aspetto egli combinò le idee di Alfred T. Mahan, il World Ocean come elemento chiave,
con quelle di Halford J. Mackinder, con l’Heartland di assoluta importanza, delineando dei
concreti disegni strategici per il ruolo degli Stati Uniti nel dopoguerra.
Se per Halford J. Mackinder l’elemento centrale del suo discorso geopolitico era l’Heartland,
per Nicholas J. Spykman la zona perno è il Rimland che corrisponde alla mackinderiana
mezzaluna interna (inner or marginal crescent)253. Quest’area è composta di quell’ampia fascia
di stati o territori che, dall’Europa atlantica passando per il Mediterraneo, il Golfo Persico,
l’oceano Indiano ed il sud-est asiatico, circondano l’Heartland. Fascia che non è possibile
considerare come una struttura unitaria dal punto di vista territoriale, culturale, storico o
politico ma solo da quello strategico-spaziale. È disomogenea dal punto di vista climatico e
morfologico; è frammentata oltremisura in vari stati ciascuno con lingua e cultura diversa;
storicamente qui sono nate differenziandosi le grandi civiltà e religioni occidentali ed è qui che
si sono combattute le principali guerre degli ultimi secoli. La sua unicità, come struttura
territoriale, è da considerarsi ragionevole solo dal punto di vista strategico: la sua
the accretion of power by one or through a decline in the resistance of the other” (Spykman, 1942b, p.40). Sulla sua idea
di confine si veda anche N.J.Spykman (1939a)
249
“the temporary armistice called peace” è una frase che N.J.Spykman riprende in quasi tutti i suoi lavori (1938a, p.29;
1939, p.395; 1942a, pp.41 e 447; 1942b, p.437).
250
Si veda l’interpretazione che ne dà C.Raffestin D.Lopreno Y.Pasteur (1995, pp.279-282).
251
“A world without struggle would be a world in which life has ceased to exist. An orderly world is not a world in
which there is a no conflict, but one in which strife and struggle are led into political and legal channels away from the
class of arms; are transferred from the battlefield to the council chamber and the court room” (Spykman, 1942a, p.12).
“Brotherly love would no automatically replace conflict, and the struggle for power would continue. Diplomacy would
become lobbying and log-rolling, and international wars would become civil wars and insurrections” (Spykman, 1942a,
p.458). Ancora più grave è l’affermazione: “The International community is a world in which war is an instrument of
national policy and the national domain is the military base from which the state fights and prepares for war during the
temporary armistice called peace” (Spykman, 1942a, p.447). Ed ancora, riferendosi implicitamente agli Stati Uniti:
“neither the self-evident truth of our principles nor the divine basis of our moral values is in itself enough to assure a
world built in the image of our aspiration. Force is manifestly an indispensable instrument both for national survival and
for the creation of better world” (Spykman, 1944, p.3).
252
“The specific field of geopolitics is, however, the field of foreign policy, and its particular type of analysis uses
geographic factors to help in the formulation of adequate policies for the achievement of certain justifiable ends…[ma
che comunque era]… something completely different from the geographical metaphysics which is so characteristic of
the German school of Geopolitics. Haushofer has managed to give to particular types of frontier a mystical, moral
sanctity… magic concept space… divine purposes. Such metaphysical nonsense has no place here… [questo perché
secondo il suo concetto di geopolitica]… In any case, the objectives of peace and security for state and for the world as
a whole must inspire the final choice of policy ” (Spykman, 1944, pp.6 e 7).
253
Sostanzialmente traducibile come “fascia esterna”. “The rimland of the Eurasian land mass must be viewed as an
intermediate region, situated as it between the heartland and the marginal seas. It functions as a vast buffer zone of
conflict between sea power and land power. Looking in both directions, it must function amphibiously and defend itself
on land and sea… Its amphibious nature lies at the basis of its security problems” (Spykman, 1944, p.41).
68
frammentazione e disomogeneità la rendono facilmente controllabile o dalla potenza
continentale o da quella marittima ed il suo controllo è funzionale al governo dei “destini del
mondo”.
Da qui parte la sua critica a Halford J. Mackinder: quest’ultimo era assolutamente convinto
che ogni confitto in Europa doveva seguire lo schema che opponeva il potere terrestre a quello
marittimo uno schema così semplificato non teneva conto che:
“non vi è mai stata una semplice opposizione tra la potenza terrestre e quella
marittima. Storicamente si sono visti alcuni membri del Rimland alleati con la Gran
Bretagna in lotta con altri membri del Rimland a fianco della Russia, oppure, Gran
Bretagna e Russia alleate contro una potenza dominante del Rimland”254.
Per questo il Rimland non rappresentava solo il territorio intermedio tra l’Hertland ed il mare,
funzionante come zona cuscinetto dei conflitti tra la potenza marittima e quella continentale,
ma era il fattore determinante per una politica di potenza poiché, parafrasando lo slogan di
Halford J. Mackinder:
“chi controlla il Rimland controlla l’Eurasia; chi controlla l’Eurasia controlla i destini
del mondo”255.
In altri termini è sul Rimland che si svolge lo scontro, che sempre riemerge dopo i periodi di
stasi, tra le potenze marittime e quelle continentali per cui chi controlla il Rimland controlla
quella fascia cerniera del mondo che permette, se dominata, l’egemonia dell’una sull’altra. Ed
è su questa posizione che si basa la sua visione “realista” della politica estera statunitense256.
Per Nicholas J. Spykman il controllo, o comunque il condizionamento, del Rimland è fattore
determinante per la strategia e la politica estera statunitense. Ne consegue che vi dovrà essere
un rafforzamento degli stati del Rimland sotto l’ovvio controllo degli Stati Uniti. Così l’Europa
dovrà essere organizzata sotto forma di una società regionale delle Nazioni con gli Stati Uniti
come membro non europeo257 in modo da contrastare la potenza economico-militare
dell’Unione Sovietica258. Allo stesso modo gli Stati Uniti dovranno appoggiarsi al Giappone per il
controllo del Rimland asiatico –e questo lo scrive nel 1942 ben prima che finisca la guerra– in
254
“So convinced was Mackinder of the fact that any conflict in Europe must follow the pattern of land power-sea
power opposition… This interpretation would seem to be a little hard on the role of France as a land power, and it is
strange to ignore the three years of Russian resistance on the eastern front… there as never really been a simple land
power-sea power opposition. The historical alignment has always been in terms of some members of the rimland with
Great Britain against some members of the rimland with Russia, or Great Britain and Russia together against a
dominating rimland power” (Spykman, 1944, pp.40-43).
255
“Who controls the rimland rules Eurasia; who rules Eurasia controls the destinies of the world” (Spykman, 1944,
pp.43).
256
La chiusura dell’Introduzione del suo testo America’s Strategy and World Politics. The Unites States and the
Balance of Power è molto chiara al riguardo “offers an analysis of the position of our country in terms of geography and
power politics. It represents a geo-political study of the most basic issue of American foreign policy, one that is as old
the republic and that will remain a topic for discussion as long as the United States remains a free and independent
country” (Spykman, 1942, p.8)
257
“It is to be hoped that this European power zone can be organized in the form of a regional League of Nations with
the United States as an extra-regional member” (Spykman, 1942a, p.468).
258
“In case of Allied victory, the Soviet Union will come out of the war as one the great industrial nation of the world
with an enormous war potential” (Spykman, 1942, p.466). “in fact, it may be that pressure of Russia outward toward the
rimland will constitute one important aspect of the post-war settlement” (Spykman, 1944, p.53)
69
modo da controllare l’eventuale espansionismo cinese259. È chiaro che per Nicholas J.
Spykman, il cui pensiero è volto alla politica estera statunitense, non è tanto il carattere
ideologico della potenza terrestre dell’Eurasia che conta per gli Stati Uniti, quanto l’unificazione
dell’intero territorio eurasiatico sotto una sola autorità: nazista, marxista-leninista, nazionalista
o maoista che sia.
L’influsso di Nicholas J. Spykman sul pensiero politico e strategico statunitense è stato
certamente rilevante. Probabilmente è stato il lontano ispiratore della dottrina di Harry Spencer
Truman sul “containment” ed ha certamente influenzato l’azione di autorevoli Segretari di
Stato quali Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski260. In ogni caso le sue pubblicazioni hanno
certamente contribuito all’abbandono del tradizionale isolazionismo a favore di un diretto
intervento negli affari mondiali e, sicuramente, hanno influito sulla militarizzazione della
politica degli Stati Uniti261.
4.5 – Conclusioni.
Le riflessioni di Alfred T. Mahan e di Friedrich Ratzel avevano come punto di riferimento
(nettamente esplicito per il primo ed implicito per il secondo) la potenza economico-politica
inglese e la relativa espansione imperiale. L’Inghilterra, che doveva la capacità difensiva alla
sua natura insulare, ha impegnato le forze per la realizzazione della supremazia marittimomilitare, per il controllo dei punti di traffico e la conseguente espansione coloniale: le ricchezze
(popolazione e risorse naturali) le capacità (relative alla sua dotazione militare) la posizione
(essere isola in un mare aperto) e la conoscenza territoriale (il controllo dei punti di passaggio)
sono state mobilitate dallo Stato in vista della sicurezza e dell’espansione. La loro era una
riflessione che, spiegando l’azione politica dell’Inghilterra, voleva supportare e spingere
l’azione politica dei loro governi con una logica molto precisa: la struttura diplomatico-militare
di uno Stato, date le responsabilità e il ruolo che svolge, deve saper interpretare le proficue
relazioni tra le opportunità storiche (la tecnologia disponibile, gli interessi e il sistema di valori
di riferimento) e le condizioni geografiche determinando, in questo modo, la potenza e la
capacità di conquista della nazione.
Le riflessioni di Halford J. Mackinder e di Nicholas J. Spykman avevano come punto di
riferimento l’intero pianeta considerato come teatro su cui si svolge l’azione delle grandi
potenze. Pianeta che non era più considerato come un territorio concreto ma uno spazio
259
“The United States has been interested in the preservation… as an Asiatic power… Twice in one generation we have
come to the aid of Great Britain in order that the small off-shore island might not have a single gigantic military state in
control of the opposite coast of the mainland. If the balance of power in the Far East is to be preserved in the future as
well as in the present, the United States will have to adopt a similar protective policy toward Japan, (Spykman, 1942,
pp.468 e 470). Si veda anche N.J.Spykman (1944, p.58).
260
Su N.J.Spykman ispiratore della dottrina del containment si veda A.L.Sanguin (1975, p.280), P.Lorot (1997, p.43),
O.Sevaistre (1988, p.131) e N.J.G.Pounds (1978, p.233); su fatto invece che “the idea behind containment have totally
ignored Spykman” mentre abbia influenzato la politica “realista” post Truman si veda M.P.Gerace (1991, la citazione è
di p.348).
261
Si vedano al riguardo: P.Moreau Defarges (1996, pp.42-54), O.Sevaistre (1988), D.Wilkinson (1985), C.Jean (1995,
pp.39-41) e G.Sloan (1999).
70
astratto, semplificato, schematizzato, sintetizzato nelle sue linee principali in alcune carte a
piccola scala, dei mappamondi disegnati ad oc su delle proiezioni di tipo Mercatore, la più
importante delle quali appare centrata sul Vecchio Continente. Una cartografia che non è il
tradizionale prodotto cartesiano, nel quale la mappa è la rappresentazione in scala della realtà,
ma una “cartografia magica”, delle schematiche “mappe di propaganda”262, vista come una
sorta di Mappamundi T-in-O il cui centro non è più Gerusalemme o Roma ma corrisponde
all’intero Heartland. Su queste basi cartografiche a piccola scala essi sovrappongono due
postulati base: il concetto ratzeliano dell’ineluttabile e fatale tendenza alla crescita degli
Stati263 e l’idea che i vari Stati possano essere definiti da due tipologie: le potenze continentali,
basate su uno spirito chiuso e possessivo legato alla conquista, e le potenze marittime, basate
su uno spirito aperto e avventuroso connesso agli scambi ed al commercio.
Secondo queste due scuole di pensiero il territorio perde la sua complessità diventa uno
spazio: la scacchiera su cui sono localizzati gli Stati, lo spazio schematico delle relazioni
diplomatico-strategiche della politica internazionale. Una scacchiera che definisce tutte le
qualità che, in quel momento storico, gli attori, i vari Stati-nazione con le loro diplomazie ed i
loro Stati Maggiori, devono tener conto per le loro politiche di conquista o di difesa. Uno spazio
(non un territorio) destinato ad essere, per la sua estensione o per le sue qualità, la posta in
gioco delle lotte tra le collettività umane (le orde barbariche prima e gli Stati oggi). Queste due
teorizzazioni, pur nella loro diversità, offrono una prospettiva interpretativa originale ed
affascinante per gli Stati Nazione agli inizi del XX secolo: una visione geografica della storia
universale funzionale ai loro disegni di espansione. Una teorizzazione che, pur parziale e
schematica, fa emergere un dato importante: la lettura geografico-determinista della storia
universale o meglio, per dirla con le parole di Halford J. Mackinder, the geographical causation
in universal history. Secondo questa prospettiva i fatti politico-militari sono, infatti, sempre e
fortemente condizionati dal quadro geografico in quanto è la scacchiera ed il suo controllo che
vincola e determina lo svolgimento del gioco politico-militare.
La Geopolitica non è certo una scienza; è una disciplina dell’azione, non della riflessione,
che interpreta la “realtà geografica” e lo “sviluppo storico” attraverso un rigido punto di vista,
una prospettiva pesantemente deterministica: the geographical causation in universal history.
Con essa le differenze tra scienza e politica, o meglio tra riflessioni scientifiche e scelte
politiche, scompaiono e le sue interpretazioni, le prospettive geopolitiche, assumono il rango di
ineluttabili verità. Così dato il contesto storico la disciplina con le sue prospettive geopolitiche
si degrada facilmente in ideologia giustificatrice. Disciplina (la Geopolitica) e prospettive (le sue
interpretazioni) che troveranno ampio spazio in Germania tanto che nel 1933, dopo l’ascesa di
Hitler al potere, la dipendenza della geopolitica dal governo fu definitiva e divenne uno
strumento di propaganda del regime che pretendeva di trovare giustificazioni scientifiche su
262
Si usano qui i termini “cartografia magica” e “mappe di propaganda” nell’accezione che ne fanno J.Pickles (1992);
L.O.Quam (1943); H.Speier (1941) e J.K.Wright (1942).
263
Probabilmente non conoscevano il lavoro di F.Ratzel (1886a) sulle leggi di crescita degli Stati mentre sicuramente ne
conoscevano la traduzione/riassunto apparsa lo stesso anno su Scottish Geographical Magazine F.Ratzel (1886b)
71
base geografica per il suo operato di repressione e conquista264. Nel 1939 anche in Italia,
accettando l’interpretazione tedesca della geopolitica, nacque a Trieste una scuola di
geopolitica che ne dà questa interessante definizione:
“La geopolitica estende la sua valutazione su più vaste basi, che considerano anche
i fattori culturali e spirituali, la volontà di potenza e impero… La Geopolitica italiana
si propone perciò di esprimere nel modo più completo la coscienza geografica,
politica ed imperiale del Popolo Italiano” (G. Roletto E Massi, 1939, pp.10-11).
264
Si veda al riguardo M.P.Pagnini (1987); C.Raffestin D.Lopreno Y.Pasteur (1995) e M.Antonsich (1994).
72
5
–
La Geografia Regionale tedesco-statunitense;
Possibilista e la scuola francese.
la
Geografia
L’oggetto di ricerca della geografia non è costituito dagli “influssi”:
siano essi della Natura sull’Uomo, come si dice, o del Suolo sulla
Storia. Sogni. Tutte queste maiuscole non hanno niente a che
vedere con un lavoro serio. E, la parola “influssi” non appartiene al
linguaggio scientifico, bensì a quello astrologico. Lasciamola
dunque una buona volta ad astrologi e ad altri ciarlatani…
Lucien Febvre, La terra e l’evoluzione umana, p.421.
5.1 – Premessa
Negli ultimi due decenni del XIX secolo si svilupparono, come reazione al Positivismo e al
Naturalismo, varie correnti di pensiero che si rifacevano al criticismo kantiano e all’idealismo.
L’obiettivo della critica nei confronti del Positivismo fu il suo materialismo deterministico,
capace di ridurre l’uomo, i fenomeni sociali e storici, ad oggetti indagabili con lo stesso metodo
usato per le scienze naturali. La metodologia riduzionistica del Positivismo fu fortemente
criticata poiché l’uomo è una realtà complessa, comprendente non solo la sua fisicità, ma
anche la volontà e il sentimento; per questo motivo ogni essere umano, e con lui le scienze
sociali, sono uniche ed individuali.
È chiaro però che risulta molto complicato operare nette categorizzazioni, tracciare dei
confini precisi –se di confini si può veramente parlare– tra un paradigma e l’altro. Molti aspetti
caratteristici di un certo paradigma spesso, infatti, sopravvivono anche nel paradigma
successivo, per questo si viene a creare una certa confusione nel momento in cui, avvertendo
la legittima e umana esigenza di ordinare i concetti, spesso inconsciamente, si cerca ad ogni
costo di schematizzare il proprio oggetto di analisi, e si rischia di confidare in eccessive
semplificazioni o in rassicuranti generalizzazioni. Per questa ragione, come detto nel primo
capitolo, tracciare una netta e precisa distinzione tra i vari paradigmi nelle scienze sociali, è
un’operazione assai rischiosa e, in effetti, taluni studiosi o uomini di scienza comunemente
considerati come figure emblematiche di un paradigma, in realtà possono occupare una
posizione più sfumata e ambivalente di quella a loro in genere attribuita.
5.2 – L’affermazione dello Storicismo in geografia: il caso di Alfred Hettner e la
geografia regionale.
Numerosi furono gli studi che, in Germania verso la fine del 1800, si posero in
contrapposizione all’imperante positivismo scientifico. In questo contesto va inserita la figura di
Wilhelm Dilthey (1833-1911), il principale rappresentante dello Storicismo in Germania, che
nell’opera Introduzione alle scienze dello spirito (1883) distingue le scienze dello spirito da
quelle della natura. Differenziazione legata all’oggetto indagato: le scienze della natura
indagano gli oggetti esterni all’uomo, mentre quelle dello spirito studiano il mondo interno cioè
73
l’esperienza vissuta che ogni uomo fa delle sue condizioni sociali, dei suoi sentimenti, dei suoi
desideri.
Il pensiero dell’uomo viene concretizzato attraverso opere, azioni e istituzioni. Lo storico
analizza questi aspetti esterni della società cercando di riviverli in sé. Ma è necessaria
l’intuizione per cogliere l’essenza di queste espressioni. L’intuizione diventa così una sorta di
comprensione dell’altrui esperienza, un rivivere in sé la cosa. Soltanto attraverso questo atto
intuitivo, che dà fondamento alle scienze dello spirito, è possibile comprendere le opere e le
azioni dei popoli passati e in esso la storia trova senso. Le scienze dello spirito così non hanno
l’oggettività delle scienze della natura, ma sono solo dei tentativi di avvicinarsi alla realtà: nella
storia non esistono perciò verità assolute in quanto essa è in perenne divenire, e questo vale
per tutte le scienze che indagano sul comportamento dell’uomo e delle società. Si capisce così
che l’obbiettivo dei positivisti (e delle scienze della natura) è la ricerca della generalità, mentre
per gli storicisti (e le scienze dell’uomo) diventa la particolarità. Secondo Wilhelm Dilthey il fine
delle scienze umane consisterebbe nel:
“cogliere il singolare, l’individuale della realtà storico sociale, conoscere le realtà
agenti nel configurarsi di questo individuale, stabilire obiettivi e norme per la sua
configurazione futura” (Dilthey, 1974, p.44).
Il cambiamento è dunque anche metodologico: si accettano facoltà umane come l’intuizione, il
sentimento poetico e la sensibilità che, con il positivismo, erano rifiutate in quanto
esprimevano attitudini non scientifiche.
Se Wilhelm Dilthey aveva promosso la divisione delle scienze in base all’oggetto Wilhelm
Windelband (1848-1915), professore all’università di Heidelberg, ha rafforzato questa
distinzione considerando anche il metodo di studio. Le scienze della natura hanno come
caratteristica l’uniformità e la ripetitività ed egli le definisce scienze nomotetiche, perché
ricercano le leggi che mirano al generale ed esprimono la regolarità dei fenomeni. Le scienze
umane o dello spirito invece si occupano del singolo, del particolare, tenendo presente tutte le
implicazioni spaziali e temporali per cui un fenomeno si rivela unico ed irripetibile, per questo
vengono definite scienze idiografiche. Egli cioè propugna il recupero del criticismo kantiano,
come opposizione al positivismo, secondo cui le scienze della natura riguardano la ricerca e lo
studio dei fatti mentre le scienze dell’uomo riguardano la ricerca e lo studio delle consuetudini,
delle tradizioni, della storia. In effetti, come nota Immanuel Kant:
“possiamo far riferimento alle nostre percezioni empiriche o sulla base di concetti
oppure secondo il tempo e lo spazio nei quali in realtà si trovano. La classificazioni
delle percezioni secondo i concetti è logica, mentre quella realizzata secondo il
tempo e lo spazio è fisica. Stando alla prima otterremo un sistema della Natura,
come quello di Linneo, stando alla seconda una descrizione della natura”.265
Inoltre, Wilhelm Windelband non solo distingue fra scienze nomotetiche (delle leggi, del
costante) e scienze idiografiche (delle condizioni circostanziali nel tempo e nello spazio) ma
afferma ulteriormente che un oggetto poteva essere analizzato sia tenendo presente gli aspetti
265
Il passo citato di I.Kant (Geografia Fisica) è tratto da F.K.Schaeffer (1953, p.232)
74
comuni, ricorrendo alle leggi generali, sia come oggetto particolare ed unico, facendo ricorso
perciò ad un’analisi storica che implicava l’intuizione, la sensibilità e il senso poetico. In altri
termini:
“una realtà può essere considerata o da una prospettiva generalizzante, in base
alla quale si ritiene quanto è comune a oggetti diversi, o da una prospettiva
individualizzante concependo l’oggetto nella sua singolarità, in quello che lo
distingue dagli altri” (Capel, 1987, p. 184).
Questo dualismo delle scienze venne subito visto come una potente minaccia per la
geografia appena istituzionalizzata, tenendo conto che la geografia veniva definita come la
scienza della Terra. Il problema era che lo stesso oggetto (la Terra come campo di studio della
geografia) poteva essere studiato da due diverse prospettive e quindi da due diverse scienze:
la natura, secondo una prospettiva nomotetica, dalla geografia fisica e l’uomo, secondo una
prospettiva idiografica, dalla geografia umana. L’intera geografia, appena istituzionalizzata e
precisata nei suoi compiti, rischiava di spaccarsi in due: da una parte la geografia della natura
o fisica e dall’altra la geografia umana.
Una prima soluzione a questo problema venne data da Alfred Hettner (1859-1941),
anch’egli dell’università di Heidelberg assieme a Wilhelm Windelband266, e consistette nella
geografia regionale. Egli tentò di tener lontano il pericolo del dualismo geografico ricorrendo ai
concetti di Erdkunde (Conoscenza della terra) campo di studio della Geografia Generale e
Länderkunde (Conoscenza delle regioni) campo di studio della Geografia Regionale o, come
allora veniva detta, Corologica. Egli, appunto, afferma:
“La geografia non è la disciplina generale del pianeta terra… lo studio della
superficie della terra come un tutt’uno, quale è senza riferimento al suo spazio
differenziato, non realizza pienamente lo statuto della geografia, che è piuttosto la
disciplina della superficie della terra… secondo i sui continenti, stati, regioni e
località. Il termine Länderkunde (geografia regionale) esprime meglio il
concetto della disciplina che non il termine Erdkunde (geografia generale), al
quale Ritter ha voluto dare una definizione non facilmente interpretabile, che ha
spinto gli autori moderni verso una sistematica che produce false formulazioni
teoriche sulla natura della geografia. Tuttavia è necessario andare oltre la
descrizione della individualità di stati e regioni ed interessarsi della geografia
regionale comparata”267.
La Geografia Generale, che parte da una visione d’insieme della terra, si occupa dei
fenomeni generali e cerca di individuarne le relative leggi (climi, mari, morfologia...). La
Geografia Regionale si occupa invece degli aspetti unici e particolari di una regione, la quale
comprende sia l’uomo sia la natura e prende in esame un’area tenendo conto di tutti i
fenomeni che agiscono e che fanno sì che questa sia unica. I due punti di vista sono
indispensabili l’uno all’altro: soltanto attraverso l’unione dei due aspetti della geografia si può
avere un’idea chiara e completa del mondo. Deve essere però chiaro, precisa Alfred Hettner,
che:
266
Sull’importanza del neo–kantismo tedesco della scuola di Heidelberg (o del Baden) si veda anche V.Berdoulay
(1991, pp.75-89)
267
La citazione di A.Hettner (1927, pp.122-123), è ripresa da T.H.Elkins (1989, p.22)
75
“la più importante caratteristica dell’approccio geografico è che esso è corologico in
natura, e da ciò deriva la sua unità. La corologia, comunque, non è un metodo da
essere annoverato fra gli altri metodi di descrizione o spiegazione. Un “metodo”, se
il significato della parola non è estensibile, fornisce la strada a un obiettivo; la
corologia è in sé obiettivo e soggetto base della geografia. Essa implica una visione
della realtà della terra da un punto di vista della distribuzione spaziale, come
opposizione alla scienza sistematica, che vede la realtà nei termini di sua materia
indifferenziata, e alla scienza storica, che vede nei termini di sequenze temporali.
L’approccio geografico non può che essere corologico…”268.
Centrale alla corologia è il concetto della totalità delle relazionali causali di tutto l’insieme di
fenomeni di un determinato luogo della superficie terrestre; ovviamente i fenomeni generali, la
cui spazialità non varia, interessano la geografia solo se interagiscono con fenomeni localmente
determinati oppure, se presentano varianti locali significative. Infatti, riprende Alfred Hettner,
gli interessi del geografo non possono altro che essere relativi a:
“ogni fenomeno della superficie della terra che varia da luogo a luogo le cui
variazioni spaziali sono significative per altri gruppi di fenomeni che sono…
geograficamente significativi. L’obiettivo della interpretazione corologica è sia il
riconoscimento del carattere di paesi e regioni ottenuto tramite la comprensione
dell’insieme delle interrelazioni fra i vari regni esistenti della realtà e le loro varie
manifestazioni, sia la comprensione della superficie della terra come un tutto nella
sua naturale divisione in continenti, stati, regioni e luoghi”269.
La visione corologica era, per Alfred Hettner, l’essenza della geografia “perché consentiva di
descrivere e di interpretare i diversi caratteri della superficie terrestre” (Capel, 1987, p.186). Il
compito della geografia è dunque quello di analizzare le differenze nelle diverse regioni e
compararle fra di loro.
La visione hettneriana, se da un lato permette di ricompattare la geografia, non più
geografia fisica ed umana separate come oggetto e metodo ma geografia regionale (corologia)
sintesi delle conoscenze di una precisa area, dall’altro lato pone altri due problemi. Il primo è
quello di capire quali, fra gli infiniti fenomeni che caratterizzano una regione, sono quelli da
prendere in considerazione per “descrivere ed interpretare il carattere mutevole” delle varie
regioni. Mentre il secondo, ben più importante e fondamentale, è individuare e definire la
regione.
Un’interessante soluzione ai due problemi viene data da Richard Hartshorne270 (1899-1992).
Circa il primo egli afferma che ciò che interessa la geografia è
“qualsiasi fenomeno, sia relativo alla natura, sia all’uomo… nella misura in cui le
sue interconnessioni con altri fenomeni dello stesso luogo, oppure con altri
fenomeni di altri luoghi, determinano i dinamismi spaziali di tutti quei fenomeni la
cui globalità ha valore per la vita dell’uomo” (Hartshorne, 1972, p. 58).
268
La citazione è di A.Hettner (1927, pp.122-123), ripresa da T.H.Elkins (1989, pp.22-23).
La citazione è di A.Hettner (1927, p.130), ripresa da T.H.Elkins (1989, p.23)
270
Richard Hartshorne, geografo nord americano, è stato un formidabile propugnatore del pensiero hettneriano ed è il
fondatore della scuola regionalista negli Stati Uniti; circa i suoi rapporti con K. Hettner e con il neo–kantismo tedesco
della scuola di Heidelberg (o del Baden) si veda il volume collettaneo curato da J.N. Entrikin S.D. Brunn (1989) ed in
particolare gli interventi di K.W. Butzer (1989) e di N. Smith (1989).
269
76
La conoscenza e lo studio di “qualsiasi fenomeno” è una chiara e forte spinta verso
l’enciclopedismo. Riguardo il concetto di regione, egli riprendendo una definizione hetteriana
afferma
“una regione è uno spazio di specifica localizzazione che in qualche modo si
distingue da altri spazi e che si estende nella misura di questo distinguersi”
(Hartshorne, 1972, p.149).
È chiaro che una definizione del genere, che potremmo semplificare in “ogni regione si
differenzia dalle altre in ragione della sua diversità” pone grossi problemi di natura tautologica.
5.3 – Lo Spiritualismo: Paul Vidal de la Blache e la nascita della Geografia
Possibilista.
Un altro movimento che, dal nostro punto di vista, mette in discussione in modo molto più
significativo alcune idee fondamentali del Positivismo fu lo Spiritualismo a cui si fanno
significativamente risalire le basi filosofiche della geografia possibilista della scuola francese.
L’uomo per gli spiritualisti non poteva essere ridotto a natura perché composto di materia e
pensiero; ed il pensiero non è certo parte della materia. L’uomo in quanto essere pensante è,
contrariamente a tutte le altre attività materiali che vengono causate, attività causante ed
agente. Il punto fondamentale quindi per questo movimento è il recupero della libertà
dell’uomo, incapace di essere spiegato soltanto attraverso le leggi meccanicistiche della natura,
perché dotato di volontà, intenzionalità e coscienza.
In questo contesto si inserisce la figura di Emile Boutroux (1845-1921), il quale rivolse una
critica serrata al determinismo:
“Crediamo che tutto sia necessariamente determinato, perché crediamo che tutto
sia, in fondo, matematico. Questa opinione è il movente, manifesto o segreto, della
ricerca scientifica... La scienza prova o si limita soltanto a supporre che l’essenza
delle cose sia esclusivamente matematica?” (Boutroux, 1925, p.123).
Questa è la domanda alla quale egli cercò di trovare una soluzione.
Emile Boutroux accettò la classificazione comptiana delle scienze, insistendo però sul fatto
che ogni scienza rivela particolari aspetti della realtà e non è possibile arrivare ad una scienza
unica:
“la scienza non è una, ma multipla. La scienza, concepita come insieme di tutte le
scienze, di cui ciascuna, oltre ad avere relazione con le altre, ha una fisionomia sua
propria, una sua evidenza. A misura che dallo studio dei movimenti dei corpi
celesti, la realtà più esteriore che conosciamo, ci innalziamo verso lo studio della
vita e del pensiero, i postulati richiesti divengono più numerosi e più impenetrabili”
(Boutroux, 1925, p.124).
Ogni ordine di scienza presenta quindi elementi nuovi, irriducibili alla matematica, in quanto
questa porta a delle astrazioni che per l’essere vivente ad esempio non sono valide. Emile
Boutroux (1925, p.124) dice infatti che contrariamente alle scienze fisiche, dove il ricorso alla
matematica è lecito, per le scienze biologiche “bisogna contentarsi di fare osservazioni ed
induzioni”.
77
Il tentativo positivistico di spiegare tutto attraverso le leggi causali viene disilluso; prende il
suo posto il Contingentismo, che nega il legame di necessità assoluta tra i fenomeni. I diversi
ordini della realtà e quindi delle scienze sono contingenti rispetto a quelli inferiori perché
presentano caratteristiche nuove ed originali. Mano a mano che si procede verso i livelli
superiori, maggiore sarà la libertà, all’apice dei quali vi è il pensiero e sopra questo Dio. La
caratteristica fondamentale dell’universo è quella di essere in continuo mutamento, per cui
risulta impossibile cogliere la realtà attraverso costruzioni intellettuali. L’unica via possibile
quindi per fare ciò risulta il ricorso alla storia.
Secondo Horacio Capel il pensiero di Paul Vidal De la Blache (1845-1918) fu fortemente
influenzato da questo filosofo, suo collega alla Scuola Normale Superiore di Parigi271. In primo
luogo l’idea comune più evidente è la sfiducia nelle leggi positivistiche. Ed è qui che prende
valore il Convenzionalismo o Neokantismo come viene chiamato da Vincent Berdoulay272.
Infatti non è possibile conoscere la natura vera delle cose poiché la realtà è contingente.
L’unica cosa che la scienza conosce sono i rapporti fra le cose. E, come nota Henri Poincarè:
“Si dirà che una scienza non è che una classificazione e che una classificazione non
può essere vera, ma comoda. Ma è vero che è comoda, ed è vero che essa lo è non
solamente per me, ma per tutti gli uomini; ed è vero che resterà comoda per i
nostri discendenti; ed è infine vero che tutto ciò non può essere dovuto al caso”273.
In altri termini le scienze e le teorie scientifiche a loro connesse (perché esistono vari tipi di
scienza e diversi modi di percepire la realtà) sono strumenti tanto più utili e comodi quanto più
semplici ed efficaci:
“La sola realtà oggettiva sono i rapporti fra le cose dai quali risulta l’armonia
universale e senza dubbio questi rapporti, questa armonia, non potranno essere
conosciuti all’infuori dello spirito che li capisce o che li sente” (Berdoulay, 1981,
p.202).
Paul Vidal De la Blache non parla di leggi, ma di séries de phénomènes o enchainement. Ogni
disciplina si occupa di una diversa serie di fenomeni e concatenazioni. Per questo motivo il
metodo non è la spiegazione bensì la descrizione in quanto quest’ultima rappresenta
“il solo metodo empirico, che permette di rispettare la diversità dei luoghi, di
rivelare i rapporti fra i fenomeni e sfocia nella spiegazione” (Berdoulay, 1981,
p.213).
Il suo obiettivo è dunque quello di analizzare le relazioni fra gli oggetti esistenti nei luoghi
rifiutando le teorie come sole capaci di rendere conto della realtà. Di fronte all’impossibilità di
dimostrare la realtà tramite teorie ricorre a delle “convenzioni” che si possono rivelare comode
nella pratica scientifica e fra queste egli individua la regione:
“un concetto che gli permetteva di cogliere quelle relazioni che altrimenti avrebbero
potuto sfuggire all’attenzione dell’osservatore” (Berdoulay, 1981, p.206).
271
Su questo punto si veda anche V.Berdoulay (1981, pp.93-96; e 1991, pp.75-82).
V.Berdoulay, 1981, pp.201-204.
273
Citato in V.Berdoulay, 1981, p.202.
272
78
Un altro punto in cui Paul Vidal De la Blache viene influenzato da Emile Boutroux e dallo
Spiritualismo è la rivendicazione della libertà dell’uomo di fronte all’ambiente “la liberté de
l’homme vis-à-vis de l’environnement”. Concetto questo, come nota Vincent Berdoulay, che più
che di Paul Vidal De la Blache sarà l’idea base dei “vidaliani”274. Questo implica principalmente
che l’uomo è considerato un agente geografico capace di modificare l’ambiente. Ci si allontana
perciò dal determinismo ambientalistico ratzeliano per recuperare la libertà umana: l’uomo non
può subire l’influenza dell’ambiente perché dotato di intenzionalità e di volontà. Ma ancora più
importante i vidaliani riconobbero che questa libertà variava
“soprattutto grazie al progresso tecnologico ed insistettero pure sull’importanza
dell’idea e della conoscenza che i differenti popoli si facevano del loro ambiente,
idea e conoscenza, che concedeva loro una relativa autonomia d’azione sempre nei
confronti dell’ambiente” (Berdoulay, 1981, p.217).
E’ la rappresentazione soggettiva dell’ambiente, chiamata anche fattore psicologico dai
vidaliani, quella che rende originale il modo di subirlo e di agire su di esso. L’uomo dunque non
ha un ruolo passivo nella natura, ma “joue le role de cause” (Berdoulay, 1981, p.224).
L’uomo,
ovviamente
in
quanto
società,
agisce
sull’ambiente
perché
guidato
da
intenzionalità: l’ambiente offre delle possibilità che l’uomo utilizza, secondo necessità, a
seguito di decisioni libere coscientemente adottate. Paul Claval sintetizza perfettamente questa
espressione:
“ridotto all’essenziale, il possibilismo si riassume in una frase: la natura permette,
l’uomo dispone” (Claval, 1972, p.73).
L’uomo è sì libero, ma limitato dall’ambiente:
“l’uomo in quanto agente geografico fa una propria scelta fra le diverse possibilità
che la natura gli offre. L’utilizzazione che ne fa non è né quella ottima né la sola
possibile in quanto dipende dal proprio modello culturale (comprendendovi pure le
conoscenze tecnologiche)” (Berdoulay, 1981, p.224).
Per i possibilisti quindi esiste sia il fattore natura, l’ambiente, che rappresenta l’elemento attivo
di base che si offre alle società umane, sia il fattore uomo, la società, che con le sue
conoscenze tecniche e culturali ne è l’elemento attivante. Così Max Sorre, alla conclusione del
suo monumentale275 Les Fondements de la géographie humaine, afferma
“le condizioni naturali non sono assenti… ma le manifestazioni dell’attività umana
restano sempre in primo piano. Assieme alla coordinazione più o meno stretta delle
tecniche. Le condizioni fisiche sono sempre davanti ai nostri occhi ma non a causa
del loro interesse intrinseco, ma in ragione del loro significato per la forza del
gruppo” (Sorre, III, 1952, p.449).
In altri termini è il fattore uomo che, con le sue conoscenze tecniche, rende attivo il fattore
natura scoprendone le possibilità, per questo il rapporto uomo/ambiente presenta esisti non
274
È un termine utilizzato da V.Berdoulay (1981, pp.214-221) per indicare genericamente tutti i seguaci di P.Vidal De
la Blache che ovviamente, poi si differenziarono fra loro anche in modo notevole.
275
Monumentale non solo per la ricchezza dei contenuti in cui esprime tutti i canoni del possibilismo ma anche per la
sua ponderosità, si tratta di quattro volumi per complessive due mila pagine.
79
predeterminabili e dà origine ad una varietà di mondi possibili. Lucien Febvre al riguardo
afferma:
“i grandi quadri climatico–botanici … [l’ambiente, il clima, la natura]… nulla hanno
di tirannico, nulla di determinante: è necessario ripeterlo senza stancarsi,
mostrarlo in tutti i modi… nell’insieme delle condizioni fisiche che essi
rappresentano, non scorgiamo se non possibilità d’azione. E aggiungiamo subito,
per prevenire un’obiezione che si presenta da sé: queste possibilità d’azione non
costituiscono una specie di sistema vincolato: non rappresentano in ogni regione
un tutto indissociabile: se sono afferrabili, non sono afferrate dagli uomini tutte
insieme con la stessa forza e contemporaneamente… in effetti, in questo campo
come altrove è utile ricordare la vecchia formula leibnitziana: tutti i possibili non
sono possibili contemporaneamente” (Febvre, 1980, pp.205-206).
L’idea di fondo dell’interpretazione possibilista è che l’uomo non è sottoposto alla natura, la
civiltà non è un prodotto dell’ambiente: l’uomo, inserito in un dato ambiente, interferisce con
la natura che lo circonda, ne utilizza le possibilità secondo le tecniche di cui dispone, ne
individua e valorizza altre in rapporto all’arricchimento delle sue tecniche, e dà un valore via
via diverso nel corso del tempo alla regione in cui vive, adattandosi all’ambiente con un
processo di creazione che è frutto soprattutto delle sue scelte e del suo lavoro. In questo modo
tutto viene perciò demitizzato: nessun ambiente ha o può avere un valore immutabile per
l’uomo; è lui che gli conferisce un valore determinato, in base alle sue capacità di plasmarlo,
modellarlo e organizzarlo ai propri fini. Non esistono, pertanto, regioni ‘favorite’ o regioni ’ostili’
dal momento che questi attributi variano nel tempo per le stesse regioni276.
Anche Lucio Gambi (1956, pp.19 e 23-24) discutendo del concetto di valore in geografia
afferma:
“qualunque cosa di questo mondo –e quindi anche gli oggetti che la geografia
studia– non ha continuativamente un medesimo valore, ma lo muta secondo dei
tempi e le circostanze, e in particolare secondo gli uomini i quali la prendono in
considerazione” non si può certo affermare “che il valore può aversi solo se la cosa
esiste nella astratta realtà fenomenica: cioè la cosa o il fenomeno sono un prius
riguardo al valore. Non è la cosa a condizionare il valore. La cosa può esistere e
non avere valore perché non la conosciamo… ma avrà valore –come è per le
discipline naturali– o il valore di realtà umana –come è per le discipline storiche–
solo perché l’uomo esiste e quando l’uomo ne ha conoscenza. È l’uomo, quindi,
l’origine del valore”.
5.4 – La Geografia Possibilista: regione e paesaggio.
Questo nuovo paradigma ipotizza quindi un rapporto bidirezionale, composto da impulsi
generati dall’ambiente e da altri generati dalle comunità: impulsi che interagiscono e che
mutano nel tempo. Più precisamente, come detto prima, l’ambiente offre delle possibilità che
l’uomo e la società utilizzano secondo necessità, a seguito di decisioni libere e coscientemente
adottate. È chiaro quindi che il grado di libertà della risposta umana all’ambiente fisico e la
considerevole ampiezza delle possibilità a discrezione dell’uomo giustifica pienamente il
termine possibilismo con il quale si definisce questa nuova concezione del rapporto uomo-
276
Si veda al riguardo A.Pecora, 1986, pp.65-68.
80
ambiente. Secondo Adalberto Vallega (2004, p.19) la concezione possibilista può venire
riassunta nei seguenti assunti:
a) la natura non esprime soltanto vincoli, ma offre anche alle comunità umane un campo di
possibilità per occupare il territorio e utilizzare le risorse naturali;
b) le comunità umane, sia pure all’interno di evidenti condizionamenti, esercitano una scelta
tra le possibilità loro offerte dall’ambiente fisico.
c) la scelta, che presuppone l’esistenza di gradi di libertà, è compiuta in base alla cultura delle
comunità e alle tecnologie di intervento sul territorio di cui esse dispongono;
d) in questo quadro la comunità umana si comporta come un fattore geografico, nel senso che
è in grado di influire sull’evoluzione della natura.
L’uomo, qui sempre inteso come società umana, è il principale agente della modificazione
terrestre. Ed è su quest’ultimo aspetto, l’uomo fattore geografico, che si rivolge l’attenzione del
geografo possibilista, che comunque deve essere sensibile a cogliere il substrato fisico
dell’organizzazione del territorio. L’ambiente presenta senza dubbio diversi ostacoli –
montagne, boschi, paludi, deserti, mari…– ma l’uomo riesce a superare e vincere questi
ostacoli dando luogo ad un ambiente umanizzato: una regione unica ed irripetibile nella sua
sostanza. Il compito del geografo possibilista sta quindi nell’indagare come, in particolari
luoghi, l’ambiente abbia costituito la piattaforma su cui la società umana ha organizzato sé
stessa.
Nonostante ciò la problematica geografia fisica/umana è sempre presente perché come
scrive Paul Vidal De la Blache:
“la geografia è tenuta far riferimento agli stessi fatti come la geologia, la fisica, le
scienze naturali e, sotto certi aspetti, la sociologia… [e questo perché la
geografia]… ha come compito particolare di indagare come le leggi fisiche e
biologiche che reggono il globo si combinino e si modifichino quando vengono
applicate alle diverse parti della superficie terrestre… [ma deve anche sforzarsi]… a
caratterizzare i vari paesi, di dipingerli anche, poiché il pittoresco non gli è escluso”
(Vidal De la Blache, 1922, passim).
L’ambivalenza fisico/umana viene superata nell’analisi della regione intesa come quel fatto
geografico in cui
“i rapporti fra le condizioni geografiche ed i fatti sociali possono essere esaminati
da vicino, su di un campo ben scelto e ristretto” (Vidal De la Blache, 1902, p.23).
Tutto ciò porta i vidaliani ad interessarsi sempre più degli studi regionali (le cosiddette
Monografie Regionali) e cioè, come sempre suggeriva Paul Vidal De la Blache, studiare:
“quell’ambiente composito dotato di una potenza capace di raggruppare e
mantenere uniti esseri eterogenei in coabitazione e correlazione reciproca. Questa
sembra essere la legge stessa che regge la geografia degli esseri viventi.
Quest’area rappresenta un luogo dove si sono artificialmente riuniti esseri disparati
che si sono adattati ad una vita comune” (Vidal De la Blache, 1922, p.7).
Le varie monografie regionali, permettendo di cogliere quelle relazioni tra i vari fenomeni
(ambientali ed umani) di una medesima area, altrimenti slegati perché appartenenti a due
81
sfere diverse, aiutano sia a risolvere il problema della spaccatura tra geografia fisica e
geografia umana sia, ma ancora più importante, consentono di elaborare le sintesi regionali.
Se è vero, come detto prima, che il rapporto uomo/ambiente presenta esiti non
predeterminabili ma dà origine a mondi possibili occorre considerare che la regione, fra tutti
quei mondi possibili, è quello attuato in quanto rappresenta l’effettiva –perchè l’unica
realizzata– sintesi del rapporto uomo/ambiente. La regione è un organismo con personalità e
carattere propri in quanto è espressione del contatto, del rapporto, fra quell’ambiente e quella
società: così le monografie regionali (cioè gli studi delle varie regioni) permetteranno di
verificare i rapporti e studiare le interrelazioni. In altre parole permetteranno di individuare le
varie sintesi regionali.
Rimangono però due problemi cos’è una regione e che cosa effettivamente rappresenta la
sintesi regionale: il primo, che i regionalisti tedeschi e nord americani avevano tentato di
risolvere con una tautologia, viene risolto indirettamente tramite l’interpretazione del secondo.
Il ragionamento di Max Sorre277 è abbastanza lineare. La determinazione di una regione è
un fatto relativo alla “geografia umana generale” e, nella sua individuazione, non bisogna
riferirsi alle scienze naturali in quanto lo scopo del geografo è di:
“determinare delle unità territoriali entro i cui limiti vivono dei gruppi umani che
possiedono delle caratteristiche comuni. È dunque dalla geografia umana che
dobbiamo attingere i criteri”.
Inoltre esse presentano dei caratteri estremamente diversi fra loro per cui occorrerà, anche,
evitare
“di delimitare regioni di dimensioni sensibilmente uguali”.
Si potrà così individuare una gerarchia fra le regioni:
“si parlerà di grandi regioni umane (la Cina, l’India, il mondo mediterraneo), di
regioni umane di secondo ordine o intermedie (nella grande regione umana
dell’Europa Centrale, il bacino di Parigi, la regione industriale renana), delle regioni
umane elementari (i paesi…)”.
Il problema, di là dalla individuazione delle dimensioni o la possibilità di varie classificazioni,
comunque rimane: come possiamo riconosce l’individualità della regione umana? La risposta è
abbastanza evidente:
“L’uomo ha coordinato la sua capacità con il suolo, da cui ha estratto tutte le
possibilità, stabilendo [nella regione] una sorta di simbiosi è così impossibile
individuare nettamente ciò che spetta alla natura e ciò che spetta al gruppo
umano. Ma quest’ultimo ha un’azione rivelatrice, o meglio un’azione creatrice… con
l’aiuto di materiali e di elementi presi dall’ambiente naturale… [il gruppo umano]…
è riuscito non tutto di un colpo, ma attraverso una trasmissione ereditaria di
processi, schemi ed invenzioni, a costituire un qualche cosa di metodico
producendo un milieu a suo uso e consumo… e con ciò si introduce un nuovo
principio di differenziazione… Non mi sembra che vi sia bisogno di andare oltre,
nelle nostre ricerche se la comprensione diretta, intuitiva, del complesso geografico
attraverso il paesaggio ci rivela, prima di tutte le analisi, l’individualità della regione
geografica”.
277
Tutte le citazioni seguenti sono tratte del terzo volume del trattato di M.Sorre, pp.445-450.
82
È chiaro, quindi, che la soluzione di tutto sta, come afferma Paul Claval (1972, p.68), nella
“stupefacente scoperta del paesaggio” inteso, quest’ultimo, come la proiezione delle tecniche e
delle pratiche organizzatrici del sistema sociale [la cosiddetta cultura materiale del gruppo] sul
sistema ecologico [l’ambiente naturale], una proiezione attiva che lo costruisce in conformità
con lo scopo da raggiungere.
Il paesaggio è la manifestazione reale e visibile di quel mondo possibile –la regione– che
rappresenta il progetto attuato da quella società su quel territorio: è un oggetto reale che si
vede, si studia e nel cartografare i suoi tratti caratteristici se ne tracciano i confini e si
individua la regione.
Questo nuovo paradigma influenzerà in modo determinante (nell’accezione vidaliana) la
geografia
francese
e
(nell’accezione
hettneriana-hartshorniana)
dall’inizio del 1900 soppiantando (o quasi) quello determinista.
quella
nord
americana
83
6 – Il Neopositivismo
quantitativa.
e lo
sviluppo
della
geografia teoretico–
La geografia deve essere concepita come una scienza interessata
alla formulazione delle leggi che governano la distribuzione
spaziale di certe caratteristiche della superficie terrestre.
Fred K. Schaefer, Exceptionalism in geography: a methodological
examination, p.227.
… ogni branca della geografia che pretende d’essere scientifica
necessita dello sviluppo della teoria e ogni branca della geografia
che ha bisogno della teoria ha bisogno delle tecniche quantitative.
Ian Burton, The quantitative revolution and theoretical geography,
p.162.
6.1 – Premessa.
Come si è sottolineato all’inizio del capitolo precedente non è facile, all’interno delle scienze
sociali, individuare in modo netto i confini fra i vari paradigmi. Così, in effetti, all’interno dello
stesso paradigma storicista-possibilista continuano a permanere tratti e atteggiamenti di
impronta decisamente naturalista ed evoluzionista, tanto che, secondo Horacio Capel (1972,
p.68) “di fatto si può affermare che la corrente positivista non si interruppe mai”.
Inoltre nel secondo Dopoguerra il paradigma storicista–possiblista cominciò ad essere
messo in crisi sia per i suoi problemi intrinseci, connessi al suo evidente enciclopedismo, sia
per lo svilupparsi di filosofie neo-positiviste anche all’interno delle scuole geografiche che lo
contestarono perché, volendo descrivere le regioni come organismi unici ed irripetibili, rifiutava
l’elaborazione teorica.
6.2 – Il Neopositivismo e la nascita della geografia teoretico–quantitativa.
A partire dalla metà degli anni venti ci fu una ripresa dell’ideale positivistico. Questa
tendenza prese il nome di Neopositivismo o Positivismo Critico o Empirismo logico e si sviluppò
nel Circolo di Vienna, fondato nel 1924 da Moritz Schlick (1882-1936) e nel gruppo di Berlino
attorno a Hans Reichenbach (1891-1953); di questi due gruppi fecero parte numerosi
matematici e filosofi quali Rudolph Carnap, Richard von Mises, Carl G. Hempel, Olef Helmer,
Kurt Gödel, Otto Neurath e altri. L’avvento del Nazismo e l’annessione dell’Austria segnarono
una svolta per i neopositivisti del circolo di Vienna che, oggetto di persecuzione politica, si
trasferirono in Gran Bretagna o negli Stati Uniti dove continuarono lo sviluppo delle loro idee e
contribuirono alla diffusione di questa filosofia.
Riprendendo l’ideale del Positivismo ottocentesco anche per i neopositivisti il modello della
scienza era unico rifiutando così il dualismo degli storicisti. Per raggiungere l’unità della scienza
c’era bisogno di un linguaggio preciso, né confuso né pretenzioso. Per questo motivo si fece
ricorso al metodo logico-matematico che doveva controllare rigorosamente il procedimento
scientifico per evitare di cadere nelle imprecisioni. Per distinguere le proposizioni sensate da
quelle non sensate i neopositivisti adottarono il principio di verificazione attraverso il quale una
84
proposizione si rivela vera solo se si appoggia ai dati dell’esperienza, altrimenti è uno
pseudoconcetto. In tal modo la metafisica venne eliminata, perché costituita da concetti e
proposizioni non verificabili attraverso i fatti e quindi considerata uno pseudoconcetto.
I due gruppi, quello di Vienna e di Berlino, oltre all’impostazione antimetafisica e un marcato
atteggiamento empiristico, adottarono la logica nell’analisi del linguaggio scientifico. Soltanto
attraverso il simbolismo matematico si poteva raggiungere il controllo pieno del linguaggio,
causa talvolta di deviazioni o di problematiche inutili: il linguaggio base delle scienze doveva
avvicinarsi sempre di più agli enunciati matematici. Qui si trova una delle differenze
fondamentali tra positivismo ottocentesco, che riteneva la scienza essere l’unico sapere
definitivo ed incontrovertibile atto a comprendere la realtà, ed il neo-positivismo che non ha
mai avuto la pretesa di cogliere totalmente la realtà, ma di affinare gli strumenti per
avvicinarvisi attraverso la coerenza degli enunciati.
In una posizione un po’ diversa, ma forse più influente per la geografia, si colloca Karl
Raimund Popper (1902-1994) che, pur non facendo parte del Circolo di Vienna, ne riprese
alcune tematiche fondamentali sostituendo però il principio di verificazione con il criterio di
falsificabilità e la teoria dell’induzione con il metodo deduttivo della prova. Egli attaccò i
neopositivisti e la loro preoccupazione basata sulla correttezza del linguaggio, portando
l’attenzione sulle teorie criticabili, sui ragionamenti e sulla loro validità.
Egli parte dal principio che l’induzione non esiste. Elimina l’induzione per enumerazione
perché è impossibile anche attraverso un numero infinito di osservazioni concordanti arrivare
ad una legge universale, per cui è assurdo arrivare a una teoria scientifica basandosi su un
numero di esperimenti. Non è valida neppure l’induzione per eliminazione, perché per un
problema esistono tante soluzioni e anche se si eliminano le teorie false non resta la teoria
vera. In altre parole il principio dell’induzione è un principio che non si può accettare perché è
impossibile giustificarlo logicamente, ed è impossibile attraverso di esso affermare principi
assoluti.
Ma allora la scienza da che cosa parte? La conoscenza è sempre guidata da un’ipotesi. Se
queste ipotesi o aspettazioni non si verificano nasce il problema. L’origine della conoscenza
scientifica nasce da queste aspettazioni rimaste deluse. Entra in campo la creatività che deve
formulare delle ipotesi per la soluzione dei problemi. L’origine della conoscenza scientifica è
costituita da problemi, che per essere risolti implicano la creatività dello scienziato. Le ipotesi
formulate dovranno in seguito venire controllate dall’esperienza ed è questo il momento della
scoperta. Karl R. Popper in altre parole non rigetta l’intuizione. La creatività diventa una
costituente molto importante per la formulazione di ipotesi e quindi per la risoluzione dei
problemi, perché è soltanto attraverso idee azzardate che si costruiscono le grandi scoperte
scientifiche; non rigetta perciò neppure i non-sensi legati al mondo dell’immaginazione, e non
della logica, che, spianando la strada all’intuizione, possono aiutarci nell’elaborazione delle
teorie. Queste ultime rappresentano l’elemento chiave della sua impostazione:
85
“sono qualcosa di più che non semplici esercizi, e ciò si può vedere dal fatto che le
sottoponiamo a severi controlli tentando di dedurre da esse alcune regolarità del
mondo, a noi noto, dell’esperienza comune; tentando, cioè, di spiegare queste
regolarità. E questi tentativi di spiegare il noto mediante l’ignoto... hanno esteso
smisuratamente il regno di ciò che è noto” (Popper, 1969, p.19).
Una volta formulate le ipotesi si passerà al controllo attraverso l’esperienza. Le teorie sono
potenzialmente falsificabili. Il procedimento scientifico è quello di scoprire che si è nell’errore
per eliminarlo. Una teoria scientifica che viene sostituita da un’altra è un passo in avanti verso
la verità; la scienza perciò non descrive la realtà in termini definitivi, ma ha soltanto valore
regolativo.
A fianco di queste grandi operazioni di revisione/ricostruzione degli apparati filosofici del
pensiero scientifico si assiste anche al rapido sviluppo di nuove tecnologie: con comparsa degli
elaboratori si vede la concreta possibilità di sottoporre ad analisi scientifica una grande
molteplicità di dati relativi a problematiche sociali e territoriali, tanto che
“l’euforia quantitativa raggiunge il massimo apogeo negli anni Cinquanta, allorché
tutte le scienze sociali provano ad introdurre questi metodi come apparente
panacea per risolvere i propri problemi” (Capel, 1987, p.211).
Gli anni del secondo dopoguerra sono poi segnati da grandi e radicali cambiamenti sociali ed
economici che portano alcuni geografi a rimettere in discussione il ruolo della loro disciplina.
Da una parte inizia il confronto fra le due forti ideologie (socialista e capitalista) che si
scontreranno per l’intera seconda metà del secolo e dall’altra vi sono reali e crescenti problemi
urbani e regionali –interpretati diversamente a seconda dell’approccio ideologico– legati sia alla
necessità della ricostruzione postbellica sia alla necessità di far fronte in qualche modo al
nuovo problema del sottosviluppo, venutosi a creare in seguito al processo di decolonizzazione.
Così molti studiosi di scienze sociali (e ai primi posti i geografi) si sentono in obbligo di fornire
risposte concrete tenendo anche conto che, secondo l’approccio neopositivista, le scienze sono
tali non quando descrivono ma solo quando, attraverso una precisione di concetti e
proposizioni, riescono a dare risposte efficaci ai vari problemi (non solo scientifici ma anche
sociali) che sorgono. In questo senso, il paradigma storicista non appare più in grado di venire
in soccorso: descrive non risolve e le sue approssimazioni vengono messe da parte in nome
della precisione scientifica necessaria per attuare efficaci progetti e forme di pianificazione a
livello regionale, per elaborare, in altre parole, veri e propri strumenti di in grado di avere un
effetto sul territorio.
In questo quadro:
“l’asserzione che la sintesi regionale costituisse l’identità essenziale della geografia
conferiva alla disciplina un’immagine dilettantistica. Dopo la Seconda Guerra
Mondiale si esigeva che le università del Nord America formassero persone in grado
di risolvere problemi, o “tecnici sociali” in grado di gestire la sempre più complessa
struttura dei processi economici. I geografi non tardarono ad adottare costruzioni
teoriche e modelli in grado di promuovere lo status della loro scienza e giustificare
la loro posizione accademica” (Holt-Jensen, 1999, p.76).
86
E’ così che, negli anni Cinquanta sull’onda di queste “serie di rivoluzioni”, nel mondo
anglosassone nasce quella che verrà chiamata nuova geografia o meglio geografia teoretica.
Nuova perché non si accontenta più di descrizioni, ma pretende di dare risposte, risposte che
solo una geografia intesa come scienza operativa è in grado di fornire attraverso la
formulazione di leggi generali, di teorie scientifiche, da qui il termine teoretica. Lo sviluppo di
questa nuova geografia procede di pari passo con il successo di altre nuove branche
disciplinari, come la geografia economica e la scienza regionale. A differenza dei geografi
storicisti, i geografi neopositivisti credono in un ordine soggiacente all’apparente caos, ordine
al quale –seguendo l’impostazione deduttivistica popperiana– si può arrivare solo disponendo
di teorie in grado di scoprirlo e spiegarlo. E’ così che
“l’osservazione, il lavoro empirico appaiono alla fine e non all’inizio come accadeva
con i metodi induttivi fino ad allora dominanti” (Capel, 1987, p.216).
6.3 – La geografia teoretico–quantitativa
Il primo legame della geografia –nordamericana inizialmente e dalla fine degli anni ’70
anche europea– con la filosofia neopositivista è da ricercarsi nella figura di Fred Kurt Schaefer
(1904-1953)278. La pubblicazione, nel 1953, del suo famoso articolo Exceptionalism in
Geography: a methodological examination sulla rivista ufficiale dei geografi nordamericani
segna l’inizio dell’affermazione della geografia teoretica legata, appunto, alle idee neopositiviste.
L’articolo è un formidabile attacco contro la visione idiografica e regionalista della geografia
della scuola nordamericana guidata da Richard Hartshorne. Quello che Fred K. Schaefer
propone è una geografia più scientifica, cioè monista in quanto legata alle teorie, poiché:
“la geografia deve essere concepita come una scienza interessata alla formulazione
delle leggi che governano la distribuzione spaziale di certe caratteristiche della
superficie terrestre” (Schaefer, 1953, p.227).
La scienza non può ricercare il particolare ma il generale per questo deve scoprire leggi
generali e teoriche.
Egli non rigetta le analisi regionali: le considera soltanto il laboratorio della geografia
teoretica in quanto è dall’analisi regionale che quest’ultima trae i dati su cui lavorare. La
visione corologica è solo mera descrizione perché si limita alla classificazione di fenomeni e
caratteristiche uniche di un’area; la geografia teoretica invece:
“deve prestare attenzione alla disposizione spaziale dei fenomeni di un’area non ai
fenomeni in quanto tali. Le relazioni spaziali sono l’argomento più importante per la
geografia e nessun altro” (Schaefer, 1953, p.228).
Per ottenere leggi generali è necessario che:
“le relazioni spaziali fra due o più classi di fenomeni debbono essere studiate su
tutta la superficie terrestre” (Schaefer, 1953, p.229).
278
F.K.Schaefer era tedesco, collegato al circolo di Vienna tramite G. Bergmann, con l’avvento del nazismo si rifugiò
prima in Inghilterra e poi negli USA dove insegnò geografia all’Università dello Iowa (Bunge, 1979).
87
Soltanto così è possibile arrivare alla generalizzazione o legge, la quale “non potrà andare
completamente bene per ogni situazione concreta” (Schaefer, 1953, p.230), ma si rivela uno
strumento necessario per ottenere situazioni ideali, e quindi progredire nella conoscenza.
Quello che egli rifiuta è la visione eccezionale della geografia che fa dell’unicità di una regione il
suo campo d’indagine, e questo perché l’unico e l’irripetibile si può solo ammirare e descrivere
e non certamente studiare secondo leggi generali ed astratte.
Un’altra opera estremamente importante e che testimoniò l’influsso di questa corrente
filosofica fu Theoretical Geography (1962) di William Bunge. Il suo pensiero, legato
all’impostazione schaeferiana, è stato fortemente influenzato dalle idee popperiane della
scienza:
“è necessario disporre in partenza di teorie che poi verranno confrontate con la
realtà… poiché le teorie scientifiche rappresentano la chiave interpretativa dei
puzzle della realtà” (Bunge, 1962, p.2).
Difende
poi
la
geografia
descrittiva
riprendendo
un
discorso
tipicamente
popperiano
sull’intuizione:
“siamo circondati da un’infinità di fatti e ciascuna descrizione di essi è altamente
selettiva. Questa selezione può essere fatta a caso, ma i geografi si pongono
spesso alla ricerca dei fatti che giudicano significativi. La loro significatività può
essere giudicata solo in relazione a molti altri fenomeni e lo stabilire queste
relazioni implica la formulazione di una teoria. Quella che viene chiamata “mera
descrizione” non può uscire da geografi con la testa vuota. Questi conoscono molto
bene l’area sulla quale hanno sviluppato un’ottima “intuizione spaziale”; ciò
significa che posseggono una teoria” (Bunge, 1962, p.6).
Come, appunto, aveva detto lo stesso Karl Popper è la teoria che precede l’osservazione.
William Bunge è contro la scienza passiva, quella che si fonda su sterili classificazioni. Ciò di
cui la scienza ha bisogno invece sono idee e immaginazione:
“Lo scienziato concentra i suoi sforzi sulle idee e sull’immaginazione”. Le teorie
devono poi “venire incontro a precisi standard che includono chiarezza, semplicità,
generalità ed accuratezza” (Bunge, 1962, p.2).
Ciò significa che le teorie sono chiare quando fanno ricorso al linguaggio della matematica,
semplici, perché devono rendere minimo il numero delle variabili, generali perché devono
avere un alto grado di astrazione, accurate in quanto contenenti precise informazioni e quindi,
implicitamente, essere esatte.
Le scienze, e fra queste la geografia, si devono occupare del generale non dell’unico e del
particolare, come invece fa la geografia regionale:
“la scienza è diametralmente opposta alla dottrina dell’unico. Se si vuole ottener
l’efficienza della generalizzazione occorrerà sacrificare l’accuratezza del punto di
vista dell’unicità” (Bunge, 1962, p.9).
Questo perché soltanto se i fenomeni indagati sono generali, e non unici, è possibile la
previsione. Non può esistere perciò nessuna teoria dell’unico, mentre:
“se siamo stati capaci di costruire una teoria che implica quel fenomeno, il
fenomeno sarà generale” (Bunge, 1962, p.10).
88
Naturalmente il linguaggio con il quale la scienza si esprime é quello della matematica,
perché soltanto attraverso di esso si giunge alla chiarezza evitando le contraddizioni interne.
William Bunge, continuando le idee di Fred K. Schaefer, afferma che la geometria dovrà essere
il linguaggio della geografia in quanto:
“la geometria, con l’algebra e l’analisi, sono le tre storiche divisioni della
matematica. L’algebra e l’analisi sono di provato uso per la geografia in particolare
per la soluzione di problemi connessi alla localizzazione degli oggetti sulla superficie
terrestre... Ma, delle tre classiche aree della matematica, la geometria si presenta
essere la più promettente per la geografia. Dopo tutto, sarei molto sorpreso se la
genialità e l’energia che è stata messa nelle analisi astratte dello spazio non
dessero prova di grande utilità nell’aiutare i geografi in relazione alla comprensione
spaziale dei fenomeni umanamente significanti di cui è piena la superficie terrestre”
(Bunge, 1962, pp.222-223).
Quindi, se è vero che la geografia è la scienza delle relazioni e delle interrelazioni spaziali e che
la geometria è la matematica dello spazio, allora, quest’ultima, dovrà il linguaggio della
geografia.
La regione (e l’analisi regionale) non viene rifiutata dalla rivoluzione teoretico–quantitativa
ma si passa da una sua concezione assoluta ad una relativa. La visione assoluta la vedeva
come un’entità indipendente da ciò di cui era composta e da tutte le altre regioni. Ciò che la
nuova geografia vuol fare, invece, è:
“pervenire ad asserzioni astratte di validità generale indipendentemente dalla
posizione geografica assoluta dei fenomeni considerati” (Vagaggini Dematteis,
1976, p.119).
Questo può essere fatto soltanto solo accettando la regione come entità relativa. In altri
termini, come afferma Giuseppe Dematteis:
“l’approccio analitico quantitativo presuppone che ogni classe di fenomeni, avente
proprietà intrinseche omogenee, ha un diverso comportamento spaziale, in base al
quale esso definisce le proprietà geometriche e/o topologiche di un certo tipo di
spazio. Tali proprietà permettono di descrivere le configurazioni spaziali dei
fenomeni che le hanno generate” (Vagaggini Dematteis, 1976, p.120).
In questo modo secondo Vincenzo Vagaggini e Giuseppe Dematteis (1976, p.120): lo schema
logico in cui si generano le forme spaziali dei fenomeni, sarebbe il seguente:
Pf –> Cf –> Sf –> Ff
Pf = proprietà intrinseche della classe dei fenomeni f
Cf = comportamento nello spazio dei fenomeni f
Sf = tipo di spazio corrispondente alla classe dei fenomeni f
Ff = configurazioni (forme) spaziali dei fenomeni f
Come si vede, una simile sequenza è molto vicina a quella classica elaborata da Karl R. Popper
(1994, p.688):
P1
–>
TT –> EE –> P2
dove P1 è il problema da cui partiamo, TT sono le teorie provvisorie (tentative theories) con
cui tentiamo di risolvere il problema, EE è il processo di eliminazione dell’errore cui sono
89
esposte le nostre teorie (la selezione naturale a livello pre-scientifico; l’indagine critica,
compreso
l’esperimento,
a
livello
scientifico)
e
P2 è
il
nuovo
problema
emergente
dall’esposizione degli errori delle teorie che abbiamo proposto.
Lo schema nel suo complesso mostra che la scienza parte dai problemi e conduce a nuovi
problemi; essa si accresce mediante l’audace invenzione di teorie e la critica delle diverse
teorie concorrenti.
6.4 – La teoresi geografico–quantitativa.
Gli anni ’70 ’80 rappresentano il ventennio più fertile per questa nuova geografia:
“sempre più numerosi sono i giovani geografi che lasciano decisamente da parte
quella geografia sviluppatasi nel corso degli ultimi ottanta o cento anni, e che non
vogliono neppure più sentirne parlare. Tale è, almeno, l’impressione che scaturisce
dagli studi realizzati da tutta una nuova generazione di geografi che si pongono su
di una nuova frontiera” (Racine Reymond, 1983, p.3).
Lo sviluppo di questo modo nuovo di fare geografia fu, almeno presso i giovani studiosi di
quegli anni, effettivamente notevole: a suo supporto si pubblicarono molti manuali relativi
all’applicazione di metodi statistico–matematici per le analisi territoriali; i computer ed i relativi
programmi
applicativi divennero sempre più potenti, flessibili e -fatto estremamente
importante- sempre più diffusi; oltre ad elaborare nuove teorie e nuovi modelli, si recuperò o si
adattò al nuovo paradigma ciò che di teorico era stato fatto in precedenza anche in aree
marginali alla disciplina.
“L’accelerazione del lavoro teorico era particolarmente marcata nell’ambito di
quelle istituzioni guidate da geografi di formazione ‘scientifica’, specialmente
scienze naturali e statistica, e/o dove v’erano buoni contatti con gli sviluppi nella
letteratura dell’economia teorica. Durante gli anni Cinquanta in numerose
università la commistione tra economia e geografia aveva dato luogo a una fiorente
produzione di nuove idee e tecniche” (Holt-Jensen, 1999, p.79).
In particolare negli USA due furono le Università che per prime divennero centri d’irradiazione
del paradigma: il Dipartimento di Geografia dell’Università di Washington a Seattle guidato da
William L. Garrison e quello dell’Università di Chicago guidato da Brian J.L. Berry
279
.
La prima grande teoria ad essere stata utilizzata fu La Teoria delle Località Centrali
elaborata da Walter Christaller (1893–1969) con il suo famoso lavoro Le località centrali nella
Germania meridionale pubblicato nel 1933. Con questo lavoro Walter Christaller intendeva
spiegare come i servizi tendano a disporsi sul territorio, secondo un ipotetico ordine; un ordine
del tutto “razionale”, basato su una divisione del territorio (che per semplicità egli ipotizza
essere uno spazio isotropo ed isomorfo) in maglie uniformi e gerarchizzate, all’interno delle
quali si muovono degli attori (il consumatore, il produttore ed il venditore) altrettanto
“razionali” e perfettamente informati sulle caratteristiche del sistema economico della regione.
Sostanzialmente egli inserisce la teoria economica della concorrenza perfetta, nata in ambito
279
Su questo sviluppo si veda l’analisi che ne fa R. J.Johnston (1987, pp.54-90)
90
a-spaziale, all’interno di una regione definendo le modalità con cui quest’ultima si dota di una
struttura urbana e come questa possa variare.
Nella premessa Walter Christaller ci suggerisce che:
“indipendentemente da come appare la realtà, la teoria ha una sua validità in virtù
solamente della propria logica e della propria coerenza. Confrontando poi questa
teoria con la realtà, potremo stabilire da un lato fino a che punto la realtà
corrisponde alla teoria e possa quindi venir chiarita da questa, e dall’altro in che
cosa se ne discosti” (Christaller, 1980, p.30).
Quest’opera, estremamente anticipatrice rispetto il paradigma dominante negli anni 30 in
Germania, ebbe uno scarso impatto ed anzi, come nota Peter Haggett, non le fu nemmeno
molto propizia al suo autore in quanto:
“egli non riuscì a ottenere una cattedra universitaria. Solo negli anni Cinquanta le
idee di Christaller ricevettero ampi riconoscimenti nel mondo anglosassone”
(Haggett, 1988, p.321).
Detto in termini kuhniani: il tentativo di spiegare la distribuzione e la gerarchia delle località
centrali attraverso un modello teorico generale non era accettabile all’interno del paradigma
allora dominante che, allora, era la tradizione storicista-regionale europea e nord americana
legata alle idee di Alfred Hettner e di Richard Hartshorne. Solo in seguito alla “rivoluzione
teoretico–quantitativa” (che conduce al cambio di paradigma) la Teoria di Christaller (come
viene comunemente chiamata) viene rivalutata trovando, anzi, molte applicazioni pratiche in
particolare negli Stati Uniti dove rappresentò un’importantissima fonte d’ispirazione per quei
geografi impegnati nell’elaborazione di modelli teorici di strutture urbane ed a risolvere casi di
pianificazione urbana e regionale.
In Europa un’altra figura emblematica è Torsten Hägerstrand280 che indirizza le sue ricerche
verso i processi di innovazione e di diffusione: nel concentrarsi sui processi, piuttosto che su
una realtà statica, egli rompe definitivamente con la tradizione storicista-regionale europea e
nord americana. L’incipit del suo lavoro è estremamente significativo:
“questo studio non riguarda l’analisi di una specifica area geografica; il suo oggetto
è legato allo studio della diffusione delle innovazioni intese come processo spaziale”
(Hägerstrand, 1967, p.1).
Il suoi modelli sono basati sul calcolo delle probabilità, seguiti poi da prove empiriche, facendo
guadagnare grande popolarità al suo Dipartimento, a Lund nella Svezia meridionale, che in
pochi anni diventa un altro centro di fama mondiale. È partendo dai suoi lavori che i modelli
probabilistici e le analisi stocastiche diventano gli strumenti base della nuova geografia tanto
che, nota Horacio Capel:
“la teoria della probabilità si applica da questo momento in geografia con una tale
intensità che David Harvey non ha dubbi sullo scrivere che ‘se dovessimo
selezionare un linguaggio matematico come dominante nell’attuale ricerca
accademica, questo sarebbe probabilmente quello della teoria della probabilità’; nel
1969 dichiara poi che ‘l’uso del linguaggio probabilistico è abituale in geografia’. Le
280
Il lavoro fondamentale di T.Hägerstrand viene pubblicato nel 1953 in norvegese, ma diviene basilare dopo la sua
traduzione in inglese del 1967.
91
leggi, si afferma, non necessariamente devono essere causali: dalla scoperta
dell’indeterminatezza da parte di Heisenberg è noto che possono essere anche
stocastiche; la legge causale sarebbe una legge stocastica con un alto grado di
certezza” (Capel, 1987, p.220).
L’idea della scienza unificata e la concezione monista del mondo comporta anche la
possibilità, per una disciplina, di adottare e fare proprie teorie appartenenti ad altre dottrine
scientifiche. Così la fisica si presta a nuove soluzioni geografiche nel campo sociale: ad
esempio:
“la teoria newtoniana della gravitazione, che O’Reilly aveva già applicato nel 1930
per descrivere la configurazione delle aree di attrazione dei grandi centri
commerciali, viene ampiamente usata in geografia urbana” (Capel, 1987, p.219).
Dalla teoria di gravitazione universale viene poi sviluppato il concetto di potenziale, che
rappresenta la:
“somma di tutte le attrazioni esercitate su un punto dalle masse presenti in un
campo… [uno strumento statistico utile]… in grado di fornire particolari
quantificazioni sulla distribuzione di un fenomeno” (Zanetto, 1979, p.314).
Continuando gli esempi degli studi della fisica applicati alla geografia si deve ricordare che:
“il decrescere dell’emigrazione a partire da un centro viene paragonato
all’emissione di un raggio luminoso la cui luce è gradualmente assorbita
dall’ambiente in cui circola e diminuisce con la distanza del fuoco che la emette; si
studia il traffico autostradale utilizzando la teoria dei fluidi e quello commerciale a
partire da teorie elettriche” (Capel, 1981, p.219).
Queste soluzioni non hanno la pretesa di descrivere la realtà, ma funzionano da modelli, ed
il modello altro non è che
“uno strumento di analisi della realtà empirica, atto a ricondurre una certa parte di
essa entro uno schema logico generale ed astratto” (Vagaggini Dematteis, 1976,
p.77).
In altri termini il passaggio da una geografia idiografica (cioè descrittiva) ad una nomotetica
(cioè teoretica) ha significato passare da un concetto di spazio assoluto a quello di spazio
relativo e cioè:
“pervenire ad asserzioni astratte di validità generale indipendentemente dalla
posizione geografica assoluta dei fenomeni considerati. Nelle intenzioni di
Christaller e dei suoi successori il modello delle località centrali è valido in
Germania come negli Stati Uniti, come altrove. Esso è valido tutte le volte che
esiste un certo fenomeno… [e questo ovviamente vale per qualsiasi modello
definito]… se poi montagne, fiumi, differenze storiche, culturali, ecc. impediscono
allo spazio di strutturarsi secondo le forme geometriche perfette, previste dal
modello, si tratta di circostanze accidentali, che non invalidano il modello in quanto
tale, anzi ne confermano la validità in relazione a certe peculiarità locali. Come si
vede il passaggio da uno spazio assoluto allo spazio relativo comporta veramente
una rivoluzione sul piano concettuale: lo studio delle peculiarità locali (l’unicità),
che era oggetto principale della geografia tradizionale diventa qui un aspetto
secondario, di cui il geografo in quanto scienziato non dovrebbe neppure occuparsi,
mentre il suo interesse deve prima fissarsi sulle proprietà intrinseche dei fenomeni,
per derivare da esse le strutture spaziali relative, conseguenti... estrarre proprietà
generali dallo spazio, relative a certi fenomeni, eliminando, in quanto irrilevanti, le
particolarità uniche dei vari luoghi“ (Vagaggini Dematteis, 1976, pp.119-120).
92
Occorre però tener presente che questa geografia teoretico–quantitativa si sviluppò dopo gli
anni ‘50, con notevole ritardo rispetto all’affermarsi delle idee neopositiviste ed in un periodo in
cui la geografia regionale era fortemente in crisi. La sua affermazione segnò la riscossa di una
scientificità legata al formalismo e a mezzi tecnici sempre più sofisticati a scapito però della
storicità.
93
7 – La crisi del Neopositivismo e la nascita della geografia radicale e
della geografica umanista.
In altre parole, ritengo che la nostra conoscenza della realtà sia
mediata dai concetti con cui la penso. Pertanto, il solo contatto che
io possa stabilire con alcunché avviene attraverso i concetti che io
estraggo e poi impongo alla cosa…
… tutti i concetti sono convenzioni inventate, che andrebbero usate
con la dovuta cautela e per scopi specifici.
Gunnar Olsson, Uccelli nell’uovo, pp. 36 e 40.
7.1 – Premessa.
La seconda metà degli anni ‘60 segna la crisi delle idee neopositiviste, vacillano le certezze
matematiche e s’incrinano i modelli statistici mentre inizia a svilupparsi una nuova corrente
critica. È un nuovo mutamento paradigmatico nelle scienze sociali, riflesso della condizione di
sconcerto in cui si è venuta a trovare la società, sottoposta ad una serie di sconvolgimenti e
disillusioni legate al susseguirsi di alcune crisi economiche, alla decolonizzazione con la
conseguente crisi del sistema di dominazione occidentale e all’insoddisfazione delle soluzioni
scientifiche.
Il sistema economico internazionale nei primi anni ’70 vede scalfire profondamente antiche
certezze. Nel 1971 gli Stati Uniti decretano la fine della convertibilità del dollaro e così nel
1973 il sistema dei cambi stabili, sostanzialmente basato sugli accordi definiti nel 1944 alla
conferenza di Bretton Woods, venne via via sostituito da un sistema di cambi flessibili.
Nell’autunno del 1973 i paesi produttori di petrolio, aderenti all’OPEC, decisero una
quadruplicazione del prezzo che salì a 12 dollari al barile; a questo primo “shock petrolifero”
seguì poi un secondo nel 1979 quando il suo prezzo s’impennò fino a 30/32 dollari il barile.
Seguì la perdita della posizione predominante degli Stati Uniti e l’emergere di due nuovi poli: il
Giappone nell’area del Pacifico e, in Europa, la Repubblica Federale di Germania. Si tratta di
una profonda crisi che riguarda non solo “l’economia mondiale” ma anche la “scienza
economica” che comincia a ripensare alcuni dei suoi postulati281.
La decolonizzazione di molti paesi ha portato, come conseguenza, un cambiamento radicale
delle relazioni internazionali: il sottosviluppo divenne un problema ampiamente affrontato282 e
diffuso, e si aprirono nuove ed importanti questioni sulla distribuzione ineguale del capitale nel
mondo:
“Finita l’ultima guerra… gli occidentali furono costretti… a riconoscere il fallimento
di questa famosa missione civilizzatrice, alibi ideologico della colonizzazione”
(Lacoste, 1968, p.15).
Come conseguenza di tutto ciò anche nei paesi industrializzati si verificarono dei
cambiamenti significativi: si avvertì la condizione di alienazione in cui si era venuto a trovare
l’uomo moderno con il degrado dell’ambiente e delle città. Nascono movimenti ecologici come
281
282
Si vedano per tutti i lavori di K.Robinson (1966); P.A.Baran P.M.Sweezy, (1968) e R.L.Meek (1969)
Estremamente importante è, al riguardo, l’analisi di G.Myrdal (1971) sul “Dramma dell’Asia”.
94
conseguenza della presa di coscienza che il progresso ha portato una trasformazione negativa
dell’ambiente
ed
emblematiche,
fra
le
analisi
del
rapporto
uomo/ambiente,
sono
le
interpretazioni “catastrofistiche” fatte, agli inizi degli anni ’70, dal MIT per conto del “Club di
Roma”283.
Si diffonde una conseguente sfiducia nel progresso: crolla il mito dell’infallibilità di una
scienza oggettiva in grado di risolvere i problemi che affliggono la società; inoltre, ci si rende
conto che le pianificazioni basate sulle teorie spaziali neopositiviste, nelle quali un tempo si era
nutrita una così grande fiducia, dimostrano tutta la loro debolezza. Come afferma Gunnar
Myrdal:
“nessuna scienza sociale e nessun ramo particolare della scienza sociale può
pretendere di qualificarsi come “amorale” o “apolitica”. Nessuna scienza può mai
essere “neutrale” o semplicemente “fattuale” vale a dire “oggettiva” nel senso
tradizionale di questi termini. La ricerca è sempre per sua logica necessità fondata
su valutazioni di ordine morale e politico, e il ricercatore sarà sempre tenuto a
rendere conto di esse in modo esplicito” (Myrdal, 1973, pp.60-61).
In termini ancora più radicali:
“Una scienza sociale disinteressata non è mai esistita, e logicamente non potrà mai
esistere” (Myrdal, 1973, p.44).
In risposta a questa situazione di disillusione generale e in seguito alla presa di coscienza
delle carenze del paradigma neo-positivista, si sviluppano una serie di correnti critiche (o
radicali). E’ così che la visione ‘meccanicistica’ del mondo, propria del paradigma neopositivista e, più in generale, delle scienze empiriche, viene affiancata da altre due metafore284
facenti parte di un unico paradigma in formazione che potremmo definire “anti-neopositivista”.
La prima, quella ‘realista’, adottata dalle scienze critiche, propone una lettura del mondo in
chiave marxista, lettura che sarà, appunto, alla base della geografia radicale, “impegnata” sul
piano sociale e quindi incentrata sull’analisi di fenomeni come la povertà, l’emarginazione
sociale, le condizioni di vita urbana, i conflitti sociali. La seconda, quella ‘umanista’, propria
delle scienze ermeneutiche che saranno alla base della geografia umanista, invita invece a
considerare il mondo in chiave soggettiva, demolendo così il mito positivista della “realtà
oggettiva” e della “neutralità dell’osservatore”.
283
Si vedano i due testi base: AA.VV., 1972 e 1973.
Non mi sento di dover qui usare il termine paradigma essendo, forse, eccessivo applicarlo alle due interpretazioni;
probabilmente il termine metafora –seguendo le interpretazioni che ne da Umberto Eco nell’Enciclopedia Einaudi– è
più appropriato.
284
95
7.2 – La geografia radicale.
Lo spazio sociale non è neutro. Il gioco sociale si svolge,
dall’individuo al gruppo o fra gruppi, secondo rapporti che si
chiamano tensione, opposizione, lotta oppure solidarietà,
collaborazione, compromesso. E sono le opposizioni fra le classi a
fornire la regola di questo gioco, al quale danno origine gli interessi
materiali.
Armand Frémont, La regione uno spazio per vivere, p. 40.
Nella seconda metà degli anni ’60 si assiste alla nascita di movimenti di contestazione che
hanno come loro culla le Università americane ed europee: si tratta di quei movimenti di
protesta che, comunemente, vengono ricordatati come “la contestazione del ‘68”. Questi
movimenti di lotta, oltre a rifiutare la neutralità della scienza, denunciano la situazione sociale
affermando che è necessaria un’azione concreta da parte delle scienze sociali avendo come
scopo il miglioramento della società, attraverso cambiamenti che possano risolvere i problemi
“alla radice”.
Una delle fonti d’ispirazione del radicalismo è da ricercarsi nella cosiddetta Scuola di
Francoforte negli anni ‘30. Le idee fondamentali di questa scuola, apertamente antipositivista,
vengono espresse da Max Horkheimer nel famoso articolo Traditionelle und Kritische Theorie
del 1937. Egli afferma che lo scienziato sociale non svolge un lavoro oggettivo: egli è parte di
un oggetto indagato e quindi influenzato dai propri valori e da quelli culturali. Così suggerisce
Joan Violet Robinson (1966, p.49), una delle più importanti studiose di economia politica degli
anni ’60:
“non è possibile descrivere un sistema senza che i giudizi morali si inseriscano nella
descrizione. Guardare un sistema dall’esterno implica, infatti, che esso non è il solo
sistema possibile; nel descriverlo lo confrontiamo, tacitamente o in modo esplicito,
con altri sistemi reali o immaginari. Le differenze implicano delle scelte, e le scelte
implicano un giudizio”.
Le critiche al metodo positivista nelle scienze sociali vengono ulteriormente portate avanti
da Theodor Wiesengrund Adorno, altro rappresentante della Scuola di Francoforte, il quale
attacca la pretesa del Positivismo di analizzare la società con gli stessi mezzi delle scienze
naturali. Queste idee influenzarono il mondo culturale fino a portare alla nascita del movimento
radicale negli anni ‘70. Risulta così naturale il ricorso al Marxismo e alle tradizioni liberali o
anarchiche come “alternative per un nuovo modo di affrontare lo studio sociale” (Capel, 1987,
p.234). Molti geografi quantitativi, tra cui ricordiamo William Bunge, David Harvey e Gunnar
Olsson, riconobbero i limiti della geografia neopositivista e si accostarono alle idee marxiste
per trovare soluzioni diverse ai problemi della società americana.
La geografia radicale risulta così essere “fortemente storico materialista ed orientata a
sinistra” (Bird, 1989, p.91). L’obiettivo di questa geografia come ha affermato lo stesso David
Harvey “non è quello di descrivere e capire il mondo ma di cambiarlo” (Harvey, 1981, p.209).
Il mondo in cui siamo inseriti è un mondo in crisi i cui problemi possono essere risolti anche
con l’aiuto della geografia. La geografia viene intesa come una scienza sociale che,
96
contrariamente a quella teoretico–quantitativa, ha un ruolo attivo: deve stimolare cambiamenti
per migliorare la società e le sue strutture. Uno dei temi più trattati dalla geografia radicale è
l’ineguale accumulazione del capitale che conduce alla segregazione spaziale fra le classi e,
come nota James Bird Bird (1989, p.93):
“ciò porta rapidamente all’idea di un diseguale sviluppo spaziale a tutte le scale: il
centro urbano e le periferie, le differenziazioni regionali ed i loro differenti gradi di
sviluppo, il mondo capitalistico avanzato ed il mondo del sottosviluppo. L’esistenza
di questa ultima contrapposizione darà origine all’idea del neo-colonialismo, degli
sfruttatori e degli sfruttati”.
È una geografia molto impegnata socialmente e culturalmente. Le sue analisi ed i suoi studi
riguarderanno, principalmente, gli effetti territoriali del capitalismo, il problema razziale, le
minoranze e le disuguaglianze sociali e l’attività del geografo radicale consisterà nel contribuire
a vincere le differenziazioni spaziali delle attività umane. A suo supporto nacquero tre
importanti riviste come Antipode, negli Stati Uniti, Hérodote, in Francia e International Journal
of Urban and Regional Research, nel Regno Unito.
97
7.3 – La geografia umanista.
Il luogo incarna l’esperienza e l’aspirazione di un popolo. Il luogo
non è solamente un fatto da spiegare nella più ampia struttura
dello spazio, ma è pure una realtà che deve essere chiarita e
compresa dalle prospettive delle persone che gli hanno dato
significato.
Yi-Fu Tuan, Spazio e luogo, una prospettiva umanistica, p.92.
Il territorio è portatore di segni, ma per interpretare i valori ad essi
legati, secondo tutte le finezze che la percezione lega il soggetto
all’oggetto, la letteratura e la pittura sono degli intermediari di
eccezionale ricchezza.
Armand Frémont, Vingt ans d’espace vécu, p.19.
7.3.1 – Premessa.
Un’altra reazione al paradigma neopositivista ci viene fornita dalla geografia umanista il cui
obiettivo è il recupero dell’uomo sociale reificato dalla geografia teoretico–quantitativa. L’uomo
non può essere ridotto ad una marionetta, perfettamente prevedibile e quantificabile e la
geografia non può essere solo una geometria dello spazio, alla stregua di “una scienza astratta
che studia le relazioni spaziali degli oggetti” (Ley, 1980, p.6) e che ha eclissato anche la figura
dell’uomo, molto cara alla scuola vidaliana, agente attivo dotato di volontà e intenzionalità.
David Ley, in una delle prime analisi sulla nascente geografia umanista, affermava infatti
come essa rappresentasse una reazione contro l’analisi spaziale così come si era sviluppata
negli anni ’60:
“Il determinismo, l’economicismo e l’astrazione insiti negli studi quantitativi
sembravano voler abolire l’intenzionalità umana, l’uomo e la sua cultura. Al
massimo l’incostanza, l’incoerenza e la volubilità umana erano viste, alla guisa di
un moto browniano, come sporadiche e casuali perturbazioni attorno ad uno
schema di base” (Ley, 1981, p.250).
Definita in termini kuhniani: la geografia teoretico-quantitativa non riuscendo, per i
geografi
umanisti,
ad
interpretare
e
risolvere
i
problemi
legati
alla
valutazione
dell’intenzionalità umana doveva essere accantonata e sostituita da una nuova geografia
focalizzata sulla soggettività dell’azione culturale umana.
7.3.2. Il termine Geografia Umanista.
L’aggettivo umanista è stato utilizzato in modo sistematico da alcuni geografi nord americani
solo a partire dai primi anni ’70 probabilmente perché gli altri due aggettivi umana e culturale
avevano precedentemente assunto significati ben precisi, non congrui con il nuovo approccio.
Geografia umana indicava sia il paradigma possibilista della scuola vidaliana sia quello
storicista
nordamericano
della
scuola
di
Hettner–Hartshorne.
Due
scuole
a
carattere
idiografico, indirizzate alle analisi regionali che, nelle loro descrizioni, facevano riferimento alle
tecniche proprie della cultura materiale285 definendo così “paesaggi agrari” e “generi di vita” e
285
Per Hartshorne (1972), lo scopo della geografia è “lo studio di combinazioni spaziali di fenomeni in un’area” (p.42)
o meglio l’osservazione e l’analisi degli “elementi terrestri costituiti dalle mutue interconnessioni di diversi fenomeni”
98
descrivendo –con un taglio sempre più enciclopedico– singole regioni. Due scuole di pensiero
accusate di “descrittivismo” o, meglio, di fare solamente della “mera descrizione”.
Il rifiuto più deciso era però legato all’aggettivo culturale e questo perché il termine
Geografia Culturale, in ambito nordamericano, si riferiva alla Cultural Geography della scuola
capeggiata da Carl Ortwin Sauer dell’Università di Berkeley, California. Quest’ultima scuola di
pensiero era legata all’idea di cultura connessa al concetto di Superorganico, cioè all’autonomia
della cultura dall’individuo e dalla società. Concetto che, introdotto da Herbert Spencer286, è
stato sostanzialmente teorizzato dall’antropologo Alfred L. Kroeber287, anch’esso attivo
nell’università di Berkeley. Secondo questa impostazione la cultura, una volta originatasi,
diventa extra-organica: una sorta di “forza mistica” che “da sola determina il destino storico
umano”, una forza “che può farsi e svilupparsi da sola e che gli individui [sono] soltanto i suoi
veicoli o i suoi strumenti passivi”288. Assumendo capacità proprie –cioè obbedendo a proprie
leggi indipendenti da quelle che governano i suoi vettori umani– essa genera le proprie forme
–territoriali nel nostro caso– indipendentemente dagli uomini stessi289. Carl O. Sauer aveva
così chiaramente definito gli scopi della Cultural Geography:
“al contrario della psicologia e della storia, è una scienza che non ha niente a che
fare con gli individui ma solo con le istituzioni umane, o le culture” (Sauer, 1941,
p.7)290.
Trent’anni dopo Wilbur Zelinsky (1973, pp. 40-41), uno dei più importanti esponenti della
scuola di Berkeley, nel suo testo The cultural geography of the United States affermava:
“noi stiamo descrivendo una cultura, non gli individui che sono parte di essa.
Ovviamente una cultura non può esistere senza i corpi e le menti che la creano, ma
è anche qualcosa che va ben oltre a coloro che vi partecipano… è per sua natura
superorganica e superindividuale: è un’entità con una propria struttura, con
processi e momenti propri, e che in ogni modo non è minimamente toccata né dagli
eventi storici né alle condizioni socio-economiche... [è] del tutto estranea alle
persone singole ed alle loro decisioni, come una specie di macro-idea, una
astrazione con speciali modalità di esistenza ed un particolare insieme di regole.
(p.95): fenomeni che sono “inanimati, biologici e sociali” (p.46). Se gli “inanimati” (che sono i fenomeni fisici) ed i
“biologici” (relativi a piante ed animali) sono intuitivamente definiti, il problema sono i “sociali” che non definisce
chiaramente ma che classifica come “i trasporti, l’agricoltura, l’insediamento delle industrie urbane” (p.92) cioè tutti
quei “fenomeni” relativi alla cultura materiale. Ancora meglio di lui si veda Hartshorne (1961, pp.120-144).
Per quanto riguarda la scuola vidaliana il riferimento d’obbligo sono i quattro ponderosi tomi di Sorre (1951-52) due dei
quali sono dedicati ai “fondements techniques” che sostanzialmente lui riferisce al progresso tecnico relativo a qualsiasi
“civilisation”. Infatti “une structure sociale déterminée est inintelligible si l’on fait abstraction des conditions et des
techniques de la production… [per questo]… au cours de cet ouvrage, nous aurons des occasions de préciser les
origines, la nature et la marche des progrès techniques” (II, p.8) cioè sempre e solo elementi della cultura materiale.
286
Che nel suo Principi di Sociologia definisce come “tutti i processi ed i prodotti, che implicano azioni coordinate di
molti individui, le quali pervengono a risultati superiori in estensione e in complessità rispetto a quelli conseguibili
mediante azioni individuali” (Spencer, 1988, vol.I, p.80).
287
Su questo concetto di cultura e di Superorganico veda Kroeber (1917, 1944 e 1974) e Kluckhohn Kroeber (1972).
288
Per un’interpretazione e critica di questo “errore culturalistico”, così definito da Bidney (1970), si vedano: Bendict
(1970); Leach (1978) e Remoti (1974); le citazioni sono di Benedict (ibidem, p.230) e di Bidney (ibidem, pp.257 e
258).
289
Per un’analisi critica della Cultural Geography del gruppo dei geografi di Berkeley si vedano Duncan (1980);
Agnew Duncan (1981); Lando (1995) e la dura disputa tra Symansky (1981) e Duncan (1981).
290
Si veda anche Sauer (1931).
99
E’ chiaro che con questo concetto si abbandonava completamente la libertà dell’individuo
(in qualsiasi modo la si consideri) e si sosteneva la sua completa subordinazione a “quella
cosa”: la cultura, la sostanza sociale, il Superorganico. In questo modo si cadeva in una sorta
di “determinismo culturale” in cui i vari paesaggi, regioni, territori o luoghi venivano
rappresentati come un processo di adattamento, non dell’individuo o della società, ma della
cultura all’ambiente.
Appariva quindi ovvio come questa nuova geografia non potesse riferirsi né alla Geografia
Umana, che nei rapporti uomo/ambiente considerava determinante la “cultura materiale” né,
tanto meno, alla saueriana Cultural Geography con il suo pesante determinismo291. In altri
termini per i geografi umanisti era necessario un ritorno ad una geografia autenticamente
antropocentrica in cui l’uomo potesse essere recuperato nella sua integrità, nel suo ruolo attivo
non solo nei confronti dell’ambiente ma anche, se non principalmente, nel suo potere di
prendere decisioni. Solamente così si ovviava al problema di qualsiasi determinismo:
“è il riconoscimento dell’assenza dell’operato dell’uomo che porta i geografi
[umanisti] a studiare a fondo le possibilità di una geografia umana studiando
l’uomo e non semplicemente i suoi manufatti” (Pickles, 1986, p.16).
Cercando di considerare come contrapposizione allo storicismo-possibilismo ed al determinismo
culturale:
“l’uomo con tutti i pezzi al loro posto, incluso un cuore ed un’anima, con sentimenti
e pensieri e con alcune parvenze di quella sua secolare e forse trascendentale
conoscenza (Ley Samuels, 1978b, pp.2-3).
7.3.3. Le origini della Geografia Umanista.
Il momento iniziale in cui far partire la prospettiva umanista della geografia viene
comunemente fissato con la pubblicazione nel 1961 del famoso articolo di David Lowenthal
Geography, experience and imagination: towards a geographical epistemology292. Nell’articolo
egli auspicava che i geografi considerassero con grande cura
“le relazioni tra il mondo esterno e le sue immagini contenute entro le nostre teste”
(Lowenthal, 1961, p.241).
Aggiungendo che la conoscenza geografica del singolo e della società si è sempre fondata su
geografie personali fatte di esperienze diverse, ricordi, circostanze presenti e progetti futuri.
Così concludeva il suo articolo:
“ogni immagine e idea del mondo è composta da esperienze personali,
apprendimento, immaginazione, e memoria. I luoghi nei quali viviamo, quelli che
visitiamo e attraverso cui viaggiamo, i mondi di cui leggiamo e che vediamo in
opere d’arte, e i regni dell’immaginazione e della fantasia, tutto ciò contribuisce alle
nostre immagini della natura e dell’uomo. Tutti i tipi di esperienza da quelli legati
più strettamente al nostro mondo quotidiano a quelli che sembrano spinti più
lontano, si uniscono per creare la nostra immagine individuale della realtà. La
291
Per un’interessante riflessione sui rapporti tra cultura e paesaggio si veda Cosgrove (2000, pp.42-48).
A questo primo articolo ne seguirono altri, forse più importanti per definire la sua posizione culturale, che scrisse
assieme a Prince: due (1964, 1965) relativi al paesaggio inglese ed un terzo (1976), sicuramente uno dei più
significativi, riguardante il significato ed il valore nella valutazione dei paesaggi delle esperienze trascendentali.
292
100
superficie della terra è data, per ogni persona, dalla rifrazione, passata attraverso
lenti culturali e personali, dell’abitudine e dell’immaginazione. Siamo tutti artisti e
architetti paesaggisti nel creare l’ordine e nell’organizzare lo spazio, il tempo, la
causalità in accordo con le nostre percezioni e preferenze. La geografia del mondo
è unificata solo dalla logica ed ottica umana, dalla luce dal colore dell’artificio, dalla
sistemazione decorativa e dalle idee del bene, del vero, e del bello” (Lowenthal,
1961, p. 260).
In questo modo egli sperava –riuscendoci– di innescare fra i geografi il bisogno di
un’interpretazione dei vari paesaggi, territori o luoghi, che non fosse solo “oggettiva” ma
avesse anche un contenuto profondamente culturale, soggettivo o, meglio, psicologico293.
Voleva, cioè arrivare ad una psicologia dell’ambiente a supporto della psicologia umana che
permettesse di meglio comprendere:
“perché si preferiscono alcuni paesaggi ad altri?… come può l’immaginazione
trasformare luoghi esteticamente appaganti?… in che modo l’ambiente, l’umore e le
circostanze influenzano la nostra percezione del territorio che sta attorno a noi?”
(Lowenthal Prince, 1976, p.118).
In altri termini egli, effettivamente, sperava che nella geografia anglosassone si potesse
dar vita ad un nuovo approccio alla visione del mondo che ci potesse guidasse attraverso
quelle terrae incognitae che “giacciono nelle menti e nei cuori degli uomini”. Queste ultime
sono le parole con cui egli apre il suo lavoro richiamandosi alla chiusa294 di un altrettanto
famoso articolo che John Kirtland Wright scrisse nel 1947. Con quest’articolo –un Presidential
Addess295– John K. Wright invitava ad esplorare quei settori sconosciuti e di difficile
penetrazione che costituiscono la sfera della soggettività individuale relativa a vari gruppi
sociali. Una sorta di geografia mentale che battezzò geosofia296, cioè:
“lo studio della conoscenza geografica da qualsiasi punto di vista... sia vera che
falsa, di qualsiasi genere di persona –non solo geografi, ma contadini e pescatori,
uomini d’affari e poeti, romanzieri e pittori, Beduini ed Ottentotti– e per questa
ragione deve necessariamente essere in pieno accordo con le concezioni
soggettive” (Wright, 1947, p.12)297.
Come nota Maria de Fanis il suo è un forte invito a:
“puntare l’obiettivo sull’uomo che, proiettando sul territorio un bagaglio di
emozioni, motivazioni e valori, ne opera la trasformazione. Sebbene Wright
293
Si veda al riguardo l’interpretazione che di questo suo “messaggio” ne danno Livingstone (1994) e Powell (1994) e
la risposta che ne dà Lowenthal (1994).
294
Si vedano: Lowenthal, 1961, p.241, e Wright, 1947, p.15: “the most fascinating terrae incognitae of all are those
that lie within the minds and hearts of men”. Per un’interessante interpretazione del rapporto fra questi due scritti si
vedano Fiorentini (2003) e Livingstone (1992, p.336).
295
Il Presidential Address è un articolo che l’Associazione dei Geografi Americani pubblica, come primo articolo di
ogni anno, nella sua rivista Annals of the Association of American Geographers. L’autore, generalmente un noto
geografo nord americano, riceve l’incarico un anno prima, non ha nessun vincolo, l’articolo non è soggetto a referees, e
generalmente non vi sono critiche nei confronti dei contenuti esposti. Per questo viene visto come un’importantissima
occasione di notevole spessore per proporre prospettive scientifiche d’avanguardia o trasmettere riflessioni critiche
significative.
296
Wright dà una prima definizione di geosofia nel 1947 che poi riprende ed allarga sensibilmente nel suo Notes on
Early American Geopiety (1966c). Sul concetto di geosofia si vedano anche Handley (1993), e l’interessante
rielaborazione che ne fa Tuan (1976c).
297
Definizione che vent’anni dopo (1966b, p.7) precisa con: “as distinguished from geography, or the study of the
realities with which geographical knowledge has to do”.
101
puntualizzi che tale ricognizione dell’elemento umano sia da utilizzare in modo che
essa risulti funzionale ad una determinazione oggettiva dei fatti, sì che ‘in geografia
il soggettivo dovrebbe essere usato per meglio evidenziare l’oggettivo’” (de Fanis,
2001, pp.18-19)298.
Invito che non lasciò, nell’immediato, grandi segni anche perché arrivato in un contesto ben
poco favorevole. Allora la geografia umana statunitense era, da una parte, profondamente
divisa tra il culturalismo saueriano e la corologia funzionalista di R. Hartshorne e, dall’altra, in
profonda crisi d’immagine accademica data la cessazione299 nel 1949 dell’insegnamento di
geografia all’università di Harvard, sostanzialmente legato ad una caduta dei contenuti della
disciplina considerata “non oggetto di studi universitari” in quanto definita “nient’altro che
descrittiva, frammentaria e facile”300. Pensiero che fu rilanciato –e con successo– una
quindicina di anni dopo da David Lowenthal e, in parte, anche da Clarence James Glacken301
con il suo monumentale lavoro –significativamente titolato Tracce sulla spiaggia di Rodi–
relativo all’analisi delle modalità attraverso cui il pensiero occidentale, nella sua storia, si è
rapportato alla natura e di come ha variamente interpretato i suoi rapporti uomo/natura.
Se questi tre autori (John K Wright, David Lowenthal e Clarence J. Glacken) sono
generalmente considerati come i precursori, per meglio comprendere la nascita della geografia
umanista occorre anche far riferimento alla temperie storico–culturale degli anni 60-80. Anni,
questi, interessati dalle discussioni sui rapporti tra discipline scientifiche e discipline umaniste
e, di conseguenza, sulla natura del metodo scientifico; discussioni in buona parte legate ai
lavori di Charles Percy Snow Le due culture e di Aldous Huxley Letteratura e scienza. Le due
culture del libro di Charles P. Snow sono totalmente separate e non in rapporto fra loro:
“letterati ad un polo e scienziati dall’altro… gli uni hanno un’immagine stranamente
distorta dagli altri. Gli atteggiamenti sono così diversi che non c’è un terreno
comune neppure per quanto riguarda le emozioni” (Snow, 1964, p.6)302.
Anche per Aldous Huxley le due posizioni sono estremamente distanti:
“lo scienziato è l’abitante di un universo radicalmente diverso non l’universo di
aspetti dati, ma il mondo delle strutture pure dedotte, non il mondo vissuto di
eventi unici e diverse qualità, ma il mondo delle regolarità quantificate” (Huxley,
1963, p.8).
Mentre le discipline scientifiche trattano di esperienze intersoggettivamente accessibili e si
esprimono con linguaggi formalizzati come la matematica e la logica, le discipline umanistiche
298
Le ultime parole della citazione sono tratte da Wright, 1947, p.9: “in geography the subjective should be used only to
point up the objective”.
299
O meglio, come dice Livingstone, 1992, p.312: “the assassination of geography at Harvard”.
300
Si veda al riguardo l’interessante analisi di Smith (1987), con la relativa discussione fra Martin (1988) e lo stesso
Smith (1988); e la messa a punto di Livingstone (1992, pp.311-313). Le citazioni sono da Smith, (1987, pp.311-312):
“geography is not a university subject… human geography could never be anything but descriptive, fragmentary and
easy”.
301
Glachen, uno dei più importanti geografi della scuola di Berkeley se n’è in buona parte distaccato avvicinandosi le
posizioni di Wright e di Lowenthal.
302
Anche se ottimisticamente conclude “Possiamo però, per fortuna, educare un buon numero delle nostre menti
migliori in modo che non ignorino l’esperienza immaginativa, sia delle arti che delle scienze, e neanche ignorino le
dotazioni della scienza applicata, le sofferenze rimediabili della maggior parte degli uomini loro compagni, e le
responsabilità che, una volte che se ne sia presa coscienza, non possono più venir negate” (p.102).
102
trattano principalmente di esperienze private, essenzialmente uniche ed irripetibili, e si
esprimono, attraverso la descrizione evocativa di casi concreti, nel linguaggio quotidiano.
Per la geografia –data la sua duplice valenza: naturalistico-fisica o storico-culturale–
simili interventi, con le discussioni che ne sono derivate, sono stati molto più sentiti che non in
altre discipline. Da una parte la geografia si è sempre interessata di creare una nuova
conoscenza formalizzando le relazioni tra i vari fenomeni che si manifestano sulla superficie
terrestre: sia dal punto di vista idiografico nella ricerca sistematica delle differenze tra regione
e regione, sia dal punto di vista nomotetico nella ricerca delle leggi e delle regolarità nella
natura e nel comportamento umano. Ed è quest’ultima posizione paradigmatica che, con la
geografia teoretica, cominciava, in quegli anni, ad avere il sopravvento. Dall’altra parte, la
disciplina si era anche interessata, seppur marginalmente, di chiarire come le funzioni
dell’esistenza influenzano la nostra vita quotidiana: cioè del modo con cui la cultura o le
tradizioni attribuiscono significati e valori ai molteplici elementi di cui i vari luoghi, territori o
paesaggi sono formati. Questa posizione, seppur sopita ma mai abbandonata, si è rafforzata
dando origine a discussioni all’interno della disciplina con un importante ripensamento delle
sue funzioni, generando nuove fratture e radicalizzando talune posizioni303. Così questa nuova
geografia ha preso piede, si è autodefinita umanista nell’orientamento ed ha iniziato a
considerare il modo con cui cultura e tradizioni attribuiscono significato e valore ai luoghi,
territori o paesaggi.
7.3.4. I fondamenti fenomenologici della geografia umanista.
Il cambiamento fondamentale che ha riguardato la geografia umanista è stato dunque un
mutamento di prospettiva: dallo studio dello spazio neutro cartesiano (della geografia
teoretico-quantitativa) o dalla descrizione della regione (della geografia storicista-possibilista)
si è passati allo studio dello spazio vissuto, dei territori del soggettivo. Ciò comportava il
rinnovamento della metodologia304. Non più una geografia obiettiva, scientifica, disinteressata
tipica dello scienziato, dell’outsider, che osservando definisce le regole formali che organizzano
i processi oggettivi oppure descrive l’organizzazione regionale ed i paesaggi agrari. Al contrario
lo studioso deve calarsi completamente nel vissuto che analizza, deve essere partecipe di
303
In ambiente anglosassone si vedano gli importanti lavori di Gregory (1978), Gale Olsson (1979) e Gould Olsson
(1982); per la geografia italiana è il caso di ricordare il fondamentale convegno di Varese del 1980 i cui atti sono stati
pubblicati da Corna Pellegrini Brusa (1980), solo pochi mesi dopo.
304
Diverse sono state le gamme di risposte presentate e discusse ma quello che le univa era ciò che volevano contrastare
e non, data l’eterogenea mescolanza di stili filosofici, i loro riferimenti culturali. Interessante è la presentazione che ne
fa Entrikin, 1991, p.18: “Humanistic geography developed in the 1970s as a mélange of epistemological positions and
thematic interests”. Per rendersi conto della vastità dell’ambito culturale si rinvia a: Bird (1989, pp.64-86); Capel (1987,
pp.256-257); Gregory (1986); Holt-Jensen (1999, pp.117-122); Livingstone (1992, pp.336-345). Fra queste una delle
più significative era legata alle analisi, facenti riferimento al materialismo storico, iniziate nel Regno Unito da Cosgrove
sull’idea di paesaggio; approccio anche questo confluito poi parzialmente nel grande filone umanistico nordamericano a
base fenomenologia che, dagli anni ’80 con Tuan ed Buttimer, si imporrà e diverrà dominante. Cosgrove, in alcuni dei
suoi primi lavori (1978, 1983), ha riassunto le idee lungo le quali, secondo lui, potrebbe muoversi un incontro critico fra
umanesimo e materialismo storico all’interno della geografia. Non si tratta certo di un colloquio tra materialismo storico
e fenomenologia ma di un avvicinamento delle posizioni di Cosgrove con quelle della geografia umanista che alcuni
geografi nord americani stavano allora sviluppando.
103
questo perché è soltanto attraverso l’empatia dell’insider305, l’identità del partecipante, che si
arriva alla comprensione del mondo della vita:
“l’approccio umanistico mira a studiare non soltanto l’uomo raziocinante, ma anche
l’uomo che prova dei sentimenti, che riflette, che crea… descrivere e comprendere,
insistendo sull’empatia con gli uomini: ecco gli obiettivi principali della geografia
umanista” (Pocock, 1989, p.186).
In altri termini, la geografia umanista non cercava di capire il mondo attraverso la visione
obiettiva dello scienziato, ma voleva interpretare l’azione dell’uomo abitante, con i suoi
sentimenti, le sue idee, le sue speranze. Il centro della sua analisi scientifica era il
comportamento dell’uomo nel suo territorio: l’uomo con i suoi pensieri, dubbi, paure, con tutti
quegli aspetti aleatori non riconducibili alla logica306. È quell’uomo che, come spesso accade:
“non si comporta sempre razionalmente [ed i cui] cambiamenti, capovolgimenti di
tendenze, valori e scopi sono raramente prevedibili” (Parsons, 1969, p.188).
È ovvio, però, che così venga precluso uno degli obiettivi perseguiti dalla scienza positiva: la
previsione, poiché:
“comprendere qualcosa implica anche comprendere la possibilità del suo opposto,
per cui nelle previsioni che dobbiamo fare sul comportamento umano occorre
anzitutto accettare la possibilità di ottenere risultati contrari a quelli previsti”
(Capel, 1987, p. 238).
Si valorizza la dimensione soggettiva dell’uomo inserito nell’ambiente riproponendo
ancora il problema del dualismo che non è però proposto nei termini del vecchio rapporto
uomo/ambiente, ma di quello tra l’uomo (vivente in una società) e il territorio (prodotto della
società). Si vuole cioè:
“interpretare l’esperienza umana nella sua ambiguità, ambivalenza e complessità…
chiarire il significato dei concetti, dei simboli e delle aspirazioni nella loro
appartenenza al territorio e ai luoghi” (Tuan, 1976a, p.275)307.
Nel complesso i suoi metodi sono liberamente basati su quelli delle dottrine umanistiche, che
erano stati eliminati dal positivismo: il senso poetico, la prospettiva storica, l’intuizione
diltheiana attraverso la quale è possibile la comprensione dell’esperienza altrui, l’esegesi
testuale, l’interpretazione delle immagini di particolari luoghi e paesaggi, la valutazione dei
comportamenti…
Se questi sono in sintesi i punti di partenza della corrente umanista, il suo riferimento
filosofico prevalente non può che essere quella parte della fenomenologia husserliana che si
basa sull’indagine e sulla descrizione del mondo cosi come lo sperimentiamo originariamente,
305
Interessante è al riguardo l’analisi che fa Cosgrove (1990, pp.33-53) nei confronti dell’idea di paesaggio.
Sono gli stessi anni in cui Simon definisce “l’uomo limitatamente razionale” (bounded rational man) che,
contrariamente all’homo oeconomicus obiettivamente razionale che “tra le alternative a disposizione… [sceglie
sempre]… quella che comportava la massima utilità”, non è in grado di trovare “l’alternativa migliore in assoluto, ma
può cercare di soddisfare i suoi bisogni solamente in modo soddisfacente”. O meglio, “di fronte ad una situazione di
scelta nella quale è impossibile ottimizzare, o dove il costo in termini di calcolo per farlo sembra oneroso, il soggetto di
decisione può cercare un’alternativa soddisfacente anziché ottimale”. Si veda Simon (1957; 1982/97; 2000, pp.3 e 33).
307
Stimolanti sono, al riguardo, le proposte di Frèmont (1978) e di Isnard (1981); due geografi che, pur non potendo
essere definiti umanisti a pieno titolo, presentano delle interessanti valutazioni circa i rapporti uomo/luogo e
società/territorio.
306
104
direttamente e immediatamente, lasciando a parte pregiudizi e presupposizioni308. La
fenomenologia cerca, infatti, di dare le basi alla relazione tra lo scientifico ed il pre-scientifico,
il teoretico ed il quotidiano ed il suo metodo, come nota Martin Heidegger, non comporta:
“l’assunzione né di un punto di vista né di una direzione, perché la fenomenologia
non è nessuna di queste cose e non può divenirlo almeno finché sia consapevole di
sé stessa… “Fenomenologia” non indica né l’oggetto delle sue ricerche né la sua
pura presenzialità. La parola si riferisce esclusivamente al come del processo
mostrante ed al modo di trattazione di ciò che in questa scienza deve essere
trattato” (Heidegger, 1953, pp.38 e 45).
Il suo scopo era chiarire il modo di essere delle esperienze originarie per rendere esplicite
quelle strutture di significato su cui le scienze costruiscono le loro particolari teorie sul mondo.
Strutture di significato che sono, in qualche modo, già implicite nel mondo dell’esperienza
quotidiana, cui le intuizioni della scienza devono in linea di principio essere ricondotte e da cui
esse originariamente sono derivate.
La sua intuizione fondamentale è che la coscienza non è in nessun modo una sfera
chiusa in sé, nella quale le sue rappresentazioni sono incluse come in un mondo interno
proprio: al contrario, essa è, in base alla propria struttura essenziale, già da sempre presso le
cose (Gadamer, 1994, p.7). La sua missione intellettuale:
“è volta al recupero della sfera soggettiva della coscienza, detta mondo-della-vita
(Lebenswelt), un ambito “pre-categoriale” e “a-prioristico”, luogo delle attività
“intenzionali” (psichiche) del soggetto” (de Fanis, 2001, p.19).
Se interpretiamo la coscienza/conoscenza come un modo particolare con cui l’uomo vive
e si orienta nel mondo, non ha senso concepirla come un processo attraverso cui il “soggetto”
crea “per ed in se stesso” una rappresentazione di qualcosa che è “fuori” del soggetto
conoscente. Allo stesso modo non ha senso chiedere come queste rappresentazioni possano
armonizzarsi con la “realtà esterna alla coscienza”. Come appunto afferma E. Usserl:
“Il mondo-della-vita è il regno delle evidenze originarie. Ciò che è dato in modo
evidente è, a seconda dei casi, esso stesso dato nella percezione, e cioè esperito
nella sua presenza immediata, oppure è ricordato nella memoria… qualsiasi modo
di induzione ha il senso di un’induzione di qualcosa che è intuibile, di qualcosa che
è possibile percepire in persona o ricordare in quanto già-stato-percepito… Il
sapere scientifico-obiettivo si fonda sull’evidenza del mondo-della-vita… Il mondo in
quanto mondo-della-vita ha già in via pre-scientifica le stesse strutture che le
scienze obiettive presuppongono” (Husserl, 1961, pp.156, 159 e 167).
Da ciò che è stato detto, si può intuire che questa base fenomenologica non è costituita
dalla ricerca geografica, ma è rivelata e recuperata da questa: “i geografi amano non solo
308
È dai primi anni ’70 che alcuni geografi nordamericani cominciarono a riferirsi esplicitamente alla fenomenologia.
Sulla rivista Canadian Geographer sono apparsi i due articoli a firma di Relph (1970) e Tuan (1971) che per primi
lanciarono l’idea di un possibile utilizzo dell’approccio fenomenologico in ambito geografico. Questi due primi accenni
–ed indipendentemente da loro– sono seguiti nel 1972 dal lavoro di Mercer Powell, due australiani, a cui si deve il
primo ed importante trattato che lega i modo sistematico i due termini. Nel 1976, sulla rivista ufficiale dei geografi
statunitensi sono apparsi, assieme sul medesimo fascicolo, i due basilari lavori di Tuan (1976°) e di Buttimer (1976) cui
è seguita la discussione a tre, tra Relph (1977), Tuan (1977), e Buttimer (1977), con cui generalmente si fa datare il
sistematico riferimento della Umanistic Geography alla fenomenologia.
105
scoprire dove certe cose o luoghi sono localizzati, ma amano anche scoprire come ci si sente in
particolari circostanze” (Tuan, 1989a, p.233).
Gli oggetti dell’indagine del geografo umanista –il senso e la sacralità del luogo, la
territorialità, il genuis loci…– sono quelle esperienze fondamentali, che derivano da una
conoscenza/coscienza geografica prescientifica. Una conoscenza geografica che: “si trova nelle
esperienze dirette e nella conoscenza che noi abbiamo del mondo in cui viviamo” (Relph, 1976,
p.4). In quanto, come già ricordava David Lowenthal (1961, p.242): “chiunque esamini il
mondo intorno a sé è in qualche misura un geografo”. Di conseguenza, la geografia
accademica, scientifica diventa uno specchio per quest’esperienza umana fondamentale309.
Questo
perché
attraverso
la
fenomenologia
i
geografi
umanisti
vogliono
sottolineare
l’importanza di una costante critica nei confronti del positivismo dogmatico, come pure di ogni
apriorismo razionalistico idealistico:
“il messaggio della filosofia husserliana è che si deve sviluppare una prospettiva
veramente critica; dobbiamo esaminare incisivamente i processi e le assunzioni dei
nostri stessi pensieri circa particolari fenomeni, ed imparare ed identificare e
rendere espliciti i differenti modi nei quali i vari fatti del mondo oggettivo possono
essere interpretati” (Mercer Powell, 1972, p.14).
Ed ancora, la geografia umanista riguarda i fenomeni che non possono essere meramente
osservati, misurati, catalogati ma che devono essere vissuti per essere colti come essi sono
veramente:
“Quale è il ruolo del sentimento e del pensiero per quanto concerne l’attaccamento
al luogo?… in che modo la qualità dell’emozione umana e dei pensieri dia al luogo
una serie di significarti umani, inimmaginabili nel mondo animale… il ruolo dei
concetti e dei simboli nella creazione dell’identità del luogo” (Tuan, 1976a, p.269).
In questo modo il compito della geografia umanista –attraverso il suo principale approccio
la fenomenologia310– diviene quello di investigare sugli strati reconditi del comportamento
umano connettendosi, per rivelare l’esperienza geografica quotidiana, a quelle forme
dell’espressione umana che colgono l’esperienza nella sua immediatezza: l’arte e la letteratura.
Così, usando le parole di Edward Relph (1981b, pp.109-110), uno dei capifila della geografia
umanista:
“la geografia [umanista] come corpo formale della conoscenza presuppone le
nostre esperienze geografiche del mondo. In altre parole, la geografia [umanista]
ha un fondamento sperimentale o fenomenologico. Concetti come spazio,
paesaggio, città, regione, hanno per noi un significato in quanto li possiamo
rapportare alle nostre esperienze dirette di questi fenomeni. Viviamo in un mondo
fatto di edifici, strade, giorni di sole o di pioggia e di altre persone con le loro gioie
e i loro problemi e siamo intersoggettivamente a conoscenza di cosa significhino
queste cose e questi avvenimenti. Questo mondo pre–intellettuale, o mondo-divita, è oggetto della nostra esperienza vissuta non come un insieme di oggetti in
qualche modo distinti da noi e fissato nel tempo e nello spazio, ma come un
insieme di relazioni dinamiche e altamente significative. Vale a dire che gli altri, gli
oggetti, i diversi tipi di scenari, l’architettura e i luoghi ci importano tutti in modo
309
Si vedano, al riguardo, le riflessioni di Relph (1976, pp.3-7).
Circa i modi in cui i geografi hanno inteso o frainteso il rapporto tra fenomenologia e scienza si veda l’interessante
volume di Pickles (1985).
310
106
più o meno rilevante; siamo interessati ad essi e per noi contano… E’ il mondo
stesso esperito come scenografia, un’onnipresente fondale delle nostre vite; ma è
nel frattempo il contesto costante e inevitabile delle nostre vite che condiziona le
nostre attività e s’intrufola in innumerevoli modi nei nostri pensieri”.
7.3.5. Gli strumenti della Geografia Umanista311.
La sfida, proposta dalla geografia umanista, sta quindi nell’individuare i modi con cui ai
territori, ai luoghi o ai paesaggi che ci circondano e fanno parte della nostra esistenza vengono
attribuiti nomi, valori e significati e così, definiti e fatti emergere dalla “complessità fisica
originaria” dello spazio terrestre, diventano, a pieno titolo, parte integrante della nostra vita e
della nostra esistenza.
Le antiche società tradizionali (nomadiche o sedentarie, legate –per usare un concetto
dardelliano312– alla “geografia mitica e profetica”) fondavano il loro “sapere territoriale”, le
proprie pratiche territorializzanti con i valori ad esse connessi, nel mito, nel magico o nella
religione e costruivano i loro territori radicando –per usare un termine wrightiano313– una vera
e propria geo-pietas. Ora la moderna società occidentale, da tempo secolarizzata e sempre più
atomizzata, fonda i propri valori principalmente sull’immaginazione che, probabilmente,
rappresenta il principale –se non l’unico– potere della natura umana capace non solo di
mediare tra i paesaggi interiori –i “paesaggi dell’anima”– e quelli esteriori legati all’artificio
umano, ma anche di farli coincidere e di produrne di nuovi.
Per interpretare il moderno “sapere territoriale”, la nostra geo-pietas, vi sono due
importanti strumenti di studio che, con questo filone di pensiero, hanno riaffermato la loro
forza e capacità: la descrizione e la narrazione.
La descrizione, ed in particolare quella scritta, ha sofferto di una pessima nomea con le
critiche
derivanti
dalla
“geografia
teoretico-quantitativa”:
veniva
giustamente
e
spregiativamente definita semplice descrizione. Con la Geografia Umanista comincia invece ed
essere vista come un metodo più potente, più sottile, più analitico di quanto presumevano i
suoi critici e la metafora spaziale più importante non è più quella di modello o di sistema ma
quella di testo. Così alle frasi “paesaggio come testo” e “leggere un paesaggio” si comincia a
dare un significato sempre più preciso, chiaro e scientifico.
Dall’espressione “semplice descrizione” ci si è però spostati verso quella di “densa
descrizione”, “thick description”. Termine questo utilizzato dall’etnografo Clifford Geertz, come
311
Il significato che qui si vuole dare al termine strumento inteso come “una creazione del pensiero scientifico,o, meglio
ancora, la realizzazione cosciente di una teoria” è derivato da Koyré (1967, pp.100-111, la citazione è di p. 106); si veda
anche Betti (1981).
312
Dardel (1986, pp.47-80) definisce un’interessante Storia della Geografia la cui periodizzazione è legata al “risveglio
di una coscienza geografica, attraverso le diverse angolazioni nelle quali all’uomo è apparso il volto della Terra... Una
storia di questo tipo ha senso soltanto se si è compreso che la Terra non è un dato bruto da prendere come “si da”, ma
che da sempre tra l’Uomo e la Terra si inserisce un’interpretazione, una struttura ed un “orizzonte” del mondo, una
“illuminazione” che mostra il reale, una “base” a partire da cui la coscienza si sviluppa” (p.47).
313
Geopietà (geo-pietas) è un termine coniato –come geosofia– da Wright (1966c), per indicare quel complesso di
relazioni e legami emotivi -attaccamento, reverenza, amore- che si stabiliscono tra l’uomo, o meglio un gruppo definito,
ed il suo territorio. Estremamente interessante e significativa è la ripresa che ne fa Tuan (1976c).
107
tentativo di dare senso ai complessi strati di significato dei riti culturali descrivendoli in
dettaglio da diversi punti di vista: situando cioè i loro testi nei termini di diversi contesti314.
Secondo Clifford Geertz il conferimento di significato –nel nostro caso– ad un territorio ad un
tipo di luogo o paesaggio è il fatto primario dell’azione sociale, pur se compiuta da singoli, e
deriva dalla stessa organizzazione sociale. Il significato di quell’azione è legato alla cultura del
gruppo e questa ultima consiste in strutture di significato socialmente stabilite, nei cui termini
le persone fanno cose: nel nostro caso producono un preciso territorio, organizzano un luogo o
definiscono un paesaggio. Per questo, sempre secondo Cliffort Geertz (1987, p.67), il compito
dello scienziato sociale:
“è di scoprire le strutture concettuali che informano gli atti dei nostri soggetti, il
‘detto’ del discorso sociale, e costruire un sistema di analisi nei cui termini (ciò che
è pertinente a quelle strutture, ciò che appartiene loro perché sono quello che
sono) risalterà sullo sfondo di altre determinanti del comportamento umano”.
In questo modo, dal punto di vista del geografo, non è l’unicità315 delle “strutture
concettuali” –intese come rapporto società/territorio, uomo/luogo, cultura/paesaggio– ad
essere studiata e discussa ma la loro specificità, cioè la loro singolarità, definita nel contesto di
un sistema di riferimento generale. Nello specificare il profondo, ma nello stesso tempo
ambiguo, significato di tali “strutture concettuali” le “dense descrizioni” spesso equivalgono alle
narrazioni. In questo modo la narrativa, come descrizione, è stata recuperata quale ottimo
strumento per la comprensione di quelle strutture concettuali geografiche rappresentate dai
legami società/territorio, uomo/luogo, cultura/paesaggio. Da ciò è facile intuire le ragioni
dell’accettazione dell’artista, dello scrittore nel ruolo di abile intermediario capace di decifrare
le complesse simbologie umane insite nei territori, nei luoghi o nei paesaggi che,
metaforicamente paragonati ad un testo, si rivelano un’intricata massa di “soggetto e oggetto,
personale e sociale” (Cosgrove, 1990, p.34).
La narrativa, e più in generale la letteratura, offre infatti un valido punto di ancoraggio
per la comprensione dei processi di terriorializzazione situandosi fra il punto di vista obiettivo,
cioè quello dell’outsider (spazio come localizzazione o studio delle pratiche sociali), e quello
soggettivo, cioè quello dell’insider (spazio come conoscenza o coscienza di far parte di un
gruppo)316. Narrare il luogo implica configurare, evidenziare, gli oggetti e gli eventi rilevanti,
tracciando, nel senso temporale, il loro profondo, radicato, significato territoriale: le humanae
litterae con la loro capacità di dilatare l’esperienza, riassumere preferenze, modi di
314
E’ questa una terminologia che Daniels e Cosgrove attingono -credo per primi in campo geografico- dall’etnografo
Geertz (1987, pp.39-71), che identifica un procedimento descrittivo molto approfondito, atto a chiarificare le più
complesse stratificazioni del significato dei riti culturali dei gruppi sociali. Si veda, oltre l’introduzione, i vari saggi che
compongono il testo di Cosgrove Daniels (1988).
315
Di quei tanto deprecati mondi possibili, unici ad irripetibili della Scuola Possibilista di Vidal de La Blache, ma anche
delle “aree culturali” o dei “paesaggi culturali” della Scuola Culturalista di Berkeley di Sauer.
316
Circa i rapporti Geografia-Letteratura esiste ormai una cospicua bibliografia ben analizzata da Lando (1993; 1996).
Si vedano anche: Brosseau (1994); Pocock (1979; 1981a; 1981b; 1988); Porteous (1985); Salter Lloyd (1977); Salter
(1978); Tuan (1974; 1976b; 1978°); Vallerani (1996).
108
organizzazione e conoscenze ambientali permettono di vedere più a fondo le complesse
relazioni dell’esperienza ambientale317.
Così, secondo i geografi umanisti, l’arte in genere e la letteratura in particolare, con la
loro possibilità di rappresentare in modo suggestivo le geografie personali, hanno la capacità di
porre ordine nel nostro caotico modo di vedere e percepire la realtà:
“la letteratura come le altre forme dell’arte, ha il potere di rendere vivide le
immagini, dei nostri sentimenti e delle nostre percezioni, che normalmente
appaiono confuse… La letteratura apre su altre esperienze intensamente umane e
presenta differenti prospettive della struttura della realtà. Può far sorgere delle
domande e portare a formulare nuove ipotesi” (Tuan, 1976b, pp.268 e 272).
La letteratura, quale strumento per elaborare una “densa descrizione” della relazione tra
gli uomini e i luoghi (territori o paesaggi), non si esaurisce quindi in una semplice riproduzione
della realtà, bensì si configura in una costruzione logico-concettuale che ne identifica le
relazioni più occulte e quelle che, pur palesi, passano inosservate perché sempre “sotto gli
occhi”. Riordinando con gran sensibilità ciò che del mondo ci appare confuso, il testo letterario
svela un ulteriore portentoso potere generativo, individuato da tutti quegli inediti nessi
concettuali e relazioni che un tale nuovo ordine può condurci a decifrare e carpire tra gli
innumerevoli eventi del reale318.
Sarà così possibile trasporre l’esperienza artistica sul piano scientifico per utilizzarla come
fonte inestinguibile di dati concreti e “vissuti” dell’esperienza umana sul territorio.
7.3.6. Paesaggio e luogo nell’interpretazione della geografia umanista.
Paesaggio e luogo, landscape e place, paysage e lieu rappresentano i termini chiave, gli
elementi base della geografia umanista.
Il Paesaggio è stato ripreso ed analizzato cercando di interpretarlo non tanto in funzione
della sua capacità descrittiva quanto in base all’ideologia di cui è permeato con i valori e
significati ad essa pertinenti. Alcuni studiosi, geografi umanisti di scuola prevalentemente
inglese319, hanno ripreso il vecchio concetto del Paesaggio Culturale della scuola saueriana
caricandolo di nuovi significati320. Per Denis Cosgrove, il capofila del gruppo, il paesaggio si
presenta come un sofisticato “concetto ideologico” in quanto capace di rappresentare:
“un modo in cui certe classi di persone hanno significato sé stesse ed il loro mondo
attraverso la loro relazione immaginata con la natura, e attraverso cui hanno
sottolineato e comunicato il loro ruolo sociale e quello degli altri rispetto alla natura
esterna” (Cosgrove 1990, p.35).
317
Si veda al riguardo il divertente intervento di Lowenthal (1976).
Una messa a punto delle metodologie utilizzanti la letteratura per interpretare fatti territoriali si può trovare in Lando
(1993; 1996) e de Fanis (2001); per una loro applicazione dal punto di vista didattico si vedano i saggi raccolti in Lando
Voltolina (2005).
319
Questi fanno prevalente riferimento al materialismo storico più che alla fenomenologia husserliana; si vedano i
lavori di Daniels (1985; 1989).
320
Circa la ripresa del Paesaggio Culturale attribuendole “nuovi valori” si veda: Cosgrove (1978; 1983; 1987; 1989°;
1990; 2000); Daniels (1985; 1989) e Cosgrove Jackson (1987). Per un’interpretazione dei mancati rapporti fra la scuola
di Berkeley e la geografia inglese si veda l’articolo di Jackson (1980).
318
109
Così quest’idea di paesaggio, emersa come dimensione della coscienza di una precisa
formazione sociale, ha espresso e sostenuto una serie di assunzioni politiche, sociali e morali
ed è stata accettata come un aspetto importante del “gusto del paesaggio”321. Da ciò deriva
che non è sufficiente analizzare il paesaggio solo nei suoi aspetti “visivi”, quelli cioè legati alle
componenti naturali (le condizioni ambientali, climatiche, morfologiche) ed alle attività
economiche322 (la cultura materiale del gruppo che l’ha formato), sono invece i valori, le
rappresentazioni, i significati ed i vari processi sociali che li ricoprono e si sovrappongono che
assumono una considerazione sempre più importante:
“Nell’odierna geografia culturale, il paesaggio si è affermato come espressione di
significati umani. La scena visibile e le sue varie rappresentazioni sono ritenute
elementi portanti dei complessi processi individuali e sociali per cui gli uomini
trasformano continuamente il mondo naturale in regni culturali intessuti di
significati ed esperienze vissute” (Cosgrove 2000, p.40).
Eloquente al riguardo è la definizione di paesaggio che ne dà lo stesso Denis Cosgrove:
“composto di tre elementi: i caratteri fisici e tangibili di un’area... le attività
misurabili dell’uomo; i significati o simboli impressi nella coscienza umana”323.
E’ appunto la terza dimensione, il significato simbolico, che questo gruppo di studiosi
cercherà sempre di analizzare in quanto è essa che dà al paesaggio una precisa connotazione
sia ideologica sia artistica. Quella artistica è, poi, la seconda connotazione -dopo l’ideologicache essi analizzeranno nel paesaggio:
“un paesaggio è un’immagine culturale, un modo figurato di rappresentazione, una
strutturazione o simbolizzazione di ambienti... un parco è sì più tangibile ma non è
né più reale, né meno immaginario di un paesaggio dipinto o presente in un’opera
letteraria” (Daniels Cosgrove, 1988, p.1).
La definizione di paesaggio come composta di tre elementi, che Denis Cosgrove fa sua, è
stata prima elaborata da Edward Relph324 e da lui in seguito usata esclusivamente per definire
il luogo: il place dei geografi umanisti di indirizzo fenomenologico che hanno quasi totalmente
abbandonato l’utilizzo del termine landscape. Termine che è estremamente raro trovarlo citato
nei loro lavori: molto probabilmente perché visto come indissolubilmente connesso al cultural
landscape, elaborato dalla scuola di Berkeley, modellato sul concetto kroeberiano di
superorganico. Si ha quasi la sensazione che questo gruppo di studiosi abbia proceduto ad una
321
Sul significato del termine “gusto del paesaggio” si veda Lowenthal Prince (1964; 1965).
Sono i due elementi fondamentali sia dei “paesaggi agrari” degli storici del paesaggio sia dei “paesaggi umani” della
scuola vidaliana sia dei “paesaggi culturali” di quella saueriana.
323
Questa definizione appare, a p.86, nel terzo capitolo dell’edizione italiana di un libro di Gold (1985); un capitolo la
cui stesura, nell’edizione originale inglese (1980), è chiaramente attribuito a Cosgrove. Per una sua interpretazione si
veda Lando (2003; 2005).
324
Secondo Cosgrove questa definizione di paesaggio è presa dalla Tesi di Ph.D. di Relph, si veda il riferimento
bibliografico a p.86 del testo di Gold (1985). Occorre però ricordare che una definizione analoga Relph nel suo Place
and Placelessness (1976), il libro legato sostanzialmente alla sua Tesi di Ph.D., la riferisce -più congruamente con il suo
approccio fenomenologico- al concetto di “place”: si veda alle pp.46-49. E’ ben vero che egli, uno dei pochi geografi
umanisti ad indirizzo fenomenologico, si interessa anche di paesaggio ma si riferisce, quasi sempre, all’urban landscape
cercando di interpretarlo, secondo l’approccio fenomenologico, studiando le eventuali placelessness (Relph 1981a;
1987) o considerando che “landscapes and places are the contexts of daily life” (Relph 1989, p.149).
322
110
sorta di “rimozione” del vocabolo “landscape” attuando poi un “ritorno del rimosso” attraverso
il vocabolo “place”.
Luogo è quindi il secondo termine utilizzato da queste scuole di pensiero. Di per sé, è una
parola molto usata nella lingua corrente, nel linguaggio della quotidianità. In questo contesto
non ha un significato particolare in quanto rappresenta tutto ciò entro cui siamo inseriti:
l’ambiente in cui ciascuno vive la propria quotidianità o meglio, per dirla in termini
fenomenologici,
rappresenta il nostro “mondo-della-vita” il nostro “regno delle evidenze
originarie”. Ad esso non è mai stato attribuito un preciso valore scientifico, è assimilabile al
vocabolo “cosa”: ogni luogo è un luogo allo stesso modo in cui ogni cosa è una cosa. Ma, come
nota Armand Frémont325 facendo del lieu la trama elementare del nostro spazio vissuto, i
letterati:
“la caricano di una banalità che sappiamo poter essere, ai nostri giorni, la più
preziosa delle raffinatezze” (Frémont 1978, p.99).
Il luogo, nota poi Yi-Fu Tuan (1978b, p.92):
“ha un contenuto più profondo di quanto suggerisca la parola localizzazione; è
un’entità unica, un ‘insieme speciale’, ha storia e significato”.
E’ un elemento essenziale della strutturazione dello spazio della nostra quotidianità:
“concerne uno spazio ridotto, ma ben definito e non senza qualche estensione: la
casa, il campo, la via, la piazza... Esso associa gruppi di piccole dimensioni ma di
forte coesione: stessa famiglia, stesso mestiere o stesse frequentazioni quotidiane.
Esso implica una grandissima personalizzazione delle percezioni spontanee, con
nette delimitazioni, con confini senza equivoci” (Frémont 1978, p.95).
Su di esso è fissata l’esperienza e l’aspirazione di un gruppo fortemente solidale e strettamente
coeso ed è formato da tratti fisici ed elementi cultuali:
“[come] una personalità umana è una fusione di disposizione naturale e tratti
acquisiti... [così]... la personalità del luogo è composta da proprietà naturali (la
struttura fisica del suolo) e dalle modificazioni prodotte dalle successive generazioni
degli esseri umani” (Tuan 1978b, p.117).
Di fatto, pur nella diversità dei loro orientamenti filosofici, questi due indirizzi della
Geografia Umanista sono legati dal desiderio di interpretare e capire i diversi valori, simboli e
significati che le varie società hanno dato o impresso sul luogo/paesaggio.
Ne consegue, quindi, che il luogo/paesaggio viene considerato la struttura territoriale
fondamentale da interpretare, secondo la definizione di Relph-Cosgrove, come composto di tre
elementi: una base naturale (lo statico scenario) su cui è organizzata una struttura socio-
325
Frémont è il capofila di quel filone del pensiero geografico francese che, studiando “le geografie della quotidianità”,
si è riferito allo “spazio vissuto”. I termini che loro comunemente usao sono stati “lieu” “espace géographique” e
“région” e, quasi mai, paysage. Si tratta di un tipo di interpretazione per molti versi estremamente vicino –pur non
avendo riferimenti filosofici comuni– alle due posizioni dominanti della geografia umanista anglofona. Di lui si veda
l’importante lavoro La région espace vécu, titolo impropriamente tradotto in italiano con La regione uno spazio per
vivere; importanti sono anche i suoi due interventi (1980; 1990) ed il volume collettaneo Frémont Gallais Chevalier
Bertrand Metton 1982.
111
economica (le molteplici attività umane) ed un insieme di significati e simboli (il genuis loci ed i
simboli ad esso connessi) impressi dalla cultura della società che ivi opera326.
Il primo di questi esprime lo statico scenario naturale327 su cui ogni società opera. È
formato dai caratteri fisici e tangibili di un’area e comprende tutte le proprietà naturali (tipi di
suoli, clima...) di un determinato luogo/paesaggio; proprietà che dipendono dalla sua posizione
in un ambito ben preciso. Rappresenta, cioè, la complessità originaria propria di quella parte
della superficie terrestre328.
Il secondo riguarda le attività dell’uomo, cioè le molteplici attività umane legate alla
cultura materiale329, che appaiono come una struttura unitaria. Essendo relative alle capacità
tecnico-organizzative del gruppo ed ai bisogni di sopravvivenza e di riproduzione, sono
sostanzialmente sintetizzabili nella referenzialità originaria e nel processo di reificazione330.
Nei confronti di una qualsiasi alterità questi due primi elementi appaiono come una
complessa struttura coerente avente valore per l’unitarietà di funzionamento conferita. La loro
intima connessione –il luogo/paesaggio risultante– definisce non solo il risultato esteriore e
tangibile dell’agire collettivo di un gruppo sociale coeso ma rappresenta anche la basilare
condizione riproduttiva di quell’agire, in quanto possiede le caratteristiche sostanziali della
logica
sociale
-il
processo
di
territorializzazione-
che
l’ha
formato
e
ne
garantisce
331
l’evoluzione
. Fondamentalmente si tratta dei due indispensabili ed unici elementi su cui si
basavano gli studi dei Paesaggi agrari sia della geografia possibilista332 sia dei tradizionali
storici del paesaggio da Marc Bloch (1973) ad Emilio Sereni (1976).
Ma è con il terzo elemento, i significati ed i simboli (che la cultura non materiale ha
impresso sui due precedenti), che si raggiunge la piena dominanza politico-culturale:
sintetizzabile nella referenzialità riflessa e nel processo di strutturazione333. Sono i significati ed
simboli che rendono i due elementi precedenti interpretabili attraverso il pensiero e quindi
326
Si tratta di “the static physical setting, the activities, and the meanings” così come sono stati definiti da Relph (1976,
p.47); si vedano al riguardo anche Gold (1985) e Lando (2001).
327
Richiamandoci alla “Teoria geografica della Complessità” elaborata da Turco: all’enunciato statico scenario
naturale non qui si vuol certo dare il significato di immutabilità intrinseca dell’ambiente ma si vuole significare come
quell’ambiente “è sottomesso alle procedure di ogni oggettivazione umana” e si dà quindi un contenuto aleatorio e non
causale a “quella particolare relazione che lega il comportamento collettivo alla naturalità della superficie terrestre”
(Turco, 1988, p.58). Non voglio qui attribuire alla Teoria Geografica della Complessità un’impropria etichetta
“umanista” d’impianto fenomenologico. Mi interessa solo utilizzare, data la sua solidità e completezza, alcuni dei suoi
strumenti interpretativi allo scopo di far meglio comprendere la struttura delle connessioni esistenti tra i tre elementi
relativi alla definizione di paesaggio di Relph-Cosgrove.
328
Sulla valenza e sul significato degli elementi fisici per il processo di territorializzazione si veda Turco 1988, pp.5766.
329
Circa il termine cultura materiale si veda il lemma dell’Enciclopedia Einaudi curato da Bucaille Pesez 1978.
330
“Referenzialità originaria” e “processo di reificazione” così come sono stati definiti da Turco 1988, pp.79-105; 1994.
331
Ed è sotto quest’aspetto che, nonostante i differenti approcci filosofici, è possibile qui far riferimento alla“Teoria
geografica della Complessità” elaborata da Turco.
332
Questi due primi elementi (ambiente naturale e cultura materiale) sono stati a lungo studiati, nella loro unitarietà,
dalla disciplina in quanto rappresentano la struttura fondamentale dei lavori legati al pensiero geografico vidaliano, si
veda al riguardo l’ottimo e monumentale lavoro di Sorre (1951-52), e la precisa analisi dell’opera vidaliana fatta da
Buttimer 1971 e Berdoulay 1981. E’ bene ricordare che la scuola possibilista, negli studi relativi alle regioni ai paesaggi
o ai generi di vita, si è sempre riferita alle pratiche agricole tanto che M.Sorre (1951-52, vol.3, p.13) afferma nettamente
che “Les éléments spirituels comptent à côté des éléments matériels, plus accessibles”.
333
Per referenzialità riflessa e processo di strutturazione si veda Turco (1988, pp.84-93 e 106-134; 1993).
112
attribuibili ad un preciso processo di territorializzazione: la mia personalità appare dall’insieme
unitario della mia casa che rappresenta il mio luogo; la gamma delle relazioni economicopolitiche definiscono i vincoli di appartenenza fra la società ed il proprio territorio; l’inscape, il
genuis loci ed i significati propri della cultura non materiale radicati nel paesaggio ne danno
una precisa valenza estetico-culturale. Si tratta cioè di elementi che non appartengono alla
parte esteriore, visiva del luogo/paesaggio ma alla sua espressione simbolico-culturale
attraverso la quale si manifesta lo spirito, il senso, la sacralità. È attraverso essi che si può
definire e spiegare il radicamento territoriale: quell’identità collettiva che rende esplicita una
precisa volontà di possesso, con tutte le azioni e rivendicazioni territoriali ad essa collegate,
con cui è facile definire l’idea di Nazione, il concetto di Heimat e di Patria.
È chiaro però che questi tre elementi –lo scenario fisico, le attività ed i significati– sono
considerati inseparabilmente intrecciati nelle nostre esperienze. Sono sempre pensati in stretta
relazione tra loro in quanto esprimono, ma anche sono espressione, sia del palinsesto dei
valori passati sia del dispiegarsi di quelli attuali. Per questo è possibile, nota Edward Relph
(1976, p.48) “che essi costituiscano una serie di processi dialettici formanti una struttura
comune” e che siano quindi questi “dialectics” che definiscono e costituiscono, nel loro vario
combinarsi, l’identità di quel luogo o paesaggio. Poiché:
“il paesaggio è la geografia compresa come ciò che è intorno all’uomo... piuttosto
che essere un contrappunto referenzialità riflessa e nel processo di strutturazione
di dettagli pittoreschi, il paesaggio è un insieme: una convergenza, un momento
vissuto” (Dardel 1986, p.33).
Nella sua sostanza il luogo/paesaggio rappresenta l’inserirsi dell’uomo e della società, con
il suo agire e pensare, nel mondo: rappresenta la base della lotta per la vita, la
territorializzazione del suo essere sociale, la manifestazione del suo rapportarsi agli altri. Ma
ancora di più, appunto per la pluralità delle sue valenze, esso – continuando poi il discorso con
Eric Dardel (1986, p.35)– presuppone:
“una presenza dell’uomo, anche là dove essa prende la forma dell’assenza. Essa
parla di un mondo in cui l’uomo realizzava la propria presenza come esistenza
circospetta e indaffarata”.
Non si guardano i vari luoghi/paesaggi -sia naturali sia agrari sia culturali come il Grand
Canyon o le Dolomiti, gli openfield o le enclosures, Stonehenge o Venezia- per quello che sono
in quanto composti di materialità o definiti da manufatti ma per i significati ed i valori che sono
stati ad essi attribuiti.
113
8 – Il concetto di regione.
Quando si cerca di dare un senso preciso alla parola ‘regione’, o
ancor più al concetto ’regione’, il conflitto tra il linguaggio
scientifico e quello comune si esaspera.
Pierre Gorge, Dictionnaire de Géographie, p. 360
Ben pochi concetti sono così equivoci come quello di regione
Jean Labasse, L’organisation de l’espace. Éléments de Géographie
Volontaire, p. 397.
8.1 – Premessa.
Cosa s’intende esattamente per regione? E’ un’entità che esiste già “di per sé” sul
territorio, oppure è semplicemente una categoria descrittiva? Perché ha da sempre occupato (e
non cessa di occupare) un ruolo così importante nella geografia? Possiamo ora parlare di
regione, e qual è il suo significato? A queste domande tenteremo di dare risposta in questo
capitolo, cercando di definire il concetto di regione, o meglio di capire prima che cosa evoca
comunemente questo termine, per analizzare in che modo esso si sia evoluto nella storia del
pensiero geografico ed infine analizzare il caso delle “regioni amministrative” italiane.
8.2 – L’ambiguità del concetto di regione.
Elaborare una definizione precisa del concetto di regione non è cosa facile:
“chi si avvicina all’ampia letteratura prodotta su questi argomenti – soprattutto
all’inizio del secolo – deve districarsi tra una terminologia estremamente varia,
anche per le qualificazioni attribuite alla regione (regione naturale ed umana,
regione storica, regione economica, urbana, omogenea, uniforme, semplice,
funzionale, e così via) e non tarda a constatare che stessi termini assumono
significati diversi – e talora anche sostanzialmente divergenti – non solo con il
volger delle epoche, ma anche a seconda degli autori di una stessa epoca, e che
tutto ciò riflette spesso confusione concettuale” (Vallega, 1983, p.7).
L’ambiguità che accompagna il concetto di regione ha dunque come causa principale una
certa polisemia, accentuatasi nel corso dei decenni con lo sviluppo del pensiero geografico, in
seguito alle esigenze che di volta in volta portavano a modificare il concetto stesso di regione,
tanto che Angelo Turco (1984, p.9) la definisce come:
“un recettore spugnoso della riflessione scientifica contemporanea, un luogo
polimorfo in cui speranze degli uomini ed ambizioni del potere, viver minuto e
prospezioni sofisticate, senso comune e sapere scientifico assai differentemente
qualificato, s’incrociano e convivono spesso nel segno d’una insidiosa ambiguità”.
Ancora, Roger Brunet (1984, p.47), sottolineando la confusione generata dalla polisemia
intrinseca al termine ‘regione’, scrive:
“il significato stesso delle parole è cambiato molto e quindi gli strumenti del
linguaggio esigono una nuova definizione. Ma vi è qualcosa di più grave: anche i
concetti sono confusi. Spazio, regione, territorio sono oggetto di variazioni
polifoniche, dove il rumore ha la meglio sull’armonia; il termine ‘classe’, dal canto
suo, aggiunge nuove discordanze. La regione diventa classe, struttura, holon,
sistema o illusione?… All’origine dei numerosi dibattiti vi sono forse confusioni
114
involontarie dovute alla polisemia di queste parole, oppure confusioni meno
innocenti?”.
Questa confusione concettuale lamentata dai vari autori, credo sia concretamente
sperimentabile su ciascuno di noi; basta provare a pensare, nel modo più banale, a ciò che il
termine “regione” evoca comunemente nel nostro immaginario. La prima immagine che la
maggior parte di noi richiamerà alla propria mente sarà probabilmente una colorata carta
geografica del nostro Paese –la stessa che spesso si è soliti vedere appesa in classe– ove
campeggiano le sagome ben definite delle regioni istituzionali, come tante variopinte tesserine
di un puzzle a noi ormai piuttosto familiare: Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli VeneziaGiulia, Toscana, Lazio… Se riproponessimo la stessa domanda ad uno studente straniero –
statunitense poniamo– sicuramente non si troverebbe d’accordo noi: ci parlerebbe, pensando
al suo Nord America, di “regione dei Laghi”, di “regione delle Grandi Pianure”, di “regione
Mormone”, di “regione cotoniera”… o ancora, rifacendosi ad atlanti e testi scolastici, di “regione
artica”, “regione tropicale”, e così via – tutto cioè tranne che la nostra “cara” e familiare
regione amministrativa. E certamente non gli potremmo dare torto: in fondo –diremmo– anche
lui ha ragione. Pensandoci bene, infatti, pure noi siamo soliti parlare di “regioni montuose”, di
“regioni pianeggianti”, di “regione mediterranea” ma anche di “regioni agrarie”, di “regioni
industriali”….
Non solo: la geografia classica (determinista o possibilista) parlava di regioni naturali,
quando la parte della superficie terreste veniva analizzata dal punto di vista dell’omogeneità
dei caratteri fisici, e di regioni geografiche, o meglio regioni umanizzate, quando veniva data
importanza alle attività dell’uomo. Distinzione questa che poteva generare non poca confusione
se il termine regione veniva confuso con quello di paesaggio:
“È comune, per es., l’affermazione che l’Italia, chiusa con le sue isole tra le Alpi ed
il mare , costituisca una ottima regione naturale. Ma benché essa abbia su quasi
tutto il suo perimetro, buoni confini ‘naturali’, segnati cioè dalla natura, e benché
su tutto il suo territorio si verifichi la preminenza di taluni elementi strutturali e
morfologici, climatici, idrografici, ecc., nessuno potrebbe sostenere che il paesaggio
naturale dell’Italia sia uniforme… Gli elementi comuni, come si è detto, non
mancano, ma essi non sono tanto numerosi o tanto marcati da conferire alla
regione italiana il valore di una unità paesistica: si può aggiungere che appaiono in
essa molto più decisamente gli elementi comuni dovuti all’uomo e alla sua storia. E
in questo senso la regione italiana può essere considerata con fondamento una
buona regione geografica; non può ambire invece alla qualifica di regione naturale”
(Biasutti, 1962, pp.13-14).
Ancora, se apriamo il libro Diario Dogon dell’etnologo Marco Aime, la prima immagine che
incontriamo è una mappa della “regione dei Dogon”. Se la guardiamo con attenzione, ci
accorgiamo però che mancano i confini regionali; si tratta piuttosto di un insieme di villaggi
uniti da strade e piste disposte lungo la Falaise di Bandiagara. Non scorgiamo alcun tipo di
confine amministrativo proprio perché l’etnologo intende indicarci il territorio dove vive la tribù
dei Dogon, e non un dipartimento amministrativo del Mali!
115
Se da una parte questi esempi –ai quali, senza difficoltà, potremmo aggiungerne molti
altri– altro non fanno che accentuare in noi la sensazione di sconcerto derivante dall’ambiguità
del termine regione, usato a seconda degli autori e dei contesti teorici con significati diversi,
che avevamo preannunciato all’inizio del paragrafo, dall’altra ci offrono tuttavia lo spunto per
ragionare su due importanti questioni:
1)
innanzitutto viene spontaneo chiederci quale sia il tratto che accomuna tipi di regione così
diversi, che ci porterà a riflettere sulla definizione del termine che si tende a dare
comunemente.
2)
probabilmente ci siamo resi conto di quanto noi italiani siamo, anche se inconsciamente,
legati ad un certo tipo di regione –quello istituzionale– che tuttavia è un concetto estraneo
a molti altri ambiti culturali.
Cerchiamo di rispondere al primo quesito: che cosa può accomunare, ad esempio, la
regione Mediterranea e la regione dei Laghi del Michigan? Potremmo, innanzitutto, sottolineare
la presenza –particolarmente massiccia rispetto il territorio delle due regione– dei due elementi
che le denominano: Mare Mediterraneo ed i grandi laghi del Nord America. E lo stesso vale per
regione agraria e regione industriale: sono precisamente diversificate dai due elementi,
agricoltura ed industria, che le caratterizzano. Ed è questa un’idea molto diffusa di ‘regione’,
ossia ciò di che si intende comunemente con questo termine: una partizione territoriale avente
determinate caratteristiche che la distinguono da un’altra. A ben vedere tutto questo
corrisponde alla definizione tautologica di regione formulata da Richard Hartshorne (1972,
p.149), accennata nel quinto capitolo:
“la regione è uno spazio di specifica localizzazione che in qualche modo si distingue
da altri spazi e che si estende nella misura di questo distinguersi”.
8.3 – Le regioni formali.
Fino a qui abbiamo cercato di definire quale significato viene “comunemente” attribuito al
concetto di regione. Si può notare, inoltre, come una regione venga generalmente distinta
dalle altre in virtù di una sua certa omogeneità, dovuta alla predominanza di uno o più
elementi che, in un certo modo, la caratterizzano rispetto il “suo esterno”. In altre parole, è
l’aspetto, o meglio, la forma –che si sostanzia nella coerenza interna dettata dal principio di
uniformità– a caratterizzare questo tipo di regione, che è stata, per l’appunto, battezzato
regione formale. E’ così che
“ora come territorio caratterizzato da una certa uniformità naturale, etnica o
economica, ora come distretto ereditato dalla storia e che non rispecchia nessuna
realtà attuale, la regione è concepita come una specie di ‘dato’ di cui ci si sforza,
all’inizio degli studi, di giustificare i limiti” (Juillard 1978, p.25).
Sorge ora spontaneo chiederci dove e quando sia nata questa idea di regione, ma anche quali
mutamenti abbia subito all’interno dei vari paradigmi che si sono succeduti nell’evoluzione del
pensiero geografico.
116
È chiaro che vi sono, ad esempio, delle sostanziali differenze tra la “regione alpina” e “la
regione dei Dogon” o, meglio, tra i criteri teorici per definire queste due regioni: la prima viene
definita da un’omogeneità fisica mentre la seconda lo è in riferimento alla organizzazione
territoriale di un popolo.
Diciamo subito che il primo caso: regione definita da un’omogeneità fisica, anche oggi
largamente utilizzato, affonda le sue radici nel XVIII secolo, ossia in quel periodo che nel
secondo capitolo avevamo definito come “fase preparadigmatica” del pensiero geografico:
“La data di nascita del concetto di regione naturale è da collocarsi nel 1752. In
quell’anno, infatti, Philippe Buache pubblicò un saggio nel quale suddivise il
territorio francese in bacini fluviali, sostenendo che essi erano ‘regioni naturali’, in
quanto il fiume e la sua valle costituiscono una sede che determina ‘in modo
naturale’ le forme di insediamento, di agricoltura e di allevamento. Un’idea
semplice, quindi affascinante e destinata al successo. Nel corso del secolo
successivo il concetto si avvalse di notevoli progressi, poiché il substrato fisico della
regione naturale venne identificato nelle strutture geologiche, di cui il bacino
idrografico è un’espressione. Ad esempio, un bacino sedimentario di origine
quaternaria, un’area a rilievi di origine ercinica come gli Appalachi (340 milioni di
anni or sono), oppure uno scudo archeozoico, possono essere considerati regioni
naturali” (Vallega, 1995, p.21).
Questo “concetto di regione” intesa esclusivamente come regione naturale incontra
grande favore anche all’interno del paradigma determinista in quanto si presta perfettamente
all’approccio nomotetico. Come sintetizza Adalberto Vallega (1983, p.26) nella geografia
umana di tutte le “scuole deterministe”, infatti:
“i rapporti tra consorzi umani e l’ambiente sono visti in chiave ecologica, ma il
protagonista primo resta sempre l’ambiente fisico: l’insediamento e i fatti umani
vivono di luce riflessa, subiscono effetti ed, entro certi limiti, reagiscono. In questo
clima matura il concetto di regione naturale, che veniva già intesa dal Ritter come
un grande individuo geografico, ben definito e chiaramente rilevabile, tanto per i
confini che per i propri caratteri essenziali. Il rigore scientifico e la tendenza a
sistemare risultati acquisiti dall’esperienza e dalla speculazione, tipici aspetti della
cultura positivista, inducono tosto a stabilire oggettivamente queste grandi unità, a
definire criteri per la loro determinazione e delimitazione”.
Come si è visto, infatti, l’approccio determinista applicato al rapporto uomo-natura viene a
considerare l’ambiente fisico come la causa, e le forme d’uso del territorio come l’effetto,
concezione riflessa, appunto, dal concetto di regione naturale:
“si riteneva che l’estensione di una certa struttura fisica, come un bacino fluviale,
fosse anche quella della regione, perché la struttura fisica era la causa e
l’organizzazione del territorio l’effetto” (Vallega, 1995, p.23).
Agli inizi del Novecento la concezione determinista viene messa in crisi e scalzata, anche
se lentamente e forse non completamente, dalla concezione possibilista secondo la quale
l’uomo è svincolato dall’ambiente e l’azione umana assume un ruolo protagonista, all’interno
delle possibilità offerte dalla natura.
“l’ambiente naturale offre una gamma, più o meno ampia, di risorse, da cui deriva
una serie di opportunità di utilizzazione. I gruppi umani, di fronte a questo
ventaglio, compiono scelte, che si traducono in tipi di organizzazione territoriale;
117
godono, insomma –per usare una terminologia corrente– di certi gradi di libertà”
(Vallega, 1983, pp.38-40).
E’ così che al concetto di regione naturale i possibilisti contrappongono quello di regione
umanizzata, cioè:
“uno spazio in cui una comunità umana, dotata di una propria cultura (genere di
vita), organizzava un territorio, costituito da un solo ambiente fisico, o da più
ambienti fisici contigui. La circostanza secondo cui era considerato ‘regionale’
anche un territorio composto da più ambienti fisici dava luogo alla confutazione del
concetto di regione naturale, secondo il quale una regione è necessariamente
costituita da un solo ambiente fisico. Di qui il rifiuto del principio di causalità
unidirezionale, in base al quale l’ambiente era la causa della regione. Infatti, se una
regione si stende su più ambienti fisici si deve dedurre che a determinarla siano
anche altre cause: quelle umane, appunto. Un esempio ricorrente di regioni basate
su substrati fisici è offerto dalla regione costiera con coste alte e rocciose: la
compongono due ambienti naturali, la striscia che costituisce l’interfaccia tra mare
e costa e i versanti dei rilievi retrostanti. Due individualità fisiche ben distinte,
come si vede, eppure associate in un unico disegno organizzativo, frutto della
cultura e della tecnologia delle comunità locali” (Vallega, 1995, p.24).
È chiaro che la soluzione di tutto sta, nel paesaggio inteso, quest’ultimo, come la proiezione
delle tecniche e delle pratiche organizzatrici del sistema sociale [la cosiddetta cultura materiale
del gruppo] sul sistema ecologico [l’ambiente naturale], una proiezione attiva che lo costruisce
in conformità con lo scopo da raggiungere. Il paesaggio è la manifestazione reale e visibile di
quel mondo possibile –la regione– che rappresenta il progetto attuato da quella società su quel
territorio: è un oggetto reale che si vede, si studia e nel cartografare i suoi tratti caratteristici
se ne tracciano i confini e si individua la regione. Il concetto di paesaggio, nella sua sostanza
già in parte implicitamente presente nella regione naturale, viene ripreso e riformulato dai
possibilisti che:
“ne ampliano, appunto, la portata, riferendola anche alle forme di insediamento,
alla copertura umana, ai modi di utilizzazione del territorio: dall’idea di paesaggio
naturale si passa a quella di paesaggio umanizzato, cioè di paesaggio tout court”
(Vallega, 1983, p.38).
In questo modo il concetto (o l’idea) di regione si confonde con il concetto (o l’idea) di
paesaggio: i due termini appaiono come dei sinonimi? Senza dubbio, nota Etienne Juillard
(1978, p.28):
“nel paesaggio c’è una forma di regionalizzazione, e la ricerca dei paesaggi
permette su un dato territorio di scoprire e di delimitare, per esempio, delle regioni
agricole, caratterizzata ognuna da una certa omogeneità di organizzazione dello
spazio rurale; delle agglomerazioni urbane, anch’esse paesaggi suddivisi in zone
più o meno omogenee, quartieri, periferie…”.
Questo tipo di approccio in realtà è alquanto problematico, se non altro per la difficoltà a
individuare, nella realtà, regioni assolutamente omogenee:
“due insiemi naturali molto simili e anche molto vicini possono veder nascere due
paesaggi differenti, così, per esempio, i contrasti agrari dei Vosgi e della Foresta
Nera, per il gioco contrastato delle pressioni demografiche delle forme
d’industrializzazione, ecc. A fortiori molti paesaggi possono sovrapporsi nel tempo
118
sullo stesso spazio: pensiamo ai mutamenti agricoli nelle contrade mediterranee,
all’urbanizzazione dei bacini minerari, ecc.” (Juillard, 1978, pp.27-28).
Ne consegue che territori morfologicamente simili abitati da popolazioni culturalmente simili
possono dar origine a diverse regioni umanizzate oppure nella stessa regione umanizzata la
forma del paesaggio può differenziarsi, per differenti sviluppi storico–economici, dando origine
a nuove regioni. In altri termini: è evidente che l’omogeneità interna di ciascuna regione –che,
ricordiamo, rappresenta l’elemento chiave– può essere tale solo in apparenza e può
mascherare un tessuto funzionale diversificato. La definizione della regione –oggetto
immanente e concreto dell’indagine– dipende dunque solo dall’esistenza di un paesaggio
definito genericamente come il tratto visibile della superficie terrestre; la stessa esistenza della
regione umanizzata è quindi legata solo a ciò che appare. Il paesaggio –quindi la regione– è sì
una realtà essenzialmente visibile ma:
“non si può spiegare senza fare appello a dei fattori che sfuggono alla vista o non
sono riportabili alla materialità topografica come, per esempio, l’idrologia
sotterranea, la natalità, il regime fondiario, la circolazione dei capitali, la pratica
religiosa” (Juillard, 1978, p.28).
La “regione naturale” e la “regione umanizzata” (entrambe –abbiamo visto– definibili
attraverso una varietà di criteri del tutto soggettivi) rientrano in una visione idiografica dello
spazio, basata cioè sull’omogeneità dei paesaggi. Esiste però anche un altro tipo di approccio
alla regione formale: quello tassonomico, spesso associato a una visione quantitativa che offre
infinite possibilità di definire una regione, pur all’interno di un rigore logico–matematico.
8.4 – La regione funzionale.
Il criterio di uniformità sul quale si fonda il concetto di regione formale è sicuramente il più
antico e conosciuto, ma non l’unico. La geografia teoretico quantitativa rifiutando sia la
staticità della regione naturale sia l’indeterminatezza della regione umanizzata propone nuovi
modelli regionali influenzati dal potere accentratore esercitato dai poli industriali e dalle
metropoli. Le regioni derivate dalla geografia teoretico quantitativa non sono certo legate al
principio di uniformità, che garantisce la coerenza interna delle regioni formali, ma a quello
della coesione spaziale esercitata da una metropoli, con forti valenze industriali e terziarie, sul
territorio circostante. La base teorica che spiega la formazione di tali regioni risiede nella
Teoria di Christaller che –come brevemente accennata nel sesto capitolo– mostra la
formazione delle aree di mercato. Tali aree di mercato, la cui ampiezza è funzionale alla
dimensione economica della città, rappresentano delle vere e proprie regioni che esistono solo
in funzione dell’azione coordinatrice (capacità di attrazione) esercitata dalle varie città. In altri
termini, per Walter Christaller lo sviluppo economico e sociale determina una gerarchia degli
spazi organizzati coordinati da una gerarchia di città ciascuna con proprie funzioni e propria
regione di pertinenza. Alla base di questa teoria non viene posta l’industria genericamente
intesa, ma l’industria motrice, cioè quella particolare industria capace di influenzare sia
l’organizzazione del luogo in cui sorge, sia quella del territorio circostante, fino a plasmare
119
l’organizzazione della regione, a determinarne l’estensione e l’evoluzione. L’industria è motrice
quando risponde a tre requisiti:
a) possiede grandi dimensioni, non soltanto in termini di produzione, ma anche in rapporto
all’occupazione, poiché è quest’ultima a influenzare lo sviluppo regionale;
b) esercita notevole capacità di innovare tecnologie e processi produttivi, in modo da rivestire
una funzione di leadership nel settore di appartenenza;
c) intrattiene intense relazioni con attività che si dispongono a monte e a valle del processo
produttivo.
Sono sufficienti queste note per comprendere come il polo industriale venga considerato
soprattutto in rapporto agli effetti propulsivi cui dà luogo sul territorio. L’industria motrice,
infatti, attrae nel polo non soltanto attività che si dispongono sia a monte (ad esempio, servizi
di manutenzione), sia a valle (ad esempio, servizi di trasporto dei prodotti finali) del processo
produttivo, ma anche attività che si dispongono lateralmente (ad esempio, imprese di
assicurazione e sedi bancarie). Inoltre, le convenienze locali possono crescere fino al punto da
attrarre nel polo anche produzioni e servizi non collegati al procedimento produttivo
nell’industria motrice, ma che qui trovano utile localizzarsi per usufruire dei servizi esistenti.
I geografi teoretico–quantitativi puntano sullo studio di una realtà regionale non più
sezionabile in “compartimenti” omogenei e fissi, ma costruita piuttosto sulla base di relazioni e
processi. Non si parla più di natura o paesaggi ma di polarizzazione, potenza d’attrazione,
forza d’inerzia, nodalità, gerarchie di centri, flussi…
Il punto debole dell’approccio funzionalista, legato alla geografia teoretico quantitativa, sta
nel suo riduzionismo:
“la geografia regionale funzionalista non fu capace di formulare una teoria generale
sulla regione perché non riuscì a inquadrare in un’unica immagine d’assieme la
globalità delle funzioni esistenti sul territorio” (Vallega, 1995, p.34).
Una visione parziale, ricordiamo che la Teoria di Christaller è esclusivamente legata alle attività
terziarie, che fornisce immagini unidirezionali della regione.
I concetti di regione naturale e di regione umanizzata erano fondati –sia pure su terreni
molto diversi– sulle relazioni tra comunità umana e ambiente fisico. Il concetto di regione
funzionale, invece, è stato riferito soltanto alle attività economiche, senza attribuire alcuna
rilevanza alle relazioni con l’ambiente.
8.5 – La critica attuale al concetto di regione.
Vogliamo concludere questa sommaria analisi con qualche riflessione sul ruolo e la
legittimità del ‘concetto di regione’ ai giorni nostri.
Ci si può chiedere a questo punto in che modo possa venire rappresentata una realtà
(territoriale) quale quella attuale, in cui lo sviluppo tecnologico e la globalizzazione, che ha
condotto a una compressione spazio-temporale, hanno fatto, in un certo senso, “saltare” i
tradizionali riferimenti e hanno imposto nuove ed inedite logiche di organizzazione spaziale.
120
In un mondo dominato e controllato da reti di interiezioni e di flussi globali in cui sono
venuti meno molti dei presupposti su cui fin verso la metà del nostro secolo si fondava l’idea di
regione come base territoriale stabile di una comunità, ha veramente ancora senso parlare di
“regione”? Secondo Giuseppe Dematteis (1997):
“non possiamo più credere, come faceva la vecchia geografia umana regionale, che
le regioni si possano definire a partire dalle loro dotazioni ambientali naturali e
storico-culturali. Neppure possiamo pensare con la (anch’essa ormai vecchia)
geografia funzionalista, che per definirle basti l’autocontenimento dei flussi. E non
solo perché i circuiti dei flussi che contano tendono oggi ad assumere la forma di
reti globali, ma soprattutto perché alla regione geografica non può mancare la
corposità della terra, su cui si sedimenta la componente essenziale del milieu".
La rivoluzione telematica (pensiamo a internet) e le nuove logiche di mercato (pensiamo
alle multinazionali e alla divisione internazionale del lavoro che porta ad una segmentazione
delle varie fasi produttive, spesso localizzate in Paesi diversi) hanno introdotto nuove
coordinate spaziali, mettendo in crisi il concetto di distanza e contribuendo alla nascita di nuovi
paesaggi estremamente frammentari, non più descrivibili ed interpretabili
secondo i metodi
tradizionali. Nell’ambito della rappresentazione regionale, Giuseppe Dematteis (1997) individua
la “vera rottura con il passato” nel fatto che se:
“prima la regione era pensata come un dato, un'entità primaria e tendenzialmente
invariante (non importa se di origine divina, naturale, costituzionale, storica,
economica ecc.), ora può solo essere pensata come una costruzione intenzionale:
un ordine geografico locale che nasce dalla turbolenza dei flussi globali e che deve
interagire con essi per continuare ad esistere”.
Il quadro attuale del mondo, a detta di Agelo Turco (2000), è infatti caratterizzato non
più da uno spazio paratattico (ossia una messa in sequenza di aree in qualche modo
“sensate”), ma ipotattico, dove “trionfa la giustapposizione sulla connessione” e spazi di varia
natura (quali quello territoriale e quello della rete informatica, ad esempio) convivono
all’insegna della frammentarietà, dei sincretismi e degli intrecci. La geografia regionale
tradizionale riduceva la rappresentazione delle complesse relazioni tra società, culture,
economie e poteri a un unico tipo di spazio di derivazione euclidea, interiorizzato attraverso
pratiche
cartografiche,
che
portano
a
pensarlo
come
un’entità
oggettiva.
Questa
rappresentazione semplificata e ingenua della regionalità può tuttora assolvere a compiti
elementari, di tipo essenzialmente tassonomico, ma a patto di essere ben conscia dei suoi
limiti e non voler trattare aspetti complessi della realtà con modalità inadeguate e in definitiva
mistificanti. Per uscire da questi limiti occorrerà uno sforzo al tempo stesso di immaginazione
creativa e di analisi, quale ogni impresa scientifica d’altronde richiede. Occorrerà anzitutto far
riferimento a modelli concettuali capaci di trattare i sistemi complessi. Con essi bisognerà
riuscire
a
rappresentare
le
dinamiche
regionali
come
interazioni
che
si
svolgono
contemporaneamente nello spazio-ambiente-locale, nello spazio delle relazioni di prossimità e
in
quello
delle
reti
virtuali
non
condizionate
dalla
distanza
fisica.
Bisognerà
anche
rappresentare alle diverse scale (senza mai dimenticare quella basilare dei vissuti quotidiani)
spazi relazionali molteplici, corrispondenti alle multi-appartenenze (e sovente multi-identità)
121
dei soggetti locali e ricostruire le ‘geometrie variabili’ delle reti e dei sistemi territoriali a cui
essi appartengono ed entro cui agiscono. Occorrerà, infine, evitare i determinismi (naturali,
economici, storici), in modo da rappresentare la regionalità nel suo divenire ricco di
contraddizioni e di potenziali conflitti, perciò aperto a differenti proposte, progetti, soluzioni.
8.3 – Il caso italiano.
La nostra idea di regione –legata alla colorata carta geografica dell’Italia così ben
cristallizzata nel nostro immaginario– ha conferito alla “regione istituzionale” un potere
straordinario, corroborato tra l’altro dal tipo d’insegnamento della geografia nelle scuole del
nostro Paese che, non a caso, partiva tradizionalmente proprio dallo studio delle Regioni
d’Italia. Ed è stato così che, attraverso un curioso processo di naturalizzazione, partito proprio
dal nostro primo impatto scolastico con la regione amministrativa, ci siamo appropriati non
solo del concetto di regione intesa fondamentalmente in questo senso, come fosse un’entità
naturale, presente sul territorio a priori e non una costruzione politico-culturale, ma anche di
tutta una particolare logica che ci fa accettare la partizione territoriale cui siamo abituati come
fosse la più giusta e naturale. Contemporaneamente è importante ricordare che si tratta di una
situazione che non è condivisa da tutti gli altri Paesi334.
Il caso italiano si rivela poi particolarmente emblematico, oltre che per questa ambiguità
linguistica, anche per un altro motivo: l’attuale suddivisione regionale del nostro territorio, che
tendiamo spesso a concepire come la più naturale (tanto da non riuscire ad immaginarne altre
e provare un certo disagio e sconcerto dinanzi a proposte alternative), in realtà non è –come
forse saremmo portati a credere– il frutto di un attento e scrupoloso studio da parte di geografi
ed esperti, bensì una soluzione operata sulla base di scelte politiche. Di solito il territorio viene
suddiviso sulla base di elementi contingenti, metascientifici, cui si cerca di conferire una
patente di obbiettività scientifica. In Italia la circostanza è ricorsa nei lavori preparatori per la
Costituzione della Repubblica. Dopo aver convenuto di creare uno Stato articolato su regioni, i
costituenti decisero di elencare le regioni [articolo 116 regioni a statuto speciale; articolo 131
regioni a statuto ordinario] in cui il territorio dello Stato si sarebbe articolato. A quel punto non
seppero far meglio che dare veste di regioni a quelle circoscrizioni statistiche che, nel secolo
scorso, appena costituita l’unità d’Italia, furono delimitate per raccogliere e raggruppare i dati
censuari. È certo però che i Costituenti nel 1948 avevano ben altri problemi da risolvere che
non pensare al come suddividere scientificamente lo Stato italiano in regioni e così accettarono
quella divisione che, tramite la scuola, era diventata un dato naturalmente accettato.
8.6.1. - Le Regioni italiane: loro nascita ed affossamento.
Il primo ad articolare il territorio italiano in Regioni, disegnate in modo preciso sulla carta
ed intese come parti funzionali dello Stato, derivanti da unioni di Province assommate per
334
Questa coincidenza di termini (regione = regione istituzionale), infatti, si riscontra in italiano ma non in inglese, ad
esempio, dove il termine region non corrisponde affatto alla regione istituzionale (negli Stati Uniti ci sono, infatti, gli
states e le counties, mentre in Inghilterra le counties.
122
vicinanza, struttura ambientale, struttura economica e comunità sociale, è stato Piero
Maestri335. Un passato patriottico con una parte molto attiva alle 5 Giornate di Milano del 1848,
espulso anche dal Piemonte andò esule a Ginevra ed a Parigi336. Il suo esilio in Francia gli ha
permesso di conoscere le vicissitudini politico-amministrative di quel paese descritte attraverso
alcuni articoli apparsi sulla rivista Il Politecnico, in buona parte poi ripresi in un volume nel
1863. Collaborò con Cesare Correnti alla stesura dei primi annuari statistici diventati poi gli
archetipi di tutti i successivi. Nel 1861 venne chiamato a dirigere l’Ufficio Centrale di
Statistica337, mentre Cesare Correnti diveniva presidente della Giunta di Statistica. La loro
funzione era quella di ricostruire –dopo la soppressione degli uffici preunitari– una statistica
nazionale, funzionale al nuovo ed unificato Regno d’Italia, organizzando ed uniformando i
criteri di rilevazione ed elaborazione dei dati338. È stato un importante statistico con una
notevole capacità organizzativa: sua è l’organizzazione e la gestione del primo censimento del
1861, preso a modello anche per i successivi339.
Dal nostro punto vista appaiono molto importanti le sue idee sul “dicentramento
amministrativo”. Idee che pubblica, la prima volta, in un articolo apparso su Il Politecnico nel
1861: lo stesso anno in cui, chiamato da Camillo Benso di Cavour, divenne direttore dell’Ufficio
Centrale di Statistica e contemporaneamente viene bocciato il progetto di ordinamento
regionale. Interessante notare questa triplice coincidenza temporale.
Il 1861 è l’anno in cui Piero Maestri viene chiamato da Camillo di Cavour a dirigere l’Ufficio
Centrale di Statistica: una struttura, quest’ultima, assolutamente fondamentale per la
riorganizzazione amministrativa del nuovo Stato340. Fondato lo Stato Nazionale a Camillo di
Cavour cominciavano ad imporsi anche problemi di natura amministrativa legati non tanto a
scelte di politica internazionale quanto a quelli, non tanto banali, dell’organizzazione e gestione
della farragine organizzativa e territoriale del nuovo Stato la cui conoscenza era abbastanza
limitata e legata a delle parziali “statistiche corografiche” del Settecento. Probabilmente sono
questi i motivi lo hanno spinto a chiamare alla direzione dell’Ufficio Centrale di Statistica Piero
Maestri: era forse un po’ distante dal suo pensiero politico ma aveva dimostrato di ben
conoscere la Statistica, di saperne interpretare i risultati, era un organizzatore, un personaggio
che aveva molto a cuore le sorti del nuovo Stato e probabilmente per questo era disposto a
soprassedere alle sue idee giovanili di rivoluzionario mazziniano.
335
Una breve biografia si trova in A.Monti (1949); un accenno ne fa G.Favero (2001, pp.41 e 60); un’interessante
analisi sul suo pensiero e sulla sua posizione politica si trova in F.Della Peruta (1958).
336
Durante il suo esilio mantenne sempre contatti con l’ambiente patriottico milanese scrivendo articoli di matrice
statistica per gli Annali Universali di Statistica e politico-amministrativa per Il Politecnico.
337
Sulle motivazioni che spinsero Cavour, una volta formato il nuovo stato “le cui parti avevano a lungo vissuto
staccate le une dalle altre”, a potenziare gli studi di statistica creando ex novo una Direzione Generale di Statistica (tale
era il nome dell’attuale ISTAT) si veda A.Caracciolo (1960, pp.47-48).
338
Si veda G.Favero (2001, pp.59-69) e S.Patriarca (1996, pp.178-184).
339
Sulle sue capacità di direzione ed organizzazione si veda R.Fracassi (1957, pp.103-105) e ISTAT (n.d., pp.45-77).
340
Come nota P.Villani (1978, p.884) “Misurare, quantificare, conoscere anche statisticamente, si rivelava una funzione
indispensabile del nuovo Stato. In tal senso assumeva essa stessa una dimensione latamente politica”. Sull’imporatnza
delle “statistiche” per la politica del nuovo Stato si veda S.Patriarca (1996) e G.Favero (2001).
123
Il 1861 è l’anno in cui Piero Maestri, direttore dell’Ufficio Centrale di Statistica, pubblica sul
Politecnico un importante articolo dal significativo titolo Del dicentramento amministrativo in
Francia in cui esplicita in modo netto ed inequivocabile le sue idee sull’organizzazione politicoamministrativa di un moderno Stato democratico. In questo articolo341 inneggia alla
democrazia francese attuata attraverso una legislazione che definisce il principio d’uguaglianza
dei cittadini ottenuto attraverso due elementi: il “suffragio universale” ed il “dicentramento
amministrativo”.
342
dispotico
Articolo
di
spirito
mazziniano
, esalta sia i sacrosanti diritti dell’uomo
in
343
cui,
contrastando
l’accentramento
sia gli importanti doveri del singolo
“verso la famiglia il commune e la nazione”. Il riferimento è la Francia del 1860 ma appare
chiaro che il tutto è rapportabile a qualsiasi Stato Nazionale. In ogni caso questa forma di
“dicentramento”, secondo Pietro Maestri, non minerebbe l’unitarietà dello Stato344 né sarebbe
legata a forme particolari di governo345 in quanto lo Stato Nazionale è democratico di per sè346.
L’articolo si riferisce sempre al caso francese ma le due pagine della conclusione finale sono in
toto riferite alla situazione italiana in cui egli depreca la piemontesizzazione:
“imporre leggi piemontesi alla Lombardia... la Toscana non può lungamente
resistere a codesta improvvida violenza… anche la pregevole legislazione civile
delle Due Sicilie è minacciata dalle meschine lucubrazioni dei giuristi piemontesi”
347
.
Non era certo questo il pensiero di Camillo di Cavour che, pur propenso a pensare ad uno
Stato Nazionale unito in cui potessero coesistere delle forti autonomie locali, dovette gestire,
negli anni ’60, il succedersi dei plebisciti e la discussa campagna garibaldina del Regno delle
Due Sicilie trovandosi così nella necessità di accelerare il processo di omogeneizzazione delle
diverse parti del regno348. Per questo egli ha certamente dovuto mettere da parte le sue idee
sulle autonomie locali a favore di una vera e propria campagna di accentramento349.
341
Articolo che viene ripreso ed ampliato nel suo libro del 1863 La Francia Contemporanea in cui interessante è notare
come gli ultimi due capitoli abbiano come titolo: “la Rivoluzione ed il principio dell’eguaglianza” e “Il principio di
libertà e il dicentramento amministrativo”.
342
Tipico dell’ “aristocrazia britannica, spezzatrice della plebe; la Germania, sempre feudale; l’Austria, nemica d’ogni
diritto; la Russia, che numera ancora a milioni li schiavi” (P.Maestri, 1861, p.289).
343
“Libertà di possesso, di lavoro, d’associazione, di coscienza, di pensieri” (P.Maestri, 1861, p.297).
344
“Nessuno in Francia pensa a contestare la necessità d’un potere supremo e nazionale, in cui mano già da tempo si
riposero l’unità di legislazione, il comando della forza armata, la rappresentanza diplomatica, il diritto di guerra e di
pace; e ad esso si vorrebbe pur sempre riservato il diritto di determinare in via legislativa le norme comuni a cui
dovrebbero uniformarsi le aziende provinciali, dipartimentali e municipali; nonché un diritto di suprema vigilanza, per
impedire li abusi e le deviazioni” (P.Maestri, 1861, pp.300-301).
345
“Indifferente che la forma del governo sia piuttosto repubblicana con capo elettivo e mutabile, o monarchia con capo
ereditario” (P.Maestri, 1861, p.301).
346
Perché “lo Stato è il tutore della società, non padrone” (P.Maestri, 1861, p.301).
347
Continuando poi con: “per impedire che questa confusione legislativa inondi tutta l’Italia… sarebbe necessaria la
convocazione d’un’Assemblea Costituente” (P.Maestri, 1861, p.305). Il testo finisce con una nota a firma La Redazione
in cui dichiarandosi d’accordo con l’autore, sia per il caso francese sia per i riferimenti italiani, pone un freno all’afflato
di P.Maestri chiedendosi come procedere nell’immediato, nell’attesa della riorganizzazione: “e frattanto, chi ha
l’incarico di riparare, in modo costituzionale e legittimo e valido alla più necessarie urgenze delle legislazioni e
amministrazioni locali?”.
348
Come nota A.Caracciolo (1960, p.68): “Va forse sottolineato il posto che ebbe, nella definitiva scelta di un sistema
politico-amministrativo fortemente centralizzato, l’esperienza della conquista meridionale. Ci si trovava di fronte,
nell’Italia inferiore, a una realtà che il moderatismo piemontese e padano non riusciva a comprendere, sapeva solo
124
Inoltre, terza coincidenza temporale, nel 1861 viene definitivamente affossato il progetto di
ordinamento regionale portato avanti, nel biennio 1860-1861, da Luigi Carlo Farini e Marco
Minghetti che sostituirono Camillo di Cavour al Ministero per gli Affari dell’Interno350. Progetto
su cui Camillo di Cavour non era, almeno inizialmente, d’accordo ma che alla fine appoggiò in
modo abbastanza sostenuto351. Occorre però notare come l’appoggio dei due ministri ai
progetti di legge regionale, nella Commissione Temporanea per l’istituzione delle Regioni, fosse
abbastanza tiepido con ricorsi a grandi affermazioni di principio e poche argomentazioni ben
precise. La discussione in Commissione non ebbe risultati favorevoli tanto che Sebastiano
Tecchia352, nella relazione finale della Commissione presentata alla Camera il 22 giugno 1861,
illustrando le ragioni che avevano portato la commissione ad essere contraria alle Regioni
affermava:
“a chi ben consideri le origini del nostro movimento verso l’unità italiana verrà fatto
scoprire la causa prima di quelle obbiezioni”
causa prima che risiedeva solo ed esclusivamente nell’idea dell’Unità d’Italia
“troppe erano le tradizioni gloriose dei comuni italiani…profonde e dolorose
vivevano le memorie di male spente rivalità di provincia… ogni terra contava con
santa superbia le tombe de’ suoi grandi”
secondo la Commissione il concetto di Regione, data la storia delle singole parti del nuovo
Regno ed il recente processo di unificazione renderà sicuramente
“men ferma la fede nella unità… [perché]… “senza unità è impossibile la
indipendenza”
per cui
“nulla più conferisce alla unità nazionale, ed alla sintesi di uno stato, che la
colleganza immediata tra il potere centrale e i suoi naturali aiuti, le provincie e i
comuni”.
Le Regioni quindi, sotto qualsiasi forma intese, non ebbero l’appoggio della Commissione
Temporanea che propose invece di estendere a tutto il Regno la legge amministrativa
piemontese del 1859: portando di fatto ad una “piemontesizzazione” amministrativa dell’Italia.
disprezzare…Alla esteriore dittatura garibaldina si vedeva la necessità di far seguire una più sostanziale dittatura
amministrativa, in ogni settore della cosa pubblica meridionale”. Si veda anche quanto riportato da E.Ragionieri (1967,
pp.87-97).
349
A.Petracchi, 1962, vol.I, p.288: “Il Cavour mirava ormai consapevolmente ad una concentrazione dei poteri e delle
decisioni che permettessero di unificare realmente sotto un governo forte, le regioni da poco conquistate, più che
realmente unite per volontà di popolo”; sull’ambiguità del Cavour nei confronti delle autonomie locali si veda l’intera
Parte Terza del volume di A.Petracchi (1962).
350
Come nota E.Ragionieri (1967, pp.152-153): nonostante “tutto il moderatismo italiano…[si professasse
favorevole]… ad un tipo di Stato fondato sulle più ampie autonomie locali e ispirato a larghi criteri di decentranto
amministrativo… [vari furono i motivi che]… fral’estate del 1860 e l’ottobre del 1861 portarono all’attenuazione prima,
poi all’insabbiamento ed infine al definitivo affossamento dei disegni di legge del Farini e del Minghetti”. Si veda anche
A.Petracchi, 1962, vol.I, pp.297-298.
351
Sulla tardiva difesa del Cavour si veda A.Petracchi, 1962, vol.I, pp.343-357.
352
Le citazioni della Relazione di S.Tecchia sono referibili a A.Petracchi, 1962, pp.409-411, corsivo del testo
originario.
125
8.6.2. - I Compartimenti Statistici e la delimitazione territoriale delle Regioni.
Come visto sopra il progetto di legge istitutivo delle Regioni amministrative italiane non è
stato mai approvato e la divisione dell’Italia in Regioni territorialmente delimitate venne
definitivamente, almeno fino alla Costituzione del 1946, abbandonata.
Di fatto l’idea della partizione regionale del Paese –quelle Regioni in cui a tutt’oggi l’Italia è
divisa– continuò sotto altra forma: i Compartimenti Statistici ideati ed utilizzati da Piero
Maestri per le pubblicazioni ufficiali dell’Ufficio Centrale di Statistica che, occorre ricordare, era
ed è un organo alle dirette dipendenze dello Stato.
Piero Maestri pubblica nel 1864, tre anni dopo il definitivo affossamento del progetto di
ordinamento regionale, due importanti lavori di statistica. Il primo è l’ Annuario Statistico
Italiano, un testo non ufficiale che firma assieme a Cesare Correnti, in cui ripropone le
“Regioni” mentre il secondo è la Statistica del Regno d’Italia, una pubblicazione ufficiale
dell’Ufficio Centrale di Statistica, in cui utilizza i Compartimenti Statistici -una suddivisione del
Regno in strutture territoriali di grado superiore alle province- per ripartire i dati del
Censimento del 1861, il primo dell’Italia unita. Anche qui è interessante notare la coincidenza
temporale: nello stesso anno firma due volumi di contenuto quasi analogo. Il primo, un testo
non ufficiale, in cui ritorna sull’idea delle Regioni ed il secondo, una pubblicazione ufficiale, in
cui definisce i Compartimenti Statistici, un altro modo per dire Regioni.
L’Annuario Statistico Italiano (Correnti Maestri, 1864), che firma assieme a Cesare
Correnti, appare come volume secondo di cui il primo era stato pubblicato nel 1858, ben
quattro anni prima, con la sola firma di Cesare Correnti. Il primo volume appariva come un
classico esempio di Statistica Patriottica353 in quanto conteneva un articolo dal titolo
“Popolazione dell’Italia” in cui già nel 1858 Piero Maestri, firmatario dell’articolo, mostrava una
tabella che preconizzava un’Italia unificata dai numeri: questo ben due anni prima delle
“annessioni” del 1860, tre anni prima della nascita del Regno d’Italia e dodici dalla presa di
Roma354. Il secondo volume del 1864, oltre alla premessa, riportava un interessante e lungo
saggio in cui venivano descritte le problematiche relative al decentramento amministrativo: è
un intervento a firma di Tullo Massarani noto esponente del patriottismo lombardo, fervente
regionalista e deputato dal 1860 al 1867. È uno scritto, quest’ultimo, molto complesso in cui,
fra l’altro si discute di “teoria del dicentramento”, delle “fasi dell’idea regionale”, di
“regionalismo” definito quest’’ultimo come:
353
Per Statistica Patriottica si intende quella descrizione economica della nazione che avesse anche un forte valore
critico nei confronti del sistema politico pre-unitario; si veda l’interessante analisi che ne fa S.Patriarca (1996, pp.122154) e F.Lando (2009). Interessante la considerazione sulla Statistica Patriottica, quasi una definizione, che ne fa
F.Lampertico (1870, pp.154-155) “allorché i Borboni ci davano delle cifre si faceva atto di patriottismo credendole
false; corpi franchi di economisti insorgevano contro la statistica ufficiale: si iniziava una statistica patriottica, che
studiando la penisola intera associasse nelle cifre le provincie del nord alle meridionali… rovesciando così le barriere
che cessavano d’esistere sulla carta ricostituisse l’unità nazionale”; concetto ripetuto, con pochi cambiamenti, nel 1879
(F.Lampertico, 1879, p.168). Una piena accettazione questa della tabella di P.Maestri che viene indirettamente indicata
come esempio concreto di Statistica Patriottica.
354
La tabella è in P.Maestri, 1858, p.383. È stata ripresa e commentata in F.Lando (2009, pp.320-322) e citata anche in
S.Patriarca (1996, pp.122-154) che però, erroneamente, la attribuisce a C.Correnti.
126
“la teorica pura dell’amministrazione negli ordini liberi” (Massarani, 1864, p.174).
Interessante notare come Cesare Correnti e Piero Maestri, importanti e autorevoli commis
d’état, abbiano recuperato un vecchio scritto di Statistica Patriottica pubblicandone, dopo ben
quattro anni, una continuazione come volume secondo in cui sottoscrivono –indirettamente
essendo i firmatari del volume– il lungo e complesso pamphlet di Tullo Massarani a difesa del
regionalismo.
Se in quel testo, l’Annuario Statistico Italiano a carattere non ufficiale, poteva far affermare
a Tullo Massarani che le Regioni erano funzionali al decentramento amministrativo, è chiaro
che una pubblicazione ufficiale uscita dall’Ufficio Centrale di Statistica non poteva usare il
termine Regione né far evidente riferimento al decentramento: come visto nelle pagine
precedenti, nel 1861 era miseramente fallito lo schema di organizzazione amministrativa.
Pietro Maestri, nella sua funzione uficiale di Direttore dell’Ufficio Centrale di Statistica
emanazione diretta del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, non poteva far
riferimento
alle
Regioni
ma
solo
ipotizzare
una
struttura
territoriale,
che
definisce
Compartimento Statistico, pensata esclusivamente per la pubblicazione dei dati censuari.
Compartimenti Statistici che appaiono chiaramente come delle strutture regionali mascherate
descritte però come lo strumento meglio appropriato per le analisi statistiche:
“ci riusciva disagevole procedere per raffronti tra Provincie e Provincie senza un
intermediario punto d’appoggio intorno a cui venissero a coordinarsi le naturali
relazioni delle Provincie tra loro sia per vicinità di luogo, sia per conformità di
costituzione fisica, sia per analogia di complessione economica, sia infine per
comunanza di tradizioni civili”355.
È veramente interessante la sequenza delle motivazioni: vicinanza, struttura ambientale,
struttura economica e comunità sociale. Motivazioni che vanno ben di là di una mera volontà
classificatoria funzionale al solo scopo statistico: la pubblicazione dei dati del primo censimento
dell’Italia unita.
Ovviamente, egli cerca subito di eliminare un qualsiasi riferimento, anche velato, alle
Regioni del decentramento e così quei raggruppamenti di province li chiamerà Compartimenti
Statistici:
“i nostri compartimenti sono topografici, o per dir tutto in una parola statistici: essi
non fanno che riprodurre le divisioni territoriali fondate sulla natura del suolo e
sulle leggi della convenienza economica”.
È un continuo insistere sulle affinità territoriali ed economiche con accenni sulle caratteristiche
morali senza però mai un riferimento a valutazioni politico-amministrative e con un preciso
richiamo sulla loro provvisorietà:
“Nè con ciò vogliamo dire che i compartimenti, quali da noi vennero adottati,
rispondano ad una divisione scientifica e definitiva del territorio nazionale anche dal
solo punto di vista statistico ed economico [e questo perché]… gli studi della
topografia italiana non sono ancora stati portati al desiderabile grado di perfezione
355
Interessante è la sequenza di motivazioni: vicinanza, struttura ambientale, struttura economica e comunità sociale
che vanno ben al di là di una mera volontà classificatoria.
127
[e nemmeno]… la statistica agraria, appena sul nascere fra noi, non ha ancora
potuto determinare le varie zone [è quindi ovvia la loro provvisorietà tanto che]…
la determinazione definitiva dei compartimenti economici e statistici non potrà
essere condotta a termine se non quando gli studi topografici, meteorologici ed
agronomici non saranno meglio avviati”.
Nonostante questo ribadire la loro provvisorietà, Pietro Maestri è convinto della loro bontà
tanto che subito dopo afferma che col passare del tempo ed il mutare delle condizioni
economiche sono le province che dovranno essere riorganizzate e ridisegnate e non i
Compartimenti che, in questo caso, potrebbero avere anche una funzione politica:
“L’accorciamento delle distanze, cui si dee giungere per mezzo delle ferrovie potrà
forse persuadere più tardi il legislatore a diminuire il numero delle Provincie,
assegnando a ciascuna una distesa di superficie maggiore dell’attuale. Nel qual
caso le circoscrizioni, che noi consigliamo come una opportunità statistica,
potrebbero essere forse utilmente meditate dal punto di vista della convenienza
politica e amministrativa, anche perché di questa guisa l’Italia finirebbe
coll’adagiarsi in un’omogenea e proporzionata ripartizione di superficie e
popolazione, la quale, nella moltiplicità delle parti, anziché offendere, rispetterebbe
e conserverebbe l’integrità del territorio nazionale. La Patria nostra infatti uscirebbe
da siffatto rimaneggiamento di circoscrizioni migliorata nella sua membratura,
emendata quasi dall’imperfezione dell’eccessiva lunghezza, e quasi direbbesi
arrotondata, con regioni che si verrebbero raggruppando intorno a Roma, antico
suo centro naturale e tradizionale”356.
Tre anni dopo, nel 1867, pubblica per l’Esposizione Universale di Parigi un interessante
volume sull’economia italiana: una pubblicazione voluta dalla Commissione Nazionale per
l’Esposizione per presentare ufficialmente l’economia del nuovo Regno357. Commissione che, è
bene ricordare, era una emanazione diretta del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio
da cui dipendeva l’Ufficio Centrale di Statistica diretto da Piero Maestri. Nelle prime pagine di
questo volume, che doveva presentare i traguardi raggiunti dal nuovo Stato in campo
economico, egli tratteggia delle nozioni geografiche dell’Italia con un paragrafo sulle “tradition
et aspect des diverses régions” dove ciascuna Regione viene definita come una precisa unità
sia dal punto di vista fisico sia da quello umano:
“la Région, c’est-à-dire une grande subdivision du territoire italien, qui, par son
aspect naturel, diffère des autres, et qui depuis longtemps habitée par la même
race. Les grandes régions que présente l’Italie, considérée dans sa physionomie
physique, historique, statistique et économique, sont au nombre de 20; savoir le
Piémont, la Ligurie, la Lombardie, la Vénétie, l’Emilie, l’Ombrie, les Marches, la
Toscane, les Abruces et Molise, la Campanie, les Pouilles, la Basilicate, les
Calabres, la Sicile, la Sardaigne, le Latium, la Rhétie, les vallées Juliennes et
l’Istrie, la Corse et Malte. Chacune de ces régions a pour ainsi dire un horizon qui
lui est propre. Chacune a visiblement un trait d’affinité avec les régions sœurs,
auxquelles elle se relie. Chaque région a tellement son caractère que… vous
pourrez dire le nom du pays écrit sur les montagnes ou dans le cours des eaux.
Chaque région naturelle coïncide en grande partie avec l’une des divisions
356
Le citazioni sono tutte tratte da P.Maestri, 1864b, pp.VI-VII. Un più facile reperimento di queste, riportate per intero,
si può trovare in ISTAT (n.d., pp.62-65) e in O.Marinelli (1923, nella nota 2 di pp.840-841) che ne riporta un
amplissimo stralcio.
357
Che giustamente M.Carazzi (1972, p.4) definisce “il primo tentativo di descrizione complessiva del giovane Regno”.
128
historiques de l’Italie, avec un des centres intellectuels et économiques du pays”
(P.Maestri, 1867, p.7 )358.
L’anno seguente nell’edizione italiana359 riporta in modo un po’ più articolato la descrizione
delle Regioni che definisce in diciotto non citando la Corsica e Malta. Ha ormai abbandonato i
Compartimenti Statistici e per suddividere il territorio del Regno si avvale sempre del termine
Regione intendendo così come i due termini siano perfettamente equivalenti360:
8.6.3. - La decisiva accettazione “dell’uso statistico” della partizione regionale di
Piero Maestri.
Il superamento dell’ambiguità avviene nel 1912, quando La Direzione Generale di
Statistica361 adotta definitivamente il termine Regione per indicare in tutte le sue pubblicazioni
quei “raggruppamenti di province” individuati e definiti in precedenza da Piero Maestri362.
L’accettazione ufficiale, netta e precisa, avviene nell’Annuario Statistico Italiano del 1912
nella cui prima tabella viene riportata una nota un cui si afferma:
“Le Regioni sono circoscrizioni che non hanno alcun carattere legale: corrispondono
generalmente alle antiche divisioni politiche d’Italia o si riattaccano a tradizioni
storiche. Nelle pubblicazioni statistiche esse vengono di solito chiamate
‘Compartimenti’, e con tale denominazione furono anche indicate, il più delle volte,
negli Annuari statistici precedenti. In questo abbiamo creduto conveniente
attenerci costantemente alla denominazione di ‘Regione’ allorché non trattasi di
circoscrizioni compartimentali propriamente dette, quali, ad esempio, i
Compartimenti ferroviari, telegrafici, telefonici, marittimi, catastali, ecc.” (ISTAT,
1913, p.11).
Come si vede, da questo momento, le Regioni italiane entrano definitivamente, anche se
dalla porta di servizio in sordina con tutte le cautele possibili e solo dal punto di vista operativo
statistico, nella vita dello Stato. Da quel momento, e fino a quello del 1917/1918, tutti gli
Annuari Statistici Italiani riporteranno sia la nota sia la divisione in Regioni.
In questo modo quella divisione territoriale divenne di uso comune tanto che al Congresso
Geografico Italiano del 1924 Olinto Marinelli ne consacra l’accettazione anche da parte dei
geografi:
358
Queste venti regioni comprendono quelle sedici del Regno d’Italia mentre le ultime quattro “la Rhétie, les vallées
Juliennes et l’Istrie, la Corse et Malte” sono quelle non ancora redente.
359
G.Sacchi (1871, p.83) afferma: “L’esito di quell’opera fu tale e tanto, che dovette l’autore farne tosto un’edizione
italiana…”. L’iniziativa dell’Italie Economique continuò, in effetti, negli anni successivi con degli annuari dal titolo
l’Italia Economica nel… che firmò fino a quello relativo al 1870 stampato nel 1871, anno della sua morte, e che in
seguito vennero continuati dal suo successore L.Bodio.
360
Il primo fra i geografi a parlare della relazione tra Compartimenti Statistici e Regioni è stato O.Marinelli (1923;
1925) L’analisi di O.Marinelli è stata rivista da A.Sestini (1949), seguita, una diecina d’anni dopo da B.Nice (1958).
Una approfondita ripresa, con valutazioni politiche, ne fa L.Gambi (1964) nei primi anni del dibattito regionalistico
italiano del secondo dopoguerra; valutazioni riprese da F.Compagna (1968, pp.86-108) ed approfondite da C. Muscarà
(1968). Sul significato e valore dei Compartimenti Statistici si veda anche S.Patriarca (1996, pp.176-209).
361
Tale era allora il nome dell’attuale ISTAT.
362
Per quanto riguarda i censimenti: nel 1871 (effettuato pochi mesi dopo la morte di P.Maestri) in alcune tabelle
appare la suddivisione dell’Italia per Compartimenti; in quello del 1881 la suddivisione è eliminata per riapparire in
quelli del 1901 (nel riepilogo) e del 1911 (nelle tabelle riassuntive); nel 1921 e nel 1936, durante il ventennio, le
province vengono raggruppate nei Compartimenti; dal 1951 in poi i Compartimenti sono definitivamente sostituiti con
le Regioni.
129
“Nel 1863 Pietro Maestri introdusse nell’uso della statistica ufficiale, e quindi poi dei
geografi, quegli aggruppamenti delle provincie del Regno, che si dissero per un
pezzo compartimenti poi, più modernamente, regioni” (O.Marinelli, 1925, p.252,
corsivo dell’autore) 363.
Lo stesso Roberto Almagià nel 1933 sull’Enciclopedia Treccani alla voce Italia afferma
acriticamente: “la divisione attuale, ufficiale, dell’Italia in regioni o compartimenti” (AA.VV,
1933, p.738). Una accettazione questa, fatta da Olinto Marinelli e Roberto Almagià due
importanti ed ascoltati maestri della geografia italiana, così, probabilmente anche per questo il
termine divenne così di uso comune che lo studio delle Regioni entrò da allora in tutti i
programmi ed i testi di Geografia in uso nelle varie scuole. Inoltre questa suddivisione venne
consacrata come simbolo del Paese tanto che nelle varie aule delle scuole di ogni ordine e
grado sulla parete alle spalle della cattedra e quindi di fronte agli alunni era quasi sempre
presente la carta geografica dell’Italia divisa nelle sue Regioni.
Anche dal punto di vista politico la questione regionale permeò il dibattito dalla fine
dell’Ottocento all’avvento del Fascismo364. In ogni caso la divisione del Paese in Regioni, dato il
pericolo di una deriva verso forme più o meno mascherate di decentramento, non riuscì mai a
concretizzarsi rimanendo costantemente allo stadio di discussione. Nella sostanza prevalse
sempre la necessità di un forte potere centrale che potesse far fronte ai contrasti fra le varie
parti e forze economico-politiche della penisola.
Data la particolare concezione che il regime fascista aveva dello Stato il suo atteggiamento
nei confronti del problema regionale non poteva che essere negativo. Questo sia per il grande
pericolo che poteva portare all’unità sia, e principalmente, per rafforzare la posizione del
partito appena salito al potere365. Lo stesso Giacomo Acerbo nel suo discorso sul primo anno di
governo del Fascismo definisce chiaramente come il principio unitario debba prevalere sulla
concezione regionalista: qualsiasi forma di regionalismo sarebbe contrastante con uno “Stato
Nazionale forte nello spirito e nel corpo”366. Per questo l’ISTAT fa sparire il termine Regione367
dalle sue pubblicazioni: mantiene però la ripartizione regionale attribuendovi la denominazione
più neutra di Compartimento, così come aveva fatto Piero Maestri in condizioni analoghe
sessant’anni prima.
363
O.Marinelli fa poi approvare dallo stesso Congresso Geografico Italiano (Vol.I, p.261) un Ordine del Giorno in cui si
afferma “Il IX Congresso Geografico Italiano, mentre plaude all’iniziativa del Comitato Geografico di avviare la
considerazione geografica dell’intero problema della divisione dell’Italia in regioni e ciascuna di queste in provincie…”
ma, probabilmente non se ne fece nulla; non ne ho trovato mai nessuna traccia.
364
Non è qui il caso di ripercorrere i vari interventi e prese di posizione. Per un approfondimento su questa tematica si
veda l’accenno che ne fa E.Ragionieri (pp.1668-2483), l’interessante lavoro di R.Ruffilli (1971) ed il dossier raccolto da
E.Santarelli (1970).
365
Si veda R.Ruffilli (1971, pp.389-400) e M.Monaco (s.d., pp.62-64). Da notare che nello stesso periodo il termine
Regione sparisce anche dagli Annuari di Statistica dove viene sostituito con il termine neutro di Compartimenti.
366
Il discorso di G.Acerbo è molto semplice: l’istituzione della Regione sarebbe una iattura perché “potrebbe condurre
alla disgregazione, prima dell’unità morale, poi di quella territoriale della Patria, con tanti sforzi e sacrifici raggiunta. Il
governo nazionale, informato ai principi essenzialmente unitari, la cui finalità ultima è quella dello Stato forte nello
spirito e nel corpo, non può aderire ad alcuna forma di ordinamento politico-amministrativo che costituisca un pericolo
o una minaccia della composizione politica dello Stato” (Acerbo, 1923, p.25-26).
367
Come nota S.Ardy (1948, p.209) “l’Istituto Centrale di Statistica era tornato per ordine superiore a chiamarle
compartimenti”.
130
8.6.4. – La definitiva accettazione delle Regioni.
Finita la Seconda Guerra Mondiale, con la redazione della Costituzione, viene pienamente
accettata la partizione dello Stato nelle Regioni e l’art. 131 recita:
“Sono costituite le seguenti regioni: Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia; TrentinoAlto Adige; Veneto; Friuli-Venezia Giulia; Liguria; Emilia-Romagna; Toscana;
Umbria; Marche; Lazio; Abruzzi; Molise; Campania; Puglia; Basilicata; Calabria;
Sicilia; Sardegna”368.
Questa partizione scaturì da una lunga discussione in seno al “Comitato per le Autonomie
Locali”, composto da dieci deputati e presieduto dall’On. Ambrosini, che aveva il compito di
definire “l’affidamento dell’ordinamento regionale”369. Lo scopo principale di questo Comitato fu
appunto quello di impostare la soluzione di due ordini di problemi: uno relativo ai poteri da
attribuire al nuovo ente territoriale e l’altro, ben più importante per noi, riguardava la precisa
delimitazione dei suoi confini.
Nella prima relazione, di carattere generale, presentata alla Seconda Sottocommissione370
l’on. Ambrosini, relatore per il Comitato, dà per scontato il riferimento al “criterio storico” e la
questione del territorio regionale, cioè la concreta possibilità di identificare le singole regioni e
di conseguenza poterle “istituire”, viene quasi esclusivamente vista come una precisa esigenza
di dare un’identità politico-istituzionale alle tradizionali comunità territoriali della realtà storicogeografica italiana371. In effetti, lo Stato con la Costituzione non poteva creare le Regioni ma
solo riconoscere l’esistenza articolandone i poteri. L’on. Mannironi esplicitamente afferma:
“Qualcuno ha parlato di creazione della Regione. È un termine erroneo: lo Stato, la
legge, non crea la Regione, la riconosce, perché le Regioni esistono come realtà
economiche, storiche, geografiche, linguistiche ecc.” (Camera dei Deputati, vol.VII,
p.846).
Prima di arrivare all’Assemblea Costituente il nuovo progetto venne discusso nell’assemblea
plenaria della Commissione dei 75 nella quale l’on. Einaudi fa un interessante richiamo in cui
precisa cosa si debba intendere per “tradizionale ripartizione geografica dell’Italia” affermando
come effettivamente questa tradizione si rifà esclusivamente ad una “tradizione puramente
statistica”:
368
L’art. 1 della legge costituzionale 27 dicembre 1963 n.3, ha modificato il numero delle regioni, portandolo dalle
originarie 19 alle attuali 20, scindendo il Molise dagli Abruzzi, prima considerati assieme come “Abruzzi e Molise”.
369
Per redigere il Progetto della Costituzione l’Assemblea Costituente (formata da 556 eletti) nominò tra i suoi membri
una speciale commissione, composta da 75 membri (la Commissione dei 75). Questa si suddivise in tre
sottocommissioni. La seconda di queste, che doveva discutere dell’ordinamento costituzionale, vista la mole e la
complessità dei problemi, si suddivise in due sezioni la prima delle quali, relativa al potere esecutivo, operò una
ulteriore suddivisione con l’affidamento dell’ordinamento regionale ad un Comitato Ristretto di dieci membri
(Ambrosini G., 1975, p.XVI).
370
Dell’attività del comitato per le autonomie locali non venne redatto nessun processo verbale per cui occorre rifarsi
alle discussioni nell’ambito sia della Seconda Sottocommissione sia della Commissione dei 75.
371
Su questo si veda l’interessante analisi che ne fa M.Pedrazza Gorliero (1979, pp.14-27). Anche G.P.Dolso (1999,
p.20) nota come “le regioni, pur essendo, dal punto di vista strettamente giuridico, estranee all’ordinamento dello Stato
italiano, appartenevano sicuramente alla radicata tradizione storico e geografica del Paese”.
131
“dal 1860 in poi le regioni non sono esistite, se non negli annuari statistici, ma non
hanno mai avuto alcun significato giuridico” (Camera dei Deputati, vol.VI, pp.285286).
Si
arriva
poi,
dopo
lunghe
discussioni,
all’approvazione
dell’art.131
Costituzione in cui sono elencate le Regioni, così come le abbiamo ora
372
della
nostra
ma che corrispondono
alle Regioni/Dipartimenti così come le aveva pensate e disegnate Piero Maestri.
Fonte: F.Compagna, 1968, p.106.
Solo vent’anni dopo nel 1968, in piena discussione sull’attuazione dell’ordinamento
regionale, esce un importante lavoro di Francesco Compagna che, primo e ultimo, propone una
nuova riorganizzazione delle Regioni Italiane portandole da 20 a 13 mediante l’annessione al
Veneto del Friuli-Venezia Giulia e della Provincia di Trento, lo smembramento e l’annessione ad
altre della Liguria, Umbria, Basilicata e Molise mentre La Valle d’Aosta e la Provincia di Bolzano
potrebbero, se non proprio fondersi, almeno consorziarsi con il Piemonte e con il Veneto. In
modo tale che la ripartizione regionale italiana possa risultare:
“conforme alle esigenze della politica di piano, e tale da rendere le regioni italiane
altrettanto funzionali delle “grandi” regioni europee” (Compagna, 1968, p.105).
Una riorganizzazione questa che riceve il plauso solo da Calogero Muscarà e da Pasquale
Saraceno ma che rimane solo “sulla carta” qui riportata373.
372
Occorre però tener presente che l’art. 1 della legge costituzionale 27 dicembre 1963 n.3, ha modificato il numero
delle regioni, portandolo dalle originarie 19 alle attuali 20, scindendo il Molise dagli Abruzzi, prima considerati
assieme.
132
8.6.5. – Conclusioni.
Piero Maestri aveva in mente le Regioni quali strumenti del decentramento amministrativo
ma, bocciata dal parlamento quella idea, propose i Compartimenti come utensile di
configurazione statistica di un territorio374. Per il suo pensiero i Compartimenti –legati alla
statistica– e le Regioni –legate al decentramento– coincidevano. Ne fa fede anche l’ambiguità
che egli fa del loro utilizzo quando passa dall’uno all’altra per designare sempre lo stesso
concetto: una suddivisione del territorio nazionale. In questo modo è attraverso la neutralità
d’uso del mero “utensile” statistico che la suddivisione territoriale delle Regioni amministrative
(uguali a quelle attuali e non altre) viene mantenuta viva e vitale e quando si tratterà di
dividere effettivamente l’Italia in Regioni, durante i dibattiti della Commissione di 75 e le
discussioni all’Assemblea Costituente, è a quelle che si fa riferimento.
L’idea di Piero Maestri fu così forte che i suoi Compartimenti/Regioni, passando indenni
attraverso i vari mutamenti politici intervenuti in Italia, furono tranquillamente trasformati
nelle attuali regioni amministrative italiane. Fu certamente merito anche della loro tacita
accettazione “da parte degli stessi geografi, come degli statistici, della scuola, del pubblico in
genere, e la rapida diffusione nei libri e nelle carte”375 ma è certo che non furono una banale
improvvisazione statistica.
Furono disegnate, nella loro forma attuale, nella seconda metà del 1800, un’epoca in cui la
mobilità delle persone cominciava a passare dalla carrozza alla ferrovia: forse, continuando
l’idea di Francesco Compagna, sarebbe ora di ridisegnarle, di dar loro nuovi confini, di dar loro
una dimensione europea.
373
Per C.Muscarà si veda il volume (1968) alle pp.163-184; mentre P.Saraceno in un intervento su la “Voce
Repubblicana” afferma “e la regione, nelle nuove dimensioni, nei diversi confini che, avverte Compagna, la odierna
realtà impone ma che vanno ancora accertati, costituisce l’unità elementare, elementare, vorrei dire il modo di
esperienza più vitale su cui può essere fondato il nuovo tipo di azione pubblica che oggi urgentemente si impone”
(quest’intervento è stato ripreso poi in un volume del 1970, la citazione è alle pp.487-488)374
Si usano qui i termini utensile e strumento nell’accezione che ne fa A.Koyré, 1967, pp.101-111 si veda in particolare
la sua definizione di strumento a p.106.
375
A.Sestini, 1949, p.132. Circa l’accettazione da parte dei geografi, oltre all’affermazione di O.Marinelli ricordata
prima, R.Almagià nel 1933 sull’Enciclopedia Treccani alla voce Italia afferma “la divisione attuale, ufficiale, dell’Italia
in regioni o compartimenti” (AA.VV, 1933, p.738);
133
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