Andrea Viliani (curatore al MAMbo) e Gino Gianuizzi

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Andrea Viliani (curatore al MAMbo) e Gino Gianuizzi
"through time & today" un progetto di collaborazione di Nico Dockx e Helena Sidiropoulos
con Elisa Del Prete, Andrea Viliani e Gino Giannuizzi
per il programma di residenza a Nosadella.due - Bologna - Ott/Dic 2007
Un'esperienza di collaborazione
di Elisa Del Prete
Alla tavola rotonda del 13 dicembre (il primo di una serie di appuntamenti di Nosadella.due ospitati
dal MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna - per presentare gli artisti in residenza) Cecilia
Canziani, uno degli ospiti invitati, ha citato Griselda Pollock come esemplare punto di snodo per un
nuovo approccio alla storia dell’arte che si sta delineando negli ultimi decenni. Approccio che parte,
diceva Cecilia, da un’azione di “svuotamento” di se stessi e della propria esperienza in favore di
uno spazio dedicato all’ascolto di quella degli altri, dove gli altri sono sostanzialmente il pubblico e
dove di questo è parte anche il critico stesso. Abbandonata una certa pratica illustrativa, la critica si
apre al discorso. Si parlava, dunque, in quell’occasione, tra le molte cose di cui si è parlato – dal
ruolo del museo per un artista come Nico Dockx, tema dibattuto da Andrea Viliani, al processo di
ricodificazione attraverso il field recording affrontato da Andrea Lissoni – dell’importanza del
momento della ricezione del lavoro dell’artista. Proprio da Lissoni veniva la riflessione su quel
momento, quello in cui l’esperienza del pubblico subentra e si sovrappone a quella dell’artista, su
come una nuova memoria, quindi un’altra e un’altra ancora, vadano a stratificarsi su quella
originaria.
Ecco, di “memoria” si stava appunto parlando. La memoria che è alla base dell’impulso
all’archiviazione in quanto raccolta di dati che intercorrono in un’esperienza, di informazioni che
provengono dal nostro percepire come da prospettive diverse, “di una propria memoria che è fatta
anche della storia degli altri” (Flavio Favelli, dalla stessa tavola rotonda).
Anche l’accenno fatto durante la discussione all’estetica relazionale come tendenza attuale del
sapere artistico ad un’interazione umana reale e diretta e ad una contestualizzazione sociale di ogni
progetto artistico nel presente, seguiva la stessa direttrice. Quell’accenno era in realtà un pretesto
per illustrare un sistema di rete nascente in città, a Bologna, tra strutture con intenti differenti in
grado di operare in modo complementare per la produzione artistica. L’estetica relazionale non era
certo il punto della nostra discussione ma si prestava bene a giustificare un orientamento
convergente di strutture pubbliche e private dedite in vario modo alla produzione di arte e, quindi di
cultura.
Ma di quali strutture si stava parlando al MAMbo? A Bologna, alla fine del settimo anno del nuovo
millennio, e del primo della nuova sede del museo d’arte moderna come dell’attività della prima
residenza per artisti in città?
Proprio di queste due: di un museo pubblico, il MAMbo, e di una residenza privata per artisti e
critici, Nosadella.due.
Eccoli per la prima volta a contatto, miscelare e condividere spazi di lavoro e idee.
La collaborazione si fa poi promiscua col coinvolgimento, da parte del MAMbo stesso, di
un’ulteriore struttura, neon>campobase, storica piattaforma bolognese di sperimentazione artistica.
Denominatore comune, l’artista e il suo lavoro: Nico Docxk – invitato da MAMbo per il
programma di residenza nella persona di Andrea Viliani, curatore del museo, con cui Docks aveva
già lavorato nel 2006 – stava già lavorando ad un progetto per neon>campobase, successivo alla
mostra Day by day by day realizzata nel 2003. La residenza a Bologna offriva allora un elemento
integrante per la realizzazione del progetto: Nosadella.due ospita, nel 2007, il periodo di ricerca di
Dockx che, a gennaio 2008, espone nella doppia personale tra neon>campobase e la stessa
Nosadella.due.
Altro denominatore comune la città, Bologna, i suoi cambiamenti e, dunque, il tempo e le sue attuali
trasformazioni.
La collaborazione tra Nosadella.due, MAMbo e neon>campobase, significa, per Bologna, non solo
dar vita ad una rete a sostegno della produzione artistica, ma anche trovarsi uniti nel permetterne
una fruizione più consapevole da parte del pubblico. Come, infatti, una struttura museale che non
può svolgere l’attività di ricerca di uno spazio-laboratorio come neon>campobase dovrebbe
volgervi costantemente lo sguardo e, al tempo stesso, dovrebbe poter appoggiarsi e trarre forza dalla
presenza in città di un programma di residenza che funge da vetrina oltre che da supporto all’attività
stessa degli artisti, quest’ultima deve poter contare su una programmazione indipendente di uno
spazio espositivo come neon>campobase e sulla legittimazione istituzionale di MAMbo.
Non credendo io alla casualità degli accadimenti, né tanto meno a quella dell’intreccio delle
relazioni, tra soggetto e soggetto, come tra soggetto e mondo, sedotta invece dal vedere come ogni
relazione che si innesca naturalmente all’interno di un contesto preciso, è decisivo ai fini di una
certa determinazione, ho associato immediatamente il riferimento di Cecilia a Griselda Pollock alla
definizione di “contesto” dell’autrice come “motore”, motore in grado di far funzionare meccanismi
che a loro volta determinano certi esiti.
Nosadella.due agisce proprio come motore di attivazione, per generare idee, liberare energia e
produrre, appunto, attività. Assecondando l’inclinazione alla “socievolezza” della pratica curatoriale
più recente, Nosadella.due vuole dar vita ad una piattaforma di discussione attraverso l’attivazione
del pubblico, ovvero la sua trasformazione in una comunità che, in un certo momento metta in atto
un discorso comune volto a far circolare idee.
Prendendo a prestito una terminologia ormai diffusa, Nosadella.due è una “stazione” di passaggio in
cui arrivano e partono idee. Ogni artista o persona che vi circola lascia e porta via qualcosa. Ogni
lavoro che ne esce, che viene prodotto, parla del contesto in cui si è realizzato, lo ingloba al suo
interno.
Sono annoiata dei contenitori neutri. Sono infastidita dal vedere opere d’arte chiuse in se stesse che
non dialogano con le altre e col mondo che le circonda.
Cerco qualcosa che generi partecipazione, possibilità di scambio.
La casa, il quotidiano, il domestico è un buon punto di partenza. Vi si concentrano, spesso vi si
ammassano, le persone, viene loro richiesto del tempo, un momento di socializzazione e
condivisione, poi si lascia che si disperdano.
E’ un orientamento che trova sostegno e origine, banalmente, in importanti esperienze e
piattaforme come quella di Enwezor a Kassel nel 2002 o alla Biennale berlinese del 2004…
Un struttura dinamica, in dialogo con la città e l’esterno. Questa deve essere Nosadella.due a
Bologna. Un centro di collaborazione o, meglio, come direbbe Gino, di condivisione…1
Quando Andrea Viliani ha invitato per il programma di residenza Nico Dockx, l’artista si è fatto
motore di avviamento di questa condivisione.
Contro ogni autorialità l’artista lavora per collaborazioni e, ancora una volta, tradisce le aspettative
di Andrea quando, chiamato a Bologna dal museo per la seconda volta, Nico Dockx risponde
ancora una volta “a più voci”.
“…my work for most of the time deals with collaborations so one person will join me for the
work…”2
Dunque un’altra persona condividerà il lavoro con te? Chi?
Helena Sidiropoulos, scrittrice e artista da Anversa.
Si tratta di una pubblicazione…a partire da “through time & today”, un progetto in corso dal 1998,
una pubblicazione a quattro mani.
1
2
“Gino”, citato anche in seguito, è Gino Gianuizzi, responsabile dello spazio non profit Neon>Campobase di Bologna.
Corrispondenza email tra Nico Dockx ed Elisa Del Prete, 19.07.2007.
A luglio 2007 inizia a prendere forma l’idea di come attivare a Bologna through time & today, una
doppia mostra personale di Nico Dockx per la città di Bologna. Si parla via email di un archivio di
immagini e altro, che è in continua evoluzione ormai da dieci anni, un archivio personale che,
scoprirò dopo, è “un archivio vivente, l’archivio del presente, da essere usato nel presente”, un
archivio che non troverà mai una soluzione, ma che nasce per svilupparsi e trasformarsi nel tempo,
per mettere in dubbio ogni volta la condizione, la forma, lo stato definitivi dei suoi dati.3
neon>campobase accoglie l’immagine, Nosadella.due è il luogo di ricerca. La ricerca inizia il 22
ottobre, quando arrivano Nico e Helena.
In meno di un’ora il loro “studio portatile” è attivo. Serve solo un tavolo, elettricità e connessione di
rete. Si sono portati una scatola dall’archivio. Non importano i contenuti, è un pezzo si storia
personale, destinata a trasformarsi rispetto al contesto in cui si trova. Sul tavolo si spargono fogli,
foto, ricevute, depliant, messaggi, mail, piccoli oggetti, e la loro esistenza assume senso rispetto
all’ambiente in cui si trovano. Ad essi si somma il luogo e la sua storia, i dati si moltiplicano e si
arricchiscono di quelli mancanti. Il trasporto, nel tempo e nello spazio, lo permette. In residenza, tra
le mura di uno studio, come tra quelle di una cucina, prende forma il lavoro. Parlo di lavoro e non di
opera perché, se l’opera è fine a se stessa, il lavoro sottintende un processo privo di conclusione,
sempre in evoluzione: il lavoro dei due artisti esiste attraverso la relazione con il mondo che li
circonda, attraverso gli accadimenti che ne determinano un certo orientamento e la messa in gioco
di altri punti di vista che si sommano ai loro.
Ogni volta che un artista vive la casa, la sede della residenza, in via Nosadella al numero 2, questa
svela nuove possibilità. Lo spazio cambia a seconda delle persone che vi entrano, si allarga, si
restringe, ridispone i suoi ambienti.
Un palcoscenico! Potremmo far salire Douglas su quel palco. Un palcoscenico? Non c’è mai stato
un palcoscenico a Nosadella.due. Ma sì, c’è una luce che illumina un campo di scena, lì, è perfetto
per circoscrivere l’azione di Douglas. Già, devo liberarmi di quella cassa, devo procedere con la
spedizione, o finirà male. Non è un palcoscenico!
No?! Allora il corridoio andrà benissimo.
Douglas Park è davvero un personaggio. Tu l’hai già conosciuto Gino? Sì.
E’ fantastico. E’ un’ulteriore lettura, quella di Douglas, che leggerà il testo finale, tutto il lavoro mi
pare sia bellissimo. E noi daremo vita al “documento mancante”. Il documento mancante? Sì,
dell’archivio, di quella scatola: Nico traduce, Helena interpreta, a noi la lettura mancante. Sono
livelli di indagine dei dati. Una doppia lettura, poi quella di Douglas, e il pubblico ne fornirà altre.
L’impulso all’archiviazione non è dunque finalizzato alla preservazione dei dati raccolti. Tutt’altro.
Ogni dato viene alla fine distrutto e la destinazione di ognuno non è mai scontata.
Il libro, talvolta la destinazione è un libro, una narrazione scritta, un testo, che è però oggetto di
lettura e interpretazione da parte di altri punti di vista, quelli dei lettori. È oggetto in grado di
generare altre prospettive da condividere, altre informazioni per l’archivio. Non è l’oggetto ad
essere importante bensì il tutto che vi viene raccolto. Esso riunisce numerosi pezzi indipendenti
sotto un’unica forma, li trasforma, nel tempo.
Ai dati di partenza si aggiungono nuovi pensieri, comunicazioni, fotografie, scambi di idee,
ambienti, immagini, episodi, interpretazioni. Tutto avviene a Nosadella.due, dove ogni elemento
sprigiona la propria potenzialità nel corso del tempo di permanenza.
Il tempo detta i cambiamenti. Il tempo trasforma il nostro sguardo sulle cose, la relazione tra un
soggetto e un altro, tra un soggetto e uno spazio, tra un soggetto e un oggetto, tra un soggetto e un
ricordo, tra un soggetto e il mondo. Il tempo genera un processo cognitivo di trasformazione.
3
Da un appunto di Nico Dockx a Nosadella.due, dicembre 2007: “a living archive, the archive of the present to be used
in the present”.
Ancora una volta la mia percezione è alterata. Gli spazi e la storia di Nosadella.due sono
nuovamente interpretati e trasformati. Si sovrappongono immaginari.
Pensavamo ad un’architettura luminosa che disegni lo spazio. Un neon, una luce, che percorra in
qualche modo il suo perimetro…Dentro, dunque? All’interno di una stanza? Quale?
Non sappiamo ancora. Cosa farà Andreas?
Cosa farai Andreas? Ancora ipotesi, di certo il buio. Solo una piccola lampadina.4
…
Un’insegna. Un grande neon, che è poi una scritta, un capitolo del racconto.
Fuori? Sì, fra le due finestre della nostra camera, ad angolo.
Dieci metri di neon! Appeso fuori!?
Che significato ha questo graffito di luce? E’ lo scarabocchio di un bambino trovato su un pezzo di
carta nella scatola.
Il colore è rosso, rosso “pasta”. Deve essere visto da lontano, è un’insegna, un richiamo.
…
Ancora una volta un neon esterno, un’insegna…un’occasione di contatto con la città, una pagina
offerta alla lettura. Anche l’anno scorso ce ne fu uno, proprio sul portone d’ingresso.
Il tempo dell’archivio si origina dunque da più tempi. Il passato non si esaurisce in se stesso, bensì
volge verso un futuro potenziale, trasformandosi attraverso la condivisione e la messa in gioco delle
sue possibilità.
****
Niente di più che tracce di un’esperienza di lavoro che deve ancora registrarsi, queste parole si
depositano come tassello di una memoria che si completa di quella delle altre persone che vi hanno
contribuito.
Consapevole dei limiti di ogni testo e felice che, nello specifico, proprio questo, possa essere non
più che una risposta, assolutamente necessaria, alla documentazione poliedrica di un progetto che
ha avuto origine in un contesto dal quale non può prescindere, lo concludo riallacciandomi al suo
inizio affinché proprio da una conclusione che non vuole esser mai tale, possano germogliare altre
considerazioni.
Rievoco allora la presenza di Griselda Pollock, da una recente intervista per “Il Manifesto” in cui la
storica dell’arte fa emergere un nuovo punto nodale della questione critica attuale rispetto ad una
lettura univoca della storia dell’arte, ovvero la necessità della presa di coscienza di un processo di
trasformazione che, in quanto processo cognitivo, sospenda, anche nella critica come nell’arte, ogni
possibilità di recinzione ad un unico punto di vista:
“Non possiamo creare una «master narrative» ma dobbiamo renderci conto che siamo
costantemente impegnati a ripensare il passato, a rivederlo mentre siamo modificati dal nostro
presente, dalle nostre storie e dallo sviluppo di nuovi pensieri che queste storie producono.”5
4
Andreas Golinski è l’altro artista in residenza a Nosadella.due insieme a Nico Dockx tra ottobre e dicembre 2007. I
due artisti condividono gli spazi di Nosadella.due per la mostra finale del programma di residenza, “Blackout”, 25
gennaio – 23 febbraio 2007.
5
Da un’intervista di Arianna di Genova a Griselda Pollock uscita per “Il Manifesto”, 15.06.2007.
di Andrea Viliani
La GAM – Galleria d’Arte Moderna di Bologna ha chiuso al pubblico l’11 marzo 2007. Il MAMbo
– Museo d’Arte Moderna di Bologna è stato inaugurato circa due mesi dopo, il 5 maggio 2007.
Lavoro al MAMbo dal settembre 2005, quando vi sono stato nominato Curatore.
*
L’adozione – in merito all’organizzazione del nuovo museo, ai suoi meccanismi di finanziamento,
alla sua programmazione, alle sua strategie di marketing e di comunicazione – di soluzioni di
“compromesso” è stata ritenuta negli anni che hanno preceduto la sua apertura una scelta inevitabile
e quindi, anche se non unanimemente, accolta. In un contesto privo di altri soggetti che forniscano
un servizio analogo e che si pongano quindi in “competizione” – MAMbo è l’unico museo di arte
contemporanea operante nella città di Bologna – il nuovo museo si è innanzitutto reso disponibile a
rappresentare la pluralità degli interessi culturali di un’intera comunità civica, cioè a rivestire, di
fatto, “più di un ruolo”.
Questa “pluralità” del museo – almeno a livello locale –, e quindi questo input alla collaborazione è
stata ritenuta, come ho detto, inevitabile da parte del Consiglio di Amministrazione e della
Direzione del museo, sebbene essa rappresenti un’ opportunità e, contemporaneamente, un rischio.
Da un lato essa rischia infatti di privare l’istituzione MAMbo di quella “personalità” unica e
unitaria (ciò che nel marketing si definisce “unique selling proposition”, quello che differenzia il
tuo prodotto dagli altri), la cui assenza renderebbe di conseguenza il museo meno riconoscibile
nella competizione con le altre forme di intrattenimento culturale disponibili, cioè meno
affascinante, meno soddisfacente rispetto, per esempio, alla performance di un bravo attore o a un
nuovo CD, un nuovo romanzo, la sua presa (onirica) sul pubblico più sfumata, la sua stessa
presenza (sullo sfondo delle nostre decisioni quotidiane) meno necessaria. Dall’altro, però, questa
stessa offerta diffusa può far fronte all’esigenza (reale) di un consumo e di una produzione culturale
estesi e alle loro espressioni mainstream che trascendono ormai i limiti fisici e simbolici del museo
tradizionale: il che permette al museo di entrare a contatto con circuiti e sfere d’azione che
altrimenti gli rimarrebbero estranei, di penetrare nella più ampia circolazione (del desiderio
collettivo) e di farsene, se ne sarà in grado, ricettore e generatore fino a promuovere e verificare, a
partire da questo incontro, paradigmi estetici e cognitivi, personalità artistiche, critiche e
istituzionali ibridi. In questo senso MAMbo si trova, come tanti altri musei contemporanei del
resto, di fronte al rischio (opportunità) di non essere più “solo un museo”.
Del resto, in un contesto quale quello italiano, la conoscenza stessa di cosa sia il “museo
contemporaneo” è ancora poco diffusa, certo dibattuta ma poco esperita nella realtà dei fatti: sono
ancora troppo pochi i musei d’arte contemporanea, spesso dotati di strutture e investimenti troppo
limitati o discontinui per poter collocare questi soggetti su un piano propriamente istituzionale e con
una reale capacità di aggiornamento e penetrazione nel contesto internazionale. Il MAMbo, che
ambisce invece, nell’ambito di quelle scelte di compromesso di cui parlavo all’inizio, ad essere un
museo radicato sul territorio locale e, allo stesso tempo, fra i principali musei italiani, si è ritrovato,
inevitabilmente quanto prematuramente, a ricoprire un ruolo di catalizzatore di modalità operative
“istituzionali”.
Ciò che avrebbe comunque reso inevitabile per un museo come MAMbo assumersi questo ruolo
deriva anche dal fatto che, nel contesto in cui opera, non solo ci sono pochi musei d’arte
contemporanea, ma ci sono in effetti solo musei: quasi nessuna istituzione deputata alla produzione
ed esposizione, sul modello delle kunsthallen tedesche o dei centres d’art francesi, pressoché
nessun rilievo in ambito accademico assunto dalla riflessione sulle estetiche contemporanee, poche,
e molto recenti, le scuole o piattaforme per la formazione degli artisti e dei curatori, praticamente
sconosciuti i programmi di residenza.
Chi ricopre il ruolo di curatore istituzionale in un museo come MAMbo questa domanda, quindi, si
ritrova a porsela spesso: “Che cos’è un museo?”. Non se la pone tanto come strizzatina d’occhio
nell’esercizio della propria attività curatoriale, altrimenti orientata, né quale premessa di un utilizzo
e di un’erogazione consapevolmente “relazionali” di infrastrutture e servizi, e neppure come
semplice volontà di riproposizione delle problematiche e delle proposte artistiche e curatoriali della
stagione, ormai storicizzata, dell’“institutional critique”. Porsela serve piuttosto a verificare da parte
del curatore se quello in cui si sta lavorando – stato dalla consistenza fluida, elastica, nervosa,
esperienza eccitante quanto sconfortante – è effettivamente un “museo”, se cioè, nello svolgere il
proprio lavoro quotidiano, dalla più banale procedura alla più complessa riflessione teorica, si
stanno adottando soluzioni o comportamenti che è possibile definire propriamente come
“istituzionali”. Più che di istituzione o di critica all’istituzione si dovrebbe in questo caso parlare di
un’istituzione che, come per effetto di uno strano cortocircuito temporale, nasce e si forma dopo e
nonostante la critica radicale dei suoi statuti (e la digestione di quella stessa critica nel panorama
delle molteplici politiche museali attuali).
Operare nel contesto appena descritto ha permesso al curatore di lavorare con gli artisti in uno
scenario che si potrebbe definire “potenzialmente istituzionale”: produttivo di nuova o rinnovata
personalità istituzionale ma potenzialmente, al contempo, anche autodistruttivo, sotto il fuoco di fila
di una critica assunta ormai da artisti e curatori come dato di fatto o di un disinteresse nei confronti
del contesto stesso del museo del quale le attuali pratiche artistiche e curatoriali sembrano poter far
spesso a meno.
*
All’inizio del 2006 l’Istituzione Galleria d’Arte Moderna di Bologna avviò un programma
espositivo intitolato + Museum – Shows in cui rivolgeva a dodici artisti l’invito a presentare
progetti che avrebbero scandito il periodo tra la chiusura della vecchia sede del museo nel quartiere
fieristico e l’apertura della nuova sede presso l’ex Forno del Pane e contrassegnato il cambio della
sua denominazione da Galleria d’Arte Moderna a MAMbo. In questo intervallo tra un museo che
chiudeva e uno che, di fatto, non esisteva ancora, le mostre avrebbero funzionato come il
laboratorio in cui concepire ipotesi per il “nuovo” museo. Il programma si rivelò ben presto più
complesso di quanto preventivato o, verosimilmente, l’istituzione si rivelò molto meno suscettibile
a riconoscersi negli scenari delineati dai nuovi progetti piuttosto che in quelli definiti dalle strategie
di compromesso che parallelamente il museo iniziava a implementare. I progetti stessi, con una
certa meraviglia retrospettiva, si rivelarono del resto assai meno “critici” di quanto ci si sarebbe
aspettato (il che li avrebbe invece resi, paradossalmente, più facilmente liquidabili) e molto più
coinvolti nella “narrazione” condivisa del nuovo museo in progress. Richiedevano all’istituzione
nascente un investimento ‘emotivo’, uno sforzo autoanalitico, una capacità affabulatoria piuttosto
inusuali per qualsiasi istituzione museale. Giunto nel gennaio del 2007 circa alla sua metà, questo
ciclo di mostre è stato incorporato nei nuovi programmi del MAMbo, dov’è tuttora in corso con il
nuovo titolo MAMbo Practices (No Dance Lessons).
Nico Dockx era uno dei dodici artisti originariamente invitati dall’Istituzione Galleria d’Arte
Moderna.
A seguito di alcuni contatti email e della mia visita nell’autunno del 2005 presso lo studio messogli
a disposizione dal DAAD di Berlino, Dockx accettò l’invito. La sua mostra avrebbe dovuto essere
la prima, insieme a quella di Ryan Gander, nel calendario previsto per il programma. A ridosso del
nostro incontro Dockx presentò un primo progetto di mostra, a cui avrebbe “partecipato” non come
Nico Dockx (con mio parziale stupore), bensì come membro del collettivo Building Transmissions.
La mostra, intitolata www.buildingtransmissions.info (titoli alternativi: Hyperlink e Yesterday Is
Tomorrow, quest’ultimo assunto poi dall’unica opera “presente” in mostra), fu presentata
nell’ampio ingresso del museo dal 31 marzo al 14 maggio 2006.
Come accade in ogni edificio, l’ingresso era l’area più affollata della Galleria d’Arte Moderna e vi
erano dislocati, quindi, vari servizi di informazione, d’accoglienza e d’orientamento al pubblico.
Senza modificare l’area in modo eclatante, Building Transmissions svuotò completamente
l’ingresso del suo arredamento, privandolo quindi dei suoi servizi: così facendo il primo sguardo
rivoltovi da chi vi entrava, estraniato dalla percezione di “qualcosa di diverso”, risultava come
caricato di un’inedita tensione. L’installazione sonora Yesterday Is Tomorrow era composta da
una ventina speakers e cavi che correvano lungo le pareti e sui soffitti dell’ingresso completamente
vuoto della galleria fino a convergere ad un monitor (su cui era possibile leggere la scritta
“Yesterday Is Tomorrow”, non ricordo se essa o qualcosa sul monitor variasse nel corso
dell’esposizione, ma mi sembra di sì, quale registrazione di un cambiamento continuo anche se
impercettibile) e ad un hard disk, che fungeva da vero e proprio archivio di suoni, spazio fatto di
tanti altri spazi e quindi vettore di un’architettura senza ossatura che rinunciava all’idea di struttura
a favore di quella di trasmissione (suoni, dati) e di flusso (onde radio). Un secondo intervento
previsto fu lo smontaggio dalla facciata principale delle lettere metalliche, illuminate di notte da un
tubo al neon interno, dell’insegna del museo: “GALLERIA D’ARTE MODERNA”. Questa
progressiva dis-identificazione rifletteva l’imminente sovvertimento dell’identità pubblica di un
edificio che, costruito nel 1975 dall’architetto Leone Pancaldi appositamente come sede della
“nuova” Galleria d’Arte Moderna di Bologna, era allora in procinto di essere ceduto all’ente
BolognaFiere per ospitare in futuro conferenze ed eventi fieristici. Divenuto in qualche modo già
ex-museo, il museo era un entità spazialmente e temporalmente dislocata. Varcare la soglia della
Galleria d’Arte Moderna permetteva di esperirne la sua temporalità in essere: varcata quella soglia,
il museo diventava già, pur restando lì e ora, ciò che è adesso.
Quando, nella primavera del 2007, poco dopo l’apertura del MAMbo, Nosadella.due invitò il
Dipartimento Curatoriale del museo a segnalare un artista per il suo programma di residenze, la
curiosità di varcare finalmente quella soglia, a un anno di distanza, si ripresentò più forte che mai6.
Una delle ragioni per invitare nuovamente Nico Dockx a Bologna è stata appunto la volontà di
varcare quella soglia, ora che il museo è chiuso da un anno, certo mutata, e cogliere l’occasione per
costituire intorno a un progetto e in un contesto anch’essi mutati una serie di “nuove esperienze,
nuove relazioni, nuove amicizie, nuovi ibridi e nuovi enti”7. Possibilità suggerita da Dockx e dalla
sua stessa mostra alla Galleria d’Arte Moderna. Building Transmissions stesso non è del resto,
nell’impianto e ideazione originari, un collettivo di artisti propriamente detto (Kris Delacourt, Nico
Dockx, Peter Verwimp), quanto una piattaforma di condivisione di metodologie e progetti,
ridefinibile ogni volta e permeabile a molteplici, ulteriori collaborazioni.
Nel rispetto dei parametri previsti del programma di residenze di Nosadella.due, MAMbo ha quindi
nuovamente invitato Nico Dockx.
6
Il 14 dicembre 2007 Nico Dockx e Helena Sidiropoulos hanno effettivamente visitato il sito del museo, attualmente
ancora in attesa di un ufficiale passaggio di consegne dall’Istituzione Galleria d’Arte Moderna all’ente BolognaFiere,
registrandovi nuovi suoni e immagini.
7
Building Transmisions, “02 2006”, intervista con Andrea Viliani, Jan Mast, David Bussel, booklet della mostra,
www.buildingtransmissions.info, Galleria d’Arte Moderna, Bologna, 2006, p. 22.
Dockx aveva già in programma da mesi, per l’inverno 2007, una seconda mostra personale presso
neon>campobase, storico spazio non profit bolognese la cui nuova sede si trova a poche centinaia di
metri dalla nuova sede del MAMbo. La proposta originaria di Dockx – due mostre apparentemente
gemelle nello spazio fisico della galleria neon>campobase e sul sito del MAMbo, che differivano
tra loro solo per sottili, impercettibili divergenze fra le immagini proiettate, tutte tratte dal suo
archivio personale – è stata ben presto tralasciata, anche se su questa idea iniziale si è poi sviluppata
la mostra a neon>campobase, a vantaggio di un maggior coinvolgimento di Nosadella.due.
Nella stessa sera in cui sarà inaugurata la mostra, il 25 gennaio 2008, verrà in effetti presentato
questo libro d’artista, in cui a quella idea originaria di un doppio, che in parte anch’essa sopravvive,
viene accostato un trio, formato appunto da tre testi scritti dal sottoscritto, Elisa Del Prete e Gino
Gianuizzi.
Non vorrei in effetti parlare della mostra a neon>campobase o di cosa Dockx abbia poi deciso di
fare nei mesi in cui è stato in residenza a Nosadella.due, in cui ha coinvolto Helena Sidiropoulos,
Jan Mast e altri amici e collaboratori.
La collaborazione stessa fra MAMbo, Nosadella.due e neon>campobase è il riflesso, su un piano
istituzionale, di quella stessa pratica della collaborazione che ricorre e struttura la pratica artistica di
Nico Dockx, e che di fatto Dockx ha attivato a seguito del suo secondo invito a collaborare con
MAMbo.
Queste tre istituzioni rivestono all’interno del sistema artistico locale di Bologna tre ruoli
chiaramente distinti: il museo, e “museo” nell’accezione sopra descritta; il programma per
residenze; lo spazio non profit in cui artisti presentano progetti sperimentali estranei al circuito sia
delle gallerie commerciali sia degli spazi istituzionali. Nonostante, o meglio forse proprio a causa
della sua politica di compromesso, all’interno dell’offerta di servizi di MAMbo un programma di
residenze non è stato previsto. L’orientamento del museo a un’offerta culturale integrata –
programmazione che lascia spazio sia all’arte moderna che a quella contemporanea, che abbina
mostre di ricerca a grandi mostre tematiche di maggior richiamo pubblicitario e turistico,
accompagnamento del programma espositivo con una serie di servizi di approfondimento quali
conferenze, dibattiti, presentazioni, servizio di consultazione libera di biblioteca ed emeroteca,
programmazione di dj-set, eventi performativi e serate a tema, ecc. – non permetterebbe a MAMbo
di concentrarsi su eventi ad esso esterni che ne denunciassero in qualche modo l’incompletezza
dell’offerta. L’esigenza di (ri)definire invece in tempo reale l’agenda del museo attraverso la
processualità stessa dei suoi progetti e delle sue collaborazioni è emersa, nella tavola rotonda che
MAMbo ha ospitato per illustrare la residenza di Nico Dockx presso Nosadella.due, tenutasi al
museo il 13 dicembre 2007.
Sintomaticamente, visto dal punto di vista di MAMbo, l’intervento di Dockx rivela i meccanismi
stessi di funzionamento della macchina istituzionale, auspicandone forse una conseguente
potenziale implementazione con altri soggetti e azioni. Una riflessione che, se altri musei hanno
concretizzato negli ultimi anni introiettando ciò che era loro complementare (per fare un esempio, il
MoMA con il PS1, ora “A MoMA Affiliate”), nella triangolazione attivata da Dockx a Bologna si
propone non come soluzione teleologica e funzionalistica ma come mera indicazione, all’interno di
una casistica potenzialmene infinita, di una possibilità, come variante istituzionale mobile ed
effimera, da ridefinire costantemente sulla base delle ragioni dettate dai progetti stessi e dalla
volontà reale di condividerli .
Sintomaticamente, ancora, le tre istituzioni “coinvolte a collaborare” da Dockx mettono in campo
nel farlo temporalità diverse, sia in senso assoluto che in relazione all’intervento dell’artista,
alimentando piattaforme complementari a tempo che, invece di sovrapporsi, si compenetrano,
seguendo logiche di progetto piuttosto che logiche istituzionali: mentre MAMbo rilancia, sulla base
di un progetto curatoriale di approfondimento, una collaborazione piuttosto recente con Dockx,
contraddicendo in questo il diktat della continua “novità” su cui si basa la comunicazione stessa
dell’istituzione museale, neon>campobase mantiene con l’artista una relazione più stabile e
consolidata (cosa comunque anch’essa piuttosto inconsueta per uno spazio che non è una galleria
commerciale e resa possibile dalla particolare natura “amatoriale” di uno spazio come quello di
neon>campobase e di una pratica come quella di Dockx). Nosadella.due subentra in base ad una
scelta delegata, secondo gli schemi previsti dal sistema di invito alla residenza, ma per condividere
un tempo che, seppur breve, si presenta secondo le modalità previste per la gestione degli spazi e,
appunto, dei tempi della residenza, come una convivenza, una frequentazione assidua, addirittura
quotidiana, per lo più negata agli altri due soggetti.
Anche le istituzioni hanno, verrebbe da dire, bisogno di tempo, ognuna del suo tempo.
*
Tempo.
Conservazione.
Documentazione.
Archiviazione.
Rappresentazione.
Trasmissione.
Principi su cui si fonda la mission istituzionale – quella museale, quindi – che sono riaffermati nei
tre progetti di Dockx, per GAM e, ora, per Nosadella.due e neon>campobase. Anche se, per effetto
dell’incontro fra una personalità artistica e personalità istituzionali fra loro reciprocamente attenuate
e rilanciate, essi assumono nell’incontro, nella collaborazione che ne scaturisce, modi meno
definitori, recuperano inopinatamente toni e registri più avventurosi, obliqui, effimeri, un riaffiorare
della soggettività anche in campi assunti come oggettivi e astratti che viene suggerita, con la
naturalezza di una pratica ormai acquisita, si potrebbe dire addirittura “protetta”, dall’ammissione
comune dell’imperfezione dei propri processi decisionali e delle strumentazioni adottate nel
perseguirli: pianificazione di una mission definita a priori, sistemi di catalogazione dei dati e dei
manufatti, a cui si affida la registrazione della propria “storia”, evoluzione costante dei loro
supporti, imponderabile perdita o modifica di informazioni nelle operazioni di trascrittura e
riscrittura e di comunicazione, processi (multipli) di decodifica e di interpretazione. Accogliendo
infine, o innanzitutto, e “performando” nel proprio fare, sia artistico che istituzionale, il fattore
umano…la volontà di ricordare come quella di dimenticare, l’assumere una decisione, il
commettere un errore, il contraddirsi, l’intuire, il cambiare idea… la possibilità che esista sempre
“un’altra storia”...
E se al museo possiamo infine tornare, sarebbe allora davvero opportuno, più che di “critica
istituzionale”, iniziare a parlare di “narrativa istituzionale”.
Andrea Viliani
*
Postilla: parlando della relazione fra MAMbo e Nico Dockx avrei voluto citare o addirittura,
inizialmente, ripubblicare integralmente in questo testo, quasi si trattasse grazi alla collaborazione
di Nico, di un possibile ipertesto cartaceo, i quattro testi già pubblicati nel booklet edito da MAMbo
in occasione della mostra www.buildingtransmissions.info, due testi sulla mostra e, come previsto
per il ciclo + Museum – Shows, due testi sul museo, analizzato e commentato attraverso la pratica
dell’artista invitato:
1) Andrea Viliani, “Transmissions Which No Longer Exist or Which Do Not Yet Exist”;
2) Building Transmissions, David Bussel, Jan Mast, Andrea Viliani, “02 2006”;
3) Elena Filipovic, “The Museum without Walls of the Future”;
4) Dirk Snauwaert, “Flat World – Floating Museums”.
Poi ho deciso di non farlo. Benché questi testi, o molti dei loro passaggi, mi appaiono ancora adatti
a descrivere il quadro delineato da Dockx in occasione della sua seconda collaborazione con
l’Istituzione Galleria d’Arte Moderna, anche se in minima parte, anche se solo a causa di minute,
impercettibili varianti – un po’, forse, come accadrà tra i video presentati nella mostra a
neon>campobase, prima menzionata – il punto di vista, l’oggetto della conversazione, il tono del
discorso, il dettaglio che cattura l’attenzione e la concentra su un dato aspetto o argomento…
‘cambiano’, beh, sono cambiati. Non poteva essere altrimenti. Il booklet stesso è cambiato, nella
versione a stampa era in bianco e nero. Per chi volesse rileggerli, essi sono ancora scaricabili,
gratuitamente, su pagine di color rosa, dal sito del MAMbo, all’indirizzo:
http://www.mambo-bologna.org/file-sito/eng/mostre/archivio/Imp%201ING_Building
%20trasmissions.pdf
di Gino Giannuizzi
1998
Gianluca Cosci tiene la sua mostra personale Gianluca Cosci “Occupato” alla galleria neon (la sede
della galleria neon in quegli anni era in via Bersaglieri) nel mese di giugno del 1998. Dopo l’estate
è in Belgio come Guest Tutor all’Institute for Fine Arts di Antwerp.
1999
Nell’autunno del 1999 cura la mostra “Folle” allo Studio Ercolani di Bologna: in questa mostra
presenta i lavori di otto studenti provenienti da Antwerp.
Mutata geografia degli spazi espositivi: si camminava da via Bersaglieri a viale Ercolani.
Un giorno il gruppo dei giovani artisti insieme con Gianluca passano in galleria, io sicuramente ero
seduto al tavolo nella stanzetta-ufficio, sicuramente non ci sono state troppe parole, la mia
conoscenza della lingua inglese era allora più imprecisa di quanto non lo sia ancora oggi.
2000
Mesi dopo –la data riportata sulla lettera acclusa è 30 giugno 2000- arriverà, inviata da Nico, una
busta piena di fogli fotocopiati, qualcosa che assomiglia agli estratti di un diario, una serie di
annotazioni, documenti sparsi. Materiale per l’archivio, ora penso al mio archivio, ai dossier e alle
documentazioni ricevute in tutti questi anni. Cerco nel mio archivio, una scatola di cartone
contrassegnata da un post-it giallo, all’interno trovo una videocassetta vhs (1. play for time 2.
disquiet tectonica + tectonic disquieta), alcuni esemplari di curious (curious cure 003, un atelier;
curious 004a, 220V remix), altri materiali a stampa, un cd-rom e due raccoglitori con quelle
fotocopie, precedute dalla lettera di Nico. “Finally, I decided to mail you this letter and documents
(a selection of pages out of my personal archives, summer 1997 – spring 2000) in order to get in
contact with you and to have a possible dialogue about both our practices in the near future”. Nel
2000, anno in cui Bologna è città europea della cultura, invito Nico Dockx a partecipare a
somewhereovertherainbow, mostra che curo e organizzo alla neon, ancora in via Bersaglieri.
2001
La mostra si apre nel gennaio 2001, in coincidenza con Artefiera.
La mostra presenta sono lavori di Madeleine Berkhemer, Nico Dockx, Nathalie van Doxell, Ulrike
Gruber, Eva Marisaldi, Dörte Meyer, Sissi, Alessandra Tesi, Gina Tornatore. Il tubo di cartone
inviato da Nico contiene due fotografie, due dettagli, uno che mostra una mano nel gesto apparente
di ruotare nel palmo un oggetto sferico; e una inquadratura ravvicinata delle mani di qualcuno che
osserva delle fotografie.
Insieme con le fotografie Nico invia precise istruzioni per l’installazione nello spazio. C’è questa
fotografia in cui si vede uno dei due lavori e seduta davanti al computer Meike Giebeler.
Meike era approdata a neon perchè nel suo corso di studi a Lüneburg aveva contribuito alla
realizzazione di una mostra di Davide Bertocchi (Halle für Kunst, 2000) che -quando arrivata in
Italia con il Progetto Erasmus, si era ritrovata a Macerata e dopo qualche tempo aveva cercato una
situazione più stimolante- le aveva suggerito di venire a Bologna alla neon. L’altra fotografia è
questa, credo sia importante ricordarla.
Trascorrono ancora due anni e in questo periodo si rende necessario lasciare lo spazio di via
Bersaglieri per cercare una nuova sede. Il trasferimento comporta anche un riposizionamento di
neon. neon in qualche modo è un frutto del ’77, uno spazio di utopia nato (1981) quando le utopie
rivoluzionarie si scioglievano, nel tentativo di agire in un ambito apparentemente svincolato dalle
norme che regolano le dinamiche economiche e l’organizzazione sociale e il sistema dell’arte, in
questo erede di una linea che origina dalle eresie culturali e artistiche che segnano il secolo scorso.
Assume poi un atteggiamento mimetico e partecipa alle fiere internazionali giocando sullo stesso
terreno delle altre gallerie. Nel febbraio 2003 quando la galleria neon si sposta nello spazio attuale
sceglie di diventare neon>campobase.
2003
Il successivo appuntamento con Nico è a Venezia, Biennale, Padiglione Utopia, ma non riusciamo a
incontrarci. Nel mese di settembre, tornando da Venezia, Nico arriva a Bologna insieme con Kris
Delacourt, Douglas Park, Peter Verwimp, Helena Sidiropoulos, Barbara Decruyenaere, Jan Lemaire
per un intervento firmato con il nome collettivo ‘Building Transmissions’. La performance è
potente, molto probabilmente rimane ancora impressa nella memoria di quanti risiedono nell’area
prossima alla galleria. Ricordo Douglas Park all’esterno immobile rivolto verso l’angolo in cui
convergono due muri. Poi il furgone riparte verso Antwerp nella stessa notte.
neon>campobase avvia la sua attività in via Zanardi 2/5 martedì 16 settembre alle 19.00 con il
progetto collettivo proposto da un gruppo di artisti che collaborano insieme con Nico Dockx
(Antwerpen, Belgio, attualmente inserito nella sezione Stazione Utopia curata da Hans Ulrich
Obrist alla Biennale di Venezia). Sono Kris Delacourt, Douglas Park, Peter Verwimp, Helena
Sidiropulos, Barbara Decruyenaere e Jan Lemaire. Il programma della serata prevede un concerto
di Building Transmissions, letture di testi, videoproiezioni.
Building Transmissions è un progetto multimediale che agisce sia con le immagini che con i suoni e
focalizzando la ricerca sull'astrazione stimola l'interazione con il pubblico. Costituiscono aspetti
importanti della pratica artistica del gruppo il conflitto e l'instabilità nelle loro composizioni, la
decostruzione del suono, la sperimentazione e la ricerca intorno al concetto di suono e non-suono.
Building Transmissions utilizzano abitualmente una vasta gamma di strumentazione, sia strumenti
acoustici convenzionali (sax, chitarre, piano, voce) che strumenti elettronici (MD, turntables, filtri
& di effetti, synths) per generare un dialogo personale e 'introverso' con le video-proiezioni che
accompagnano i suoni, modellando in tal modo architetture sonore in cui confluiscono echi
ambientali e frammenti di free jazz, rumore, ronzii, picchi di frequenze, registrazioni sul campo,
ecc. Il corpo ed il relativo movimento sono fortemente presenti nei lavori video e nelle installazioni:
immagini fisse e immagini in movimento interferiscono reciprocamente creando una nuova
relazione fra tempo e movimento.
Poi nel mese di novembre è la volta del progetto di Nico insieme con Mark Luyten, con una
preview a Milano, in quel piccolo spazio ex guardiola del custode di uno stabile in corso Garibaldi
che ha ospitato per un paio di anni l’attività di neon>projectbox.
day by day by day
un progetto di Nico Dockx+Mark Luyten/ soundtrack Kris Delacourt
[installazione video: 5 videoproiezioni dvd_serie fotografiche presentate come short film_road
movies_immagini proiettate simultaneamente con ritmi dissonanti_cinema a 27
fotogrammi_narrazioni spezzate attraverso il tempo e lo spazio_film composti di foto stills]
Nico Dockx (Antwerpen, 1974). Artista poliedrico, sviluppa la sua ricerca in molteplici campi della
cultura contemporanea, rendendo difficile una definizione univoca e precisa del suo ruolo. Artista
ma anche musicista, editore ma anche collezionista, unisce tutti queste personalità nella
costruzione di un archivio della contemporaneità alla composizione del quale è rivolta ogni sua
iniziativa. I suoi lavori (pubblicazioni e manifesti) si presentano come mappe, ipertesti in cui
immagini, testo e suoni si fondono e confondono, rendendo di nuovo attuale la pratica del
raccoglitore, che crea universi in cui pubblico e privato si uniscono e rende le esperienze
personali emblematiche dello spirito del tempo. Mark Luyten (Antwerpen, 1955), ha studiato storia
dell’arte e filosofie orientali all’Università di Leuven e di Leiden, e dal 1988 insegna estetica e
teoria dell’arte alla Saint Lucas School of Fine Arts in Antwerp.
Le due fotografie mostrano l’installazione a neon>campobase.
Nico torna a Bologna nel marzo 2006, invitato da Andrea Viliani per una mostra all’interno del
ciclo + Museum – Shows. Nico ancora una volta ha trasformato l’invito rivolto a lui in un progetto
collettivo di Building Transmission. Kris Delacourt, Nico Dockx, Peter Verwimp, Helena
Sidiropulos sono ospiti a casa mia.
Ulteriore incontro nel settembre 2007, quando il furgone proveniente da Antwerp fa tappa a
Savigno prima di proseguire verso il sud e di passare in Grecia e in Turchia. Buone giornate, sole.
Ci incontriamo nuovamente in via Nosadella 2, Nico e Helena ospiti in residenza, e poi nella sala
conferenze del MAMbo, 13 dicembre 2007.
Gino Gianuizzi