Germania ed elaborazione della colpa

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Germania ed elaborazione della colpa
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Germania ed elaborazione della colpa
Costanza Gasparo
[email protected]
Introduzione
L’argomento di questa relazione può essere riassunto con il termine Vergangenheitsbewӓltigung (dal
tedesco Vergangehheit, passato, e Bawӓltigung, superamento; che potrebbe essere tradotto con
elaborazione del passato). Ciò sta ad indicare una riflessione sui crimini nazisti da parte della
Germania nei confronti della Seconda Guerra Mondiale, in modo particolare sull’Olocausto. Una
riflessione che non innesca una semplice rimozione della colpa, ma piuttosto un processo di
elaborazione della colpa. Si tratta di una tematica delicata, che per essere superata deve essere
accettata, analizzata, elaborata e superata, cercando di dare una risposta a quanto chiede Primo Levi
appena arrivato nel campo di concentramento:
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“Warum?” (Perché?)
-
“Hier ist kein Warum” (Qui non c’è un perché) 1
Questa è una questione che non può essere trattata solo in termini politici, dal momento che quando
si parla di Schuldfrage (questione della colpa) individuale o collettiva, viene preso in considerazione
anche l’uomo in quanto essere sociale. Vedremo come questo tema è stato trattato da filosofi come
Karl Jaspers con La questione della colpa e Hannah Arendt con La banalità del male. Inoltre, saranno
richiamati sociologi come Erving Goffman e psicologi come Sigmund Freud. Il primo in relazione ai
meccanismi di stigmatizzazione, inteso come un fenomeno sociale che attribuisce una connotazione
negativa ad un membro o ad un gruppo (o addirittura ad un popolo intero nel nostro) esercitando un
profondo effetto di discredito nei suoi confronti; il secondo, invece, in relazione ai meccanismi messi
in atto dai singoli individui quando si parla di Schuldfrage. Meccanismi che possono aiutarci a capire
perché il nazismo sia potuto ricomparire sui libri di storia tedeschi solo verso la fine degli anni
Sessanta o come, ancora oggi, in Germania sia proibito usare la parola Führer per indicare un
conducente di mezzi pubblici, sostituito con il termine Leiter2. Normalmente il senso di colpa è inteso
come un processo di carattere individuale, che porta a giudicare le proprie azioni secondo criteri
personali. Nonostante questo, però, la colpa può essere vista come un comportamento o un atto che
può avere conseguenze dannose verso altri individui o verso la comunità, soprattutto nel caso in cui,
come è avvenuto con il popolo tedesco per il regime nazista, la colpa è attribuita dalla comunità stessa
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2
Levi P. [1958], Se questo è un uomo, Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino, p. 44
http://retroonline.it/10/05/2015/the-magazine/nazismo-tedeschi-ne-pagano-ancora-le-conseguenze
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ad alcuni soggetti. Come ricorda Goffman, la creazione di uno stigma può portare l’individuo a non
essere accettato pienamente in una società (Goffman E., 1963). Il caso tedesco è l’esempio di come
uno stigma etnico abbia trasformato l’intera razza in un popolo completamente screditato. Jaspers e
Arendt hanno affrontato il tema ed analizzano il concetto della colpa in relazione ad un determinato
periodo storico, cioè quello del nazismo. Con il loro rispettivi lavori hanno cercato di capire se il
senso di colpa debba essere inteso in termini collettivi o individuale. In altri termini, per gli orrori
deve essere considerato responsabile il singolo tedesco e l’intero popolo?
Che genere di colpa?
Varie tipologie di colpa
Il senso di colpa, psicologicamente parlando, si presenta come un sentimento umano che, collegato alla
colpa, si manifesta a chi lo prova come una riprovazione verso sé stesso.3 È proprio una caratteristica
dell’essere umano, in quanto essere fallibile, imperfetto, che, come sottolineeremo in seguito, non sa
scegliere tra il bene e il male. Insomma, non è inscrivibile in nessun rapporto di causa- effetto, che ha
a che fare con la razionalità dell’uomo.
Jaspers sostiene che la questione della colpa più che essere una questione posta dagli altri al popolo
tedesco, debba essere piuttosto una questione che i tedeschi pongono a loro stessi. Comprendere cosa
è successo non vuole dire né dimenticare, né tanto meno perdonare e basta, ma piuttosto portarsi
consapevolmente sulle spalle il fardello delle azioni e del tempo della Seconda Guerra Mondiale.
Parlando di colpa, egli distingue fin dall’inizio due tipi di conseguenze di colpe: la conseguenza
esteriore, cioè quella che ha ricadute nelle condizioni di vita, e la conseguenza interiore, che riguarda
invece la coscienza individuale. La prima non dipenda dal fatto che il colpevole se ne renda conto o
no, la seconda, invece, assume rilevanza solo se il colpevole riesce a rendersene conto fino in fondo
(Jaspers K., 1946). Solo nell’ultimo caso avremo un superamento della colpa effettiva. Altra
distinzione importante è quella tra colpa politica e colpa morale. La colpa politica, sostiene sempre
Jaspers, è applicabile in caso di delitto e la punizione si ripercuote su chi la commette. Se le cose
stanno così, allora, chi è colpevole per i crimini del regime nazionalsocialista? In questo caso il popolo
tedesco, dal momento che negli anni dei crimini nazisti, questo era rappresentato dal governo
nazionalsocialista, che aveva nelle sue mani tutti i poteri dello stato e, soprattutto, non aveva
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È bene fare una distinzione tra il concetto di colpa e quello di vergogna: con il primo si intende un
comportamento che scaturisce in base a cosa l’individuo ha fatto o non ha fatto quando si è trovato di fronte
ad una scelta tra cosa è giusto e cosa non è giusto fare; il secondo, invece, si riferisce ad un sentimento che
l’individuo prova in base a quello che è e quello che trasmette. È un’emozione che accompagna un processo
di autovalutazione. I due conetti possono coesistere, ma non sono la stessa cosa.
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riscontrato nessuna opposizione. Ogni cittadino tedesco, quindi, è responsabile politicamente per
quello che è successo, per il fatto di aver vissuto passivamente sotto il regime nazista. Lo è in quanto
ha tollerato che sorgesse in Germania un regime del genere. Questo, però, non vuole dire, che ogni
tedesco è colpevole anche moralmente per quello che è successo. Questa colpa si rifà direttamente
alla sfera dell’anima, dove ognuno sa individualmente e segretamente se è veramente colpevole o no
per quello che è successo. La colpa morale può portare, attraverso una presa di coscienza e un
processo di espiazione, ad una rigenerazione. Quando si parla di individui colpevoli moralmente ci si
riferisce ad una vasta gamma di individui: non solo quelli che, come appena detto, hanno ascoltato la
propria voce e si sono pentiti, ma anche coloro che hanno sentito la voce della propria coscienza, ma
hanno preferito ignorarla, scegliendo la strada che conduceva alla colpa e all’errore, sia quelli che,
infine, hanno preferito camuffarla. Detto in altri termini, chi voleva sopravvivere era colpevole
moralmente. Ed ecco che qui, si introduce, il noto esempio della condotta del soldato. Jaspers precisa
che un singolo individuo che riesca a sopravvivere ed a non farsi uccidere non è colpevole, in quanto
anche il fatto stesso di compire azioni malvagie e uccidere un proprio simile si basa sul principio della
sopravvivenza (Jaspers K., 1946). Insomma, a non essere responsabili non sono stati soltanto i due
ragazzi, la cui storia è narrata da Günther Weisenborn in Der lautlose Aufstand, che costretti ad
arruolarsi nelle SS alla fine della guerra, si rifiutarono di firmare, furono condannati a morte, e il
giorno dell’esecuzione scrissero nella loro ultima lettera a casa “Tutte e due preferiamo morire che
avere sulla coscienza cose così terribili. Sappiamo cosa fanno le SS”. L’avere seguito gli ordini e
l’aver seguito una giusta condotta da soldato però non lo esclude, dall’altro verso, da ogni colpa se
questa condotta è identificata come la causa per la quale si doveva combattere. Se il soldato ha deciso
di proposito di ignorare la propria coscienza, preferendo una vita agiata, comoda e decorosa e che,
soprattutto, andasse oltre la “tollerata sopravvivenza”, allora si ha il manifestarsi di una falsa
coscienza.
Infine, Jaspers identifica una colpa metafisica, cioè il senso di colpa che deriva dal venire meno a
quei vincoli di assoluta solidarietà che come uomini ci lega gli uni agli altri, il sentirsi in colpa di
essere ancora vivi quando buona parte dei nostri simili sono morti come bestie. È un tipo di colpa che
non può essere giudicata da nessun tribunale, dal momento che l’unico giudice è la propria coscienza.
Sembra quindi essere una colpa alla quale nessuno può sottrarsi, ma che apre però uno spiraglio verso
la trascendenza:
“Abbiamo preferito rimanere in vita per la misera considerazione, per quanto possa
essere anche giusta, che la nostra morte non sarebbe servita a niente. Se siamo
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ancora in vita, appunto in questo è la nostra colpa. Noi, al cospetto di Dio,
riconosciamo in noi qualche cosa che ci umilia e degrada profondamente”
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2.2 Colpa individuale e colpa collettiva
Una delle questioni più importante riguardo alla questione della colpa è la seguente: per i crimini
nazisti sono ritenuti colpevoli i singoli tedeschi o l’intero popolo? Si tratta di una colpa individuale o
di una colpa collettiva? Sociologicamente parlando, i giudizi che gli uomini esprimono e i sentimenti
che provano nei confronti degli altri sono regolati da idee che comprendono interi gruppi e intere
categorie. Il rischio di procedere solo in questo modo, però, è quello di fare di tutta l’erba un fascio.
L’individuo deve essere giudicato nella sua singolarità e esclusivamente per le sue azioni, parlando
quindi esclusivamente di colpa morale. Ad esempio, il tedesco per il semplice fatto di essere un
tedesco, viene considerato come una persona con cui nessuno vorrebbe avere a che fare perché
caratterizzato da uno spirito diabolico e malvagio. In termini goffmaniani, questo finisce col
deformare l’identità sociale di una persona. La conseguenza è lo screditamento della persona che si
trova a fronteggiare un mondo che la respinge (Goffman E., 1983). Allora stesso tempo, però, volendo
o non volendo gli individui sono legati gli uni agli altri, come ricorda Jaspers:
“Ciascuno può, in un modo o nell’altro, liberarsi dai vincoli che lo legano allo stato,
alla nazione, al popolo e ad altre organizzazioni, per andare a perdersi nella vaga e
invisibile solidarietà e fratellanza universale di tutti gli uomini, come uomini di
buona volontà e come uomini che hanno la colpa comune della loro natura umana.
Ma, dal punto di vista storico, noi restiamo pur sempre legati alle comunità più
strette che ci riguardano più da vicino, e senza le quali ci verrebbe a mancare il
terreno sotto i piedi”.
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Ecco che quindi, dobbiamo parlare di colpa politica. Jaspers sostiene che non si debba circoscrivere
e limitare questa distinzione tra colpa morale e colpa politica, dovendo per forza determinare un unico
tipo di colpa. Le varie circostanze politiche e le situazioni che ne che ne sono derivate hanno
contribuito alla creazione di una certa condotta, che a sua volta ha determinato la responsabilità
individuale e morale. La libertà politica implica sempre dei doveri e delle responsabilità. Parlando in
termini collettivi, sostiene ancora Jaspers, per il popolo c’è una doppia colpa politica: prima di tutto
quella di aver accettato, anche passivamente, la formazione di quel tipo particolare di regime, e in
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Jaspers K. [1946], La colpa della Germania, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, p.80
Jaspers K. [1946], La colpa della Germania, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, p.85
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secondo luogo quella che ne deriva da quel determinata figura a cui si è sottomesso. Per questo la
Germania è collettivamente responsabile in senso politico. Come fa notare Arendt:
“Tutte le volte che si discuterà il caso della Germania, l'orrore più grande, contro il quale
si scatenerà in modo particolare la reazione delle persone di buona volontà, non sarà
quello suscitato da quei corresponsabili non responsabili o dai crimini particolari degli
stessi nazisti. Esso sarà piuttosto il prodotto di quella enorme macchina amministrativa
dell'assassinio di massa, al cui servizio potevano essere, e furono impiegate, non solo
migliaia di persone e persino migliaia di assassini scelti, ma un intero popolo.” 6
Ora che abbiamo chiarito la differenza tra colpa collettiva e colpa individuale, possiamo concentrarci
sul come i tedeschi si sentono colpevoli, sia a livello individuale che a livello collettivo. Partiamo dal
livello collettivo. Si tratta del sentirsi in colpa pur non essere personalmente e giuridicamente
responsabili per una certa azione. Si tratta di andare oltre la responsabilità politica , ma di sentirsi
moralmente responsabile in quanto appartenente alla vita spirituale tedesca insieme ad altri individui
che parlano la stessa lingua, della stessa razza e, soprattutto, con la stessa storia. Può succedere, come
sostiene Goffman, che il primo gruppo di persone con cui l’individuo si identifica è composto da
quelli che hanno lo stesso stigma. Questo potrebbe avvenire se alcuni individui tedeschi sentissero
propria la colpa attribuita da terzi nei loro confronti e la identificassero con uno stigma, accettando
quindi in prima persona non solo cosa dice loro la propria coscienza in seguito ad uno stimolo esterno,
ma anche prendendo atto del fatto che questo non basta per non essere esclusi, e quindi tentare di
trovare sostegno tra i propri “simili”. Gli individui non si riconoscono unicamente come singoli
individui, ma anche come tedeschi. E per questo si sentono colpevoli e pensano di dover accettare la
colpa. Questo non si è verificato solo per alcuni individui nei confronti dei loro contemporanei, ma
anche nei confronti di alcuni ragazzi nati dopo la guerra e del conflitto generazionale che si è venuto
a creare con i genitori, accusati se non di aver commesso quei crimini, di averne tollerato tra loro,
dopo il 1945, gli autori. A mio avviso, quando si parla di colpa collettiva, è bene fare accenno ad altri
due collettività che possono essere analizzate dal punto di vista morale o politico: la comunità degli
ebrei che sapevano cosa stesse succedendo e l’insieme degli altri Stati che hanno preso parte alla
Seconda Guerra Mondiale. Infatti, come fa notare Arendt nel La banalità del Male l’insediamento di
governi- fantoccio nei territori occupati fu sempre accompagnato dalla creazione di un ufficio centrale
ebraico. Si tratta di un contributo dato dai capi ebraici alla distruzione del proprio popolo ed è uno
dei capitoli più foschi di tutto l’Olocausto. 7 Anche in questo caso la motivazione principale della
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Arendt, H. [1986], Ebraismo e Modernità, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, p.
Come sottolinea Arendt: “Alla domanda “Perché contribuivate alla distruzione del vostro stesso popolo e in
ultima analisi alla vostra stessa rovina?” L’unico membro illustre di uno Judenrat chiamato a testimoniare fu
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mancata ribellione fu la necessità di sopravvivere, anche a scapito degli altri. Inoltre, l’Inghilterra, la
Francia, l’America furono le potenze vincitrici del 1918. La vittoria, però, implica delle responsabilità
per i vincitori, che non si possono limitare ad osservare solo cosa succede nel mondo. La loro colpa,
quindi, è stata quella di non avere agito in tempo, di aver permesso in un certo senso, la creazione del
nazionalsocialismo. Queste due colpe collettive fanno appello non solo alla solidarietà nazionale, o
alla solidarietà europea, ma piuttosto ad una solidarietà umana.
2.3 Meccanismi di purificazione e di difesa.
La purificazione riguardo ad una colpa consiste in prima analisi nella riparazione del male che è stato
fatto. In materia di colpa politica questo equivale nel riconoscimento e nel rispetto da parte degli
accusati delle riparazioni in forma legale per ricompensare, in un certo senso, i popoli aggrediti dalla
Germania di Hitler per quello che hanno perduto. Come fa notare Jaspers, le esigenze che possono
spingere a ciò sono due: la necessità di aiutare “i bisognosi” semplicemente perché sono vicino a noi
e hanno bisogno di aiuto, e in secondo luogo, la necessità di riconoscere dei diritti nei confronti di
coloro che per colpa del regime di Hilter furono deportati e ammazzati. Ciò che differenzia le
necessità sono le motivazioni: nel secondo casi si tratta della volontà di riparare ad un male per il
quale uno si sente, anche parzialmente, colpevole. (Jaspers K,. 1946).
La purificazione dell’anima però è un processo interiore, non è la stessa per tutti e senza questa non
è possibile nessuna purificazione politica. Bisogna quindi partire dall’individuo. Senza un processo
di purificazione della coscienza, di fronte ad una accusa l’individuo avrà solo l’istinto di
contrattaccare. Solo quando abbiamo riconosciuta e ammessa la nostra colpa, potremo sopportare e
le accuse, sia quelle vere che quelle false. Si tratta di fare un passo in avanti e decidere di voler sapere
e accettare quello che è successo. Alcuni meccanismi di difesa dell’inconscio, però, a volte fanno
prendere una piega diversa alle azioni dell’individuo, portando ai meccanismi di “rimozione”, di
“negazione” (Verneinung) e di “diniego” (Verleugnung). Il primo consiste nel rimuovere dalla
memoria sociale i fatti o nel negare ogni senso di colpa; il secondo consiste nello “sbarrare” l’accesso
alla coscienza di quello che è successo, nonostante sia molto vicino; il terzo, infine, è un meccanismo
che impedisce al contenuto di entrare nella mente, senza neanche essere preso in considerazione. Per
quanto riguarda la questione della colpa tedesca sullo sterminio degli ebrei si può riscontrare la
compresenza di tutti e tre questi meccanismi. (Caruso S, 1996). In altre parole, questi meccanismi di
difesa hanno ostacolato il processo di purificazione tedesco, sia individuale che collettivo,
Pinchas Freudiger, già barone Philip von Freudiger, e fu durante la sua deposizione che tra il pubblico si
verificarono gli unici seri incidenti di tutto il processo; la gente inveì contro di lui in yiddish e la Corte
dovette sospendere l’udienza”. Arendt, H. [1963], La banalità del male, Giangiacomo Feltrinelli Editore,
Milano, p.131.
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consentendo la trasmissione di questo stigma alle generazioni future, facendo della Schuldfrage una
questione ancora aperta. Peter Früstenau, propone altri cinque meccanismi di difesa, che chiama
atteggiamenti difensivi fallimentari. Il primo è la “negazione” o “minimizzazione delle colpe” e
consiste principalmente nel difendere la dottrina del nazismo, condannandone però la sua
applicazione. Qui, però gioca un ruolo importante Freud, in quanto questo atteggiamento non è
determinato soltanto a livello conscio, ma anche a livello inconscio (ad esempio, l’angoscia). La
“minimizzazione”, sostiene Caruso, però è qualcosa di leggermente differente dalla semplice
“negazione”: più che essere un atteggiamento di difesa puro, sembra essere un sintomo (minimizzare
un errore può essere una tattica per “riparare” ad una negazione che ormai diventata evidente (Caruso
S., 1996). Il secondo atteggiamento è l’“evitamento fobico” che viene anticipato da una situazione
ansiogena percepita come pericolo imminente. Nella mente dell’individuo fobico la soluzione
consiste nell’innalzare delle barriere di sicurezza, al fin di evitare il contatto ciò che causa la nostra
ansia. Nel caso di argomenti di conversazione, come quelli della Schuldfrage l’atteggiamento si
traduce nel tenersi alla larga dall’argomento. A mio parere, quanto detto precedentemente riguardo
la sostituzione del termine Fürhrer con Leiter può essere un esempio. Terzo meccanismo di difesa è
quello “sostitutivo-continuativo” che consiste principalmente nello “spostamento” (Verschiebung) in
termini freudiani: mantenere immutato il sentimento di odio, dirigendolo però verso oggetti diversi.
I nazisti, diciamo, hanno assunto questo atteggiamento indirizzando il loro odio non solo verso gli
ebrei, ma successivamente anche verso altre categorie come quella dei comunisti, omosessuali e
persone di colore. Cambia solo l’oggetto verso il quale è rivolto l’odio, ma il meccanismo è lo stesso.
Quarto atteggiamento difensivo è quello “rituale- compulsivo” che richiama il meccanismo di difesa
della “trasformazione nell’opposto” (Verkehrung ins Gegenteil) di S. e A. Freud e l’”isolamento”. Il
primo consiste dal passare da un atteggiamento di odio e intolleranza nei confronti degli ebrei, nel
suo opposto, inquadrandoli come una categoria a cui adesso è concesso tutto. Questo, però, non è
altro che un rovesciamento difensivo per tenere sotto controllo gli impulsi originali. Inoltre, ciò è
anche un punto critico, in quanto dobbiamo stare attenti, come sottolinea Caruso, a non scambiare
per atteggiamento di sostituzione ogni molte azioni di cerimonia che però sono il risultato di un
superamento della colpa e non un atteggiamento difensivo per prendere le distanze da questa (Caruso
S,.1996). In altri termini, anche in questo caso non dobbiamo fare di tutta l’erba un fascio. Infine,
l’ultimo atteggiamento di difesa consiste nel “vittimismo depressivo”, cioè un sentimento di lamentele
nei confronti di altri soggetti. Nel caso della Schuldfrage a chi sono rivolte queste lamentele? Sono
le Grandi Potenze, che hanno imposto alla Germania le riparazioni. Allo stesso tempo però, questo
particolare tipo di atteggiamento di difesa provoca anche un ulteriore sentimento di contrasto,
indirizzando le colpe anche verso il nazismo stesso e il Führer, dai quali si sentono delusi e traditi.
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Proprio le persone e il sistema in cui hanno avuto più fiducia, adesso solo quelli verso i quali viene
nutrita maggiore delusione.
Il Male e il Bene
3.1 Cosa intendiamo per Bene e Male?
Come abbiamo detto all’inizio la scelta tra Bene e Male è un meccanismo che ha che fare con la sfera
soggettiva ed individuale dell’uomo e con la propria coscienza. Estrapolandoli dal contesto
individuale, il Bene e il Male rimangono categorie vuote, senza nessun contenuto. In ogni caso, però,
per cercare di capire cosa intendiamo per Bene e Male possiamo rifarci alla sfera dell’Etica, cioè
quella branca della filosofia che si occupa di cercare di capire cosa per l’uomo e bene fare e cosa che
non è bene fare. La concezione del Bene e del Male risale al mondo antico, ma per quanto la tematica
della Schuldfrage ritengo opportuno richiamare Kant e il concetto di male radicale. Questo è inteso
principalmente come una predisposizione naturale al Male che è alla base del comportamento di tutti
gli esseri umani e che porta a prendere delle distanze dalla legge morale.
Il filosofo Adorno sostiene, inoltre, che la via del Male è via facile da intraprendere per la maggior
parte delle persone. Chi, invece, nonostante questo, sceglie la via del Bene si impegnerebbe a rendere
liberi gli uomini. La scelta tra Bene e il Male, non solo è una scelta soggettiva ed individuale, ma è
una scelta complessa, dal momento che la una caratteristica principale dell’uomo è la sua fragilità,
che rende la tentazione di scegliere la via del Male sempre più conveniente. Come è possibile
scegliere tra i due? In altre parole, come avviene il passaggio dal concetto alla pratica quando ci
troviamo davanti all’esigenza di scegliere tra Bene e Male? Ecco che quindi dobbiamo introdurre il
concetto di ideologia, intesa da Marx come “falsa coscienza” (Falsche Bewusstsein), fondata
principalmente sugli interessi di classe che spingono a pensare in un modo involontariamente
favorevole alla classe dominante. Gli individui credono di avere pensato individualmente e
liberamente, ma in realtà sono stati condizionati dalle idee dominanti. Alla teoria, normalmente,
dovrebbe corrispondere la prassi. Questo è quello che è accaduto con il nazismo: la teoria della razza
è diventata prassi nei lager (questa è l’ideologia). L’ideologia sembra aver capovolto il tradizionale
senso comune della morale, finendo quasi con l’identificare il male con il bene e viceversa. Ecco che
quindi, azioni che portavano ad uccidere uomini come bestie, diventavano dei semplici obblighi
morali.
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3.2 La banalità del male
Otto Adolf Eichmann fu un paramilitare e funzionario tedesco, considerato uno dei maggiori
responsabili operativi dello sterminio degli ebrei nella Germania nazista. Sfuggito al processo di
Norimberga e rifugiatosi in Argentina, fu catturato nel maggio del 1960 e portato davanti al Tribunale
distrettuale di Gerusalemme nell’aprile 1961. Egli fu condannato a morte con le accuse di genocidio
e crimini contro l’umanità. La sentenza fu eseguita il 31 maggio 1962. Il processo Eichmann, tenuto
a quindici anni da quello di Norimberga fu il primo processo a un criminale nazista tenutosi in Israele.
Arendt va a Gerusalemme come inviata del New Yorker, assiste al processo e negli articoli per il
giornale analizza e approfondisce i problemi morali, politici e giuridici che stanno dietro il processo.
I problemi morali scaturiti da un’esperienza concreta sembrano suscitare in lei dubbi sulla condizione
umana. Ecco che il pensiero della Arendt è fortemente influenzato da Kant, che continua ad essere
per molto tempo un punto di riferimento, anche se viene preso come spunto per poi distaccarsene.
Molti concetti elaborati Kant sono stati metabolizzati e rielaborati dall'autrice attraverso
un'interpretazione personale, ampliati e tenuti insieme da quell'interesse verso l'uomo e la condizione
umana in generale. L'interpretazione arendtiana procede attraverso una complessa riflessione su
liberà, morale, obbedienza, legge e autorità, che è riscontrabile sin dal discusso libro del 1951 Le
origini del totalitarismo. Eichmann stesso affermò di avere sempre vissuto secondo i principi
dell’etica kantiana, e in particolare alla definizione di dovere:
“ Eichmann rivelò di aver letto la Critica della ragion pratica di Kant, e quindi
procedette a spiegare che quando era stato incaricato di attuare una soluzione finale
aveva smesso di vivere secondo i principi kantiani, e che ne aveva avuto coscienza,
e che si era consolato pensando che non era più “padrone delle proprie azioni”, che
non poteva far nulla per ”cambiare le cose”8.
Questo fu il momento in cui vagamente realizzò che lui non si era comportato proprio come gli altri
soldati tedeschi per natura e per intenti. Arendt, poi, fa notare come questo sia incomprensibile in
quanto l’etica di Kant si forma principalmente sulla facoltà di giudizio dell’uomo, facoltà che esclude
la cieca obbedienza, gli imperativi categorici. Nel libro riguardo al processo di Eichmann La banalità
del male Arendt formula l’idea che il male incarnato da Eichmann fosse dovuto non ad un’indole
maligna, ma piuttosto ad una inconsapevolezza delle sue azioni. In ogni caso una cosa appare chiara:
una legge era una legge per Eichmann e non si poteva infrangerla per alcun motivo. Quanto al
concetto di coscienza, fa notare sempre Arendt, Eichmann era certo di non essere colpevole, o
comunque di non essere un individuo indegno; l’unica cosa che avrebbe potuto scuotere la sua
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Arendt H [1963], La banalità del male, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, p.143.
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coscienza sarebbe stato il non rispettare gli ordini, tra il quale quello di condurre milioni di uomini,
donne e bambini verso la morte (Arendt, 1963). Ecco che quindi il scegliere il Male diventa una scelta
banale: Eichmann non è l’incarnazione del male, ma è un semplice burocrate che esegue gli ordini
senza riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni. Questo, però, non lo esonera da nessuna colpa,
come è possibile constatare dalla sentenza di condanna:
“Quali siano stati gli accidenti esterni o interiori che ti spinsero a divenire un
criminale, c’è un abisso tra ciò che hai fatto e ciò che gli altri potevano fare, tra
l’attuale e il potenziale. Noi qui ci occupiamo soltanto di ciò che tu hai fatto, e non
dell’eventuale non-criminalità della tua vita interiore e dei tuoi motivi, o della
potenziale criminalità di coloro che ti circondavano. […] Ma anche supponendo che
soltanto la sfortuna ti abbia trasformato in un volontario strumento dello sterminio,
resta sempre il fatto che tu hai eseguito e perciò attivamente appoggiato una politica
di sterminio. La politica non è un asilo: in polita obbedire e appoggiare sono la
stessa cosa”. 9
Per finire, la filosofa tedesca fa notare come i molti criminali nazisti che si sono macchiati di crimini
atroci, se mai dovessero diventare consapevoli del fatto che non sono stati semplici burocrati, ma
assassini veri e propri, allora l’unica via di purificazione non sarà la ribellione, ma il suicidio. La
presa di coscienza, la vergogna di quello che è successo può portare solo a questo.
Conclusioni
La questione della Schuldfrage, come abbia visto, è un tema che può essere definito tutt’altro che
semplice. Questo non solo per la sfera soggettiva in cui si colloca la scelta tra cosa è giusto e cosa
non è giusto fare, ma anche per tutto ciò che sembra celarsi dietro una semplice presa di coscienza
della colpa, ammettendo che questa si manifesti in qualche modo. Filosofi come Jaspers e Arendt
hanno affrontato questa questione, insistendo su come parlare di questa tematica, considerata per
tanto tempo quasi come un taboo, non voglia portare al semplice dimenticare, ma piuttosto prendere
coscienza di quello che è successo, prendendosene le responsabilità. Tutto questo, però, cercando di
distinguere tra colpa collettiva e colpa individuale, evitando di fare proprio quello che ha fatto il
nazismo, cioè annullare completamente l’individuo in funzione di un processo di massificazione.
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Arendt, H [1963], La banalità del male, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, p.284
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Bibliografia:
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Arendt H. (1963), La banalità del male, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano
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Arendt H. (1986), Ebraismo e Modernità , Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano
-
Caruso S, Germania senza colpa. Profili psicoanalitici della “Schuldfrage” in AA.VV., La
colpa, Franco Angeli ed. “La Ginestra”, quaderni di cultura psicoanalitica, dir. da V.
LORIGA, pp. 133-159.
-
Goffman E. (1963), Stigma e identità negata, Laterza, Bari
-
Jaspers K. (1946), La colpa della Germania, Edizioni scientifiche italiane, Napoli
Sitografia:
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http://retroonline.it/10/05/2015/the-magazine/nazismo-tedeschi-ne-pagano-ancora-le-conseguenze