i segreti di brokeback mountain

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i segreti di brokeback mountain
I SEGRETI DI BROKEBACK MOUNTAIN
scheda tecnica
titolo originale: Brokeback Mountain
durata: 134 minuti
nazionalità: stati uniti
anno: 2005
regia: ANG LEE
soggetto: tratto dal racconto omonimo in “Close range, Wyoming stories” (1997) di E.
ANNIE PROULX (premio Pulitzer 1994 per la narrativa)
sceneggiatura: LARRY MCMURTRY, DIANA OSSANA
produzione: DIANA OSSANA E JAMES SHAMUS PER FOCUS FEATURES, GOOD
MACHINE, PARAMOUNT PICTURES, THIS IS THAT PRODUCTIONS, ALBERTA
FILMWORKS INC.
fotografia: RODRIGO PRIETO
montaggio GERALDINE PERONI, DYLAN TICHENOR
scenografia: JUDY BECKER
costumi: MARIT ALLEN
effetti: MAURICE ROUTLY, LOUIS MORIN
musiche: GUSTAVO SANTAOLALLA la canzone "a love that will never grow old " di
GUSTAVO SANTAOLALLA e BERNIE TAUPIN
interpreti: JAKE GYLLENHAAL (JACK TWIST), HEATH LEDGER (ENNIS DEL MAR),
MICHELLE WILLIAMS (ALMA BEERS DEL MAR), ANNE HATHAWAY (LUREEN TWIST),
RANDY QUAID (JOE AGUIRRE), ANNA FARIS (LASHAWN), LINDA CARDELLINI
(CASSIE CARTWRIGHT), SCOTT MICHAEL CAMPBELL (MONROE), KATE MARA
(ALMA DEL MAR JR), CHEYENNE HILL (ALMA DEL MAR JR. A 13 ANNI), BROOKLYNN
PROULX (JENNY DEL MAR 4 ANNI), TOM CAREY (JIMBO IL CLOWN DEL RODEO),
GRAHAM BECKEL (L.D. NEWSOME), STEVEN CREE MOLISON (CICLISTA), STEVE
EICHLER (CHITARRISTA), DAVID HARBOUR (RANDALL),
MARY LIBOIRON
(FAYETTE NEWSOME), ROBERTA MAXWELL (MADRE DI JACK), MARY MCBRIDE
(CANTANTE), HANNAH STEWART (ALMA DEL MAR JR. A 3 ANNI)
i protagonisti
Ang Lee
Nasce il 23/10/1954 a PINGTUNG (Taiwan). Diplomato al National Taiwan College of Arts nel
1975, si è trasferito negli Usa nel 1978. Dopo aver ottenuto il diploma in teatro all'Università
dell'Illinois, si è iscritto all'Università di New York per studiare produzione cinematografica. Il suo
primo film "Pushing Hands" è stato premiato come Miglior Film al Festival di Berlino nel 1992.
Questo è stato il primo film di 'Father Knows Best', la trilogia di Ang Lee di cui fanno parte anche "Il
banchetto di Nozze" (Orso d'oro a Berlino 1993) e "Mangiare bere uomo donna" (nominato sia
all'Oscar che al Golden Globe). Nel 1995 ha diretto "Ragione e sentimento" (sette nomination agli
Oscar e Orso d'oro a Berlino 1996), nel 1997 "Tempesta di ghiaccio" (premio per la miglior
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sceneggiatura al Festival di Cannes) e nel 2000 "Cavalcando col diavolo". Con 'La tigre e il
dragone' ha vinto l'Oscar per il miglior film in lingua straniera (è girato in cinese mandarino). Il film
ha vinto altri tre Oscar: miglior musica a Tim Yip, miglior colonna sonora originale a Tan Dun,
miglior fotografia a Peter Pau.
Filmografia
1992
PUSHING HANDS - regia, soggetto e
sceneggiatura
1993
IL BANCHETTO DI NOZZE - regia, soggetto e
sceneggiatura
1994
MANGIARE BERE UOMO DONNA - regia,
soggetto e sceneggiatura
1995
RAGIONE E SENTIMENTO - regia
1997
TEMPESTA DI GHIACCIO - regia
1999
CAVALCANDO COL DIAVOLO - regia
2000
LA TIGRE E IL DRAGONE regia
2001
TORTILLA SOUP - soggetto
2003
HULK - regia
2005
I SEGRETI DI BROKEBACK MOUNTAIN - regia
Jake Gyllenhaal
Filmografia
1994
UNA STRANA COPPIA DI SVITATI - attore
1999
CIELO D'OTTOBRE - attore
2001
DONNIE DARKO - attore
LOVELY & AMAZING - attore
2002
MOONLIGHT MILE - VOGLIA DI RICOMINCIARE
- attore
THE GOOD GIRL - attore
2004
THE DAY AFTER TOMORROW - L'ALBA DEL
GIORNO DOPO - attore
2005
I SEGRETI DI BROKEBACK MOUNTAIN - attore
JARHEAD - attore
PROOF - LA PROVA - attore
2006
ZODIAC - attore
la parola ai protagonisti
il regista: Ang Lee
Cosa vuol dire per lei Brokeback Mountain?
Per me Brokeback Mountain è un luogo dove nascondere il proprio amore segreto, il
proprio sogno romantico proibito, un posto che abbiamo conosciuto e dove ciascuno di noi
può immaginare di tornare. Mi piace perché è un luogo esistenziale: riguarda più l'idea
dell'amore che l'amore in se stesso. E' così provocante, una fonte di ispirazione, molto
esistenziale.
Qual è il suo rapporto con il cinema western?
E' un cinema che non ho mai visto. Il più simile a quel genere che mi piace è L'ultimo
spettacolo di Peter Bodganovich, non a caso scritto dallo stesso sceneggiatore del mio film,
Larry McMurtry. Il western è un genere inventato, lontano dalla realtà. Perciò ho scelto di
vedere pochi film, sarebbe stato più dannoso che utile: ho cercato ispirazione per qualche
paesaggio, per ritrarre qualche manierismo da cowboy. Qualcuno di questi viene dal
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comportamento dei cowboy veri, come cavalcano, come trattano gli animali, ma nella
maggior parte sono atteggiamenti che appartengono alle star alla John Wayne. Il western è
un genere macho, orientato all'azione e molto lontano dalla realtà.
L'America degli anni '60 che lei mostra nel film è molto diversa da quella Beat che siamo abituati a
conoscere...
La maggior parte del Paese è così. Quello che vediamo nei film e in televisione è il prodotto
di Hollywood, di gente che vive sulla Costa o nelle grandi città, ma la vita in campagna è
sconosciuta agli stessi americani. E' una grande voce dell'America, capace di influenzare le
sorti del Paese e del mondo, ce ne accorgiamo di questi tempi. E' strano: io ho sempre
immaginato l'America liberale, della democrazia, della cultura pop, dei soldi, delle grosse
macchine. E invece se vai in questi stati conosci l'America vera: austera, dura, violenta,
vicina a madre natura.
Un'America che non sembra gradire troppo il suo film...
Sono tempi che fanno paura. Vivo negli Stati Uniti da tanti anni e non non ricordo tempi
uguali a quelli che viviamo oggi, tempi che fanno davvero paura.
Perché girare un film ambientato proprio durante gli anni 60'?
Diciamo che ambientandolo negli anni 60', ci siamo evitati degli ostacoli. Poi, chiaramente,
eravamo anche "costretti" dal libro. Nel libro la storia è ambientata negli anni 60', e così abbiamo
fatto noi col film
Ang Lee, in che modo ha diretto il suo cast? Considerando anche come l'avrebbe accolto
Hollywood.. insomma, le tematiche che affronta non sono proprio hollywoodiane..
Non ho pensato a Hollywood o non Hollywood. Ho pensato all'umiltà di porsi davanti ad
una storia del genere. Volevamo solo fare un film il più sincero possibile verso il nostro
cuore. Un film il più onesto possibile.
Come ha fatto, una persona culturalmente asiatica come lei, ad aver trattato ed affrontato una
narrazione e sensibilità così occidentale?
Non ho avuto difficoltà a descrivere una storia d'amore come questa. Perché l'amore è
universale. La più grande difficoltà è stato invece il tocco western. Per uno straniero è molto
difficile avere un approccio con un genere tipicamente americano come il Western.
Che cosa ne pensa dell'omofobia?
Penso che quando si parla d'amore, non c'entra se è omosessuale o eterosessuale. Tutti
noi abbiamo voglia di romanticismo. Di liberare questo romanticismo. Quindi Brokeback
mountain è un film universale sull'amore. E noi dobbiamo lottare contro l'omofobia, e
promuovere un grande sentimento come l'amore.
Gli attori: Jake Gyllenhaal e Heath Ledger
Heath e Jake, è vero che avete accettato di partecipare al film senza nemmeno sapere chi lo
avrebbe diretto? Come avete fatto?
Heath: Si. Sono stato folgorato dallo script. E' una bellissima rappresentazione dell'amore.
Io ho letto molti libri sull'amore, ma questa è proprio una favola, una favola amorosa. E
sono molto grato di aver avuto l'opportunità di indagare ed investigare l'amore in questo
modo. E' stato eccitante.
Jake Gyllenhaal: Si, ero già interessato al film ancor prima di sapere chi l'avrebbe diretto. E
quando ho saputo che l'avrebbe diretto Ang Lee sono stato molto felice. Nessuno poteva
dirigere meglio un film come questo se non Ang Lee. In Brokeback mountain viene prima
l'amore, e solo dopo la sessualità. E' una delle più belle storie d'amore che ho mai visto.
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Quest'anno il Festival di Venezia è blindatissima. Che cosa pensate dell'attuale situazione di
politica internazionale?
Heath Ledger: Di sicuro sono molto coinvolto. Non posso non essere coinvolto. Ma non
penso ci sia qualcosa di interessante in quel che penso al riguardo…
Jake Gyllenhaal: Mi sento molto sicuro qui al Festival di Venezia. Mi sento a mio agio. La
sicurezza di questo Festival è tra le più strette del mondo. Per quanto riguarda la politica, il
terrorismo.. diciamo che è "uno stato di mente".
Com'è stato lavorare con Ang Lee?
Heath Ledger: E' stata un'esperienza magnifica. Abbiamo tutti avuta un'esperienza
magnifica. Ang Lee ha quella particolare abilità di osservare la vita come attraverso un
microscopio. Ecco, è microscopico. Insomma, ci sedevamo in un tavolo e cominciavamo
tutti a discutere dei nostri personaggi, su come trattarlo, come marcarlo… Sono molto grato
di aver lavorato con lui.
Jake Gyllenhaal: E' stato straordinario per me. C'è una sorta di "tira e spingi" per capirsi a
vicenda. Una relazione molto sensibile tra gli attori e il regista. Un grande senso del
humour, e io ho apprezzato moltissimo.
recensioni
Maurizio Porro - Il Corriere della Sera, 21 ottobre 2005
Al bando nello Utah, ma campione d' incasso e commozione (dopo il Leone e i Golden Globe
arriverà l' Oscar) il tenero ma infrangibile film del «cinese del Wyoming» Ang Lee, che degli Usa ha
capito tutto, è una storia d' amore. Che sia tra due uomini, per di più virili mandriani e mariti e
padri, ha un' importanza relativa anche se tutto il marketing gioca sull' infranto tabù della gayezza
dei rudi cowboy. La compiutezza dell' opera tratta dal bel racconto di Annie Proulx è nell' armonia
sentimentale, nello struggimento di una mission affettiva impossibile vissuta in paesaggi che
permettono ogni emozione (la sconvolgente prima mezz' ora). In andata e ritorno da casa, i due
amanti si vedono a rate come la coppia etero di Fra un anno, alla stessa ora; ma incombe il melò,
che non è più il complesso di colpa di Hollywood. Perfetti Ledger e Gyllenhaal: veri etero sono
credibili omo. VOTO: 9
Angelica Tosoni – Film&Chips, 20 gennaio 2006
In amore non si soffre solamente quando non si è corrisposti, ci si lacera anche quando non si può
vivere liberamente i propri sentimenti, quando non è possibile esprimere emozioni e sensazioni.
Quando la clandestinità è necessità di sopravvivenza, l’amore si trasforma a poco a poco in una
linfa che tanto vivifica quanto avvelena. Ennis del Mar e Jack Twist sono bollati a vita, hanno un
marchio che li segue ovunque: sono "gente del Wyoming", gente rude e spiccia che si accontenta
di poco. Nel 1963, Ennis e Jack sono poco più ragazzi, già provati dalla durezza della sorte. Si
incontrano per lavoro, devono badare nelle vallate di Brokeback Mountain alle greggi di un
rancher. Trascorrono giorni solamente in compagnia l’uno dell’altro, tutto procede come deve, tra
pecore da pascolare, bevute di whisky, aneddoti da raccontare, ridendo e canticchiando per gioco.
Poi, una notte, improvvisamente la passione irrompe nella loro esistenza e Jack ed Ennis si amano
perché non possono farne a meno. Si vogliono perché tutto procede come deve, appunto. E’ una
passione che non chiede, ma esige, non prevista e non prevedibile, forte e inarginabile come la
natura che li circonda. Una passione ruvida come ruvidi sono Jack e Ennis. La fine dell’estate
separa le loro strade, ma quella passione intesse le loro vite per vent’anni. Non importa se Ennis si
sposa con Alma e ha due figlie e se Jack si unisce a Laureen. Per vent’anni i due protagonisti non
possono fare a meno di incontrarsi e di amarsi ogni volta che riescono a strappare tempo al tempo.
Jack vorrebbe una sola cosa: Ennis. Vorrebbe vivere con lui lontano da tutti, in un ranch in cui
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allevare cavalli. Perché non lasciarsi alle spalle un’esistenza imposta? La risposta è una sola
brutale e scontata: "nel Wyoming non succede". Ennis non si sottrae a questa legge. Jack
vorrebbe, cerca di sopravvivere all’assenza di Ennis come può. Ang Lee, il regista che ha
raggiunto fama planetaria grazie a "La Tigre e il Dragone", planando con grazia orientale sugli
stilemi del genere western, porta sul grande schermo una storia d’amore fortissima e intensa in cui
si stagliano i due protagonisti. Magnifici personaggi, veri nelle loro emozioni trattenute a stento e
nei sentimenti struggenti. La fusione tra l’essere umano e l’incredibile natura di Brokeback
Mountain dilata in una dimensione più ampia il sesso vissuto fino allo spasmo da Ennis e Jack. Le
loro unioni hanno la forza della passionalità dirompente e della naturalità. A Brokeback Mountain
l’amore può essere vissuto, ma solamente lì, o in luoghi ameni e isolati, altrove "non succede". "I
segreti di Brokeback Mountain" è una storia d’amore che, diversamente dalle molte pellicole
intessute da sentimentalismo, mantiene intatta una qualità straordinaria: l’autenticità dei sentimenti
vissuti, ma anche di quelli sospesi, non espressi. E’ innegabile che le sequenze finali siano tra gli
istanti cinematografici più struggenti degli ultimi anni. Indimenticabili quel viso rigato da lacrime
silenziose e quella mano che sfiora due camicie indossate vent’anni prima. Indimenticabili quei due
indumenti che scivolano l’uno sull’altro, sovrapponendosi come le esistenze di coloro che si sono
amati. Una vecchia cartolina di Brokeback Montain, una vecchia camicia da abbracciare per
ritrovare qualcosa di lui, l’unico mai amato. Bella la fotografia di Rodrigo Prieto e bravi i due
interpreti Heath Ledger (Ennis) e Jake Gyllenhaal (Jack). Qualche difficoltà nel credere
all’invecchiamento dei giovani protagonisti per un trucco non riuscitissimo, ma è un dettaglio tutto
sommato trascurabile.
Tullio Kezich - Il Corriere della Sera, 20 gennaio 2006
Inutile cercare «homosexuality» fra le 24mila voci di «The New Enciclopedia of the American
West» (Yale University Press). Ma che il problema fosse ben presente fra gli uomini senza donne
della Frontiera emerge dalla recensione di Brokeback Mountain apparsa sul TLS. Il critico Clive
Sinclair stralcia da un libro sulla città di Abilene il passo in cui si respinge con sdegno il
pettegolezzo relativo a una presunta omofilia del leggendario pistolero Wild Bill Hickock. A
chiarimento di tanto allarme, Sinclair precisa: «Piuttosto che avere a tavola un "queer" (il ministro
Calderoli tradurrebbe "culattone") i "westerners" avrebbero preferito un vampiro». Quanto al
cinema, per quel che ne so, il tema non è mai uscito allo scoperto, salvo a manifestarsi in forme
indirette e allusive. Perciò Ang Lee, autore di I segreti di Brokeback Mountain, con ogni delicatezza
e in chiave addirittura romantica infrange un tabù. Mi accorgo di aver usato impropriamente per il
regista la parola «autore», secondo una cattiva abitudine di marca cinefila, proprio come se
attribuissimo al traduttore Cesare Pavese la piena paternità di «Moby Dick» al posto di Melville. Va
dunque chiarito che Ang Lee è solo il fedele e ispirato «traduttore per immagini» di un bellissimo
racconto di Annie Proulx pubblicato sul The New Yorker del 13 ottobre 1997 (e ora in volume
presso Baldini & Castoldi). La ventennale vicenda dei cowboys Ennis e Jack (i bravi e intrepidi
Heath Ledger e Jake Gyllenhaal), riuniti dal caso a sorvegliare le pecore sui pascoli alti dell' Utah e
spinti l' uno verso l' altro da un' attrazione fatale, è la vera e propria cronaca di un amore, narrata
dalla Proulx con trepido pudore. Questa scrittrice ultrasettantenne, recipiente del premio Pulitzer, si
è sempre occupata di personaggi e temi virili, tanto che ospitata a inizio di carriera su riviste per
uomini dovette firmarsi con un pseudonimo maschile. Anche nel film intitolato da noi I segreti di
Brokeback Mountain (più esatto il titolo francese che parla di un «secret» al singolare) Ennis e
Jack passano a vie di fatto quando il freddo li costringe a pernottare nella stessa tenda.
Imbarazzato scambio di commenti la mattina dopo: «Non sono un invertito...», «Neanch' io...»,
«Questa storia finisce qui...». Altro che finire lì, la relazione si prolunga indefinitamente, a onta dei
rispettivi infelici matrimoni: Ennis con una ragazza che scopre inorridita la tresca e Jack con la
reginetta del rodeo. Fingendo di andare a pesca, i due pellegrini d' amore tornano ogni tanto sul
Brokeback, consapevoli che non durerà; e infatti qualcosa succede. Ang Lee è uno dei casi più
straordinari, forse paragonabile nel cinema solo a quello dell' austriaco Billy Wilder, di perfetta
mimetizzazione nel contesto americano. Un fenomeno che in una recente intervista a le Monde l'
interessato spiega così: «Ho vissuto come un falso cinese a Taiwan, poi come straniero negli Stati
Uniti...». Donde la necessità di compenetrarsi in una realtà diversa, ma anche lo stimolo a scoprire
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cose nuove. Del Wyoming non sapeva niente («...come la maggior parte degli americani, del
resto...».) e ci è pervenuto sedotto dal «lato elegiaco» della prosa della Proulx. Il suo film vale per
la qualità semplice e raffinata della tessitura, oltre che per la spiazzante originalità. Qualcuno ha
definito Ang Lee lo Zapatero del cinema, in quanto ha saputo legittimare un idillio fra uomini senza
ammicchi né ironie. A Salt Lake City, ultima trincea del comune senso del pudore, Brokeback
Mountain è stato messo al bando mentre si proiettano liberamente i film di vampiri.
Natalia Aspesi - La Repubblica, 3 settembre 2005
Lacrimano di nascosto giovanotti carini, le signore poi, un fiume: finalmente una grande storia
d’amore, di quelle gioiose e dolenti, una di quelle storie che per dare vera soddisfazione devono
raccontare passioni impossibili, accidentate, segrete, fatte di rari magici incontri che illuminano vite
doverosamente banali. Da quando le donne si sono fatte difficili (antipatiche, distratte, esigenti,
colpevolizzanti), il cinema e la letteratura riescono sempre meno a raccontare l’amore eterno,
perché persino i film in costume o i romanzi storici vivono soprattutto di disamori e corna. Ma se un
rude mandriano s’innamora, riamato, dì un muscoloso cowboy. ecco che pare del tutto naturale,
inevitabile, che tra loro s’accenda l’incanto dei sentimenti, la tempesta dei sensi, che i due si
desiderino e si cerchino e si aspettino e si ritrovino per sempre, sino alla morte: mentre a casa
mogli e bambini e suoceri aspettano nervosi e dubitosi il ritorno del loro rispettivo eroe, padre
esemplare e marito meno, saltuariamente ma intensamente gay. Brokeback mountain, in
concorso, è un film nato lui stesso dalle lacrime: hanno pianto gli sceneggiatori quando per sette
anni non hanno trovato nessuno disposto a finanziario, dirigerlo e interpretarlo, ha pianto il regista
cinoamericano Ang Lee (Tempesta di ghiaccio, La tigre e il dragone, Hulk) quando ha letto il
commovente copione, hanno pianto i due bei protagonisti, il nerboruto Heath Ledger dal sorriso
fanciullo e il più delicato Jake Gyllenhaal dalle lunghe ciglia nere, per gli scomodi giorni passati a
gelare per le riprese sulle montagne: non si sa, se vedendo il film, per ammirazione o fastidio,
piangerà pure la settantenne Annie Proulx, la scrittrice americana premio Pulitzer, autrice del
racconto breve pubblicato dal New Yorker nel 1997, da cui il film è tratto (pubblicato in Italia da
Baldini & Castoldi col titolo Gente del Wyoming). Per avere un’idea di quanta omotenerezza dilaghi
dal libro e dal film, che ne riproduce perfettamente la scena, ecco una frase: «Quel che Jack
ricordava e rimpiangeva con un’intensità che non poteva soffocare né capire, era la volta che, in
quella lontana estate sulla Brokeback, Ennis gli era andato alle spalle, attirandolo a sé, il silenzioso
abbraccio che pIa-cava una sete condivisa e sessuata». Wyoming, 1963: spazi immensi,
meravigliose montagne, laghetti ghiacciati, alberi maestosi, neve, tempesta, tramonti, albe,
silenzio, per giorni e giorni: e un mare spaventevole di pecore da sorvegliare e proteggere dai
coyote sbranatori. Solitudine. Fagioli sul fuoco, tenda scossa dalla bufera, bottiglia di bourbon,
bidet nel ruscello, occhiate timide e inquiete. Poi, via l’eterno cappellone e i jeans, sesso famelico
e maschio, Timide carezze, baci delicati, pudica tempesta emotiva, casti nudi. Non sono frocio.
Neanch’io. Sarà, ma da quel momento Ennis (Ledger) e lack (Gyllenhaal) si desidereranno e
mancheranno per tutta la vita, avranno continua nostalgia di quell’estate incantata, in cui si sono
rivelati l’uno all’altro e a se stessi senza accettarsi. Ennis sposa la fidanzata, ha due bambine, fa
miseramente il bovaro, Jack incanta una benestante bella regina del rodeo, e pur detestato dal
futuro suocero la sposa e diventa padre di un piccino malmostoso. Vite spente, senza gioia, lavori
brutti, figli che strillano, mogli giustamente musone, case squallide: poi l’immensa gioia dei giorni di
fuoco in cui, un paio di volte l’anno, i due innamorati si ritrovano, nel paradiso della reciproca
passione e della natura incontaminata e gloriosa delle montagne, a pescare, cacciare, far la lotta,
prendersi, senza parole, senza sapere, con felicità e inquietudine. Le mogli intanto se la passano
peggio: hanno capito e, rancorose, devono sopportare, sentirsi niente, venir talvolta, stancamente,
usate. Per vent’anni va avanti così e andrebbe avanti così all’infinito (e sono già passati l34 minuti»
se purtroppo o finalmente, uno dei due non morisse, consentendo all’altro di passare il resto della
sua vita monca a baciare la rustica camicia del defunto. Si sa che niente è più virile dell’epopea
western americana e del cinema che non ha mai smesso di celebrarla, con i suoi eroi solitari a
cavallo, la pistola veloce, il rodeo con i tori infuriati, il lazo, gli stivaloni di cuoio con gli speroni a
stella, il cappello a tesa larga. la pinta di birra, la barba non fatta, i sudori, il giaccone sudicio e le
donne infelicemente innamorate. Ma si sa anche che il cowboy, come il camionista e il militare, è
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una delle icone gay più venerate, tanto che esistono intere collane di romanzi rosa con storie
omowestern e che anche da noi certi dark party di categoria sono spesso dedicati al tema. Così,
sia il romanzo che il film non compiono una dissacrazione, ma si attengono alla conferma
dell’immaginario ma anche della realtà gay. Tanto che i due autentici cowboy che hanno
collaborato al film appartengono ad associazioni di rodeo riders gay che, assicurano, sono una
folla: uno dei due è felicemente sposato con un ragazzo, l’altro è fidanzato. Film melò quindi
soprattutto per signore rassegnate all’inconsistenza, Brokeback mountain, come il racconto della
Proulx. ha il valore sociale di piantana con la gayezza che piace tanto alta televisione coni suoi
briosi giovanotti che sanno tutto di trucco e di moda e d’ignorare l’omosocietà privilegiata, protetta
dal denaro e da quella cultura che dà un senso di appartenenza e la protezione della propria
storia. Ennis e Jack, più per il luogo che per il tempo in cui sono cresciuti, sono privi di qualsiasi
entroterra intellettuale, non hanno alcun riferimento che li rassicuri, o armi di difesa che in un
mondo rurale chiuso, primitivo e minacciato dall’ira divina (uno è metodista, l’altro avventista), li
difenda dall’isolamento; sono addirittura inconsapevoli di cosa li spinga uno verso l’altro, una
diversità, o una colpa per loro stessi inaccettabili. Non conoscono le parole per dirlo, per dirselo,
per avere finalmente il coraggio di essere liberi di vivere come non osano neppure sognare.
Roberto Nepoti - La Repubblica, 20 gennaio 2006
Vuoi vedere che Ang Lee, cinese, ne sa più degli americani di quello che gli americani sanno di se
stessi? Ce lo aveva già fatto sospettare col ritratto dolente della provincia del Connecticut
(Tempesta di ghiaccio) o la rivisitazione della Guerra Civile (Cavalcando col diavolo); ce lo
conferma ora che, sulla base di un racconto di Annie Proulx pubblicato in origine sul New Yorker,
si applica a sfatare alcuni sacri miti yankee come i cavalieri della prateria e l'amicizia virile. 1963.
Nel bucolico Wyoming traversato dalle carovane del vecchio western, i cowboy precari Ennis e
Jack sorvegliano un gregge di pecore sulla solitaria montagna di Brokeback. Tra noia, ovini e cibo
poco appetitoso, instaurano un rapporto cameratesco fisico e, al caso, violento, che sfocia
nell'intimità sessuale. Alla fine dell'estate si separano; poi entrambi prendono moglie e generano
figli. Si ritrovano dopo quattro estati; da allora, e per vent'anni, organizzeranno insieme periodiche
fughe d'amore. Niente d'inedito, in fondo, aldilà del colpo assestato al mito di John Wayne & co.
Ma quello è solo l'aspetto più appariscente della faccenda, anche se ha posto I segreti di
Brokeback Mountain A guardare il film per com'è, non ci vuol molto a capire che si tratta di una
love-story in piena regola, dove agiscono l'antitesi tra passione e routine coniugale, pubblico e
privato, socialmente accettato e illecito, fedeltà e tradimento; e che funzionerebbe altrettanto bene
(ma non si sarebbe conquistata la stessa attenzione) anche se gli amanti fossero etero. Per gran
parte del film, almeno: perché nell'epilogo torna fuori il tema dell'intolleranza e del machismo, di cui
fa le spese il più incline dei due alla promiscuità sessuale. Parlando della competenza di Ang Lee
(che ha studiato in Illinois e alla New York University) in cose americane non ci riferivamo, però,
tanto alla riscrittura in chiave gay del mito del cowboy, quanto piuttosto a questioni di stile. Stile
iconocrafico, per cominciare: basta osservare la sequenza iniziale, dove tutto fa pensare alla
pittura iperrealista Usa e alla Pop Art. Non meno stile della narrazione: che è molto classico,
impeccabile nella confezione, non privo di ridondanze e di enfasi melodrammatica, come ai tempi
di quella Golden Age hollywoodiana di cui il regista è sempre stato un convinto ammiratore.
Formula ancora infallibile di un tipo di cinema rimasto immutato (immobile) nel tempo che, dopo il
Leone d'oro già incassato a Venezia, l'America non mancherà di premiare con un sacco di Oscar.
Alessandra Levatesi - La Stampa, 20 gennaio 2006
Ci sono vicende che potrebbero essere ambientate sotto qualsiasi cielo e altre che appartengono
così intimamente al luogo in cui si svolgono da assumerne il colore, lo spirito, il sapore. Il bel
racconto «Brokeback Mountain» di Annie Proulx, pubblicato la prima volta su «The New Yorker» il
13 ottobre 1997, diventato il film Leone d'oro 2005 e pluripremiato dai Golden Globe in attesa delle
candidature all'Oscar, rientra nella seconda categoria. Narra in modo semplice e diretto la storia
d'amore che divampa fra due giovani cowboys sugli alti pascoli della montagna del titolo, ai confini
del Wyoming, dove lo spazio aperto, la natura si riverberano al punto tale sui personaggi da
diventare tutt'uno. Orfano, introverso e rigido il contadino Ennis, più tenero, disponibile il ragazzo
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del rodeo Jack, trascorrono insieme un'estate di passione con l'idea («Non sono gay»,
«Neanch'io») che finirà lì. Ennis a novembre si sposa, nasce una bimba, poi ne arriva un'altra ma
dopo quattro anni quando l'altro riappare è come se fosse passato un giorno. Così, anche se pure
Jack si accasa e diventa padre, il rapporto destinato a rimanere segreto ricomincia consumandosi
sull'arco di circa vent'anni in una manciata di furtivi, brevi incontri sempre lassù, nella montagna in
cui è nato. Il punto è che nelle piccole comunità della grande provincia americana l'omossesualità
è tuttora un tabù, e figuriamoci cosa succede quando va addirittura a intaccare il mito macho del
rude mandriano. Come attestano le cronache di ieri e oggi, certe cose si fanno però devono
restare nell'ombra, pena un ostracismo che arriva a manifestarsi con reazioni violente fino
all'omicidio. Tuttavia la Proulx, che avendo sempre trattato argomenti «maschili» solo dopo il
Pulitzer ha potuto svelare la sua femminile identità firmando per esteso con il primo nome Annie,
come ogni autentico autore è ben lontana da intenti meramente sociologici e con la sua scrittura
limpida ed essenziale mira a riflettere la verità delle cose. Difficile la trascrizione sullo schermo di
una così sottile e molto americana tessitura narrativa. Soprattutto considerando che nei panni di
Ennis è l'attore australiano Heath Ledger, che Jake Gyllenhaal prima di fare Jack non era mai
salito su un cavallo, che le suggestive montagne del film sono nello Stato di Alberta (Canada) e
che il cineasta Ang Lee è nativo di Taiwan. Eppure, attenendosi alla fedelissima sceneggiatura di
Larry McMurtry e Diana Ossana, Lee ha compiuto un miracolo di finezza illustrativa che dimostra
una volta di più la sua straordinaria capacità di compenetrarsi nella natura umana, a dispetto della
cultura di appartenenza. E Gyllenhaal e Ledger, percorrendo a cavallo boschi e vallate, dormendo
in tenda, contemplando in lunghi silenzi tramonti mozzafiato o scrutando scuri nembi, prime
avvisaglie di tempesta, interpretano Ennis e Jack con una speciale naturalezza che li confonde con
i loro personaggi.
Lietta Tornabuoni - La Stampa, 3 settembre 2005
Cowboy gay? Proprio. Chi conosce l’editoria omosessuale sa come questo amato emblema di
virilità (spesso nudo, ma con stivali e cappello) si ritrovi dappertutto, in disegni, fotografie, fumetti,
illustrazioni di romanzi erotico-rurali, calendari, cartoline; anche al cinema, sin dal 1969 John
Schiesinger raccontava in Uomo da marciapiede il prostituirsi a New York del cow boy texano John
Voight. Però Brokeback Mountain, il film in concorso di Ang Lee, è differente: non racconta un
incontro sessuale precario ma una storia d’amore lunga vent’anni; gli amanti cow boy non sono
gay ma bisessuali che sì sposano, hanno figli, divorziano e si vedono per amarsi. Molto
sentimentale. Se la vicenda si svolgesse tra un uomo e una donna risulterebbe melensa,
sdolcinata: tanto più che il regista cinese emigrato negli Stati Uniti ha una comprensibile
predilezione per gli stereotipi americani. I due cow boy protagonisti si conoscono nel 1963 sul
lavoro: da soli, portano al pascolo sulla montagna di Brokeback nel Wyoming uno sterminato
gregge di pecore; il freddo e la solitudine favoriscono l’intimità, l’amore carnale che li spaventa
(«Questa storia finisce qui. Io non sono frocio»). Finito il lavoro, si separano: «Ci vediamo». Non si
vedono per quattro anni: poi si ritrovano sposati e padri, sempre innamorati, e da allora ogni tanto
si danno appuntamento sulla Brokeback Mountain. Uno vorrebbe una vita in comune, l’altro non se
la sente; uno cerca nuovi incontri gay, l’altro no; uno muore in un incidente stradale, l’altro
consuma una morte civile di povertà e isolamento. Il film tratto dal racconto di Annie Proulx
pubblicato col titolo Gente del Wyoming da Baldini Castoldi Dalai, sostenuto dalla associazione dei
cow boy gay canadesi, è interpretato da Heath Ledger e Jake Gyllenhaal che recitano molto bene
l’euforico entusiasmo dei vent’anni come la frustrazione dei quaranta. Le scene di sesso,
nell’angustia oscura di una piccola tenda, sono quasi invisibili; l’amore si esprime assai meglio con
i baci, i corpo a corpo di lotte scherzose, la nudità dei bagni a fiume, la felicità fisica. Per i due
amanti, incontrarsi non è soltanto un’occasione amorosa: è pure un modo di fare per qualche
giorno una «vita da uomini» nella libertà della Natura. Gli alberi, il fiume, le montagne, il cielo rosso
al tramonto e grigio all’alba, cervi, orsi bruni, fuochi di bivacco, scatole di fagioli, canzoni suonate
sull’armonica a -bocca, sono pure una stupenda fuga dalle piccole vite con mogli che protestano e
bambini che piangono tra quattro mura. Ang Lee e il suo direttore di fotografia Rodrigo Prieto
rinnovano la tradizione del western nella bellezza del paesaggio, nei grandi cieli aperti disseminati
di nuvole candide, nella neve sulle alte cime, nelle montagne incantate. Ma, s’è detto, Brockeback
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Mountain è davvero troppo sentimentale: una caratteristica di altri film del regista, certo non Hulk
però Il banchetto di nozze o Tempesta di ghiaccio. L’amore che stavolta racconta è secondo lui
«l’illusione per eccellenza ma anche la ragione di vita per definizione: il sogno di un’unione totale e
onesta con un’altra persona».
Maurizio Cabona - Il Giornale, 20 gennaio 2006
Se i due mandriani di Brokeback Mountain (Montagna dalla schiena spezzata) tradissero le mogli
con altre donne, anziché fra loro, il film di Ang Lee sarebbe passato sotto silenzio, come uno dei
tanti che rappattumano spunti di film precedenti: in questo caso si recupera la trama di Lo stesso
giorno, il prossimo anno di Robert Mulligan (1978) inserendola sullo sfondo degli Spostati di
Huston (1961). E infatti la vicenda omoerotica comincia nel 1963 e si trascina, ripetitiva dunque
monotona, quattro volte l'anno per quattro decenni, durante i quali due poveracci - tale il rango dei
mandriani nella società statunitense -, con la scusa di andare a pesca, vivono la loro passione.
Non è poi nemmeno una novità che la sodomia cavalchi. Già nella versione integrale di Fiume
rosso di Hawks (1948) - che gli italiani ignorano, ma che i critici italiani dovrebbero conoscere l'attrazione del cow-boy Montgomery Clift per il cow-boy John Ireland è netta quanto la gelosia del
cow-boy John Wayne per il primo. A differenza di Wayne, Jake Gyllenhall non spara, ma prende
Ledger con un vigore che ricorda Happy Together (1997), anche quello film premiato a un festival
(Cannes) e di regista cinese, Wong Kar-wai.
Fabio Ferzetti - Il Messaggero 3 settembre 2005
“In the Mood for Love” fra i monti selvaggi del Wyoming. Stessa epoca, anni ’60 e oltre (con
omaggio esplicito, la canzone Quizàs ); amore altrettanto infelice; regista cinese, anche se non è
l’hongkonghese Wong Kar-wai ma il taiwanese americanizzato Ang Lee, autore di film diversissimi
come Banchetto di nozze, Tempesta di ghiaccio, Ragione e sentimento . I protagonisti invece sono
americani - e sono tutti e due maschi. O almeno ci provano, sposandosi e facendo figli per
condurre una vita “normale”. Ma la passione è la passione, così dopo quattro interminabili anni di
separazione i due cowboys finiscono per ritrovarsi una, due, molte altre volte a Brokeback
Mountain , come recita il titolo di questa storia d’amore sommessa e struggente come una ballata
western, ma anche definitivamente lontana dai cliché del cinema gay. Perché Ang Lee, da bravo
“falsario” (nel suo caso è un complimento), sa rifare tutti gli stili, tutte le culture. Così gioca l’intero
film sul filo del mito (il West) seguendone uno ad uno tutti i luoghi comuni, non per metterli in facile
parodia ma per ridargli vita e verità. Ed ecco i due cowboys a cavallo con lo Stetson d’ordinanza,
anche se pascolano greggi e non mandrie. Ecco riff avvolgenti alla Ry Cooder, cieli sconfinati, la
Natura incantevole e insidiosa, scarne confidenze intorno al falò. Anche se Jack (Jake Gyllenhaal)
non centra un coyote a pochi passi; Ennis (Heath Ledger) cade addirittura da cavallo; e se la notte
ha freddo finisce per rifugiarsi nella tenda di Jack. Dove la (loro) natura fa finalmente il suo corso.
Naturalmente Ang Lee ha troppo spirito per non intuire i risvolti umoristici del ribaltone. Così se ne
libera in una sola scena, quando il padrone del bestiame vede col binocolo i due bravi cowboy
rotolarsi seminudi sul prato. Il resto non è commedia, semmai è solido melodramma, strutturato
intorno a due esistenze mancate come tante (dietro il film c’è un racconto di Annie Proulx, scrittrice
da Pulitzer). I due amanti a intermittenza sono infatti molto diversi, come qualsiasi coppia. Jack è
aperto e intraprendente; Ennis, terrorizzato a suo tempo da un padre macho, chiuso e represso
(ma sarà lui, amara ironia, l’unico a divorziare, mentre Jack tiene abilmente il piede in due staffe).
Jack campa cavalcando nei rodeo e sposa la figlia sexy di un greve ma ricco commerciante in
trattori; Ennis, due figlie, non tiene un lavoro e si fa pure beccare dalla moglie, che per lunghi anni
sa ma tace. Fino all’epilogo, da non raccontare, che chiude vent’anni e più di incontri clandestini
travestiti da “partite di pesca”. Perché Jack vive in Texas, Ennis nel Wyoming, ed è lui a non avere
il coraggio di fare scelte definitive, condannando entrambi a diverse forme di infelicità. Straziante
per Jack, quieta e malinconica per Ennis, la cui figlia maggiore ha capito tutto ma saggiamente non
parla. In tono con questo film volutamente “normale”, dunque medio, sensibile, levigato, che
magari non cambierà la storia del cinema. Ma certo non lascia il West come prima.
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Valerio Caprara - Il Mattino, 21 gennaio 2006
Se la domanda è secca, la risposta è no: I segreti di Brokeback Mountain non ci sembra un film
importante. Se il discorso si sposta sul racconto da cui è tratto, possiamo assicurare che è intenso
e ben scritto. Se ci s'interroga sul suo tema più appariscente, dobbiamo dire che è sfruttato in
modo convenzionale. Non a caso - senza pensare che sia un marchio infamante - il film del
taiwanese americanizzato Ang Lee ha vinto il Leone d'oro a Venezia, ha fatto incetta di Golden
Globe ed è in pole position per la consacrazione agli Oscar. L'anziana scrittrice E. Annie Proulx
(cfr. l'edizione italiana tradotta da Mariapaola Dèttore per Baldini Castoldi Dalai) ha concentrato in
meno di cento pagine limpide ed essenziali una lunga e tormentosa love story fra due cowboy,
l'introverso Ennis e il tenero Jack: a dispetto dei rispettivi matrimoni e fingendo di tornare a pesca
sui luoghi dell'approccio, gli amanti clandestini torneranno a incontrarsi nel segno di un destino che
non può che essere infausto. Ang Lee, sorta di zelig cinematografico in grado d'incarnarsi in
qualsiasi genere classico, è a pieno agio nel dirigere i bravi Heath Ledger e Jake Gyllenhaal sullo
sfondo di panorami immacolati e pittoresche cittadine western e ad applicare uno stile medio, da
melodramma «normale», ma in realtà ultrapremeditato. Per qualcuno è un merito, ma per noi
solleva molti dubbi il fatto che lo stesso film, affidato ai pacifici (?) ruoli di maschio e femmina, non
avrebbe veleggiato sui proficui spifferi dello scandalo nel segno della facile demistificazione del
mito americano. I temi striscianti di tanta letteratura e tanto cinema, dai sospetti vagabondaggi dei
cacciatori e degli indiani di Fenimore Cooper all'ambiguo amore/odio tra gli eterni duellanti alla Pat
Garrett e Billy the Kid, si traducono, così, in un apologo alquanto melenso, ridondante e
didascalico al di là della confezione anticata e raffinata. Come dimostrano l'insistenza - del tutto
estranea al racconto - sull'odiosa controparte eterosessuale (mogli grottesche, marmocchi urlanti,
suoceri cafoni e fascisti) e qualche lapsus d'umorismo involontario (il ranchero allibito nello
scorgere al binocolo i due che s'abbrancano seminudi sul prato).
Dina D'Isa - Il Tempo 3 settembre 2005
In un clima di tranquillo weekend estivo e poco affollato, la terza giornata della Mostra del Cinema
di Venezia si è aperta ieri con il film a sorpresa, il ventesimo in corsa per il Leone d'Oro:
«Takeshi's» di Takeshi Kitano, si è rivelato una sorta di visionario film felliniano, condito da Yakuza
e ristoranti giapponesi, dove si mangiano però spaghetti alla napoletana. Il regista, il quale ha detto
che dopo questo film si fermerà per almeno un anno per poi dedicarsi ad un genere comico, recita
se stesso, sdoppiandosi tra mondo simbolico e onirico. Dopo la proiezione del film, applaudito
tiepidamente, nella conferenza stampa presentata dallo stesso Marco MÜller, è stata offerta a
Kitano una scultura della scuola vetro di Murano sul tema del doppio. È giunto, intanto, per la
prima volta sul Lido, David Cronenberg per presentare «Red Cars», libro con copertina di alluminio
che raccoglie uno script inedito, mai diventato film e 194 immagini, tra foto dell'archivio Ferrari e
disegni di motori. Stampato in un'edizione limitata di mille copie, il libro contiene in allegato un
modellino Ferrari 156 F1, protagonista della storia. E mentre i biglietti in vendita per il «Casanova»
di Hallstrom, che verrà proiettato oggi, sfumavano in pochi minuti, uno dei film più favoriti,
«Brokeback Mountain» veniva presentato dal regista Ang Lee, destando interesse e ammirazione
da parte di una folta platea di giornalisti. L'operazione era senza dubbio difficile, ma Lee è riuscito
a realizzare un'intensa storia d'amore tra due cow boy, senza cadere nella retorica né negli
stereotipi. Lo scandalo del film è forte non tanto per le scene di sesso, peraltro mai volgari, quanto
nella forza dei sentimenti che ossessionano, non solo due uomini, ma due cow boy, per
antonomasia simbolo del machismo sfrenato nell'antica tradizione americana. Distribuito dalla Bim,
in Italia il prossimo anno e tratto dal racconto omonimo di Annie Proulx, il film è ambientato nel
Wyoming degli Anni Sessanta, dove s'incontrano Ennis Del Mar (Heath Ledger) e Jack Twist (Jake
Gyllenhaal), assunti come pastori dal rancher locale da Joe Aguirre (Randy Quaid) e mandati a
pascolare le pecore sulla grande montagna di Brokeback. La loro amicizia si trasforma in amore,
un amore che dura vent'anni, nonostante i due si sposino regolarmente con tanto di prole a carico.
«Ho scelto di fare questo film - ha spiega il premio Oscar Ang Lee, di origine taiwanese - perché
volevo raccontare una storia universale di sentimenti. Non ho fatto il film per le comunità gay, né
per aprire dibattiti politici. L'elemento più difficile da affrontare è stato quello di far crollare il mito
del Wild West: Ennis e Jack nascondono il loro amore, in un mondo dove troppo spesso non si ha
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coraggio di esprimere i propri sentimenti». I due protagonisti, Jake Gyllenhall e l'attore australiano
Heath Ledger (al Lido anche per il «Casanova» di Lasse Hallstrom e per «I fratelli Grimm» di Terry
Gilliam), hanno dichiarato di non aver avuto alcuna difficoltà nell'interpretare un mandriano, una
figura universale in tutto il mondo. Anche il presidente dell'Arcigay, Franco Grillini, ha detto che il
film di Ang Lee «racconta finalmente l'amore omosessuale come è, identico a quello etero: è una
storia che aiuta la comunità gay, anche perché rappresenta l'amore che dura una vita». Oltre al
divertente «Initial D» diretto da Andrew Lau e Alan Mak - un cult adrenalinico per i patiti delle play
station - è stato presentato ieri fuori concorso il film «Fragile» dell'enfant prodige del cinema horror
spagnolo, Jaume Balaguerò. Interpretato da Calista Flockart - moglie di Harrison Ford che l'ha
accompagnata sul Lido - Richard Roxburgh ed Elena Anaya, il film è una ghost story, acquistata
per l'Italia da Luciano Martino, Edwige Fenech e Pierfrancesco Aiello, distribuito dalla Nexo e nelle
sale da novembre. Annuncio a sorpresa, infine, dal presidente Croff, il quale è tornato ieri sul tema
del Festival del Cinema di Roma, che sarà presentato proprio sul Lido, l'8 settembre. «Il rapporto
tra Roma e Venezia sarà all'insegna della collaborazione e della sinergia - ha detto Croff L'iniziativa di Roma nasce dalla Fondazione Musica per Roma, che collabora con la Fondazione
Biennale sia per la musica sia per la danza e si potrebbe organizzare una retrospettiva in comune
in periodi diversi dai festival, per rafforzare un rapporto privo di conflittualità». Quello di Croff è un
orientamento in linea con le dichiarazioni espresse sul Lido dal ministro Buttiglione, che aveva
invitato Venezia a lavorare in modo sinergico con Roma e Milano. Il progetto capitolino avrà
comunque fonti di finanziamenti diverse da quelle per la Biennale e già si mormora che Roma,
nell'ambito di questo nuovo festival, potrebbe accogliere anche il grande mercato cinematografico,
prima con sede a Milano.
Gian Luigi Rondi - Il Tempo, 18 gennaio 2006
Dei cowboys omosessuali. Ce ne daranno stati, chiedendo scusa a John Wayne, e ce ne saranno
forse anche adesso, ma il cinema, finora non ce ne aveva detto. Per rispettare la tradizione di
virilità del West. L’infrange ora, con il film canadese di oggi, il regista di Taiwan Ang Lee, che da
tempo, opera con successo anche in Occidente. Bastino, a ricordane la carriera, il recente La Tigre
e il Dragone e, prima ancora, Banchetto di nozze, Ragione e sentimento e il western Cavalcando
con diavolo. Anche qui, appunto, il West, non però ai tempi della Guerra Civile, negli anni
sessanta, invece, sempre comunque nel Wyoming e con tutti i personaggi largamente dotati dei
tradizionali cappelloni. Due in primo piano, Ennis e jack, il primo è nato lì e ha fato sempre il
pastore, l’altro viene dal Texas e si è fatto una certa strada come esperto in rodeo. Quell’agosto in
cui cominciamo a conoscerli, avendo trovato lavoro come custodi di pecore, vengono spediti
insieme in un pascolo di montagna, proprio su quella Brokeback Mountain che dà il titolo allo loro
storia. Isolati, tra le pecore, in mezzo a temporali e ad altre aggressioni della natura, cedono a un
certo momento a una sorta di intimità (specialmente per inizativa di Jack) che agli inizi
sembrerebbe solo sessuale. Tornanti in pianura, quasi la dimenticano, prima Ellis poi Jack si
sposano, hanno figli, conducono una vita normale, ma quando Jack, dal Texas, si rifà vivo e viene
a trovare Ellis nel Wyoming, quel loro rapporto torna in primo piano, soprattutto, però, lasciando
che adesso, a sostenerlo, ci sia il sentimento. Andranno avanti così per quasi vent’anni, divisi tra le
mogli e il lavoro, in mezzo a difficoltà d’ogni tipo, finché Jack morirà in un incidente. Lasciando
Ellis, lontano, a tu per tu con un dolore cocente. Certo, una materia difficile (e spesso ingrata), Ang
Lee, tuttavia, sulla scorta di un sceneggiatura del noto romanziere Larry McMurtry, l’ha risolta con
delicatezza, specie quando, nella seconda parte, i sentimenti e i loro contrasti, all’interno di due
caratteri molto dissimili, prevalgono sul sesso. Il linguaggio è arioso, i climi, anche i più tesi, sono
quasi sempre interiori anche quando si fanno in primo piano gli scontri con le famiglie e con gli
ambienti attorno per nulla inclini a sopportare quella relazione fra i due. Di molto rilievo
l’interpretazione dei protagonisti, non solo quella di Jake Gillenhaal che è Jack, ma quella di Heath
Ledger che, nel personaggio di Ellis, da ampie prove di quelle doti espressive con cui sempre più
si sta imponendo in questi tempi recenti. Riuscendo entrambi nella non facile scommessa di farsi
accettare.
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Alberto Crespi - L’Unità, 3 settembre 2005
«Non posso rimanere con le bambine, le vacche stanno partorendo. Se lascio il ranch mi
licenziano», dice il cowboy Ennis alla moglie, anche lei consapevole che per non morire di fame
bisogna lavorare duro: e siamo nel Wyoming negli anni ‘60, non durante la Depressione! Vedendo
come vivono questi poveri americani, non si può fare a meno di pensare a New Orleans e ai luoghi
comuni che la stampa e la tv stanno sbrodolando in questi giorni: «Scene da terzo mondo», si
sente dire. Noi a New Orleans ci siamo stati, nel ‘96, diretti alle Olimpiadi di Atlanta, e permetteteci
una divagazione: quello «è» terzo mondo, o comunque ha sacche di terzo mondo (quartieri
poverissimi sotto il livello del mare, i neri che abitano in baracche di legno, le vecchie comunità
francofone dei cajun che vivono nella giungla come cento anni fa) che non potevano che essere
spazzate via da una catastrofe annunciata. In questo contesto, è quasi secondario che Brokeback
Mountain, ispirato a un famoso e sopravvalutalo racconto di Annie Proulx, sia venduto come «il
primo film sui cowboy gay». Primo, perché non è vero. Secondo, perché l’aspetto più importante
della storia di Ennis e Jack, due ragazzi che passano un’estate a badare alle pecore in cima a un
monte del Wyoming e si innamorano per la vita, è un altro. E la loro povertà, la loro incapacità di
comunicare (fanno l’amore quasi senza parlarsi, e le uniche frasi che riescono a scambiarsi la
mattina dopo sono: «io non sono frocio»; «neanch’io»), la loro siderale distanza dall’America
evoluta che Hollywood ci racconta. Jack, che dei due è il più consapevole, tenta di convincere
Ennis a provarci, a comprare un ranch insieme. Ennis risponde sempre che non si può, che nel
loro mondo due uomini che vivono insieme sono una cosa inaccettabile. Vedendo il film, viene da
chiedersi: ma perché non vanno a San Francisco, la città dove i gay sono numerosi e potenti, dove
sarebbero accettati per quello che sono? Il problema non è che Ennis e Jack non saprebbero che
fare a San Francisco; il problema è che forse non hanno mai nemmeno sentito parlare, di San
Francisco! Vivono in un mondo primordiale, dove il capoccia può licenziarti se un orso si mangia
due o tre pecore, dove il duro lavoro nei ranch o l’aleatorio ambiente del rodeo garantiscono una
sopravvivenza stentata; dove il massimo dello svago è una birra al saloon o il football in tv. Ennis e
Jack, interpretati da Heath Ledger e Jake Gyllenhaal, sono prima di tutto due poveracci incapaci di
esprimere le proprie emozioni. Poi, sono anche omosessuali. Come accennavamo giorni fa, è
singolare che sia un taiwanese, Ang Lee, a rompere un tabù del western e a smontare
definitivamente la mitologia del cowboy. In realtà non è la prima volta. I western classici e moderni
con eroi dalla sessualità sfumata sono decine: basterebbe pensare al personaggio di Anthony
Quinn in Ultima notte a Warlock o a quello di Montgomery Clift nel Fiume rosso. Ma le anime belle
che si stupiranno alla scena di sesso sui monti del Wyoming dovrebbero rivedersi Lonesome
Cowboys di Andy Warhol, per scoprire che la mitologia del West ha fatto i conti con
l’omosessualità ben prima che Brokeback Mountain sbarcasse al Lido. Detto questo, il film è
abbastanza bello. Si sente la mano del grande Larry McMurtry (lo sceneggiatore dell’Ultimo
spettacolo e di Hud il selvaggio) che ha molto elaborato il sensazionalismo del racconto originale. I
personaggi sono forti, intensi, veri. Il senso del racconto e del paesaggio confermano in Lee un
regista di grande eclettismo. Per cui, andatelo a vedere, senza stupori: non fate come quel
personaggio di Borotalco che, di fronte alle sparate di Carlo Verdone, sbottava: «Nooo! Ma
davvero John Wayne era frocio?!».
Roberto Silvestri - Il Manifesto, 20 gennaio 2006
Ennis Del Mar (Heath Ledger) e Jack Twist (Jake Gyllenhaal) disoccupati sposati, si trovano sulle
montagne a guardia di un gregge di pecore e nelle lunghe giornate di noia scoprono di amarsi.
«Ma non sono frocio» si dicono l'un l'altro nel lungo spot che sembra finalizzato al rilancio
dell'Uomo-Marlboro, il rude uomo del Far West con giacca foderata di montone. Il film esclude ogni
interferenza emotiva, è decisamente machista e in questo non decostruisce affatto, nonostante le
intenzioni, il western classico del crepuscolo. Il copione era destinato a Gus Van Sant e allora sì
avremmo assistito a una frantumazione sui generis del genere, a un «corpo a corpo» trans nelle
vallate verdi. Qui invece per anni e anni, dai sessanta agli ottanta, i due si trovano e si perdono
sotto gli occhi vuoti di due mogliettine sospettose ma fedeli. La famiglia tradizionale - insopportabili
riti domestici con prole molesta - sono l'altra faccia di una relazione d'amore omosex così
«normale» che avrebbe convinto perfino gli Amish a votare per i pacs o per i matrimoni gay... Così
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scriveva Mariuccia Ciotta da Venezia, dove la giuria di Gitai e Acheng riempì d'oro esagerato a
Venezia 2005 questa «storia d'amore nel west», I segreti di Brokeback mountain, tratta dal
romanzo breve del premio Pulitzer Anne Proulx e diretta dall'acquarellista taiwanese/americano
Ang Lee. Un mélo scientificamente, produttivamente voluto come «melenso». Come una lenta
danza gay tra due personaggi dai cognomi promiscuamente ispanico/anglosassoni. E indovinate
chi è il più attivo tentatore? In forma d'elegia bucolica, postmoderna, nello spiluccare a volte ironico
tra il manierismo tardo-hollywoodiano ispirato all'iconografia dei rodei, come li divinizzava il cinema
di 30-40 anni fa. Ma che svela cosa ci fosse davvero dietro le rudi amicizie virili di cowboys
degradati a pastori, perché un gregge di pecore protegge molto meno l'intimità fisica di una grossa
mandria di manzi guidata da John Wayne. Il dramma si impenna nel finale, aspro e addolorato,
che racconta come la propensione al linciaggio degli omosessuali, born o reborn (e in genere per
chi sbriciola coi sentimenti le convenzioni sociali), superava nel 1963, almeno nel retrivo Wyoming,
quello per i rossi, compreso il presidente fiancheggiatore Kennedy. Il Sam Peckinpah dell'Ultimo
buscadero non poteva certo immaginare come sarebbero diventati feroci azzeratori delle
anormalità perverse di tutti i tipi i pentecostali e i metodisti di allora, che oggi l'evangelismo
televisivo istiga alla grande crociata, stringendosi a coorte con altri fanatici moralizzatori, Bin
Laden, papa Ratzy e certi ebrei ortodossi. Per lo zio Sam (l'artista) l'intero sogno americano era
già un cancro terminale. Mentre per Ang Lee, reazionario di buon cuore, isolare il tumore, almeno
laggiù tra i terroni oscurantisti, è possibile. In fondo il nero su nero della perdizione massima, della
Gody Art del sesso celibe, arriva solo quando si passa il confine, nel darkissimo Messico caro agli
orientalisti e agli amici della vera civiltà. Moderato, anche nella sostanza formale, Lee fa l'agit prop
di un cultura omosessuale «normalizzante», quasi terapeutica, per tipi alla Rutelli. Ricezioni più
allenate da venti anni di ricerche estetiche omosessuali, transgender e polisensuali reagiranno a
questo film con sufficienza: è cosa da Oscar. In Usa ha infatti già collezionato tre Golden Globes
(solo in una città dello Utah è proibito) e si avvia spedito verso l'Academy Award. Ma in Italia, dove
il tg1 dette la notizia del Leone di Venezia in 3 secondi netti, per non dover aggiungere che parla di
amore omosessuale tra cow boys, ci tratteranno da cinefili snob a parlarne male (come hanno fatto
in Francia Cahiers e Positif) ? Eppure la sensibilità gay che si mette al posto di comando rispetto a
quella maschilista eterosessuale, senza porsi il problema di detronizzare ogni gerarchia simbolica,
compresa quel quella fallocentrica, non è, noiosamente, solo «alla moda»?
Priscilla del Ninno - Secolo d’Italia, 3 settembre 2005
John Wayne scende da cavallo, e con lui smonta l’immaginario western fatto di eroi impavidi, ruvidi
e impenetrabili. La nuova frontiera del western, che già dieci anni fa ormai un altro eroe del
genere, il Clint Eastwood de Gli spietat, aveva fatto indietreggiare sul confine crepuscolare, oggi
arriva addirittura a spingere sul crinale della fragilità. Del tormento esistenziale. Del dubbio
sessua1e. Giubbe blu, rudi rancheros, eroici conquistatori yankees cedono dunque il posto ai
“cowgays” di Brokeback Mountain: Il nuovo film di Ang Lee presentato in concorso al Festival.
Titolo con cui il regista de La Tigre e il Dragone ripone nel cassetto duelli acrobatici e virtuosismi
informatici e si concentra con sensibilità e lirismo sul racconto di due tormentati eroi western in
crisi d’identità, che si aggirano inquieti tra monti innevati e pascoli deserti in preda a sconosciuti
turbamenti E pronti ad affrontare la nuova sfida di un genere in continua evoluzione, chiamato
ancora una volta ad incarnare il volto di celluloide americano il mito, però, si stempera stavolta
nella fragilità moderna e il western, baule magico di tanti sogni di conquista e di avventurose
imprese, diventa scatola iconografica e melanconico rivelatore della fragilità dell’America di oggi:
Paese assediato dal nemico e sotto il fuoco di polemiche e ostilità per cui poco potrebbe anche
l’Ultimo Cavallegger. L’arrivo dei nostri, che guidati da Ang Lee hanno i volti e le misurate e pure
appassionate interpretazioni di Heath Ledger e Jake Gyllenhaal, chiude insomma un’epoca
cinematografica e ne apre un’altra, più incline al racconto interiore che alla narrazione
spettacolare. I due interpreti di Brokeback Mountain, Infatti, pur calzando speroni e cappello, pur
cavalcando fra verdi praterie e mangiando fagioli, non hanno progetti di conquista o assi nella
manica: il duello che si ritrovano ad affrontare giorno dopo giorno non coinvolge banditi assetati di
sangue, agguerriti pellerossa, sceriffi integerrimi, buoni, brutti e cattivi Il conflitto, nel film in
competizione al Lido firmato Ang Lee, è infatti tutto interiore e investe la sfera dei sentimenti,
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inscenando, senza mai registrare cadute di stile o toni caricati, l’attrazione omoerotica per la verità
latente in molti titoli di genere. Stavolta il tema esce però allo scoperto con la storia di Ennia Del
Mar (Interpretato dall’attore australiano che, per ironica combinazione, qui al lido veste anche i
panni del Casanova dello svedese Lasse Hallstrom) che, nel Wyoming del 1963 finisce per
innamorarsi perdutamente di Jack Twist-Jake Gyllenhaal, quando idee, in una grigia estate,
vengono mandati in cima a Brokebakc Mountain a pascolare il gregge. In quello scenario desertico
le peregrinazioni dell’anima e gli incontri dei corpi si consumeranno per anni, nonostante un primo
sofferto addio, successivi matrimoni, nuove amanti e nascite di figli. In quel posto segreto,
dimensione di una realtà sessuale e di una verità cinematografica diverse, si consuma dunque il
viaggio sentimentale dei due protagonisti, e il gioco d’azzardo autoriale di Ang Lee, in cui vince il
coraggio della dissacrazione, ma dove si perde la magia del sogno.
Roberta Ronconi - Liberazione, 3 settembre 2005
Signal, Wyoming, anno 1963. Ennis e Jack, due giovanissimi vaccari bistrattati dalle rispettive
famiglie, cercano lavoro dal rancher locale, Joe Aguirre. Che gli offre di andare a pascolare le sue
cinquemila pecore sul monte Brokeback per due lire. I due sono giovani e hanno voglia di lasciarsi
le loro storie alle spalle, accettano quindi senza condizioni. Sulla montagna non ci sono che loro, le
bestie da accudire e un panorama di boschi e vallate mozzafiato. Dopo giorni di silenzi, i due
iniziano a conoscersi, a scambiarsi le prime battute, poi i primi camerateschi scherzi e infine
succede quello che sarebbe successo ad ogni normale coppia di umani: si abbracciano, prima per
difendersi dal freddo e, poi, per amore. Che Brokeback Mountain sarebbe stato la prima visione
western in versione gay il pubblico preparato di Venezia lo sapeva già da settimane. Ma
probabilmente pochi si aspettavano di partecipare con emozione ad una trascinante storia
d’amore. Tratto dal racconto di Annie Proulux Gente del Woyoming, il, film di Ang Lee (che torna
su temi e circostanze già affrontate ne Il banchetto di nozze del ’92) sfida la più grande delle
convenzioni visive occidentali: quella del wild west così come ce lo hanno da. sempre disegnato gli
studios americani, restituendoci la veridicità di una condizione, quella degli allevatori dell’immenso
entroterra statunitense, povera e crudele. Crudele soprattutto negli affetti, regolati da avare “leggi
del padre” che certo non prevedono se non per bestemmia o scherno, la possibilità d’amore tra
due esseri dello stesso sesso. «La battaglia più dura nel realizzare questo film è stata quella
contro gli stereotipi e le falsità del genere western -racconta Ang Lee, regista taiwanese cresciuto
negli Usa -. Ho dovuto scavare per riportare in superficie l’onéstà e la concretezza di quelle storie
e di quelle condizioni. Ma devo dire francamente che il magnifico testo di Annie Proulux in questo
mi è stato di grande guida. Non ho dovuto far altro che seguirlo alla lettera». L’amore tra Ennis
(Heath Ledger) e Jack (Jake Gyllenhaal) prende forma nell’arco di oltre vent’anni, percorrendo un
periodo storico durante il quale il tema dell’omosessualità, soprattutto nella grande provincia
americana, è stato tra i più controversi e violenti nella battaglia contro i pregiudizi sessuali e non.
Franco Grillini, in conferenza stampa, giustamente ricorda la morte del giovane Shepard, torturato
e impiccato in America solo cinque anni fa da un gruppo dl teppisti omofobi. «Il tema ovviamente
crea ancora grande agitazione negli Usa - interviene il produttore del film, James Schamus — ed
inoltre in questo caso siamo andati a toccare un “luogo sacro” della cultura americana come Il
lontano west». «Non ci sono differenze tra un amore eterosessuale od omosessuale - interviene
Ang Lee -. I canoni della narrazione sono assolutamente gli stessi. Perché l’amore segue regole
universali, fatte delle stesse passioni e degli stessi tormenti». Evitando con grande mestiere di
scivolare nei cliché dei generi e caparbiamente attaccato alla veridicità dell’immagine, Ang Lee
riesce a trasformare il breve racconto di Proulux in un film da1 reSpiro epico e ad alto tasso di
romanticismo. Era il suo obbiettivo e a noi sembra lo abbia raggiunto, nonostante qualche
lunghezza verso il finale. Era dai tempi dei Ponti di Madison County che non vedevamo una storia
d’amore così tormentata e trascinante. E che a farcela vivere sia stata una coppia omosessuale
non fa che dare nuova forza e freschezza all’emozione. Brokeback mountain non sarà un Leone,
ma poco ci manca.
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Mariarosa Mancuso - Il Foglio, 21 gennaio 2006
Giù le mani dai cow boy, dicono. Perché al cinema nulla è sottinteso, e i cow boy innamorati si
stringono dopo una gran bevuta nello stesso sacco a pelo, lasciando le pecore al loro destino (che
si farà vivo puntualmente la mattina dopo). Quando si guardavano e basta, attorno al fuoco da
campo, con una tazza di caffè in mano, nessuno protestava. Anzi, vigeva la regola: le femmine
rovinano i western. Negli anni 50, il critico Leslie Fiedler aveva già avanzato qualche sospetto
sull’amicizia tra l’ultimo dei mohicani Chingachgook e il pioniere Natty Bumppo, nel romanzo di
Fenimore Cooper. Su Huckleberry Finn e Jim, nel romanzo di Mark Twain, più che sospetti aveva
certezze. Alla fine mise insieme un libro intero – “Amore e morte nel romanzo americano” – per
dimostrare che nella letteratura americana i maschi tra di loro si guardano sempre con particolare
affetto, e raramente riservano lo stesso trattamento a mogli o fidanzate (peraltro molto rare).
Quindi la tradizione è salva. Nessuno sta cercando di distruggere il mito dei cow boy. Ang Lee,
semplicemente, adatta un bel racconto di Annie Proulx (da Baldini, Castoldi & Dalai, l’originale era
uscito sul New Yorker nel 1997) ricavandone un film d’amore contrastato, proprio come li giravano
una volta. I due sono Ennis del Mar (Heath Ledger) e Jack Twist (Jake Gyllenhaall), che come la
montagna lassù nel Wyoming ha un nome un tantino premonitore. Si incontrano nel 1963, quando
cercano lavoro. Il primo è così taciturno che una sua ex fidanzata – descrivendo il nuovo fidanzato
– gli dice “lui parla”. L’altro è più espansivo. Diana Ossana e Larry McMurtry – premiati con il
Golden Globe come il regista, niente invece ai bravissimi attori – hanno lavorato benissimo per far
diventare le poche pagine del racconto un film di lunghezza normale (di solito accade il contrario).
Molto brave anche le attrici: Michelle Williams, che regala cestini da pesca a cui nessuno toglie
mai il prezzo, e Anne Hathaway, che sfoggia incredibili pettinature cotonate (“è una di quelle donne
che quando hanno qualcosa da dire lo dicono con i capelli” commenta il regista). Sappiate che alla
fine si piange, quindi i fazzoletti possono tornare utili.
Antonio Valenzi - L’Indipendente
Un amore declinato in omosessualità quello del film di Ang Lee vincitore - al posto del migliore
Good nigth, and good luck di Clooney - dell’ultima Mostra del cinema di Venezia. D’accordo,
scoprire il proprio lato gay per due cowboy del midwest tutti ‘jeans, stivali e polvere’ non
dev’essere facile (anche se si capiva che tra John Wayne e Dean Martin in Un dollaro d’onore
qualcosa non quadrava), tuttavia stupisce sia il Leone d’Oro che il consenso ottenuto dalla critica.
Si, il film è ben raccontato, gli attori emergenti Heath Ledger e Jake Gyllenhaal (Donnie Darko)
sono bravi nel tratteggiare due tipologie di mascolinità diverse: stordito il primo, più convinto - e
tutto sommato più coraggioso - il secondo. Ma se si lasciasse in secondo piano l’elemento
dell’omosessualità, il film sarebbe né più né meno che una delle tante storie d’amore impossibili
che il cinema ha ampiamente raccontato. Plaudire perché riguarda due gay ha il gusto di un
politically correct francamente un po’ stucchevole.
Raffaella Giancristofaro - Film Tv, 10 gennaio 2006
”L’amore è un sentimento universale. Non volevo fare un film politico». Così ha dichiarato Ang Lee
a Venezia, e qui è bene ricordarlo. Perché la prima cosa da sapere sull’ultimo Leone d’oro (una
distribuzione Bim, su cui prima della Mostra in pochi avrebbero scommesso) è che non si tratta di
un progetto pensato a uso e consumo delle platee gay, che pure lo hanno accolto con favore. Non
è nemmeno - nonostante il titolo italiano che rimanda a dei “segreti” - il film scandalo della
stagione; chi cerca l’eccentricità dovrà aspettare il Cillian Murphy en travesti di Breakfast on Pluto
di Neil Jordan o il grande Philip Seymour Hoffinan di Capote di Bennett Miller. Da dove arrivi e a
chi sia diretto questo solido melodramma western con protagonisti due cowboy, lo spiega James
Schamus, produttore esecutivo della Focus Features, costola “artistica” della Universal (quella che
ha sviluppato, per esempio, Happiness di Todd Solondz e Autofocus di Paul Schrader). Schamus,
che insieme a Lee e Neil Peng aveva già firmato una storia omosessuale in chiave di commedia Il banchetto di nozze, Orso d’oro a Berlino nel ‘93 indica, come diretto precedente del film,
nientemeno che I ponti di Madison County di Clint Eastwood. Vale a dire, una delle storie d’amore
più dense e lancinanti degli ultimi vent’anni. Qui la fonte sono le cinquanta pagine scarse di Gente
del Wyoming, il racconto del ‘98 di E. Annie Proulx, scrittrice americana piuttosto appartata e già
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premio Pulitzer nel ‘94 per The Shipping News (romanzo pubblicato in Italia come Avviso ai
naviganti nel ‘96 da Baldini e Castoldi), da cui Lasse Hallstrom ha tratto la poco convincente
pellicola omonima. Ambientato nelle praterie del Wyoming (ma girato in Canada e New Mexico), il
film si apre nell’estate del 1963 a Brokeback Mountain, dove due mandriani stagionali, Jack Twist
(Jake Gyllenhaal) ed Ennis Del Mar (Heath Ledger) portano a pascolo le pecore. Nella solitudine di
quegli spazi incontaminati, un amore a cui non sono preparati li travolge e li segna per sempre.
Anche quando alla fine della stagione si salutano, non sarà mai definitivamente. Per vent’anni
continueranno a vedersi, sempre a Brokeback Mountain, lontano e di nascosto dalle rispettive
mogli, Alma (Michelle Williams, la Jen di Dawson’s Creek) e Lureen (Anne Hathaway). «Per me è
una storia sull’illusione dell’amore. Ciò va oltre l’essere gay, cowboy e tutto il resto - dice Lee -.
Dato che non sanno che cosa sia l’amore, [i due protagonisti, ndr.] passano vent’anni a cercare di
raggiungerlo. E quando ci riescono, lo perdono. Credo sia questo il tema che mi ha affascinato».
Fondamentale, quindi, per un melodramma di tali ambizioni, definire l’ambiente repressivo e
conformista dell’America rurale degli anni ‘6o. Ci ha pensato, insieme a Diana Ossana, che firma
con lui la sceneggiatura del racconto della Proulx, lo sceneggiatore (e coproduttore) Larry
McMurtry, veterano delle serie Tv e dei film ambientati nel West. L’autore dello script di L’ultimo
spettacolo di Bogdanovich e del romanzo da cui James L. Brooks ha tratto Voglia di tenerezza, ha
rispettato miracolosamente lo spirito della Proulx, sfruttando a pieno le potenzialità romantiche
dell’ambientazione western. Tant’è vero che i paesaggi di quello stato in cui il cowboy è un
mestiere e il rodeo è sport nazionale tolgono il flato. Tanto quanto la potenza dell’amore tra
l’impulsivo Jack e il chiusissimo Ennis. Il “New York Times” ha elogiato l’interpretazione a denti
stretti di Ledger, paragonandolo addirittura a Brando e Sean Penn. Nominato a sette Golden Globe
e in corsa per l’Oscar, ha già raccolto svariati premi. In più, nonostante una distribuzione mirata e
la competizione con i blockbuster natalizi, vanta già ottimi risultati al box office Usa. Quanto alla
rappresentazione esplicita del sesso tra cavalieri solitari (questione di pochi, travolgenti secondi,
sotto una tenda. una scena girata in un unico piano) la sottotraccia orno non è certo una novità per
questo genere, da Cavalcarono insieme a Pat Garrett e Billy the Kid, per esempio. Qualcuno ha
notato che il tabù era già stato infranto in Lonesome Cowboys di Andy Warhol. Già, ma lì si
trattava di marchettai, qui di uomini cui la società impedisce di esprimersi. Ieri come oggi. Per la
cronaca, nel ‘98 in Wyoming, a Laramie, fu massacrato Matthew Shepard, gay ventunenne (e la
Proulx, che vive lì vicino, in un primo momento venne chiamata a far parte della giuria nel
processo). La stessa violenza, altrettanto reale, del Nebraska di Boys Don’t Cry, e che Lee fa
intravedere come ostacolo a qualsiasi comprensione. La scrittrice, soddisfatta del film, ha
dichiarato: «Per una volta i gay non sono visti come personaggi comici, ma come esseri umani che
non hanno l’esperienza e l’istruzione per controllare e capire». Chiosa Lee: «Vedo il film come una
forza che unisce, non che divide. Che ci aiuta a capire. Spero che abbia quest’effetto». E così sia.
Mauro Gervasini - Film Tv, 24 gennaio 2006
Wyoming 1963. Ennis e Jack, cowboy isolati sui pascoli in montagna, si innamorano. E continuano
ad amarsi per i vent’anni successivi, nonostante le rispettive situazioni coniugali e un diverso modo
di vivere la propria omosessualità. Dal racconto Gente del Wyoming di Annie Proulx, il film di Ang
Lee che ha vinto il Leone d’oro a Venezia e sbaragliato i Golden Globe (7 premi), sceneggiato da
quel vecchio westerner man di Larry McMurtry, già autore di L’ultimo spettacolo e del bellissimo
serial Tv Lonesome Dove. Respiro classico, regia trasparente, solitudini cosmiche che diventano
paesaggi eterni, dove il melodramma è qualcosa che stritola il consumo di esistenze ordinarie
sbaragliate da ciò che è straordinario per definizione: l’amore. Ecco la grande sfida di Ang Lee:
una rappresentazione dell’amore che sia il più possibile prossima all’esperienza. Quindi, non solo
palpitazioni e estasi come in un romanzo stucchevolmente sentimentale, ma anche dolore, rabbia,
passione carnale e impossibilità di essere (appunto) ordinari”. Il fatto che i due amanti siano
uomini, rappresentanti di un immaginario per eccellenza virile (quello western), è fino a un certo
punto secondario. Anche se dalle chiusure del contesto, dalla tragedia di doversi nascondere per
amare e dalla sicurezza di non poter essere accettati dal mondo scaturiscono le scelte forzate che
determinano i destini di entrambi, e che per questo sono quasi una bestemmia. I segreti di
Brokeback Mountain è anche un film corale, perché le tre famiglie (quella di Ennis, quella di Jack,
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più i genitori di quest’ultimo ai quali è dedicata una splendida sequenza nel finale) vanno a
ricomporre quell’affresco americano” così caro al regista taiwanese sin dai tempi di Tempesta di
ghiaccio. La prova per nulla scontata dei due protagonisti, Jake Gyllenhall (Jack) e Heath Ledger
(Ennis), aggiunge qualche fremito in più a una visione che già di per sé assicura emozioni vaste.
Stefano Lusardi - Ciak, febbraio 2006
Ad Annie Proulx, scrittrice premio Pulitzer, bastano cinquanta pagine per raccontare l’amore
impossibile di Ennis Del Mar e Jack Twist, giovani cowboy spiantati, che nel 1963 si ritrovano sulla
Brokeback Mountain a badare a un gregge di pecore. Dal primo amplesso in una lurida canadese,
vissuto con passione primordiale e seguito da laconica confessione («Io non sono così»,
«Neanch’io»), alle sporadiche fughe d’amore nell’arco di vent’anni, fino al tragico epilogo: tutto
viene raccontato in terza persona e col tempo passato, che crea già distanza, con uno stile secco
e oggettivo da ballata western. Cinquanta pagine in oltre due ore di film ci stanno belle comode e
distese, prevedono, cosa che accade, aggiunte e divagazioni, ma cambiano soprattutto ritmo
narrativo e obiettivo. Ang Lee, nato a Taiwan ma da anni newyorkese doc, infatti ha vissuto il film
come un ritorno al cinema intimo e indipendente, dopo l’impegno gravoso dei kolossal La Tigre e il
Dragone e Hulk. Col sodale James Schamus, che ha prodotto i suoi film a partire da Il banchetto di
nozze, ha recuperato la sceneggiatura del veterano scrittore western Larry McMurtry (L’ultimo
spettacolo), scritta nel 1997 ma che nessuno voleva produrre, ha stabilito un budget minimo (14
milioni di dollari) che garantisse la copertura al botteghino anche con una distribuzione limitata, e
se n’è andato ad annusare l’aria del “vero West”, prima in Wyoming dalla Proulx, poi in Texas da
McMurtry. Rispetto al romanzo si è limitato ad aggiungere un paio di scene in Texas, per
raccontare meglio il difficile rapporto fra l’inquieto Jack e la famiglia della moglie, e ha soprattutto
scelto due giovani attori, Heath Ledger e Jake Gyllenhaal, decisamente assai più belli e fascinosi
rispetto all’Ennis allampanato e col torace un po’ incavato e al Jack pesante di fianchi e con gli
incisivi sporgenti della Proulx. Peccato veniale, non solo per l’ottima prova dei due attori Gyllenhaal è una conferma, Ledger una strepitosa sorpresa - ma anche perché Ang Lee ha
lavorato bene sul corpo dei due attori, perché trovassero andatura e gestualità tipici di uno dei due
generi che compongono La struttura del film: il western, utilizzato sia come grandioso spazio epico
— la montagna è il loro paradiso perduto — che come elemento di critica sociale, un mondo
immobile e arcaico, mai toccato dalla Storia e perciò incapace di accettare un amore “proibito”. Ma
la vera anima del film è quella classica del melodramma. Ennis e Jack vivono infatti tutte le fasi di
un (quasi) shakespeariano Romeo e Romeo: si amano contro tutto il mondo che hanno intorno,
cercano inutilmente di dimenticare la passione e di adeguarsi alla normalità matrimoniale,
accettano la fugacità di incontri clandestini favoleggiando un’impossibile vita in comune, infine
sono segnati dalla morte, dal rimpianto e dallo struggimento. In tutto questo, l’elemento gay non è
provocatorio né “militante”, ma risulta naturale, semplicemente collegato alla storia, mentre quello
che colpisce veramente è l’universalità dei sentimenti. Nessuna meraviglia, perciò, se, dopo il
Leone d’Oro e quattro Golden Globe, il film trionferà anche agli Oscar.
Natalia Aspesi - D di Repubblica, 28 gennaio 2006
Come tutte le grandi storie d’amore, anche questa è intensa e desolata, infuocata e senza
speranza, eterna e interrotta. Abbiamo letto centinaia di romanzi e visto mucchi di film che ci
hanno raccontato queste passioni vissute e negate, le sole che davvero commuovono, le signore
naturalmente, perché gli spettatori maschi, come si sa, si infastidiscono a storie grondanti
sentimento. Brokeback Mountain, vincitore del Leone d’Oro all’ultima Mostra del Cinema di
Venezia e candidato agli Oscar, piace soprattutto alle donne: le più emotive, alla fine, addirittura
singhiozzano, anche se, come ormai si sa, il bel film del regista sino americano Ang Lee (La tigre e
il dragone, Hulk), tratto da un breve racconto del premio Pulitzer Annie Proulx, racconta la lunga,
dolorosa passione tra due uomini, addirittura tra due cowboy, massimo simbolo del machismo
etero. È il 1963. nel Wyoming, un tempo e un luogo in cui l’omosessualità era una macchia
inconcepibile, un’esclusione tragica: “lo non sono frocio”, dice il bruno dalle lunghe ciglia Jake
Gyllenhaal. “Neanch’io”, gli risponde il biondo Heath Ledger. Eppure nella gelida notte, nella
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solitudine meravigliosa della montagna, dopo essersi riscaldati con molto whisky, riparati dentro la
stessa piccola tenda, inaspettatamente si sono baciati, avvinghiati, posseduti. Il film inizia come
tanti western, un giovanotto dal cappellone da cowboy calato sul viso sta appoggiato in silenzio a
un muro, ne arriva un altro, con lo stesso cappello, lo stesso silenzio: cercano un lavoro
temporaneo come mandriani, gli affidano insieme un gregge di pecore da portare a pascolare sulla
montagna e da difendere dai predatori. Giorni di noia, notti stellate e mute, poi quell’improvvisa
fiamma: è stato un caso, non dovrà saperlo nessuno. Alla fine della stagione ognuno torna alla sua
vita, uno in Texas, l’altro nel Wyoming, una vita che è un susseguirsi di giorni difficili e opachi, in
brutti villaggi, in case squallide: tutt’e due si sposano e hanno figli, è quella la vita giusta per un
uomo, un campione di rodeo, un mandriano. Resta muta, in loro, quella luce che li ha uniti contro
ogni ragione, indimenticabile, quell’ombra di pericolo che li tiene lontani uno dall’altro. Ma non si
può essere sempre uomini forti, capaci di rinuncia: ogni tanto si concederanno una vacanza dalla
loro esistenza, dai loro problemi, dalle mogli non amate, dall’infelicità e incompletezza. Con la
scusa di andare, come veri, rudi uomini, a pescare, torneranno, soli, su quella magica montagna a
amarsi, rimpiangersi, a sognare un’impossibile vita insieme. Il cinema abbonda di commediole gay,
e siamo arrivati, con lo spagnolo Reinas sugli schermi ora, alla celebrazione di nozze di coppie di
uomini e di donne. il film di Lee torna a quel cinema d’epoca che se affrontava un tema così
scottante allora, non poteva farlo che in chiave tragica. Per il modo in cui esprime il dolore di una
ferita mai rimarginatam, lo sperdimento che schiaccia chi non può accettarsi né tanto meno amare,
l’impossibilità di infrangere la prigione delle regole, l’imporsi in tutta la vita di assenza e menzogna,
Brokeback Mountain è un gran film: molto attuale, perché la liberalizzazione delle regole e dei
costumi non libera dall’angoscia dei sentimenti inaccettati, dal rifiuto di se stessi.
Marco Bertolino - Il Mucchio Selvaggio, gennaio 2006
Ebbene sì, lo confessiamo: un gay-movie western diretto forse dal più sopravvalutato fra i registi
dell’Estremo Oriente non aveva tutti i presupposti per entrare nelle nostre grazie. Eppure, ecco il
miracolo: Brokeback Mountain è un film bellissimo e struggente, a riprova che il cinema è ancora in
grado di sorprendere, di confondere i calcoli, di superare barriere e prevenzioni. Accantonato
l’armamentario “di genere” con il quale aveva partorito l’infelice Hulk (2003), Ang Lee ha diretto
una vicenda intensa sul piano umano, ricca di sentimenti e di emozioni, sfoggiando nuovamente
quella sensibilità che sorreggeva le sue prime e più riuscite pellicole (Il banchetto di nozze,
Mangiare bere uomo donna). La maggior parte dei critici ha salutato favorevolmente la nuova
prova del regista, incentrando la propria analisi perlopiù sui suoi indubbi meriti, ma a noi pare che
la verità sia un’altra: e cioè che il felice esito artistico del film sia da attribuire soprattutto all’inattesa
solidità di scrittura. La sceneggiatura è infatti granitica al pari del paesaggio in cui si svolgono gli
avvenimenti e dei personaggi che li vivono: se l’ambientazione è quella del selvaggio West - sia
pure in un’epoca storica compresa fra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta -, i protagonisti non sono
meno rocciosi e burberi del loro habitat. Questo è tutto ciò che rimane del registro western: per il
resto, lo script preferisce adottare altri sintagmi, dal mélo al romanzo di formazione. Ma sia chiaro:
Brokeback Mountain non è un rigido film a tesi, non prende le forme dell’apologo, non è
ideologicamente schierato a favore dell’omosessualità, semmai della sua legittimità. L’amore che
unisce per tutta a vita i due rudi cowboy si configura come un sentimento fortissimo al quale è
inutile opporsi: gli sceneggiatori hanno inteso test(imoni)are la resistenza di un legame umano
esposto all’ostilità e all’incomprensione del mondo circostante. A dispetto della lontananza e degli
impegni familiari, tesi a salvaguardare la parvenza di eterosessualità, Jack e Ennis si perdono e si
ritrovano costantemente, almeno fino alla chiosa tragica che dà una brusca svolta agli eventi. Un
finale coraggioso e commovente come l’intero film.
Lionello Montenovi - Nick, dicembre 2005
Ang Lee continua a sorprendere il pubblico. Dopo film spettacolari come La tigre e il dragone e
Hulk, torna adesso a dirigere un dramma intimista (trasposizione del racconto di E. Annie proulx)
più vicino alle atmosfere rarefatte dello straordinario La tempesta di ghiaccio che a quelle epiche e
d’azione delle sue produzioni più recenti. Jake Gyllenhall e Heath Ledger - forse i due attori che
più di tutti gli altri stanno incarnando la loro generazione - interpretano in maniera notevolissima
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due cowboy che, nei primi anni 60, si trovano a lavorare insieme sul costone di una montagna.
Due ragazzi poco più che ventenni, soli, a sorvegliare gli animali nel gelo del mese di. agosto,
quando iniziano a cadere i primi fiocchi di neve nonostante l’estate non sia ancora finita. I giorni
passano lenti e monotoni, ma tra i due inizia quasi impercettibilmente a nascere qualcosa che
lentamente, ma inesorabilmente, si trasforma in un timido sentimento pronto a esplodere in una
grande passione. Un amore sincero e totale, costretto però a confrontarsi con il pregiudizio e con
l’ostilità di un mondo e di un’epoca non ancora pronti e refrattari al cambiamento. Brokeback
Mountain, che prende le mosse e il titolo dalla montagna del Wyoming dove inizia tutto, è un film
toccante e commovente, destinato a un pubblico desideroso di sintonizzarsi sui moti del cuore di
due uomini obbligati a scontrarsi con un universo ostile e pieno di pregiudizi. Entrambi saranno
obbligati a nascondersi e sposarsi, non solo celando la propria vera natura, ma soffrendo per
l’impossibilità di dichiarare quello che sono e sentono davvero. Una pellicola profonda, ricca di
suggestioni preziose, che segue i protagonisti nel corso di circa tre decenni della loro vita. E in
questo scorrere del tempo si nasconde anche l’unica piccola pecca del Film: un make up che non
riesce a comunicare l’avanzare degli anni sui volti degli attori (soprattutto Anne Hathaway che nel
finale sembra quasi ringiovanire…). Un peccato comunque veniale in un film importante, premiato
a Venezia con il Leone d’oro e applauditissimo dal pubblico.
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