Scheda da Film discussi insieme 2007
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Scheda da Film discussi insieme 2007
25 Truman Capote regia: Bennett Miller sceneggiatura: Dan Futterman fotografia: Adam Kimmel montaggio: Christopher Tellefsen scenografia: Jess Gonchor costumi: Kasia Walicka-Maimone interpreti: Philip Seymour Hoffman (Truman Capote), Catherine Keener (Nelle Harper Lee), Clifton Collins Jr. (Perry Smith) distribuzione: Sony durata: 2h 03' BENNETT MILLER New York (Usa) - 30.12.1966 2005 Truman Capote 1998 The Cruise LA STORIA Sprofondato in una poltrona del suo studio, dopo una serata che gli aveva riconfermato la misura della sua celebrità, Truman Capote si abbandona alla lettura del New York Times. Di colpo il suo sguardo si ferma “famiglia sterminata in Kansas”. Prende la forbice, ritaglia quella notizia e poi chiama il New Yorker e dice, “è quello di cui vorrei scrivere. Ci vado questa sera”. Ad accompagnarlo è Nelle Harper Lee, scrittrice, ma in quell'occasione, secondo la definizione di 222 TRUMAN CAPOTE Capote, l’unica tra le persone di sua conoscenza con le qualità di assistente ricercatrice e guardia del corpo. Destinazione del viaggio Garden City con un indirizzo su cui puntare: Alvin Dewey, il detective incaricato di seguire il caso della famiglia Clutter. L’incontro tra lo scrittore e il titolare dell’indagine non è facilissimo, ma la fama di cui Capote gode e i libri di cui la moglie è a conoscenza, gli procurano una serie di inviti più che utili a entrare nella storia di quel delitto. Alvin Dewey ha avuto in cambio la rassicurazione che niente sarà scritto prima della soluzione del caso e questo consente a Truman Capote di poter visionare materiale e incontrare testimoni su cui intende lavorare. Poi una sera, dopo una delle ormai abituali cene, la signora Dewey fa le prime anticipazioni sugli sviluppi del caso e poco dopo, una chiamata dalla polizia di Las Vegas sarà la premessa all’arresto di Dick Hickock e Perry Smith, i due giovani che il processo riconoscerà come autori dei quattro delitti, condannandoli alla pena di morte. Ma quella sentenza non segna per Truman la fine del suo lavoro. Il materiale che ha raccolto è troppo per un normale reportage e così chiede al New Yorker più soldi e un fotografo. È sua intenzione conoscere meglio quei due poco più che ragazzi e la prima cosa che dice loro è quella di essere messo nella lista dei visitatori così potrà garantirgli un buon avvocato. Di nuovo a New York, nel corso di una di quelle riunione mondane in cui sembra recitare la sua parte migliore, Truman incomincia a parlare del libro che non ha ancora incominciato a scrivere, ma che già definisce il libro documento del decennio. Gli viene chiesto “Ha già un argomento?”. E Lui “Sì, la notte del 14 novembre due uomini irrompono in una tranquilla fattoria del Kansas, massacrano una intera famiglia. Ho passato gli ultimi tre mesi a intervistare chiunque sia stato toccato da quella violenza e questo lavoro di ricerca ha cambiato praticamente la mia vita, alterato il mio punto di vista praticamente su ogni cosa. Sono convinto che chiunque lo legga ne avrà lo stesso effetto”. Truman riparte e incontrando il direttore del carcere dove Perry e Dick sono rinchiusi chiede, porgendo una busta piena di dollari, di poterli vedere quando vuole e per il tempo che vuole. Da quel momento tra lui e soprattutto Perry il dialogo diventa un lungo colloquio dove esperienze giovanili in comune, pezzi di vita paralleli, costruiscono ancora prima delle pagine del romanzo una reciproca confessione di cui nessuno dei due sembra più fare a meno. Ma Jack Dunphy, l’amico di sempre, lasciato da troppo tempo solo a New York chiede a Capote di raggiungerlo in Spagna. Truman non può più esitare. Parte per la Costa Brava e terminata la stesura della prima parte di “A sangue freddo” la spedisce a William Schawn, che entusiasta gli sollecita il finale, ormai deciso dalla notizia appena ricevuta: il no della Corte d’Appello a una riapertura del processo e dunque l’imminente condanna a morte dei due detenuti. E gli chiede di poter darne anticipazione con una lettura ad a un pubblico appositamente invitato a New York. Con il viaggio che segue, il ritorno al carcere, Perry gli comunica che la condanna è stata sospesa. Truman accoglie apparentemente con freddezza la notizia, torna invece a chiedergli quello di cui Perry non ha mai voluto parlare: il motivo della strage del 14 novembre 1959. Sono trascorsi tre anni di studio, di indagini, di ricerche e Truman vuole arrivare a quella risposta e finalmente riesce a convincerlo. È stato una questione di soldi: avevano saputo che in quella villetta c’erano diecimila dollari e nonostante li avessero cercati dappertutto non li avevano trovati. Truman esce dalla cella di Perry con l’impressione di avere davanti a sè una vittima. Quel ragazzo sarebbe stato quasi costretto a uccidere i Clutter dall’amico. Quattro anni dopo, mentre Perry continua a supplicare Capote, che ormai considera suo amico, per un nuovo avvocato, Capote ammette di essere stanco, e di non vedere la conclusione del suo lavoro. A Nelle Harper Lee confessa, “mi stanno torturando”. In realtà la lunga attesa che si sta ormai concludendo con il no definitivo alla riapertura del caso da parte del Tribunale di Cassazione, ha inciso profondamente sull’equilibrio dello scrittore fino a costringerlo a chiudersi in una quasi assoluta solitudine. Soltanto Nelle riesce a toglierlo da quel torpore. Lo fa davanti ad un telegramma di Perry e Dick, indirizzato a tutte e due, poche ore prima della condanna a morte. Truman allora raccoglie le poche forze che gli restano e raggiunge i due ragazzi per un saluto e le ultime scuse: per non aver potuto fare quello che avrebbe voluto. (LUISA ALBERINI) LA CRITICA Dall’opera eclettica di Truman Capote, che ha già dato allo schermo il sofisticato Colazione da Tiffany e l’atroce A sangue freddo, il regista Tom Gries ha scelto il romanzo The Glass House. Nato a Chicago 51 anni fa, ex marine nella seconda guerra, ex giornalista cinematografico, Gries si fece notare dirigendo Charlton Heston in un western diverso dagli altri, Costretto a uccidere (1967). È un buon narratore di storie tipicamente americane, che a tratti può ricordare John Huston, e ha avuto il suo lancio europeo al Festival di San Sebastian, dove l’anno scorso il gran premio è stato assegnato proprio a questo film. Si tratta delle vicende convergenti di due uomini che arrivano insieme in un penitenziario di stato, l’uno a fare il sorvegliante, l’altro a scontare un anno per omicidio preterintenzionale. Tutti e due sono fondamentalmente onesti, animati dal desiderio di inserirsi nella nuova comunità senza nuocere a nessuno; ma il contesto è marcio, la mafia interna ha stretto tanto solidi rapporti con il potere che chiunque resiste viene schiacciato: e così accade ai due protagonisti. Se Leonardo Sciascia, trattando soggetti simili, deplora una «sicilianizzazione dell’Italia», Gries denuncia nella corruzione di origine criminale la più grave minaccia per l’avvenire di tutti. Plagi di persona, sodomizzazioni, suicidi, botte e coltellate s’inseriscono in un discorso teso e appassionato che si allinea a certe prove di Damiani; e in più c’è la presenza politica dell’elemento negro, con il suo tentativo di trarre partito dalle beghe dei bianchi. Pur senza caratteri di estrema novità, il film risulta interessante e allarmante al punto giusto. TRUMAN CAPOTE 223 (TULLIO KEZICH, Il Mille film. Dieci anni al cinema 19671977, Edizioni Il Formichiere) Un progetto ambizioso quello di Bennett Miller e Dan Futterman. Regista pubblicitario il primo, attore al suo esordio da sceneggiatore il secondo. Mettere in piedi un film biografico su una figura tanto controversa e centrale come quella di Truman Capote, enfant prodige della letteratura americana e autore di Colazione da Tiffany, è senz’altro un’operazione rischiosa. Difficile riprodurre i modi caricaturali del protagonista senza farne una parodia; difficile stringere il raggio di indagine su una vita tanto densa come quella di Capote. Il taglio narrativo e temporale che gli autori danno alla storia e la scelta di un cast senz’altro notevole appaiono come un’intelligente assicurazione dai pericoli più prevedibili. Ma l’ansia di rigore e di austerità che permea l’intera opera, dalla regia alla fotografia, rivela chiaramente la complessità della materia. Umana e cinematografica. Il film fotografa i sei anni, dal 1959 al 1965, in cui prese corpo la stesura di A sangue freddo, il romanzo-reportage che inaugurò un genere del tutto inedito ma che soprattutto, ed è questa la prospettiva su cui l’opera si concentra, segnò il declino psico-fisico dell’autore, morto di alcol e droga nel 1984. Come il romanzo, anche il film si apre sui campi sterminati del Kansas, per poi rivelare gli interni della fattoria dove giacciono i corpi martoriati della famiglia Clutter. Un caso di cronaca che spinge Capote (il vincitore del Golden Globe Philip Seymour Hoffman) e Harper Lee (Catherine Keener), amica d’infanzia e autrice di Il buio oltre la siepe, a recarsi nel villaggio di Holcomb, dapprima per scrivere un articolo sulla vicenda, e poi per dare vita al romanzo che conosciamo. Il rapporto intenso e sempre più ambiguo che Capote stringe con i due assassini, catturati e condannati a morte, diviene la cartina tornasole delle sue crescenti e sempre più inaccettabili contraddizioni. Il bravo Hoffman porta in scena i modi affettati ed eccessivi del protagonista con perizia quasi filologica, restituendone l’incontenibilità umana a cui gli autori sembrano non voler sovrapporre alcun elemento ridondante. Una scelta comprensibile ma che a volte rende il contesto fin troppo inamidato, persino piatto. (CLAUDIA MANGANO, Il Mucchio Selvaggio, marzo 2006) 224 TRUMAN CAPOTE Una notte di novembre del 1959 quattro componenti d’una famiglia di agricoltori vennero ammazzati nel sonno nella loro casa vicina alla città di Holcomb, nel Kansas. Truman Capote (si pronuncia Capoti, mai e poi mai Capot, il cognome è quello del secondo marito cubano dell’amatissima madre), scrittore americano, lesse la notizia, ne venne colpito, chiese alla rivista “New Yorker” di poter scrivere un articolo su quella strage orribile. Partì per il Kansas accompagnato dall’amica d’infanzia Nelle Harper Lee, pure lei scrittrice e in seguito vincitrice del Pulitzer con “Il buio oltre la siepe”, che doveva aiutarlo nelle ricerche. Presto si accorse che un articolo non sarebbe bastato: il libro uscito poi nel 1966 dopo sei anni di lavoro, nuovo esempio di “nonfiction novel”, di romanzo-verità, intitolato “A sangue freddo”, fu un grandissimo successo internazionale. Truman Capote: A sangue freddo di Bennett Miller è dunque la storia di come lo scrittore scrisse il suo libro più anomalo e fortunato; ed è nello stesso tempo il ritratto di lui, di due assassini, di una piccola città rurale americana all’inizio degli anni Sessanta. Segue Capote, la sua tattica per sedurre i killer e la città, la sua solitudine interrotta soltanto dalle conversazioni al telefono con l’amico Jack Dunphy, le pause sulla Costa Brava o nella brillante mondanità newyorkese, l’insofferenza per il destino dei due assassini condannati a morte e impiccati. È un buon film, notevole, accurato, fuori del comune per la straordinaria personalità di Capote e per il grande lavoro del protagonista Philip Seymour Hoffman, una vera personificazione più che una somiglianza fisica. Identità psicologica, poca (sarebbe stato troppo pretendere): tutto si condensa nei gesti, nel manierismo gay, negli abiti, nel modo di camminare, nell’aspra dolcezza mix di Alabama e New York. (LIETTA TORNABUONI, L’Espresso, 2 marzo 2006) Attorniato da ammiratori, e colleghi, Truman Capote (Philip Seymour Hoffman) assicura che non progetta di scrivere un’autobiografia. Così inizia Truman Capote – a sangue freddo (Capote, Usa, 2005, 98’). A 35 anni, lo scrittore ha già pubblicato due romanzi di successo: Altre voci, altre stanze nel 1948 e L’arpa d’erba nel 1951. Ha anche lavorato per il cinema: suoi sono i dialoghi inglesi di Stazione Termini (Vittorio De Sica, 1953), sua è la sceneg- giatura di Il tesoro dell’Africa (John Huston, 1954). E ora, in un giorno di novembre del 1959, salottiero e insieme cinico, recita la sua parte in commedia. A questo punto della mia vita, spiega, trovo che raccontarla sarebbe noioso. Tratta da un libro di Gerald Clarke, la sceneggiatura di Dan Futterman mette spesso accanto a lui Harper “Nelle” Lee (Catherine Kerner), né cinica né salottiera. Nel 1960, convinta proprio da Truman, Nelle pubblica Uccidere un usignolo, il suo primo e unico romanzo, ambientato nell’Alabama degli anni 30. Poco dopo, nel 1962, Robert Mulligan ne trae un grande film, conosciuto in Italia come Il buio oltre la siepe. In questo e in quello, nel film e nel libro, c’è un ragazzino soprannominato Dill, occhialuto e saccente ma anche molto simpatico. È Truman, quel ragazzino. E Nelle è la piccola Scout, la coraggiosa, luminosa protagonista del racconto. Ora, dunque, i due amici di venti e più anni prima sono ancora insieme. Lo sono nella realtà della cronaca, ma anche e soprattutto nel film di Bennett Miller e Dan Futterman (Nelle è quasi un alter ego di Truman: un alter ego tanto dolce quanto critico). Quando li vediamo fianco a fianco – a New York o a Holcomb, picco1a città nel Kansas –, ci tornano alla mente le immagini della loro storia antica: la miseria materiale e umana di quell’angolo d’Alabama, la durezza dei rapporti e dei sentimenti, e però anche il coraggio civile di Atticus, avvocato e padre di Scout/Nelle. E ci stupiamo della sicurezza con cui Truman dice che sarebbe noiosa, la storia della sua vita. In molti altri modi la si potrebbe chiamare – dolorosa, difficile, intensa –, e tutti meno improbabili. È questo il cuore di Truman Capote, questa dichiarata, sottolineata “distanza” del protagonista dal suo passato, e da se stesso. Così si spiega il suo cinismo ostentato, il suo giocare con ogni cosa e in ogni situazione. Così si entra nella storia di Perry Smith (Clinton Collins Jr.) e Richard Hickcock (Mark Pellegrino), e nella fascinazione che, senza scampo, quella loro storia orrida esercita su di lui. Ci sono, nella regia di Miller, due modi opposti di raccontare, o meglio di “mostrare”. Il primo è fatto di campi lunghissimi, di paesaggi vuoti, attraversati sulla linea dell’orizzonte da un treno o da un’auto. E poi, all’estremo opposto, ci sono sequenze in cui la macchina da presa sta addosso a Truman (soprat- tutto, a lui e a Perry insieme). E allora si fa quasi trepida, come se volesse carpire un segreto, una verità tenuta nascosta. Questo, del resto, vuole lo scrittore: trovare la verità dell’omicidio, “vedere” il segreto dei due assassini. O meglio: vuole “ritrovarla”, quella verità, vuole “tornare a vederlo, quel segreto. Lo fa, come cronista e come scrittore, “a sangue freddo”, e persino mentendo a Perry e a Richard. Ma intanto, pian piano e senza scampo, quello che trova e vede gli si avvicina sempre più, e lo cattura in sé. Tra lui e Perry, dunque, sembra corra un rapporto che va ben oltre la curiosità professionale o il bisogno d’aiuto. Forse si tratta d’amore. Nel film lo suggerisce Jack Dunphy (Bruce Greenwood), il compagno di Truman, che però subito precisa: «Truman si innamora di Truman». Come lui, anche l’assassino è cresciuto nella miseria umana (e proprio in Alabama), anche lui è stato rifiutato dalla madre, anche lui s’è trovato solo nel mestiere di stare al mondo. Tuttavia, così lo scrittore dice a Nelle, Perry è «uscito di casa» dalla porta sul retro, io invece da quella principale. E infatti, ora il primo viene impiccato per quattro omicidi volontari, mentre il secondo fa della sua storia uno dei grandi successi letterari degli anni ’60. Non si tratta solo di una contiguità biografica casuale e oggettiva, per quanto all’inizio tale appaia a Truman. Si tratta di una contiguità di carne e di sangue. Perry “è” Truman, o almeno è una sua verità biografica possibile, quella segreta, quella che il suo cinismo ostentato cerca di tenere a distanza. Anche lui avrebbe potuto tagliare la gola a un uomo legato e impaurito, a sangue freddo. E invece, per caso, s’è fatto scrittore. Poi ha incontrato se stesso. E certo anch’egli a sangue freddo, ha finito per scrivere la storia nascosta e profonda della sua vita. (ROBERTO ESCOBAR, Il Sole-24 Ore, 26 febbraio 2006) Truman Capote - A sangue freddo è interpretato da un grandissimo Philip Seymour Hoffman, un attore biondo, paffutello e con gli occhi dolci; fino ad ora lo si è spesso visto in secondo piano in film come Magnolia, Boogie Nights, Happiness, Quasi Famosi. Con Capote l’attore (anche produttore del film) ha confermato la sua bravura. Nel doppiaggio in italiano si perde tutto il lavoro fatto sulla parlata un po’ effemminata, da bambino, ma tutto sommato dopo i primi secondi di spiazzamenTRUMAN CAPOTE 225 to e di fastidio ci si abitua anche alla voce recitata del doppiatore Roberto Chevalier (Tom Cruise, Tom Hanks, Andy Garcia, Jeff Daniels, James Woods, John Travolta, è uno tra i più bravi....). Si è detto tanto di questo film, che Capote avesse sfruttato l’amicizia e la fiducia di Perry Smith solo per scrivere il libro, che non ha voluto fare nulla per salvare i condannati, che se da un lato era attratto e affascinato da Perry Smith dall’altro non vedeva l’ora che venisse giustiziato perché dopo 4 anni di rinvii della pena lo stesso Capote era esausto e voleva portare a termine il suo lavoro... Però, detto questo che forse contiene anche delle malignità, si è sottolineato poco quanto nel libro sia presente il tema della condanna a morte, quanto il regista (e ovviamente ancor prima lo stesso Capote nel suo racconto) si sia concentrato sulla durezza e l’insensatezza del braccio della morte, ponendola in contrasto alla vita dorata della borghesia, anche degli intellettuali (si pensi alla scena in cui una sera Perry vede, dalla sua finestrina sul cortile nel braccio della morte, trasportare i giustiziati e a montaggio alternato Capote in un teatro di NY che legge brani del suo libro). E quanto Capote fosse ossessionato dal fatto che lui e Perry fossero così simili, con un’infanzia simile e dolorosa, e così diversi adesso: “È come se fossimo vissuti nella stessa casa, io uscito dalla porta davanti e lui da quella di dietro”. Bravo Seymour Hoffman e soprattutto – lo ha detto Gerald Clark il biografo di Capote – sorprendente anche la Keener nei panni della fedele amica dello scrittore Harper Lee, un po’ dimessa in stile Miss Money Penny, che lo accompagna nella sua avventura. (BARBARA SORRENTINI, Chassis, Radio Popolare) I COMMENTI DEL PUBBLICO DA PREMIO Delia Zangelmi – Molto più spaventoso il delitto legalizzato dello Stato, se è possibile, di quello dei due disgraziati. Perry! Quanti ne produce la nostra società con egoismo e cecità. È vissuto solo, disperato, malconcio, ma alla fine ha avuto un umano tributo di commozione. 226 TRUMAN CAPOTE Rosa Luigia Malaspina - Ogni uomo ha valore nonostante le eventuali nefandezze che compie. Il valore della persona è al di là e al di sopra dei comportamenti. Perché uno ammazza? O perché Perry e Richard hanno ammazzato? Cosa è successo alla loro mente in quel momento? Queste sono state le curiosità di Truman Capote e sono anche le mie. Evidente l’ambiguità dei personaggi, soprattutto quella dello scrittore, che ama e protegge Perry, ma a un certo punto sceglie se stesso e non aiuta fino in fondo l’amico e l’amico capisce. OTTIMO Isabella Bruno - Valori umani: alti e bassi di una persona in ricerca. Bellissima la fotografia. Splendida recitazione. Simonetta Testero - Film che coinvolge lentamente nel personaggio e nella vicenda, offrendo una magnifica interpretazione di “quel momento, di quella tragedia”. È reso anche molto bene il mondo che circonda lo scrittore e il travaglio interiore che lo travolge. È reso anche in modo convincente il personaggio dell’assassino e del suo compagno. Vittorio Zecca - Un ottimo film impreziosito da una interpretazione superba. BUONO Miranda Manfredi - Una personalità sconcertante in conflitto con se stessa tra la cinica ricerca del successso e la consapevolezza umana di un giustizionalismo senza riscatto. Questo è il ritratto di Truman Capote che il film ci propone con una suggestiva sceneggiatura in cui si alternano paesaggi sconfinati, interni di case isolate che sembrano destinate a qualsiasi azione delittuosa, mondanità e segregazione in cui solo la legalizzazione della morte libera la coscienza della società. Il film è intenso e merita attenzione per l’analisi di un disagio psicofisico di uno scrittore di successo accostato a una devianza criminale che sembrano entrambi derivati dallo stesso iter familiare.