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identita_portatili
Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012, pagg. 149-173
gruppoMontepaschi
Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica*
PIER LUIgI SACCo**, CHRISTIAN CALIANDRo***
This paper seeks to analyse the role of Walter Benjamin’s concept of aura in the
current socio-economic context, especially in processes of identity construction
and generation of meaning. First, we try to reconsider the relationship between
aura and cultural industry on the one hand, and between economic and cultural
value on the other, recognizing three different typologies of aura and characterizing the fundamental allographic functioning of contemporary visual art. Second,
we propose to trace the antecedents of the relationship between aura, contemporary art and systems of economic identity back to three authorial matrices: Marcel Duchamp, Joseph Beuys, Andy Warhol. On the basis of this theoretical platform, we draw a historical lineage (from Cindy Sherman to Douglas Gordon and
Matthew Barney) that pioneered, in the last thirty years, new processes of identity production and reproduction. Then, we discuss the present “cultural ecology”
of content appropriation, the digitalization and de-materialization of cultural
products, and its importance in the current evolution of those processes.
(J.E.L.: Z11)
People now have more information, and they are
smarter, overall, as a consequence –
even in those ways they choose to be dumb.
THoMAS M. DISCH1
I. Valore economico vs. valore
culturale: ripensare l’aura e
l’industria culturale
Ha senso riferirsi all’aura come a un
concetto utile per comprendere il mondo
attuale? Ha senso, in generale, parlare
di aura oggi? E in che termini? Per
rispondere a queste domande, dobbiamo
ritornare all’inizio, vale a dire alle riflessioni seminali di Walter Benjamin nel
suo saggio del 1936, L’opera d’arte nel-
* Articolo approvato nel mese di febbraio 2011.
** Professore ordinario di Economia della cultura, Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM,
Milano. E-mail: [email protected].
** Ricercatore Post-Doc in Storia dell’Arte e Teoria della Critica, Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM, Milano. E-mail: [email protected].
1 Disch, T.M. (1998), The Dreams Our Stuff Is Made Of: How Science Fiction Conquered the World,
Simon & Schuster-Touchstone: New York, 226.
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Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012
l’epoca della sua riproducibilità tecnica. In questo testo, la nozione di aura è
connessa profondamente all’oggetto
specifico (l’opera d’arte) ed alla sua presenza (hic et nunc), vale a dire con la
sua unicità. La relazione fisica tra
oggetto e spettatore, alla base della storia dell’arte intesa in termini moderni,
viene progressivamente minacciata e
distrutta dall’avvento della riproducibilità tecnica. Ma questo processo di deterioramento, nella prospettiva di Benjamin, non è un fenomeno completamente negativo, dal momento che apre possibilità interamente nuove per la funzione, la comunicazione e la ricezione dell’arte. Nel Paragrafo III, infatti, Benjamin scrive:
“La liberazione di un oggetto dalla sua
guaina, la distruzione dell’aura sono il
contrassegno di una percezione la cui
sensibilità per ciò che nel mondo è
dello stesso genere è cresciuta a un
punto tale che essa, mediante la riproduzione, attinge l’uguaglianza di
genere anche in ciò che è unico”2.
Ma il filosofo riconosce anche che
l’aura può essere costruita artificialmente, come nel caso delle star cinematografiche (anticipando così di parecchi
decenni un filone di studi decisivo sull’argomento, che avrà in uno studioso
come Richard Dyer il suo interprete più
illustre3):
“Il cinema risponde al declino dell’aura costruendo artificiosamente la personality fuori dagli studi: il culto del
divo, promosso dal capitale cinematografico, cerca di conservare quella
magia della personalità che da tempo
è ridotta alla magia fasulla propria del
suo carattere di merce“4.
L’aspetto più interessante è che il
concetto di aura viene applicato qui non
a un oggetto, ma ad un essere umano e
alla sua proiezione (immaginaria). Questo processo viene interpretato come
una soluzione temporanea e precaria,
una sorta di ‘antidoto’ al consumo –
inteso nel senso sia di “uso, consunzione” che di “spreco” – dell’aura unica
dell’individuo. Ad esso si oppone la
“magia della personalità”, a questo
livello completamente irrelata all’identità effettiva dell’attore come persona.
Inoltre, l’intero processo avviene “fuori
dallo studio”, nel mondo reale.
Di fatto, dopo decenni di ricerche e
dibattiti, non sappiamo ancora molto del
funzionamento dell’aura e del suo ruolo
nell’arte, nella cultura e nella società
contemporanee. L’idea stessa di aura,
anzi, è qualcosa di vago e indefinito,
sebbene sia uno degli elementi centrali
nella formazione delle identità personali in piena era postmoderna. L’aura non
pertiene al passato lontano o recente, ma
è direttamente e strettamente collegata,
per esempio, al masscult e alla celebrity
2 Benjamin, W. (1995), Der Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (1936),
Suhrkamp Verlag: Frankfurt am Main (trad. it. (1991), L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica, Einaudi: Torino, 25).
3 Cfr. almeno Dyer, R. (1979), Stars, British Film Institute, London (trad. it. Star (2003), Kaplan: Torino)
e idem, Heavenly Bodies (1986): Film Stars and Society, British Film Institute: London.
4 Benjamin, W. op. cit., 34-35.
P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità...
culture tipici di questi anni.
Dunque, dopo più di settant’anni, il
campo denotazionale del concetto non è
più esattamente lo stesso che Benjamin
aveva in mente. L’aura infatti non è
scomparsa, ma si è trasformata, si è evoluta, aderendo a oggetti differenti.
Possiamo iniziare a distinguere tre
tipologie di aura, che sono consequenziali (diacroniche) su una scala storica,
ma che al tempo stesso si interconnettono e si sovrappongono a vicenda (sincroniche):
- storica (moderna, pre-industriale)
- tecnica (modernista, industriale)
- spettacolare5 (postmoderna, post-industriale).
Per aura ‘storica’ intendiamo la definizione stabilita da Benjamin, che si
inserisce chiaramente in un contesto di
produzione culturale pre-industriale in
cui l’accesso all’oggetto auratico era
fondamentalmente ed inestricabilmente
collegata alla sua presenza ed accessibilità fisica.
L’aura ‘meccanica’ indica i nuovi
dispositivi auratici che emergono con
l’avvento della riproducibilità tecnica,
con la conseguenza di rendere possibile
l’unicità dell’oggetto auratico proprio
grazie alla possibilità di replicazione
illimitata attraverso i media – un processo che è stato cristallizzato nella pratica
artistica dal lavoro degli artisti pop e
soprattutto di Andy Warhol. Tale processo, inoltre, coincide con l’avvento della
rivoluzione industriale nel territorio
creativo – vale a dire, con l’incorporazione massiccia del progresso tecnologi-
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co nei processi di produzione culturale,
che porta all’istituzione e alla diffusione
di tutta una serie di nuovi media, dal
cinema alla fotografia, dal multimedia al
software d’intrattenimento.
Infine, per aura ‘spettacolare’ si
intendono alcune forme più recenti, che
dànno per acquisite quelle precedenti e
si sviluppano sulla base della premessa
che in una società postmoderna, postindustriale, i contenuti e i significati culturali vengono usati strategicamente
dalle persone per costruire le loro identità sociali, che oggi non sono più la
conseguenza della loro iscrizione in
un’organizzazione sociale complessa e
preesistente, ma il risultato di una negoziazione significativa con i rispettivi
gruppi sociali di riferimento. L’aura
degli oggetti, quindi, diviene una risorsa socio-economica che gli individui
usano per costruire la loro immagine
sociale nella mente degli altri, sfruttando adeguatamente il valore auratico dei
significati che tentano di associare a se
stessi acquistando determinati oggetti,
facendo determinate esperienze, e più in
generale (in maniera parziale, soggettiva) appropriandosi di determinati dominî simbolici. Di fatto, il primo e il
secondo tipo di aura non scompaiono
con l’avvento del terzo, né da esso vengono completamente sostituiti, ma sono
piuttosto arricchiti e modificati dalla sua
comparsa e dal suo sviluppo, in modo
che le tre tipologie sono cresciute sempre più intrecciate tra loro; ed è proprio
questa intersezione che caratterizza l’epoca attuale.
5 Intendiamo qui “spettacolare” nel senso attribuito al termine da guy Debord: cfr. Debord, g. (1992),
Society of the Spectacle, Rebel Press: London.
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È molto facile essere ingannati da
questa varietà, e ragionare su una forma
di aura mentre in realtà il vero oggetto
della discussione è un altro. Una dimostrazione recente e abbastanza evidente
di questo punto è lo studio di Alessandro
Dal Lago e Serena giordano, Mercanti
d’aura (2006). La tesi di partenza degli
autori, esemplificata dal titolo del capitolo centrale (L’aura è viva e si vende
bene6), è contenuta nella sintesi proposta a mo’ di conclusione: “l’arte d’oggi è
una sfera culturale che esprime, più di
ogni altra, la natura mercantile del
nostro mondo”7. gli studiosi considerano l’aura come una sorta di dispositivo
di manipolazione, che a sua volta è una
mera, in qualche modo cinica espressione della razionalità strumentale, chiaramente rappresentata dalla logica della
massimizzazione del profitto delle industrie culturali e degli affari connessi ad
esse.
Questa posizione, però, non tiene nel
dovuto conto la complessità delle connessioni tra sfere molto diverse come la
sostenibilità economica dell’espressione
culturale, i processi sociali che consentono agli attori di acquisire visibilità e
centralità nei meccanismi di generazione dei contenuti e significati culturali, e
le dimensioni comportamentali che guidano questa stessa generazione e circolazione di contenuti in una società della
conoscenza come quella alla cui nascita
oggi assistiamo. La ricerca di Dal Lago
e giordano è interessante ai nostri fini
proprio perché è sintomatica di determinati fraintendimenti nella concettualizzazione e nella comprensione degli
attuali, principali processi di generazione di senso. In particolare, vogliamo
evidenziare la sua tensione ‘centripeta’,
che guarda al mondo dell’arte ed all’approvazione artistica contemporanea
come ad un contesto economico appartato e ancillare. Questo punto di vista
interpreta l’arte “ufficiale” – e l’aura –
semplicemente come il riflesso “di una
società mercantile, arida e gerarchizzata”8, come del resto viene in seguito
confermato dal libro più recente dei due
autori, Fuori cornice. L’arte oltre l’arte
(2008).
Questo è solo un esempio di come
sia possibile equivocare il senso e il
ruolo dell’aura nella cultura contemporanea, in assenza di una cornice teorica
adeguata. La centralità dell’aura nella
cultura attuale va compresa con la
mente aperta. Perciò, dobbiamo adottare
una prospettiva differente per spiegare
perché, in primo luogo, l’aura ‘storica’
non è affatto scomparsa come predetto
da Benjamin, ma al contrario ha affrontato una sorta di processo ‘inflazionario’
che l’ha resa talmente pervasiva ed
esplicita da renderla anche difficilmente
riconoscibile, come la lettera rubata di
Poe. Dal punto di vista di Benjamin nel
1936, i processi auratici hanno attraversato un percorso irreversibile che ha
cambiato per sempre il modo in cui percepiamo l’aura, ragioniamo attorno ad
6 Dal Lago, A. e S. giordano (2006), Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea, Il Mulino: Bologna, 129-164.
7 Ivi, 239.
8 Ivi, 245.
P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità...
essa e ce ne serviamo nei nostri processi cognitivi ed emozionali.
Per comprendere questo aspetto, è
necessario analizzare la lunga e fondamentale transizione dalla presenza e
unicità dell’oggetto realizzato a mano
(l’opera d’arte) inteso come fonte auratica principale, al nuovo dominio auratico della costruzione identitaria individuale, attraverso l’azione e la mediazione della riproduzione tecnica (media e
nuove tecnologie). Questo passaggio era
già presente in nuce, come opzione, nell’analisi di Benjamin. Riferirsi infatti
all’aura benjaminiana in questo momento storico non è una coincidenza: viviamo in un’epoca dominata dall’interazione tra la produzione di valore economico e quella di ‘forme auratiche’, ovvero
correlativi intangibili ma socialmente
determinanti dei beni e dei servizi che
costituiscono il risultato dei processi di
produzione economica.
Certamente, l’aura di Benjamin
rimane – ancora oggi – del tutto estranea
alle spiegazioni economicamente fondate della generazione di valore sociale ed
economico, e lo stesso si può dire dei
concetti derivati che emergono dall’analisi dei dispositivi auratici di produzione
del valore che caratterizzano questi
anni. Di conseguenza, l’economia attuale, che fondamentalmente è un ragionamento sulle cause e sulle conseguenze
della generazione e circolazione di valore economico, non è in grado di comprendere l’economia che si è venuta
costruendo attorno a noi come conse-
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guenza dei processi auratico-identitari
che regolano quotidianamente le nostre
scelte e i nostri comportamenti di consumatori. Ma è uno stato di cose destinato
a cambiare. Nel nuovo contesto, le catene del valore che definiscono i processi
di generazione del valore economico
originano nei processi di produzione di
senso tipici delle arene culturali: i consumatori non comprano più prodotti, ma
comprano la fruibilità identitaria dei
contenuti, e ciò si riflette chiaramente
nei loro processi e nelle loro funzioni
neurali9.
Questa condizione è profondamente
diversa da ciò che accadeva in epoche
precedenti. Nell’ambito pre-industriale,
la produzione culturale poteva occupare
anche un posto di rilievo nelle catene
del valore, ma si trattava comunque di
un posto situato a valle: nella fase, cioè,
di utilizzo del surplus economico prodotto attraverso altri mezzi – l’agricoltura, l’intermediazione creditizia, la manifattura pre-industriale. In questo contesto, il rapporto tra il culturale e l’economico è regolato dalla logica mecenatistica: il detentore delle risorse materiali
decide di utilizzarle per la committenza
di opere dell’ingegno e dell’immaginazione, per il proprio diletto sociale e/o
per aumentare il proprio prestigio politico e sociale.
Con la rivoluzione industriale, si
assiste alla progressiva strutturazione di
catene del valore interne alla sfera culturale, che adotta quando e dove è opportuno le nuove forme dell’organizzazione
9 Cfr. su questo argomento Ariely, D. (2008), Predictably Irrational: The Hidden Forces That Shape Our
Decisions, HarperCollins: New York.
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Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012
industriale ma mantiene la sua separatezza andandosi a configurare come un
ambito di attività produttiva specifica,
facente parte della vasta sfera sociale
dell’intrattenimento. Non tutte le forme
di espressione culturale si adattano a
questo cambiamento, e soprattutto faticano a farlo quelle nate storicamente in
epoche precedenti alla rivoluzione industriale e allo stesso tempo organizzate in
modo da non poter profittare delle possibilità di riproduzione illimitata offerte
dalla nuove tecnologie: spiccano in questo ambito le performing arts e, appunto, le arti visive. In questi ambiti sopravvivono quindi le pratiche mecenatistiche, alle quali si sovrappongono e progressivamente si sostituiscono le logiche del sostegno pubblico. Ciò malgrado, con il tempo, e senza rinnegare le
proprie peculiarità e anzi fondando su di
esse la propria capacità di produzione di
valore, anche le arti visive riescono a
trovare una loro modalità di circolazione basata sul mercato e fondata su un
delicato bilanciamento tra i canoni della
razionalità commerciale e la logica del
dono e del dispendio tipica dell’economia pre-industriale: le opere d’arte possono avere un prezzo ma sono, allo stesso tempo, oggetti meta-economici per i
quali il prezzo assume un carattere eminentemente simbolico (come spiega
molto bene lo stesso Velthuis nel suo
Talking Prices10). Nell’organizzazione
tipica dell’età industriale, la sfera culturale costruisce così un proprio territorio
autonomo rispetto alla sfera economica
vera e propria, nella quale le leggi dell’economico vigono sì, ma sono sottoposte ad una serie di correttivi specifici
che dipendono in modo vario e complesso dalla natura dell’attività culturale
stessa. Anche nei settori più costituzionalmente orientati ad una organizzazione di tipo industriale, come ad esempio
il cinema dei grandi studios hollywoodiani o l’industria musicale dei tempi
d’oro, esistono delle specificità che non
sono facilmente comprensibili agli outsiders e che danno vita a degli strani
ibridi nei quali la business culture si
sposa a singolari forme di corpus hermeticum accessibili soltanto a chi è cresciuto e ha acquisito sul campo il proprio diritto di cittadinanza in quelle particolari arene culturali. L’organizzazione industriale finisce naturalmente per
de-sacralizzare porzioni sempre più
ampie della sfera culturale, legittimandone quando e dove possibile l’orientamento al profitto, per quanto in un delicato bilanciamento con l’orientamento
alla qualità del prodotto culturale (ancora una volta definibile solo attraverso
canoni altamente specifici e difficilmente codificabili).
È in questa fase che comincia a prendere corpo il concetto di industria culturale. Nel testo di Velthuis compare un
riferimento abbastanza fugace alla scuola di Francoforte, e alla connotazione
fortemente negativa che essa dà alla
organizzazione della produzione culturale su scala industriale come premessa
a nuove forme di totalitarismo morbido
10 Cfr. Velthuis, o. (2007), Talking Prices: Symbolic Meanings of Prices on the Market of Contemporary
Art, Princeton University Press: Princeton, NJ. Cfr. anche idem (2005), Imaginary Economics: Contemporary Artists and the World of Big Money, NAI Publishers: Rotterdam.
P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità...
che non casualmente, nella più recente
letteratura di political studies, hanno
trovato una nuova, complessa declinazione nella nozione di soft power. Ma
per quanto una riflessione accurata su
un tema tanto complesso abbia bisogno
di molto più spazio di quanto sia possibile concedergliene all’interno di questo
scritto, bisogna osservare come ancora
una volta alla radice di questa visione
così conflittuale del rapporto tra culturale ed economico, questa volta declinato
come progressiva colonizzazione operata dal secondo ai danni del primo attraverso l’assimilazione di un modello
organizzativo orientato al profitto, e del
corrispondente canone di razionalità, vi
sia una particolare concezione dell’economico, che negli anni del secondo
dopoguerra poteva ancora essere fondata ma che oggi appare decisamente
superata, malgrado l’apparente trionfo
della società dello spettacolo e delle
nuove forme mediatiche della manipolazione culturale di massa.
In questo senso è significativo che,
anche oggi, l’arte contemporanea non
sia classificabile come un’industria culturale propriamente detta. La ragione è
semplice: nell’industria culturale, le
condizioni di fruizione richiedono la
riproducibilità potenzialmente illimitata
di una matrice in copie equivalenti (un
libro, un cd, un dvd, eccetera); nel caso
dell’arte contemporanea tale possibilità
non è consentita, non a causa della sua
non fattibilità economica, ma in base ai
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codici di senso che governano l’ontologia delle opere d’arte contemporanea. È
questa la differenza tra ciò che Nelson
goodman11 chiama lo statuto allografico piuttosto che autografico degli oggetti/esperienze culturali. Il primo prevede
la replicabilità indefinita a partire da una
matrice considerata tale dall’autore,
ammesso che tale replica sia fedele e
non comporti alterazioni significative,
anche in assenza di un consenso esplicito dell’autore stesso – al massimo,
potranno sorgere problemi riguardo
all’applicazione dei diritti di proprietà
intellettuale per difendere il diritto dell’autore e l’accessibilità fisica.
La corretta riproduzione della matrice previene all’origine la possibilità che
l’oggetto sia ‘falsificato’: ogni buona
copia è infatti ‘equivalente’ all’originale, indipendentemente dalla sua legalità12. Sotto il regime autografico, invece, un oggetto può essere considerato
autentico soltanto se l’autore lo identifica come tale, indipendentemente dall’accuratezza e dalla fedeltà della riproduzione. Mentre la maggior parte delle
forme di produzione culturale (e in particolare tutte quelle forme che rientrano
nel novero delle industrie culturali) si
attengono allo statuto allo grafico, l’arte
contemporanea segue quello autografico. L’opera acquista significato e valore
in quanto indicata dall’autore come tale;
senza la certificazione di quest’ultimo,
perde ogni interesse e significato, al di
là della sua apparenza fisica.
11 Cfr. goodman, N. (1968), Languages of Art: An Approach to a Theory of Symbols, Bobbs-Merrill:
Indianapolis.
12 Su questo argomento, cfr. Crowther, P. (2008), ontology and Aesthetics of Digital Art, The Journal of
Aesthetics and Art Criticism, 66: 2, Spring, 161-170.
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Una discussione approfondita del
perché l’arte contemporanea operi autograficamente piuttosto che allograficamente esula dagli obiettivi di questo
saggio. Basterà osservare qui che, nel
caso dell’arte contemporanea, si dà
importanza al “qui e ora” del rapporto
individuale con l’opera: conta, cioè, non
soltanto l’opera in sé, ma anche il contesto in cui essa viene presentata ed esperita, che non a caso è in genere soggetto
a un’attenta regia da parte dell’artista o
dei curatori. Le opere d’arte sono “individui” dotati di una presenza che non ne
permette la replicabilità – se non in condizioni estremamente restrittive e quindi
rigidamente controllate. L’arte contemporanea, mantenendosi fuori dal regime
allografico e quindi dalla possibilità di
formazione di un mercato di massa, ha
continuato a vivere in una sorta di “stato
di eccezione” nel quale lo scambio economico che dà vita alle transazioni commerciali non è governato dal un “semplice” prezzo, ma da un sofisticato
scambio simbolico, che contiene anche
reciproci elementi di riconoscimento e
gratuità che impegnano le parti in causa
in una relazione che va al di là dello
scambio monetario, e si riferisce alla
comune appartenenza ad un circolo
sociale estremamente restrittivo ed
espressivo. Questo carattere pre-moderno della produzione economica e nella
circolazione delle opere d’arte permette
a sua volta la sopravvivenza di alcuni
tratti di mecenatismo, non soltanto nei
grandi collezionisti committenti, ma
anche nell’operato e nella legittimazione di molte istituzioni pubbliche dedicate, in primis i musei. Dunque, anche
l’arte del momento presente, che in un
certo senso più attuale non potrebbe
essere, manifesta allo stesso tempo alcuni sottili e quasi inquietanti caratteri di
inattualità: quei caratteri che portano i
nuovi arrivati ad accostarsi agli spazi
espositivi dell’arte con quel timore reverenziale che un tempo era riservato agli
spazi del sacro – un atteggiamento che
difficilmente si riscontrerebbe in qualcuno che entri per la prima volta in un
teatro, in una biblioteca o una sala da
concerto, per non parlare di una game
arcade.
Per l’arte contemporanea, la conquista di una popolarità sempre più ampia
in presenza di uno statuto autografico
che permette una circolazione e un’accessibilità molto limitata dell’opera
d’arte sembra rappresentare quasi una
contraddizione in termini. Ma si tratta di
una antinomia soltanto apparente: è proprio la leggenda dell’inaccessibilità a
conferire all’arte la sua aura post-benjaminiana, in base alla quale la riproducibilità dell’opera serve soltanto ad alimentare la nostalgia della presenza
davanti all’originale, e non a surrogarne
le funzioni. L’arte contemporanea può
così vivere in un doppio regime, nel
quale coesistono la crisi economica
(temporanea, per altro) e la crescente
visibilità sociale.
13 Velthuis, o. (2005), Imaginary Economics: contemporary artists and the world of big money, NAi
Publishers: Rotterdam (trad. it. (2009), Imaginary Economics. Quando l’arte sfida il capitalismo, Johan
& Levi: Milano).
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II. Alla ricerca di nuove matrici:
arte auratica 1977-2000
Nel tentativo di riconoscere gli antecedenti della relazione tra aura, arte contemporanea e sistemi di identità economica, è necessario risalire ai ‘padri nobili’: Marcel Duchamp, Joseph Beuys,
Andy Warhol. In Imaginary Economics,
Velthuis13 ricostruisce brevemente la
vita artistica e intellettuale di questi
maestri storici, mostrando come essi
hanno mantenuto nel tempo una sofisticata e accorta regia concettuale del proprio lavoro, avventurandosi in gesti
estremi come il silenzio duchampiano,
che lo stesso Beuys definì “sopravvalutato” in una famosa performance televisiva. o si pensi alla Factory di Warhol
nella quale, programmaticamente, i
modelli della corporate culture venivano contemporanamente riprodotti e
negati, rendendo simultaneamente credibile l’idea che, come egli stesso affermava, il good business potesse essere la
forma migliore di arte e che, allo stesso
tempo, la sua factory potesse rappresentare uno dei luoghi più radicalmente
antitetici ad ogni possibile spersonalizzazione alienante della pratica lavorativa, e quindi un eloquente e pericoloso
esempio di totale sovvertimento ironico
della cultura aziendale su cui si costruiva in quegli stessi anni il benessere del
capitalismo occidentale.
Ciò che intendiamo sostenere qui è
che nelle pratiche dei maestri ormai storicizzati si nascondono elementi di
senso che non soltanto hanno contribuito in modo decisivo a definire la nostra
percezione della relazione tra l’economico e l’artistico, ma hanno anche, progressivamente e lentamente, informato
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di sé i processi di formazione del valore
culturale ed economico. La pratica artistica può infiltrarsi nei processi economici in modo sostanziale e radicale, ma
lo può fare, necessariamente, sulla scala
del tempo storico, in modo lento, complesso e in parte accidentale.
La contaminazione mimetica tra artistico ed economico sta operando in
modo sostanziale, e in ambedue le direzioni. guardiamo, per esempio, le cose
dal punto di vista della culturalizzazione
dell’economia. Qui è chiaro che pressoché tutti i dispositivi oggi efficaci per la
costruzione di una percezione di valore
attorno ai prodotti di consumo (e non
soltanto delle opere d’arte) sono riconducibili a dispositivi classici di matrice
duchampiana, warholiana o beuysiana.
È duchampiana, ad esempio, la strategia
di ri-contestualizzazione che spinge a
caricare di auraticità un oggetto collocandolo in una situazione che ne enfatizza il potenziale di costruzione identitaria: si pensi ad esempio alla ormai pervasiva ‘museificazione’ degli oggetti di
design o dei capi e accessori di moda,
per limitarci agli esempi più evidenti. È
warholiana, invece, la strategia di auratizzazione degli oggetti prodotta attraverso la loro incessante e quasi ossessiva mediatizzazione: l’identità nello spazio mediale produce quella nello spazio
fisico, che viene acquisita a propria
volta dal compratore-consumatore per
assimilazione. Appropriandosi dell’oggetto, ci si appropria della vita mediale
che questo possiede e che trasmette per
contatto. L’oggetto nello spazio fisico
viene ri-conosciuto grazie alla sua identità mediale e rende riconoscibile chi ne
è portatore agli occhi di tutti coloro che
condividono quel processo di identifica-
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zione. Non a caso nei negozi troviamo
così tanti prodotti forniti del fatidico
quanto apparentemente incomprensibile
bollino che strilla ‘visto in tv’. È beuysiana, invece, la strategia che produce
auraticità attraverso la memoria della
presenza collettiva ad un evento condiviso e carico di valore identificante.
L’oggetto che garantisce che il suo portatore ‘c’era’, e più in generale l’oggetto che marca l’appartenenza ad un gruppo sociale accomunato dall’adesione a
determinate convenzioni di senso che
risultato non riconoscibili o addirittura
incomprensibili ai non-membri, ma che
allo stesso tempo hanno bisogno di rendere socialmente visibile e rilevante
questa appartenenza speciale e semi-iniziatica.
ovviamente, non c’è ragione di credere che le tre matrici appena discusse
siano gli unici effettivi generatori di
senso (e quindi di valore economico) nel
nostro contesto post-industriale, sebbene apparentemente corrispondano in
maniera abbastanza precisa alle tre componenti fondamentali di ogni minima
teoria della comunicazione: il medium
(Warhol), il contesto (Duchamp), il
ricettore (Beuys) sono chiaramente definiti e altamente tracciabili nella loro
operatività all’interno del dominio economico post-industriale, dal momento
che traducono correttamente dispositivi
(ormai ‘classici’) che sono stati ampiamente esplorati, testati e sperimentati
nella maggior parte delle pratiche artistiche degli ultimi decenni. In teoria,
potrebbero esistere altre matrici che
lavorano altrettanto efficacemente, e
forse sono già lì fuori che lavorano a
pieno regime. Ciò che è interessante evidenziare è che l’arte contemporanea
sembra essere un potente (il più potente?) generatore di dispositivi-matrici per
la produzione di senso, e di valore economico: essa risiede, in qualche modo,
in cima alla catena del valore economico in un’economia post-industriale.
Se ciò è vero, potremmo chiederci
quali siano le prossime matrici che plasmeranno la nostra percezione di che
cosa è il valore (e quindi dello scopo dei
beni di consumo). guardando alla produzione degli ultimi trent’anni, per
esempio, è possibile individuare alcuni
artisti che apparentemente hanno adottato in maniera pionieristica nuovi processi di creazione identitaria, interpretando
l’aura non solo come una strategia per
ottimizzare l’esposizione e la ricezione
sociale della loro opera, ma piuttosto
come il vero core, il nucleo centrale del
loro lavoro – riflettendo e condensando
in questo modo le più recenti trasformazioni nella società e nell’immaginario.
Sebbene tutta l’arte sia, necessariamente, auratica, dal momento che deve elaborare la propria strategia riguarda la
presenza e la percezione, ci sono artisti
e opere che compiono un passo ulteriore, focalizzando la motivazione concettuale del lavoro e la generazione di
senso sui meccanismi e sulle dinamiche
sociali di produzione dell’aura stessa,
attraverso l’appropriazione accorta e
l’editing di frammenti auratici pre-esistenti e disponibili, che eventualmente
comporranno una narrazione riconoscibile come un asset identitario da un
numero rilevante di gruppi di riferimento e comunità. Alcuni esempi significativi possono essere rintracciati nei lavori (e quindi nelle strategie di produzione
del senso) di Cindy Sherman, Douglas
gordon e Matthew Barney, che non a
P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità...
caso, secondo modi e declinazioni differenti, ruotano tutti attorno ad uno schema concettuale comune: l’appropriazione di contenuti media-specific, in particolare materiale cinematografico (reale
o immaginario). Vale la pena perciò di
discuterli nel dettaglio, per illustrare in
diretta alcuni dei meccanismi alla base
di una matrice auratica.
Negli Untitled Film Stills, una serie
di 70 fotografie realizzate tra il 1977 e il
1980, Cindy Sherman lavora sull’appropriazione, non di una singola immagine,
di una scena o di un personaggio, ma
dell’aura di interi periodi e stili cinematografici – come il neorealismo, la nouvelle vague, il noir. Quindi, è necessario
considerare gli Untitled Film Stills come
un’opera unica e unitaria. La percezione
della serie come un’intera opera è abbastanza recente, dal momento che è stata
esposta completamente per la prima
volta solo nel 1995, allo Hirshhorn
Museum di Washington.
I personaggi non possono essere
definiti perciò come citazioni, dal
momento che essi sono piuttosto ‘tracce’, figure indefinite e non specificate;
non funzionano autonomamente, e si
riferiscono costantemente ad un altrove,
al tempo stesso dentro e fuori l’opera.
Questo altrove è sempre il cinema, percepito quasi come una seconda natura.
Così, ogni micro-narrazione (la “ghost
fiction” di Douglas Crimp, o “little narrative” secondo la definizione della stessa Sherman) fa parte di una storia più
comprensiva e complessa, potenzialmente discontinua e non-lineare. Questa
14
159
matrice è una variante altamente rappresentativa del layer motivazionale di
ogni forma di consumo post-industriale,
vale a dire, come abbiamo detto fin qui,
la costruzione dell’identità attraverso
l’appropriazione sofisticata e strategica
di significati disponibili attraverso l’acquisto di beni – la specificità della
matrice di Sherman è l’identificazione
di un bacino di significati circoscritto,
medium-specifico (il cinema). L’interpretazione canonica fornisce un’ulteriore caratterizzazione, descrivendo l’identità prodotta dalla narrazione di Cindy
Sherman come disintegrate e negative,
completamente contenuta nei clichés e
negli stereotipi, ed esemplificata da
Douglas Crimp nel suo testo classico
The Photographic Activity of Postmodernism (pubblicato su October nell’inverno del 1980):
“Her photographs show that the supposed autonomous and unitary self out
of which those other ‘directors’ would
create their fictions is itself nothing
other than a discontinuous series of
representations, copies, and fakes. (...)
They use art not to reveal the artist’s
true self but to show the self as an
imaginary construct. There is no real
Cindy Sherman in these photographs;
there are only the guises she assumes.
And she does not create these guises;
she simply chooses them in the way
that any of us do”14.
Invece, oggi possiamo dire: “They
use art to reveal the artist’s true self and
Crimp, D. (1980), The Photographic Activity of Postmodernism, october, Winter, 99.
160
Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012
to show the self as an imaginary construct”. La donna-persona-personaggio
dei Film Stills è infatti una personalità
reale che corrisponde in parte a quella
dell’artista, ma è anche la somma di personaggi finzionali, di echi di altre attrici, ed infine risiede negli interstizi tra
questi diversi elementi. Cindy Sherman
riconosce precisamente l’identità auratica all’intersezione tra il personaggio
cinematografica, l’attrice ipotetica e se
stessa. Questa identità è costruita attraverso un continuo riferimento di secondo grado a modelli immaginari che sono
i moduli costruttivi dei processi (artistici) di produzione del senso.
Dunque, è possibile affermare non
solo che gli Untitled Film Stills segnano
uno scarto significativo nel funzionamento interno dell’opera d’arte contemporaneo, ma anche che essi rappresentano il primo autoritratto postmoderno,
come la stessa artista sembra affermare
in modo singolare:
“...a lot of these characters look like
me in the periods of my life since I
shot the Film Stills - perhaps unconsciously I’ve been following them, or
at least their hairstyles. occasionally
I’ve felt that as I’ve gotten older I’ve
come to look more like some of them.
It’s kind of scary”15.
In questo senso, l’approccio della
Sherman rappresenta anche una importante evoluzione della ‘nostalgia’ riconosciuta da Fredric Jameson come tratto
tipico di molto cinema della Nuova Hollywood anni Settanta – da The Last Picture Show di Peter Bogdanovich ad
American Graffiti di george Lucas, passando per Il Padrino Parte I e Parte II di
Francis Ford Coppola. Essa rimane attiva ancora alla fine del decennio, per
esempio in un film come New York,
New York (1977) di Martin Scorsese –
uscito nelle sale nello stesso anno dei
primi Untitled Film Stills. Qui, la ricreazione del musical classico incontra l’analisi psicologica condotta sull’esempio
di John Cassavetes.
Nel caso del cinema, l’attitudine
nostalgica illustra un nuovo tipo di connessione con il passato storico; la Sherman invece usa la nostalgia come uno
strumento per la produzione del senso
già storicizzato, che contribuisce a
situare la temporalità cinematografica.
L’illusione del movimento come storia
e narrazione, al di là dell’immagine specifica, è la differenza principale rispetto
alla posa elementare.
I migliori tra gli Untitled Film Stills
presuppongono idealmente un prima e
un dopo che appartengono unicamente
al tempo del cinema e della fiction, non
a quello dell’esistenza reale. Come
afferma l’artista:
“[...] the shots I would choose were
always the ones in-between the action.
These women are on their way to
wherever the action is (or to their
doom)… or have just come from a
confrontation (or a tryst)”16.
15 Sherman, C. (2003), The Making of Untitled. In The Complete Untitled Film Stills, The Museum of
Modern Art: New York, 15.
P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità...
Il cinema funziona all’interno della
serie come un filtro e una griglia di riferimento, come strumento di conoscenza
e metafora della realtà:
“[...] I definitely felt that the characters were questioning something –
perhaps being forced into a certain
role. At the same time, those roles are
in a film: the women aren’t being lifelike, they’re acting. There are so many
levels of artifice. I liked that whole
jumble of ambiguity”17.
Il secondo elemento che contribuisce a creare il senso della narrazione è il
suggerimento pressoché costante del
fuori-campo (out-of-frame): tutti i personaggi generano attorno a se stessi una
sorta di spazio virtuale, che oltrepassa
gli aspetti visuali ed evoca altri personaggi ‘invisibili’, che possiamo evocare
proiettando le nostre narrazioni identitarie nello ‘schiudersi’ del frame. Dunque,
ogni immagine è incompleta, poiché stabilisce una relazione immaginaria con il
suo ‘fuori’.
Le donne di Cindy Sherman guardano sempre a destra, a sinistra o al di
sopra del punto di vista dell’obiettivospettatore, a volte addirittura mimando
una conversazione con il proprio ‘reverse angle’. Più spesso, gli si rivolgono in
un atteggiamento perplesso o sospettoso, sempre preoccupate da questa ‘presenza’: “Some of the women in the outdoor shots could be alone, or being wat-
16
17
18
Ivi, 9.
Ibidem.
Ibidem.
161
ched or followed”18, dice l’artista. Nei
rari casi di sguardo diretto verso l’obiettivo, il personaggio sembra includere lo
spettatore nella propria storia: infatti, ci
sta guardando non da una semplice fotografia, ma da un film immaginario, inesistente.
Nel tentativo di definire l’arte auratica, il lavoro di Douglas gordon segna la
transizione fondamentale nella pratica
dell’appropriazione, dall’immagine fissa a quella in movimento, attraverso
l’impiego diretto di materiale cinematografico. Durante gli anni Novanta, gordon ha affrontato in maniera coerente il
tema del Doppio: riflessi, suddivisioni e
rispecchiamenti attraversano tutti i suoi
lavori realizzati nel decennio, dalle
proiezioni di Selfportrait (kissing with
scopolamine, 1994) alle performances
fotografiche di Tattoo (for reflection) e
Monster (1997).
In particolare, le videoinstallazioni
sviluppano il concetto di un’identità
divisa e multipla.
Confessions of a justified sinner
(1995-’96) combina il titolo del romanzo di James Hogg (1924) con la trasformazione del Dr. Jekyll nel film di Reuben Mamoulian (1932): la medesima
scena è proiettata su due schermi affiancati; il positivo e il negativo dell’immagine si alternano. La stessa idea viene
sviluppata, da un diverso punto di vista,
in A Divided Self I and II, il video con
cui gordon ha vinto il prestigioso Turner Prize nel 1996: il testo canonico di
162
Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012
Ronald David Laing sull’interpretazione
della schizofrenia (A Divided Self, 1968)
è sovrapposto al paradigma di Stevenson. Nella fotografia Self-portrait as
Kurt Cobain, as Andy Warhol, as Myra
Hindley, as Marilyn Monroe (1996), un
péndant del video, gordon evoca e
assembla l’aura di tutti i filoni principali nella cultura popolare (music, contemporary art, cinema and crime) attraverso le loro figure più rappresentative e
simboliche, allo scopo di costruire e
proporre una rappresentazione della
propria identità personale.
Infine, in Through a looking glass
(1999), il doppio è ottenuto attraverso
un’abile dialettica di suddivisione e
rispecchiamento: la schizofrenia, che tre
anni prima era ancora illustrata e
descritta, diviene qui letterale e leggibile negli scarti tra l’immagine e il suo
riflesso.
“[...] the double is obtained by means
of a skilful dialectics of splitting and
redoubling: Schizophrenia, that three
years before was still illustrated and
described, becomes here literal and
readable in the swerves between the
image and its reflection”.
Mentre Robert De Niro – Travis
Bickle in Taxi Driver (1976) – minaccia
l’altro se stesso, lo spettatore viene agito
da questa geometria temporale, sperimentando come l’Alice di Lewis Carroll
il passaggio continuo da un lato dello
specchio all’altro, da una dimensione
all’altra.
Vale la pena di notare che il cinema è,
per Douglas gordon, il luogo favorito di
esplorazione: tra tutti i possibili readymade, il cinema è probabilmente quello
ideale, dal momento che è esso stesso un
doppio, la realtà seconda, dunque un
modello per la costruzione di un’identità
parallela – in questo, esemplificando
perfettamente la natura dell’identità
post-industriale come meta-narrazione:
una narrazione, cioè, ottenuta attraverso
l’appropriazione decisa e la giustapposizione adeguata di altre narrazioni.
Infine, la principale differenza tra i
videoartisti che, durante gli anni Novanta, hanno lavorato sul cinema (tra gli
altri Douglas gordon, Stan Douglas e
Doug Aitken) e Matthew Barney, è che
quest’ultimo ha lavorato completamente
all’interno del contesto cinematografico, realizzando ben cinque film completi (Cremaster Cycle, 1994-2002).
Inoltre, questi film fanno parte di un
sistema complesso, che comprende
anche altre opere-satellite come fotografie, sculture e installazioni. Tim griffin
ha scritto nel sua recensione del 2003
alla grande mostra personale presso il
guggenheim di New York:
“… [Barney’s sculptures] bring to
mind the story of Jackson Pollock –
demonstrating his crafts for Hans
Namuth’s camera – being told that this
painting was finished because they
were out of film. It seems that one
medium digests the properties of
another, leaving the latter as a ghost of
itself”19.
19 T. griffin, T. (2003), Matthew Barney: The Cremaster Cycle (review), Artforum International, may
2003, XLI, No. 9, 193.
P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità...
Preliminarmente, tra gli elementi
auratici nella costruzione narrativa di
Barney, vale la pena di notare la sua
carriera come giocatore di football
all’università e come modello a New
York durante gli anni ottanta, oltre
naturalmente al suo matrimonio con la
cantante e musicista pop Björk che lo ha
reso ampiamento noto al di fuori dei
ristretti confini del mondo dell’arte contemporanea.
Il Cremaster Cycle può essere perciò
considerato un’opera di transizione nell’arte contemporanea, e verso una definizione dell’arte auratica nel XXI secolo. Usando il cinema e lo spettacolo
come gli strumenti principali della sua
operazione, Barney propone una versione autenticamente americana del discorso sulla vita, sulla morte e sull’identità,
riusando e ridefinendo contenuti provenienti dall’arte contemporanea (Richard
Serra, Joseph Beuys, Robert Smithson),
dall’architettura modernista (il Chrysler
Building nel Cremaster 3), dalla cultura
pop (il grind metal con il cantante dei
Morbid Angel nel Cremaster 2, l’industria automobilistica nel Cremaster 3),
dalla letteratura (Norman Maileriv nel
Cremaster 2) e dalla mitologia ancestrale (la leggenda di Fionn MacCumhail,
che descrive l’origine dell’Isola di Man
nell’ouverture del Cremaster 3). Affidando a Norman Mailer il ruolo di
Harry Houdini (e a Richard Serra quello
163
di grande Architetto nel Cremaster 3,
2002), Barney si appropria di un determinato significato auratico (un personaggio, un’opera d’arte) e lo associa ai
propri caratteri simbolici. Molti di questi
personaggi-simbolo – come nel caso di
Cindy Sherman – li recita egli stesso. In
questo modo, crea una rete di riferimenti e di contenuti estremamente complessa e talvolta disorientante, che costituisce la struttura aperta dell’intero sistema.
Da un punto di vista stilistico, per esempio, tra le influenze cinematografiche del
Cremaster 2 (1999), quello preminente è
Stanley Kubrick, in particolare 2001:
odissea nello spazio (1968). Va notato
che l’influenza di questo film è evidente
anche nel Cremaster 1 (1995), come
Nancy Spector sottolineava nel 2003:
“Two goodyear Blimps – ‘aerial
ambassadors’ and corporate icons for
the world-famous rubber and tire
company – float above the stadium,
like the airships that often record and
transmit live sporting events. The interior of each blimp is outfitted in futuristic retro chic: Shades of the modyet-minimalist space station of
Kubrick’s 2001: A Space odyssey...
merge with the streamlined oceanliner sensibility of Warren McArthur”21.
Le visioni dinamiche dall’alto che
20 Autore, tra l’altro, de The Executioner’s Song (Il canto del boia, 1979), dedicato proprio alla figura di
gary gilmore.
21 Spector, N. (2003), “only the perverse fantasy can still save us”: In Barney, M., The CREMASTER
Cycle, exhibition catalogue, Museum Ludwig, Cologne June 6 - September 1, 2002, Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, october 10 - January 5, 2003, Solomon R. guggenheim Museum, New York
February 14 - May 11, 2003, guggenheim Museum Publications: New York, 34.
164
Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012
caratterizzano l’opera di Barney – come
la sequenza del two-step sequence nel
Cremaster 2 – sono prese dalla sezione
finale Jupiter and beyond the Infinite di
2001, e per analogia dai titoli di testa di
Shining (1980), sempre di Stanley
Kubrick. La connessione è dimostrata
dal fatto che queste immagini illustrano
sempre un viaggio nel tempo e nello
spazio: in questo senso, l’operazione di
Barney si qualifica come una sorta di
remake del modello originale. Inoltre,
l’intera evoluzione stilistica del Cremaster Cycle tende esplicitamente verso
Kubrick, soprattutto nell’inquadratura
che si avvicina sempre più a un’idea di
grandeur, ed in determinati movimenti
della cinepresa.
Ma c’è un ulteriore modo di pensare
la relazione tra frammento auratico, dato
reale e opera d’arte. Nella videoinstallazione The Third Memo-ry (2000), Pierre
Huyghe giustappone un anziano John
Wojtowicz, autore di una rapina alla
Chase Manhattan Bank il 22 agosto del
1972, che lo rese una star di caratura
nazionale per un giorno, ad Al Pacino in
Dog Day Afternoon, il film realizzato da
Sidney Lumet nel 1975 e basato su questa storia vera. Wojtowicz ricostruisce i
suoi ricordi di quel giorno, all’interno di
un set che replica sia la location finzionale che quella originale.
L’artista propone qui una negoziazione alternativa con l’aura: dunque,
l’operazione è una composizione attiva,
che forza i limiti e i confini dell’appropriazione. La ‘terza memoria’ è più di
22
una semplice somma tra realtà e finzione, e riflette un’identità composita, viva
e spettacolare. Il protagonista diventa –
attraverso la gestione autonoma del
tempo – l’autore della propria narrazione:
“Pierre Huyghe seems to have set out
on a path where the aesthetic of appropriating an alienating form (the cinema) gives way to an enterprise (an
attempt) of reappropriating the representations that speak in our place and
name, an enterprise where the subject
represented – or figured – is invited to
take back his place at the very heart of
the spectacular machinery that has
dispossed him of his own identity…
An invitation to comment on his own
gestures and deeds, to reappropriate
them, to speak up once again, to
regain his own image”22.
III. Un primo sguardo all’ecologia
culturale dell’appropriazione di
contenuti: coda lunga e identità
2000-2009
Le caratteristiche delle strategie
attuali di costruzione identitaria sembrano aver applicato il suggerimento implicito di The Third Memory. Un aspetto
chiave di questo processo storico in
corso è indubbiamente l’apparente
ampliamento dell’‘archivio di significati’ da cui estrarre i possibili mattoni
della propria strategia (come esemplificato nella sezione precedente, nel caso
In Christov-Bakargiev, C. (ed.) (2004), Pierre Huyghe, exhibition catalogue, Castello di Rivoli Museo
d’Arte Contemporanea, Rivoli 21 april-18 july 2004, Skira: Milano, 264.
P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità...
del cinema) – vale a dire, l’archivio dei
prodotti e degli artefatti culturali, la cui
accessibilità e fruibilità si è incrementata in modo spettacolare in tempi recenti
grazie alla loro digitalizzazione e dematerializzazione. Come conseguenza
di questa trasformazione, che rende
esplicito e chiaro che ciò che è rilevante
per la costruzione degli asset identitari è
l’appropriazione e la trasmissione di
contenuti e che la disponibilità di prodotti/artefatti si giustifica solo in quanto
è strumentale a questo scopo – questi
artifatti (non più oggetti, almeno in
senso tradizionale) vengono percepiti
come frammenti auratici, come pezzi di
un puzzle da impiegare nella progettazione e nella costruzione dei contenuti
personali, rilevanti nell’ottica identitaria. Il regime autografico dell’arte contemporanea, ed il valore che continua ad
attribuire all’aura della presenza fisica, è
il dispositivo più potente per la generazione di nuove matrici, ma in generale
ogni tipo di costruzione culturale (allografica) può essere selezionata e usata
come materiale grezzo per questo processo di costruzione identitaria.
Ne La coda lunga (The Long Tail,
2006), Chris Anderson descrive l’avvento della distribuzione online come
una rivoluzione epocale per la ricezione
dei prodotti culturali, e per il suo impatto economico. Tra gli altri aspetti,
Anderson propone il concetto di “microfama” come sviluppo diretto e democratico della celebrity culture, e come risultato della frammentazione dei modelli
23 Anderson,
165
tipici del XX secolo, legati agli hit e ai
blockbuster:
“From product placement in tv shows
to the remarkable success of In Style
magazine (its great innovation was not
cropping the photos at the knees, so as
to show the shoes), the power of celebrity is increasingly measured in
terms of their ability to move merchandise. Whether you like it or not,
Jessica Simpson is a tastemaker.
But not all celebrities are Hollywood
stars. As our culture fragments into a
million tiny microcultures, we are
experiencing a corresponding rise of
microcelebrities”23.
La riflessione di Anderson è stata ed
è importante, perché apre un campo di
indagine interamente nuovo. Egli suggerisce che, nell’era dell’enciclopedismo digitale e dell’applicazione virtuale
del modello-playlist ad ogni branca
della conoscenza, il valore auratico
diventa una risorsa particolarmente
disponibile, fluida, plastica, adatta ad
ogni tipologia di sfruttamento individuale: una volta ingombrante ed imponente, essa diviene oggi rassicurante e
portatile. La costruzione dell’identità
personale procede così attraverso la
composizione e la ricapitolazione dei
contenuti culturali e informazionali,
completamente manipolabili e adattabili
ai gusti, alle aspettative e agli scopi personali.
La questione del gusto apre alcune
C. (2008), The Long Tail. Why the Future of Business Is Selling Less of More (2006), Hyperion: New York, 170.
166
Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012
crepe nel discorso fondamentalmente
ottimistico ed entusiastico di Anderson.
La prima riguarda l’impatto potenziale
di un’infinita opportunità di scelta sulla
capacità reale degli individui di gestirla
effettivamente:
“The overwhelming reality of our
online age is that everything can be
available. online retailers offer
variety on a scale unimaginable even a
decade ago – millions of products in
every possible variant and combination. But does anyone need this much
choice? Can we handle it?24”
Questo è il “paradosso della scelta”
analizzato da Barry Schwartz25, che illustra chiaramente come una ampia disponibilità di opzioni non coincide quasi
mai con una reale libertà di scelta e con
la gratificazione personale, in qualsiasi
campo della vita quotidiana – dallo shopping alla formazione, fino all’entertainment. La posizione di Chris Anderson,
invece, è che la disponibilità immediata
di un archivio illimitato di contenuti culturali, piuttosto di paralizzare la ricerca e
la sperimentazione nella scelta, le incoraggi. L’ex-direttore della rivista Wired
liquida frettolosamente alcuni appunti su
questo argomento portati avanti da Christine Rosen in un austero articolo del
2004, The Age of Egocasting:
“By giving us the illusion of perfect
control, these technologies risk
making us incapable of ever being
surprised. They encourage not the cultivation of taste, but the numbing
repetition of fetish. And they contribute to what might be called “egocasting”, the thoroughly personalized
and extremely narrow pursuit of one’s
personal taste. In thrall to our own little techonologically constructed
worlds, we are, ironically, finding it
increasingly difficult to appreciate
genuine individuality”26.
La ragione per cui Anderson sottovaluta, e in definitiva rigetta queste osservazioni, risiede in questa fiducia incondizionata nel sistema del filtering (“the
growing power of consumers to filter
what they see”, described also by Cass
Sunstein in Republic.com27) che caratterizza i meccanismi della coda lunga fin
dalla sua comparsa. Esso rappresenta
l’applicazione pratica dell’idea di ‘nicchia’ culturale, assimilata concettualmente a quelle che sono le caratteristiche delle sottoculture e più generalmente della cultura ‘alternativa’. Vale la
pena di notare qui che l’uso capace dei
filtri da parte dei consumatori può essere sicuramente una risorsa molto utile,
ma non può sostituire radicalmente le
pratiche più tradizionali di educazione e
24 Ivi, 170. Cfr. anche ivi, pp. 180-181: “The Long Tail is nothing more than infinite choice. Abundant,
cheap distribution means abundant, cheap and unlimited variety – and that means the audience tends to
distribute as widely as the choice. From the mainstream media and entertainment industry perspective, this
looks like a battle between traditional media and the Internet. But the problem is that once people shift
their attention online, they don’t just go from the media outlet to another – they simply scatter. Infinite
choice equals ultimate fragmentation”.
25 Schwartz, B. (2004), The Paradox of Choice. Why More is Less, HarperCollins, New York, 2004.
26 Rosen, C. (2004), The Age of Egocasting, The New Atlantis, Fall 2004 - Winter 2005, 52.
P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità...
formazione del gusto: la formazione e
l’evoluzione del gusto non può essere
ridotto per principio a una navigazione
spensierata, learning-by-doing nelle
arene culturali. In generale, sono necessari strategie e punti di riferimento
cognitivi, sviluppati attraverso un processo relativamente lungo e guidato,
allo scopo di essere pronti a esplorare
produttivamente il paesaggio ricco di
opportunità creato dal meccanismo della
coda lunga; il pericolo è invece quello di
fraintendere grossolanamente molti dei
contenuti culturali in cui ci si imbatte, in
modo che la selezione soggettiva e il
montaggio dei frammenti si traduce in
un pastiche involontariamente comico e
senza senso compiuto, come ampiamente dimostrato, per esempio, nell’attuale
letteratura filosofica e spirituale di grana
grossa.
Ma se una navigazione significativa
nel panorama illimitato dei contenuti
culturali chiama in causa un background
cognitivo ricco e complesso, e se l’acquisizione di un tale background risiede
al di fuori della portata delle motivazioni e talvolta persino della consapevolezza di molti, come si può riconciliare
questa condizione con la sempre più
pervasiva – in verità, quasi inevitabile –
pratica della costruzione identitaria
attraverso i contenuti culturali? La
risposta, a questo punto, dovrebbe esse-
167
re relativamente semplice: aura. Nel
contesto delle dinamiche della coda
lunga relative alla scelta, gli elementi
auratici non sono semplicemente un’opzione possibile tra l’armamentario dell’identità fai-da-te (“celebrities… are
another sort of trusted guide, and…
[their] influence on consumption continues to grow”28). L’aura è il filtro, la
guida e lo strumento principale per l’esercizio della scelta. Una dimostrazione
relativamente immediata di ciò può
essere rintracciata, per esempio, nell’uso delle parole-chiave per la ricerca in
siti come Youtube, MySpace, eccetera:
infatti, la logica generale della loro specificazione è guidata da marker auratici,
che rendono i contenuti facili da trovare,
riconoscere e valutare in termini di potere identitario (l’ammontare degli asset
auratici associati a un determinato contenuto). Un artefatto culturale complesso (un film, un’opera d’arte, una performance musicale, ecc.) può essere dunque facilmente ridotto ai suoi elementi
‘identitari’ di base attraverso il dispositivo delle parole-chiave, che determina la
sua visibilità e attrattività potenziale per
ogni gruppo di riferimento o comunità –
in modo da determinare il valore e la
calibrazione contenutistica ottimale
degli spazi pubblicitari che vanno sullo
spazio web in cui sono inseriti questi
contenuti, e la cui vendita rende l’intera
27 Sunstein, C.R. (2002), The Daily Me, in Republic.com, Princeton University Press: Princeton, 8 (trad,.
it. (2003), Republic.com. Cittadini informati o consumatori di informazioni? Il Mulino: Bologna). Cfr.
anche ivi, p. 10: “[…] it is much too simple to say that any system of communications is desirable if and
because it allows individuals to see and hear what they choose. Unanticipated, un-chosen exposures, and
shared experiences, are important too”. For this topic, see also: M. Van Alstyne, E. Brynjolfsson, Electronic Communities: global Village or CyberBalkans?, available online:
http://web.mit.edu/marshall/www/Abstracts.html.
28 C. Anderson, op. cit., p. 107.
168
Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012
operazione economicamente sostenibile
e proficua. I gruppi di riferimento
(all’interno dei quali i significati, e quindi il valore economico ad essi correlato,
sono messi in circolazione e a un certo
livello addirittura prodotti) vengono
dunque accuratamente individuati, per
essere tradotti nelle loro controparti economiche di segmenti di mercato (all’interno dei quali il valore economico
viene convertito in turnover economico
sotto forma di scambio commerciale).
I filtri richiedono la partecipazione
attiva dei consumatori, e l’online
networking è l’altro aspetto fondamentale della costruzione identitaria negli
anni più recenti. Quest’aspetto ha già
originato, peraltro, una vasta bibliografia giornalistica e accademica, ed è stato
prontamente riconosciuto come il veicolo principale di comunicazione e autorappresentazione per la cosiddetta generazione Millennial. gli aggregatori online content-driven come YouTube e
MySpace forniscono nuove istanze di
piattaforme sociali in cui dimensioni
potenzialmente conflittuali come la
community orientation29 e il narcismo
esibizionistico coesistono e si fondono
in nuove sintesi, in cui puri aggregatori
di social networking come Facebook
sembrano soddisfare, almeno nella loro
fase iniziale, esigenze più mature e
nostalgiche – lo stesso brand richiama,
in questo caso, il bisogno di ritrovare
ex-compagni di liceo o di università.
In questo nuovo territorio ibrido, il
narcisismo non corrisponde necessariamente ad un’espressione di estremo
individualismo: la costruzione online
dell’identità ha successo solo quando
viene comunicata istantaneamente, e
condivisa con gli altri (gli ‘amici’), i
quali diventano necessariamente uno
schermo, la ratificazione dell’esistenza
e della rilevanza di questa identità.
Infatti, i profili identitari in questa
nuova area sociale vengono messi insieme assemblando letteralmente tracce ed
echi di prodotti o contenuti culturali
(canzoni, film, libri, celebrities, eccetera) ed esperienze personali, sebbene le
due dimensioni tendano sempre più a
sovrapporsi e a riflettersi l’una con l’altra. Possiamo perciò parlare dei profili
identitari online come di pezzi di aura:
l’identità è una narrazione de facto.
Quindi, il narcisismo (l’“egocasting” di
Christine Rosen) potrebbe essere stato
scambiato per qualcosa di completamente diverso: una strategia di sopravvivenza nelle nuove arene sociali.
La relazione tra assemblaggio creativo di contenuti culturali e sopravvivenza sociale è ben lungi dall’essere accidentale, ed è invece carica di conse-
29 Cfr. Winograd, M. e M.D. Hais (2008), Millennial Makeover. MySpace, YouTube and the Future of Ame-
rican Politics, Rutgers University Press: New Brunswick, NJ-London, 83: “The Millennials have a strong
group and community orientation and a clear tendency to share their thoughts and activities with others –
friends, teachers, and parents. This is considerably different than “it’s all about me” Baby Boomers and
the cynical individualism of alienated gen-Xers. Among teen and young adult Millennials, group dating
and clubs have replaced the single bars of the two older generations as the most popular social venues.
Even in education, group study sessions and shared learning are the preferred way to gain knowledge”.
See also Howe, N. e W. Strauss (2000), Millennials Rising. The Next Great Generation, Vintage Books:
New York.
P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità...
guenze, molte delle quali ancora da scoprire e analizzare. In un saggio di fondamentale importanza pubblicato originariamente nel 1978, il filosofo Emilio
garroni30 associa chiaramente gli atti
creativi con le strategie di adattamento
adottate dagli esseri umani durante i
processi di evoluzione culturale: il
nuovo scenario della costruzione identitaria post-industriale fornisce un contesto inaspettato per riscoprire questa idea
e declinarla secondo modalità inedite.
Uno degli aspetti più affascinanti di
tale scenario è il fatto che, per la prima
volta in assoluto, l’attività dell’autorappresentazione e la sua riproduzione fisica e sociale coincidono, al punto che
avvengono nello stesso momento, di
fatto collassando l’una nell’altra. L’identità viene progettata, organizzata e
gestita sin dall’inizio all’interno di un
mediascape sociale che si comporta
come un’ecologia. La riproduzione (e la
riproducibilità) non è più un passaggio
successivo alla produzione, ma diventa
la sua condizione necessaria. Il design e
la gestione del ‘profilo personale’, che
potrebbe a prima vista sembrare un
innocuo hobby narcisistico, un’istanza
di spensierato esibizionismo tecnologico, ad un’analisi più attenta rivela una
natura e una funzione molto differenti,
risultando l’unico modo possibile di
30
31
169
negoziazione e di costruzione attiva dell’identità all’interno dell’attuale ecologia socio-culturale, attraverso l’uso consapevole, strategico dell’aura.
È uno degli effetti socio-culturali di
quella trasformazione storica che è stata
definita da studiosi come Manuel
Castells “network soci-ety”31: in questo
senso, non solo l’identità culturale e collettiva, ma l’identità individuale viene
influenzata e modificata massicciamente ed in profondità dalle riconfigurazioni in atto, al punto che il pensiero stesso
del sé nella vita quotidiana si manifesta
attraverso i dispositivi e le piattaforme
tecnologiche, e le funzioni di rimontaggio che essi predispongono a livello di
immaginario.
Daniel Innerarity ha descritto precisamente questa condizione – relativamente agli impatti che essa ha sul piano
politico e dell’opinione pubblica – come
“politicizzazione dell’ambito privato”,
“estroversione dell’intimo”, “sfera intima totale” come risultato dell’indifferenziazione tra sfera pubblica e sfera
privata32. Speculare a questo processo è
il fenomeno denominato da Vanni Codeluppi “vetrinizzazione sociale”, in base
al quale ogni aspetto della vita sociale,
culturale, politica ed economica contemporanea è regolato dall’esposizione
continua e massiccia degli aspetti perso-
garroni, E. con un’introduzione di Paolo Virno (2010), Creatività, Quodlibet: Macerata, 2010.
Castells, M. (1997), The Power of Identity, The Information Age: Economy, Society and Culture - Vol.
II, Blackwell Publishing: Cambridge, MA-oxford. Cfr. anche idem (1996): The Rise of the Network
Society. The Information Age: Economy, Society and Culture Vol. I, Blackwell Publishing: Cambridge,
MA-oxford; (1999), End of Millennium, The Information Age: Economy, Society and Culture Vol. III,
Blackwell Publishing: Cambridge, MA-oxford; (2001), The Internet Galaxy. Reflections on the Internet,
Business and Society, oxford University Press: oxford.
32 Innerarity, D. (2008), Il nuovo spazio pubblico, Meltemi: Roma (ed. or. (2006), El nuevo espacio pùblico, Espasa Calpe, S.A.: Madrid).
170
Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012
nali al dominio spettacolare, in linea con
la programmatica sostituzione della rappresentazione alla realtà che trova le sue
radici in guy Debord e in Jean Baudrillard:
“Dalla vetrina e dalla pubblicità gli
individui hanno progressivamente
imparato a costruire e gestire la propria identità personale, e hanno dovuto farlo perché si sono via via disgregate le barriere tra pubblico e privato,
con il conseguente obbligo sociale per
tutti di promuovere al meglio la propria immagine”33.
D’altra parte, molti studiosi hanno
considerato, nel corso degli ultimi quindici anni, i differenti aspetti di questa
interazione tra fenomeni sociali, processi tecnologici e manifestazioni culturali
legate ai nuovi media in continua evoluzione. Uno dei più autorevoli tra essi,
Lev Manovich, ha analizzato le modalità spesso sorprendenti in cui la logica
dei computer, e la software culture,
influenzano la nostra comprensione e la
nostra rappresentazione non solo del
mondo esterno, ma soprattutto di noi
stessi34.
IV. Prepararsi al Dopo: Identità
sullo Schermo 2001-2007
Il cinema è stato uno dei media che –
per sua natura – ha maggiormente e più
prontamente assorbito queste nuove
dinamiche socioculturali, stabilendo una
relazione diretta con le tensioni e le
mutazioni connesse alla formazione dell’identità auratica, e gran parte della
produzione più interessante negli ultimi
anni sembra inoltrarsi proprio in questo
territorio.
Un esempio di trattamento abbastanza letterale di questo tema è S1m0ne
(2001) di Andrew Niccol. Il regista gattaca propone il plot allegorico di una
mega-star costruita digitalmente dall’autore-in-crisi-creativa Viktor Taransky (Al Pacino), e ottenuta attraverso la
combinazione di aspetti e nuance personali di famose attrici del passato. Anche
il poetico bio-pic su Bob Dylan, I’m Not
There (Todd Haynes 2007) esplora le
possibilità di un’identità frammentaria,
composta di elementi auratici. La narrazione scompone il cantante reale in sei
versioni differenti, ognuna delle quali
costituisce un’istanza simbolica: così,
per esempio, Christian Bale rappresenta
l’aspetto folk, Cate Blanchett interpreta
la fase rock ed elettrica, mentre Richard
gere-Billy the Kid è l’anima libertaria e
ribelle, e così via.
È abbastanza sorprendente, invece,
che un horror-thriller del 2007, Captivity di Roland Joffé, sviluppa questa
idea fondamentale inserendo l’onnipresenza auratica caratteristica dell’epoca
attuale, ed equilibrando una forte dichiarazione e approccio teorico con un
appeal commerciale. Il film segue il
filone recente del cosiddetto “segrega-
33 Codeluppi, V. (2007), La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e
della società, Bollati Boringhieri: Torino, 49.
34 Cfr. Manovich, L. (2001), The Language of New Media, MIT Press: Cambridge, MA.
P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità...
tion movie” (Saw, Hostel e i loro epigoni), decostruendo la narrazione dal suo
interno ed inserendo contenuti innovativi. La storia, essenziale e diretta, si concentra sul rapimento della giovane
modella Jennifer Tree (Elisha Cuthbert).
gli aspetti notevoli, ovviamente, superano i confini della narrazione stessa, e
sono relativi ai dispositivi messi in funzione: fin dall’inizio, è chiaro che l’autore è interessato all’ossessione del cattivo-maniaco per la riproduzione e per
la (micro-) fama mediatica35. Così, Joffé
proietta immediatamente lo spettatore
nel territorio di un glamour pericoloso,
mostrando la futura vittima “exposed”
in multi-media – la rivista di moda intitolata significativamente Razor, la shopping bag e i manifesti pubblicitari sul
bus. L’intento è ancora più manifesto
quando la modella è posta su un letto
sormontato dalla sua figura giustapposta
alla parola Dare, che ritornerà in un altro
punto del film, fino alla conclusione. La
scena centrale è indubbiamente il risveglio di Jennifer nella sua prigione, di
fronte ad un rassicurante paesaggio tropicale che rivelerà ben presto il sottostante muro di mattoni. Telecamere di
sorveglianza, riprese low-fi, riproduzioni su livelli differenti ritornano lungo
tutto il film, e ne costituiscono la principale piattaforma rappresentativa: il
nucleo narrativo risiede dunque nella
giustapposizione dei media, nella creazione del mediascape, piuttosto che nel
plot stesso, che diventa così un puro pretesto, un punto di partenza.
Ma il punto più avanzato di questo
processo, almeno per il momento è
35
Cfr. nota XV.
171
Grindhouse - Death Proof (2007) di
Quentin Tarantino, un’immersione nel
mondo degli exploitation movie degli
anni Settanta e, al tempo stesso, un
eccentrico trattato sull’identità auratica
all’inizio del XXI secolo. Il film è un
dittico perfetto, composto da due distinte location (Austin, Texas e Lebanon,
Tennessee) e da due gruppi complementari di giovani donne, che ruotano attorno alla micro-fama legata al démimonde dello show-business e dei media:
la dj locale Jungle Julia (Sydney Poitier)
è innamorata del promettente regista
Christian Simonson (che non è difficile
immaginare come autore di film d’azione à la Tarantino), e le sue amiche strillano ogni volta che la sua figura appare
su un manifesto pubblicitario; Abernathy (Rosario Dawson) è un attrice
infatuata del regista Cecil Evans (che la
tradisce con la stand in di Daryl Hannah), Lee (Mary Elizabeth Winstead) è
una modella, mentre Kim (Tracie
Thoms) e Zoë sono stuntwomen.
Un personaggio (ovviamente) centrale è quello di Stuntman Mike (Kurt
Russell), di nuovo un killer psicotico,
ma questa volta equipaggiato con armiasset esplicitamente auratiche. Ha lavorato in serie tv obsolete come The Virginian e Vegas, e ha affrontato subito dopo
il suo declino umano e professionale.
L’idea è di uccidere ragazze che lottano
per entrare nel mondo dell’aura, nel tentativo di evitare che diventino come lui.
L’unico gruppo in grado di sconfiggerlo,
perciò, è proprio quello in cui le donne
sono al suo stesso livello, svolgono il
suo stesso lavoro, ma desiderano accet-
172
Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012
tare i costi di socializzazione associati
alle dinamiche contemporanee dello
show business. In questo senso, Zoë
Bell rappresenta una figura chiave. È
infatti l’unica, in Death Proof e nell’intero cinema di Tarantino, ad interpretare
il ruolo di se stessa: una vera stuntwoman, che ha recitato come Uma Thurman in Kill Bill, diventa il personaggio
principale della nuova fiction. Questo
meccanismo porta alle estreme conseguenze il percorso del riuso dell’aura
legata all’attore-persona, dal John Travolta-Vincent Vega di Pulp Fiction
(1994) al David Carradine-Bill of Kill
Bill (2004), attraverso la Pam grier del
sottovalutato Jackie Brown (1997). Ma
in questo caso la stuntwoman, recitando
in un contesto che richiede le sue capacità effettive, risulta anche pienamente
“tarantiniana” nella sua performance. Il
contesto è quello dello “ship’s mast”,
che incornicia l’inseguimento finale,
eseguito da Zoë sul tetto di una Dodge
Challenger identica a quella guidata dal
protagonista del modello principale di
Death Proof – Vanishing Point (1971), di
Richard C. Sarafian, insieme a Faster
Pussycat! Kill! Kill! (1966) di Russ
Meyer e a Convoy (1978) di Sam
Peckinpah. Il film originale ripercorre un
inseguimento interminabile attraverso il
Colorado, lo Utah e il Nevada tra la polizia e Kowalski (Barry Newman), intervallato dai suoi allucinati flashback.
Vale la pena di notare come Tarantino si appropri di materiale cinematogra-
fico dotato di una straordinaria capacità
di penetrazione nella cultura popolare
come Vanishing Point, specialmente
(ma non solo) in quella americana. Questo stesso film, per esempio, è stato
oggetto di un remake – non memorabile,
per la verità – nel 1997 (di Charles
Robert Carner, con Viggo Mortensen e
Jason Priestley), ha ispirato canzoni pop
omonime (dei New order e dei Motorpsycho, tra gli altri), e ha influenzato
persino il primo capitolo America
(1986) by Jean Baudrillard, generando
un’intera rete di contenuti culturali che
si incrociano e si riferiscono a vicenda:
“Nostalgia nata dall’immensità delle
colline texane e delle sierre del Nuovo
Messico: giù a capofitto lungo l’autostrada fra canzoni di successo dallo
stereo della Chrysler e vampate di
calore – la fotografia più fedele non
basta più – bisognerebbe avere l’intero film del percorso, in tempo reale,
compresi il caldo insopportabile e la
musica, e riproiettarsi il tutto integralmente a casa propria, in camera oscura – ritrovare la magia dell’autostrada
e dello spazio, dell’alcol ghiacciato in
mezzo al deserto e della velocità, rivivere tutto questo a casa, sul videoregistratore, in tempo reale – non per il
solo piacere del ricordo, ma perché il
fascino di una ripetizione insensata è
già lì, nell’astrazione del viaggio. Il
dispiegarsi del deserto è infinitamente
vicino all’eternità della pellicola”36.
36 Baudrillard, J. (1986), Vanishing Point. In America, Éditions grasset & Fasquelle: Paris, 1 (trad. it.
(2000), America, SE: Milano).
P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità...
Dunque, Tarantino lavora sull’aura
specifica di un testo con un impatto
riconosciuto e profondo sull’immaginario collettivo, e la ricombina con altri
contenuti simili. I graffi sulla pellicola
(ottenuti digitalmente) sono il segno
visibile di una nostalgia idealizzante e
piuttosto decorativa, che trasforma gli
errori e le lacune originari in un codice
identitario con una specifica funzione. I
numerosi riferimenti iconografici e
musicali a film degli anni Settanta
173
(molti dei quali italiani37) che, come al
solito, costellano Death Proof, non sono
più il main theme dell’opera – e, forse,
non lo sono mai stati: sono parte di un
discorso più ampio, meta-mediale che
costituisce l’ossatura dell’intero progetto. Un discorso profondamente connesso con l’appropriazione, la ricapitolazione e la rigenerazione dell’aura, e con
la sua funzione in relazione alla costruzione delle identità e delle narrazioni, o
delle narrazioni identitarie38.
37 Tra gli altri: L’uccello dalle piume di cristallo (1970) di Dario Argento, La polizia incrimina, la legge
assolve (1973) e Quel maledetto treno blindato (1977) di Enzo g. Castellari, Italia a mano armata (1976)
di Franco Martinelli, La settima donna (1978) di Franco Prosperi.
38 Cfr. Coplan, A. (2004), Empathic Engagement with Narrative Fictions, The Journal of Aesthetics and
Art Criticism, 62:2, Spring, 141-152 e giovannelli, A. (2008), In and out: The Dynamics of Imagination
in the Engagement with Narratives, The Journal of Aesthetics and Art Criticism, 66:1, Winter, 11-24.