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Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012, pagg. 149-173 gruppoMontepaschi Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità tecnica* PIER LUIgI SACCo**, CHRISTIAN CALIANDRo*** This paper seeks to analyse the role of Walter Benjamin’s concept of aura in the current socio-economic context, especially in processes of identity construction and generation of meaning. First, we try to reconsider the relationship between aura and cultural industry on the one hand, and between economic and cultural value on the other, recognizing three different typologies of aura and characterizing the fundamental allographic functioning of contemporary visual art. Second, we propose to trace the antecedents of the relationship between aura, contemporary art and systems of economic identity back to three authorial matrices: Marcel Duchamp, Joseph Beuys, Andy Warhol. On the basis of this theoretical platform, we draw a historical lineage (from Cindy Sherman to Douglas Gordon and Matthew Barney) that pioneered, in the last thirty years, new processes of identity production and reproduction. Then, we discuss the present “cultural ecology” of content appropriation, the digitalization and de-materialization of cultural products, and its importance in the current evolution of those processes. (J.E.L.: Z11) People now have more information, and they are smarter, overall, as a consequence – even in those ways they choose to be dumb. THoMAS M. DISCH1 I. Valore economico vs. valore culturale: ripensare l’aura e l’industria culturale Ha senso riferirsi all’aura come a un concetto utile per comprendere il mondo attuale? Ha senso, in generale, parlare di aura oggi? E in che termini? Per rispondere a queste domande, dobbiamo ritornare all’inizio, vale a dire alle riflessioni seminali di Walter Benjamin nel suo saggio del 1936, L’opera d’arte nel- * Articolo approvato nel mese di febbraio 2011. ** Professore ordinario di Economia della cultura, Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM, Milano. E-mail: [email protected]. ** Ricercatore Post-Doc in Storia dell’Arte e Teoria della Critica, Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM, Milano. E-mail: [email protected]. 1 Disch, T.M. (1998), The Dreams Our Stuff Is Made Of: How Science Fiction Conquered the World, Simon & Schuster-Touchstone: New York, 226. 150 Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012 l’epoca della sua riproducibilità tecnica. In questo testo, la nozione di aura è connessa profondamente all’oggetto specifico (l’opera d’arte) ed alla sua presenza (hic et nunc), vale a dire con la sua unicità. La relazione fisica tra oggetto e spettatore, alla base della storia dell’arte intesa in termini moderni, viene progressivamente minacciata e distrutta dall’avvento della riproducibilità tecnica. Ma questo processo di deterioramento, nella prospettiva di Benjamin, non è un fenomeno completamente negativo, dal momento che apre possibilità interamente nuove per la funzione, la comunicazione e la ricezione dell’arte. Nel Paragrafo III, infatti, Benjamin scrive: “La liberazione di un oggetto dalla sua guaina, la distruzione dell’aura sono il contrassegno di una percezione la cui sensibilità per ciò che nel mondo è dello stesso genere è cresciuta a un punto tale che essa, mediante la riproduzione, attinge l’uguaglianza di genere anche in ciò che è unico”2. Ma il filosofo riconosce anche che l’aura può essere costruita artificialmente, come nel caso delle star cinematografiche (anticipando così di parecchi decenni un filone di studi decisivo sull’argomento, che avrà in uno studioso come Richard Dyer il suo interprete più illustre3): “Il cinema risponde al declino dell’aura costruendo artificiosamente la personality fuori dagli studi: il culto del divo, promosso dal capitale cinematografico, cerca di conservare quella magia della personalità che da tempo è ridotta alla magia fasulla propria del suo carattere di merce“4. L’aspetto più interessante è che il concetto di aura viene applicato qui non a un oggetto, ma ad un essere umano e alla sua proiezione (immaginaria). Questo processo viene interpretato come una soluzione temporanea e precaria, una sorta di ‘antidoto’ al consumo – inteso nel senso sia di “uso, consunzione” che di “spreco” – dell’aura unica dell’individuo. Ad esso si oppone la “magia della personalità”, a questo livello completamente irrelata all’identità effettiva dell’attore come persona. Inoltre, l’intero processo avviene “fuori dallo studio”, nel mondo reale. Di fatto, dopo decenni di ricerche e dibattiti, non sappiamo ancora molto del funzionamento dell’aura e del suo ruolo nell’arte, nella cultura e nella società contemporanee. L’idea stessa di aura, anzi, è qualcosa di vago e indefinito, sebbene sia uno degli elementi centrali nella formazione delle identità personali in piena era postmoderna. L’aura non pertiene al passato lontano o recente, ma è direttamente e strettamente collegata, per esempio, al masscult e alla celebrity 2 Benjamin, W. (1995), Der Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (1936), Suhrkamp Verlag: Frankfurt am Main (trad. it. (1991), L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi: Torino, 25). 3 Cfr. almeno Dyer, R. (1979), Stars, British Film Institute, London (trad. it. Star (2003), Kaplan: Torino) e idem, Heavenly Bodies (1986): Film Stars and Society, British Film Institute: London. 4 Benjamin, W. op. cit., 34-35. P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità... culture tipici di questi anni. Dunque, dopo più di settant’anni, il campo denotazionale del concetto non è più esattamente lo stesso che Benjamin aveva in mente. L’aura infatti non è scomparsa, ma si è trasformata, si è evoluta, aderendo a oggetti differenti. Possiamo iniziare a distinguere tre tipologie di aura, che sono consequenziali (diacroniche) su una scala storica, ma che al tempo stesso si interconnettono e si sovrappongono a vicenda (sincroniche): - storica (moderna, pre-industriale) - tecnica (modernista, industriale) - spettacolare5 (postmoderna, post-industriale). Per aura ‘storica’ intendiamo la definizione stabilita da Benjamin, che si inserisce chiaramente in un contesto di produzione culturale pre-industriale in cui l’accesso all’oggetto auratico era fondamentalmente ed inestricabilmente collegata alla sua presenza ed accessibilità fisica. L’aura ‘meccanica’ indica i nuovi dispositivi auratici che emergono con l’avvento della riproducibilità tecnica, con la conseguenza di rendere possibile l’unicità dell’oggetto auratico proprio grazie alla possibilità di replicazione illimitata attraverso i media – un processo che è stato cristallizzato nella pratica artistica dal lavoro degli artisti pop e soprattutto di Andy Warhol. Tale processo, inoltre, coincide con l’avvento della rivoluzione industriale nel territorio creativo – vale a dire, con l’incorporazione massiccia del progresso tecnologi- 151 co nei processi di produzione culturale, che porta all’istituzione e alla diffusione di tutta una serie di nuovi media, dal cinema alla fotografia, dal multimedia al software d’intrattenimento. Infine, per aura ‘spettacolare’ si intendono alcune forme più recenti, che dànno per acquisite quelle precedenti e si sviluppano sulla base della premessa che in una società postmoderna, postindustriale, i contenuti e i significati culturali vengono usati strategicamente dalle persone per costruire le loro identità sociali, che oggi non sono più la conseguenza della loro iscrizione in un’organizzazione sociale complessa e preesistente, ma il risultato di una negoziazione significativa con i rispettivi gruppi sociali di riferimento. L’aura degli oggetti, quindi, diviene una risorsa socio-economica che gli individui usano per costruire la loro immagine sociale nella mente degli altri, sfruttando adeguatamente il valore auratico dei significati che tentano di associare a se stessi acquistando determinati oggetti, facendo determinate esperienze, e più in generale (in maniera parziale, soggettiva) appropriandosi di determinati dominî simbolici. Di fatto, il primo e il secondo tipo di aura non scompaiono con l’avvento del terzo, né da esso vengono completamente sostituiti, ma sono piuttosto arricchiti e modificati dalla sua comparsa e dal suo sviluppo, in modo che le tre tipologie sono cresciute sempre più intrecciate tra loro; ed è proprio questa intersezione che caratterizza l’epoca attuale. 5 Intendiamo qui “spettacolare” nel senso attribuito al termine da guy Debord: cfr. Debord, g. (1992), Society of the Spectacle, Rebel Press: London. 152 Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012 È molto facile essere ingannati da questa varietà, e ragionare su una forma di aura mentre in realtà il vero oggetto della discussione è un altro. Una dimostrazione recente e abbastanza evidente di questo punto è lo studio di Alessandro Dal Lago e Serena giordano, Mercanti d’aura (2006). La tesi di partenza degli autori, esemplificata dal titolo del capitolo centrale (L’aura è viva e si vende bene6), è contenuta nella sintesi proposta a mo’ di conclusione: “l’arte d’oggi è una sfera culturale che esprime, più di ogni altra, la natura mercantile del nostro mondo”7. gli studiosi considerano l’aura come una sorta di dispositivo di manipolazione, che a sua volta è una mera, in qualche modo cinica espressione della razionalità strumentale, chiaramente rappresentata dalla logica della massimizzazione del profitto delle industrie culturali e degli affari connessi ad esse. Questa posizione, però, non tiene nel dovuto conto la complessità delle connessioni tra sfere molto diverse come la sostenibilità economica dell’espressione culturale, i processi sociali che consentono agli attori di acquisire visibilità e centralità nei meccanismi di generazione dei contenuti e significati culturali, e le dimensioni comportamentali che guidano questa stessa generazione e circolazione di contenuti in una società della conoscenza come quella alla cui nascita oggi assistiamo. La ricerca di Dal Lago e giordano è interessante ai nostri fini proprio perché è sintomatica di determinati fraintendimenti nella concettualizzazione e nella comprensione degli attuali, principali processi di generazione di senso. In particolare, vogliamo evidenziare la sua tensione ‘centripeta’, che guarda al mondo dell’arte ed all’approvazione artistica contemporanea come ad un contesto economico appartato e ancillare. Questo punto di vista interpreta l’arte “ufficiale” – e l’aura – semplicemente come il riflesso “di una società mercantile, arida e gerarchizzata”8, come del resto viene in seguito confermato dal libro più recente dei due autori, Fuori cornice. L’arte oltre l’arte (2008). Questo è solo un esempio di come sia possibile equivocare il senso e il ruolo dell’aura nella cultura contemporanea, in assenza di una cornice teorica adeguata. La centralità dell’aura nella cultura attuale va compresa con la mente aperta. Perciò, dobbiamo adottare una prospettiva differente per spiegare perché, in primo luogo, l’aura ‘storica’ non è affatto scomparsa come predetto da Benjamin, ma al contrario ha affrontato una sorta di processo ‘inflazionario’ che l’ha resa talmente pervasiva ed esplicita da renderla anche difficilmente riconoscibile, come la lettera rubata di Poe. Dal punto di vista di Benjamin nel 1936, i processi auratici hanno attraversato un percorso irreversibile che ha cambiato per sempre il modo in cui percepiamo l’aura, ragioniamo attorno ad 6 Dal Lago, A. e S. giordano (2006), Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea, Il Mulino: Bologna, 129-164. 7 Ivi, 239. 8 Ivi, 245. P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità... essa e ce ne serviamo nei nostri processi cognitivi ed emozionali. Per comprendere questo aspetto, è necessario analizzare la lunga e fondamentale transizione dalla presenza e unicità dell’oggetto realizzato a mano (l’opera d’arte) inteso come fonte auratica principale, al nuovo dominio auratico della costruzione identitaria individuale, attraverso l’azione e la mediazione della riproduzione tecnica (media e nuove tecnologie). Questo passaggio era già presente in nuce, come opzione, nell’analisi di Benjamin. Riferirsi infatti all’aura benjaminiana in questo momento storico non è una coincidenza: viviamo in un’epoca dominata dall’interazione tra la produzione di valore economico e quella di ‘forme auratiche’, ovvero correlativi intangibili ma socialmente determinanti dei beni e dei servizi che costituiscono il risultato dei processi di produzione economica. Certamente, l’aura di Benjamin rimane – ancora oggi – del tutto estranea alle spiegazioni economicamente fondate della generazione di valore sociale ed economico, e lo stesso si può dire dei concetti derivati che emergono dall’analisi dei dispositivi auratici di produzione del valore che caratterizzano questi anni. Di conseguenza, l’economia attuale, che fondamentalmente è un ragionamento sulle cause e sulle conseguenze della generazione e circolazione di valore economico, non è in grado di comprendere l’economia che si è venuta costruendo attorno a noi come conse- 153 guenza dei processi auratico-identitari che regolano quotidianamente le nostre scelte e i nostri comportamenti di consumatori. Ma è uno stato di cose destinato a cambiare. Nel nuovo contesto, le catene del valore che definiscono i processi di generazione del valore economico originano nei processi di produzione di senso tipici delle arene culturali: i consumatori non comprano più prodotti, ma comprano la fruibilità identitaria dei contenuti, e ciò si riflette chiaramente nei loro processi e nelle loro funzioni neurali9. Questa condizione è profondamente diversa da ciò che accadeva in epoche precedenti. Nell’ambito pre-industriale, la produzione culturale poteva occupare anche un posto di rilievo nelle catene del valore, ma si trattava comunque di un posto situato a valle: nella fase, cioè, di utilizzo del surplus economico prodotto attraverso altri mezzi – l’agricoltura, l’intermediazione creditizia, la manifattura pre-industriale. In questo contesto, il rapporto tra il culturale e l’economico è regolato dalla logica mecenatistica: il detentore delle risorse materiali decide di utilizzarle per la committenza di opere dell’ingegno e dell’immaginazione, per il proprio diletto sociale e/o per aumentare il proprio prestigio politico e sociale. Con la rivoluzione industriale, si assiste alla progressiva strutturazione di catene del valore interne alla sfera culturale, che adotta quando e dove è opportuno le nuove forme dell’organizzazione 9 Cfr. su questo argomento Ariely, D. (2008), Predictably Irrational: The Hidden Forces That Shape Our Decisions, HarperCollins: New York. 154 Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012 industriale ma mantiene la sua separatezza andandosi a configurare come un ambito di attività produttiva specifica, facente parte della vasta sfera sociale dell’intrattenimento. Non tutte le forme di espressione culturale si adattano a questo cambiamento, e soprattutto faticano a farlo quelle nate storicamente in epoche precedenti alla rivoluzione industriale e allo stesso tempo organizzate in modo da non poter profittare delle possibilità di riproduzione illimitata offerte dalla nuove tecnologie: spiccano in questo ambito le performing arts e, appunto, le arti visive. In questi ambiti sopravvivono quindi le pratiche mecenatistiche, alle quali si sovrappongono e progressivamente si sostituiscono le logiche del sostegno pubblico. Ciò malgrado, con il tempo, e senza rinnegare le proprie peculiarità e anzi fondando su di esse la propria capacità di produzione di valore, anche le arti visive riescono a trovare una loro modalità di circolazione basata sul mercato e fondata su un delicato bilanciamento tra i canoni della razionalità commerciale e la logica del dono e del dispendio tipica dell’economia pre-industriale: le opere d’arte possono avere un prezzo ma sono, allo stesso tempo, oggetti meta-economici per i quali il prezzo assume un carattere eminentemente simbolico (come spiega molto bene lo stesso Velthuis nel suo Talking Prices10). Nell’organizzazione tipica dell’età industriale, la sfera culturale costruisce così un proprio territorio autonomo rispetto alla sfera economica vera e propria, nella quale le leggi dell’economico vigono sì, ma sono sottoposte ad una serie di correttivi specifici che dipendono in modo vario e complesso dalla natura dell’attività culturale stessa. Anche nei settori più costituzionalmente orientati ad una organizzazione di tipo industriale, come ad esempio il cinema dei grandi studios hollywoodiani o l’industria musicale dei tempi d’oro, esistono delle specificità che non sono facilmente comprensibili agli outsiders e che danno vita a degli strani ibridi nei quali la business culture si sposa a singolari forme di corpus hermeticum accessibili soltanto a chi è cresciuto e ha acquisito sul campo il proprio diritto di cittadinanza in quelle particolari arene culturali. L’organizzazione industriale finisce naturalmente per de-sacralizzare porzioni sempre più ampie della sfera culturale, legittimandone quando e dove possibile l’orientamento al profitto, per quanto in un delicato bilanciamento con l’orientamento alla qualità del prodotto culturale (ancora una volta definibile solo attraverso canoni altamente specifici e difficilmente codificabili). È in questa fase che comincia a prendere corpo il concetto di industria culturale. Nel testo di Velthuis compare un riferimento abbastanza fugace alla scuola di Francoforte, e alla connotazione fortemente negativa che essa dà alla organizzazione della produzione culturale su scala industriale come premessa a nuove forme di totalitarismo morbido 10 Cfr. Velthuis, o. (2007), Talking Prices: Symbolic Meanings of Prices on the Market of Contemporary Art, Princeton University Press: Princeton, NJ. Cfr. anche idem (2005), Imaginary Economics: Contemporary Artists and the World of Big Money, NAI Publishers: Rotterdam. P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità... che non casualmente, nella più recente letteratura di political studies, hanno trovato una nuova, complessa declinazione nella nozione di soft power. Ma per quanto una riflessione accurata su un tema tanto complesso abbia bisogno di molto più spazio di quanto sia possibile concedergliene all’interno di questo scritto, bisogna osservare come ancora una volta alla radice di questa visione così conflittuale del rapporto tra culturale ed economico, questa volta declinato come progressiva colonizzazione operata dal secondo ai danni del primo attraverso l’assimilazione di un modello organizzativo orientato al profitto, e del corrispondente canone di razionalità, vi sia una particolare concezione dell’economico, che negli anni del secondo dopoguerra poteva ancora essere fondata ma che oggi appare decisamente superata, malgrado l’apparente trionfo della società dello spettacolo e delle nuove forme mediatiche della manipolazione culturale di massa. In questo senso è significativo che, anche oggi, l’arte contemporanea non sia classificabile come un’industria culturale propriamente detta. La ragione è semplice: nell’industria culturale, le condizioni di fruizione richiedono la riproducibilità potenzialmente illimitata di una matrice in copie equivalenti (un libro, un cd, un dvd, eccetera); nel caso dell’arte contemporanea tale possibilità non è consentita, non a causa della sua non fattibilità economica, ma in base ai 155 codici di senso che governano l’ontologia delle opere d’arte contemporanea. È questa la differenza tra ciò che Nelson goodman11 chiama lo statuto allografico piuttosto che autografico degli oggetti/esperienze culturali. Il primo prevede la replicabilità indefinita a partire da una matrice considerata tale dall’autore, ammesso che tale replica sia fedele e non comporti alterazioni significative, anche in assenza di un consenso esplicito dell’autore stesso – al massimo, potranno sorgere problemi riguardo all’applicazione dei diritti di proprietà intellettuale per difendere il diritto dell’autore e l’accessibilità fisica. La corretta riproduzione della matrice previene all’origine la possibilità che l’oggetto sia ‘falsificato’: ogni buona copia è infatti ‘equivalente’ all’originale, indipendentemente dalla sua legalità12. Sotto il regime autografico, invece, un oggetto può essere considerato autentico soltanto se l’autore lo identifica come tale, indipendentemente dall’accuratezza e dalla fedeltà della riproduzione. Mentre la maggior parte delle forme di produzione culturale (e in particolare tutte quelle forme che rientrano nel novero delle industrie culturali) si attengono allo statuto allo grafico, l’arte contemporanea segue quello autografico. L’opera acquista significato e valore in quanto indicata dall’autore come tale; senza la certificazione di quest’ultimo, perde ogni interesse e significato, al di là della sua apparenza fisica. 11 Cfr. goodman, N. (1968), Languages of Art: An Approach to a Theory of Symbols, Bobbs-Merrill: Indianapolis. 12 Su questo argomento, cfr. Crowther, P. (2008), ontology and Aesthetics of Digital Art, The Journal of Aesthetics and Art Criticism, 66: 2, Spring, 161-170. 156 Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012 Una discussione approfondita del perché l’arte contemporanea operi autograficamente piuttosto che allograficamente esula dagli obiettivi di questo saggio. Basterà osservare qui che, nel caso dell’arte contemporanea, si dà importanza al “qui e ora” del rapporto individuale con l’opera: conta, cioè, non soltanto l’opera in sé, ma anche il contesto in cui essa viene presentata ed esperita, che non a caso è in genere soggetto a un’attenta regia da parte dell’artista o dei curatori. Le opere d’arte sono “individui” dotati di una presenza che non ne permette la replicabilità – se non in condizioni estremamente restrittive e quindi rigidamente controllate. L’arte contemporanea, mantenendosi fuori dal regime allografico e quindi dalla possibilità di formazione di un mercato di massa, ha continuato a vivere in una sorta di “stato di eccezione” nel quale lo scambio economico che dà vita alle transazioni commerciali non è governato dal un “semplice” prezzo, ma da un sofisticato scambio simbolico, che contiene anche reciproci elementi di riconoscimento e gratuità che impegnano le parti in causa in una relazione che va al di là dello scambio monetario, e si riferisce alla comune appartenenza ad un circolo sociale estremamente restrittivo ed espressivo. Questo carattere pre-moderno della produzione economica e nella circolazione delle opere d’arte permette a sua volta la sopravvivenza di alcuni tratti di mecenatismo, non soltanto nei grandi collezionisti committenti, ma anche nell’operato e nella legittimazione di molte istituzioni pubbliche dedicate, in primis i musei. Dunque, anche l’arte del momento presente, che in un certo senso più attuale non potrebbe essere, manifesta allo stesso tempo alcuni sottili e quasi inquietanti caratteri di inattualità: quei caratteri che portano i nuovi arrivati ad accostarsi agli spazi espositivi dell’arte con quel timore reverenziale che un tempo era riservato agli spazi del sacro – un atteggiamento che difficilmente si riscontrerebbe in qualcuno che entri per la prima volta in un teatro, in una biblioteca o una sala da concerto, per non parlare di una game arcade. Per l’arte contemporanea, la conquista di una popolarità sempre più ampia in presenza di uno statuto autografico che permette una circolazione e un’accessibilità molto limitata dell’opera d’arte sembra rappresentare quasi una contraddizione in termini. Ma si tratta di una antinomia soltanto apparente: è proprio la leggenda dell’inaccessibilità a conferire all’arte la sua aura post-benjaminiana, in base alla quale la riproducibilità dell’opera serve soltanto ad alimentare la nostalgia della presenza davanti all’originale, e non a surrogarne le funzioni. L’arte contemporanea può così vivere in un doppio regime, nel quale coesistono la crisi economica (temporanea, per altro) e la crescente visibilità sociale. 13 Velthuis, o. (2005), Imaginary Economics: contemporary artists and the world of big money, NAi Publishers: Rotterdam (trad. it. (2009), Imaginary Economics. Quando l’arte sfida il capitalismo, Johan & Levi: Milano). P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità... II. Alla ricerca di nuove matrici: arte auratica 1977-2000 Nel tentativo di riconoscere gli antecedenti della relazione tra aura, arte contemporanea e sistemi di identità economica, è necessario risalire ai ‘padri nobili’: Marcel Duchamp, Joseph Beuys, Andy Warhol. In Imaginary Economics, Velthuis13 ricostruisce brevemente la vita artistica e intellettuale di questi maestri storici, mostrando come essi hanno mantenuto nel tempo una sofisticata e accorta regia concettuale del proprio lavoro, avventurandosi in gesti estremi come il silenzio duchampiano, che lo stesso Beuys definì “sopravvalutato” in una famosa performance televisiva. o si pensi alla Factory di Warhol nella quale, programmaticamente, i modelli della corporate culture venivano contemporanamente riprodotti e negati, rendendo simultaneamente credibile l’idea che, come egli stesso affermava, il good business potesse essere la forma migliore di arte e che, allo stesso tempo, la sua factory potesse rappresentare uno dei luoghi più radicalmente antitetici ad ogni possibile spersonalizzazione alienante della pratica lavorativa, e quindi un eloquente e pericoloso esempio di totale sovvertimento ironico della cultura aziendale su cui si costruiva in quegli stessi anni il benessere del capitalismo occidentale. Ciò che intendiamo sostenere qui è che nelle pratiche dei maestri ormai storicizzati si nascondono elementi di senso che non soltanto hanno contribuito in modo decisivo a definire la nostra percezione della relazione tra l’economico e l’artistico, ma hanno anche, progressivamente e lentamente, informato 157 di sé i processi di formazione del valore culturale ed economico. La pratica artistica può infiltrarsi nei processi economici in modo sostanziale e radicale, ma lo può fare, necessariamente, sulla scala del tempo storico, in modo lento, complesso e in parte accidentale. La contaminazione mimetica tra artistico ed economico sta operando in modo sostanziale, e in ambedue le direzioni. guardiamo, per esempio, le cose dal punto di vista della culturalizzazione dell’economia. Qui è chiaro che pressoché tutti i dispositivi oggi efficaci per la costruzione di una percezione di valore attorno ai prodotti di consumo (e non soltanto delle opere d’arte) sono riconducibili a dispositivi classici di matrice duchampiana, warholiana o beuysiana. È duchampiana, ad esempio, la strategia di ri-contestualizzazione che spinge a caricare di auraticità un oggetto collocandolo in una situazione che ne enfatizza il potenziale di costruzione identitaria: si pensi ad esempio alla ormai pervasiva ‘museificazione’ degli oggetti di design o dei capi e accessori di moda, per limitarci agli esempi più evidenti. È warholiana, invece, la strategia di auratizzazione degli oggetti prodotta attraverso la loro incessante e quasi ossessiva mediatizzazione: l’identità nello spazio mediale produce quella nello spazio fisico, che viene acquisita a propria volta dal compratore-consumatore per assimilazione. Appropriandosi dell’oggetto, ci si appropria della vita mediale che questo possiede e che trasmette per contatto. L’oggetto nello spazio fisico viene ri-conosciuto grazie alla sua identità mediale e rende riconoscibile chi ne è portatore agli occhi di tutti coloro che condividono quel processo di identifica- 158 Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012 zione. Non a caso nei negozi troviamo così tanti prodotti forniti del fatidico quanto apparentemente incomprensibile bollino che strilla ‘visto in tv’. È beuysiana, invece, la strategia che produce auraticità attraverso la memoria della presenza collettiva ad un evento condiviso e carico di valore identificante. L’oggetto che garantisce che il suo portatore ‘c’era’, e più in generale l’oggetto che marca l’appartenenza ad un gruppo sociale accomunato dall’adesione a determinate convenzioni di senso che risultato non riconoscibili o addirittura incomprensibili ai non-membri, ma che allo stesso tempo hanno bisogno di rendere socialmente visibile e rilevante questa appartenenza speciale e semi-iniziatica. ovviamente, non c’è ragione di credere che le tre matrici appena discusse siano gli unici effettivi generatori di senso (e quindi di valore economico) nel nostro contesto post-industriale, sebbene apparentemente corrispondano in maniera abbastanza precisa alle tre componenti fondamentali di ogni minima teoria della comunicazione: il medium (Warhol), il contesto (Duchamp), il ricettore (Beuys) sono chiaramente definiti e altamente tracciabili nella loro operatività all’interno del dominio economico post-industriale, dal momento che traducono correttamente dispositivi (ormai ‘classici’) che sono stati ampiamente esplorati, testati e sperimentati nella maggior parte delle pratiche artistiche degli ultimi decenni. In teoria, potrebbero esistere altre matrici che lavorano altrettanto efficacemente, e forse sono già lì fuori che lavorano a pieno regime. Ciò che è interessante evidenziare è che l’arte contemporanea sembra essere un potente (il più potente?) generatore di dispositivi-matrici per la produzione di senso, e di valore economico: essa risiede, in qualche modo, in cima alla catena del valore economico in un’economia post-industriale. Se ciò è vero, potremmo chiederci quali siano le prossime matrici che plasmeranno la nostra percezione di che cosa è il valore (e quindi dello scopo dei beni di consumo). guardando alla produzione degli ultimi trent’anni, per esempio, è possibile individuare alcuni artisti che apparentemente hanno adottato in maniera pionieristica nuovi processi di creazione identitaria, interpretando l’aura non solo come una strategia per ottimizzare l’esposizione e la ricezione sociale della loro opera, ma piuttosto come il vero core, il nucleo centrale del loro lavoro – riflettendo e condensando in questo modo le più recenti trasformazioni nella società e nell’immaginario. Sebbene tutta l’arte sia, necessariamente, auratica, dal momento che deve elaborare la propria strategia riguarda la presenza e la percezione, ci sono artisti e opere che compiono un passo ulteriore, focalizzando la motivazione concettuale del lavoro e la generazione di senso sui meccanismi e sulle dinamiche sociali di produzione dell’aura stessa, attraverso l’appropriazione accorta e l’editing di frammenti auratici pre-esistenti e disponibili, che eventualmente comporranno una narrazione riconoscibile come un asset identitario da un numero rilevante di gruppi di riferimento e comunità. Alcuni esempi significativi possono essere rintracciati nei lavori (e quindi nelle strategie di produzione del senso) di Cindy Sherman, Douglas gordon e Matthew Barney, che non a P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità... caso, secondo modi e declinazioni differenti, ruotano tutti attorno ad uno schema concettuale comune: l’appropriazione di contenuti media-specific, in particolare materiale cinematografico (reale o immaginario). Vale la pena perciò di discuterli nel dettaglio, per illustrare in diretta alcuni dei meccanismi alla base di una matrice auratica. Negli Untitled Film Stills, una serie di 70 fotografie realizzate tra il 1977 e il 1980, Cindy Sherman lavora sull’appropriazione, non di una singola immagine, di una scena o di un personaggio, ma dell’aura di interi periodi e stili cinematografici – come il neorealismo, la nouvelle vague, il noir. Quindi, è necessario considerare gli Untitled Film Stills come un’opera unica e unitaria. La percezione della serie come un’intera opera è abbastanza recente, dal momento che è stata esposta completamente per la prima volta solo nel 1995, allo Hirshhorn Museum di Washington. I personaggi non possono essere definiti perciò come citazioni, dal momento che essi sono piuttosto ‘tracce’, figure indefinite e non specificate; non funzionano autonomamente, e si riferiscono costantemente ad un altrove, al tempo stesso dentro e fuori l’opera. Questo altrove è sempre il cinema, percepito quasi come una seconda natura. Così, ogni micro-narrazione (la “ghost fiction” di Douglas Crimp, o “little narrative” secondo la definizione della stessa Sherman) fa parte di una storia più comprensiva e complessa, potenzialmente discontinua e non-lineare. Questa 14 159 matrice è una variante altamente rappresentativa del layer motivazionale di ogni forma di consumo post-industriale, vale a dire, come abbiamo detto fin qui, la costruzione dell’identità attraverso l’appropriazione sofisticata e strategica di significati disponibili attraverso l’acquisto di beni – la specificità della matrice di Sherman è l’identificazione di un bacino di significati circoscritto, medium-specifico (il cinema). L’interpretazione canonica fornisce un’ulteriore caratterizzazione, descrivendo l’identità prodotta dalla narrazione di Cindy Sherman come disintegrate e negative, completamente contenuta nei clichés e negli stereotipi, ed esemplificata da Douglas Crimp nel suo testo classico The Photographic Activity of Postmodernism (pubblicato su October nell’inverno del 1980): “Her photographs show that the supposed autonomous and unitary self out of which those other ‘directors’ would create their fictions is itself nothing other than a discontinuous series of representations, copies, and fakes. (...) They use art not to reveal the artist’s true self but to show the self as an imaginary construct. There is no real Cindy Sherman in these photographs; there are only the guises she assumes. And she does not create these guises; she simply chooses them in the way that any of us do”14. Invece, oggi possiamo dire: “They use art to reveal the artist’s true self and Crimp, D. (1980), The Photographic Activity of Postmodernism, october, Winter, 99. 160 Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012 to show the self as an imaginary construct”. La donna-persona-personaggio dei Film Stills è infatti una personalità reale che corrisponde in parte a quella dell’artista, ma è anche la somma di personaggi finzionali, di echi di altre attrici, ed infine risiede negli interstizi tra questi diversi elementi. Cindy Sherman riconosce precisamente l’identità auratica all’intersezione tra il personaggio cinematografica, l’attrice ipotetica e se stessa. Questa identità è costruita attraverso un continuo riferimento di secondo grado a modelli immaginari che sono i moduli costruttivi dei processi (artistici) di produzione del senso. Dunque, è possibile affermare non solo che gli Untitled Film Stills segnano uno scarto significativo nel funzionamento interno dell’opera d’arte contemporaneo, ma anche che essi rappresentano il primo autoritratto postmoderno, come la stessa artista sembra affermare in modo singolare: “...a lot of these characters look like me in the periods of my life since I shot the Film Stills - perhaps unconsciously I’ve been following them, or at least their hairstyles. occasionally I’ve felt that as I’ve gotten older I’ve come to look more like some of them. It’s kind of scary”15. In questo senso, l’approccio della Sherman rappresenta anche una importante evoluzione della ‘nostalgia’ riconosciuta da Fredric Jameson come tratto tipico di molto cinema della Nuova Hollywood anni Settanta – da The Last Picture Show di Peter Bogdanovich ad American Graffiti di george Lucas, passando per Il Padrino Parte I e Parte II di Francis Ford Coppola. Essa rimane attiva ancora alla fine del decennio, per esempio in un film come New York, New York (1977) di Martin Scorsese – uscito nelle sale nello stesso anno dei primi Untitled Film Stills. Qui, la ricreazione del musical classico incontra l’analisi psicologica condotta sull’esempio di John Cassavetes. Nel caso del cinema, l’attitudine nostalgica illustra un nuovo tipo di connessione con il passato storico; la Sherman invece usa la nostalgia come uno strumento per la produzione del senso già storicizzato, che contribuisce a situare la temporalità cinematografica. L’illusione del movimento come storia e narrazione, al di là dell’immagine specifica, è la differenza principale rispetto alla posa elementare. I migliori tra gli Untitled Film Stills presuppongono idealmente un prima e un dopo che appartengono unicamente al tempo del cinema e della fiction, non a quello dell’esistenza reale. Come afferma l’artista: “[...] the shots I would choose were always the ones in-between the action. These women are on their way to wherever the action is (or to their doom)… or have just come from a confrontation (or a tryst)”16. 15 Sherman, C. (2003), The Making of Untitled. In The Complete Untitled Film Stills, The Museum of Modern Art: New York, 15. P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità... Il cinema funziona all’interno della serie come un filtro e una griglia di riferimento, come strumento di conoscenza e metafora della realtà: “[...] I definitely felt that the characters were questioning something – perhaps being forced into a certain role. At the same time, those roles are in a film: the women aren’t being lifelike, they’re acting. There are so many levels of artifice. I liked that whole jumble of ambiguity”17. Il secondo elemento che contribuisce a creare il senso della narrazione è il suggerimento pressoché costante del fuori-campo (out-of-frame): tutti i personaggi generano attorno a se stessi una sorta di spazio virtuale, che oltrepassa gli aspetti visuali ed evoca altri personaggi ‘invisibili’, che possiamo evocare proiettando le nostre narrazioni identitarie nello ‘schiudersi’ del frame. Dunque, ogni immagine è incompleta, poiché stabilisce una relazione immaginaria con il suo ‘fuori’. Le donne di Cindy Sherman guardano sempre a destra, a sinistra o al di sopra del punto di vista dell’obiettivospettatore, a volte addirittura mimando una conversazione con il proprio ‘reverse angle’. Più spesso, gli si rivolgono in un atteggiamento perplesso o sospettoso, sempre preoccupate da questa ‘presenza’: “Some of the women in the outdoor shots could be alone, or being wat- 16 17 18 Ivi, 9. Ibidem. Ibidem. 161 ched or followed”18, dice l’artista. Nei rari casi di sguardo diretto verso l’obiettivo, il personaggio sembra includere lo spettatore nella propria storia: infatti, ci sta guardando non da una semplice fotografia, ma da un film immaginario, inesistente. Nel tentativo di definire l’arte auratica, il lavoro di Douglas gordon segna la transizione fondamentale nella pratica dell’appropriazione, dall’immagine fissa a quella in movimento, attraverso l’impiego diretto di materiale cinematografico. Durante gli anni Novanta, gordon ha affrontato in maniera coerente il tema del Doppio: riflessi, suddivisioni e rispecchiamenti attraversano tutti i suoi lavori realizzati nel decennio, dalle proiezioni di Selfportrait (kissing with scopolamine, 1994) alle performances fotografiche di Tattoo (for reflection) e Monster (1997). In particolare, le videoinstallazioni sviluppano il concetto di un’identità divisa e multipla. Confessions of a justified sinner (1995-’96) combina il titolo del romanzo di James Hogg (1924) con la trasformazione del Dr. Jekyll nel film di Reuben Mamoulian (1932): la medesima scena è proiettata su due schermi affiancati; il positivo e il negativo dell’immagine si alternano. La stessa idea viene sviluppata, da un diverso punto di vista, in A Divided Self I and II, il video con cui gordon ha vinto il prestigioso Turner Prize nel 1996: il testo canonico di 162 Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012 Ronald David Laing sull’interpretazione della schizofrenia (A Divided Self, 1968) è sovrapposto al paradigma di Stevenson. Nella fotografia Self-portrait as Kurt Cobain, as Andy Warhol, as Myra Hindley, as Marilyn Monroe (1996), un péndant del video, gordon evoca e assembla l’aura di tutti i filoni principali nella cultura popolare (music, contemporary art, cinema and crime) attraverso le loro figure più rappresentative e simboliche, allo scopo di costruire e proporre una rappresentazione della propria identità personale. Infine, in Through a looking glass (1999), il doppio è ottenuto attraverso un’abile dialettica di suddivisione e rispecchiamento: la schizofrenia, che tre anni prima era ancora illustrata e descritta, diviene qui letterale e leggibile negli scarti tra l’immagine e il suo riflesso. “[...] the double is obtained by means of a skilful dialectics of splitting and redoubling: Schizophrenia, that three years before was still illustrated and described, becomes here literal and readable in the swerves between the image and its reflection”. Mentre Robert De Niro – Travis Bickle in Taxi Driver (1976) – minaccia l’altro se stesso, lo spettatore viene agito da questa geometria temporale, sperimentando come l’Alice di Lewis Carroll il passaggio continuo da un lato dello specchio all’altro, da una dimensione all’altra. Vale la pena di notare che il cinema è, per Douglas gordon, il luogo favorito di esplorazione: tra tutti i possibili readymade, il cinema è probabilmente quello ideale, dal momento che è esso stesso un doppio, la realtà seconda, dunque un modello per la costruzione di un’identità parallela – in questo, esemplificando perfettamente la natura dell’identità post-industriale come meta-narrazione: una narrazione, cioè, ottenuta attraverso l’appropriazione decisa e la giustapposizione adeguata di altre narrazioni. Infine, la principale differenza tra i videoartisti che, durante gli anni Novanta, hanno lavorato sul cinema (tra gli altri Douglas gordon, Stan Douglas e Doug Aitken) e Matthew Barney, è che quest’ultimo ha lavorato completamente all’interno del contesto cinematografico, realizzando ben cinque film completi (Cremaster Cycle, 1994-2002). Inoltre, questi film fanno parte di un sistema complesso, che comprende anche altre opere-satellite come fotografie, sculture e installazioni. Tim griffin ha scritto nel sua recensione del 2003 alla grande mostra personale presso il guggenheim di New York: “… [Barney’s sculptures] bring to mind the story of Jackson Pollock – demonstrating his crafts for Hans Namuth’s camera – being told that this painting was finished because they were out of film. It seems that one medium digests the properties of another, leaving the latter as a ghost of itself”19. 19 T. griffin, T. (2003), Matthew Barney: The Cremaster Cycle (review), Artforum International, may 2003, XLI, No. 9, 193. P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità... Preliminarmente, tra gli elementi auratici nella costruzione narrativa di Barney, vale la pena di notare la sua carriera come giocatore di football all’università e come modello a New York durante gli anni ottanta, oltre naturalmente al suo matrimonio con la cantante e musicista pop Björk che lo ha reso ampiamento noto al di fuori dei ristretti confini del mondo dell’arte contemporanea. Il Cremaster Cycle può essere perciò considerato un’opera di transizione nell’arte contemporanea, e verso una definizione dell’arte auratica nel XXI secolo. Usando il cinema e lo spettacolo come gli strumenti principali della sua operazione, Barney propone una versione autenticamente americana del discorso sulla vita, sulla morte e sull’identità, riusando e ridefinendo contenuti provenienti dall’arte contemporanea (Richard Serra, Joseph Beuys, Robert Smithson), dall’architettura modernista (il Chrysler Building nel Cremaster 3), dalla cultura pop (il grind metal con il cantante dei Morbid Angel nel Cremaster 2, l’industria automobilistica nel Cremaster 3), dalla letteratura (Norman Maileriv nel Cremaster 2) e dalla mitologia ancestrale (la leggenda di Fionn MacCumhail, che descrive l’origine dell’Isola di Man nell’ouverture del Cremaster 3). Affidando a Norman Mailer il ruolo di Harry Houdini (e a Richard Serra quello 163 di grande Architetto nel Cremaster 3, 2002), Barney si appropria di un determinato significato auratico (un personaggio, un’opera d’arte) e lo associa ai propri caratteri simbolici. Molti di questi personaggi-simbolo – come nel caso di Cindy Sherman – li recita egli stesso. In questo modo, crea una rete di riferimenti e di contenuti estremamente complessa e talvolta disorientante, che costituisce la struttura aperta dell’intero sistema. Da un punto di vista stilistico, per esempio, tra le influenze cinematografiche del Cremaster 2 (1999), quello preminente è Stanley Kubrick, in particolare 2001: odissea nello spazio (1968). Va notato che l’influenza di questo film è evidente anche nel Cremaster 1 (1995), come Nancy Spector sottolineava nel 2003: “Two goodyear Blimps – ‘aerial ambassadors’ and corporate icons for the world-famous rubber and tire company – float above the stadium, like the airships that often record and transmit live sporting events. The interior of each blimp is outfitted in futuristic retro chic: Shades of the modyet-minimalist space station of Kubrick’s 2001: A Space odyssey... merge with the streamlined oceanliner sensibility of Warren McArthur”21. Le visioni dinamiche dall’alto che 20 Autore, tra l’altro, de The Executioner’s Song (Il canto del boia, 1979), dedicato proprio alla figura di gary gilmore. 21 Spector, N. (2003), “only the perverse fantasy can still save us”: In Barney, M., The CREMASTER Cycle, exhibition catalogue, Museum Ludwig, Cologne June 6 - September 1, 2002, Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, october 10 - January 5, 2003, Solomon R. guggenheim Museum, New York February 14 - May 11, 2003, guggenheim Museum Publications: New York, 34. 164 Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012 caratterizzano l’opera di Barney – come la sequenza del two-step sequence nel Cremaster 2 – sono prese dalla sezione finale Jupiter and beyond the Infinite di 2001, e per analogia dai titoli di testa di Shining (1980), sempre di Stanley Kubrick. La connessione è dimostrata dal fatto che queste immagini illustrano sempre un viaggio nel tempo e nello spazio: in questo senso, l’operazione di Barney si qualifica come una sorta di remake del modello originale. Inoltre, l’intera evoluzione stilistica del Cremaster Cycle tende esplicitamente verso Kubrick, soprattutto nell’inquadratura che si avvicina sempre più a un’idea di grandeur, ed in determinati movimenti della cinepresa. Ma c’è un ulteriore modo di pensare la relazione tra frammento auratico, dato reale e opera d’arte. Nella videoinstallazione The Third Memo-ry (2000), Pierre Huyghe giustappone un anziano John Wojtowicz, autore di una rapina alla Chase Manhattan Bank il 22 agosto del 1972, che lo rese una star di caratura nazionale per un giorno, ad Al Pacino in Dog Day Afternoon, il film realizzato da Sidney Lumet nel 1975 e basato su questa storia vera. Wojtowicz ricostruisce i suoi ricordi di quel giorno, all’interno di un set che replica sia la location finzionale che quella originale. L’artista propone qui una negoziazione alternativa con l’aura: dunque, l’operazione è una composizione attiva, che forza i limiti e i confini dell’appropriazione. La ‘terza memoria’ è più di 22 una semplice somma tra realtà e finzione, e riflette un’identità composita, viva e spettacolare. Il protagonista diventa – attraverso la gestione autonoma del tempo – l’autore della propria narrazione: “Pierre Huyghe seems to have set out on a path where the aesthetic of appropriating an alienating form (the cinema) gives way to an enterprise (an attempt) of reappropriating the representations that speak in our place and name, an enterprise where the subject represented – or figured – is invited to take back his place at the very heart of the spectacular machinery that has dispossed him of his own identity… An invitation to comment on his own gestures and deeds, to reappropriate them, to speak up once again, to regain his own image”22. III. Un primo sguardo all’ecologia culturale dell’appropriazione di contenuti: coda lunga e identità 2000-2009 Le caratteristiche delle strategie attuali di costruzione identitaria sembrano aver applicato il suggerimento implicito di The Third Memory. Un aspetto chiave di questo processo storico in corso è indubbiamente l’apparente ampliamento dell’‘archivio di significati’ da cui estrarre i possibili mattoni della propria strategia (come esemplificato nella sezione precedente, nel caso In Christov-Bakargiev, C. (ed.) (2004), Pierre Huyghe, exhibition catalogue, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli 21 april-18 july 2004, Skira: Milano, 264. P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità... del cinema) – vale a dire, l’archivio dei prodotti e degli artefatti culturali, la cui accessibilità e fruibilità si è incrementata in modo spettacolare in tempi recenti grazie alla loro digitalizzazione e dematerializzazione. Come conseguenza di questa trasformazione, che rende esplicito e chiaro che ciò che è rilevante per la costruzione degli asset identitari è l’appropriazione e la trasmissione di contenuti e che la disponibilità di prodotti/artefatti si giustifica solo in quanto è strumentale a questo scopo – questi artifatti (non più oggetti, almeno in senso tradizionale) vengono percepiti come frammenti auratici, come pezzi di un puzzle da impiegare nella progettazione e nella costruzione dei contenuti personali, rilevanti nell’ottica identitaria. Il regime autografico dell’arte contemporanea, ed il valore che continua ad attribuire all’aura della presenza fisica, è il dispositivo più potente per la generazione di nuove matrici, ma in generale ogni tipo di costruzione culturale (allografica) può essere selezionata e usata come materiale grezzo per questo processo di costruzione identitaria. Ne La coda lunga (The Long Tail, 2006), Chris Anderson descrive l’avvento della distribuzione online come una rivoluzione epocale per la ricezione dei prodotti culturali, e per il suo impatto economico. Tra gli altri aspetti, Anderson propone il concetto di “microfama” come sviluppo diretto e democratico della celebrity culture, e come risultato della frammentazione dei modelli 23 Anderson, 165 tipici del XX secolo, legati agli hit e ai blockbuster: “From product placement in tv shows to the remarkable success of In Style magazine (its great innovation was not cropping the photos at the knees, so as to show the shoes), the power of celebrity is increasingly measured in terms of their ability to move merchandise. Whether you like it or not, Jessica Simpson is a tastemaker. But not all celebrities are Hollywood stars. As our culture fragments into a million tiny microcultures, we are experiencing a corresponding rise of microcelebrities”23. La riflessione di Anderson è stata ed è importante, perché apre un campo di indagine interamente nuovo. Egli suggerisce che, nell’era dell’enciclopedismo digitale e dell’applicazione virtuale del modello-playlist ad ogni branca della conoscenza, il valore auratico diventa una risorsa particolarmente disponibile, fluida, plastica, adatta ad ogni tipologia di sfruttamento individuale: una volta ingombrante ed imponente, essa diviene oggi rassicurante e portatile. La costruzione dell’identità personale procede così attraverso la composizione e la ricapitolazione dei contenuti culturali e informazionali, completamente manipolabili e adattabili ai gusti, alle aspettative e agli scopi personali. La questione del gusto apre alcune C. (2008), The Long Tail. Why the Future of Business Is Selling Less of More (2006), Hyperion: New York, 170. 166 Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012 crepe nel discorso fondamentalmente ottimistico ed entusiastico di Anderson. La prima riguarda l’impatto potenziale di un’infinita opportunità di scelta sulla capacità reale degli individui di gestirla effettivamente: “The overwhelming reality of our online age is that everything can be available. online retailers offer variety on a scale unimaginable even a decade ago – millions of products in every possible variant and combination. But does anyone need this much choice? Can we handle it?24” Questo è il “paradosso della scelta” analizzato da Barry Schwartz25, che illustra chiaramente come una ampia disponibilità di opzioni non coincide quasi mai con una reale libertà di scelta e con la gratificazione personale, in qualsiasi campo della vita quotidiana – dallo shopping alla formazione, fino all’entertainment. La posizione di Chris Anderson, invece, è che la disponibilità immediata di un archivio illimitato di contenuti culturali, piuttosto di paralizzare la ricerca e la sperimentazione nella scelta, le incoraggi. L’ex-direttore della rivista Wired liquida frettolosamente alcuni appunti su questo argomento portati avanti da Christine Rosen in un austero articolo del 2004, The Age of Egocasting: “By giving us the illusion of perfect control, these technologies risk making us incapable of ever being surprised. They encourage not the cultivation of taste, but the numbing repetition of fetish. And they contribute to what might be called “egocasting”, the thoroughly personalized and extremely narrow pursuit of one’s personal taste. In thrall to our own little techonologically constructed worlds, we are, ironically, finding it increasingly difficult to appreciate genuine individuality”26. La ragione per cui Anderson sottovaluta, e in definitiva rigetta queste osservazioni, risiede in questa fiducia incondizionata nel sistema del filtering (“the growing power of consumers to filter what they see”, described also by Cass Sunstein in Republic.com27) che caratterizza i meccanismi della coda lunga fin dalla sua comparsa. Esso rappresenta l’applicazione pratica dell’idea di ‘nicchia’ culturale, assimilata concettualmente a quelle che sono le caratteristiche delle sottoculture e più generalmente della cultura ‘alternativa’. Vale la pena di notare qui che l’uso capace dei filtri da parte dei consumatori può essere sicuramente una risorsa molto utile, ma non può sostituire radicalmente le pratiche più tradizionali di educazione e 24 Ivi, 170. Cfr. anche ivi, pp. 180-181: “The Long Tail is nothing more than infinite choice. Abundant, cheap distribution means abundant, cheap and unlimited variety – and that means the audience tends to distribute as widely as the choice. From the mainstream media and entertainment industry perspective, this looks like a battle between traditional media and the Internet. But the problem is that once people shift their attention online, they don’t just go from the media outlet to another – they simply scatter. Infinite choice equals ultimate fragmentation”. 25 Schwartz, B. (2004), The Paradox of Choice. Why More is Less, HarperCollins, New York, 2004. 26 Rosen, C. (2004), The Age of Egocasting, The New Atlantis, Fall 2004 - Winter 2005, 52. P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità... formazione del gusto: la formazione e l’evoluzione del gusto non può essere ridotto per principio a una navigazione spensierata, learning-by-doing nelle arene culturali. In generale, sono necessari strategie e punti di riferimento cognitivi, sviluppati attraverso un processo relativamente lungo e guidato, allo scopo di essere pronti a esplorare produttivamente il paesaggio ricco di opportunità creato dal meccanismo della coda lunga; il pericolo è invece quello di fraintendere grossolanamente molti dei contenuti culturali in cui ci si imbatte, in modo che la selezione soggettiva e il montaggio dei frammenti si traduce in un pastiche involontariamente comico e senza senso compiuto, come ampiamente dimostrato, per esempio, nell’attuale letteratura filosofica e spirituale di grana grossa. Ma se una navigazione significativa nel panorama illimitato dei contenuti culturali chiama in causa un background cognitivo ricco e complesso, e se l’acquisizione di un tale background risiede al di fuori della portata delle motivazioni e talvolta persino della consapevolezza di molti, come si può riconciliare questa condizione con la sempre più pervasiva – in verità, quasi inevitabile – pratica della costruzione identitaria attraverso i contenuti culturali? La risposta, a questo punto, dovrebbe esse- 167 re relativamente semplice: aura. Nel contesto delle dinamiche della coda lunga relative alla scelta, gli elementi auratici non sono semplicemente un’opzione possibile tra l’armamentario dell’identità fai-da-te (“celebrities… are another sort of trusted guide, and… [their] influence on consumption continues to grow”28). L’aura è il filtro, la guida e lo strumento principale per l’esercizio della scelta. Una dimostrazione relativamente immediata di ciò può essere rintracciata, per esempio, nell’uso delle parole-chiave per la ricerca in siti come Youtube, MySpace, eccetera: infatti, la logica generale della loro specificazione è guidata da marker auratici, che rendono i contenuti facili da trovare, riconoscere e valutare in termini di potere identitario (l’ammontare degli asset auratici associati a un determinato contenuto). Un artefatto culturale complesso (un film, un’opera d’arte, una performance musicale, ecc.) può essere dunque facilmente ridotto ai suoi elementi ‘identitari’ di base attraverso il dispositivo delle parole-chiave, che determina la sua visibilità e attrattività potenziale per ogni gruppo di riferimento o comunità – in modo da determinare il valore e la calibrazione contenutistica ottimale degli spazi pubblicitari che vanno sullo spazio web in cui sono inseriti questi contenuti, e la cui vendita rende l’intera 27 Sunstein, C.R. (2002), The Daily Me, in Republic.com, Princeton University Press: Princeton, 8 (trad,. it. (2003), Republic.com. Cittadini informati o consumatori di informazioni? Il Mulino: Bologna). Cfr. anche ivi, p. 10: “[…] it is much too simple to say that any system of communications is desirable if and because it allows individuals to see and hear what they choose. Unanticipated, un-chosen exposures, and shared experiences, are important too”. For this topic, see also: M. Van Alstyne, E. Brynjolfsson, Electronic Communities: global Village or CyberBalkans?, available online: http://web.mit.edu/marshall/www/Abstracts.html. 28 C. Anderson, op. cit., p. 107. 168 Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012 operazione economicamente sostenibile e proficua. I gruppi di riferimento (all’interno dei quali i significati, e quindi il valore economico ad essi correlato, sono messi in circolazione e a un certo livello addirittura prodotti) vengono dunque accuratamente individuati, per essere tradotti nelle loro controparti economiche di segmenti di mercato (all’interno dei quali il valore economico viene convertito in turnover economico sotto forma di scambio commerciale). I filtri richiedono la partecipazione attiva dei consumatori, e l’online networking è l’altro aspetto fondamentale della costruzione identitaria negli anni più recenti. Quest’aspetto ha già originato, peraltro, una vasta bibliografia giornalistica e accademica, ed è stato prontamente riconosciuto come il veicolo principale di comunicazione e autorappresentazione per la cosiddetta generazione Millennial. gli aggregatori online content-driven come YouTube e MySpace forniscono nuove istanze di piattaforme sociali in cui dimensioni potenzialmente conflittuali come la community orientation29 e il narcismo esibizionistico coesistono e si fondono in nuove sintesi, in cui puri aggregatori di social networking come Facebook sembrano soddisfare, almeno nella loro fase iniziale, esigenze più mature e nostalgiche – lo stesso brand richiama, in questo caso, il bisogno di ritrovare ex-compagni di liceo o di università. In questo nuovo territorio ibrido, il narcisismo non corrisponde necessariamente ad un’espressione di estremo individualismo: la costruzione online dell’identità ha successo solo quando viene comunicata istantaneamente, e condivisa con gli altri (gli ‘amici’), i quali diventano necessariamente uno schermo, la ratificazione dell’esistenza e della rilevanza di questa identità. Infatti, i profili identitari in questa nuova area sociale vengono messi insieme assemblando letteralmente tracce ed echi di prodotti o contenuti culturali (canzoni, film, libri, celebrities, eccetera) ed esperienze personali, sebbene le due dimensioni tendano sempre più a sovrapporsi e a riflettersi l’una con l’altra. Possiamo perciò parlare dei profili identitari online come di pezzi di aura: l’identità è una narrazione de facto. Quindi, il narcisismo (l’“egocasting” di Christine Rosen) potrebbe essere stato scambiato per qualcosa di completamente diverso: una strategia di sopravvivenza nelle nuove arene sociali. La relazione tra assemblaggio creativo di contenuti culturali e sopravvivenza sociale è ben lungi dall’essere accidentale, ed è invece carica di conse- 29 Cfr. Winograd, M. e M.D. Hais (2008), Millennial Makeover. MySpace, YouTube and the Future of Ame- rican Politics, Rutgers University Press: New Brunswick, NJ-London, 83: “The Millennials have a strong group and community orientation and a clear tendency to share their thoughts and activities with others – friends, teachers, and parents. This is considerably different than “it’s all about me” Baby Boomers and the cynical individualism of alienated gen-Xers. Among teen and young adult Millennials, group dating and clubs have replaced the single bars of the two older generations as the most popular social venues. Even in education, group study sessions and shared learning are the preferred way to gain knowledge”. See also Howe, N. e W. Strauss (2000), Millennials Rising. The Next Great Generation, Vintage Books: New York. P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità... guenze, molte delle quali ancora da scoprire e analizzare. In un saggio di fondamentale importanza pubblicato originariamente nel 1978, il filosofo Emilio garroni30 associa chiaramente gli atti creativi con le strategie di adattamento adottate dagli esseri umani durante i processi di evoluzione culturale: il nuovo scenario della costruzione identitaria post-industriale fornisce un contesto inaspettato per riscoprire questa idea e declinarla secondo modalità inedite. Uno degli aspetti più affascinanti di tale scenario è il fatto che, per la prima volta in assoluto, l’attività dell’autorappresentazione e la sua riproduzione fisica e sociale coincidono, al punto che avvengono nello stesso momento, di fatto collassando l’una nell’altra. L’identità viene progettata, organizzata e gestita sin dall’inizio all’interno di un mediascape sociale che si comporta come un’ecologia. La riproduzione (e la riproducibilità) non è più un passaggio successivo alla produzione, ma diventa la sua condizione necessaria. Il design e la gestione del ‘profilo personale’, che potrebbe a prima vista sembrare un innocuo hobby narcisistico, un’istanza di spensierato esibizionismo tecnologico, ad un’analisi più attenta rivela una natura e una funzione molto differenti, risultando l’unico modo possibile di 30 31 169 negoziazione e di costruzione attiva dell’identità all’interno dell’attuale ecologia socio-culturale, attraverso l’uso consapevole, strategico dell’aura. È uno degli effetti socio-culturali di quella trasformazione storica che è stata definita da studiosi come Manuel Castells “network soci-ety”31: in questo senso, non solo l’identità culturale e collettiva, ma l’identità individuale viene influenzata e modificata massicciamente ed in profondità dalle riconfigurazioni in atto, al punto che il pensiero stesso del sé nella vita quotidiana si manifesta attraverso i dispositivi e le piattaforme tecnologiche, e le funzioni di rimontaggio che essi predispongono a livello di immaginario. Daniel Innerarity ha descritto precisamente questa condizione – relativamente agli impatti che essa ha sul piano politico e dell’opinione pubblica – come “politicizzazione dell’ambito privato”, “estroversione dell’intimo”, “sfera intima totale” come risultato dell’indifferenziazione tra sfera pubblica e sfera privata32. Speculare a questo processo è il fenomeno denominato da Vanni Codeluppi “vetrinizzazione sociale”, in base al quale ogni aspetto della vita sociale, culturale, politica ed economica contemporanea è regolato dall’esposizione continua e massiccia degli aspetti perso- garroni, E. con un’introduzione di Paolo Virno (2010), Creatività, Quodlibet: Macerata, 2010. Castells, M. (1997), The Power of Identity, The Information Age: Economy, Society and Culture - Vol. II, Blackwell Publishing: Cambridge, MA-oxford. Cfr. anche idem (1996): The Rise of the Network Society. The Information Age: Economy, Society and Culture Vol. I, Blackwell Publishing: Cambridge, MA-oxford; (1999), End of Millennium, The Information Age: Economy, Society and Culture Vol. III, Blackwell Publishing: Cambridge, MA-oxford; (2001), The Internet Galaxy. Reflections on the Internet, Business and Society, oxford University Press: oxford. 32 Innerarity, D. (2008), Il nuovo spazio pubblico, Meltemi: Roma (ed. or. (2006), El nuevo espacio pùblico, Espasa Calpe, S.A.: Madrid). 170 Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012 nali al dominio spettacolare, in linea con la programmatica sostituzione della rappresentazione alla realtà che trova le sue radici in guy Debord e in Jean Baudrillard: “Dalla vetrina e dalla pubblicità gli individui hanno progressivamente imparato a costruire e gestire la propria identità personale, e hanno dovuto farlo perché si sono via via disgregate le barriere tra pubblico e privato, con il conseguente obbligo sociale per tutti di promuovere al meglio la propria immagine”33. D’altra parte, molti studiosi hanno considerato, nel corso degli ultimi quindici anni, i differenti aspetti di questa interazione tra fenomeni sociali, processi tecnologici e manifestazioni culturali legate ai nuovi media in continua evoluzione. Uno dei più autorevoli tra essi, Lev Manovich, ha analizzato le modalità spesso sorprendenti in cui la logica dei computer, e la software culture, influenzano la nostra comprensione e la nostra rappresentazione non solo del mondo esterno, ma soprattutto di noi stessi34. IV. Prepararsi al Dopo: Identità sullo Schermo 2001-2007 Il cinema è stato uno dei media che – per sua natura – ha maggiormente e più prontamente assorbito queste nuove dinamiche socioculturali, stabilendo una relazione diretta con le tensioni e le mutazioni connesse alla formazione dell’identità auratica, e gran parte della produzione più interessante negli ultimi anni sembra inoltrarsi proprio in questo territorio. Un esempio di trattamento abbastanza letterale di questo tema è S1m0ne (2001) di Andrew Niccol. Il regista gattaca propone il plot allegorico di una mega-star costruita digitalmente dall’autore-in-crisi-creativa Viktor Taransky (Al Pacino), e ottenuta attraverso la combinazione di aspetti e nuance personali di famose attrici del passato. Anche il poetico bio-pic su Bob Dylan, I’m Not There (Todd Haynes 2007) esplora le possibilità di un’identità frammentaria, composta di elementi auratici. La narrazione scompone il cantante reale in sei versioni differenti, ognuna delle quali costituisce un’istanza simbolica: così, per esempio, Christian Bale rappresenta l’aspetto folk, Cate Blanchett interpreta la fase rock ed elettrica, mentre Richard gere-Billy the Kid è l’anima libertaria e ribelle, e così via. È abbastanza sorprendente, invece, che un horror-thriller del 2007, Captivity di Roland Joffé, sviluppa questa idea fondamentale inserendo l’onnipresenza auratica caratteristica dell’epoca attuale, ed equilibrando una forte dichiarazione e approccio teorico con un appeal commerciale. Il film segue il filone recente del cosiddetto “segrega- 33 Codeluppi, V. (2007), La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri: Torino, 49. 34 Cfr. Manovich, L. (2001), The Language of New Media, MIT Press: Cambridge, MA. P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità... tion movie” (Saw, Hostel e i loro epigoni), decostruendo la narrazione dal suo interno ed inserendo contenuti innovativi. La storia, essenziale e diretta, si concentra sul rapimento della giovane modella Jennifer Tree (Elisha Cuthbert). gli aspetti notevoli, ovviamente, superano i confini della narrazione stessa, e sono relativi ai dispositivi messi in funzione: fin dall’inizio, è chiaro che l’autore è interessato all’ossessione del cattivo-maniaco per la riproduzione e per la (micro-) fama mediatica35. Così, Joffé proietta immediatamente lo spettatore nel territorio di un glamour pericoloso, mostrando la futura vittima “exposed” in multi-media – la rivista di moda intitolata significativamente Razor, la shopping bag e i manifesti pubblicitari sul bus. L’intento è ancora più manifesto quando la modella è posta su un letto sormontato dalla sua figura giustapposta alla parola Dare, che ritornerà in un altro punto del film, fino alla conclusione. La scena centrale è indubbiamente il risveglio di Jennifer nella sua prigione, di fronte ad un rassicurante paesaggio tropicale che rivelerà ben presto il sottostante muro di mattoni. Telecamere di sorveglianza, riprese low-fi, riproduzioni su livelli differenti ritornano lungo tutto il film, e ne costituiscono la principale piattaforma rappresentativa: il nucleo narrativo risiede dunque nella giustapposizione dei media, nella creazione del mediascape, piuttosto che nel plot stesso, che diventa così un puro pretesto, un punto di partenza. Ma il punto più avanzato di questo processo, almeno per il momento è 35 Cfr. nota XV. 171 Grindhouse - Death Proof (2007) di Quentin Tarantino, un’immersione nel mondo degli exploitation movie degli anni Settanta e, al tempo stesso, un eccentrico trattato sull’identità auratica all’inizio del XXI secolo. Il film è un dittico perfetto, composto da due distinte location (Austin, Texas e Lebanon, Tennessee) e da due gruppi complementari di giovani donne, che ruotano attorno alla micro-fama legata al démimonde dello show-business e dei media: la dj locale Jungle Julia (Sydney Poitier) è innamorata del promettente regista Christian Simonson (che non è difficile immaginare come autore di film d’azione à la Tarantino), e le sue amiche strillano ogni volta che la sua figura appare su un manifesto pubblicitario; Abernathy (Rosario Dawson) è un attrice infatuata del regista Cecil Evans (che la tradisce con la stand in di Daryl Hannah), Lee (Mary Elizabeth Winstead) è una modella, mentre Kim (Tracie Thoms) e Zoë sono stuntwomen. Un personaggio (ovviamente) centrale è quello di Stuntman Mike (Kurt Russell), di nuovo un killer psicotico, ma questa volta equipaggiato con armiasset esplicitamente auratiche. Ha lavorato in serie tv obsolete come The Virginian e Vegas, e ha affrontato subito dopo il suo declino umano e professionale. L’idea è di uccidere ragazze che lottano per entrare nel mondo dell’aura, nel tentativo di evitare che diventino come lui. L’unico gruppo in grado di sconfiggerlo, perciò, è proprio quello in cui le donne sono al suo stesso livello, svolgono il suo stesso lavoro, ma desiderano accet- 172 Studi e Note di Economia, Anno XVII, n. 1-2012 tare i costi di socializzazione associati alle dinamiche contemporanee dello show business. In questo senso, Zoë Bell rappresenta una figura chiave. È infatti l’unica, in Death Proof e nell’intero cinema di Tarantino, ad interpretare il ruolo di se stessa: una vera stuntwoman, che ha recitato come Uma Thurman in Kill Bill, diventa il personaggio principale della nuova fiction. Questo meccanismo porta alle estreme conseguenze il percorso del riuso dell’aura legata all’attore-persona, dal John Travolta-Vincent Vega di Pulp Fiction (1994) al David Carradine-Bill of Kill Bill (2004), attraverso la Pam grier del sottovalutato Jackie Brown (1997). Ma in questo caso la stuntwoman, recitando in un contesto che richiede le sue capacità effettive, risulta anche pienamente “tarantiniana” nella sua performance. Il contesto è quello dello “ship’s mast”, che incornicia l’inseguimento finale, eseguito da Zoë sul tetto di una Dodge Challenger identica a quella guidata dal protagonista del modello principale di Death Proof – Vanishing Point (1971), di Richard C. Sarafian, insieme a Faster Pussycat! Kill! Kill! (1966) di Russ Meyer e a Convoy (1978) di Sam Peckinpah. Il film originale ripercorre un inseguimento interminabile attraverso il Colorado, lo Utah e il Nevada tra la polizia e Kowalski (Barry Newman), intervallato dai suoi allucinati flashback. Vale la pena di notare come Tarantino si appropri di materiale cinematogra- fico dotato di una straordinaria capacità di penetrazione nella cultura popolare come Vanishing Point, specialmente (ma non solo) in quella americana. Questo stesso film, per esempio, è stato oggetto di un remake – non memorabile, per la verità – nel 1997 (di Charles Robert Carner, con Viggo Mortensen e Jason Priestley), ha ispirato canzoni pop omonime (dei New order e dei Motorpsycho, tra gli altri), e ha influenzato persino il primo capitolo America (1986) by Jean Baudrillard, generando un’intera rete di contenuti culturali che si incrociano e si riferiscono a vicenda: “Nostalgia nata dall’immensità delle colline texane e delle sierre del Nuovo Messico: giù a capofitto lungo l’autostrada fra canzoni di successo dallo stereo della Chrysler e vampate di calore – la fotografia più fedele non basta più – bisognerebbe avere l’intero film del percorso, in tempo reale, compresi il caldo insopportabile e la musica, e riproiettarsi il tutto integralmente a casa propria, in camera oscura – ritrovare la magia dell’autostrada e dello spazio, dell’alcol ghiacciato in mezzo al deserto e della velocità, rivivere tutto questo a casa, sul videoregistratore, in tempo reale – non per il solo piacere del ricordo, ma perché il fascino di una ripetizione insensata è già lì, nell’astrazione del viaggio. Il dispiegarsi del deserto è infinitamente vicino all’eternità della pellicola”36. 36 Baudrillard, J. (1986), Vanishing Point. In America, Éditions grasset & Fasquelle: Paris, 1 (trad. it. (2000), America, SE: Milano). P.L. Sacco, C. Caliandro - Identità portatili: l’aura nell’epoca della sua riproducibilità... Dunque, Tarantino lavora sull’aura specifica di un testo con un impatto riconosciuto e profondo sull’immaginario collettivo, e la ricombina con altri contenuti simili. I graffi sulla pellicola (ottenuti digitalmente) sono il segno visibile di una nostalgia idealizzante e piuttosto decorativa, che trasforma gli errori e le lacune originari in un codice identitario con una specifica funzione. I numerosi riferimenti iconografici e musicali a film degli anni Settanta 173 (molti dei quali italiani37) che, come al solito, costellano Death Proof, non sono più il main theme dell’opera – e, forse, non lo sono mai stati: sono parte di un discorso più ampio, meta-mediale che costituisce l’ossatura dell’intero progetto. Un discorso profondamente connesso con l’appropriazione, la ricapitolazione e la rigenerazione dell’aura, e con la sua funzione in relazione alla costruzione delle identità e delle narrazioni, o delle narrazioni identitarie38. 37 Tra gli altri: L’uccello dalle piume di cristallo (1970) di Dario Argento, La polizia incrimina, la legge assolve (1973) e Quel maledetto treno blindato (1977) di Enzo g. Castellari, Italia a mano armata (1976) di Franco Martinelli, La settima donna (1978) di Franco Prosperi. 38 Cfr. Coplan, A. (2004), Empathic Engagement with Narrative Fictions, The Journal of Aesthetics and Art Criticism, 62:2, Spring, 141-152 e giovannelli, A. (2008), In and out: The Dynamics of Imagination in the Engagement with Narratives, The Journal of Aesthetics and Art Criticism, 66:1, Winter, 11-24.