INTERVISTA AD UN CASCO BIANCO IN INDONESIA DAVIDE

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INTERVISTA AD UN CASCO BIANCO IN INDONESIA DAVIDE
INTERVISTA AD UN CASCO BIANCO IN INDONESIA
DAVIDE ANTOLINI
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Una tua breve presentazione: chi è Davide Antolini
Sono Davide, ho 20 anni e vivo a Verona. Ho sempre avuto l’idea di fare un’esperienza di volontariato
all’estero e l’anno scorso un’amica mi ha convinto a candidarmi al servizio civile internazionale, così ho
fatto domanda presso Caritas Italiana per il progetto Caschi Bianchi in Indonesia. Un po’ a sorpresa sono
stato selezionato e sono partito!
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Cosa ti ha spinto a scegliere di impegnare un anno della tua vita al servizio degli altri? E perché
hai scelto il servizio internazionale?
L’idea di trascorrere un periodo lungo in un paese diverso dal nostro mi ha sempre affascinato per la
possibilità che offre di conoscere la cultura locale, e penso che un’esperienza di volontariato permetta di
entrare a contatto integralmente con la realtà in cui si opera, dalle sfumature più affascinanti a quelle più
difficili. Penso però che sia importante tenere sempre presente che una scelta come la mia non può
essere fatta solo per spirito di aiuto, perché ci sono realtà altrettanto bisognose e in cui si può operare
con maggior efficacia nelle nostre città. È invece una scelta nella direzione di aprirsi al mondo, di
conoscere altri modi di vivere e di vedere la realtà.
Ho scelto il servizio civile perché ho pensato che fatto di operare all’interno di una grande
organizzazione come Caritas avrebbe garantito un accompagnamento in un ambiente tanto diverso e
faticoso in cui ambientarsi e di inserirsi in un progetto già avviato e organizzato.
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Che valore/senso dai al servizio internazionale proposto da Caritas Italiana in collaborazione con
le Caritas diocesane?
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Sei stato destinato all’Indonesia: Dove fai servizio? Di cosa ti occupi? Quali le difficoltà?
Faccio servizio a Gunungsitoli, nell’isola di Nias, nella Provincia di Nord Sumatra. Buona parte del mio
tempo è dedicata all’organizzazione e realizzazione di attività con i bambini di Alma, la casa di
accoglienza dove abito con Francesca, l’altra volontaria che è qui con me.
Inoltre partecipo alle visite domiciliari alle famiglie dell’isola con disabili a carico, durante le quali gli
operatori del progetto aiutano a fare esercizi di fisioterapia e logopedia, e affianco i dipendenti della
caritas locale in diversi progetti.
Le difficoltà, sopratutto all’inizio, sono state molte: dalle cose più pratiche, il clima, il cibo, la mancanza di
tutte le piccole comodità a cui ero abituato, fino al doversi relazionare con persone che hanno modi di
parlare, pensare e vivere totalmente diversi da quelli a cui ero abituato.
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Qual è la situazione socio-politica?
L’isola di Nias è una delle aree più povere dell’Indonesia. La maggior parte della popolazione,
soprattutto nei villaggi dell’interno, vive al limite della sussistenza. I progetti di aiuto governativi spesso
sono inefficaci a causa della corruzione dilagante ad ogni livello.
A causa delle scarse conoscenze riguardo alimentazione e uso dei farmaci sono ampiamente diffusi
problemi durante la gravidanza e c’è un’alto tasso di incidenza di disabilità sia fisica che mentale. Inoltre
la scarsa conoscenza dei metodi contraccettivi porta a famiglie molto numerose, spesso oltre le loro
possibilità economiche; tentativi di aborto improvvisati e abbandoni infantili non sono rari.
Infine l’isola è totalmente dipendente dall’esterno in quanto a prodotti alimentari e commerciali e la
totale assenza di cura per l’ambiente ne deturpa le coste e l’interno.
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Come riesci ad intessere relazioni con la popolazione locale?
La possibilità di vivere in una comunità di indonesiani è stata sicuramente fondamentale per migliorare la
conoscenza della lingua e avere degli scambi con dei locali. In particolare ho legato molto con i bambini
con cui vivo e con cui trascorro buona parte del mio tempo qui.
Anche i colleghi di Caritas Sibolga (la Caritas locale) sono sempre stati molto gentili e disponibili a
parlare e dare suggerimenti.
Con il resto della popolazione invece è più faticoso relazionarsi perché, oltre alle prevedibile differenze
di abitudini, qui gli occidentali, i “bianchi”, sono visti come qualcosa di strano e anche se sono tutti pronti
a chiederti da dove vieni e se possono fare una foto con te, si fa fatica a stabilire un rapporto un po’ più
profondo. Inoltre è estremamente diffusa l’idea che tutti i bianchi siano ricchi e questo ogni tanto
innesca delle dinamiche un po’ difficili da gestire.
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Come ti sei trovato? Quale impatto ha avuto su di te emotivamente il vivere in un paese tanto
diverso dal nostro?
Devo confessare di essermi domandato, più spesso nelle prime settimane e sempre meno poi, “ma dove
sono finito?” Le difficoltà iniziali sono state sopratutto legate all’inserimento nell’ambiente lavorativo in
cui ognuno, tranne noi, sembrava avere un compito preciso e definito a occuparlo.
Poi, quando ho iniziato a superare questi problemi sono rimasti quelli più semplici: un po’ di nostalgia di
casa, degli amici, la voglia di cibo italiano e di tutti i “piccoli lussi” che in Italia sono la normalità.
Ho però la fortuna di convivere con 32 ragazzini indonesiani che hanno sempre voglia di sorridere,
giocare o anche solo di parlare con quelle poche parole di indonesiano che conosco. Loro mi danno la
voglia di restare qui. Anche Francesca, la mia compagna di servizio, e Sonja, una volontaria austriaca che
ha vissuto con noi fino a qualche settimana fa, sono state importanti nel sostenersi a vicenda nelle
giornate più faticose e per rendersi conto che le difficoltà di uno erano le stesse degli altri.
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Sei rientrato da poco in Italia per il corso di metà servizio....ti restano 8 mesi di servizio, fai delle
previsioni?
Mi piacerebbe riuscire a aiutare di più in Alma, la casa dove vivo, sia con attività per i bambini sia con
aiuti pratici in casa: le cose da fare non mancano ed è bello vedere che le proprie azioni hanno un
riscontro immediato.
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Un messaggio ai tuoi coetanei affinché scelgano il servizio civile e soprattutto i Caschi Bianchi.
Sono assolutamente convinto che uscire di casa e conoscere il mondo sia molto più importante di tante
cose che si possono imparare sui banchi di scuola, e che permetta anche di imparare a conoscere un po’
di più di più sé stessi. Il servizio civile permette di farlo aiutando altre persone, c’è forse un modo
migliore di questo?