Cap. 3 - CISADU

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Cap. 3 - CISADU
Scuola e culture. Materiali di antropologia della mediazione scolastica
Francesca Santagata Altre storie per un'altra scuola. Osservazioni antropologiche sulle dinamiche interculturali in una
scuola elementare
Tesi di laurea
Università degli Studi di Roma 'La Sapienza' - Facoltà di Lettere e Filosofia - Corso di laurea in Lettere
a.a. 2001/2002
Relatore: prof. Laura Faranda - Correlatore: dott. Mauro Geraci
Documento pubblicato sul sito del Dipartimento di Studi glottoantropologici e Discipline musicali il 12 luglio 2004 http://rmcisadu.let.uniroma1.it/glotto/index.html
Capitolo 3
“ Sei kabila, ti prenderanno per un’araba anche se sei
cittadina francese. Francese non lo sarai mai. La
nostra terra ci ricopre la pelle e ci maschera la faccia.
Questa terra l’amiamo, ma questa terra ci ama?”
Tahar Ben Jelloun, Nadia
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La ricerca
3.1 In classe
Questa ricerca nasce da un progetto della cattedra di Etnologia III dell’Università
La Sapienza di Roma, progetto coordinato e diretto dalla professoressa Laura Faranda
e che ha coinvolto, per il primo anno della sua attuazione, sei studenti laureande che
hanno tutte svolto la ricerca nella stessa scuola, dividendosi tra seconde, terze e
quarte elementari.
La scuola in cui si è svolta questa ricerca è un Istituto Statale, il Ferrante Aporti,
che comprende la scuola materna e le elementari e che ospita, in una delle sue due ali,
un Istituto Superiore; essa si trova in un quartiere borghese di Roma e i suoi alunni
sono perlopiù figli di professionisti, naturalmente non tutti.
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La presenza dei bambini stranieri tra i suoi corridoi è visibile, ma non eccessiva,
questi bambini sono prevalentemente figli di collaboratori domestici che lavorano in
zona o figli di persone che sono occupate in un importante mercato non molto
lontano dalla scuola stessa, diciamo nella parte bassa del quartiere, oppure i loro
genitori sono dei diplomatici o persone che lavorano al nostro Ministero degli Esteri.
L’ingresso in classe è avvenuto un lunedì di fine gennaio, naturalmente nessuna
delle laureande aveva avuto esperienze importanti di ricerca sul campo e soprattutto,
immaginando un lavoro di campo, non pensava certo ad un’aula scolastica.
Prima di entrare fisicamente nella scuola la coordinatrice del progetto ci aveva
consigliato di non legger nulla, prima di iniziare a lavorare nelle classi, della
letteratura pedagogica e antropologica riguardante l’educazione interculturale. Così
è stato, il fatto di entrare in una classe, passarci delle ore e dei giorni, relazionarsi a
dei bambini di sette anni ha permesso alla ricerca di
partire
dal sentire, dal
comprendere umanamente più che da un progetto già stabilito. All’inizio questo ha
creato spaesamento, come se non si fosse sicuri di essere nel posto giusto, ma questo
stordimento sia teorico - il non essere esperti sulla didattica interculturale - sia
emotivo, è stato il punto di partenza per tentare di costruire il lavoro di osservazione
in classe. Il non leggere niente della letteratura sull’argomento, poi, ci ha permesso di
entrare in classe per osservare senza particolari aspettative, senza l’atteggiamento di
chi sa già cosa trovare e piega ad esso tutta la sua ricerca. A lavoro avviato, al
contrario, sarebbe stato impossibile ignorare quanto già era stato detto e scritto
sull’educazione interculturale, e anche quello che già era stato fatto nelle scuole negli
ultimi dieci anni.
Appena salite le scale dell’edificio, la professoressa ha indicato ad ognuna di noi
la classe nella quale avrebbe lavorato da quel momento in avanti per circa cinque
mesi. Siamo entrate nelle classi accolte dalle maestre che erano state avvisate in
precedenza del nostro arrivo.
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Le classi II E e II F si trovavano al secondo piano dell’edificio, una accanto all’altra
e condividevano le tre maestre che si alternavano a coprire l’intero numero di ore
settimanali delle due classi che rimanevano a scuola fino alle 16 e 30 a pomeriggi
alternati.
Il primo giorno è passato nell’osservazione più che della classe -in questo caso la
II F- di una classe elementare in generale e nelle presentazioni e spiegazioni
scambiate con le insegnanti. Si era deciso di non spiegare ai bambini la motivazione
per la quale ci avrebbero visto in classe per cinque mesi, da una parte perché era forse
difficile spiegare un tale progetto di ricerca a bambini di sette anni, dall’altra perché
si voleva evitare che i bambini stranieri si sentissero subito al centro dell’attenzione,
un’attenzione che poteva sembrare loro da chirurgo, che li avrebbe potuti far sentire
come animali da laboratorio. Ci siamo quindi presentate alle classi come delle
tirocinanti, come delle maestre che devono imparare a fare le maestre. “ La maestra
non mi ha presentato, sono stati i bambini a chiedermi, poco dopo essere entrata, chi
fossi e che facessi lì. Io ho risposto loro che ero lì per imparare a fare la maestra e che
sarei stata con loro fino alla fine dell’anno scolastico. Mi hanno chiesto il nome e
nient’altro.” 1
La II E
era composta da ventidue bambini, l’unica bambina straniera era Anna.
Come già detto, suo padre è italiano e la sua mamma è originaria di un paesino della
Romania poco lontano da Bucarest. L’aula che ospitava la classe era piena di disegni
e cartelloni fatti dai bambini che nel corso dei mesi sono aumentati e cambiati
seguendo anche l’evolversi del programma didattico, i banchi erano disposti a ferro di
cavallo rovesciato in modo che ci fosse una fila di banchi sotto la cattedra. Anna era
seduta nella parte laterale dell’aula, sotto le finestre e non ha avuto, per questo anno
scolastico, un compagno di banco fisso. Preferibilmente era seduta accanto a due
bambine, Claudia e Caterina, delle quali però diceva di non essere particolarmente
amica.
Le maestre sono state concordi nel dire che Anna è una bambina insicura, timida,
ma serena e che non ha problemi particolari per quanto riguarda il rendimento
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Diario
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scolastico. Effettivamente la bambina non usciva dalla media della classe, era
abbastanza diligente nello svolgere i compiti a casa, anche se in classe non poteva
fare a meno di guardare nei quaderni dei suoi compagni, probabilmente per avere
delle conferme. Anna sembrava essere una bambina tranquilla, durante la ricreazione
giocava con quasi tutti i suoi compagni, preferibilmente però con i compagni maschi
e come tutti i bambini della sua età sfoggiava carte e ciondoli dei Pokemon, oggetti
che erano motivo di conversazione con gli altri bambini. Ci sono stati però due
episodi nei quali Anna
è stata chiaramente allontanata dai compagni che non
volevano che giocasse con loro: “In classe c’erano dei bambini, tra cui Anna. Alcuni
giocavano con il game boy e Anna gli stava dietro, aspettando il suo turno.
[…]Alessia ha scansato Anna e ha occupato il suo posto. Anna prima ha tentennato,
poi si è arrabbiata e ha alzato la voce dicendo: “C’ero prima io! C’ero prima io,
uffa!”, ma non è riuscita a spostare la sua compagna […] Anna ha tentato di giocare a
nascondino con alcuni bambini che però l’ hanno mandata via dicendo che non
c’era più posto.”2 Non sembrano essere però avvenimenti necessariamente indicativi
di qualche disagio e, soprattutto, non possono essere legati al fatto che la bambina
abbia una mamma straniera. Anna, per tutto il primo anno delle elementari e anche
per alcuni mesi del secondo, non ha mai detto nulla sulla sua mamma, i suoi nonni e
la Romania ai suoi compagni, spaventata da un episodio accadutole in prima
elementare con una compagna che ora ha cambiato scuola. Anna si è sentita offesa
dalla reazione della compagna, così ha tenuto questa cosa per sé, come un segreto.
Anche a casa Anna parla italiano: “Ha detto anche che in casa non parla romeno
perché la sua mamma ha deciso che è meglio parlare italiano.”3
Le maestre però dicono di ricordare che Anna in prima elementare diceva qualche
parola di romeno. Effettivamente era possibile, visto che, come già accennato, Anna
passa le vacanze dai nonni. Anna sembra avere un rapporto controverso con il paese
natale della madre. Da una parte è come se fosse stata riempita dei ricordi della sua
mamma e parla di cose che lei non ha visto: questa è l’immagine della Romania che
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Ibidem
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le viene dalla madre. “Romeno è brutto. Non mi piace che mi prendono in giro, mi
vergogno così non lo dico. Gli Italiani non sono amici dei Romeni. […] [La
Romania] È bella, però è un po’ brutta. E’ bella perché quando vado dai nonni vado
in campagna, ci sono le galline e gli altri animali. E’ brutta perché i Romeni sono
poveri. Oh -con uno scatto improvviso- lo sai quanto costava il pane in Romania?
Centomila dollari! I Romeni sono poveri e poi c’era pure la guerra e non si poteva
mangiare. La mia mamma non poteva mangiare.” Le ho chiesto se la mamma fosse
venuta in Italia a causa di queste difficoltà. “No -mi ha risposto- è venuta per trovare
un fidanzato!” Le ho chiesto se al suo papà piaccia la Romania e lei mi ha risposto di
no. Le ho anche domandato se le piacerebbe vivere in Romania e lei ha detto: “ No, la
Romania è povera, non hanno le cose!” Infine le ho chiesto se ricordasse il paese o la
città in cui trascorre le vacanze e se sapesse qual è la capitale della Romania. Anna ha
risposto: “Non è una città è un paese! Non so bene dov’è. Certo che la so la capitale,
è Bucarest!” […] Sarebbe stato molto bello se fosse riuscita a portarci in classe
qualche giocattolo [della mamma], a patto naturalmente che la mamma li avesse
portati a Roma. Anna mi ha guardato e mi ha detto, con aria dispiaciuta; “Sì , però la
mia mamma non si ricorda, perché in Romania c’era la guerra. I giocattoli non li ha
perché non si poteva giocare, c’era la guerra.””
Dall’altra parte c’ è la sua immagine della Romania che è fatta di animali, di
vacanze, di amiche e dell’affetto dei nonni. “Le ho chiesto se durante le vacanze di
Pasqua fosse andata trovare i nonni e lei mi ha risposto di essere rimasta a Roma con
la sua famiglia. Mi ha detto che i suoi nonni si chiamano Dumitru e Lucia. Nonno
Dumitru sa parlare un po’ italiano, mentre nonna Lucia sa dire solo “ciao”. Allora io
le ho chiesto come facesse a parlare con i suoi nonni dato che mi aveva sempre detto
di non saper parlare il romeno. E lei: “In romeno, poi quando vado lì me lo
ricordo!”[…] Mentre mangiavamo le ho chiesto, visto che si stanno avvicinando le
vacanze, quando sarebbe andata dai nonni. Anna mi ha risposto che sarebbe partita
appena finita la scuola, con la sua mamma, che però sarebbe rimasta solo quattro
giorni. Lei invece sarebbe ritornata a settembre. Le ho chiesto se in Romania avesse
degli amichetti. Lei mi ha detto che ha due amiche: Uana, che ha dodici anni e
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Andrea che ne ha sette. Con loro, dice, si diverte molto. A lei piace passare le
vacanze in Romania.””4
Anna nel corso dei cinque mesi di osservazione in classe, a parere sia della madre
sia delle maestre, è cambiata, ha sicuramente acquisito sicurezza, si è aperta alle
maestre e ai suoi compagni, ha cominciato a sorridere molto spesso.
La classe II F era una classe composta da ventiquattro bambini, tra i quali un
bambino autistico che non rimaneva a scuola il pomeriggio, assistito costantemente
da una maestra di sostegno. L’unico bambino con genitori stranieri, filippini entrambi
in questo caso, era Emiliano. La prima generale impressione sembrava mostrare
Emiliano apparentemente inserito nella classe e in buoni rapporti con i compagni. La
prima cosa che le maestre hanno detto di lui è stata che non aveva nessun tipo di
problema, che era assolutamente inserito nella classe e che probabilmente si sarebbe
potuto dire pochissimo su di lui nell’ambito della ricerca. Effettivamente nessuno in
classe, per molto tempo ha mai sottolineato la diversità, perlomeno somatica, di
Emiliano.
In realtà questo tipo di atteggiamento -il non far caso alle diversità- non è, forse,
sempre un atteggiamento positivo. Infatti in questo modo si rischia di incoraggiare il
bambino straniero a nascondersi ancora di più, a mimetizzarsi perché sente che quello
che di diverso può portare non interessa a nessuno. Emiliano non è per niente uguale
ai suoi compagni, non sia altro che per il colore della pelle. L’atteggiamento, che sa
di buonismo superficiale, di chi sostiene che siamo tutti uguali è potenzialmente
pericoloso, rischia di soffocare le identità e di negare importanza alle differenze. Il
fatto per cui in classe non ci si sia interrogati e quindi non si sia parlato di Emiliano
non sottintende necessariamente una situazione tranquilla, rispettosa e aperta, ma
piuttosto una situazione sospesa in cui le maestre non hanno probabilmente saputo
gestire subito positivamente questa diversità con la quale tutte loro, e anche la classe,
dovevano confrontarsi e hanno scelto, visto il comportamento di Emiliano, di fare
finta di niente. C’ è stato un solo episodio in cui è venuto fuori un commento su
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Emiliano, fatto tra l’altro da una bambina che si era trasferita quell’anno in II F,
avendo frequentato la prima elementare in un’altra scuola: “[…] Giacomo mi ha
chiesto di dirgli una parola in greco, prima che riuscissi a parlare Emiliano ha urlato:
“Aloa!” Beatrice, che siede al banco davanti, ha esclamato: “Che è una parola
filippina?” e rivolta a me indicando Emiliano: “Lui è filippino”. Giacomo le ha
risposto urlando: “Guarda che Emiliano è italiano, è italiano!” Emiliano è rimasto in
silenzio.”5
Per l’amichetto del cuore di Emiliano, Giacomo, Emiliano perde addirittura la sua
parte straniera e diventa solo italiano, non solo, egli lo sgancia anche dai suoi genitori
riconosciuti, loro sì, come Filippini: “Mentre tutti gli altri lo hanno già fatto,
Emiliano non ha ancora portato le foto (nascita, un anno, tre anni, cinque anni) e il
certificato di nascita. Mentre io aiutavo Emiliano, Manuela controllava uno ad uno i
quaderni degli altri. Terminato il controllo, ha disegnato sulla lavagna un fac-simile
di certificato di nascita per farlo fare sul quaderno a chi non l’avesse portato. Ho
aiutato Emiliano e Carla a farlo e ho girato a richiesta tra i banchi. Quando è arrivato
il momento di scrivere il luogo di nascita nel finto certificato, accanto a Emiliano
c’erano Giacomo e Roberto. Mentre Emiliano stava ancora scrivendo “Nato a…”,
Roberto ha urlato: “Scrivi Roma, scrivi Roma!” e Giacomo: “Sì, sei nato a Roma.”
Ho chiesto loro se gentilmente potevano lasciargli fare il compito da solo. Emiliano
mi ha guardato, ha alzato le spalle e ha detto: “Ma io sono nato a Roma!” e Roberto:
“Emiliano non è filippino, non lo sa mica l’inglese! Emiliano è italiano, la mamma di
Emiliano è filippina” e Giacomo: “Sì, la mamma è filippina e non sa tanto bene
l’italiano, vero Emiliano?” Emiliano ha annuito. Roberto ha poi continuato: “Sì
perché si vede che Emiliano può essere filippino perché ha la pelle scura, ma
Emiliano è italiano, anche il papà è filippino”. Emiliano ha ascoltato la conversazione
dei compagni senza aprire bocca.”6
Emiliano faceva spesso delle assenze, era infatti un bambino delicato di salute, e la
mamma, Maria, si preoccupava sempre di riaccompagnarlo in classe dopo assenze
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prolungate e parlare con le maestre. Emiliano quindi sembrava essere un bambino
senza particolari problemi con una mamma molto presente e premurosa. Forse però,
dietro questa normalità, si poteva scorgere un’insofferenza per le sue origini filippine
espressa magari proprio con il rifiuto a parlarne e a svolgere lavori che in qualche
modo egli sentisse legati alla sua diversità.
Apparentemente Emiliano non aveva alcun problema, come insistevano nel dire le
maestre, ma in realtà sembrava essere un bambino estremamente confuso su chi fosse
e su cosa ci si aspettasse da lui. La sua identità filippina era assolutamente nascosta e
anzi, parlarne gli creava ansia certe volte e completa apatia in altre: “Manuela mi ha
detto che la scorsa estate Emiliano è andato nelle Filippine e che a settembre in classe
lei gli ha chiesto se avesse voglia di parlare di questo viaggio. Dopo questa proposta
Emiliano si è messo piangere e non ha risposto. […] Mentre lavorava -stava
scrivendo il luogo della sua nascita- gli ho chiesto se fosse mai stato nelle Filippine.
Lui ha risposto: “Sì, ci sono andato dopo la prima.” Io ho continuato: “Ah, ci sei
andato in vacanza o sei andato a trovare qualcuno?” E lui: ”No, tutti i miei parenti
stanno qui”. Allora io gli ho chiesto: ”E i nonni?” e Emiliano ha detto: “No, i nonni
stanno nelle Filippine”. Gli ho chiesto quante volte ci fosse andato e lui mi ha detto:
“Quando ero appena nato, quando ero piccolo e dopo la prima.” Gli ho chiesto anche
se gli andava di raccontarmi qualcosa delle Filippine poiché io non c’ero mai andata.
Emiliano ha bofonchiato qualche parola. […] Ho detto a Emiliano che ora era il suo
turno e che doveva parlarci delle sue vacanze nelle Filippine. Non ha raccontato
molto, ha detto che nelle Filippine c’è il mare, che si gioca a golf e a baseball e che si
mangiano cocco e banane. Gli ho chiesto se c’era andato con i suoi genitori e lui ha
risposto che c’era andato solo con il papà e che la mamma era rimasta a Roma. Gli
ho anche chiesto se le Filippine gli fossero piaciute e se volesse viverci. Mi ha
guardato e ha risposto: “Insomma “ alla prima domanda, e prima di rispondere: “No!”
alla seconda mi ha guardato come se gli avessi chiesto una cosa tanto ovvia che non
valeva la pena spenderci nemmeno una parola. Giacomo ha posto l’accento sul fatto
che Emiliano non sapesse parlare filippino. Ho chiesto a Emiliano se era vero e lui ha
annuito. Mi ha detto che non poteva sapere due lingue contemporaneamente,
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altrimenti si sarebbe confuso. […] Mi ha detto che voleva tanto andare in vacanza in
Grecia con la mamma e con il papà. Allora io gli ho chiesto come mai non volesse
invece tornare nelle Filippine, lui ha fatto una smorfia e ha detto che ci vogliono
diciotto ore d’aereo e che il secondo aereo che si prende fa tanto rumore e gli fa
venire il mal di testa.”7
Nel momento in cui in classe si è cominciato a lavorare sulla storia personale, sulle
storie metaforiche e sui giochi, Emiliano ha avuto sia reazioni di evidente disagio,
come il pianto, sia di estremo disinteresse che a volte diventavano netto rifiuto di
lavorare. Quando sono stati avviati questi lavori Emiliano, anche se si è cercato di
non farne il protagonista assoluto, si è accorto che in buona parte tutte le cose nuove
che si facevano nella classe, compresa una maestra nuova, erano legate a lui. Non ha
mai voluto parlare di sé per tempi accettabilmente lunghi e anche nei lavori didattici,
come le storie metaforiche, volte a far uscire allo scoperto pensieri e opinioni dei
bambini difficilmente esprimibili in modo diretto, non si è impegnato per niente,
anzi, appena avvertiva pericolo, si rifiutava direttamente di lavorare, come si diceva
prima. “Verso le 13:00 è arrivata anche Sara e ha portato le bambine in teatro per
provare il balletto della recita. Emiliano mi ha detto che in quell’ora si poteva
giocare, che “era come ricreazione”. Naturalmente la maestra Alessandra non era
molto d’accordo con questa affermazione, così ha richiamato all’ordine i bambini e
ha minacciato una lezione di matematica. A questo punto Emiliano si è messo a
piangere, Alessandra è subito andata a vedere cosa fosse successo e lui ha risposto
che voleva giocare e non voleva fare matematica. Alla fine i bambini hanno fatto un
gioco di matematica.[…] Emiliano non ha scritto nulla, non ha nemmeno iniziato a
lavorare. Mi sono seduta accanto a lui e gli ho spiegato di nuovo cosa dovesse fare.
Stava fermo sulla sedia e non mi guardava, non ha nemmeno preso in mano la matita.
Gli ho chiesto se ci fosse qualcosa che non andasse. Mi ha risposto di no. Gli ho
quindi proposto che avremmo potuto cominciare insieme a scrivere delle osservazioni
sulla storia. Mi ha detto che non sapeva cosa scrivere, ho un po’ insistito, ma non
diceva nulla. Allora gli ho chiesto quale dei personaggi della storia gli stesse più
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Ibidem
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simpatico. Mi ha detto che non lo sapeva, ma io gliel’ ho chiesto di nuovo. Niente.
Gli ho domandato se si sentisse più vicino a un personaggio in particolare della storia.
Ha detto di non saperlo. A questo punto gli ho domandato di nuovo se qualcosa non
andasse e stavolta mi ha risposto che era stanco. Io gli ho chiesto se era solo questo il
motivo per cui non volesse lavorare e Emiliano mi ha risposto che trovava questo
lavoro noioso e che non voleva farlo. Non c’è stato modo di fargli scrivere qualcosa.
Manuela mi ha poi detto che anche nel lavoro di inventare la fine della storia sul
ladro di giocattoli ha avuto infinite difficoltà. […] Mi sono seduta accanto a Emiliano
e gli ho mostrato il suo tema [sulla mamma] , gli ho chiesto se lo considerasse finito,
lui mi ha risposto di no. Allora gli ho proposto di finirlo in quell’ora, prima di andare
a mensa. […] E’ stato molto faticoso, diceva di non avere idee, io gli ho ricordato la
scaletta del tema e gli ho fatto delle domande sulla sua mamma (per esempio come è,
che lavoro fa, cosa ti piace di lei e cosa non ti piace, cosa vorresti dirle ecc.) ma
rispondeva sempre con un “non lo so”. Alla fine è riuscito a scrivere qualche riga, ma
è venuto fuori un tema estremamente superficiale. Si era dimenticato, a suo dire, di
scrivere che la sua mamma parla il filippino, aveva scritto che parlava italiano ed
inglese, poi l’ ha aggiunto. ”8
Una delle cose a cui Emiliano teneva molto però era assomigliare, o perlomeno
avere una famiglia che assomigliasse a quella del suo amichetto Giacomo, ovvero
avere una tata che lo venisse a prendere a scuola e avere un padre avvocato e una
madre avvocata, naturalmente neanche capendo bene che tipo di lavoro fosse quello
dell’avvocato. In realtà però in quella scuola era molto facile sentire il bisogno di
inventare lavori prestigiosi per i propri genitori, come abbiamo detto infatti la scuola
si trova in un bel quartiere di Roma e
la maggior parte dei bambini che la
frequentano indossano abiti di marca, fanno due sport e magari anche inglese, le loro
mamme sono belle ed eleganti signore e i loro papà fanno lavori importanti. Solo
nella classe di Emiliano c’erano alcuni figli di avvocati, una figlia di un’attrice
romana, una figlia di un’archeologa, la figlia di un’importante dirigente di
un’altrettanto importante casa discografica… Per qualunque bambino, anche con
8
Ibidem
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genitori italiani, sarebbe stato difficile confessare apertamente che i propri genitori
sono dei collaboratori domestici. “Mentre stavamo chiacchierando io gli ho chiesto se
sapesse quale lavoro facessero i suoi genitori. Giacomo, che nel frattempo si era
seduto accanto a noi, ha risposto che i propri genitori erano avvocati. Emiliano allora
mi ha detto che anche la sua mamma fa l’“avvocata” e che non ricorda il lavoro che
fa il padre. Quando siamo rimasti soli gli ho fatto di nuovo la domanda. Emiliano ci
ha pensato un po’ su, poi mi ha detto che in realtà sa che lavoro fanno i genitori, ma
non sa come dirlo. Gli ho detto che poteva cercare di spiegarlo, così saremmo riusciti
trovare le parole giuste. Ha detto che i suoi genitori “vanno nelle case e se ne
prendono cura, stanno nelle case degli altri e fanno quello che si deve fare nelle
case.” Ho chiesto poi a Emiliano chi lo venisse a prendere a scuola e lui ha detto:
“La tata!”, poi, forse per via della mia espressione si è corretto: “No! Viene papà!””9
Un’altra considerazione va fatta sul modo in cui Emiliano, sistematicamente, per
cinque mesi, abbia evitato, nei tempi e nei modi voluti dalle insegnanti, di svolgere le
interviste, completare le schede e portare le foto per ricostruire in un quaderno la sua
storia, il libro de La mia storia appunto. Sebbene sollecitato quasi quotidianamente
dall’insegnante di studi sociali, Emiliano ci ha messo moltissimo tempo per portare a
scuola le fotografie richieste e per completare le interviste ai genitori, mentre il
certificato di nascita, di cui era stato chiesto a tutti i bambini di portare una copia,
l’ha dovuto disegnare direttamente sul quaderno seguendo le indicazioni della
maestra. La giustificazione più frequente era quella per cui non poteva fare le
domande alla sua mamma perché lei non aveva mai tempo, visto che tornava tardi dal
lavoro. La signora, però, in uno dei colloqui con le maestre ha spiegato loro di non
aver mai saputo niente di questo lavoro e che avrebbe provveduto al più presto a
completare le schede.
9
Ibidem
11
3.2 I bambini non sono tutti uguali
“I bambini sono tutti uguali”, questa frase è stata pronunciata più volte dalle
maestre della II E
e della II F, riferendosi sia ai bambini loro alunni con genitori
stranieri sia ai bambini in generale. In realtà ogni bambino è unico, come lo è ogni
individuo e come sottolinea Benoist “l’atteggiamento omogeneizzante, che cancella
le differenze e la diversità culturale e le riassorbe in seno ad un’identità
trascendentale di tipo kantiano, sia essa spiritualista o materialista, ha per corollario
un ostacolo metodologico (…). Tale ostacolo consiste nel non lasciar sussistere le
differenze”10 e questo
è appunto il pericolo di cui si parlava nel paragrafo
precedente.
La tendenza della nostra società in questo momento si divide su questo argomento
in due correnti diverse, per alcuni aspetti anche opposte, ma che hanno in comune un
probabile fallimento: da una parte la società tende, come sottolineato da Benoist, ad
omologare differenze e fagocitare diversità culturali con il rischio - o l’intento - di
non far sopravvivere né le una né le altre, dall’altra invece tende ad esasperare le
differenze etniche, culturali, linguistiche che, in certe situazioni, come quella di
essere un bambino e voler essere accettato e avere considerazione e affetto da parte
degli altri, alimentano una tensione all’uguaglianza.
Sarebbe necessario dunque riflettere sulle categorie di alterità- identità e diversitàuguaglianza slegandole da una scala di valori che abbia i due estremi in presunte
superiorità o inferiorità, ma ancorandole piuttosto alla molteplicità delle relazioni
che, una società che va incontro alla multiculturalità, necessariamente intesse e cerca
allo stesso tempo di dipanare.
“ La diversità come risorsa diventa così l’approccio fondante di una educazione
interculturale intesa come progetto, come modalità dello sguardo che attraversa tutte
le discipline. In tale prospettiva la comparazione non avviene tra elementi
10
J. M. Benoist, Sfaccettature dell’identità, pp. 16-17, in C. Levi Strauss (a cura di ), L’identità , Sellerio, Palermo,
1980, citato in Giacalone, Paoletti, Perfetti, Zuccherini, L’identità sospesa. Essere stranieri nella scuola elementare,
Arnaud- CIDIS, Firenze, 1996, p.147
12
decontestualizzati, ma tra persone che, appartenenti a culture diverse, possono
mettere in risalto le proprie specificità come arricchimento reciproco, sul piano
cognitivo come su quello relazionale.”11
È la diversità come risorsa appunto che deve essere il punto focale dei progetti e
dei lavori interculturali che si intendano avviare nelle scuole e nelle classi.
Insomma, i bambini non sono tutti uguali e sicuramente meritano che i progetti
pensati per loro e per la loro classe e scuola dagli adulti esperti siano ideati per far
fronte alle loro esigenze. È infatti importante riuscire ad intervenire sia sulle
necessità più immediate del bambino, come un recupero linguistico se si è da poco
arrivati in Italia o la relazione con i compagni di classe e le insegnanti, ma anche su
quelle a lungo termine, come l’inserirsi in modo proficuo e più che mai sereno nel
paese che d’ora in avanti sarà il loro.
Durante la ricerca svolta in queste due classi elementari si è sentita la necessità di
inserirsi nelle attività quotidiana della classe
con proposte alle maestre. I due
bambini si sono trovati, loro malgrado, protagonisti di una serie di attività nuove per
la classe; in realtà nessun lavoro, attività, gioco o quant’altro è stato esplicitamente
rivolto verso di loro, ma probabilmente era loro chiaro che in tutto questo nuovo fosse
coinvolta la loro presenza in classe. Pensando a delle attività da svolgere con i
bambini si è quindi cercato di coinvolgere la classe intera, tutta insieme o a piccoli
gruppi, senza porre troppo al centro dell’attenzione i due bambini stranieri, per
evitare che non si sentissero a proprio agio.
Quando a gennaio si è cominciata la ricerca, c’erano una serie di lavori già avviati
dall’inizio dell’anno scolastico, così si è pensato di inserirsi direttamente nell’attività
curricolare della classe, proponendo alle maestre di poter lavorare con loro. Così,
dopo un breve periodo dedicato esclusivamente all’osservazione, si è deciso di
iniziare a lavorare con la maestra di studi sociali su due progetti già avviati: la mia
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Giacalone, Paoletti, Perfetti, Zuccherini, L’identità sospesa. Essere stranieri nella scuola elementare, ArnaudCIDIS, Firenze, 1996, p. 148
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storia, un quaderno contenente tutte le informazioni sulla vita del bambino, e il lavoro
sui giochi e giocattoli, che alla fine dell’anno scolastico sarebbe diventato il libro dei
giochi12. Si è tentato così di leggere in modo diverso i risultati di attività cosiddette
normali. Allo stesso modo si è lavorato con la maestra d’italiano proponendo una
serie di piccoli temi da far svolgere ai bambini, piccole composizioni che parlassero
della mamma, del papà, di se stessi. Si sono proposte poi alle insegnanti delle storie
metaforiche su cui far lavorare i bambini e delle storie da completare su vari temi.
Tutti questi lavori sono stati portati a termine nell’arco dei cinque mesi di ricerca.
3.3 Strategie
I bambini stranieri molto spesso elaborano strategie di sopravvivenza, ovvero
cercano di mettere in atto comportamenti che allo stesso tempo li salvino dalla
diversità che rappresentano e li riescano a mettere in relazione più facilmente con i
compagni e le insegnanti. Il comportamento più comune, forse, è quello del
mimetismo, atteggiamento attraverso il quale i bambini tentano di farsi il più
possibile simili ai loro amici di scuola, trasformandosi in silenziosi simulatori di
comportamenti da tutti considerati ovvi e, certe volte, addirittura prestigiosi. La
diversità di questi bambini è spesso motivo di esclusione dal gruppo, di
incomprensione da parte degli insegnanti e soprattutto di solitudine. Il mimetismo
assimilativo è di frequente incoraggiato, erroneamente, dagli insegnanti stessi che
credono di risolvere così, in modo piuttosto veloce e silenzioso, il problema
dell’integrazione e delle relazioni con le diversità quando invece il comportamento di
questi bambini nasconde soprattutto la paura di non essere accettati e compresi. Altre
volte, invece, i bambini stranieri tendono ad autoescludersi, a non cercare o
ricambiare contatti relazionali con i compagni e gli insegnanti e ad isolarsi. Questo
tipo di comportamento può talvolta sfociare in aggressività più o meno manifesta.
Come scrivono Camilletti e Castelnuovo “La negazione delle conflittualità emergenti
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Questi lavori, insieme ad altri prodotti nel corso di questa ricerca, sono alla fine di questo testo.
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può produrre reazioni di mascheramento o di aggressività. Il mascheramento si
verifica ogni qual volta i bisogni profondi del Sé non sono accolti nell’ambiente
circostante e il soggetto intuisce che l’unica condizione per essere accettato
è
l’adesione alle regole, non già l’espressione dei propri contenuti significativi.”13
Emiliano aspirava sicuramente ad ottenere un’assimilazione veloce e completa alle
abitudini, ai pensieri, al modo di vita dei suoi compagni. Al di là dell’abbigliamento
sempre alla moda e dell’ultimo videogame ci sono i suoi disegni, i suoi autoritratti, la
sua famiglia semi-inventata, il suo non voler mai essere ricollegato alla cultura
filippina. Dei lavori prestigiosi inventati per i suoi genitori si è già parlato, come
anche della tata e dell’assoluto distacco, perlomeno verbale, dalla sua famiglia
filippina. È interessante soffermarsi un attimo sui suoi autoritratti, sul modo, quindi,
in cui Emiliano vede se stesso: “Dopo la ricreazione è arrivata quindi una supplente
che, dopo aver ricondotto all’ordine la classe, ha fatto fare ai bambini quattro disegni,
sullo stesso foglio diviso con una croce. I disegni dovevano rappresentare: un
autoritratto, la cosa che so fare meglio, quello che mi piace fare, quello che non mi
piace fare. I bambini, probabilmente perché non avevano mai visto la supplente
mentre conoscevano me da due ore, hanno chiesto in molti e ripetutamente il mio
aiuto o la mia approvazione, anche Emiliano.
Emiliano si è seduto accanto a Davide. Mi è sembrato che andassero molto
d’accordo. Emiliano, prima di iniziare l’autoritratto ci ha pensato un po’, poi ha
deciso di copiare un autoritratto da lui già fatto per un altro compito. Davide a questo
punto è intervenuto e ha disegnato gli occhi di “Emiliano”, io ho chiesto a Emiliano
se non avesse voglia di disegnarseli da solo gli occhi giacché era il suo autoritratto.
Così ha cancellato gli occhi e li ha ridisegnati. Davide aveva disegnato degli occhi
molto sottili, anche nel suo stesso autoritratto, mentre Emiliano vede se stesso con
due occhini tondi.”14
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E. Camilletti, A. Castelnuovo, L’identità multicolore. I codici di comunicazione interculturale nella scuola
dell’infanzia, Franco Angeli, Milano, 1994, p.122
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Diario
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Emiliano, che disegna davvero molto bene, si vede come un personaggio dei cartoni
animati, Dragon Ball, muscoloso, alto, con la pelle chiara e due occhi enormi e tondi.
A volte ha variato il disegno vestendosi da calciatore, ma c’ è da dire che, disegnando
suo padre per un compito, lo ha rappresentato più o meno nello stesso stile,
vestendolo però da karateka. In realtà la televisione, e soprattutto i cartoni animati
che i bambini vedono, possono in un certo senso creare degli eroi a cui i bambini
vogliono assomigliare e Emiliano, che disegna così bene, riesce, più di altri
compagni, a rendere evidente il modello a cui si ispira per rappresentare se stesso. È
comunque vero anche che nessun’altro bambino ha disegnato un autoritratto che
fosse così immediatamente rapportabile ad un personaggio dei cartoni animati.15 Ad
ogni modo è l’atteggiamento stesso di Emiliano che fa pensare che lui stia tentando
in tutti i modi di passare inosservato: è un bambino tranquillo e educato, dolce, a
tratti anche silenzioso. Emiliano avrebbe forse voluto che i suoi genitori
assomigliassero di più a quelli degli altri bambini. Sicuramente non ama che la madre
cucini cibi filippini, odia andare con i genitori da amici filippini, dice, e la madre lo
conferma, di non avere amichetti filippini e soprattutto non vuole parlare delle
Filippine, non vuole essere associato in nessun modo ad esse.
Durante i mesi di osservazione in classe l’atteggiamento di Emiliano, come già
accennato, si è modificato. Probabilmente stava succedendo in classe proprio quello
per evitare il quale lui aveva lavorato così costantemente, un interesse per i suoi
eventuali racconti, per i suoi ricordi e per la sua famiglia che veniva da lontano.
Così Emiliano è passato da un atteggiamento il cui scopo era di non distinguersi dai
suoi compagni di classe ad un atteggiamento più aggressivo e nervoso. Il bambino è
infatti passato da una situazione di calma, nella quale nessuno si interessava alla sua
storia e a quella dei suoi genitori, cosa che lo rendeva tranquillo, ad un’altra in cui
buona parte dell’attenzione della classe e delle maestre era rivolta verso di lui. Il
bambino ha così cominciato ad essere nervoso, irascibile e a rifiutare addirittura di
lavorare in classe, si è probabilmente accorto di essere lui il centro e, forse, anche la
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L’autoritratto di Emiliano, come pure quelli di Anna, si trovano alla fine di questo lavoro.
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motivazione, dei lavori in classe a causa proprio delle sue origini filippine.
Probabilmente questa situazione lo ha un po’ disorientato, infatti Emiliano, più che
cercare occasioni per parlare di sé, ha sempre cercato di sfuggirle, come ha sempre
cercato di confondersi con gli altri compagni più che sottolineare la sua diversità.
L’atteggiamento di Anna, invece, assomiglia più a quello di una persona che si
accorga di possedere qualcosa, se non in più, perlomeno di diverso ed originale. Anna
infatti non aveva bisogno di mettere in atto troppe strategie di difesa, a lei, in un certo
senso, bastava non dire tutto della sua vita per apparire uguale ai suoi compagni.
Perciò lei ha continuato, nel tempo, a nascondere la nazionalità della sua mamma e i
propri legami così stretti con la Romania, credendo che non fossero importanti e che i
suoi compagni l’avrebbero solo presa in giro, senza interessarsi veramente a lei.
Dopo l’inizio della ricerca e dei colloqui informali con la bambina, Anna ha
cambiato quell’atteggiamento, quasi impaurito, con il quale cercava di negare i suoi
legami con la Romania. Si è resa conto infatti che, da quando in classe ormai tutti
conoscevano la sua storia, lei era diventata più interessante agli occhi dei compagni
che avevano cominciato a farle mille domande. La bambina, invece di nasconderla, è
diventata orgogliosa di conoscere la cultura romena e, forse di più, di parlarne ancora
la lingua. Nel complesso Anna è diventata, ma lo si è già detto, più serena, più
aperta, visibilmente più a suo agio con gli altri.
Anche nel disegnare se stessa Anna ha fatto grandi cambiamenti. All’inizio dell’anno
scolastico infatti si ritraeva in modo alquanto infantile, con una testa tonda che
sovrastava un corpo cilindrico da cui partivano le braccia e
un blocco che
rappresentava i piedi uniti. Alla fine dell’anno invece si è disegnata in modo più
preciso, e più somigliante: una grande testa con i suoi capelli lisci sopra le spalle, un
corpo discretamente proporzionato, una maglietta, il suo inseparabile ciondolo dei
Pokemon, un paio di pantaloni sopra due gambe ben distinte e, soprattutto, un grande
sorriso. Questi due autoritratti possono forse rappresentare due Giulie diverse: il
primo, disegnato all’inizio dell’anno scolastico ci fa pensare ad una bambina chiusa
che ancora non riesce ad esprimersi interamente. Il secondo invece, fatto a giugno, ci
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fa pensare ad una bambina più serena che è riuscita a costruire nuove relazioni con i
compagni e con le maestre e che, forse, vede se stessa in modo diverso rispetto a
quanto facesse prima. Questo cambiamento di Anna è avvenuto in modo graduale,
ma deciso. La bambina infatti, al contrario di Emiliano, ha apprezzato molto
l’interesse che la classe dimostrava per la sua mamma, tanto da farla sentire
orgogliosa della sua parte romena. Attraverso questi lavori Anna ha imparato insieme
ai compagni a considerare come una ricchezza, e non più come qualcosa di cui ci si
debba vergognare, il fatto di avere una doppia appartenenza, di parlare due lingue e di
avere una mamma che ha una storia diversa rispetto alle mamme degli altri bambini
della classe.
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