DAL BEN-AVERE AL BEN-ESSERE Per una
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DAL BEN-AVERE AL BEN-ESSERE Per una felicità pienamente umana PRESENTAZIONE A cura di Emanuele Bignamini e Alberto Arnaudo Abbiamo deciso di aprire il nostro numero monografico riproducendo, per gentile concessione dell'Autore e dell'editore, uno dei capitoli del libro di Stefano Bartolini1 "Manifesto per la felicità. Come passare dalla società del benavere a quella del ben-essere". Ed. Donzelli 2010. Il capitolo tratta di quali dovrebbero essere le politiche per la salute nel mondo moderno, e tocca quindi molto da vicino, seppure da un punto di vista generale, la riflessione che intendiamo promuovere in questa monografia. Crediamo che questo autorevole intervento sia ideale per invitare da subito i lettori a porsi in una prospettiva mentale la più ampia possibile perché, a nostro parere, senza tale disposizione nessun "servizio", comunque articolato, che si voglia progettare per la prevenzione e cura delle patologie da dipendenza godrà mai della prospettiva necessaria ad affrontare con efficacia i problemi che generano tali patologie e che da tali patologie vengono a loro volta generati. Le argomentazioni di Bartolini sono estremamente suggestive, e meritano a nostro parere approfondito studio e meditazione. Il modo in cui l'autore sviluppa la dialettica tra ben-avere e ben-essere (che ha visto nel tempo i contributi di importanti autori, tra cui ricordiamo Erich Fromm e Ivan Illich), tra merci e relazioni interpersonali e sociali o, in un gergo che appartiene di più al nostro contesto, tra beni e servizi alla persona, ci permette di ricavare alcuni elementi di riflessione di primaria importanza per il settore delle dipendenze. 1) Richiamiamo il fatto che la dipendenza è una patologia della/nella relazione soggetto-oggetto; coinvolge la persona in tutte le sue dimensioni (costituzionale, biologica, intrapsichica, interpersonale, sociale) e si esprime in un "legame "patologico il cui superamento è teatro e finalità di tutti gli interventi terapeutici. a) In quanto strutturata anche in ordine alle esperienze sociali (che, come ormai accettato, hanno effetti neuroplastici e influenzano l'espressione genica), la patologia da dipendenza è in stretto rapporto anche con il clima relazionale collettivo: il sistema educativo, il clima politico, la fiducia nel le istituzioni, le opportunità di relazioni e di lavoro, l'organizzazione urbana. Ad esempio, al contesto sociale, e in particolare alla crescita della potenza e della pervasività dei sistemi di influenzamento delle masse e all'aumento dell'offerta degli oggetti di consumo, si può riferire in parte significativa il cambiamento dello stile tossicomaniaco che abbiamo osservato negli anni: da ricerca di alternative al sistema dominante con forte valenza trasgressiva e sconfinamento in aree inesplorate e proibite, all'attuale inglobamento dell'offerta di droga nel sistema economico, consumistico e pubblicitario e la corrispondente adesione, da parte del consumatore, ai miti sociali. La droga, in particolare gli stimolanti che oggi sembrano prevalere, è oggi mezzo più o meno consapevolmente usato per raggiungere (o supplire al non raggiungimento di) adeguati livelli di godimento dei beni di consumo offerti. Il piacere istantaneo, ottenibile attraverso il potere di acquisto del denaro, è ciò che la società oggi propone come il miglior surrogato possibile della felicità (cfr. Natoli). Su questo scambio equivoco, il piacere per la felicità, si reggono sia il sistema economico occidentale (che invoca la "ripresa dei consumi" come panacea dei mali che ci affliggono e che insegue lo sviluppo e la crescita infiniti) sia il meccanismo psicopatologico che alimenta la dipendenza. b) Da quanto sopra, risulta evidente che curare il soggetto tossicodipendente vuol dire tentare di modificare i suoi equilibri biologici, psicologici e sociali in una direzione che prevedibilmente diverge da quella in cui si muove la collettività dei "sani" (sani, forse, ma a rischio di infelicità, come argomenta Bartolini). La terapia nel suo complesso tenta di orientare la persona verso mete di vita più autentiche, criticando il paradigma "piacere al posto di felicità" e aprendo così una dialettica sostanzialmente conflittuale tra individuo e società dei consumi. c) Tale dialettica coinvolge anche l'organizzazione di cura: se il Servizio non si appiattisce solo sugli aspetti tecnologici (il farmaco), cosa che consentirebbe di far rientrare dalla finestra la logica della "merce che dà la felicità", ma si propone una alleanza con il paziente per la ridefinizione del suo stile di vita, ecco che non può evitare la critica valoriale al sistema sociale e, quindi, esporsi alla critica di "fare politica". Questo topos è il nodo irrisolto, ad esempio, degli interventi di educazione sanitaria e di prevenzione primaria: che senso ha insegnare che si deve esercitare il pensiero critico, fare scelte autonome, perseguire il proprio benessere autentico senza farsi ingannare dalle "sirene", quando ciò che è richiesto e che fa funzionare il sistema sociale è il consumare i prodotti che vengono proposti? Nella scuola, ad esempio, dove si svolgono la maggior parte degli interventi di prevenzione, agli studenti è sempre più richiesto un atteggiamento "muto e rassegnato", alimentato dall'ansia della disoccupazione (prefigurata dal numero 1 Professore associato di Economia Politica presso la Facoltà di Economia dell'Università di Siena. 1 chiuso all'università), e quindi dalla necessità di non esprimersi creativamente in autonomia, ma di accettare l'eterodirettività. Sarebbe interessante studiare quale mercato di sostegno alla performance si stia sviluppando anche in Italia, e non solo come "ripetizioni" (o, peggio, come scuole fittizie, che mimano la performance: i "diplomifìci"). Diversamente dai Giapponesi, che affrontano lo stress moltiplicando l'impegno e il sacrificio, in Italia sembra prevalere il codice materno iperprotettivo, ma anche come consumo indotto, spesso dai genitori stessi, di farmaci stimolanti la memoria, le funzioni cerebrali, lo stato energetico: varianti blande e legalissime degli stimolanti veri, che attendono gli universitari e i professionisti, quasi anello di congiunzione tra il latte materno e la cocaina. 2) Date le caratteristiche della patologia (che qui non si possono approfondire), nelle dipendenze la relazione è sia il problema nodale sia lo strumento terapeutico essenziale: attraverso il rapporto con il Servizio e con il terapeuta, il paziente sperimenta e ridefinisce i suoi nuovi "sensi " e i suoi nuovi significati. Ecco che il Servizio per le dipendenze risulta un servizio ad alto contenuto tecnico (la capacità di gestione di relazioni complesse, affollate da soggetti e oggetti diversi), ma a basso valore tecnologico (impiego di "macchine" praticamente nullo): le capacità professionali richieste sono altamente specialistiche e raffinate, ma gli oggetti materiali usati per la cura sono pochi e a basso costo. a) In una cultura economica come quella tratteggiata da Bartolini, il basso valore tecnologico corrisponde a un basso valore assoluto (cfr. Galimberti): il valore del professionista è dato dalla complessità e dal costo degli strumenti che utilizza. Da qui uno degli elementi da cui deriva il basso status sociale dei Servizi per le Dipendenze e la modestissima attenzione che la Società riserva ai professionisti del settore (ad esempio, non esiste la disciplina universitaria specialistica). b) Inoltre, dato il tipo particolare di attività e di prestazioni, fortemente informato dalla attenzione alla relazione con la persona, l'organizzazione di cura diventa un "oggetto misterioso", sfuggente per quei manager che si riferiscono a tutt'altri parametri dì produzione; ne consegue un range abbastanza ristretto di atteggiamenti dei vertici aziendali e regionali verso i Servizi delle dipendenze, che in genere va dall'aperto scetticismo sulla loro utilità al maneggiare cautamente un ordigno che non si sa bene come funzioni. In questa prospettiva, appare logico il tentativo, sempre e costantemente in atto a prescindere dalle ideologie di chi governa, di "disperdere" i Servizi per le dipendenze in contenitori più familiari ai gestori e ai programmatori, con lo scopo di togliersi di davanti il problema: una razionalizzazione, certo, ma non sul piano organizzativo, quanto piuttosto nel senso psicodinamico di un espediente di difesa che rimuove l'ansia personale suscitata da un oggetto poco conosciuto e difficilmente ancorabile e riducibile alle logiche abituali. 3) Tuttavia, i Servizi per le dipendenze sono organizzazioni di servizi alla persona che, come tali, possono essere descritti, valutati nella loro qualità, e razionalizzabili (un significativo esempio di questo è proposto dal Servizio per le Dipendenze di Trento in questa pubblicazione); ma rimangono dei Servizi in cui la personality intensity (cioè la qualità delle persone che vi operano, data dalla formazione, dalle caratteristiche umane e dalla motivazione specifica. Cfr Normann) ha un peso assolutamente prevalente su altri fattori. Non si tratta di Servizi "ineffabili", autoreferenziali, che si sottraggono alla logica gestionale: si tratta di Servizi che mettono alla prova la logica manageriale scontata, fatta solo da elementi finanziari che vengono preferiti perché gli altri fattori sono difficili da rilevare e maneggiare o, peggio, perché agli altri non si riconosce importanza. Si tratta di Servizi che propongono logiche diverse ai propri pazienti, alla società e al management. a) Questa è una ricchezza per la Società e per il sistema di gestione dei Servizi Sanitari: il forte in vestimento sulla tecnologia e sui "prodotti" che servono per la salute, accompagnato dalla mitologia imperante sulla scarsità delle risorse (le risorse non sono "poche" in termini assoluti: lo sono in riferimento alle finalità, alle metodologie e alla allocazione. Affermare qualcosa sulla quantità e sulla congruità delle risorse vuol dire dichiarare la propria filosofia: non si parla mai di denaro, ma sempre di finalità e valori) fa correre il rischio che il vero capitale dei Servizi Sanitari venga depauperato e sprecato: la tutela della salute collettiva è rappresentata dal prendersi cura del benessere delle persone. Se si deve "decidere" e "agire" senza tenere conto di questo fattore, rappresentato dai cittadini e dai pazienti e dagli operatori che costituiscono il sistema di assistenza, ci si pone in una logica che non è quella della salute. Il fatto che esista un filone di studi economici che converge con la logica che i Servizi per le dipendenze (non per scelta ideologica, ma per necessità pragmatica e terapeutica, quindi coerentemente con il mandato sociale che hanno ricevuto) hanno sviluppato più di ogni altro Servizio sanitario in questi anni, dà credibilità a quanto finora fatto e offre l'opportunità di nuovi ponti e nuove sinergie. Ringraziamo ancora il professor Bartolini per aver messo a disposizione dei lettori di Dal Fare al Dire il suo pensiero in merito. 2 COME MIGLIORARE LA SALUTE? Cosa dovremmo fare per migliorare la salute di una data popolazione? Molti penserebbero che aumentare la sua ricchezza e soprattutto la sua spesa sanitaria sia una risposta ragionevole. Invece è sbagliata. Per illustrarlo Wilkinson e Picket fanno il seguente esempio. Chi ha la speranza di vita più lunga tra John, il neonato medio americano, e Yannis, il neonato medio greco? Il reddito della famiglia di John è il doppio di quello del la famiglia di Yannis. Inoltre la spesa sanitaria pro-capite americana è il doppio di quella greca. Infine negli Stati Uniti il numero di apparecchiature di scansione per abitante è sei volte quello greco. Ci aspetteremmo quindi che Yannis tendenzialmente campi meno di John. Invece la speranza di vita di John è 1,2 volte più bassa di quella di Yannis. Questo esempio illustra un problema più generale, cioè il fatto che confrontando i vari paesi non c'è alcuna relazione tra la speranza di vita e la spesa sanitaria. Tale spesa è quella che il settore pubblico e i privati sostengono per prevenire e curare le malattie. La spesa sanitaria pro-capite negli Stati Uniti è circa il doppio di quella svedese e quasi U triplo di quella giapponese ma la vita media è più breve di quasi 5 anni di quella giapponese e di circa 3 di quella svedese. FELICITA'E SALUTE Perché un paese che spende in salute più di un altro può avere risultati peggiori in termini di salute? L'epidemiologia ha delle risposte a questa domanda. L'epidemiologia è la scienza che studia le determinanti della salute negli individui e nelle popolazioni. Nell'Ottocento essa si concentrò sulle malattie infettive, che erano allora la prima causa di morte. L'evidenza pro dotta dagli epidemiologi generò il «movimento sanitario» che si batteva per il miglioramento delle condizioni sanitarie della popolazione. Nacquero così nei quartieri poveri delle città le reti fognarie, la raccolta dei rifiuti, i bagni pubblici, migliori abitazioni. Questi quartieri cominciarono a perdere il loro aspetto dickensiano e la vita media fino ad allora molto breve si allungò sostanzialmente. Quando nel corso del Novecento le infezioni smisero di essere la prima causa di malattia e morte, passando il testimone alle patologie cardiovascolari e ai tumori, gli epidemiologi individuarono la via al miglioramento della salute nell'incoraggiare stili di vita sani che evitassero i fattori di rischio. Il mantra dell'epidemiologo divenne: evitare il fumo, l'alcool, le diete grasse, la sedentarietà ecc. La terza fase dell'epidemiologia ha cominciato a prendere vita nella seconda metà del Novecento, quando l'attenzione si è spostata su altri fattori di rischio, quelli detti psicosociali. Si è scoperto che la felicità influisce direttamente sulla salute e la longevità2, che il pessimismo, la percezione di non controllare la propria vita, lo stress, i sentimenti di ostilità e di aggressione verso gli altri sono fattori di rischio molto rilevanti. Si è scoperto ad esempio che il rischio di malattie cardiovascolari (la prima causa di morte nei paesi ricchi) è doppio tra le persone affette da depressione o malattie mentali e una volta e mezzo per le persone generalmente infelici (Keyes 2004). Gli effetti del benessere sulla salute sono stimati come più ampi di quelli derivanti dal fumo o dall'esercizio fisico (Levy 2002). Anche la percezione della propria salute peggiora col diminuire della felicità. Questo non corrisponde necessariamente a una peggior salute oggettiva, ma le persone con una cattiva percezione della propria salute creano comunque una pressione sul sistema sanitario, in termini di impegno e spese diagnostiche (Argyle 2001). Qualunque medico del Ssn testimonierà che il suo incubo sono gli ipocondriaci e gli anziani isolati, che spesso ricorrono al medico perché è una delle poche persone con cui possono parlare. LA CURA SOCIALE Nell'individuare i fattori psicosociali di rischio gli epidemiologi hanno da decenni messo gli occhi sulla povertà dell'esperienza relazionale. Infatti la consapevolezza dell'importanza delle relazioni per il benessere che gli economisti stanno 3 cominciando ad acquisire di recente, è giunta da decenni tra gli epidemiologi . I medici sembrano avere accumulato un ritardo ancora più grande di quello degli economisti. Se fossero piena mente coscienti delle scoperte dell'epidemiologia, quando ci fanno una visita di controllo ancor prima di misurarci la pressione, palpato l'addome, chiesto informazioni sulla nostra dieta, l'attività fisica, il fumo dovrebbero chiederci: hai molti amici? Sei soddisfatto dei tuoi rapporti con loro? E con il tuo partner amoroso? Frequenti gruppi o associazioni volontarie? Quanto sono importanti per te? Tendi a fidarti degli altri? Soltanto se le nostre risposte indicano che abbiamo una vita affettiva e sociale molto ricca essi dovrebbero congratularsi e incoraggiarci dicendoci che stiamo facendo la cosa giusta per campare sani e a lungo. Infatti un'alluvione di ricerche cominciata negli anni settanta e mai più fermatasi ha documentato che un fattore di rischio molto importante per la salute è la povertà relazionale (Berkman - Glass 2000; Stanfeld 2006). Avere amici, relazioni amorose, appartenere a gruppi e associazioni, avere identità e supporto sociale sono la migliore tutela della salute. L'integrazione sociale ha un grande impatto sulla salute pubblica. Inoltre lo stress, nelle prime fasi della vita persino prenatale ha un'importanza significativa sullo sviluppo fisico, emotivo, cognitivo, e sulla salute per tutta la vita4. Tanto per fare qualche esempio, uno studio della 2 3 4 Negli anni trenta venne chiesto a un gruppo di giovani suore di scrivere brevi autobiografie. Queste ultime sono state dì recente analizzate sotto il profilo delle emozioni espresse. E stata trovata una forte correlazione tra l'ammontare di emozioni positive e la longevità delle suore. Il 90% del quarto delle suore che avevano espresso le emozioni più positive erano ancora vive all'età di 85 anni, mentre solo il 34% del quarto che aveva espresso le minori emozioni positive lo erano. Si noti che le suore avevano avuto uno stile di vita molto simile, ad esempio per quanto riguarda alimentazione e standard di vita (Danner - Snowdown - Friesen 2001) Oltre alla povertà relazionale un altro grande fattore psicosociale di rischio individuato dagli epidemiologi è la diseguaglianza dei redditi. La mortalità e la morbilità tendono ad aumentare con l'aumento della diseguaglianza e la speranza di vita tende a diminuire (Wilkinson - Pickett 2009). È probabile però che una parte del l'effetto della diseguaglianza passi attraverso la distruzione dei legami sociali. Infatti società più diseguali tendono a mostrare minor coesione sociale e relazionale. Due magistrali rassegne di queste ricerche sono contenute in Jetten, Haslam, Haslam, in corso di stampa e Wilkinson - Pickett 2009. 3 Columbia University mostra che i pazienti infartuati che sono socialmente isolati hanno una probabilità quasi doppia di avere un altro infarto entro 5 anni, rispetto ai pazienti con una ricca vita sociale. Essere isolato dagli altri ha un impatto sulla probabilità di avere un nuovo infarto molto più alto dei fattori di rischio classici, come avere malattie dell'arteria coronarica o essere inattivo fisicamente (Jetten - Haslam - Haslam). Questi effetti non riguardano solo coloro che hanno problemi di salute seri. Uno studio della Harvard School of Public Health che ha seguito oltre 16000 anziani per un periodo di sei anni rivela perdite di memoria significativamente minori in coloro che sono socialmente più integrati e attivi. L'isolamento sociale rende la gente più vulnerabile persino al raffreddore. La gente più isolata ha una probabilità doppia di prendere il raffreddore rispetto a quella più socievole, anche se questi ultimi sono verosimilmente molto più esposti ai germi (Cohen 2005). Altri studi hanno mostrato che le ferite si rimarginano più velocemente in coloro che hanno buone relazioni coniugali. Inoltre Putnam (2004) mostra che se non appartieni a nessun gruppo volontario, e decidi di partecipare a uno di essi, riduci del 50% la tua probabilità di morire entro un anno. Confrontando gli Stati americani, la partecipazione media ad associazioni volontarie predice i tassi di mortalità medi, la mortalità infantile, nonché i decessi per corona ropatie e tumori (Kawachi, Kennedy, Lochner, ProthowStith 1997). Similmente un indice della salute negli Stati americani è fortemente correlato a vari indicatori della socialità (Putnam 2004)*. IL BENESSERE COME PREVENZIONE La ricerca epidemiologica ci fornisce dunque una risposta a domande del tipo: perché Yannis ha una speranza di vita sostanzialmente più lunga di John? Tale risposta è che la salute delle popolazioni di paesi con un'assistenza sanitaria di prim'ordine può essere gravata da fattori di rischio psicosociali, primo fra tutti la povertà relazionale. Nel 2005 i medici inglesi hanno prescritto 29 milioni di ricette di antidepressivi, per un costo complessivo di 400 milioni di sterline a carico del servizio sanitario nazionale. Nel 2003 gli Stati Uniti hanno speso la cifra di 100 miliardi di dollari per curare le malattie mentali dei propri cittadini (Wilkinson 2009). Tanto per dare un'idea della dimensione di questa cifra sbalorditiva, si tratta di varie volte il costo del tunnel sotto la Manica, la più grande opera pubblica mai realizzata. Il malessere costa. La medicalizzazione del disagio è uno degli aspetti di una società che tende a credere che i problemi siano risolvibili comprando la cosa giusta. La psichiatria da questo punto di vista ha imboccato una deriva che la rende membro a pieno titolo della cultura del consumo così come delle delusioni che essa genera. Ogni generazione pensa di avere trovato il suo Sacro Graal, quell'antidepressivo che ci consente di alleviare le pene del vivere senza distruggerci la vita. Freud credette di averlo trovato nella cocaina. A metà del XX secolo gli psichiatri credettero di averlo trovato prima nelle anfetamine e poi negli antidepressivi triciclici. Verso la fine del secolo Prozac e simili erano divenuti il Sacro Graal, giusto prima di scoprire che danno dipendenza, comportamenti suicidari, e che non sono più efficaci dei placebo. Generazione dopo generazione si scopre che il Sacro Graal di turno merita di essere riposto nel cassetto degli errori, come l'elettroshock e la psico-chirurgia. Comunque, per quanto grandi, le cifre del giro d'affari dei trattamenti psichiatrici catturano una porzione molto piccola della spesa sanitaria generata dal malessere. Alla luce del vasto impatto del benessere e delle relazioni sulla salute complessiva la scomoda conclusione è che la sanità è lo scarico del lavandino del malessere di una società. In questa prospettiva una porzione importante della spesa sanitaria è un esempio paradigmatico delle spese difensive che alimentano la crescita negativa. Un'organizzazione sociale che produce danni al benessere genera spese. Quanto detto ha implicazioni molto forti per rispondere alla nostra domanda iniziale su come migliorare la salute. Una spesa sanitaria elevata può essere la conseguenza di un peggioramento del benessere e non un modo per migliorare la salute. La salute è un problema di benessere e il benessere è un problema di socialità. Un miglioramento delle relazioni può avere un impatto benefico sulla salute e la spesa sanitaria. Dunque la principale prevenzione delle malattie dovrebbe essere fatta al di fuori dai sistemi sanitari, cioè promuovendo il benessere. Le società avanzate sono gravate da una distribuzione sbagliata delle spese per la salute, che privilegia quelle per la cura a danno di quelle per la prevenzione. Questo distribuzione sbagliata è strettamente connessa agli incentivi economici prodotti da una economia di mercato. Nessuno vende qualità della vita ma molti vendono rimedi ai danni provocati dalla sua scarsa qualità. Gli incentivi economici conducono anche ad attribuire un peso eccessivo ad una idea di prevenzione basata sugli screening di massa. In realtà la prima forma di prevenzione è intervenire sul benessere attraverso politiche sociali e culturali mirate. Ma le imprese farmaceutiche vendono test diagnostici e non politiche per il benessere. Questo meccanismo produce sprechi immensi. Spendiamo in un modo che crea malessere e poi spendiamo per riparare i danni prodotti dal malessere. DALLA CURA DELLE MALATTIE A QUELLA DEI MALATI * Perché il benessere influenza la salute Il corpo umano è una macchina straordinaria nel reagire a quello che viene chiamato lo stress acuto. Quando siamo coinvolti da un evento stressante nel nostro organismo si attiva una reazione detta di «combattimento e fuga». Una secrezione di ormoni da parte delle ghiandole surrenali permette dì rilasciare l'energia accumulata, il sistema immunitario si attiva, i vasi sanguigni si restringono, il cuore e i polmoni aumentano la loro attività, i fattori di coagulazione aumentano nel sangue per riparare eventuali ferite, il cervello diviene più reattivo e riduce la percezione del dolore. Questa reazione è salutare se termina rapidamente ed è invece dannosa se diventa cronica. Il cervello diminuisce la memoria, le funzioni cognitive e aumenta il rischio di depressione e di insonnia, il sistema immunitario si deteriora, la costrizione cronica dei vasi sanguigni aumenta il rischio di ipertensione e malattie cardiovascolari, le funzioni digestive e sessuali divengono soggette a vari disturbi. Insomma la biologia dello stress ci dice che il problema non è lo stress ma lo stress cronico. Lo stress cronico ci consuma (Wilkinson - Pickett 2009). 4 L'approccio relazionale delineato in questo libro ha forti implicazioni anche su come la fase della cura dovrebbe essere attuata. La qualità relazionale dovrebbe essere centrale nel rapporto medico-paziente data l'importanza di quest'ultimo non solo per la prevenzione delle malattie ma anche per il benessere del malato e l'efficacia terapeutica. La qualità relazionale ha speciale importanza nel caso di malattie gravi o addirittura incurabili, in cui il medico ha a che fare con pazienti impauriti, depressi e angosciati, e per questo forte mente sensibili al clima relazionale che li circonda. L'aspetto relazionale è invece del tutto assente nella formazione dei medici, che sono istruiti ad avere a che fare con malattie e non con malati. I medici dovrebbero essere formati alla comprensione degli aspetti relazionali e psicologici del modo in cui i pazienti sono trattati. I pochi studi sull'argomento confermano che questi aspetti sono fondamentali per l'efficacia terapeutica. Ad esempio Williams e altri (2000) mostrano che quando lo staff medico è empatico e coinvolge i pazienti nelle decisioni questi mostrano una migliore salute fisica e psicologica, minori visite, comportamenti più orientati alla salute, maggiore aderenza alle prescrizioni terapeutiche e una maggiore soddisfazione per la terapia. Anche la mancanza di attenzione agli aspetti relazionali del rapporto medico-paziente è un effetto degli incentivi economici. Le imprese farmaceutiche non possono vendere qualità relazionale, vendono medicine, e quindi non c'è progresso della conoscenza sugli aspetti relazionali della terapia. Questo è il motivo della scarsità di studi sull'argomento. La conoscenza progredisce con difficoltà quando riguarda oggetti che non sono vendibili. LA CONOSCENZA MEDICA Ho discusso in precedenza le difficoltà esistenti a trasformare i beni in merci, cioè a trasformare ciò che ci serve per soddisfare i nostri bisogni in un oggetto vendibile. La conoscenza era stata portata come esempio di rilievo. Per millenni la conoscenza è stata incorporata più nelle persone che negli oggetti. E la trasmissione della conoscenza è stata basata su meccanismi non di mercato, ampiamente fondati su vincoli affettivi, come quelli comunitari o tra genitori e figli. Poi la conoscenza è divenuta vendibile e invece di destinare risorse alla sua diffusione si è cominciato a destinarle a impedirla. Questo sistema ha però largamente funzionato perché l'epoca moderna ha prodotto un'accelerazione impressionante del ritmo del progresso tecnologico. In altre parole, l'effetto positivo degli incentivi alla produzione della conoscenza si è dimostrato più importante dell'effetto negativo di quelli all'esclusione da essa. Ad esempio gli incentivi di mercato a produrre conoscenza medica hanno generato medicine fondamentali per la nostra salute, la nostra longevità e il nostro benessere. E questo ha reso l'industria farmaceutica un'attività prospera e fiorente che produce fette importanti del Pil dei paesi ricchi. Ma affidarsi esclusivamente agli incentivi di mercato alla produzione di conoscenza non funziona in tutte le condizioni, funziona soltanto finché la produzione di conoscenza in forma vendibile si dimostra una strada largamente praticabile. L'industria farmaceutica ha prodotto innovazioni di grande utilità sociale finché il programma di ricerca basato sulla chimica è stato capace di produrre innovazioni. La chimica è la scienza ideale per rispondere agli incentivi economici perché le nuove molecole sono brevettabili. Ma produrre nuove molecole che dimostrino effetti terapeutici migliori di quelle già esistenti è sempre più difficile. Il ritmo dei brevetti è andato progressivamente calando negli ultimi decenni. Il programma di ricerca medica basato sulla chimica volge ormai al tramonto. È pensabile che ci siano forme di terapia efficaci ma che non sono vendibili. Immaginate ad esempio che sia possibile prevenire il cancro seguendo una certa dieta. Questa scoperta genererebbe un beneficio immenso per l'umanità ma nessun vantaggio per il suo scopritore. Le prescrizioni di una dieta possono viaggiare gratuitamente su internet. Per questo le spese per la ricerca di diete di questo tipo sono una frazione minima di quelle destinate ad esempio a nuovi chemioterapici e o più efficaci radioterapie. Nonostante sia ormai chiaro che la soluzione del problema del cancro non verrà da esse. Non sto ovviamente sostenendo che la cura del cancro sia una dieta, sto dicendo che se lo fosse probabilmente non lo sapremmo mai. È possibile dunque che il progresso futuro della medicina risieda largamente nell'espansione della conoscenza relazionale, in una formazione empatica dei medici, nella ricerca in forme di terapia non vendibili e non solo in massicci investimenti nella tradizionale ricerca farmaceutica. Da questo punto di vista l'enormità del settore farmaceutico tradizionale, dominato da grandi multinazionali, appare ormai uno spreco sociale alla luce del tramonto delle prospettive innovative della chimica. Si tratta di dinosauri che dovrebbero ridimensionar si. Ma questi dinosauri sono molto restii a ridimensionare la loro ingombrante presenza e reagiscono alla loro crisi in modi che possono essere una pericolosissima fabbrica di malessere. La ricerca si indirizza ad abbassare le soglie oltre le quali si viene dichiarati malati. Visto che è difficile produrre nuove medicine si producono nuovi malati. Inoltre propone la medicalizzazione di ogni disagio. E l'estensione irragionevole dei test. La nuova frontiera è produrre nuovi test e imporre screening di massa. La situazione è aggravata dal naufragio della ricerca pubblica sull'argomento. Da un lato le università pubbliche hanno fronteggiato una crescente carenza di finanziamenti, da un altro i costi della ricerca sono esplosi negli ultimi decenni a causa del lievitare dei costi delle attrezza ture e dei laboratori. Il risultato è che praticamente tutta la conoscenza che viene prodotta in medicina oggi nasce dalle imprese farmaceutiche. Lasciare interamente la produzione di conoscenza in un settore così cruciale per il benessere a interessi privati che attraversano una crisi profonda è una strada pericolosissima. Ci sono motivi importanti per pensare che questi interessi potrebbero spesso essere in contrasto con quelli della salute e del benessere. Dobbiamo essere coscienti che questa non è la situazione della ricerca medica che l'Occidente ha sperimentato finora; è una situazione creatasi negli ultimi decenni ed è dovuta al contemporaneo esaurimento del programma di ricerca medica basato sulla chimica e al lievitare dei costi della ricerca, divenuti insostenibili per le dissanguate istituzioni pubbliche. Dobbiamo riformare radicalmente gli incentivi alla ricerca medica. Alla luce di queste considerazioni un drastico ampliamento della ricerca medica finanziata pubblicamente e orientata diversamente rispetto alla produzione di conoscenze vendibili dovrebbe essere considerata una priorità. (Articolo tratto da I supplementi di Dal Fare al Dire, periodico di informazione e confronto sulle patologie da dipendenza. A cura degli operatori dei Servizi del Piemonte, numero monografico 2010, pp. 3-10) 5