federica bogetto la parola negata 1

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federica bogetto la parola negata 1
FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
INDICE
1. Introduzione:
Cos'è la censura
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2. Tipi di censura:
a) la censura politica e i roghi dei libri:
i roghi nazisti (storia)
Cremuzio Cordo (latino)
Ray Bradbury, Fahrenheit 451 (inglese)
b) la censura religiosa (religione)
c) la censura morale ed estetica
d) autocensura
e) la censura nella psicoanalisi: Freud (filosofia)
f) la censura cinematografica e televisiva
g) la censura nei fumetti, nei cartoni animati e nei videogiochi
h) la censura nelle canzoni
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pag. 5
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pag. 6
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pag. 7
pag. 9
3. Cambiare il nome delle cose:
Le canzoni sotto il fascismo: Mussolini e i nomi italianizzati (storia)
Orwell, 1984 (inglese)
pag. 11
pag. 14
4. Esempi di censura:
a) per ragioni politiche:
Sotade di Maronea (greco)
Lucano e la censura neroniana (latino)
Corrado Govoni: "Censura" (italiano-storia)
Corrado Guzzanti, "Fascisti su Marte" (storia)
b) per ragioni morali:
Oscar Wilde e il De profundis (inglese)
Henri de Toulouse-Lautrec (storia dell'arte)
c) per ragioni filosofico-religiose:
Ippaso di Metaponto e i numeri irrazionali (matematica)
La teoria eliocentrica:
Aristarco di Samo (greco-matematica)
Copernico e il sistema solare (scienze)
La teoria di Ellis: la Terra al centro dell'universo? (scienze)
d) autocensura:
Henry James: "Il giro di vite" (inglese)
Freud e il "perturbante" (filosofia)
Walt Disney, "La faccia del Führer" (storia)
e) un caso "sui generis":
Chi censura il bosone di Higgs? (fisica)
pag. 16
pag. 19
pag. 25
pag. 34
pag. 35
pag. 38
pag. 53
pag. 63
pag. 63
pag. 65
pag. 70
pag. 73
pag. 78
pag. 86
pag. 90
Appendice:
Oscar Wilde, De profundis (testo e traduzione)
pag. 93
Bibliografia e sitografia
pag. 134
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
1. INTRODUZIONE
COS'È LA CENSURA
Etimologicamente il termine censura deriva dal latino censeo, che significa "valuto, stimo". Del tutto
destituita di fondamento sembra l'ipotesi di chi (si veda il sito Line@editoriale n°1 - "Corrado Govoni e il
manoscritto del romanzo «Censura»") propone l'esistenza di una radice comune tra la parola "censura" e
l'aggettivo "sincero", che ha un'etimologia oltremodo controversa, ricondotta dal taluni a sine cera, "senza
cera", intendendo con ciò il miele puro, da altri a sin- + cerus, "insieme + puro", da altri ancora a sin- + skar-,
"senza inquinamento", cioè "puro". "Sincerare" (o meglio "sincerarsi") e "censurare" possono essere accostati
solo in virtù del fatto che entrambi i verbi possono essere usati nell'accezione di "accertarsi, assicurarsi".
Nell'antica Roma la censura era una importante magistratura, che fu istituita nel 443 a.C. e rimase operante
fino al 350 d.C., ricoperta in età repubblicana da due magistrati che rimanevano in carica per cinque anni
(poi ridotti a 18 mesi) e si occupavano principalmente del censimento della popolazione, della cura morum
(cioè della sorveglianza sui comportamenti individuali e collettivi) e della lectio senatus, compito quest'ultimo
particolarmente importante e delicato perché, in pratica, permetteva al censore di decretare i candidati alla
carica senatoriale. Ovviamente era frequente l'uso politico di tale prerogativa, che consentiva ai due censores
di respingere gli avversari politici per "indegnità" morale.
La cura morum è la funzione per la quale i censori sono più celebri, ed il più noto fra di essi è certamente
Marco Porcio Catone il Vecchio (234-149 a.C.), che proprio dalla carica prese il soprannome di Censor.
Appunto dalla funzione di controllo della moralità pubblica e privata deriva il senso odierno del vocabolo.
Presunto ritratto di Marco Porcio Catone il Censore
Infatti per censura si intende oggi il controllo della comunicazione o di altre forme di libertà (libertà di
espressione, di pensiero, di parola) da parte di un'autorità. Nella maggior parte dei casi tale controllo è
applicato all'ambito della comunicazione pubblica, per esempio quella per mezzo della stampa o altri mezzi
di comunicazione di massa; ma si può anche riferire al controllo dell'espressione dei singoli.
E' interessante osservare che, a seconda dell'autorità che esercita il controllo, il termine censura assume
significati specifici in contesti particolari, di cui elencherò i principali nelle pagine che seguono.
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2. TIPI DI CENSURA
a) La censura politica e i roghi dei libri
Questo tipo di censura consiste nell'impedire a individui, associazioni, partiti e mezzi di informazione di
divulgare informazioni ed esprimere opinioni contrarie a quelle del potere costituito (specialmente, ma non
solo, nei regimi autoritari). Tale censura si realizza attraverso il divieto di trattare taluni argomenti o, più
astutamente e più frequentemente, attraverso il controllo preventivo dei contenuti divulgati dai mezzi di
informazione. Quest'ultimo è il mezzo di controllo delle masse più efficace, dal momento che si impedisce
"alla radice" alla gente di venire a conoscenza della realtà e le si fornisce una versione di comodo dei fatti: i
telegiornali ne sono un esempio più che eloquente. Da questo punto di vista l'invenzione di internet
rappresenta una rivoluzione di portata incalcolabile, perché, consentendo (almeno finora) la libera e
rapidissima circolazione delle idee e delle informazioni, di fatto espropria il potere della sua arma più
micidiale; non è un caso che tutte le più recenti rivoluzioni (in particolare nel Nord Africa) siano state
organizzate attraverso internet.
Forse il miglior esempio di censura politica a 360° che sia mai stato immaginato è 1984 di George Orwell, al
quale ho dedicato un piccolo approfondimento nelle pagine successive.
In ambito letterario si danno innumerevoli esempi di censura politica ai danni di opere considerate non
consone ai dettami del regime vigente, che vanno dalla epurazione di alcuni contenuti alla distruzione delle
opere stesse, fino alla vera e propria eliminazione fisica ed alla damnatio memoriae dell'autore. Ho dedicato
tre capitoli della mia tesina ad altrettanti esempi, due antichi ed uno moderno, di censura letteraria: la
condanna a morte di Sotade di Maronea da parte di Tolomeo II Filadelfo, la censura da parte di Nerone del
Bellum civile di Lucano e il divieto di pubblicazione del romanzo Censura di Corrado Govoni (titolo che è
tutto un programma) da parte di Mussolini.
I roghi dei libri sono una costante dei regimi autoritari e una manifestazione tipica dell'intolleranza
ideologica e religiosa: da Ottaviano Augusto all'Index librorum prohibitorum della Chiesa cattolica alla
distruzione delle opere della cosiddetta "arte degenerata" (fra cui quelle di Thomas e Heinrich Mann),
bruciate in piazza dai nazisti il 10 maggio 1933 (vedi foto sotto), la storia purtroppo è tutta una carrellata di
roghi, che spesso ci hanno privati di opere fondamentali per l'umanità.
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E' il caso, ad esempio, di quasi tutta la storiografia di opposizione latina, che aveva dato numerosi e
importanti frutti nel periodo Giulio-Claudio e che è stata fatta sparire quasi per intero dalla censura
imperiale; un esempio ben noto è quello di Cremuzio Cordo, di cui parla Seneca nella Consolatio ad Marciam
del 39 d.C., il quale non volle sopravvivere al rogo dei suoi Annales da parte di Tiberio e si diede la morte nel
25 d.C.
Quello della distruzione dei libri è il tema portante del romanzo distopico Fahrenheit 451 di Ray Bradbury
del 1951, da cui è stato tratto anche un film del 1966 diretto da François Truffaut, di cui vediamo qui sotto un
fotogramma:
Il titolo, secondo l'opinione corrente, nascerebbe dal fatto che 451 gradi Fahrenheit (cioè 232,78° C) sono la
temperatura di autocombustione della carta, ma, a parte il fatto che questo non è vero, di tale temperatura
non si parla mai nel racconto (451 è il numero scritto sull'elmetto del protagonista). Nella società immaginata
da Bradbury vige un totalitarismo "soft" che ha creato un fittizio benessere puramente materiale (la bella
casa, la bella moglie etc.); tutti i cittadini rispettosi della legge devono utilizzare esclusivamente la
televisione per istruirsi, mentre ogni altra forma di comunicazione è bandita, in primis i libri. La televisione,
elemento ossessivo e onnipresente, viene utilizzata dal governo per "informare" i cittadini di ciò che è giusto
e ciò che è sbagliato. Il protagonista, Guy Montag, lavora nel corpo dei vigili del fuoco, i quali nel romanzo
non solo non sono addetti a spegnere gli incendi, ma al contrario usano i lanciafiamme per distruggere: essi
infatti hanno il compito di rintracciare chi si è macchiato del "reato di lettura" e di bruciarne i libri.
Sennonché, un giorno, Montag commette un'infrazione gravissima: porta con sé un libro e ne legge un
paragrafo. Sarà per lui l'inizio della fine: la moglie, donna bella e completamente stupida, prodotto perfetto
della nullità pubblicitaria e televisiva, lo scopre, lo denuncia e lo abbandona; egli viene costretto a bruciare la
sua stessa casa; alla fine si ribella e fugge lungo un fiume, sulle cui rive incontra gli uomini-libro, individui
che hanno salvato il sapere e la memoria dell'umanità tramandandosi oralmente i testi come gli antichi aedi,
e si unisce ad essi.
b) Censura religiosa
La censura è un atteggiamento tipico di molte religioni, sia in passato sia oggi, e la Chiesa cattolica è in
prima linea per quanto riguarda la repressione del dissenso. In ambito cristiano si può indicare come prima
vittima della censura cristiana il testo "Contro i cristiani" del neoplatonico Porfirio (233-305 d.C.): tre diversi
imperatori cristiani condannarono il testo alla distruzione, ed infatti di esso ci sono pervenuti solo pochi
brevi estratti. L'esempio storico per antonomasia della censura religiosa e specificamente cattolica è l'Indice
dei libri proibiti, redatto in seguito al Concilio di Trento ed abolito solamente nel 1966 (!).
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L'argomento è a tal punto complesso e ricco di riferimenti storici che meriterebbe una considerazione a
parte; non essendo questo lo scopo della mia tesina, mi limito qui ad un semplice cenno.
c) Censura morale ed estetica
La censura morale ha lo scopo di impedire che messaggi ritenuti moralmente scorretti, offensivi, volgari o
altrimenti sconvenienti possano raggiungere il pubblico attraverso i mezzi di comunicazione o farlo in modo
indiscriminato. Un esempio è la censura applicata alla pornografia e alle rappresentazioni esplicite di
violenza, che ne limita solitamente l'accessibilità da parte di minori. La P.M.R.C. fu un'associazione che si
occupò di questo in campo musicale, soprattutto negli anni Ottanta, intervenendo nel controllo di dischi
ritenuti osceni e privi del senso del pudore.
Capita poi che occasionalmente un'informazione originale e specifica, la cui stessa esistenza è quasi
sconosciuta al grande pubblico, sia tenuta in una situazione di quasi-censura, essendo classificata come
“sovversiva” o “sconveniente”. Dall'agosto 2006, per esempio, il testo del 1978 di Michel Foucault, La legge
del pudore, pubblicato originariamente in francese con il titolo La loi de la pudeur, che si schiera a favore
dell'abolizione dell'età del consenso, è praticamente sparito da Internet, sia in inglese, sia in francese, sia in
spagnolo o sia in italiano, e non compare nemmeno sui siti web dedicati all'autore. Un altro caso di quasicensura, che riguarda anch'esso internet, è costituito dalla pubblicazione di una versione pesantemente
tagliata del De profundis di Oscar Wilde, spacciata però, in modo del tutto scorretto, per "versione
integrale". L'intera questione è trattata in un capitolo a parte.
d) Autocensura
Si parla di autocensura quando la censura è realizzata dal soggetto che è chiamato a esprimere opinioni e a
divulgare informazioni, allo scopo di evitare di divulgare contenuti sgraditi a terzi o allo scopo di non
incorrere nella censura. L'organizzazione delle imprese editoriali presuppone, inevitabilmente, una forma di
controllo e selezione degli articoli da parte del direttore responsabile, sia per una questione di responsabilità
per omesso controllo, in cui altrimenti questi potrebbe incorrere, sia per garantire la c.d. "linea editoriale"
della testata. In quest'ultimo caso, il diritto di cronaca del giornalista ed il carattere di "impresa di tendenza"
della testata entrano in conflitto, ma si tratta di un profilo rispetto al quale, per la sua delicatezza, nel nostro
ordinamento non sono state previste risposte di legge.
Un divertentissimo esempio di autocensura, portato alla luce solo nel 2004, è costituito dal cartone animato
La faccia del Führer (Der Fuehrer's Face), prodotto dalla Disney nel 1943.
Paperino nazista nel cartone Der Fuehrer's Face
Proprio a causa della natura propagandistica anti-nazista del corto, e della rappresentazione di Paperino
come un nazista, la Disney si è autocensurata per ben 61 anni, decidendosi a rimettere in circolazione il
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cartoon così "politically uncorrect" solo pochissimi anni fa. Al bellissimo "corto" ho dedicato un intero
capitolo; inoltre esso è visibile integralmente qui:
http://arjelle.altervista.org/Tesine/Federica/filmatopaperino.htm
Una forma del tutto particolare di autocensura è l'omertà: è il caso, tipicamente italiano, di tutti coloro che
"sanno" e tacciono a proposito dei delitti di mafia, 'ndrangheta e quant'altro.
e) Censura nella psicoanalisi
Nell'ambito della teoria psicoanalitica di Freud, è detto censura quel particolare meccanismo che blocca i
desideri dell'inconscio e impedisce loro di accedere alla coscienza del soggetto. La censura è quindi
all'origine della rimozione, procedimento attraverso cui vengono mantenuti nell'inconscio pensieri,
immagini, desideri o ricordi legati a una pulsione non accettabile. La censura si riduce ma non si annulla
completamente durante il sonno; pertanto nei sogni emergono i contenuti dell'inconscio, ma non in maniera
esplicita. Il sogno è, infatti, caratterizzato da un contenuto manifesto, quello che effettivamente si ricorda al
risveglio, e da un contenuto latente, composto da elementi "mascherati" mediante simboli o metafore, per
poter aggirare la censura. Questa rappresentazione indiretta dei contenuti rimossi ha lo scopo di rendere
accettabile alla coscienza i desideri non confessabili del sognatore.
Un giovane Sigmund Freud
f) Censura cinematografica e televisiva
Viene esercitata sui film e sui telefilm attraverso un organo statale, che può, a seconda dei casi, intervenire
sulla proiezione, sulla distribuzione e talvolta su diverse fasi della realizzazione stessa di un film. Istituita
con il fine di impedire spettacoli con contenuti violenti, contrari alla pubblica decenza, al sentimento
religioso o civile, o con il fine di tutelare i minori, nei regimi totalitari è divenuta anche un mezzo di
controllo dei contenuti politici di un film e un incentivo alla propaganda di regime. Nella maggioranza
dei paesi democratici, la censura cinematografica è sostituita da sistemi di autoregolamentazione ai quali
aderiscono volontariamente le case produttrici e distributrici.
In Italia i telefilm trasmessi in fascia protetta vengono talvolta censurati. Ne è un esempio Smallville, che
nelle repliche e negli episodi inediti della settima stagione, trasmessi tra le 15:00 e le 16:40, è stato epurato da
tutte le scene più cruente. Anche Buffy ha subito molte censure. Nell'estate 2008 Italia 1 ha trasmesso in
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fascia protetta due serie francesi, Summer Crush e Summer Dreams, censurando tutte le scene su relazioni
omosessuali. Non è raro che le serie non subiscano tagli alle scene, ma che i testi vengano tradotti in italiano
utilizzando espressioni meno volgari rispetto all'originale straniero.
Superfluo aggiungere che quando la censura televisiva va a colpire trasmissioni di interesse pubblico non
"allineate" con le direttive del governo, come Annozero di Michele Santoro, si ricade né più né meno nella
già considerata censura politica.
g) Censura dei fumetti, dei cartoni animati e dei videogiochi
La censura dei fumetti era molto diffusa negli USA negli anni Cinquanta e Sessanta, quando si pensava che i
fumetti potessero contribuire alla diffusione della delinquenza giovanile; durante il maccartismo negli USA
venne dunque istituito il CCA, Comics Code Authority, il cui compito era quello di diminuire la violenza e
cancellare i messaggi di propaganda comunista o giudicati come tali.
Le case editrici dovettero quindi adeguarsi a questo codice censurando le storie a fumetti; la Western
Publishing, che pubblicava le storie a fumetti Disney negli USA, in alcune occasioni censurò diverse storie del
suo più geniale disegnatore, Carl Barks, tra cui Paperino e l'incendiario (vennero censurate le ultime due
vignette in cui si vedeva Paperino in prigione per aver provocato un incendio), Paperino e le forze occulte
(furono tagliate la scena iniziale e quella in cui appariva un orco evocato dalla strega Nocciola), Zio Paperone
e il vello d'oro (venne cambiato il nome alle harpies (arpie) in larkies (mattachione) perché in inglese harpies
significa anche prostitute) e Zio Paperone e la Stella del Polo (fu tagliata la scena del rapimento di Doretta
Doremì). Il motivo addotto per queste censure era la "troppa violenza" (!).
Una tavola di Carl Barks: troppa violenza?
In Italia negli anni Sessanta si giunse ad una forma di autocensura riguardo ai fumetti: nel 1951,
l'Apostolato della Buona Stampa pubblicò un "Indicatore della stampa per ragazzi", in cui vennero elencate
le varie testate, classificate in quattro categorie: "raccomandabili", "leggibili", "leggibili con cautela" ed
"escluse".
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In quest'ultimo gruppo, riservato alla "stampa moralmente nociva, che non è permesso leggere per nessuna
ragione, perché costituisce un eccitamento alla delinquenza, alla corruzione e alla sensualità", figuravano
incredibilmente, fra altri 230 titoli, serie western come Pecos Bill, Il Piccolo Sceriffo e Tex.
Nello stesso periodo, due deputati democristiani, Federici e Migliori, presentarono alla Camera un progetto
di legge che chiedeva un controllo preventivo sui periodici a fumetti. Per evitare di dover sottoporre ogni
pagina al giudizio di una "commissione di censura governativa", gli editori del settore si coalizzarono,
istituendo una propria "commissione di autocensura", contraddistinta dal marchio MG (Garanzia Morale).
Fu così che a partire dall'estate del 1962 tale marchio apparve sulle copertine dei principali periodici a
fumetti italiani, patrocinato dall'Associazione Italiana Editori Periodici per Ragazzi. All'interno degli albi
apparivano le seguenti parole: «Il periodico sulla cui copertina appare il marchio, pur conservando le sue
caratteristiche di sano divertimento e di appassionanti avventure per i ragazzi, dà ai Genitori ed agli
Insegnanti la garanzia che i loro giovani possono leggerlo, senza che tale lettura sia in alcun modo nociva
alla loro formazione morale ed intellettuale. Sarà così raggiunto lo scopo propostosi dalla Associazione, nel
concepire ed adottare il Codice Morale: e cioè, di migliorare sempre più e moralizzare, anche nel nostro
particolare settore, la stampa per i ragazzi.»
Gli editori italiani iniziarono quindi a censurare le storie eliminando le parolacce e la violenza nelle storie
da loro pubblicate. Ne fecero le spese soprattutto Tex e i supereroi americani; ma anche i fumetti Disney
vennero autocensurati, per esempio rendendo più lievi le punizioni di Qui, Quo, Qua; anche le ristampe non
uscirono indenni dalla censura: vennero modificati infatti alcuni dialoghi considerati poco politically correct.
Comunque l'autocensura durò pochi anni, fino al giugno 1967.
Ancora oggi comunque esiste la censura nei fumetti: per esempio la Walt Disney Italia, quando ristampa
storie a fumetti vecchie che contengono frasi poco politically correct, le censura modificando quelle frasi.
In alcuni casi la Disney Italia censura frasi che contengono riferimenti alla religione. In altri casi invece
censura frasi che potrebbero offendere alcune categorie di persone: per esempio nella versione originale di
Paperinik il diabolico vendicatore Paperone offende Paperino dicendo: «questo pelandrone non è nemmeno
capace di derubare un sordomuto cieco e paralitico»; nella versione censurata dice invece: «questo
pelandrone non è nemmeno capace di rubare una noce a uno scoiattolo».
Naturalmente in Italia sono censurati anche i manga, i fumetti giapponesi: per esempio, in seguito ad alcune
proteste del Moige, la Star Comics è stata costretta a censurare, dalla terza edizione in poi, una scena del
manga Dragon Ball, ritenuta non adatta ai minori; e la Planet Manga ha censurato il manga in un volume
Ludwig, pubblicato nel novembre 2005, occultando la relazione incestuosa e pedofila tra Biancaneve e suo
padre.
La censura dei cartoni animati è un fenomeno meritevole di un interesse particolare. La causa della censura
si può ricondurre al fatto che cartoni per adolescenti, o addirittura per adulti, vengano associati ad un
pubblico infantile. Altri sostengono che si tratti semplicemente di un mezzo per fare propaganda.
Comunque stiano le cose, essa colpisce soprattutto le produzioni giapponesi.
Le principali censure riguardano:
- l'eliminazione di ogni riferimento al Giappone;
- la localizzazione dei nomi giapponesi;
- l'eliminazione di scene o dialoghi violenti o espliciti, ad esempio con la sostituzione nei dialoghi dei
termini "uccidere" e "ammazzare" con "eliminare", "far fuori" o "togliere di mezzo", oppure con il
cambiamento del colore del sangue.
In Italia i cartoni animati sono spesso associati ad un pubblico infantile e dunque devono essere adattati per
mezzo della censura. Alla censura spingono anche le associazioni dei genitori, quali ad esempio il Moige.
L'adattamento del programma ad un pubblico molto giovane può portare spesso alla snaturazione del
programma stesso, tant'è vero che molti pensano che sarebbe di gran lunga meglio evitare la censura
trasmettendo i cartoni in seconda serata. Dal 1998 esiste un'associazione che si batte contro la censura dei
cartoni: l'ADAM-Associazione Difesa Anime e Manga, che mantiene contatti con giornalisti esperti del
settore fumettistico.
Anche negli USA i cartoni sono pesantemente censurati, ed i censori statunitensi non si limitano solo a
tagliare qualche scena, ma arrivano a modificare graficamente il cartone sostituendo per esempio le sigarette
con i leccalecca e le pistole vere con quelle giocattolo.
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In generale, si può dire che solo in Giappone gli anime restino per lo più integri (le sole censure riguardano
alcuni anime a sfondo erotico o molto violento).
La censura nei videogiochi è espressamente richiesta da associazioni di genitori e dagli stessi governi,
consapevoli dell'impatto estremamente diseducativo che tali giochi, praticati spesso dai bambini o dai
ragazzi in modo nevrotico-complusivo, hanno sui loro figli. Essa viene effettuata su tutti i giochi con
contenuti violenti e/o erotici e si divide in due tipologie:
1. censura parziale dei contenuti (modifica di determinate scene o azioni per edulcorarne il contenuto);
2. censura totale (il prodotto cioè non viene distribuito sul suolo nazionale).
A mio parere questo è uno dei pochi casi in cui la censura è assolutamente necessaria, ed anzi dovrebbe
essere applicata con maggior rigore, perché il danno che questi videogiochi possono provocare sulla psiche
dei bambini è grave.
h) Censura nella musica
Sono frequenti e ben noti i casi di censura nella musica: alcuni dei più eclatanti sono stati la censura nel
Regno Unito di Come Together dei Beatles e di God Save the Queen dei Sex Pistols.
I Beatles del resto erano dei veri e propri abbonati alla censura inglese: i loro testi spesso metaforici
venivano sezionati per individuare allusioni alle droghe. Un celebre esempio è rappresentato da Lucy In The
Sky With Diamonds, il brano di Lennon inserito nell'importante album del 1967 Sgt. Pepper. La canzone era
onirica e sognante, e soprattutto il titolo appariva essere un acronimo di LSD, la sigla dell'acido lisergico, la
droga chimica che allora (1967) andava per la maggiore, propagandata da sedicenti guru della liberazione
della mente come l'americano Timothy Leary. Lennon ha sempre negato di aver mai pensato a questa
allusione, e che l'idea per la canzone, oltre che dai libri di Lewis Carroll, l'aveva presa da un disegno del
figlio Julian (che allora andava alle elementari) che rappresentava per l'appunto la sua amica Lucy in un
cielo pieno di diamanti. Il disegno peraltro esiste veramente, ed è stato acquistato all'asta dopo il 2000 dal
chitarrista dei Pink Floyd David Gilmour, come apprezzamento di un brano che ha indicato anche a lui la
svolta verso la psichedelia.
Un fotogramma di Lucy In The Sky With Diamonds dal film Yellow Submarine del 1968
Anche il capolavoro dei Beatles A Day In The Life (anche questo in Sgt. Pepper) venne messo al bando dalla
BBC, sempre per presunte allusioni alla droga contenute nel verso "I'd Like To Turn You On", che può essere
tradotto come "sarei felice di farvi andare su di giri" ma anche "mi piacerebbe farvi sballare", secondo il
gergo dei drogati. Un terzo esempio è rappresentato da The Ballad Of John And Yoko, la canzone composta
da John Lennon nel 1969 in occasione del suo matrimonio con l'artista concettuale giapponese Yoko Ono, e
pubblicata su un fortunato singolo 45 giri nell'ultima fase del gruppo. In questo caso il verso che non era
piaciuto alla BBC recitava: Christ! You know it ain't easy / You know how hard it can be / The way things are going /
They're going to crucify me (Cristo! Sapete, non è affatto facile / sapete quanto può essere difficile / per come
stanno andando le cose / mi crocifiggeranno). Sembra una espressione piuttosto comune, e coerente con il
resto del testo, incentrato sul significato globale (a favore della pace) che la coppia voleva dare al loro evento
privato. Ma i censori probabilmente si ricordavano della furiosa polemica che aveva accompagnato il
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riferimento a Gesù Cristo che Lennon aveva fatto alcuni anni prima in un'intervista ("i Beatles stanno
diventando tra i giovani più popolari di Gesù Cristo"), anch'esso peraltro apparentemente niente affatto
blasfemo.
Per quanto riguarda l'Italia, la storia della censura nella canzone italiana sotto il Fascismo è talmente
pittoresca e a tratti assurda che le ho dedicato un capitolo a parte; ma qui si entra in un argomento ben più
delicato: quello della manipolazione del significato delle parole: la forma in assoluto più subdola e
pericolosa di censura.
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3. CAMBIARE IL NOME DELLE COSE
LE CANZONI SOTTO IL FASCISMO:
MUSSOLINI E I NOMI ITALIANIZZATI
Negli anni '20 comincia il regime: il fascismo, negli anni dell'ascesa e del consolidamento, esercita un rigido
controllo su tutti i mezzi di comunicazione di massa e sui fenomeni artistici. La parola d'ordine era
"nazionalizzazione": il cocktail diventava "coda di gallo", il cognac "arzente" e il pullover "farsetto".
I riflessi di questo clima sul panorama musicale sono vistosissimi e le conseguenze spesso esilaranti.
1924: Una circolare del PNF reca l'ordine di presentare tutte le canzoni straniere con parole "comunque
tradotte". Se ne vedranno delle belle. Anche gli artisti videro liberamente italianizzati i loro nomi,
Louis Armstrong diverrà per il pubblico italiano Luigi Braccioforte e Benny Goodman Beniamino
Buonomo (!).
1926: Il censore ordina di cambiare alcuni versi a "La leggenda del Piave" di E.A. Mario, che conteneva nella
prima stesura espressioni sconvenienti come "tradimento" o "onta consumata a Caporetto", in
riferimento alla tragica rotta dell'esercito italiano nell'ottobre 1917. Quei termini vennero ritenuti
inaccettabili per l'onore della nuova patria fascista.
1928: Citiamo un articolo apparso su "Il Popolo d'Italia" (il giornale di Mussolini) il 30 marzo a firma Carlo
Ravasio: "E' nefando e ingiurioso per la tradizione e per la stirpe riporre in soffitta violini e mandolini
per dare fiato a sassofoni e percuotere timpani secondo barbare melodie che vivono soltanto per le
effemeridi della moda. E' stupido, ridicolo e antifascista andare in sollucchero per le danze ombellicali
di una mulatta o accorrere come babbei ad ogni americanata che ci venga da oltreoceano.". In seguito a
questo pezzo, l'EIAR riduse notevolmente la messa in onda di musica straniera ed americana in
particolare.
1929: I carabinieri emanano una serie di circolari riservate aventi per oggetto i dischi contrari all'ordine
nazionale o comunque lesivi dell'autorità costituita: figurano nell'elenco inni nazionali come "La
Marsigliese", ballate sulla ricostruzione della sfortunata impresa di Umberto Nobile al Polo Nord, oltre
naturalmente a canti socialisti o anarchici. In particolare si segnala l'arresto a Milano di due uomini,
presumibilmente anarchici, sorpresi a cantare motivi inneggianti a Gaetano Bresci, il regicida che il 29
luglio 1900 uccise Umberto I.
E siamo agli anni '30, quelli del definitivo consolidamento del regime: imperialismo, autarchia e, subito
prima del grande dramma, le leggi razziali.
1935: Incredibile ma vero: gli strali censori si abbattono su uno dei brani cult del regime: la prima stesura di
"Faccetta nera", infatti, scritta nel 1935 da Giuseppe Micheli e Mario Ruccione, non era piaciuta per un
paio di motivi: innanzi tutto era in romanesco, cosa non troppo gradita per il particolarismo
dell'idioma locale, poi conteneva troppi accenti di ammirazione per la "bella abissina", suonando quasi
come un incoraggiamento alla commistione delle razze. Un anno più tardi l'autore dovette porvi mano
pesantemente. A questo motivetto che aveva ormai conquistato gli italiani, si tentò tuttavia di
contrapporre una "Faccetta bianca", canzone mediocre di Grio e Macedonio, che non lascerà traccia. In
seguito, facendo buon viso a cattivo gioco e travolti loro stessi dal successo popolare del brano, i
gerarchi furono costretti ad adottare la versione rimaneggiata di "Faccetta nera" come uno degli inni
del regime.
1936: Il 3 novembre alle 17,20 va in onda una trasmissione radio con l'Orchestra di Piero Rizza che propone
tutti brani di autori stranieri. Parziale riammissione del jazz nell'etere.
1937: A gennaio iniziano le trasmissioni dell'orchestra jazz Ramponi. Il 6 aprile furono di scena Kramer ed i
suoi solisti. Il quartetto jazz dell'Eiar suona regolarmente tutte le sere alle 20,40.
1938: Nuovo cambiamento d'umore nei confronti del Jazz. Il genere torna ad essere bollato come "musica
negroide" e le trasmissioni di jazz scompaiono del tutto dalla programmazione EIAR. Cominciano a
circolare le cosiddette "canzoni della fronda", quelle che sotto testi apparentemente "nonsense"
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
contengono, o le autorità credono contengano, ironiche e velate corbellature al regime. Altre, ancora
più sottili, vennero interpretate dai dissidenti reindirizzando l'originale messaggio amoroso in chiave
satirica. Un esempio al riguardo viene considerata "Un'ora sola ti vorrei", dato che molti vennero
sorpresi a cantarla guardando il ritratto di Mussolini. (Un'ora sola ti vorrei / per dirti quello che non
sai/ io che non so scordarmi mai / che cosa sei per me...).
Il "Trio Lescano"
1939: Altra presunta canzone della fronda, è la volta di "Maramao perché sei morto", interpretata dal Trio
Lescano su testo di Panzeri. Ispirato ad un canto popolare abruzzese (maramao è infatti la contrazione
di mara maje, amara me), il brano fu lanciato pochi mesi dopo la morte di Costanzo Ciano, padre di
Galeazzo, in onore del quale si stava erigendo un monumento a Livorno. Sul basamento che doveva
ospitare la statua, alcuni studenti affissero nottetempo le prime parole della canzone, ormai famosa
(Maramao perché sei morto?/ Pane e vin non ti bastava,/ l'insalata era nell'orto/ e una casa avevi tu), che
vennero ritenuti offensivi verso un eroe del fascismo. Panzeri fu convocato d'urgenza dal capo della
censura che gli contestò l'accaduto. L'autore se la cavò asserendo di aver scritto le parole incriminate
prima della dipartita del potente fascista. Altro pezzo malvisto dal regime nell'anno è "Pippo non lo
sa" (Kramer-Rastelli-Panzeri), nel quale molti vedono allusioni a Starace ed altri gerarchi che si
pavoneggiano nelle uniformi d'orbace.
Negli anni '40 il grande dramma si consuma: il 10 giugno 1940 l'Italia entra in guerra.
1940: scatta il divieto di ballare in pubblico, vengono chiusi i locali notturni, la musica americana (jazz
compreso) è assolutamente proibita e c'è la messa al bando totale degli autori ebrei. Proibita la
diffusione del brano "Signora Illusione", i cui versi "illusione, dolce chimera sei tu" e finanche il titolo
stridevano palesemente con l'imperativo categorico appena enunciato dal Duce "Vincere e vinceremo!"
"Silenzioso slow", meglio nota come "Abbassa la tua radio", di Alberto Rabagliati, fu invece bandita
perché accusata di sottintendere un invito all'ascolto di Radio Londra, emittente vietatissima al
radioascoltatore italiano.
1942: Viene censurato "Il Tamburo della banda d'Affori", testo ancora di Panzeri, per i versi "Il tamburo
principal / della banda d'Affori / che comanda cinquecento cinquanta pifferi...". Per una sospetta coincidenza,
550 era proprio il numero dei componenti della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, e al censore
non sfuggì l'ambiguo accostamento. La scure si abbatte anche su Bixio e Cherubini per "La mia
canzone nel vento". I versi "vento, vento portami via con te" erano da molti associati al Duce e
rielaborati in "portalo via con te". Assieme a tutta la produzione anglo-americana, esclusa per cause
belliche dalla programmazione dell'EIAR, tra le prime ad essere bandite fu il successo mondiale di
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LA PAROLA NEGATA
Bing Crosby, "White Christmas", accusata di presentare il nemico in toni troppo positivi, mentre è
chiaro che essi non potevano essere buoni. "Caro Papà", di Jone Caciagli, accorata lettera di un bimbo
al sua papà lontano al fronte, parve al censore eccessivamente disperata e scarsamente ispiratrice del
sentimento di "immancabile vittoria".
1943: Caterinetta, Giuditta e Sandra Leschan, meglio note come il Trio Lescano, vengono bandite dalla radio
in quanto di origine ebrea. In seguito verranno arrestate e rinchiuse nel carcere genovese di Marassi
per sospetto spionaggio. L'accusa era che cantando "Tuli-pan" (cover di un successo americano, Tuliptime) mandassero in realtà messaggi al nemico. Intanto la celeberrima "Lili Marlene", vera e tragica
colonna sonora della seconda guerra mondiale, viene dapprima censurata nelle ultime due strofe,
quando il soldato dice alla sua amata che avrebbe preferito essere a casa con lei pittosto che in guerra,
e successivamente proibita del tutto in quanto accusata di deprimere il morale dei combattenti.
Peraltro anche una volta finita la guerra, quando l'Italia canora riprese vigore ed espresse tutta la sua voglia
di melodie creando il Festival di Sanremo, la censura continuò ad esercitare il suo controllo sulla canzone.
Negli anni '50-'70 si giunse a livelli ridicoli: ad esempio un brano di Domenico Modugno del 1957, Resta cu'
mme, diceva in origine: "nun me 'mporta d'o passato / nun me 'mporta 'e chi t'(ha) avuto / resta cu 'mme,
cu'mme"; troppa libertà! La commissione impose la modifica in: "nun me 'mporta se 'o passato / sulo lacrime
m'ha dato / resta cu 'mme, cu'mme". Un altro caso di censura veramente miope riguarda la splendida
canzone di Angelo Branduardi Confessioni di un malandrino del 1975, in cui a fare le spese della censura è
addirittura il poeta russo Sergej Esenin. Già, perché il testo era suo, non di Branduardi. Venne censurato il
verso che diceva "dalla finestra mia voglio pisciare contro il disco della luna"; il poco corretto "pisciare"
venne sostituito dall'innocuo "gridare". Sulla stessa linea la censura esercitata ai danni di Pino Daniele al
Festival di Sanremo del 1979: il finale di Je so' pazzo "perché je so' pazzo, je so' pazzo / nu me scassate 'o cazz"
venne considerato inaccettabile ed il cantante fu costretto a sostituire l'ultima parola con... un fischio!
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LA PAROLA NEGATA
GEORGE ORWELL, 1984
1984 è un celebre romanzo distopico di George Orwell pubblicato nel 1949 ma scritto nel 1948 (di cui il titolo
non è che un anagramma).
Il racconto illustra l'ingranaggio di un governo totalitario. L'azione si svolge in un futuro prossimo del
mondo (l'anno 1984) in cui il potere si concentra in tre immensi superstati: Oceania, Eurasia ed Estasia.
Londra è la città principale di Oceania. Al vertice del potere politico in Oceania c'è il Grande Fratello,
onnisciente e infallibile, che nessuno ha visto di persona. Sotto di lui c'è il Partito interno, quello esterno e la
gran massa dei sudditi. Ovunque sono visibili grandi manifesti con il volto del Grande Fratello. Gli slogan
politici ricorrenti solo: "La pace è guerra", "La libertà è schiavitù", "L'ignoranza è forza".
Il Ministero della Verità, nel quale lavora il personaggio principale, Winston Smith (il cui nome è lo stesso
di Churchill, mentre il cognome è quanto di più anonimo si possa immaginare), ha il compito di censurare
libri e giornali non in linea con la politica ufficiale, di alterare la storia e di ridurre le possibilità espressive
della lingua. Per quanto sia tenuto sotto controllo da telecamere, Smith comincia a condurre un'esistenza
ispirata a principi opposti a quelli inculcati dal regime: tiene un diario segreto, ricostruisce il passato, si
innamora di una collega di lavoro, Julia, e dà sempre più spazio a sentimenti individuali.
Insieme con un compagno di lavoro, O'Brien, Smith e Julia iniziano a collaborare con un'organizzazione
clandestina, detta Lega della Fratellanza. Non sanno tuttavia che O'Brien è una spia che fa il doppio gioco
ed è ormai sul punto di intrappolarli. Smith viene arrestato, sottoposto a torture e a un indicibile processo di
degradazione. Alla fine di questo trattamento è costretto a denunciare Julia.
Infine O'Brien rivela a Smith che non è sufficiente confessare e sottomettersi: il Grande Fratello vuole avere
per sé l'anima e il cuore di ogni suddito prima di metterlo a morte. Sottoporrà quindi Winston ad un
"trattamento" di reintegrazione nel sistema, attraverso il lavaggio del cervello. Il tentativo riuscirà
perfettamente e Winston finirà così allineato al regime.
In 1984, George Orwell interpreta la dittatura come l'assenza di libertà per tutti gli individui.
Nessuno escluso. Nemmeno i funzionari più alti del "partito" al potere, infatti, godono di alcun privilegio;
anzi, sono i primi e i più convinti fautori dell'autolimitazione della libertà personale. Esemplare è
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LA PAROLA NEGATA
l'interrogatorio finale condotto dal funzionario ai danni del protagonista, in cui il primo dimostra tutto il
proprio fervore ideologico difendendo la pratica del Bipensiero e praticandola egli stesso con assoluta
convinzione.
Forse il motivo per cui 1984 è uno dei romanzi più inquietanti della storia della letteratura è proprio questo:
la dittatura ipotizzata da Orwell è disumana: non abbiamo nemmeno il conforto (inconscio) che ci potrebbe
derivare dal constatare l'umana "corruzione del privilegio" che, sotto sotto, ci aspetteremmo dalla classe al
potere, quale che essa sia. La dittatura immaginata da Orwell è una dittatura mentale, non fisica; viene
imposta con il lavaggio del cervello, con le sparizioni improvvise, senza alcun clamore, senza alcuna
violenza apparente.
Ciò che appunto m'interessa qui è di verificare come, attraverso il controllo delle parole, si arrivi alla censura
del pensiero ed alla morte della razionalità.
L'unica forma di pensiero ammissibile in Oceania, come abbiamo visto, è il Bipensiero, termine coniato dal
Partito del Grande Fratello per indicare la volontà e la capacità di sostenere un'idea ed il suo esatto opposto,
dimenticando nel medesimo istante il cambio di opinione e perfino l'atto stesso del dimenticare
(atteggiamento quotidianamente messo in pratica da taluni politici italiani).
Pensare in modo divergente dai dettami del governo totalitario sotto il Grande Fratello viene definito
"psicoreato". Così pure l'unica lingua ammessa è la Neolingua, un nuovo linguaggio in cui tutte le parole
hanno un'unica accezione.
Inoltre le parole vengono stravolte e piegate ad esprimere significati opposti a quelli richiesti dalla logica
(con l'inevitabile conseguenza dello stravolgimento della logica stessa, che produce l'incapacità di pensare).
Ne è un esempio il nome del ministero da cui è governato il partito, il MINAMOR, acronimo di Ministero
dell'Amore, la cui funzione è quella di controllare i membri del partito e di convertire i dissidenti alla sua
ideologia, se necessario facendo ricorso alla forza mediante la "psicopolizia", che interviene in ogni
situazione sospetta. E' questo che viene definito "Amore".
L'impoverimento della lingua riduce il significato ai concetti più elementari e rende così impossibile
concepire un pensiero critico adulto. Unito allo stravolgimento del senso delle parole, impedisce di
formulare, e a lungo andare anche solo pensare, qualcosa di "proibito". I semplici concetti che renderebbero
discutibile l'operato del partito diventano inesprimibili.
Cambiare il significato delle parole è uno strumento primario di controllo delle menti: è la forma più
perfetta e più assoluta di censura che si possa concepire.
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LA PAROLA NEGATA
4. ESEMPI DI CENSURA
A) PER RAGIONI POLITICHE
SOTADE DI MARONEA
Nato a Maronea in Tracia (o, secondo altri, a Creta), Sòtade operò ad Alessandria verso il 280 a.C. Scrisse
poemi lascivi chiamati φλυάκες o κίναιδοι in dialetto ionico, da cui essi furono chiamati anche ἰωνικοὶ
λόγοι (cfr. Suda e Ateneo); furono detti anche σωτάδεια ᾄσματα. Noi li conosciamo come "carmi per i
cinedologhi", ovvero componimenti destinati ad attori-ballerini assai effeminati che si esibivano in danze
mimiche particolarmente lascive.
Un altro esempio di questo tipo di componimento, a detta di Suda e di Ateneo, è l'opera di Alessandro Etolo,
Pirro (o Pires) di Mileto, Alessa, Teodoro, Timocarida e Senarco. Strabone comunque (XIV p. 648) attribuisce
l'inizio di questo genere a Sotade, che a suo dire, come il suo successore Alessandro Etolo, scrisse in prosa,
mentre Liside e Simo scrissero in versi; ma c'è qualche errore in questa affermazione, perché abbiamo
espressa informazione del tipo di metrica che Sotade impiegò.
Ateneo fa riferimento a commentari su Sotade e sulla sua opera scritti da suo figlio Apollonio e da Caristio di
Pergamo. Sembra che egli abbia avuto molti imitatori, anche in Roma, dove Ennio ed Accio si dice abbiano
composto poemi dello stesso genere; e perfino il prete Ario (III-IV secolo d.C.) fu accusato da Atanasio di
scrivere in uno stile vicino ai "poemi sotadei".
Tuttavia di lui ci restano pochissimi versi e qualche titolo: la censura e la damnatio memoriae sembrano avere
avuto effetto.
Il metro che egli usava generalmente, e che fu chiamato da lui verso sotadeo, era un tetrametro
brachicatalettico ionico a maiore, che comunque ammetteva diverse variazioni. Lo schema di base è il
seguente:
Secondo la tradizione Sotade fu l'inventore del palindromo (sequenza di caratteri che, letta a rovescio,
rimane identica), genere nel quale era un vero e proprio virtuoso. Ma la sua figura resta legata alla terribile
vicenda di cui fu protagonista, utile fra l'altro per smentire un luogo comune consolidato: si tratta infatti di
uno dei pochi provvedimenti censorii di cui abbiamo notizia per i primi Tolomei.
Sembra infatti che Sotade abbia portato la sua satira lasciva e aggressiva a limiti estremi; questo emerge
chiaramente dalla testimonianza di Suda. Le libertà che egli si concesse alla fine gli causarono seri guai e gli
costarono la vita: stando infatti alla testimonianza di Plutarco nei Moralia (De liberis educandis 11a) egli portò
un violento e grossolano attacco contro Tolomeo II Filadelfo in occasione del suo matrimonio con la sorella
Arsìnoe II.
Leggiamo il passo plutarcheo:
Nessuno s'è mai pentito di aver taciuto; moltissimi, invece, di aver parlato. È facile dire ciò che si è taciuto, ma
riafferrare quel che si è detto è impossibile. So per sentito dire che un'infinità di persone è piombata nelle più gravi
sventure per non aver saputo tenere a freno la lingua. Tralasciando gli altri, mi limiterò a menzionare uno o due casi, a
mo' di esempio. Quando il Filadelfo sposò la sorella Arsìnoe, Sotade gli disse:
Tu spingi il pungolo in un foro proibito.
Così marcì molti anni in prigione, pagando il non biasimevole fio di un parlare inopportuno, e per far ridere gli altri finì
lui per piangere a lungo.
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LA PAROLA NEGATA
Sdegnato per questo attacco pubblico fin troppo esplicito, il Filadelfo chiuse la bocca a Sotade facendolo
sbattere in prigione, dove marcì a lungo. Ma Plutarco (non si sa se per scelta o per ignoranza dei fatti)
sorvola sul resto, che è ben peggio.
Secondo Ateneo, infatti, il poeta attaccò sia Lisimaco che Tolomeo e fu effettivamente imprigionato, ma
riuscì a fuggire da Alessandria. Fu però raggiunto a Cauno dal generale di Tolomeo, Patroclo, che lo fece
rinchiudere in una cassa di piombo e gettare in mare. Una fine orribile, una punizione ingiustificabile
anche per un poeta dalla lingua troppo sciolta (quanto è lontana la parrhesìa di Aristofane!), un
provvedimento disumano che in nessun modo può essere conciliato con l'humanitas che già i Latini
consideravano propria dell'alessandrinismo e con la visione tradizionale dei Tolomei come monarchi
illuminati, famosi proprio per il loro atteggiamento tollerante e filantropico; e tuttavia, evidentemente,
pronti a vendicarsi senza pietà come qualunque despota.
Moneta raffigurante Arsinoe II
Sorge il legittimo dubbio che a questa visione così rosea del monarcato dei Tolomei abbia contribuito molto
la propaganda di regime, evidente perfino nei soprannomi "filantropici" da essi adottati (Sotèr, Filadelfo,
Evergete, Filopàtore...), e la dura repressione di qualsiasi voce contraria. Inoltre, alla fama di tolleranza e di
apertura di vedute di Tolomeo II Filadelfo contribuì, forse involontariamente, l'autore di un celebre falso
noto come Lettera di Aristea a Filocrate, che ci narra la sua versione (ovviamente romanzata) della nascita
della cosiddetta "Bibbia dei Settanta".
La lettera dello Pseudo-Aristea è databile verso il 100 a.C. e racconta che settantadue anziani (poi, nella
denominazione comune, il numero fu ridotto a settanta con riferimento ai settanta anziani che
accompagnarono Mosè al Sinai e ricevettero la Tôrāh) di Gerusalemme, appartenenti alle dodici tribù
d’Israele, furono invitati ad Alessandria d’Egitto da Tolomeo II Filadelfo per tradurre in greco i "libri della
Legge". La narrazione riferisce che il re accolse questi scribi ebrei ad Alessandria e si prostrò innanzi alla
Legge sette volte. Secondo la leggenda essi, chiusi in settanta stanze diverse, in settanta giorni avrebbero
fornito una traduzione identica (ovviamente per ispirazione divina). Una volta fatta la traduzione, gli scribi
furono rimandati a casa con grandi doni.
Come osserva Patrizio Rota Scalabrini (http://www.bicudi.net/materiali/traduzioni/trad_lxx.htm), è molto
poco probabile che la traduzione greca della Bibbia ebraica sia avvenuta per impulso di qualche mecenate
pagano, come il Filadelfo: " piuttosto sarà stata dovuta a necessità ed esigenze interne alla comunità giudaica
di Alessandria. Essendo il greco la lingua praticata normalmente, si sentiva l’urgenza di disporre di una
traduzione greca dei testi sacri per un uso liturgico, ma anche giuridico, in vista del funzionamento interno
della comunità. Il racconto dello Pseudo Aristea è ispirato da una finalità propagandistica presso l’ellenismo:
l'ebraismo è la "vera religione" che permette la convivenza tra giudei e greci. Tale convivenza sarà possibile
adottando uno stile di vita ispirato alla filantropia. [...] Per l’uomo si tratta allora di imitare Dio nel
governo del mondo, assumendo come modello la benevolenza divina verso gli uomini. Ecco allora che
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
Tolomeo II Filadelfo, dopo aver ascoltato i saggi ebrei, giunge alla seguente conclusione: «Mi avete fatto un
grande favore esponendomi i vostri insegnamenti sul buon governo» (par. 294)."
Papiro di Ossirinco, ca. 200 a.C., riportante 22-23 linee
in greco semi-corsivo dell'Antico Testamento (Levitico)
La realtà sembra essere alquanto diversa, e poiché i lati oscuri di questo monarcato sono stati accuratamente
nascosti, la testimonianza isolata della sventura di Sotade di Maronea risulta doppiamente preziosa.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
LUCANO E LA CENSURA NERONIANA
Dei poeti, come Virgilio, Orazio, Ovidio, non discorro.
Adulatori per lo più de’ tiranni presenti, sebben
lodatori degli antichi repubblicani.
Il più libero è Lucano.
Giacomo Leopardi, Zibaldone
A proposito dei rapporti fra il giovane Nerone e il suo quasi-coetaneo Lucano, generalmente si suol dire,
semplificando la situazione, che "in un primo tempo" sarebbero stati buoni se non ottimi, cementati
probabilmente dal comune amore per la poesia; poi un evento traumatico, di solito identificato con la
vittoria di Lucano ai Neronia del 60 d.C., avrebbe improvvisamente guastato i rapporti, facendo scattare la
censura da parte del princeps: a Lucano venne proibito di continuare a pubblicare il poema, del quale
avevano visto la luce soltanto i primi tre libri.
La situazione precipitò infine in seguito alla scoperta della "congiura dei Pisoni" nel 65: Lucano, coinvolto
nel complotto, si uccise svenandosi (come lo zio Seneca) all'età di 25 anni; ne seguì una vera e propria
damnatio memoriae nei confronti del poeta e del Bellum civile; il poema si salvò soltanto grazie alla caparbia
opera di divulgazione clandestina compiuta dalla giovane vedova di Lucano, Polla Argentaria, aiutata in
questo dagli amici Marziale e Stazio.
Testa marmorea di Nerone
Ma quali sarebbero state le cause scatenanti della rottura?
Le motivazioni proposte sono sostanzialmente due, e non si escludono a vicenda:
- l'invidia da parte di Nerone nei confronti di Lucano, poeticamente più dotato;
- la forte impronta anti-tirannica e filorepubblicana del poema lucaneo.
Né l'una né l'altra delle due ipotesi è suffragata da testimonianze certe, per cui dobbiamo muoverci con
cautela sul terreno minato delle ipotesi. In particolare, se è vero che, come sostiene in genere la critica,
l'atteggiamento di opposizione politica è avvertibile soprattutto a partire dal IV libro del Bellum civile, non si
vede per quale motivo il princeps si sarebbe dovuto indignare a tal punto per la pubblicazione dei primi tre.
Ma questa tesi è tutta da dimostrare.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
Prendo spunto da un saggio su Lucano di Alerino Palma per tentare di gettar luce su questa spinosa
questione. Ne riporto di seguito alcuni stralci.
"Lucano attraverso le fonti.
La sola opera di Lucano che sia giunta fino a noi è il Bellum civile, intitolato in alcune edizioni Pharsalia, in
italiano Farsaglia, in base all'interpretazione di un riferimento interno: Pharsalia nostra / vivet et a nullo tenebris
damnabimur aevo (IX 985-6) . Il Bellum civile è un poema epico-storico in esametri di 10 libri, rimasto
incompiuto al X libro, che è infatti più breve degli altri, e si interrompe in medias res, nel pieno del racconto
della sollevazione di Alessandria contro Cesare, mentre, secondo le intenzioni dell’autore, che aveva
concepito il poema come anti-Eneide , il Bellum civile doveva terminare, con il XII libro, alle idi di marzo."
Qui Palma dà per assodata quella che in verità è solo un'ipotesi: non sono mancati gli studiosi che hanno
sostenuto altre tesi, da quella secondo la quale il poema sarebbe compiuto così com'è (tesi francamente
assurda) a quelle che propongono altre date (ed altri significati ideologici, inevitabilmente) per il finale: per
esempio la morte di Catone Uticense (46 a.C.) o la battaglia di Filippi con la morte di Bruto (42 a.C).
E' poco probabile, infatti, che Lucano intendesse concludere il suo poema con una nota tutto sommato lieta
(dal suo punto di vista) come la morte di Cesare: appunto perché, come giustamente nota Palma, il Bellum
civile ha l'aria di voler essere l'anti-Eneide, tutto lascia intendere che la prospettiva all'interno della quale il
poeta si muove sia opposta all'ottimismo di matrice paneziana che ispira il poema virgiliano, e sia anzi
quella di un radicale pessimismo, sia storico che cosmico. Un pessimismo, ovviamente, in aperta
contraddizione con la filosofia stoica professata da Lucano: problema del quale egli sembra essere
pienamente consapevole (si veda il colloquio notturno tra Bruto e Catone Uticense nel II libro).
Busto di Lucano a Cordova
Ma proseguiamo con la lettura del saggio:
"Le fonti principali per comprendere la figura e il percorso di Lucano sono le discordanti biografie di
Svetonio e di Vacca, alle quali vanno aggiunte alcune fonti indirette: il XVI libro degli Annales di Tacito per
l’adesione di Lucano alla congiura contro Nerone e gli epigrammi di Marziale. Una terza biografia,
probabilmente spuria, ci tramanda notizie non attendibili come quella, fantasiosa, per cui lo zio Seneca
avrebbe emendato l’incipit del Bellum civile.
La caratteristica di queste fonti è che sono tutte parziali. Le due fonti principali, la biografia di Svetonio e
quella di Vacca, autori vissuti in periodi diversi, danno versioni opposte. Tacito non riferisce più di un
episodio, senza raccontare in che modo Lucano è giunto a unirsi alla congiura di Pisone. Marziale, infine, si
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
produce in alcuni omaggi disinteressati verso il collega, di cui riconosce, senza ironia, la grandezza letteraria.
Tutte le fonti sono utili ma vanno prese cum grano salis.
Sfrondata dalla inevitabile partigianeria , e da certa ostilità preconcetta, la breve biografia svetoniana ci
restituisce un Lucano intellettuale interessato non tanto alla carriera politica – nonostante quaestura
honoratus, un fatto comunque isolato –, quanto invece agli happening culturali del regime neroniano – i
Neronia, qui detti certamen quinquennale. Instabile e capriccioso a tal punto che, offeso per la convocazione
del Senato durante una recitazione di propri versi, Lucano si sarebbe prodotto in svillaneggiamenti piuttosto
sonori del principe pronunciando un suo mezzo esametro (clariore cum strepitu ventris emissi hemistichium
Neronis… pronuntiarit), e, di seguito, avrebbe fatto sua la causa dei congiurati. Secondo Vacca responsabile
della rottura sarebbe stato piuttosto Nerone, improvvisamente diventato geloso della fama poetica del più
giovane Lucano. Nessun riferimento ai primi tre libri del Bellum civile e al loro contenuto.
Che si voglia credere o no a Svetonio, è certo che su un punto concorda con Vacca – e, il particolare non è
irrilevante, con Marziale: le preoccupazioni intellettuali di Lucano sono prevalentemente di natura
letteraria. Questo è vero, quale che sia la causa della rottura con Nerone, per il periodo in cui furono
composti i primi tre libri del Bellum civile e quindi il proemio, con il lungo, e largamente discusso, elogio
dell’imperatore.
Disegno che riproduce un ritratto di Nerone
(dalla Sala degli imperatori della Pinacoteca capitolina di Roma)
Il proemio del Bellum civile. Lucano contra Virgilio
L’incipit del Bellum civile consente un confronto tra Lucano e Virgilio e le rispettive poetiche. Tale
confronto, oltre a delineare la natura e i limiti dell’opposizione tra i due autori, fornisce una chiave di lettura
importante per penetrare la mentalità letteraria di Lucano che conferma le indicazioni presenti nelle fonti.
Una delle due certezze sul poema di Lucano, permanendo fumose tutte le altre questioni, è quella relativa
alla contrapposizione con Virgilio, definita di volta in volta come polemica, programmatica ecc. Antitesi
innanzitutto ideologica: gli ideali repubblicani di Lucano contro l’esaltazione della pax Romana sotto
Augusto che ispira l’Eneide. E antitesi compositiva: si pensi solo all’ispirazione storica del poema di Lucano
– che rinvia a Ennio e Nevio, scavalcando Virgilio –, al bando nel Bellum civile dell’elemento mitologico, a
qualsiasi tipo di trascendenza, di ispirazione religiosa."
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
Su questo punto dissento dalla tesi di Palma: infatti al poema lucaneo è sottesa (sia pure in modo molto
problematico) un'evidente adesione all'ideologia stoica, che, pur non potendosi classificare come "ispirazione
religiosa", equivale ad essa, nel senso che gli Stoici interpretano tutto il reale come manifestazione del LògosPyr, l'energia pensante primaria, che in qualche modo (e nell'ottica di Cleante senz'altro) può essere
identificata con Dio. Basta leggere Seneca per rendersi conto che le cose stanno così.
Circa il fatto che non vi sia appello alla trascendenza, la cosa è a dir poco ovvia, dal momento che
nell'ottica stoica, rigorosamente monistica, non esiste alcuna trascendenza: Dio (il Lògos) è immanente, nella
misura in cui il Lògos è tutto e tutta la realtà non è che Lògos materializzato.
Ma poiché, come s'è detto, il Lògos è immanente alla materia, nulla accade per caso, ma secondo un ordine
prestabilito dalla prònoia o provvidenza divina; sul versante umano, noi la viviamo come heimarmène (Fato,
necessità), ed è appunto questo Fato che regge gli eventi nel Bellum civile (e che viene da Lucano messo in
discussione, dal momento che ha portato ad un esito incomprensibile come la morte della libertà
repubblicana e l'avvento di una tirannide perpetua).
Ora, non bisogna dimenticare che, al di là dell'apparato divino di tipo tradizionale (che Virgilio non può
esimersi dall'adottare, avendo scelto come modello l'epos omerico), la vera divinità che regge gli eventi
nell'Eneide è proprio il Fato: si tratta di un concetto ancora una volta di derivazione stoica, dal momento
che dalla Stoà "di mezzo", e precisamente da Panezio di Rodi, Virgilio trae la sua idea della missione storica
assegnata a Roma dal Fato (visione bene espressa soprattutto nel VI libro, attraverso il discorso di Anchise
ad Enea negli Inferi): si tratta di un deciso mutamento di rotta rispetto alla precedente adesione alla filosofia
epicurea, tipica del Virgilio delle Bucoliche e ben più rispondente alla sua personalità schiva ed introversa;
mutamento del resto ovvio, dato che la filosofia epicurea era totalmente inadatta a fungere da supporto
ideologico per un poema epico.
Paradossalmente, quindi, tanto Virgilio epico quanto Lucano hanno alla base la stessa ideologia, quella
stoica: con la differenza che Virgilio può ancora permettersi un atto di fiducia nei confronti del Fato,
Lucano no.
Proseguiamo con il saggio di Palma:
"Un’eco di questa contrapposizione [tra Lucano e Virgilio] si trova anche nella Vita dedicata allo scrittore
spagnolo da Svetonio, dove si parla di una certa prefazione del Bellum civile, per noi perduta, nella quale
Lucano avrebbe osato (ausus sit), paragonandosi a Virgilio, dileggiarlo con un feroce distico:
et quantum mihi restat
ad Culicem?
["e quanto mi rimane per arrivare al livello del Culex?", cioè di un'operetta minore di Virgilio, inserita nel
corpus dell'Appendix Vergiliana].
Due limitazioni devono comunque essere poste ad una visione troppo assoluta, tranciante, di tale
contrapposizione.
In primo luogo non è accettabile l’equazione che estenda alle idee politiche - nei confronti della
repubblica e del principato - quelle che dovevano essere per lo più aspettative culturali, attinenti al modo
di intendere la poesia, al gusto e alla mentalità di poeti divisi comunque da mezzo secolo di storia letteraria e
politica.
In secondo luogo la visione totalizzante di un Virgilio appiattito nel ruolo di intellettuale organico al
regime augusteo contrapposta a quella di un Lucano repubblicano sotto il principato, nonché ribelle e
contestatore, può essere fuorviante.
Virgilio, che pur non risparmia nell’Eneide omaggi diretti e indiretti ad Augusto e alla sua politica , si tiene
alla larga da qualsiasi celebrazione trionfalistica di quel regime. La mitologia del poema virgiliano, anzi,
sarebbe funzionale ad una sorta di presa di distanza, discreta, e larvata auto-affermazione di autonomia.
Quanto a Lucano, nel momento in cui pubblica i primi tre libri, con tanto di proemio e di esaltazione di
Nerone, il suo nome è ancora associato, da qualsiasi angolatura si voglia guardarlo (Svetonio o Vacca), alle
laudes Neronis, non essendo ancora maturati i motivi di rottura con l’imperatore. E il contenuto delle laudes,
se è vero che fu in parte o del tutto trasfuso nel proemio del Bellum civile, non si discostava dagli elogi del
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
principe, restauratore della pax Romana dopo anni di guerre civili, che attraversavano le opere dei poeti
augustei.
L'edizione del Bellum civile, qui chiamato De bello civili (alias Pharsalia),
preparata da Theodor Pulmann e stampata dall'Officina Plantiniana
e da Johannes Moretus nel 1592.
L’analisi del proemio fornisce elementi importanti sulla complessità di questo rapporto, la volontà,
comunque, da parte di Lucano, di misurarsi con il poeta augusteo su un terreno condiviso, la necessità di
emularlo , a cominciare dall’incipit del Bellum civile:
Bélla per Émathiós | plus quám civília cámpos
che fa il verso, letteralmente, all’incipit dell’Eneide:
Árma virúmque canó | Troiaé qui prímus ab óris
Simmetrica la struttura dell’esametro, con la dipodia dattilica iniziale seguita da una dipodia spondaica .
Inoltre tutti e due i versi incipitari hanno, in apertura, un bisillabo trocaico, neutro plurale (arma, bella), retto
dal verbo cano (canimus nel Bellum civile, al v. 2), che attiene alla guerra (arma è una sineddoche), e
finiscono con un bisillabo (oris, campos) che si riferisce ai luoghi nei quali una guerra è stata combattuta (con
una lieve differenza in quanto quella di Troia non è l’oggetto del poema virgiliano). Tutti e due i versi
iniziali, infine, contengono in sé un sommario dei rispettivi poemi: l’impronta dell’autore (il verbo cano), le
guerre, i luoghi.
I versi introduttivi, sette in entrambi i poemi, contengono rilevanti, ma speculari, differenze per quanto
riguarda il contenuto. L'incipit dell'Eneide è incentrato sulla figura di Enea che per volere dei fati ha
lasciato le sponde di Troia distrutta per andare a fondare le alte mura di Roma. Molto spazio hanno la
volontà divina, espressa dal volere del fato (forza benigna) e dall’ira di Giunone (forza malevola, di
opposizione). Enea compie un iter positivo, ma svolge un compito scritto nel destino, che lo sovradetermina.
Laica è la presentazione del Bellum civile: non c’è intervento degli dei nelle sciagure degli uomini, nel nefas
che accomuna i due personaggi chiave insieme alle loro schiere (cognatas acies sottolinea non solo la
medesima appartenenza degli eserciti, ma anche la parentela indiretta di Cesare e Pompeo) e a tutto il
popolo romano, una volta potente."
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
Ancora una volta mi trovo in disaccordo con quanto detto da Palma circa la "laicità" dell'incipit lucaneo e la
sua "diversità" rispetto alla prospettiva virgiliana: basta infatti proseguire di pochissimi versi per trovare
questa affermazione:
Quod si non aliam venturo fata Neroni
invenere viam magnoque aeterna parantur
regna deis caelumque suo servire Tonanti
non nisi saevorum potuit post bella gigantum,
iam nihil, o superi, querimur; scelera ipsa nefasque
hac mercede placent.
Ovvero:
"Se però il Fato non ha trovato altro mezzo per l'avvento di Nerone, e se a caro prezzo si apprestano gli
eterni regni per gli dèi, e se il cielo poté servire al suo Tonante (= Giove) solo dopo le guerre combattute
contro i crudeli Giganti, noi, o numi, non ci lamentiamo più: approviamo questi nefandi delitti, giacché essi
hanno avuto tali conseguenze." (Bellum civile I 33-38).
Ecco ritornare in campo, esattamente come nell'Eneide, il Fato: ed ecco smentita la "prospettiva laica".
Che poi questa affermazione possa apparire grondante di ironia, è un altro paio di maniche; ma la
prospettiva è, né più né meno, la stessa di Virgilio: è il Destino ad avere voluto tutto questo.
A questo punto si imporrebbe un'analisi puntuale del discussissimo e sconcertante proemio del Bellum
civile, la cui sincerità o meno è stata per anni una vera e propria vexata quaestio negli studi lucanei, ma non è
questo lo scopo della mia ricerca. Mi limiterò a dire che condivido la tesi di coloro che, a differenza di Palma,
lo considerano ironico.
Come afferma Emanuele Narducci (Provvidenzialismo e antiprovvidenzialismo in Seneca e in Lucano), "nella
Pharsalia la negazione dell’ordinamento provvidenziale del mondo, la quale si esprime nelle frequenti
invettive contro gli dei, si fa particolarmente astiosa e violenta proprio perché si alimenta dei residui di
questa fede perduta: è una frizione stridente, che attraversa l’intero poema, e dalla quale emerge l’idea di
una potenza divina intrinsecamente malvagia: una potenza che nella storia umana persegue
l'annientamento della ragione e della virtù, così come sul piano cosmico essa guida, attraverso una catena
causale ineluttabile, l'intero universo verso una catastrofe senza rinascita".
Il principato di Nerone non è che un aspetto della catastrofe, e questo impedisce di prendere sul serio
l'elogio di Nerone e l'intero proemio, che non può che essere inteso in chiave antifrastica.
E poiché è altamente probabile che Nerone sia stato il primo ad accorgersene, i motivi del provvedimento
censorio potrebbero risiedere appunto in questo, più che nella puerile "ripicca" nei confronti del rivale nelle
competizioni poetiche.
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LA PAROLA NEGATA
CORRADO GOVONI: "CENSURA"
Una delle più singolari ironie della storia della censura letteraria è costituita dalla vicenda di un romanzo
dello scrittore ferrarese Corrado Govoni (1884-1965) che avrebbe dovuto intitolarsi appunto Censura:
romanzo mai nato, perché Govoni, quasi ad avverare la sinistra pemonizione contenuta nel titolo, incorse
nelle ire della censura mussoliniana.
A partire dal 1920 Govoni, già noto come poeta futurista "parolibero", si mise a scrivere quasi
esclusivamente in prosa per un periodo di circa vent'anni. Durante quel periodo immaginò le vicende del
giovane Don Renato in un romanzo che non vedrà mai la luce.
Govoni tentò più volte di dare vita a quel libro, che considerava un’opera essenziale, ma senza successo. A
tutt'oggi il romanzo non è mai stato pubblicato: esso è noto soltanto in forma manoscritta ed è conservato
nel Fondo Govoni presso la Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara. Qui sotto ne vediamo due pagine:
Credo che sia interessante ripercorrere le linee essenziali di questa assurda ma istruttiva storia.
L’opera di Corrado Govoni attraversa una fase «crepuscolare» (con la raccolta Le fiale, del 1903) e una fase
«futurista» (con le Poesie elettriche, del 1911). Gli anni 1919-1925 segnano, come s'è detto, una svolta.
Tale mutamento di rotta nella poetica dell’autore coincise in sostanza con il suo trasferimento da Ferrara a
Roma, già nel 1919: città dove egli diventò vicedirettore della sezione libro della SIAE e segretario del
Sindacato Nazionale Scrittori e Autori, titoli di apparente prestigio ma che nascondono una realtà alquanto
più squallida per lo scrittore. Infatti, questi impieghi da «protocollista statale» furono solo un espediente per
fronteggiare le sue difficili condizioni economiche che continueranno anche dopo la fine della guerra, e
comunque una fonte di amarezza, come da lui più volte ammesso (per esempio, nel 1937, Govoni commenta
un suo disegno di un millepiedi come «autoritratto di impiegato statale kafkiano»).
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LA PAROLA NEGATA
Le sue ultime raccolte poetiche di una certa rilevanza sono Rarefazioni e Parole in libertà e L’inaugurazione della
primavera, opere che gli assicurano una certa notorietà. Dopo la parentesi del richiamo alle armi nel 1917 e
della fine della guerra nel 1918, Govoni cerca visibilmente una nuova via poetica, dedicandosi, come si
diceva, più alla prosa che alla poesia.
Oltre all’importante produzione narrativa (novelle, raccolte di novelle e romanzi), egli nel periodo tra le due
guerre pubblicò una serie di testi che suonano come altrettanti omaggi al fascismo, tra cui Lo sghignazzatore
(dedicato a Italo Balbo) e Al Duce invulnerabile, più un encomiastico Saluto a Mussolini, la «rapsodia fascista»
La crociera celeste e il Poema di Mussolini. Forse proprio alla retorica di regime delle opere di Govoni, fin
troppo scoperta, si ispira il recente cortometraggio Fascisti su Marte di Corrado Guzzanti, la cui vicenda
dimostra che la censura è ben lungi dall'essere morta.
L'entusiasmo filo-fascista di Govoni, così acceso da risultare a tratti comico (si pensi ad un titolo come Al
Duce invulnerabile, che è in sé comico), nasconde in effetti un'ambiguità di fondo che non sfuggì allo stesso
Mussolini.
Alla base di tutto c'era infatti il desiderio di Govoni di procacciarsi vantaggi economici a causa della sua
evidente difficoltà nel gestire i propri affari, già rivelatasi a Ferrara dopo la morte dei genitori, anche se, per
certi aspetti, egli avvertiva sinceramente l'esigenza di meritarsi le giustificazioni e le onorificenze del
fascismo. È in sostanza la ricerca di un riconoscimento "ufficiale" che perdurerà negli anni successivi, «in
cui, pure, vanno puntualmente deluse le aspettative legate alle promesse mai mantenute di imminenti
incarichi alla Reale Accademia d’Italia e di elargizioni cospicue al fine di risollevare una condizione
economica divenuta nel frattempo quasi disperata» (G. Iannaccone, «Le prime di Govoni», rivista WUZ, n. 9,
novembre 2002).
Corrado Govoni
Una volta caduta la dittatura mussoliniana, questo «impegno politico» a favore del fascismo gli venne in
seguito sempre rinfacciato, anche dopo che il figlio Aladino, impegnato nei ranghi della Resistenza, era stato
fucilato dai nazifascisti alle Fosse Ardeatine, ragion per cui Corrado Govoni non godette mai di
unanime stima nel mondo culturale; ed è ovvio che sia così, dal momento che, a differenza di suo figlio, non
seppe mai tenere una posizione precisa e diede sempre l'impressione di voler sfruttare a suo favore la
situazione politica esistente.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
Ma torniamo agli anni '20.
La caduta in disgrazia di Govoni agli occhi di Mussolini coincise con un episodio piuttosto banale, mai
chiarito fino in fondo: fatto sta che Govoni, in cattive acque finanziarie, chiese a Mussolini (il quale, in piena
coerenza con la sua politica dittatoriale, controllava tutte le richieste degli impiegati statali) una somma di
denaro che sarà quasi subito l’occasione di un equivoco tra il dittatore e il poeta: un disguido che segnerà
poco dopo l’emarginazione dello scrittore.
Cosa realmente ci fosse sotto non è chiaro: si sa soltanto che la vicenda nacque da un «ringraziamento
mancato» del poeta a Mussolini in cambio delle somme di denaro concesse. Mussolini non tardò a
vendicarsi: in seguito a vari scambi epistolari amministrativi, decretò la disgrazia di Govoni, lasciando alla
gerarchia amministrativa l’impegno di castigarlo e costringendolo in particolare a dare le dimissioni dal suo
impiego alla SIAE, insieme ad altri due colleghi (Guido Milanesi e Pietro Mascagni).
Siamo in grado di ricostruire tutti i particolari della vicenda grazie al volume di G. Iannaccone Suppliche al
Duce (Piacenza, Camoni, 1996), che elenca e registra la corrispondenza intercorsa tra i due protagonisti fino
all’agosto 1941 (ovviamente gli scritti di Govoni erano filtrati dalla trafila amministrativa).
Il caso comincia il 27 maggio 1931 a Roma, con una lettera di Govoni in forma di supplica, che chiede un
aiuto economico. Gli vengono attribuite dal Duce 10.000 lire.
Nel luglio 1931, Mussolini s’informa su Govoni e scrive: «ha mai ringraziato delle 10.000 lire che gli
abbiamo dato?».
Benito Mussolini
L’amministrazione verifica e scopre l’effettiva assenza di ringraziamenti. Ne segue una serie di scambi di
biglietti, al termine della quale Mussolini viene informato di come Govoni abbia accampato un «disguido
postale» come pretesto del mancato ringraziamento.
Il 29 agosto 1931, un biglietto di Mussolini dichiara chiuso l’incidente.
Tuttavia, il 28 settembre, Forges Davanzati, uno dei responsabili amministrativi, denuncia ancora
atteggiamenti politicamente ambigui di Govoni, e la delazione viene chiaramente segnalata anche
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all’interessato, il quale infatti nel periodo che va dal 1932 al 1933 si sforza in vario modo di rientrare nelle
grazie di Mussolini.
Il 30 luglio 1933 Govoni scrive una lettera al Duce in cui allude ad un romanzo in fieri (quello che più tardi
s'intitolerà Censura) e al fatto di vivere una situazione economicamente difficile proprio mentre «sta
conducendo a termine il più vasto e più nuovo romanzo italiano dopo i Promessi sposi».
Ma è tutto inutile: sembra che Govoni sia caduto definitivamente in disgrazia: in effetti pare si fosse
segnalato per un comportamento, diciamo così, troppo disinvolto sia nei confronti di Mussolini che dei
responsabili amministrativi.
Un biglietto del 17 settembre 1934, non firmato, sentenzia lapidariamente: «Corrado Govoni è fior di
mascalzone, a meno che non sia diventato matto. L’Ufficio Stampa ha sequestrato bozze di un volume
antifascista, antimussoliniano, antiumano» (!).
E' altamente probabile che il manoscritto incriminato fosse appunto quello di Censura.
Poco tempo dopo lo scrittore è costretto alle dimissioni dal suo impiego di vicedirettore della sezione libro
della SIAE.
L’illusione di Govoni di poter contare su appoggi politici era entrata in contraddizione con la sua indole
naturalmente orientata all'indipendenza, di cui è dimostrazione anche il suo atteggiamento critico rispetto
al futurismo e a Marinetti, testimoniato da una lettera ad Aldo Palazzeschi (che si compiaceva di essere il
compagno del poeta ferrarese), in cui egli dichiara: «È superfluo qui che io ti dica quale piccola parte abbia
sempre presa nello svolgimento del futurismo in quanto propaganda ed esteriorità, perché tu sai bene che
io ho fatto sempre le mie riserve su tutto quello che sosteneva come vangelo Marinetti e che io non ho mai
esibito (e tanto meno le ho approvate) nelle così dette serate futuriste» (Filippo Tommaso Marinetti-Aldo
Palazzeschi, Carteggio, a cura di P. Prestigiacomo, Milano, Mondadori, 1978, p. 111).
Bisogna pur dire che alcuni passi del manoscritto sembravano fatti apposta per attirare l’occhio della
censura del regime. Questo vale in particolare per quel brano che mostra il protagonista impegnato in
trattative alquanto losche con i membri della Lega della Padania, oppure per quello in cui si allude ad una
«battaglia del grano» e a una «guerra» visibilmente poco apprezzate.
Leggiamo infatti nel manoscritto di Censura, a pagina 165: «Bella battaglia quella del grano! Come è bestia
il popolo! Pensare che se si proibisse oggi di seminare in tutta l’Italia un solo chicco di frumento, si
mangerebbe il pane, candido e profumato, a cinquanta centesimi invece che a due lire del pane tutto colla e
acqua. Comprendiamo le obbligazioni inique: ma se non producessimo in casa nostra tutto il fabbisogno,
cosa sarebbe di noi in caso di guerra? Giustissimo: la guerra! Ma chi vi dice di farla la guerra, cari signori?».
Quest’ultimo brano ha connotazioni affini a certe tonalità palazzeschiane che ritroviamo in alcune pagine di
Due imperi mancati, quindi particolarmente «politicamente scorrette» e sgradite al potere. E poco oltre
troviamo: «È una bestemmia affermare che Mussolini ha sempre ragione» (frase cancellata ma chiaramente
leggibile).
La provocazione era quindi in certo qual modo all’ordine del giorno, tanto da far pensare che Govoni fosse
un temerario, un irresponsabile o un terribile ingenuo, se si aspettava qualcosa di diverso dalle conseguenze
che ne derivarono; che poi è precisamente la stessa cosa che lascia intendere l'autore del biglietto quando,
con un tono sbrigativo e "maschio" tipicamente mussoliniano, lo definisce "fior di mascalzone, a meno che
non sia diventato matto".
Il romanzo a cui alludeva Govoni nella lettera a Mussolini del 30 luglio 1933 è appunto il libro che in seguito,
sulla scia dell’equivoco intervenuto e in piena coerenza con l’avvenuto, avrebbe voluto intitolare Censura.
Ma il libro, come s'è detto, rimarrà allo stato di manoscritto, proprio mentre Govoni lo stava correggendo per
affidarlo in modo effettivo ai tipi della Mondadori: come si può dedurre dagli appunti ritrovati nelle carte di
Govoni insieme al manoscritto, il romanzo era praticamente compiuto e le bozze della casa editrice erano
già bell'e pronte per la stampa quando la pubblicazione venne bloccata dalla censura fascista.
Numerosi documenti dell’Archivio ferrarese testimoniano di un’attenzione costante portata da Govoni al
suo libro e dimostrano che l’autore teneva molto a quel testo, avendovi messo una particolare motivazione
e dedicato una cura continua.
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LA PAROLA NEGATA
Nel tentativo di far pubblicare il romanzo di tutta la sua vita, Govoni cambiò più volte (inutilmente) il
titolo, cercando di renderlo meno polemico e più accattivante.
Ad esempio, una lettera datata 12 maggio 1942, indirizzata a Garzanti, dice: «Sono veramente lieto che
abbiate accolta la proposta della ristampa in edizione definitiva del mio romanzo O giovinezza, fermati: sei
bella e mi accingo senz’altro al lavoro di revisione. [...] Sono disposto a darvi l’esclusiva delle mie opere
nuove per un quinquennio, a patto che Voi mi ripubblichiate, entro tale periodo, quelle già esaurite e
ricercatissime […]. Così, il primo anno del nostro impegno, Voi potreste pubblicare oltre al romanzo
Giovinezza il volume delle poesie scelte o quello di poesie inedite più un secondo romanzo in ristampa o un
libro di racconti inediti, secondo il turno da Voi gradito. Per il prossimo anno Vi consegnerei il romanzo
Storia della Bella Villana a cui lavoro da molti anni e che rappresenterà, non ne ho il minimo dubbio, il più
grande successo letterario dei nostri tempi. Sono convinto di aver raggiunto la mia più solare maturità
artistica, e di esser capace e degno, per tutti i requisiti espressivi e di sensibilità modernissima in mio saldo
possesso, di parlare non ad una cerchia ristretta di iniziati e di delicati inappetenti ascoltatori, come si
accontentano di fare oggi troppi scrittori balbettanti ed impotenti, ma ad un popolo intero, intelligente sano e
maschio. Ho solo bisogno di trovare in Voi, perché scocchi e bruci la mia ora meridiana, quella
comprensione quella stima e fede atte ed indispensabili per manovrar con sagacia e ardimento quella
meccanica preziosa della pubblicità che costituisce il segreto fondamentale di tutte le fame popolari dei poeti
e delle loro opere.»
Il palombaro, poesia visiva di Corrado Govoni
Un altro titolo immaginato da Govoni era Padania-Censura (ancor più politicamente scorretto) e un altro
ancora Vogliamo conoscere anche gli angeli!
Sulla prima pagina del manoscritto si legge questa «Giustificazione del titolo»:
«Il titolo di questo romanzo doveva originariamente essere Censura. L’editore s’inalberò davanti a quel
titolo. E s’inalberò ancor più l’Ufficio Censura. Delle censure ce n’è una e basta. [...] Io col nome di Censura
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
volevo dire semplicemente sincerità. Ma da quando questa parola si è unita a ipocrisia ha perduto ogni
significato. Da quel connubio mostruoso non è ancor nata, ch’io sappia, la parola nuova che il poeta possa
accettare e battezzare e legittimare. Ecco perché in attesa del figlio mostruoso ma virulento, Censura mi
pareva la parola adatta ad esprimere la rappresentazione del nostro mondo in convulsione e l’eventuale
processo che nella mia immaginazione il lettore sarebbe chiamato a istruirgli. Ma non sono riusciti a passar
sopra alle buone ragioni dell’editore e dell’Ufficio Censura. E allora, per accontentarli, mi sono ricordato che
c'è un personaggio nel romanzo che si chiama Bella Villana.
Autoritratto di Corrado Govoni, 1915
È una bellissima donna, (per ora, appena abbozzata, ma che avrà un conveniente sviluppo nel seguito del
romanzo: perché non potrebbe essere anche il bellissimo titolo del romanzo?). Il titolo potrebbe anche
significare, l'importanza capitale della donna e dell’amore nella vita.
Se l’editore e la Censura sono contenti, lo confesso candidamente, non lo sono io, perché mi ero
affezionato a quel titolo. Ma la sincerità si sconta. Evviva dunque la “Bella Villana”, vita sana e figli
maschi!».
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
A dire il vero è oscuro cosa intendesse dire Govoni dichiarando per così dire sinonimi i termini «censura»
e «sincerità». Forse il poeta "fanciullesco", come spesso venne definito, ha voluto giocare con le parole,
ingarbugliando «sincerare» e «censurare» solo perché entrambi possono essere usati nell'accezione di
«accertarsi, assicurarsi»; ma l'ipotesi è molto discutibile.
In seguito Govoni continuò a dedicare la sua attenzione al libro incompiuto, finché riuscì a pubblicare, nel
1960, Uomini sul delta, il quale, pur non identificandosi con Censura, contiene buona parte del testo del
manoscritto iniziale. Ma il progetto originario del romanzo era molto diverso e destinato a rimanere nel
mondo delle intenzioni, nonostante i ripetuti tentativi dell'autore, che si protrassero fino agli anni '50 ed
oltre. Una «notizia bibliografica» datata novembre 1953, destinata a un libro intitolato Censura, afferma
infatti: «Quest'opera audace, di cui il presente volume è la prima delle tre parti di cui essa è composta, che
vuole essere una specie di processo a porte chiuse del nostro tempo bellissimo e scandalosamente cinico, nel
1932 fu fatta sequestrare e distruggere in bozze per le edizioni Mondadori, per ordine di Mussolini che
minacciò il suo autore di duro lungo confino. Il volume che vede ora la luce per i tipi dell’Editore [...], è la
copia del romanzo originale Censura che fu giudicato disfattista ed antifascista dalla prima all’ultima del
milione e centomila lettere di cui consta».
Si trattava dunque della riproposizione del primo progetto del romanzo, e non della successiva
rielaborazione (quella chiamata Uomini sul delta). Ma neppure quest'ultimo tentativo di pubblicazione andò
in porto.
Corrado Govoni in una foto della maturità
Bisogna pur osservare che tale sfoggio di ingenuità da parte dello scrittore suona piuttosto strano: il
suo sdegno è sincero, ovviamente fino a un certo punto, ma ha comunque un qualcosa di urtante e poco
convincente.
Ancor più sconcertante risulta ciò che si legge in una lettera del 1937: «Per quanto in materia di libertà
artistica io abbia profonde convinzioni che non sono precisamente quelle correnti, mi preme di stabilire che
le preoccupazioni morali o politiche non hanno mai costituito il fine né palese o sottinteso di
nessunissima mia opera né di poesia né di prosa».
L'atteggiamento di Govoni risulta alquanto puerile: non si vede infatti come egli potesse pensare seriamente
di poter comporre in piena libertà, scrivendo quello che gli passava per la mente a proposito del regime
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fascista (con l'aggravante, oltre tutto, di non avere, per sua stessa ammissione, alcuna preoccupazione
morale o politica!), e contemporaneamente collaborare (sia pur con un atteggiamento a tratti critico) ad una
poetica del fascismo.
Il romanzo Censura sembra il figlio sognato da un padre dalle idee piuttosto confuse, che, al di là delle
parole e delle belle intenzioni, non ha mai fatto nulla di razionale e coerente per metterlo al mondo: non
stupisce, quindi, che non abbia mai visto la luce.
A me non resta che auspicare che qualche editore lungimirante coroni questo sogno almeno post mortem:
anche perché potrebbe costituire un interessante caso letterario.
Propongo a questo punto la lettura di una pagina di questo romanzo mai pubblicato, tratta direttamente
dalle pagine 87-89 del manoscritto ferrarese, che riportano una lunga fantasticheria di Don Renato davanti
al paesaggio natìo:
Umberto Boccioni, Paesaggio al tramonto, 1906
I tetti che cadevano in rovina ostentavano una ricchezza di caminoni spropositata, facendo pensare a donne scalze e
malvestite con enormi cappelli pomposi in testa; anche le nuvole continue di fumo violetto che se ne svolgevano erano
sproporzionate ai magri desinari inodori che si preparavano giù nelle cucine nere. Il cielo che si curvava su quella
miseria grigia appariva un tale spreco di sole e di azzurro che faceva persin male alla vista. Se quelle catapecchie prima
di tutte ricevevano l’annuncio della primavera dalle croci greche di smalto azzurro delle pervinche al piede delle siepi
ancora addormentate; ricevevano anche il primo segno dell’inverno con la neve sporca delle foglie degli alberi, che il
vento portava dentro sui focolari nebbiosi sulle tovaglie, sui letti, e intricava tra i capelli delle donne in faccende. Per
quelle viottole, fiancheggiate di fossati lunghi e profondi come trincee, ispidi di bardane e di ortiche e di finocchi selvatici
ombreggiati di sambuchi in fiore, o pieni di mazzi di bacche d’inchiostro e le stagioni si avvicendavano coi loro
particolari doni di suoni e di colori. Dall’acqua limacciosa e marcia di tutti i rigagnoli inquinati che vi si scaricavano
spuntavano le pannocchie del diavolo dei gigari, e i gigli rossi che sembravano colorati con la vernice vermiglia dei carri.
[…] Le stagioni lasciavano al mucchio di amate catapecchie i doni più svariati. Ma c’era una primavera che non
tramontava e non passava mai per quelle viottole, quei fossi quei sentieri: l’eterna rosea primavera dei freschi culetti dei
bambini, sempre all’aria, dalla mattina alla sera. Frittelle tenere e dure di tutti i colori, maritozzi con croste di
cioccolata, cannoni di crema puntati verso il cielo o in posizione di riposo e di dopo lo sparo, con la bocca a terra erano
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disseminati ovunque, dissimulati di foglie e da pizzichi d’erba, guarniti di confetti d’oro di vespe, impastati di buccia
d’uva e di vinacciuoli, con semi di zucchero di cocomero e pignoli di vermi. Vi si invischiava il vagabondo che faceva la
posta all’ombra del sorbo ad una ragazza, quando muoveva un passo nell’erba per far la prova dello scatto che avrebbe
fatto verso la ragazza che spuntava nel sentiero, per afferrarle e aggrapparsi alla mammella acerba della verde bottiglia
di latte ch’ella si era recata a riempire alla stalla vicina. Vi restavano presi alla tagliuola con le mani e coi piedi, le coppie
furtive degli amanti che si avventuravano di giorno e di notte in quelle ombre propizie; e se ne andavano maledicendo
quella pasticceria schifosa ch’era come la vendetta dell’immondizia umana contro la loro angelica voluttuosa felicità.
E' facile notare in questo come in altri brani govoniani la piena adesione alla poetica del "panismo" di
matrice dannunziana, che si traduce non solo in una percezione commossa e trasognata del paesaggio, ma
anche in una sensazione di deperimento, di decadenza, che Bertoni caratterizza come la «figura metaforica
di una caduta» (Alberto Bertoni, in Corrado Govoni, Atti delle giornate di studio, Ferrara, 5-7 maggio 1983, a
cura di Anna Folli, Bologna, Cappelli, 1984, pp. 352-53). Assolutamente tipico dello stile di Govoni è il
"fanciullino" che funge da narratore, questa volta di chiara derivazione pascoliana, con l’evocazione
sinestetica dell’ambiente (sonorità, colori) da una parte, e con quella che il Bertoni definisce «relazione
ininterrotta e molteplicata» mediante l’uso di un «raddoppiamento degli “elementi forti” del periodo» (op.
cit., p. 354). Egli si immerge totalmente, fino ad identificarvisi, nel paesaggio che descrive, con un
atteggiamento che si esprime bene nella metafora del palombaro che dà il titolo alla sua più famosa poesia
visiva.
Come nelle sue poesie, anche nella prosa Govoni registra la varietà infinita dei colori del mondo con gioia
fanciullesca e, come scrisse di lui Eugenio Montale, esprime la necessità di tradurre i fenomeni della realtà
in un "fiabesco inventario privato".
La stessa fanciullesca e giocosa irresponsabilità che si esprime, a ben guardare, nel suo rapporto con la
politica, e che forse spiega tanto la sua incapacità di rapportarsi seriamente con essa quanto le sue
vicissitudini con la censura.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
CORRADO GUZZANTI, FASCISTI SU MARTE
Nato come una serie di sketch nella trasmissione televisiva Il caso Scafroglia, nel 2003 Fascisti su Marte di
Corrado Guzzanti è divenuto un cortometraggio (della durata di 45 minuti circa) che venne presentato nella
sezione Nuovi Territori al Festival del Cinena di Cenezia, trasformandosi successivamente in un
lungometraggio.
Il film è stato presentato nella sezione Extra della Festa del Cinema di Roma 2006 ed è stato distribuito nelle
sale italiane il 27 ottobre 2006. A Roma numerosi cartelli pubblicitari del film sono stati divelti o
danneggiati, e solo un numero limitato di sale ha accettato di proiettare la pellicola, a riprova di come la
censura sia ancora ben viva e di come il pubblico italiano sia impreparato ad accogliere la satira politica,
soprattutto quella di qualità. Siamo distanti anni luce dalla parrhesìa aristofanea.
Gli ardimentosi protagonisti di Fascisti su Marte
Eppure si tratta in questo caso di una satira piuttosto bonaria, che non aggredisce ma sorride e compatisce,
e più che attaccare l'Italietta fascista si diverte a parodiare lo stile dei cinegiornali dell'Istituto Luce del
ventennio, tipico strumento di indottrinamento delle masse, e ad imitare, con risultati a tratti irresistibili, la
retorica di regime che si esprime soprattutto in alcune opere di Corrado Govoni, come Al Duce invulnerabile,
Saluto a Mussolini, Poema di Mussolini e soprattutto La crociera celeste, definita «rapsodia fascista».
Il film comprende anche numerose canzoni d'epoca, oltre a composizioni originali parodistiche, fra cui la
sigla del programma (Sopra un prototipo).
Una scena del film è visibile all'indirizzo: http://arjelle.altervista.org/Tesine/Federica/fascistisumarte.htm.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
B) PER RAGIONI MORALI
OSCAR WILDE E IL DE PROFUNDIS
Il De Profundis altro non è che una lunghissima lettera (50.000 parole) che Oscar Wilde (1854-1900) scrisse,
dopo essere stato processato ed incarcerato per omosessualità, al suo compagno Alfred Douglas detto
"Bosie", proprio durante il periodo della carcerazione, tra il gennaio ed il marzo del 1897. La lettera venne
consegnata a "Bosie" dopo che Wilde venne scarcerato, ma egli negò sempre di averla ricevuta. Sono in molti
ad ipotizzare un complotto ordito da Robbie Ross, l'amico fedele di Wilde, che ebbe l'incarico di consegnare
la lettera: è noto infatti che egli cercò sempre di tenere lontano Bosie da Oscar Wilde.
Altre fonti dicono che invece la lettera fu consegnata al destinatario, il quale la distrusse dopo aver letto
poche righe. Ma era una copia.
Comunque stiano le cose, Bosie non la lesse mai.
La verità è difficile da ricostruire anche adesso: infatti il testo integrale del De profundis, a tutt'oggi, non è
disponibile in rete: quello che si legge in circolazione, e che trascrivo in Appendice con la traduzione, non è
infatti il testo completo, come erroneamente si legge nei vari siti che lo riportano, i quali tutti lo spacciano
per "integrale".
Ma che fine ha fatto il testo completo?
Nel 1905, quando ormai Wilde era morto da cinque anni, Ross pubblicò un'edizione ridotta dell'originale col
titolo di De Profundis, che fece testo per tutte le edizioni successive. L'originale fu affidato nel 1909 da Ross al
British Museum, con la condizione espressa che non fosse dato in visione per cinquant'anni. La seconda
copia dattiloscritta fornì il testo per la "first complete and accurate version" pubblicata da Holland nel 1949.
In realtà quando, nel 1959, il manoscritto fu finalmente reso pubblico, fu possibile stabilire che i dattiloscritti
contenevano parecchie centinaia di errori.
Comunque sia, il fatto veramente spiacevole è che ancora oggi si spacci per integrale quello che integrale
non è: comprendo che vi siano esigenze di copyright che impediscono di mettere in rete e di rendere
disponibile a tutti il testo completo della lettera, ma bisognerebbe almeno essere onesti ed ammettere che
quella che leggiamo è una versione ridotta e tagliata della lettera; la parola esatta sarebbe censurata. Infatti,
guarda caso, dall'edizione che viene definita "integrale" in tutti i siti internet sono sparite proprio le parti
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
che riguardano direttamente "Bosie": le quali, ovviamente, sono di particolare importanza, dal momento
che proprio al ragazzo la lettera era indirizzata.
Colpisce, nel testo wildiano, l'insistente richiamo alla figura di Cristo, valutata in chiave ancor più estetica
che etica, coerentemente con i princìpi professati dallo scrittore; anzi, nel caso di Gesù le due dimensioni
finiscono per coincidere, dal momento che l'assolutamente bello coincide per Wilde con l'assolutamente
autentico, e Cristo è entrambe le cose; Gesù, afferma Wilde, "va collocato assieme con i poeti" e la
sua vicenda biografica è la perfetta realizzazione del principio del "fare della propria vita un'opera d'arte".
Va da sé che queste parti del testo, in quanto non troppo preoccupanti per la Chiesa e per l'etica comune,
sono perfettamente leggibili; non così, come dicevo, i riferimenti espliciti a "Bosie", e questo altera
profondamente la nostra percezione del senso complessivo del De profundis: infatti, così com'è ridotto ora,
sembra un appassionato ed intenso cri de coeur dell'autore rivolto, per così dire, all'umanità intera, mentre
esso, al contrario, aveva un destinatario ben preciso e si prefiggeva primariamente un intento pedagogico
nei confronti del fedifrago e superficiale ragazzo.
In mancanza di meglio, propongo di seguito alcuni stralci tratti dalla traduzione di Patrizia Collesi per la
Tascabili Economici Newton (1994), non leggibili nella pretesa "versione integrale":
”La nostra tanto malaugurata e deprecabile amicizia si è conclusa per me con la rovina e il pubblico
disonore."
"Il vero pazzo, colui che gli dèi deridono o rovinano, è colui che non conosce se stesso. Io lo sono stato per
troppo tempo, tu lo fosti per troppo tempo. Non esserlo più. Non aver paura. La superficialità è il vizio
supremo.”
”Mi biasimo per aver permesso che un'amicizia non intellettuale, un'amicizia il cui scopo primario non era la
creazione e la contemplazione di cose belle, dominasse completamente la mia vita. Ammiravi il mio lavoro
quando era compiuto: godevi dei brillanti successi delle mie prime e dei magnifici banchetti... ma non
riuscivi a capire quali fossero le condizioni necessarie per produrre un'opera d'arte... Durante l'intero
periodo in cui fummo insieme non scrissi neppure un verso.”
”La base del carattere è la forza di volontà e la mia divenne completamente sottomessa alla tua... quelle
scenate incessanti che sembravano esserti quasi fisicamente necessarie, e durante le quali... tu diventavi una
cosa tanto terribile da guardare quanto da ascoltare... la mania di scrivere lettere disgustose e ributtanti...
improvvisi attacchi di furore quasi epilettico... Mi sfinisti.”
”Era soltanto nel fango che ci incontravamo... È necessario che io dica che vidi chiaramente che sarebbe stato
un disonore per me il portare avanti anche solo un rapporto di conoscenza con una persona come quella che
tu avevi dimostrato di essere? Attraverso tuo padre tu vieni da una razza con la quale unirsi in matrimonio è
orribile; l'amicizia è funesta, e mette le sue mani violente sia sulla propria che sulle vite degli altri... E se vuoi
sapere quello che una donna prova veramente quando suo marito, il padre dei suoi figli, porta la divisa da
carcerato, scrivi a mia moglie e chiediglielo. Te lo dirà.”
”Solo ciò che è delicato, e concepito con delicatezza, può dare nutrimento all'Amore. Invece all'Odio tutto dà
nutrimento. Non c'è stato un solo bicchiere di champagne che tu abbia bevuto in tutti questi anni che non
abbia nutrito e ingrassato il tuo Odio. E, per gratificarlo, tu hai giocato d'azzardo con la mia vita, come hai
giocato con il mio denaro, in modo incauto, sconsiderato, indifferente alle conseguenze. Se perdevi
immaginavi che la perdita non sarebbe stata tua. Se vincevi, e lo sapevi, l'esultanza e i vantaggi della vittoria
sarebbero stati tuoi.”
”Pensavo tuttavia che sarebbe stato bene, sia per te che per me, se tu avessi protestato contro la versione
della nostra amicizia fatta da tuo padre, non meno grottesca che velenosa, e tanto assurda nelle sue allusioni
a te quanto disonorevole in quelle a me. Quella versione è ora passata di fatto alla storia: viene citata,
creduta, e narrata; il predicatore l'ha presa come suo testo, e il moralista come suo sterile tema.”
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”Ti ho spiegato che dire la verità è cosa dolorosa. Essere costretti a dire bugie è molto peggio.”
”Il passato, il presente e il futuro non sono che un unico momento agli occhi di Dio, alla cui luce dovremmo
cercare di vivere. Tempo e spazio, successione ed estensione, sono semplici condizioni accidentali del
Pensiero.”
”Tu venisti da me per imparare il Piacere della Vita e il Piacere dell'Arte. Forse sono stato scelto per
insegnarti qualcosa di più splendido: il significato del Dolore e la sua bellezza.”
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LA PAROLA NEGATA
HENRI DE TOULOUSE-LAUTREC
"Abbiamo perduto qualche giorno fa un artista che si era acquistato una celebrità nel genere laido…
Toulouse-Lautrec, essere bizzarro e deforme, che vedeva tutti attraverso le sue miserie fisiche… È morto
miseramente, rovinato nel corpo e nello spirito, in un manicomio, in preda ad attacchi di pazzia furiosa. Fine
triste di una triste vita”.
Così il “Lion Republicain” del 15 settembre 1901 saluta la scomparsa di Henri Toulouse-Lautrec.
Lo stesso giorno "Le Courrier Francais" scrive: “Come ci sono gli amatori entusiasti delle corride, delle
esecuzioni capitali e di altri spettacoli desolanti, vi sono amatori di Toulouse-Lautrec. È un bene per
l’umanità che esistano pochi artisti di questo genere”.
Giudizi del genere, così astiosi ed ottusi, dimostrano bene l'incapacità della società borghese di comprendere
il genio di Toulouse-Lautrec; di lui viene còlto solo l'aspetto più superficiale, la volontà-capacità di suscitare
scandalo, e questo fa scattare immediata la censura dei benpensanti.
Ma chi era questo "essere bizzarro e deforme"? Ripercorriamone la vita.
Henri de Toulouse-Lautrec
È la notte del 24 novembre 1864. Un uragano imperversa sulla Linguadoca nella Francia meridionale,
infuriando particolarmente sulla città di Albi. Nel castello dei Toulouse-Lautrec, casato di antichissima
nobiltà, la contessa Adele è alle prese con le doglie del parto: un fatto assolutamente naturale, ma che nel
caso della giovane donna si carica anche di altri significati. Il suo, infatti, non è stato fino a quel momento un
matrimonio felice. Il cugino che la contessa Adele Taple de Celeyran ha sposato, forse affrettatamente
invaghitasi della divisa del brillante ufficiale di cavalleria, si è rivelato un individuo fatuo e superficiale e un
marito certo non all’altezza dell’impegnativo nome della famiglia.
Il parto, sebbene laborioso, avviene regolarmente: è un maschio, e mentre il marito esulta, Adele sospira
sollevata. Al bambino, cui ignaro toccava il difficile compito di riunire due genitori già divisi per gusti,
sensibilità e interessi diversi, viene assegnato il nome Enrico Maria Raimondo di Toulouse-Lautrec. Più
familiarmente Henri, in onore di Enrico V di Borbone, pretendente legittimista al trono di Francia, nipote di
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LA PAROLA NEGATA
quel Carlo X con la cui cacciata nel luglio 1830 i parigini e i francesi avevano definitivamente chiuso con l’età
della Restaurazione.
Passano alcuni anni. Il bambino cresce bene, allegro, intelligente e in buona salute: studia il latino e il greco,
impara a cavalcare, segue i genitori nei loro continui vagabondaggi di oziosi benestanti. Ma i contrasti tra i
due coniugi si accentuano e la separazione si rende inevitabile: quando dalla provincia decidono di stabilirsi
a Parigi, la loro vita in comune è ormai ridotta a poco più che una formalità. Li tengono uniti le convenzioni
sociali e il piccolo Henri, da educare e a cui preparare nella capitale un futuro degno del prestigio familiare.
Nel 1872 il ragazzo viene iscritto al Liceo Fontanes dove stringe una fraterna amicizia con il cugino Louis
Pascal e con Maurice Joyant, che gli sarà vicino e fedele per tutta la vita e oltre, autore di un’opera
fondamentale sull’artista e fondatore del museo di Albi.
Ma lo sviluppo fisico di Henri non è normale. Intorno ai dieci anni comincia a manifestare una salute
cagionevole e, soprattutto, non cresce. E se in casa tentano di consolarlo vezzeggiandolo e chiamandolo petit
bijou, i compagni di scuola parigini, crudeli come solo i bambini sanno essere, non gli perdonano né l’origine
provinciale, né la disarmonia fisica che comincia a palesarsi. Così lo ribattezzano petit bonhomme,
attribuendogli il nomignolo che per secoli in Francia ha designato il contadino francese tonto, sgraziato,
sempliciotto.
Nonostante la madre preoccupata per le sue condizioni fisiche lo abbia ritirato da scuola per ricondurlo ad
Albi, la sua salute non migliora, anzi subisce un duro colpo. Il 30 maggio 1878 Henri si trova nella sua città
natale: mentre tenta di sollevarsi da una sedia a sdraio dove è disteso, cade e si frattura il femore sinistro, la
cui riduzione risulterà assai difficile per i medici a causa dell’eccessiva fragilità delle ossa. È un brutto colpo
per quest’adolescente pensoso e sensibile che aveva già dimostrato una straordinaria vocazione per il
disegno riempiendo quaderni e margini di libri di immagini di animali e caricature di insegnanti e compagni
di scuola: “non state a piangere sui miei guai” dice con grande fermezza d’animo a chi lo circonda, “me lo
sono meritato perché mi sono dimostrato troppo malaccorto”.
Quindici mesi più tardi una nuova caduta e una nuova frattura peggiorano uno stato di salute cronicamente
malfermo: un giorno della primavera 1880, mentre Henri e la madre passeggiano in un bosco nelle vicinanze
di Albi, il ragazzo precipita nel letto di un torrente asciutto, profondo poco più di un metro: le ossa cedono
di nuovo e questa volta è la gamba destra che si rompe all’altezza del femore. Malgrado le cure, la malattia
che lo affligge, identificabile con una grave forma di distrofia poliepifisaria, fa il suo corso devastante. I
tessuti ossei a causa della ridotta vascolarizzazione non si sviluppano normalmente, diventano fragili e
degenerano. Così il giovane Toulouse-Lautrec che a 13 anni era alto normalmente un metro e cinquanta
vedrà bloccato il proprio sviluppo fisico e da adulto non raggiungerà il metro e cinquantadue: gambe e
braccia sono troppo corte, la testa grossa, i lineamenti appesantiti e quasi deformi, il naso appiattito, le labbra
larghe da risultare grottesche ricadono su un mento sfuggente.
Sono anni di sofferenza, di cure, di speranze deluse. Incoraggiato da parenti e amici, Henri fissa sulla carta
tutto quanto colpisce la sua fantasia ricavandone motivi di gioia e consolazione. Continua anche gli studi
regolari: nel 1881 ottiene il baccellierato. L’anno dopo, con il consenso della madre, rientra nella capitale e
comincia a lavorare presso lo studio di René Princeteau, amico del padre Alphonse a sua volta scultore non
del tutto sprovveduto: il maestro parigino ne apprezza le qualità e, sentendosi inadeguato rispetto all'allievo,
lo orienta a collocarsi presso l’atélier di Leon Bonnat, un pittore accademico con lo sguardo rivolto al
passato, ma capace di insegnare tutte le malizie del mestiere.
Henri lavora duramente, s’impegna su temi storici e mitologici che non gli piacciono affatto, ma si
appropria della tecnica. Il maestro, malgrado il suo lavoro disciplinatissimo, non lo apprezza ed esprime
giudizi assai poco lusinghieri: “La vostra pittura non è male, c’è del garbo, sì, davvero, niente male… ma il
vostro disegno è semplicemente orrendo”.
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LA PAROLA NEGATA
Toulouse-Lautrec, A la mie, 1891
Henri passa poi nello studio di Fernand Cormon, alla periferia di Montmartre. Gli amici e i colleghi lo
trascinano di bar in bar e lo mettono a contatto con l’umanità mossa, fervida, dolente di quell’area di Parigi.
Toulouse-Lautrec inizia a osservare e a riprodurre questo mondo duro, tagliente e insieme ingenuo di
umiliati e offesi: ubriaconi e prostitute, omosessuali e gaudenti, sconfitti e spossessati di ogni risma
cominciano ad affollare le sue tavole. Il freddo accademismo delle origini viene abbandonato per una
pittura aderente alla realtà che supera, però, il naturalismo degli impressionisti e privilegia l’uomo privato,
la sua interiorità, sovente fissandosi su soggetti abnormi, casi patologici, situazioni al limite, preludendo alle
modalità dell'espressionismo. Oppure si concentra sui luoghi: povere sale da ballo, circhi di periferia,
bordelli, caffè concerto, il “Gatto nero”, il “Moulin de la Galette”, il “CircoFernando”, il “Bar d’Achille”…
Henri si immerge completamente nell’atmosfera di Montmartre, teso a non perdere né un solo istante di
quella vita, né un solo particolare di quegli spettacoli, ripugnanti e insieme attraenti, alla continua ricerca di
atmosfere e persone, di tipi umani, immortalati in tratti stilizzati che isolano ed esaltano gli elementi
psicologici distintivi di quella umanità povera e reietta.
Un giorno conosce Clementine Valadon detta Suzanne, un’ex lavandaia, trapezista, già modella di Renoir:
bella, desiderabile, Clementine non ha pregiudizi e i due diventano amanti.
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LA PAROLA NEGATA
Toulouse-Lautrec, Ritratto di Suzanne Valadon, 1889
Henri, l’ultimo discendente di due tra i più illustri casati della Francia meridionale ormai ricalca
perfettamente il cliché del bohémien anticonformista. Quasi sempre ubriaco, rappresenta un motivo di
scandalo per l’aristocratica famiglia che, però, gli offre i mezzi per aprire uno studio a Montmartre.
Clementina lo segue, ma quando i suoi tradimenti si fanno troppo palesi avviene la rottura tra i due, un altro
motivo di sofferenza per il sensibilissimo Henri.
Nel 1888 Toulouse-Lautrec espone per la prima volta “Aux arts Incoherents” e nel settembre 1889 ottiene il
suo primo grande successo al quinto Salone degli Indipendenti con il celeberrimo Bal au Moulin de la
Galette. A Bruxelles nel 1890 le sue opere appaiono assieme a quelle di Renoir, Signac, Cezanne, Zidler: il
proprietario del Moulin Rouge – il locale dove Henri seduto sempre allo stesso posto per avere la stessa
visuale trascorreva tutte le sue serate ed era diventato quasi una figura leggendaria – acquista, pagandolo
lautamente, La danse au Moulin Rouge, la sua terza grande composizione. Nel settembre 1891 un manifesto
dipinto da Toulouse-Lautrec per lo stesso locale rende improvvisamente celebre il suo autore. L’anno dopo
Degas, il grande impressionista per il quale Henri aveva sempre professato un’ammirazione sconfinata,
dopo aver visto alla galleria di Maurice Joyant una quarantina di sue opere, stringendogli la mano gli dice:
”Bene, anche tu ormai fai parte della banda”.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
Toulouse Lautrec, La danse au Moulin Rouge, 1890
Lautrec è ormai celebre. I suoi atteggiamenti indispongono i benpensanti, scandalizzano gli accademici,
provocano i conformisti… Intanto la Montmartre che amava si andava spegnendo: il pittore l’abbandona e
disperato si mette a frequentare tutti i bordelli della città. Irascibile, intrattabile, lavora febbrilmente
passando dai quadri ai manifesti, ai disegni, alle illustrazioni per libri e giornali, alle litografie.
Nel 1896 espone a Londra, ma l’esito di questa esperienza inglese non è felice, malgrado si tratti di un
periodo di straodinaria felicità espressiva. La stampa lo attacca impietosamente, censurando i contenuti del
suo lavoro e criticando le sue scelte formali. Suscitano particolare scandalo alcuni suoi dipinti, realizzati
intorno al 1892-96, raffiguranti coppie di lesbiche, alle quali egli dedica opere di intenso lirismo (soprattutto
nella stupenda serie "a letto").
Viaggia in Olanda, Belgio, Spagna, Portogallo. Rientrato a Parigi ha una crisi di delirium tremens: soffre di
allucinazioni e amnesie, ma ha ancora voglia di vivere e di guarire. La madre, l’unica persona di cui l’artista
accetti preoccupazione e sollecitudine, lo fa ricoverare in una clinica di Neuilly. Si rimette in salute ed
esegue, proprio per dimostrare ai medici e agli amici di essere in grado di intendere e lavorare, i famosi
trentanove disegni del circo, tutti caratterizzati da un elemento ricorrente, agghiacciante: l’assenza degli
spettatori. Quei gradini vuoti sono come il brivido della morte ormai prossima.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
In maniera forsennata lavora ancora a ritratti e disegni. Nell’estate del 1901, sentendo prossima la fine, si
dedica a terminare le opere incompiute, firma dipinti e disegni, riordina i propri materiali. Il 15 agosto è
colpito da una paralisi alle gambe: eroicamente, malgrado la malattia, si sforza di portare a termine la sua
ultima opera, Un esame alla facoltà di medicina, una grande tela dai colori cupi, che, secondo l’ultima maniera
dell’artista, scava meno nei dettagli dei visi e si rivela più attenta agli effetti di luce.
Muore il 9 settembre 1901, fra le braccia della madre.
Henri de Toulouse-Lautrec potrebbe essere considerato l’ultimo degli impressionisti, ma anche un
precursore dell’espressionismo per il suo tratto inciso e nervoso, che lo accomuna appunto alla pittura
espressionista. Tuttavia, anche per la sua produzione di manifesti, egli fornì molti stimoli al sorgere di quello
stile decorativo, definito Liberty, che contraddistinse la produzione di arte applicata tra fine Ottocento e inizi
Novecento; basta uno sguardo anche superficiale al disegno stilizzato ed elegantissimo del suo celebre "gatto
nero" per rendersene conto.
Nonostante l’incomprensione dei critici a lui contemporanei e la cattiveria dei giudizi, che attestano
semplicemente lo stupido livore di coloro che si credono "normali" nei confronti di chi rappresenta
l'eccezione, le tavole di quest'uomo sfortunato e coraggioso, di questo artista prolifico e geniale, hanno
esercitato e continuano a esercitare fino ai nostri giorni profonde suggestioni su tutti coloro che con le linee e
il colore hanno inteso indagare sul difficile, difficilissimo mestiere di vivere.
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LA PAROLA NEGATA
Henri Toulouse-Lautrec, Bal au Moulin de la Galette (1889)
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LA PAROLA NEGATA
Henri Toulouse-Lautrec, Manifesto per il Moulin Rouge (La Goulue) (1891)
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LA PAROLA NEGATA
Henri Toulouse-Lautrec, Il bacio - a letto (1892)
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LA PAROLA NEGATA
Henri Toulouse-Lautrec, Nel letto (1893)
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LA PAROLA NEGATA
Henri Toulouse-Lautrec, Ispezione medica in Rue des Moulins (1894)
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
Henri Toulouse-Lautrec, Le due amiche (1894-5)
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
Henri Toulouse-Lautrec, Il sofà (1894-6)
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
Henri Toulouse-Lautrec, La tournée du Chat Noir (1896)
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LA PAROLA NEGATA
Henri Toulouse-Lautrec, La toilette (1896)
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LA PAROLA NEGATA
C) PER RAGIONI FILOSOFICO-RELIGIOSE
IPPASO DI METAPONTO E I NUMERI IRRAZIONALI
Per Pitagora "tutto è numero": il numero è la chiave per svelare i segreti dell'universo. E per Pitagora i
numeri erano tutti esprimibili attraverso semplici e "rassicuranti" rapporti matematici, frazioni di numeri
interi.
Ma un giorno questo universo fatto di solide certezze matematiche vacillò fin quasi a crollare, sotto il peso di
una nuova, terribile scoperta. Qualcuno (probabilmente Ippaso di Metaponto) si accorse, a partire dalla
semplice figura del quadrato, che il lato e la diagonale avevano lunghezze che non erano esprimibili
attraverso un rapporto di due numeri interi. Erano dunque incommensurabili.
Fu un vero e proprio terremoto: si aprivano nell'universo dei numeri "buchi neri" impensabili: i numeri
irrazionali, la cui espansione in qualunque base (decimale, binaria, ecc.) non termina mai e non forma una
sequenza periodica.
Come prima conseguenza della scoperta, i Pitagorici furono costretti ad ammettere che il punto non ha
dimensioni, contrariamente a quanto avevano sempre creduto e affermato: essi infatti ritenevano che i punti
avessero una dimensione, fossero molto piccoli e tutti uguali, ma non nulli. Ora invece risultava evidente che
un segmento e in generale una figura geometrica sono costituiti da infiniti punti di dimensione nulla. Infatti,
nel caso in cui un segmento fosse costituito da un numero finito di punti, ne risulterebbe, ad esempio, che il
lato del quadrato conterrebbe un numero intero di punti, e corrisponderebbe quindi ad x volte la dimensione
di un punto. La diagonale, a sua volta, sarebbe y volte la dimensione del punto.
Pitagora di Samo
Il lato e la diagonale avrebbero quindi un sottomultiplo comune, il punto, e non sarebbero perciò
incommensurabili, come invece era risultato evidente. E' proprio la loro incommensurabilità a richiedere che
un segmento sia costituito da un numero infinito di punti.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
La figura qua sotto aiuta a capire perché:
Costruiamo un quadrato di lato unitario.
Sappiamo che il rapporto fra la diagonale a e il lato b è pari a
. In questo specifico caso si ha che a:b =
, quindi a:1 =
, quindi
= a:1, quindi la diagonale misura
.
1 rappresenta la lunghezza del lato ed è anche, sulla retta numerica, la distanza dall'origine.
La diagonale è lunga
, ma è anche, proiettata sulla retta numerica, la distanza dall'origine, un numero
che per i pitagorici non aveva diritto di esistere, con infinite cifre dopo la virgola.
Per loro, sulla retta numerica c'erano soltanto numeri interi e frazioni, a ciascuno dei quali corrispondeva un
punto. In questo modo, invece, si doveva ammettere che il segmento della retta compreso tra 1 e 2 fosse
costituito da infiniti punti.
Pitagora censurò immediatamente la scoperta e l'incauto scopritore fu messo a tacere. I Pitagorici
continuarono a sviluppare e diffondere le loro teorie cercando di tenere nascosta questa verità, nella
speranza che prima o poi si potesse trovare una soluzione.
Ma qualcuno parlò.
Il “traditore” fu Ippaso di Metaponto, proprio colui che, forse, questa incommensurabilità l'aveva scoperta.
La reazione dei pitagorici fu durissima: Ippaso fu bandito e gli fu costruito, quantunque ancora in vita, un
monumento funebre. Morì poco tempo dopo vittima di un naufragio, secondo la leggenda, "per volere di
Zeus adirato": sulla sua morte sorse ben presto una diceria che ne fa un vero e proprio "giallo"
dell'antichità. Si disse infatti che il suo assassinio fosse stato commissionato da Pitagora.
Scrive il filosofo greco Proclo: “I pitagorici narrano che il primo divulgatore di questa teoria [degli
irrazionali] fu vittima di un naufragio; e parimenti si riferivano alla credenza secondo la quale tutto ciò che è
irrazionale, completamente inesprimibile e informe, ama rimanere nascosto; e se qualche anima si rivolge ad
un tale aspetto della vita, rendendolo accessibile e manifesto, viene trasportata nel mare delle origini, ed ivi
flagellata dalle onde senza pace”.
Ma era evidentemente impossibile tenere nascosta per sempre la scoperta, e lo stesso Pitagora dovette
arrendersi all'evidenza. Anzi, paradossalmente, a tal punto egli fece propria questa nuova conoscenza, da
adottare più tardi proprio di un numero irrazionale, ф, come emblema della sua setta, attraverso il
pentagramma o pentacolo, costruito a partire dal pentagono regolare, in cui ф è presente in modo
addirittura ossessivo.
Ma evidentemente, all'epoca della scoperta di
, i tempi non erano ancora maturi, e fu il povero Ippaso a
farne le spese.
Ma chi era esattamente Ippaso di Metaponto?
La sua figura è immersa nel mistero: l'origine stessa che gli viene generalmente attribuita non è affatto certa.
Giamblico (autore della Vita pitagorica) lo dice di Metaponto o di Crotone, mentre nel suo catalogo dei
filosofi lo elenca tra i Pitagorici di Sibari.
Secondo lo stesso Giamblico (Vita pitagorica 257) Ippaso avrebbe partecipato allo scontro che oppose due
fazioni dei Pitagorici dopo la distruzione di Sibari (avvenuta nel 510 a.C.) ad opera dei Crotoniati,
schierandosi dalla parte dei democratici.
Giamblico gli attribuisce la descrizione del dodecaedro regolare e la dimostrazione della sua inscrivibilità in
una sfera, aggiungendo che, avendo divulgato queste nozioni all'esterno della scuola, contrariamente alle
prescrizioni di Pitagora, "per la sua empietà morì in un naufragio".
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LA PAROLA NEGATA
A onor del vero né Giamblico né altri affermano esplicitamente che Ippaso sia stato lo scopritore dei
numeri irrazionali, il che rende più fitto il mistero. Poiché però la stessa colpa e la stessa punizione viene
anche attribuita da Giamblico all'innominato pitagorico che aveva divulgato la scoperta
dell'incommensurabilità, si suppone generalmente che questo personaggio fosse proprio lui.
Kurt von Fritz ha supposto che la scoperta potesse essere in relazione con la costruzione del pentagono
regolare e del dodecaedro basato su questa figura: se così fosse, Ippaso si sarebbe imbattuto nel primo
rapporto tra grandezze incommensurabili studiando la sezione aurea che appare nella costruzione di
entrambe le figure, ed avrebbe scoperto perciò il numero ф. La maggioranza degli studiosi ritiene tuttavia
più probabile che il primo caso dimostrato di incommensurabilità, precisamente quello collegato con
Ippaso, sia stato quello tra lato e diagonale di un quadrato. Il numero incriminato, "reo" della morte di
Ippaso, non sarebbe dunque ф, ma
.
Il pentagramma (o pentalfa o pentacolo), simbolo
dei Pitagorici
Vediamo ora com'è possibile dimostrare l'irrazionalità di questo numero.
Essa risulta da tre dimostrazioni:
la prima risale ai Pitagorici stessi, come afferma Aristotele, e procede per assurdo, dimostrando che
le due grandezze sono incommensurabili;
la seconda conduce alla definizione matematica del rapporto fra la diagonale e il lato:
la terza è di Euclide e consente di dimostrare che
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non è un numero razionale.
;
FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
1) Prima dimostrazione
Non sempre una dimostrazione può essere realizzata in modo diretto: talvolta si può procedere solo in modo
indiretto, ossia attraverso una dimostrazione per assurdo (filosoficamente reductio ad absurdum).
Quando si sviluppa una prova attraverso la riduzione all'assurdo si parte dall'ipotesi contraddittoria (e non
semplicemente contraria) alla proposizione da dimostrare: se tramite un ragionamento corretto se ne
deduce una conclusione assurda (perché autocontraddittoria o contraddittoria con le premesse date), ne
consegue che la premessa è falsa.
E siccome tra due proposizioni contraddittorie una deve essere vera e l'altra falsa, risulta dimostrata come
vera la proposizione contraddittoria all'ipotesi.
Un esempio di questo procedimento è quello che dimostra l'incommensurabilità della diagonale e del lato
di un quadrato, equivalente, sul piano numerico, al valore di
. Questo era uno dei grandi problemi
della geometria greca; la sua soluzione rappresenta una grande conquista per il pensiero matematico delle
origini.
Apparentemente il problema è di facile soluzione: si chiede infatti se sia possibile usare il lato del quadrato
come unità di misura per misurare la diagonale, ovvero se esiste una unità di misura comune al lato e alla
diagonale, e intuitivamente sembra che si debba rispondere in modo affermativo. E invece non è affatto così.
Secondo le indicazioni di Aristotele, furono proprio i Pitagorici ad applicare il procedimento per assurdo
alla dimostrazione dell'incommensurabilità della diagonale e del lato del quadrato; tale dimostrazione "si
fonda sul fatto che, se si suppone che siano commensurabili, i numeri dispari risultano uguali ai numeri pari."
Proviamo a ripercorrere il loro ragionamento.
Abbiamo due ipotesi di partenza, contraddittorie tra di loro:
- lato e diagonale sono commensurabili (ossia esiste una unità di misura comune);
- lato e diagonale non sono commensurabili (ovvero non esiste una unità di misura comune).
È fondamentale capire che non possono esserci altre ipotesi (tertium non datur): solo così infatti, non
potendo dimostrare direttamente l'incommensurabilità del lato e della diagonale, la si potrà dimostrare
indirettamente, e cioè dimostrando che l'ipotesi della commensurabilità non può essere ammessa perché
contraddittoria.
Partiamo perciò dall'ipotesi che in un quadrato ABCD la diagonale AC sia commensurabile con il lato
AB. Questo significa che sarà possibile trovare una unità di misura comune tra lato e diagonale.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
La dimostrazione per assurdo procede così:
Costruiamo il quadrato ABCD, i cui lati ed angoli sono uguali tra loro:
Se consideriamo il triangolo ABC, ci accorgiamo che è un triangolo retto isoscele, dal momento che l'angolo
in B è di 90°, essendo l'angolo di un quadrato, e i due cateti corrispondono a due lati del quadrato.
È così possibile applicare il teorema di Pitagora, che stabilisce una relazione precisa tra lato e diagonale di
un triangolo rettangolo:
AC2 = AB2 + BC2
ovvero, in questo caso:
d2 = l 2 + l 2
ovvero d2 = 2l2
I casi possibili sono tre. Lato e diagonale possono essere misurati da due numeri:
- entrambi pari
- entrambi dispari
- uno pari e uno dispari.
La dimostrazione consiste nel mostrare che nessuna di queste possibilità è corretta, in quanto sono tutte
contraddittorie e che perciò è l'ipotesi stessa della commensurabilità che va scartata.
Partiamo dall'ipotesi n° 1 (lato e diagonali entrambi pari):
I numeri naturali l e d che misurano AB e AC devono essere primi tra loro (come d'altra parte i loro
quadrati), cioè non essere ulteriormente divisibili per un denominatore comune: assumiamo infatti che
siano i due più piccoli numeri che stiano tra di loro nello stesso rapporto in cui stanno lato e diagonale. Se
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
così non fosse, infatti, essi avrebbero un denominatore comune che è possibile eliminare tramite una
semplificazione.
Ma se fossero entrambi pari, essi avrebbero come fattore comune il numero 2: quindi l'ipotesi 1 è esclusa.
Consideriamo l'ipotesi n° 2 (lato e diagonale entrambi dispari):
Se
p = l2
q = d2
allora
q = 2p
Il quadrato costruito sulla diagonale, per il teorema di Pitagora, è il doppio del quadrato costruito sul lato.
Se poniamo che
p = l2
q = d2
avremo la seguente uguaglianza:
2p = q
Questa uguaglianza ci costringe a dire che q è pari, in quanto è uguale ad un numero moltiplicato per 2.
Ma anche la metà di un numero pari è pari: perciò anche p, che è la metà di q, è pari.
Anche la seconda ipotesi va perciò scartata.
Resta l'ipotesi n° 3 (lato e diagonale uno pari e l'altro dispari):
L'ipotesi si divide in due sottoipotesi:
- lato pari e diagonale dispari
- lato dispari e diagonale pari.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
Se
p = l2
q = d2
allora
q = 2p
In entrambi i casi, il teorema di Pitagora impone il fattore 2, che rende impossibile la soluzione con i numeri
naturali della equivalenza:
2p=q
sia che p venga assunto come pari e q come dispari
sia che q venga assunto come pari e p come dispari.
Infatti:
se q = 2p, allora q è per forza pari, e d, che è la sua radice quadrata, è pari anch'esso; la diagonale perciò non
può essere dispari.
Dovrebbe dunque essere dispari p e la sua radice quadrata, cioè il lato l:
ma se q = 2p, allora p = q/2, e siccome abbiamo detto che q è pari, allora anche p non può che essere pari, e il
lato l, che è la sua radice quadrata, è anch'esso pari.
I due numeri sono perciò entrambi pari e l'ipotesi è assurda.
In conclusione: giacché nessuna soluzione deducibile dall'ipotesi della commensurabilità è possibile, si deve
concludere che lato e diagonale sono incommensurabili tra loro.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
2) Seconda dimostrazione
Un'altra dimostrazione possibile è la seguente, che conduce alla definizione del valore che esprime il
rapporto tra la diagonale e il lato.
Per dimostrare che due grandezze sono incommensurabili, basta dimostrare che la misura di una rispetto
all'altra non è un numero razionale.
Procediamo dunque alla prima parte della dimostrazione.
Prima di tutto stabiliamo qual è il valore dalla diagonale (che chiameremo ) rispetto al lato (che
chiameremo ). Per farlo basta utilizzare nuovamente il Teorema di Pitagora.
Infatti dato un quadrato:
sappiamo che:
da cui
allora
Semplificando abbiamo che
e quindi d/l =
.
Abbiamo quindi trovato la misura di
Ora bisogna dimostrare che il numero
rispetto a .
non è razionale.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
3) Terza dimostrazione
non è razionale è procedere ancora una volta per assurdo. Tale
Il modo più semplice di dimostrare che
dimostrazione ha un padre illustre: Euclide.
Come si sa, in matematica un numero razionale è un numero ottenibile come rapporto tra due numeri
interi, il secondo dei quali diverso da 0. Ogni numero razionale quindi può essere espresso mediante una
frazione a/b, di cui a è detto il numeratore e b il denominatore.
Raffaello, Euclide (dettaglio della Scuola di Atene
dalle Stanze Vaticane)
Supponiamo quindi che
irriducibile.
Scriviamo quindi
sia razionale, ovvero sia possibile scriverlo sotto la forma
, ulteriormente
da cui
che possiamo scrivere anche
Ovviamente
è pari, ed allora anche
, che è uguale, sarà pari. Ma se
è pari, allora anche
sarà
pari: infatti il quadrato di un numero pari è sempre pari, mentre il quadrato di un numero dispari è sempre
dispari.
Ma se
è pari, allora è possibile scriverlo nella forma
.
Sostituendo sopra abbiamo quindi:
Sviluppando il quadrato e semplificando otteniamo:
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
Ora, come abbiamo stabilito prima,
Abbiamo allora concluso che
e
è senz'altro un numero pari. Ma allora anche
è pari.
sono pari. Ma ciò è assurdo!
Infatti inizialmente avevamo supposto
con
irriducibile, e non è evidentemente possibile
che una frazione irriducibile abbia sia il denominatore che il numeratore pari: essi avrebbero in comune il
numero 2, e la frazione sarebbe perciò riducibile.
Siamo giunti perciò ad una conclusione contraddittoria rispetto alla premessa, e poiché il ragionamento
svolto era logicamente ineccepibile, se ne deve concludere che la premessa era falsa.
E' falso perciò che il numero
Ma se
si possa esprimere con una frazione.
non è esprimibile sotto forma di frazione, allora
C.V.D.
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è irrazionale.
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LA PAROLA NEGATA
LA TEORIA ELIOCENTRICA
ARISTARCO DI SAMO
Aristarco di Samo (310- 230 a.C. circa), da non confondere con il suo omonimo Aristarco di Samotracia
(celebre grammatico del III-II secolo a.C.) studiò ad Alessandria, dove ebbe come maestro Stratone di
Lampsaco e dove operò all'interno del Μουσεῖον, la prestigiosa istituzione dedicata alle scienze ed alle arti
sorta per volere di Tolomeo I Sotèr e portata al massimo spendore dai suoi successori Tolomeo II Filadelfo e
Tolomeo III Evèrgete.
Astronomo e fisico, Aristarco è noto soprattutto per avere per primo formulato la teoria eliocentrica,
ipotizzando che fosse la Terra a ruotare intorno al Sole (nel suo modello descriveva un'orbita circolare) e non
viceversa. Pare inoltre che Aristarco concordasse con Eraclide Pontico nell'attribuire alla terra anche un moto
di rotazione diurna attorno ad un asse inclinato rispetto al piano dell'orbita intorno al Sole (l'ultima ipotesi
giustificava l'alternarsi delle stagioni).
Secondo la testimonianza di Plutarco, l'eliocentrismo (che Aristarco aveva accettato come base della sua
teoria perché gli permetteva di giustificare i moti osservati dei pianeti) fu successivamente ripreso e
dimostrato da Seleuco di Seleucia nel II secolo a.C., ma non riscosse alcun successo nell'antichità e fu
rifiutato con forza, quattro secoli dopo Aristarco, da Claudio Tolomeo, le cui concezioni geocentriche
dominarono incontrastate la tarda antichità e il Medioevo (basti pensare all'universo dantesco).
Di fatto, l'unica opera pervenutaci di Aristarco è il breve trattato Sulle dimensioni e distanze del Sole e della
Luna, nel quale egli calcola la grandezza del Sole e della Luna e le relative distanze dalla Terra servendosi di
un ragionamento di questo genere:
quando la Luna è in quadratura, ossia è illuminata per metà, essa, con la Terra e il Sole, forma il triangolo
rettangolo mostrato in figura. Misurando in tale condizione l'angolo β compreso tra la direzione Terra-Sole e
la direzione Terra-Luna è possibile calcolare il rapporto tra le loro distanze mediante un ragionamento di
tipo geometrico.
Il problema di Aristarco consisteva nel calcolare (o meglio, stimare dall'alto e dal basso) il rapporto tra i
cateti di un triangolo del quale si conoscono gli angoli, il che significa calcolare, o stimare, la tangente
trigonometrica di un angolo. Il calcolo di Aristarco può pertanto essere considerato come una delle prime
applicazioni della trigonometria.
Aristarco ottenne un risultato molto impreciso, stimando il rapporto tra le distanze del Sole e della Luna
come compreso tra 18 e 20, mentre il rapporto tra le distanze medie è in realtà circa 400. Le stime di Aristarco
sono correttamente dedotte dal valore da lui assunto per l'angolo Sole-Terra-Luna all'atto della quadratura,
ma l'angolo era stato misurato con scarsa precisione. La grandezza abnorme dell'errore è dovuta a due cause
principali: in primo luogo Aristarco dovette calcolare la tangente di un angolo molto vicino a un angolo
retto, molto vicino cioè al valore nel quale la tangente diverge; in queste condizioni un errore relativamente
piccolo sull'angolo si traduce necessariamente in un errore enormemente maggiore sulla tangente. Inoltre
per stimare con accuratezza l'angolo che interessava Aristarco occorreva riconoscere l'effettiva quadratura
con una precisione difficilmente raggiungibile ad occhio nudo: basta un errore di poche ore sull'istante in cui
la quadratura ha luogo perché l'errore sull'angolo si traduca in un errore enorme sulla sua tangente.
Al di là del risultato concreto, comunque, il metodo di Aristarco è in sé valido e permette di stimare
dall'alto e dal basso la tangente di qualsiasi angolo; in questo consiste probabilmente il maggior valore di
questa sua opera. Resta tuttavia il rimpianto per la perdita della sua opera maggiore, quella appunto che
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
esponeva la teoria eliocentrica: su di essa abbiamo solo brevi testimonianze (la più importante delle quali è
di Archimede nell'Arenario), e certamente la sua scomparsa non è dovuta al caso: si tratta infatti di un
fenomeno di vera e propria censura.
A dire il vero pare che l'obiezione che gli mossero i suoi contemporanei sia stata di tipo scientifico, e non
filosofico-religiosa, come invece sarà nel caso di Galileo: essi si chiesero per quale motivo le stelle fisse non
modificassero la propria posizione nella volta celeste nel corso dell'anno, come invece avrebbero dovuto fare
se la Terra fosse stata in movimento. Archimede afferma che Aristarco superò l'obiezione ipotizzando che la
distanza tra la Terra e le stelle fisse fosse infinitamente maggiore del raggio dell'orbita annuale terrestre, e in
effetti è proprio così: essa è tanto maggiore da evitare ogni effetto di parallasse misurabile con gli strumenti
dell'epoca (e anche delle epoche successive fino al XIX secolo). L'idea che le stelle siano ad una distanza
enormemente superiore a quella del Sole è ripresa da altri autori (ad esempio da Cleomede).
Ritratto di Aristarco di Samo
Tuttavia è evidente che non fu né solo né principalmente per ragioni scientifiche che scattò la censura: la
teoria di Aristarco, infatti, metteva in discussione (come più tardi quella di Copernico) la centralità della
Terra nell'universo, e con essa sanciva l'assoluta irrilevanza dell'essere umano. Il pensiero religioso non
poteva che esserne scosso e turbato, e con esso anche il pensiero filosofico, in primis l'intero edificio di quello
stoico, che poneva come assunto di base che l'uomo, in quanto particolarmente dotato di Lògos, fosse il
vertice e lo scopo dell'Universo (che nella prospettiva stoica non è altro che Lògos materializzato).
Infatti sappiamo da Giacomo Leopardi che Aristarco venne pesantemente attaccato ed accusato di empietà
dallo stoico Cleante. Leggiamo il testo leopardiano: «Altro astronomo greco fu Aristarco, vissuto, come
credesi, verso il 264 avanti Gesù Cristo, benché considerevolmente più antico lo facciano il Fromondo e il
Simmler presso il Vossio, ripresi però dal Fabricio. Di lui fecer menzione Vitruvio, Tolomeo e Varrone presso
Gellio nel quale, in luogo di Aristide Samio, è da leggersi Aristarco. Egli determinò la distanza del Sole dalla
Terra, che egli credé 19 volte maggiore di quella della Terra medesima dalla Luna e trovò la distanza della
Terra dalla Luna, di 56 semidiametri del nostro globo. Credette che il diametro del sole fosse non più che 6 o
7 volte maggiore di quello della Terra e che quello della Luna fosse circa un terzo di quello della Terra
medesima. Fu dogma di Aristarco il moto della Terra, ed egli, per tale opinione, reputossi da Cleante reo di
empietà, quasi avesse turbato il riposo dei Lari e di Vesta» (Storia dell'astronomia).
A questo grande e misconosciuto precursore dell'eliocentrismo sono stati intitolati un cratere lunare,
Aristarchus, e un asteroide, 3999 Aristarchus.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
COPERNICO E IL SISTEMA SOLARE
Nel 1543 l'astronomo Niccolò Copernico (1473-1543), con il suo De Revolutionibus orbium coelestium (Le
rivoluzioni dei mondi celesti), ripropose una visione del sistema solare simile a quella già formulata nel III
secolo a.C. da Aristarco di Samo, ovvero una teoria eliocentrica, nata per sostituire totalmente la teoria
tolemaica.
In questa visione il sistema solare è un sistema planetario costituito da una varietà di oggetti celesti
mantenuti in orbita dalla forza di gravità del Sole; vi appartiene anche la Terra. È costituito da otto pianeti,
dai rispettivi satelliti naturali, da cinque pianeti nani e da miliardi di corpi minori. Quest'ultima categoria
comprende gli asteroidi, in gran parte ripartiti fra due cinture asteroidali (la fascia principale e la fascia di
Kuiper), le comete, le meteoroidi e la polvere interplanetaria.
Raffigurazione del sistema solare
In modo schematico, procedendo dall'interno verso l'esterno, il sistema solare è così composto:
- il Sole
- i quattro pianeti rocciosi interni (Mercurio, Venere, Terra, Marte)
- la fascia principale degli asteroidi
- i quattro giganti gassosi esterni (Giove, Saturno, Urano, Nettuno)
- i cinque pianeti nani (fra cui Plutone)
- la cintura di Kuiper
- il disco diffuso
- l'ipotetica nube di Oort, sede di gran parte delle comete.
Il vento solare, un flusso di plasma generato dall'espansione continua della corona solare, permea l'intero
sistema solare. Questo crea una bolla nel mezzo interstellare conosciuta come eliosfera, che si estende fino
oltre alla metà del disco diffuso.
In ordine di distanza dal Sole, gli otto pianeti sono: Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano
e Nettuno.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
A metà 2008 cinque oggetti del sistema solare sono stati classificati come pianeti nani: Cerere, situato nella
fascia degli asteroidi, e altri quattro corpi situati al di là dell'orbita di Nettuno, Plutone (in precedenza
classificato come il nono pianeta), Haumea, Makemake e Eris.
Sei dei pianeti e tre dei pianeti nani hanno in orbita attorno a essi dei satelliti naturali; inoltre tutti i pianeti
esterni sono circondati da anelli planetari, composti di polvere e altre particelle (è noto quello di Saturno).
Si ritiene che il Sole e i pianeti si siano formati da una nebulosa di gas interstellari in contrazione, circa 4,6
miliardi di anni fa. L'ipotesi di un'origine comune trova conferma nell'analisi di alcune regolarità di
comportamento dei pianeti, che ruotano attorno al Sole muovendosi tutti nello stesso verso e percorrendo
orbite sostanzialmente complanari.
Raffigurazione ipotetica della nebulosa originaria
Secondo le attuali teorie, la nebulosa primordiale aveva una temperatura molto bassa ed era costituita da
idrogeno, elio, una grande varietà di elementi chimici più pesanti e polveri.
Circa 5 miliardi di anni fa al centro della nebulosa si sarebbe creata una parte più densa e di conseguenza la
nube, sotto la spinta della forza gravitazionale, avrebbe cominciato a contrarsi.
In pochi milioni di anni, nella zona centrale, la densità e la temperatura sarebbero aumentate e si sarebbe
formato il proto-Sole. Contemporaneamente, la contrazione avrebbe causato un aumento della velocità di
rotazione e della forza centrifuga del sistema. Così la nube si sarebbe appiattita, assumendo un aspetto
simile a un disco rotante intorno al Sole. Il collasso gravitazionale della massa del proto-Sole avrebbe
causato un incremento della temperatura nella zona più centrale.
Nelle fasi finali del processo, un forte vento solare avrebbe trascinato verso le regioni più esterne tutti gli
elementi leggeri, soprattutto idrogeno ed elio.
Mentre il nucleo del proto-Sole si riscaldava fino a raggiungere le temperature necessarie per le reazioni
termonucleari, nel disco circostante si accrescevano alcuni corpi attraverso delle collisioni e attirando
frammenti più piccoli presenti nello spazio circostante. Si sarebbero formati così i proto-pianeti, dai quali
sarebbero derivati gli attuali pianeti, mentre il proto-Sole si trasformava in una stella gialla e stabile.
I quattro pianeti terrestri interni (da non confondersi con i pianeti interni, ossia quelli la cui distanza dal
Sole è minore di quella della Terra) sono, dal più vicino al Sole al più lontano, Mercurio, Venere, Terra e
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
Marte. Essi sono densi, hanno una composizione rocciosa, hanno pochi o nessun satellite, e non hanno
anelli planetari. Sono costituiti principalmente da sostanze aventi un alto punto di fusione, come silicati,
che costituiscono le croste e i mantelli, e i metalli come ferro e nichel, che costituiscono il loro nucleo.
Tre dei quattro pianeti interni (Venere, Terra e Marte) possiedono una atmosfera, hanno crateri da impatto e
placche tettoniche, come dimostrano la presenza di rift valley e vulcani.
Mercurio, Venere, Terra e Marte
Il sistema solare esterno è la patria di giganti gassosi e dei loro satelliti, alcuni dei quali di dimensioni
planetarie. In questa regione orbita anche una breve fascia di comete, compresi i centauri. Gli oggetti solidi
di questa regione sono composti da una quota più elevata di elementi volatili (come acqua, ammoniaca e
metano) rispetto agli oggetti rocciosi del sistema solare interno.
I quattro giganti gassosi esterni (talvolta chiamati pianeti gioviani, e da non confondersi con i pianeti
esterni, che sono quelli la cui distanza media dal Sole sia superiore a quella della Terra) sono, in ordine di
distanza dal Sole, Giove, Nettuno, Urano e Saturno; collettivamente costituiscono il 99% della massa nota
in orbita attorno al Sole.
Giove e Saturno sono costituiti prevalentemente da idrogeno ed elio; Urano e Nettuno possiedono una
percentuale maggiore di ghiaccio. Alcuni astronomi suggeriscono che appartengano a un'altra categoria,
quella dei "giganti di ghiaccio". Tutti e quattro i giganti gassosi possiedono degli anelli, anche se solo quelli
di Saturno sono facilmente osservabili dalla Terra.
La zona al di là di Nettuno, detta "regione trans-nettuniana", è ancora in gran parte inesplorata. Sembra
consista prevalentemente in piccoli oggetti (il più grande ha un diametro corrispondente a un quinto di
quello terrestre, e una massa di gran lunga inferiore a quella della Luna) composti principalmente di roccia e
ghiaccio. Alcuni astronomi non distinguono questa regione da quella del sistema solare esterno.
Plutone, come si diceva, attualmente non è più considerato un pianeta: quando venne scoperto, nel 1930,
fu ritenuto il nono pianeta del sistema solare, ma nel 2006 è stato riclassificato in pianeta nano, dopo
l'adozione di una definizione formale di pianeta.
Esso è un "oggetto" della fascia di Kuiper, la quale è un grande anello di detriti simile alla fascia degli
asteroidi, ma composti principalmente da ghiaccio e si estende in una regione che va da 30 a 50 UA dal Sole.
Essa è composta principalmente da piccoli corpi del sistema solare, anche se alcuni tra i più grandi oggetti di
questa fascia potrebbero essere riclassificati come pianeti nani: ad esempio Quaoar, Varuna, e Orcus. Plutone
è il più grande oggetto conosciuto della fascia di Kuiper.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
Tutti i corpi del sistema solare ruotano su orbite ellittiche attorno al Sole che rimanendo fermo occupa uno
dei due fuochi di ogni ellisse. I pianeti soprattutto, si muovono con orbite poco eccentriche e quasi tutti
sullo stesso piano dell'orbita terrestre (per definizione chiamato eclittica), ragion per cui dalla Terra li
vediamo attraversare insieme al Sole la stessa fascia celeste al centro dello Zodiaco. Viceversa i pianeti nani
ed i corpi minori (asteroidi, comete e meteoroidi) sono caratterizzati generalmente da orbite più allungate
ed inclinate.
Nettuno, Urano, Saturno e Giove (dall'alto verso il basso)
Ogni corpo del sistema solare si muove secondo velocità diverse a seconda della distanza dal Sole, più
velocemente quando si trova nei pressi della stella, al perielio, e meno velocemente quando si trova nel
punto più lontano da essa, all'afelio. Durante questo movimento infatti, a causa delle orbite che non sono
circolari, ma ellittiche, la distanza dal Sole varia fra un minimo ed un massimo. Mercurio ad esempio oscilla
da 46 milioni di km al perielio a 69,8 milioni di km all'afelio.
Afelio e perielio
Inoltre, come nel caso dei pianeti, i quali occupano orbite situate a distanze crescenti, con la distanza
aumenta anche il tempo impiegato a percorrere una rivoluzione completa, ossia quel periodo che per la
Terra vale 1 anno siderale ovvero 365,25 giorni.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
Tutto ciò è una diretta conseguenza della legge di gravitazione universale, elaborata da I. Newton, che
afferma:
"fra due qualsiasi corpi esiste una forza di mutua attrazione direttamente proporzionale al prodotto
delle rispettive masse ed inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza".
Ne deriva dunque che orbitando attorno al Sole i maggiori corpi del sistema solare percorrono orbite quasi
circolari, od ellittiche a bassa eccentricità, che per definizione geometrica, così come i cerchi sono il luogo
geometrico dei punti di un piano aventi la stessa distanza dal centro, sono il luogo geometrico dei punti di
un piano che hanno la stessa somma delle distanze da due punti denominati fuochi.
Tuttavia gli scienziati presumono che esistano anche corpi, le comete, che in alcuni casi possano percorrere
orbite paraboliche, od addirittura iperboliche, che le porteranno a perdersi nello spazio galattico dopo
essere transitate attorno al Sole.
69
FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
LA TEORIA DI ELLIS:
LA TERRA AL CENTRO DELL'UNIVERSO?
Era dagli anni Settanta che si parlava di un'ipotesi diversa da quella copernicana, ma ci sono voluti quasi
quarant'anni perché il muro dell'omertà mediatica si spezzasse. A lungo censurata dai mass media,
finalmente nel 2008 è riuscita a raggiungere il grosso pubblico (soprattutto grazie al mensile Focus che l'ha
pubblicata e ad internet, su cui la notizia è prontamente rimbalzata) la sconvolgente teoria del grande
cosmologo George Ellis, il quale ha ribaltato le tesi copernicane sostenendo che "la Terra si trova in una
'bolla' cosmica al centro del sistema solare, circondata da un universo molto piu' denso". Non proprio l'idea
di Tolomeo, ma quasi!
George Ellis non è un sognatore né un visionario, ma uno dei piu' insigni cosmologi contemporanei, per cui
la sua teoria è degna della massima considerazione e va presa sul serio.
Tale teoria permetterebbe di spiegare quanto succede nel cosmo senza dover ricorrere, perche' il modello
funzioni, ad entità di cui non si è mai provata l'esistenza, come la materia oscura e l'energia oscura.
Il principio messo in campo da Ellis "ribalterebbe la teoria copernicana che aveva tolto la Terra dal centro
dell'universo". Ellis mette in discussione la teoria che l'universo abbia ovunque la stessa densità: "Se
diamo uno sguardo all'universo attraverso i più potenti telescopi, le prove dell'omogeneità - spiega al
mensile - sono assai difficili da trovare. Al momento nessuno può smentire il fatto che potremmo trovarci
all'interno di un 'gigantesco vuoto', ossia di una grande bolla sferica circondata da un universo con
caratteristiche diverse.
La nostra bolla non sarebbe priva di materia in assoluto, perché le stelle e le galassie più vicine a noi sono
composte da materia, ma la densità dell'universo che sta al di là di essa sarebbe molto superiore". Secondo
Ellis, "se si potesse dimostrare l'ipotesi si potrebbero spiegare molte cose con più semplicità. Questo nuovo
scenario cosmico - dice lo scienziato a Focus - non avrebbe bisogno dell'energia oscura per spiegare la sua
espansione'.
La distribuzione della "materia oscura" secondo Hubble
In cosmologia, il termine materia oscura indica quella componente di materia che dovrebbe essere
presente in quanto manifesta i suoi effetti gravitazionali in molteplici fenomeni astronomici, ma le cui
condizioni o la cui natura sono diverse rispetto alla materia visibile. È da notare che il concetto di materia
oscura ha senso solo all'interno dell'attuale cosmologia basata sul Big Bang: infatti tale cosmologia non sa
70
FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
altrimenti spiegare come si siano potute ammassare le galassie in un tempo troppo breve per questo
procedimento.
Se così fosse però, ci sarebbe un'altra conseguenza: per spiegare l'isotropia della radiazione di fondo come
la osserviamo, sarebbe necessario che la Terra si trovasse proprio al centro di questo grande vuoto.
Se il principio copernicano risultasse errato sarebbe un vero terremoto per la cosmologia. Non saremmo piu'
sicuri della nascita, dell'evoluzione e del destino dell'universo. Bisognerebbe in pratica ripartire da zero.
Ecco cosa ne dice Margherita Hack sul Corriere della Sera del 3 gennaio 2009:
"Le osservazioni fatte da Edwin Hubble e collaboratori fra il 1920 e il 1930 hanno stabilito che lo spazio in cui
sono immerse le galassie si sta espandendo e l'espansione sarebbe cominciata fra 13,7 e 13,6 miliardi di anni
fa.
Non sappiamo se l' inizio dell' espansione sia stato anche l' inizio dell' universo o solo l' effetto di una
liberazione di energia che ha causato un cambiamento di condizioni fisiche, trasformando la materia da
zuppa di particelle elementari nell' universo composto di ammassi di galassie, di galassie e di stelle che
osserviamo oggi. Non sappiamo se l' universo sia finito o infinito nel tempo e nello spazio. Non sappiamo se
ciò che chiamiamo universo e che possiamo osservare sia tutto ciò che esiste, o se esistano altri universi,
magari governati da leggi fisiche diverse da quelle che conosciamo. Sono domande a cui la fisica non può
rispondere e rientrano piuttosto nel campo della metafisica.
Questo nostro universo, di cui conosciamo abbastanza bene età, evoluzione, struttura gerarchica (ammassi di
galassie, galassie, stelle) composizione chimica (70% della materia osservabile è idrogeno, 27% elio e tutti gli
altri elementi ammontano solo al 3%), struttura geometrica (è un universo piano, che obbedisce cioè alla
geometria euclidea, in cui la radiazione si propaga in linea retta) presenta due grosse incognite che forse
riusciremo a decifrare in un futuro non troppo lontano: cos'è la materia oscura? E cos'è l'energia oscura?
La materia di cui è fatto tutto ciò che osserviamo sulla Terra e nell' universo è la materia «visibile», che
emette cioè una qualsiasi forma di radiazione elettromagnetica.
Possiamo misurare la massa di una galassia contando le singole stelle, di cui conosciamo la massa media o la
massa di un ammasso di galassie contando le singole galassie, oppure possiamo determinarne la massa
gravitazionale dai moti delle singole stelle o rispettivamente delle singole galassie. Il risultato in ogni caso è
che la massa gravitazionale è anche dieci volte superiore alla massa visibile.
Lo notò per la prima volta nel 1933 l' astronomo svizzero Fritz Zwicky, che osservò che le velocità delle
galassie membri di un ammasso erano troppo grandi per mantenerle legate all' ammasso ed era necessaria
una gran quantità di materia «oscura» per legarle gravitazionalmente. Ci sono ragioni legate all' abbondanza
cosmica osservata di idrogeno pesante per escludere che la materia oscura possa essere normale materia
barionica, cioè protoni e neutroni. Si postula l'esistenza di particelle elementari che non interagiscono con la
materia e non danno luogo a emissioni di radiazione. Queste potrebbero in parte essere neutrini, ma a causa
della loro piccola massa hanno velocità prossime a quelle della luce e non resterebbero legate ad una galassia
o ad un ammasso di galassie.
Uno degli scopi del Large Hadron Collider (Lhc) è anche la ricerca di particelle finora sconosciute in
grado di spiegare la materia oscura, le ipotetiche Wimps (un acronimo che sta per Weakly Interacting
Massive Particles). Si spera che verso la metà dell'anno Lhc sia finalmente in grado di funzionare, ma c'è chi
ne dubita (si veda la sezione della tesina dedicata al bosone di Higgs).
Molto più recente è la scoperta dell'energia oscura. E' ben noto dagli anni Trenta che l' universo è in
espansione, come si determina dall'osservazione che tutte le galassie sembrano allontanarsi da noi con
velocità crescente proporzionalmente al crescere della distanza. L'inverso della costante di proporzionalità ci
dà il tempo trascorso dall'inizio dell'espansione, spesso anche indicato come l'età dell'universo.
Si riteneva che sotto l'effetto della stessa attrazione gravitazionale esercitata dalla materia presente
nell'universo l'espansione dovesse decelerare. Misure più precise della relazione fra velocità e distanza
hanno invece indicato che a partire da circa 6 miliardi di anni fa l'espansione ha cominciato ad accelerare,
come se ci fosse una forza che si oppone alla gravità e che prende il sopravvento su di essa.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
L'universo in espansione sotto l'effetto dell'"energia oscura"
Non sappiamo cosa sia questa energia oscura.
Un interessante suggerimento per spiegare le osservazioni senza ipotizzare l'esistenza di questa misteriosa
energia oscura è stato proposto dal cosmologo George Ellis. L'incertezza con cui conosciamo le distanze
delle galassie permette di avanzare l'idea che noi ci troviamo all'interno di una vasta bolla sferica in cui la
densità di materia è molto più bassa che nelle regioni circostanti. Di conseguenza l'azione della gravità
sarà minore che nelle regioni circostanti e la bolla espanderà più rapidamente che nelle regioni più lontane.
Ellis osserva che sarebbe necessario assumere l'esistenza di una energia oscura se l'accelerazione osservata
fosse dovuta a un cambiamento della legge di espansione relativa a tutto l'universo, ma è egualmente
possibile che la distribuzione della materia nell'universo non sia isotropica ma che appaia tale a noi se ci
troviamo all'incirca nel centro della bolla.
E' questa idea di essere al centro che incontra una specie di rigetto, perché va contro al «principio
copernicano». Per secoli l'uomo si è creduto al centro dell'universo e per sfuggire a questa tentazione è stato
stabilito il principio copernicano che assume che su scala abbastanza grande l'universo è omogeneo, ha cioè
le stesse proprietà ovunque. E inoltre è isotropico, cioè sembra avere le stesse proprietà quando si guarda
una qualsiasi direzione da qualsiasi luogo.
I grandi telescopi della nuova generazione, resi possibili dai progressi dell'elettronica e dell'informatica, ci
daranno misure più precise e più numerose delle distanze delle più lontane galassie e potranno in futuro
riuscire a verificare o meno l'idea di Ellis."
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
D) AUTOCENSURA
HENRY JAMES, IL GIRO DI VITE
Poche opere letterarie sono state concepite per "dire e non dire" come Il giro di vite (The Turn of the Screw),
romanzo breve di Henry James (1843-1916) del 1898, considerato dalla critica un capolavoro del genere
"gotico", salutato da Oscar Wilde come un racconto meraviglioso, altrettanto violento e scioccante di una
tragedia elisabettiana.
Il suo successo fu tale da ispirare l'omonima opera lirica di Benjamin Britten, del 1954, ed una serie
impressionante di film: Suspense (The Innocents, 1961), Improvvisamente un uomo nella notte (The Nightcomers,
1972), Un altro giro di vite (Otra vuelta de tuerca, 1985), Presenze (The Turn of the Screw, 1994), Presence of Mind
(1999), The Others (2001), The Turn of the Screw (2003), In a Dark Place (2006), e perfino un episodio di Lost (la
puntata numero sette).
Fra questi, soltanto Suspense (The Innocents) di Jack Clayton del 1961 si può considerare una trasposizione
fedele del libro; il film è molto riuscito, sorretto dall'ottima interpretazione di un'intensissima Deborah Kerr,
una delle attrici più interessanti e meno convenzionali di quel periodo. Il film vinse numerosi premi e
candidature, tra i quali l’Edgar Allan Poe Awards (Miglior Film), il National Board of Review, USA (Miglior
Regia), BAFTA Awards (Nomination Miglior Film).
Henry James all'età di 17 anni
Pur tenendo conto del fatto che il romanzo nasce in piena epoca vittoriana (1837-1901), un
periodo incredibilmente puritano (si dice che si coprissero le gambe dei tavolini), non è certo questo, o solo
questo, il motivo per cui quest'opera risulta così reticente. Si tratta di una ben precisa scelta dell'autore, che
ha voluto consegnarci un enigma, un puzzle impossibile da ricostruire, illudendoci continuamente di aver
trovato la "chiave" e puntualmente beffandoci. Il romanzo allude ma non dice, accenna ma non svela,
rimanda costantemente ad un "non detto" che tocca a noi immaginare: ma quanto correttamente? Non lo
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
sapremo mai. Il fatto è che la realtà alla quale questo romanzo breve sembra accennare - sempre che
l'abbiamo ben compresa - è così imbarazzante da rendere comprensibile la scelta della reticenza.
Ma procediamo con ordine, seguendo la falsariga di un articolo a firma di Sabina Marchesi, intitolato "Gli
inquieti fantasmi di Henry James ne Il Giro di Vite" (2004).
Henry James nasce a New York nel 1843, e come molti suoi contemporanei subisce prepotente il fascino del
cossidetto virus europeo che indusse buona parte degli scrittori e degli intellettuali dell’epoca a viaggiare in
lungo e in largo per il vecchio continente assumendone e assimilandone la cultura e la storia.
A Parigi viene influenzato dalla frequentazione con Flaubert, Zola e Maupassant, dopodichè si stabilisce
definitivamente a Londra, dove dà vita alla maggior parte dei suoi capolavori, tra cui Il giro di vite.
Henry James in età avanzata
Universalmente riconosciuto come una pietra miliare dello sperimentalismo formale, questo romanzo
"gotico" è basato sulle diverse connotazioni conferite alla narrazione dalla scelta del punto di vista, ciascuno
in grado di rappresentare gli eventi in maniera diametralmente opposta rispetto alle altre prospettive
possibili. Al punto che per la prima volta la storia narrata, non è più LA storia, ma solo UNA delle storie
realmente possibili, perché ogni cosa cambia e si trasforma a seconda del punto di osservazione, trama e
personaggi sono mutevoli, cangianti, ingannevoli e come fantasmi sembrano dissolversi e rapidamente
riapparire sotto multiformi vesti di momento in momento. Tanto che il lettore, una volta chiuso il libro, non
è più nemmeno in grado di dire egli stesso a quale delle possibili rappresentazioni abbia appena assistito.
Già il titolo è un enigma: che significa Il giro di vite?
Intanto bisogna osservare che siamo in un’epoca letteraria in cui i titoli sono mediamente molto lunghi e
tendono a descrivere l’oggetto della narrazione in maniera esaustiva, tipo Il Giro del Mondo in Ottanta Giorni,
Frankestein o il Moderno Prometeo, Alice nel Paese delle Meraviglie, o semplicemente ricalcano il nome del
protagonista, Jane Eyre, Moll Flanders, Michele Strogoff, Dorian Gray; questo titolo invece è sorprendentemente
moderno, e sembra alludere o precludere a consuetudini letterarie ancora da venire.
Una prima interpretazione, potrebbe coincidere con quella fornita dallo stesso autore nel prologo, anzi
nell’antefatto: il "giro di vite" sta a simboleggiare una situazione aggravante, il dramma che si aggiunge al
dramma, la goccia che fa traboccare il vaso: all’inizio della storia, troviamo un gruppo di persone riunite
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
attorno al fuoco intente (come accadde alla famosa compagnia di Byron, Polidori, Percy e Mary Shelley) a
raccontarsi storie per passare il tempo: storie intense, storie terrificanti, storie spaventose, storie di fantasmi;
e uno dei presenti esordisce dicendo: "cosa ci può essere di più orrifico di una storia di fantasmi in cui sia
coinvolto un bambino?"
Evidentemente una storia di fantasmi in cui appaiono non uno, ma ben due bambini. Sarebbe questo il "giro
di vite".
Ma sarà poi vero? Non è un'interpretazione banalizzante?
Osserva l'autrice dell'articolo: "cos’è in definitiva una vite? Un oggetto metallico costruito ed ideato in
maniera tale da conficcasi profondamente nel legno man mano che ruota su se stesso. Se ci soffermiamo su
questa immagine cosa possiamo vedere da un altro punto di vista? Qualcosa che si fissa girando su se stesso
e che penetra lentamente e inesorabilmente nella superficie che ha davanti, un atteggiamento psicologico e
pscicotico, una debolezza umana, un attaccamento selvaggio a un’idea fissa, una volontà pervicace, ottusa,
ed ostinata."
Può darsi, chi lo sa? Di fatto il titolo rimane un mistero, come tutto il resto del romanzo.
Anche la scelta del punto di vista narrativo è molteplice e distanziante, quasi un gioco di specchi: uno dei
personaggi riuniti attorno al fuoco inizia raccontare una storia, a suo dire riportata da un suo amico, che a
sua volta l’aveva letta in un diario.
La voce che alla fine ascoltiamo è quella dell'anonima autrice del diario, che risulta quindi essere,
tecnicamente, una narratrice di terzo grado; il racconto è condotto in prima persona, dunque omodiegetico
ed autodiegetico, a focalizzazione interna. In altre parole il punto di vista, assai distanziato da quello
dell'autore, è quello di colei che ha vissuto i fatti, ed è quindi attraverso il filtro della sua personalità che
essi ci vengono consegnati. E' quindi molto importante capire chi è costei e se si possa considerare
attendibile (o se, come nei romanzi di Svevo, sia inattendibile e a tratti bugiarda).
La protagonista diretta degli accadimenti è una persona di solida moralità, un’istitutrice, sufficientemente
colta da non essere facile preda di isterismi o vittima di visioni; essa si presenta come un soggetto degno
della massima considerazione, tale per cui siamo costretti e quasi obbligati a prestare fede a ciò che dice.
Ed ecco un altro "gioco" dell'autore, completamente spiazzante: infatti gli eventi riportati sono di una
assoluta “non credibilità”. E sarà poi veramente attendibile costei? "Quel che ci viene prospettato dalla
giovane donna - osserva giustamente l'articolo - non è tanto la narrazione oggettiva, ma la interiorizzazione
dei fatti, la sua visione personale quindi, la sua proiezione singola ed individuale".
Nel dubbio, non ci resta che provare a rivolgerci agli altri attori della narrazione scenica, per avere
conferme da loro sulla realtà dei fatti.
"Già, ma chi sono poi gli altri? Abbiamo un capostipite, che però appare distante, lontano nella sua casa di
città, che si limita ad assumere un’istitutrice col preciso intento di non essere nè coinvolto nè disturbato per
la gestione delle necessità quotidiane, e che dopo il primo capitolo non compare praticamente più se non per
dire, a mezzo lettera “per cortesia non voglio essere disturbato, sbrigatevela da Voi”. Dunque non è un
attore quanto piuttosto un “deus ex machina”, colui che mette in moto gli avvenimenti, e poi si mette in
disparte ad osservare, e su di lui non possiamo far conto, non interverrà.
Poi abbiamo una governante, e il personale di casa, ma chi sono questi elementi? Personaggi appartenenti a
una classe inferiore (il romanzo rivela tra le altre cose anche insospettate connotazioni sociali, se non
socialiste), poco affidabili, emotivi, influenzabili, rozzi, ignoranti, chiaccheroni e creduli: che aiuto possiamo
mai aspettarci da loro?"
Ci sono però i due co-protagonisti, i bambini Miles e Flora, sui quali l’istitutrice deve vegliare: ma possono
forse esserci di aiuto per la comprensione della situazione? No, certo: "sono bambini appunto, creature
deboli, in balia degli eventi, inconsapevoli vittime, al centro di un arcano mistero, di cui non hanno
consapevolezza, e come potrebbero?
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
Un'immagine della scena finale di Suspense (The innocents) del 1961
tratto da Il giro di vite
Non ci resta dunque nulla altro che riaffidarci nelle mani della giovane donna, che ci narra la storia, ed
assistere con lei ai misteriosi eventi, e con lei schierarci quando essa ne rimarrà coinvolta e drammaticamente
sconfitta.
Anche la prosa di James è infida, i suoi stessi passi narrativi traggono in inganno, dicono e non dicono, o
meglio dicono tutto e il contrario di tutto; questo testo, a ben guardare, somiglia a un gioco di puzzle
montato male, non c’è un pezzo che si incastri bene con gli altri, ma tutti fluttuano vorticosamente".
Ma vediamo la trama nei dettagli.
"L’istitutrice arriva nella casa di campagna, con il tipico entusiasmo dei giovani, e si accinge a prendere in
mano la conduzione della casa e l'educazione dei ragazzi con tranquilla e disinvolta sicumera, certa che le
sue fragili spalle siano perfettamente in grado di reggere tale peso, ma ecco che, quasi subito, vede una
figura spettrale, oscura e misteriosa, uno sconosciuto che la osserva con malanimo, e poi scompare. Chi è
costui? Indagando e chiedendo scopre presto che le fattezze da lei descritte si attagliano perfettamente
all'intendente di casa, morto tragicamente anni prima, anzi scomparso…
Bene, non importa: i ragazzi sono graziosi, docili e arrendevoli, apprendono con facilità e si prestano
volentieri a collaborare con la nuova maestra, la governante offre il suo valido aiuto, il personale di servizio
è efficiente ed affidabile, tutto scorre per il meglio, l’andamento della casa procede a meraviglia,
l’educazione dei ragazzi è posta su solide basi, il compito sembra dunque essere più semplice del previsto, se
non fosse… se non fosse per quest’uomo subdolo ed oscuro che continua ad apparire e a scomparire.
Ma presto qualcosa si inceppa, il meraviglioso meccanismo perde dei colpi, il pacifico progredire dei giorni
esce dai consueti binari della tranquillità quotidiana, le apparizioni si moltiplicano, si insinua prima il
dubbio, e poi la terrificante certezza che anche i bambini sappiano, che anche i bambini vedano… ma che
per qualche oscuro motivo essi non dicano nulla.
Anche la governante sa, [...] e confidandosi narra di malefiche influenze, di oscure malvagità che a tratti
affiorano nel comportamento di quelle angeliche creature, di parole irripetibili proferite dalla piccola, di
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LA PAROLA NEGATA
comportamenti indecorosi tenuti dal ragazzo; si insinua presto l’ombra di un maleficio, i ragazzi sanno, i
ragazzi vedono, essi sono posseduti, vittime di un maleficio, colpiti da una maledizione.
Ed i fantasmi che appaiono ora sono due, la precedente istitutrice e l’intendente, colpevoli di una bieca
relazione amorosa che infrangeva e i limiti di classe e i confini della decenza, fuggiti, morti, defunti,
scomparsi, eppure vivi, tornati a prendere possesso dei ragazzi, o forse a rivivere attraverso essi e dentro di
loro.
Ma sono veri questi fantasmi? Ci sono davvero? O sono frutto della mente malata dell’istitutrice?
Forse le troppe responsabilità, il peso eccessivo che grava su di lei, forse la gioventù, l’inesperienza, un
supposto amore ideale e impossibile per il suo austero datore di lavore, un eccesso di romanticismo, il
forzato isolamento, forse tutto questo ha avuto ragione del suo equilibrio mentale, e la posseduta, la folle, la
visionaria potrebbe alla fine essere solo lei? Ma allora perchè questi ragazzi sono così angelici, così perfetti
nella loro arrendevolezza, così assolutamente candidi e innocenti, al punto da apparire quasi sospetti? Non
sappiamo e mai potremo dire da che parte sta la verità.
Quando ecco nelle pagine finali il mistero sembra svelarsi, dal fondo del tunnel cominciamo a intravedere
una luce, che si avvicina, ora sta per illuminarci, quasi vediamo, quasi crediamo di capire, quasi
comprendiamo il macabro gioco di prestigio di cui sicuramente siamo stati vittime [...], e un attimo prima
che la soluzione ci venga svelata, o forse giusto un attimo dopo, ricadiamo perplessi nelle tenebre più oscure
della più impenetrabile non conoscenza. [...]
La giovane e coraggiosa istitutrice, colta in fondo anch’essa dal dubbio di essere pazza, decide di uscire allo
scoperto, e costringe le piccole creature ad affrontare le inquietanti visioni, di cui ovviamente davanti alla
loro possibile o supposta innocenza prima non si era mai parlato. [...] Ottenendo dalla bimba un collasso
immediato e una fortissima crisi di febbri epilettiche, che la costringono ad allontanarla e a mandarla
sollecitamente dal medico di città accompagnata dalla governante. Fatto questo l’istitutrice resta
ovviamente sola col ragazzo, il quale a momenti appare un bimbo sprovveduto ed ingenuo, ancora rivestito
dei candidi panni dell’infanzia, a tratti invece appare un semi-adolescente inquieto e spavaldo, quasi in
tentazione di sedurla. Messo a confronto anch’esso, brutalmente e con violenza, con l’ennesima apparizione,
al reiterato: dimmi che anche tu la vedi… egli crolla folgorato tra le braccia della povera sconsolata
avventata folle e coraggiosa istitutrice e, ci dice l’autore, il suo povero cuore ora non batte più."
E così, alla fine ne sappiamo meno che all'inizio: probabilmente, conclude l'articolo, abbiamo assistito solo
ad "un grande, meraviglioso, incomparabile gioco di alchimia letteraria". O forse no. Forse l'autore voleva
comunicarci un messaggio ben più terribile, qualcosa che riguarda proprio i due piccoli "innocenti".
Significativo in tal senso il fatto che la versione del romanzo proposta nel film Improvvisamente un uomo
nella notte (The Nightcomers) del 1972, che in pratica recupera l'antefatto del romanzo mettendo in scena la
torbida love story tra Miss Jessel e Peter Quint (interpretato da un intenso Marlon Brando), attribuisca il
loro assassinio ai due perfidi bambini, rappresentati come allievi fin troppo attenti e precoci dei due amanti
maledetti.
Il buio rimane, ed è più fitto di prima.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
FREUD E IL "PERTURBANTE"
Una possibile interpretazione in chiave psicoanalitica del fitto mistero de Il giro di vite ci è suggerita da un
articolo di Maddalena Damasso intitolato Il perturbante secondo Freud come chiave di lettura del romanzo
Giro di vite di Henry James (2005).
"Freud tratta il perturbante, Unheimliche in lingua tedesca, in un saggio pubblicato per la prima volta in
Imago nel 1919, ma elaborato già diversi anni prima. L’autore è insoddisfatto dalla identificazione tout court
del termine con: insolito, orrido, angoscioso e poco convinto dal tentativo di definizione effettuato da
Jentsch, che concludeva il suo saggio Zur Psychologie das Unheimlichen del 1906 con l’equazione "perturbante
= inconsueto"; si propone pertanto di chiarire ulteriormente che cosa sia l’Unheimliche.
“Non c’è dubbio che esso appartiene alla sfera dello spaventoso, di ciò che ingenera
angoscia e orrore, tanto che quasi sempre coincide con ciò che è genericamente angoscioso.
E’ lecito tuttavia aspettarsi che esista un nucleo particolare che giustifichi l'impiego di una
particolare terminologia concettuale. Ciò che vorremmo sapere è: che cos’è questo nucleo
comune che consente appunto di distinguere, nell’ambito dell’angoscioso, un che di
perturbante”.
Che cosa sia questo nucleo particolare egli lo anticipa subito, per passare poi ad illustrare il percorso di
ricerca fatto per giungervi: “il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da
lungo tempo, a ciò che ci è familiare”.
Sigmund Freud
Spaventoso e familiare sono sicuramente due termini ossimorici, se non addirittura antitetici, il perturbante
scaturirebbe dal loro incontro. Perturbante non è equivalente a spaventoso e non è neppure il contrario di
familiare, come potrebbe apparire dal fatto che l’aggettivo tedesco Unheimlich è, nella sua accezione più
immediata, la negazione di Heimlich, familiare appunto (da Heim che significa casa), secondo la prima
definizione che offe il dizionario di lingua tedesca di Daniel Sanders, cui Freud fa riferimento.
Se infatti si passa alla seconda definizione di Heimlich, il dizionario riporta i termini: nascosto, celato e frasi
idiomatiche in cui Heimlich è abbinato alla magia ed al mondo sotterraneo. In questa seconda accezione,
dunque, Heimlich viene quasi a coincidere, a sovrapporsi alla sua negazione Unheimlich, quando appunto lo
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LA PAROLA NEGATA
si intende come “tutto ciò che dovrebbe restar… segreto, nascosto e che invece è affiorato” come dice
Schelling nell’espressione riportata nel dizionario di Sanders a titolo esplicativo.
Ora, osservando bene, si può trovare lo stesso significato espresso da James in altri termini ed in altro
ambito, quello letterario; egli infatti, in una recensione critica apparsa su The Nation nel 1865, a proposito del
nuovo genere gotico, afferma che questo, per catturare lo smaliziato lettore del XIX secolo, non può ricorrere
più come in passato ad ingredienti esagerati quali: luoghi orrorosi, apparizioni apocalittiche ed altre
mostruosità, ma deve giocare il suo gioco sapiente di seduzione introducendo una nuova alchimia: “i
misteri che si trovano alle nostre porte”. “Una storia dell’orrore oggi - continua James nella sua recensione deve essere collegata in cento modi con gli oggetti quotidiani della vita ed il suo successo dipenderà dai
suoi accessori prosaici, comuni e diurni”."
Marlon Brando nei panni di Peter Quint
in Improvvisamente un uomo nella notte del 1972
Ed ecco che ritorniamo ad un problema che ci siamo già posti in precedenza: quello del titolo.
"L’ambiguità terminologica rilevata da Freud come radice concettuale del perturbante, è la stessa
ambiguità o ambivalenza adottata da James fin dalla scelta del titolo del suo racconto. The turn of the screw,
Il giro di vite, è un’espressione metaforica che risulta familiare e non sembra a prima vista preludere ad
atmosfere inquietanti, ma proprio come avverrà per tutte le pagine dell’opera, trascorse da brividi che
increspano la calma apparente del quotidiano, anche il titolo è solo apparentemente rassicurante nella sua
quotidianità espressiva.
Octave Mannoni osserva che “l’espressione stessa figura nel testo in due passi distanziati e in due sensi
molto diversi e non può essere un caso o una distrazione, perché sarebbe poco consono all’abituale modo di
fare dello scrittore e al suo desiderio, ovunque evidente e al tempo stesso nascosto, di suggerire più di
quanto non dica”.
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I due passi sono rispettivamente all’inizio e quasi alla fine dell’opera ed in essi l’espressione assume due
significati molto diversi, proprio in virtù della sua ambiguità. Nella parte iniziale, quando ancora la storia
non è cominciata, è il narratore esterno Douglas a pronunciarla: «Se il fanciullo aggiunge all’effetto un
ulteriore giro di vite, che direste di due bambini…?» «Diremmo ovviamente,» esclamò qualcuno «che due
bambini equivalgono a due giri di vite! Diremmo anche che vogliamo conoscere la storia».
In questo caso l’espressione provoca un effetto di ansiosa attesa, l’effetto perturbante è così annunciato.
La seconda citazione appartiene alla narratrice interna, la giovane istruttrice, ed è espressa in un momento
di grande pathos, quando ella dubita di sé, del suo equilibrio psichico e, per recuperare certezze morali,
afferma che è necessario dare «un ulteriore giro di vite alla virtù umana e quotidiana»."
Ma le coincidenze vanno ben oltre: "nello sviluppare il suo saggio Freud passa dall’ambito linguisticoetimologico a quello situazionale e letterario. Procede dapprima ad un'analisi del racconto Il mago
Sabbiolino di Hoffmann, per soffermarsi poi sul tema del doppio e delle sue radici filogenetiche ed
ontogenetiche e per concludere l’esame di altre possibili fonti del sentimento del perturbante quali: “la
ripetizione di eventi consimili”, la relazione con la morte e con la pazzia.
A proposito del racconto Hoffmaniano, appartenente alla raccolta Notturni, Freud concede un’analisi
testuale volta a dimostrare che il perturbante, di cui tutta la storia è permeata, è ricollegabile
sostanzialmente a tre fonti, due delle quali erano già state individuate dallo Jentsch, mentre le terza è una
scoperta tutta freudiana.
Tali fonti sono nell’ordine:
- vita apparente di un oggetto inanimato;
- incertezza intellettuale che il “narratore inizialmente produce in noi… impedendoci in un primo tempo
[...] di indovinare se ci introdurrà nel mondo reale o in un mondo fantastico di sua invenzione”;
- il fattore infantile che, in tale racconto, coincide con “l’angoscia propria del complesso di evirazione
infantile”.
A questo terzo elemento soprattutto Freud attribuisce la capacità di ingenerare il senso di Unheimliche, nel
racconto di Hoffman, ma non solo. Il fattore infantile infatti, inteso come ritorno di quanto era stato
rimosso, diviene per Freud la fonte primaria non solo del perturbante letterario, ma anche del sentimento
del perturbante che si prova in situazioni reali quando un’angoscia o un desiderio o una credenza infantile
riaffiorano alla coscienza adulta e risultano insieme familiari e sconosciuti.
Proseguendo nell’esame di tòpoi letterari e situazioni reali che rimandano direttamente all’idea di
perturbante, Freud riserva una particolare considerazione alla figura del doppio. Parlando del doppio egli si
rifà all’opera di Otto Rank Der Doppelgänger ed attribuisce all’immagine del sosia, a cui spesso la letteratura
antica e moderna ha attinto, una radice antropologica-culturale e insieme una radice psicologica.
Egli rileva così che all’origine era una sorta di assicurazione contro la morte, che nella civiltà dell’antico
Egitto diventa “la spinta all’arte di modellare l’immagine del defunto in materiale durevole”, e osserva che
queste duplicazioni sono legate al narcisismo primario che “domina la vita psichica sia del bambino che
dell’uomo primitivo e, col superamento di questa fase, muta il segno premesso al sosia, da assicurazione di
sopravvivenza diventa un perturbante precursore di morte.
La rappresentazione del sosia non scompare necessariamente insieme con questo narcisismo originario, ma
può acquisire un contenuto nuovo traendolo dalle fasi di sviluppo successivo dell’Io. Nell’Io si forma
lentamente un’istanza particolare capace di opporsi al resto dell’Io, un'istanza che serva all’autosservazione
e all’autocritica, che esegua il lavoro della censura psichica e che diventa nota alla nostra coscienza come
coscienza morale. Nel caso patologico del delirio di attenzione essa si isola, si separa dall’Io, diventa
osservabile da parte del medico”.
Oltre a questa funzione di autosservazione e autocritica, il sosia può “immedesimare anche tutte le
possibilità non realizzate che il destino terrebbe in serbo, alle quali la fantasia vuole ancora aggrapparsi, e
tutte le aspirazioni che, per sfavorevoli circostanze esterne, non riuscirono ad attuarsi, così come tutte le
decisioni della volontà represse, che diedero luogo all’illusione del libero arbitrio”. Freud conclude che il
sentimento del perturbante, collegato alla figura del doppio, scaturisce dal fatto che nel sosia il significato
amichevole e familiare, appartenente ai tempi culturali e psichici primordiali, si è trasformato in censura,
rimozione, coazione.
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Analizzando poi la ripetizione involontaria l’autore così ne sintetizza il suo rapporto con il perturbante: “il
fattore della ripetizione involontaria rende perturbante ciò che di per sé è innocuo, e ci insinua l’idea di
fatalità, di inevitabilità là dove normalmente avremmo parlato soltanto di caso”. Anche per questa possibile
fonte del perturbante Freud rimanda alla vita psichica dell’infanzia, quando esiste una coazione a ripetere
che procede da moti pulsionali; tale coazione viene poi rimossa, ma può riaffiorare sotto altra forma, la
superstizione per esempio, e turbarci.
Otto Rank
E all’infanzia dell’umanità e del singolo è ricollegabile il perturbante legato all’idea della morte, che può
tradursi a volte nel terrore degli spettri. Freud afferma che si tratta di un terrore primitivo ancora molto
forte in noi e “pronto a manifestarsi non appena qualcosa lo faccia affiorare”: E così anche l’effetto
perturbante provocato dalla pazzia ha la stessa radice antica nel tempo e profonda nella psiche: “Il profano
vede qui la manifestazione di forza che non aveva supposto di trovare nel suo prossimo, ma di cui è in grado
di percepire oscuramente il moto in angoli remoti della propria personalità”.
Il rimando costante al fattore infantile in senso psichico e a quello primitivo in senso antropologico porta
Freud a concludere che “la natura segreta del perturbante…” è “qualcosa di rimosso che ritorna”, ciò che
Schelling definiva appunto quello che dovrebbe restare nascosto e che invece è affiorato."
Fatta questa necessaria premessa, che chiarisce che cosa sia il perturbante per Freud, la Damasso passa a
verificarne l'applicabilità al romanzo Il giro di vite, pur precisando subito che non intende "trasferire
automaticamente tutte queste considerazioni all’opera di James", perché questa sarebbe una forzatura.
Tuttavia le analogie sono rilevanti.
"Se perturbante è ciò che risulta allo stesso tempo misterioso e familiare, se lo è ciò che riaffiora nel
presente dai primordi dell’umanità e dal profondo della psiche, ebbene tutta la narrazione nel suo
complesso è una commistione di consueto e inconsueto.
L’incipit innanzitutto: il focolare vicino al quale Douglas, il primo narratore, ed altri amici sono riuniti la
sera della vigilia di Natale, contribuisce a caratterizzare un’atmosfera calda e rassicurante, e predispone ad
uno stato d’animo disteso, ma ecco l’annuncio di una storia che, come premette Douglas «E’ fin troppo
orribile…supera ogni limite. Non vi è nulla a cui si può paragonare».
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E su questa contaminazione tra familiare e misterioso si snoda tutta la vicenda.
Se poi dall’ipotesi generale scendiamo agli elementi individuati in modo analitico dalla ricerca freudiana,
vediamo che le corrispondenze ed i rimandi sono tutt’altro che sporadici e superficiali."
Le osservazioni della Damasso sembrano davvero inoppugnabili: uno per uno, il suo articolo elenca tutti gli
elementi del "perturbante" messi in luce da Freud, e fa notare come essi siano sistematicamente applicati nel
racconto.
Anzitutto il "fattore infantile": esso, individuato da Freud come fonte primigenia del perturbante, " è
sicuramente il nucleo forte, il perno del racconto, ed è reso tangibile dalla presenza fisica dei due bambini
Miles e Flora: “se il fanciullo aggiunge all’effetto un ulteriore giro di vite, che direste di due bambini…?”
Miles e Flora: innocenza o perversione?
Miles e Flora vittime comunque: della possessione da parte dei due spettri dannati di Quint e della
signorina Jessel o dell’isteria della giovane istruttrice che proietta la sua angoscia su di loro. Il fattore
infantile dunque come condensato di Bene e di Male, di limpido e di torbido, di solarità e di tenebra. Che
siano posseduti dai fantasmi o schiacciati dalle ossessioni moralistiche della istitutrice, i due fanciulli
provocano nel lettore un effetto perturbante, il combinarsi di Heimliche e Unheimliche.
I bambini in questa storia “fin troppo orribile” sono per il lettore adulto ciò che egli è stato un tempo e non è
più, sono le paure infantili che riemergono da lontano e perturbano, proprio perché sono conosciuti e
sconosciuti insieme.
Deborah Kerr in una scena di Suspence (The innocents)
Il fattore infantile, tuttavia, è presente nell’opera anche in un altro senso, nel senso cioè dell’infanzia della
istitutrice e del peso che quell'infanzia comporta per lei.
Ella, “la più giovane di molte figlie di un povero parroco di campagna, era arrivata a Londra, all’età di
vent’anni, per prendere servizio per la prima volta come istitutrice”. Questa “ansiosa ragazza allevata in un
vicariato dell’Hampshire” ha dietro di sé una storia infantile che si è snodata nell’ambito angusto di un
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vicariato rurale, tra molte sorelle, sotto la guida che possiamo immaginare rigida e bigotta, di un padre che
fa il parroco di campagna e, sin dall’inizio della storia, c’è dato osservare come essa compensi la mancanza
di esperienza con molto sicurezza e una specie di ambizione.
Di moralismo si è nutrita, di tabù e pregiudizi, ma la sua è anche una natura passionale, come si intuisce
dal fatto che si innamora a prima vista del suo datore di lavoro. “La colpì inevitabilmente, per i suoi modi
galanti e cortesi… Lei se lo immaginò tanto ricco quanto stravagante: lo vide avvolto in un alone di
mondanità, di bellezza, di lusso e di modi incantevoli con le donne”.
Le è bastato vederlo una sola volta, né lo incontrerà mai più, per esserne soggiogata, per decidersi ad un
sacrificio, quello di assumersi la totale responsabilità dell’educazione dei due pupilli dell’uomo,
nell’isolamento di una dimora sperduta, sacrificio che altre prima di lei avevano giudicato primitivo."
Ed ecco il secondo tema del perturbante freudiano, quello del doppio: anch'esso è ossessivamente presente
nel romanzo di James.
Infatti, "rigidità morale e passionalità convivono nella giovane donna in una combinazione che è destinata
ad esplodere. La sua carica sessuale rimossa sotto strati e strati di repressione moralistica si proietta in un
doppio che assume l’aspetto spettrale della dissoluta signorina Jessel, la precedente istitutrice che è morta
tragicamente dopo aver consumato il rapporto perverso con Quint.
Questa immagine riflessa, questa sorta di doppio, e insieme la carica di morte e dannazione che rappresenta,
[...] sarà insieme tutto ciò che l’io rigetta di sé, ma anche tutto ciò a cui l’Io aspira."
Ma non basta: un altro elemento del perturbante è presente nel romanzo: quello degli spettri.
"Gli spettri del racconto reali forse, ma certo tali per la giovane donna, [...] turbano tanto l’istitutrice quanto il
lettore. L’inafferrabilità dell’idea della morte, qui associata a quella più comprensibile del peccato, fa
scaturire un effetto fortemente perturbante, soprattutto perché non assume l’aspetto orripilante e macabro
delle apparizioni del gotico classico, ma quello più familiare di un uomo e una donna che sembrano vivi,
tanto sono adattati all’ambiente in cui fanno la loro comparsa o in cui li proietta il delirio della istitutrice."
A buon diritto, a questo punto, la Damasso può concludere che "gli ingredienti del perturbante freudiano
ci sono praticamente quasi tutti, e sono perfettamente dosati da James, che annuncia che con questa storia
ha effettuato una incursione nel caos. Quello che non vuol chiarire è però se questo caos appartiene alla
coscienza o alla realtà: 'Rendere denso come una fitta pasta il soggetto della mistificazione della mia giovane
amica, della mia immaginaria narratrice, e tuttavia mantenere l’espressione così chiara e fine che ne
risultasse bellezza: nessun aspetto della cosa rivive per me quanto quello sforzo'.
Non dà mai una spiegazione esplicita: “chiedersi se la credenza negli spettri possa esser ricondotta alla teoria
scientifica delle allucinazioni, gli sembra un problema vuoto e superficiale”, e tuttavia la pazzia è quasi
palpabile negli eventi, nei pensieri, forse anche negli ambienti che si deformano sotto i nostri occhi e
sembrano dilatarsi o comprimersi come se fossero riflessi da specchi deformanti. Ogni cosa nel racconto
oscilla tra un realismo puntuale e concreto e una dimensione immaginaria, quasi quel “sognare ad occhi
aperti (teatro privato)” che si anima di vita fittizia e si sostituisce alla realtà effettiva in quella che Freud
chiama assenza allucinatoria.
A questo punto dovrebbe risultare evidente che qualunque sia la collocazione di genere, ghost story o
psychical case, che gli si voglia attribuire, il racconto di James presenta praticamente la più parte degli
elementi che Freud andava individuando alla radice del perturbante e soprattutto James sottopone i lettori
all’effetto perturbante, sollecitando in loro ora percezioni, ora riflessioni, ora piacere, ora disagio, per
qualcosa che in qualche modo, mentre risulta familiare, continua ad essere sfuggente, o per meglio dire
difficilmente classificabile secondo i canoni della ragione.
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Flora e Miles in Suspence (The innocents)
Ha introdotto i bambini per dare un giro di vite, ed ha attribuito loro una purezza angelica per farli diventare
sospetti. Ha tirato in ballo le innocenti superstizioni per mascherare meglio un delirio crudele… Ma
l’artificio più grande sta nell’essersi egli stesso calato dietro tanti artifici e nell’essersi trincerato nella pura
tecnica letteraria. Egli ha saputo sviluppare l’arte di nascondere, di nascondersi.
L’Unheimliche provocato da James ha dunque una sorgente ulteriore e niente affatto secondaria, che è la
sapienza dell’artista.
L’effetto perturbante di Giro di vite, così come quello di molti racconti di Edgar Allan Poe o di Guy De
Maupassant o di Dino Buzzati e di molti altri scrittori (anche dei migliori scrittori di letteratura di consumo),
non è riducibile alla semplice somma di elementi (spettri, isteria, fattore infantile, sessualità rimossa e quanti
altri abbiamo fin qui esaminato): l’effetto perturbante in arte, come l’effetto comico quello tragico o quello
elegiaco, è creazione e tecnica.
Del resto proprio su questo potere dell’arte anche Freud chiude il suo saggio, esprimendo un esplicito
tributo alla libertà del poeta. “Tra le molte libertà concesse ai poeti c’è anche quella di scegliersi a loro
capriccio il mondo che vogliono rappresentare, in modo che coincida con la realtà a noi consueta oppure se
ne allontani in qualche modo. In ogni caso noi li seguiamo”. E quando il poeta decide di provocare nei lettori
quello che finora è stato chiamato effetto perturbante può superare di gran lunga la realtà. “In questo caso
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egli fa proprie anche tutte le condizioni che nell’esperienza reale sono all’origine del sentimento perturbante;
e tutto ciò che ha effetto perturbante nella vita l’ha anche nella poesia; ma in questo caso il poeta può anche
accrescere e moltiplicare il perturbante ben oltre il limite possibile nell’esistenza reale, facendo succedere
eventi che nella realtà non sperimenteremmo o sperimenteremmo molto di rado. Egli ci abbandona allora in
certo modo alla superstizione che ritenevamo in noi superata, ci inganna promettendoci la realtà più comune
e poi invece la scavalca”."
E' appunto in questo inganno, che ci irretisce e ci tiene con il fiato sospeso dall'inizio alla fine, che consiste il
principale fascino di questo capolavoro dell'arte di Henry James.
Tutto questo sarebbe più che sufficiente a rendere conto dell'impressione di reticenza che il romanzo
comunica; ma forse c'è di più e di peggio. Come osserva Cinzia Tani in un suo articolo, il critico Edmund
Wilson, nel suo famoso saggio The Ambiguity of Henry James del 1934, ha smascherato il simbolismo
freudiano del racconto facendo riferimento alle innumerevoli allusioni sessuali disseminate in esso: il
fantasma maschile che appare sulla torre, quello femminile ai bordi del lago, e soprattutto la bambina che
infila il bastoncino dell’albero della nave nella fessura alla base della barchetta.
Nella sua analisi, l'istitutrice è un’isterica, il classico esempio di giovane donna nevrotica, vittima di una
feroce repressione sessuale. E’ la passione per il bel padrone, risvegliata dai due incontri con lui, a liberare
in lei una vena di morbose fantasie riguardo ai suoi due predecessori. Insomma, l’istitutrice si sarebbe
innamorata del padrone assente, e pur di farsi notare si inventa eroismi indebiti, fantasmi proiettivi. Di cui
fanno le spese i due bambini. Sta di fatto che non ha mai visto né sentito parlare di Quint e della Jessel,
eppure li descrive alla perfezione.
Del resto, James non doveva cercare molto lontano per conoscere una donna affetta da allucinazioni: l'aveva
in casa, la sorella Alice. Freud e Bruer citavano anche il caso di una istitutrice inglese, una tale Miss Lucy R.;
James potrebbe averla conosciuta ed avere alluso a lei.
Tuttavia le cose non sembrano essere così semplici: ridurre il tutto alle fantasie di un'isterica non spiega
fino in fondo la situazione.
Flora sarà un angelo, ma la signora Grose, che la adora e difende e protegge, riferisce di un eloquio osceno,
blasfemo. Parole orribili le sono uscite dalla bocca. Dove le ha imparate?
E Miles è effettivamente stato espulso dalla scuola: questo non se l’è inventato lei.
Per come la descrive lui, la trasgressione di Miles ha una certa coloritura omosessuale. Tutto il "detto-enon-detto" del romanzo lascia intendere che il bambino sia stato molestato sessualmente da Quint; o per
dirla in modo più storicamente preciso, sembrerebbe che, secondo una tradizione quanto mai inglese, Miles
sia stato iniziato al sesso dal maggiordomo divenuto suo precettore, e a scuola a sua volta inviti altri
compagni ai gesti del piacere che conosce. A parere del critico, l’orrore che nel racconto avvolge tale evento
indicherebbe chiaramente l'inclinazione pedofila dello scrittore, che in sé la censura e la reprime: in
qualche modo James si immedesimerebbe nell'istitutrice nella famosa scena in cui Miles la bacia in camera
da letto, come pure nel finale, quando è lei ad abbracciarlo appassionatamente (nel finale del film lo bacia
sulla bocca, come possiamo vedere qui sopra: un gesto che alla pedofilia unisce la necrofilia).
Stando a questa tesi, quindi, il "non detto" de Il giro di vite sarebbe perciò ben più importante e profondo di
quanto sembri, ed andrebbe molto al di là di un pur affascinante gioco letterario: ciò che forse Henry James
dice e non dice, ciò cui allude censurandolo e autocensurandosi, potrebbe essere la sua
inconfessata tendenza pedofila.
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WALT DISNEY, "LA FACCIA DEL FÜHRER"
La faccia del Führer (Der Fuehrer's Face) è un cartone animato di propaganda anti-nazista prodotto dalla
Disney nel 1943. Si è classificato 22º tra i 50 migliori cartoni prodotti nella storia.
A causa della natura propagandistica del corto, e della rappresentazione di Paperino come un nazista, la
Disney si è per così dire autocensurata e lo ha lasciato fuori circolazione fino a pochissimi anni fa.
Der Fuehrer's Face è stato rilasciato ufficialmente negli USA soltanto nel 2004, quando è stato incluso nel
cofanetto a edizione limitata di uno dei Walt Disney Treasures, raccolte di cortometraggi Disney, dal titolo
On the Front Lines.
La locandina di Der Fuehrer's Face
La trama è la seguente:
una banda musicale (dove riconosciamo Hirohito al bassotuba, Mussolini alla grancassa, forse Goering
all'ottavino e Rudolf Hess come voce solista) entra a passo di marcia in un ideale villaggio tedesco in cui è
onnipresente la svastica nazista, dalle piante ai mulini a vento, cantando inni in onore delle virtù naziste.
Quando i suonatori passano vicino alla casa di Paperino, lo cacciano fuori minacciandolo con la baionetta
per mandarlo a lavorare. A causa della guerra la sua colazione consiste in pane di segatura, caffè di qualità
scadente ed accaparrato al mercato nero, ed uno strano miscuglio al sapore di uova e pancetta. La banda gli
sbandiera davanti agli occhi una copia del Mein Kampf, per un momento di lettura, per poi entrare a passo di
marcia in casa e "scortarlo" al lavoro in una fabbrica.
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Appena arrivato in fabbrica, Paperino inizia il suo turno giornaliero alla catena di montaggio; il suo lavoro
consiste nell'avvitare le spolette di granate di artiglieria. Mescolate alle granate ci sono ritratti del Führer, che
lo costringono ad interrompere il lavoro ogni volta che appare un ritratto, per fare il saluto nazista (lo spunto
più comico del cortometraggio). La velocità della catena di montaggio aumenta continuamente e Paperino
alla fine non riesce a tenere il ritmo. Per di più viene continuamente bombardato da messaggi
propagandistici sulla superiorità della razza ariana e sulla gloria derivante dal lavoro per il Führer.
Segue una breve pausa di "riposo" in cui Paperino deve eseguire alcuni assurdi esercizi di ginnastica
che consistono nel posizionarsi come una sorta di svastica ed eseguire il saluto, il tutto di fronte ad uno
sfondo finto con dipinte le Alpi.
Quindi Paperino è obbligato a fare turni straordinari ed inizia a soffrire di allucinazioni, durante le quali
vede granate di artiglieria dappertutto. Solo quando le allucinazioni finiscono e si ritrova nel proprio letto, a
casa, negli Stati Uniti, capisce che è stato tutto un terribile incubo. Alla fine, Paperino abbraccia una Statua
della Libertà in miniatura, ringraziando di essere cittadino degli Stati Uniti d'America.
Il cartoon in versione originale è visibile all'indirizzo:
http://arjelle.altervista.org/Tesine/Federica/filmatopaperino.htm
Ciò che colpisce in questo cortometraggio, come in altri filmati dell'epoca (incluso Il grande dittatore di
Chaplin), è l'atteggiamento di sberleffo e di disprezzo nei confronti di Hitler, che, se da una parte mostra
come la censura fosse tutto sommato permissiva quando il soggetto dello scherno era un nemico, dall'altro
lascia trapelare una sensibilità radicalmente diversa da quella odierna nei confronti del nazismo: oggi
infatti prevale su tutto l'orrore della Shoah, dei massacri e dei genocidi compiuti da Hitler, per cui sarebbe
impensabile scherzare su un tema del genere. La nostra coscienza ha associato il nazismo alla tragedia, per
cui è impossibile riderne.
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Ci sentiamo a disagio nel vedere Paperino comicamente alle prese con il saluto nazista, perché abbiamo negli
occhi immagini come questa, su cui c'è ben poco da ridere:
Si ha perciò l'impressione che a lungo, nel dopoguerra, l'effettiva portata della tragedia nazista sia sfuggita
all'opinione pubblica.
Riusciamo a ridere un po' meglio dell'"Italietta" fascista, oggettivamente comica con i suoi atteggiamenti
viriloidi e con il suo linguaggio reboante e retorico, un'Italia che ignorerebbe la dimensione tragica e
che rimarrebbe probabilmente confinata nella commedia se solo Mussolini non avesse intrapreso la terribile
avventura della guerra e della persecuzione razziale ad fianco di Hitler; ne è un esempio la satira pungente
ma tutto sommato bonaria di Corrado Guzzanti in Fascisti su Marte, oggetto anch'esso di censura nel 2006,
ma per motivi opposti (cioè perché osa prendersi gioco del Duce: il che la dice lunga sulla nostra situazione
politica).
La canzone che accompagna l'inizio e la fine del brano, composta da Oliver Wallace, è una sorta di
sarcastico inno anglo-tedesco al nazismo:
«When der Fuehrer says "We ist der master race"
We HEIL! HEIL! Right in der Fuehrer's face!
Not to love der Fuehrer is a great disgrace,
So we HEIL! HEIL! Right in der Fuehrer's face!
When Herr Goebbels says, "We own der world und space"
We HEIL! HEIL! Right in Herr Goebbels' face!
When Herr Goering says, "They'll never bomb this place"
We HEIL! HEIL! Right in Herr Goering's face!»
Traduzione:
«Quando il Führer dice "Noi essere la Razza sovrana"
Noi HEIL! HEIL! Dritto nella faccia del Führer!
Non amare il Führer è una grande disgrazia,
Perciò noi HEIL! HEIL! Dritto nella faccia del Führer!
Quando Herr Goebbels dice "Possediamo il mondo und lo spazio"
Noi HEIL! HEIL! Dritto nella faccia di Herr Gobbels!
Quando Herr Goering dice "Non bombarderanno mai kvesto luogo"
Noi HEIL! HEIL! Dritto nella faccia di Herr Goering!»
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Prima dell'uscita del filmato, il cantante popolare Spike Jones, noto per le sue parodie delle canzoni del
momento, rilasciò una versione della canzone di Oliver Wallace intitolata appunto "Der Fuehrer's Face"
(conosciuta anche come "La canzone dei nazisti"), in alcune versioni della quale si sente un effetto sonoro...
poco educato dopo ogni "HEIL!".
Il successo della canzone di Jones ottenne che la Disney cambiasse il titolo del cortometraggio,
originariamente Donald Duck In Nutzi Land ("Paperino nella terra dei nazisti"), facendolo coincidere con
quello della canzone.
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E) UN CASO "SUI GENERIS"
CHI CENSURA IL BOSONE DI HIGGS?
John Titor è un sedicente crononauta (viaggiatore nel tempo) che si è fatto conoscere pubblicamente
attraverso alcuni forum di Internet ad accesso libero. A suo dire, dal Large Hadron Collider (LHC, grande
collisore di adroni) di Ginevra dovrebbero nascere le microsingolarità che sarebbero alla base della
tecnologia dei viaggi nel tempo.
Ma cosa sta realmente succedendo a Ginevra?
Gli americani dicono “the devil is in the details” che in italiano vuol dire che il diavolo abita nei dettagli; ma
c'è chi aggiunge che anche Dio, per la verità, non se la cava male quando si dà da fare. Vediamo in che senso.
L’LHC è l’acceleratore di particelle costruito presso il Cern di Ginevra, il più grande e il più potente mai
costruito dall’uomo, lungo 27 chilometri a 100 metri al di sotto della superficie, immerso nel vuoto assoluto a
-271° di temperatura, è costato ai contribuenti europei cinque miliardi di euro e dovrebbe confermare
l’esistenza del Bosone di Higgs detto anche la Particella di Dio, che fornisce la massa alla materia del
multiverso e simula il Big Bang.
Il Bosone di Higgs è la particella ipotizzata dal fisico teorico scozzese P.W. Higgs, docente dell'Università di
Edimburgo, che ha elaborato la teoria del campo scalare che prende il suo nome (campo di Higgs) e la cui
particella mediatrice, attivamente ricercata presso i laboratori del CERN, gli unici in grado di produrla, è
detta appunto particella o bosone di Higgs.
Grazie a questa particella fondamentale le particelle, originariamente tutte con massa nulla,
acquisterebbero ognuna la propria massa. Il bosone di Higgs darebbe coerenza matematica al Modello
Standard, la teoria che descrive le particelle fondamentali e le forze attraverso le quali interagiscono.
Alcuni modelli atomici
All'origine della teoria di Higgs c'è la constatazione che le particelle posseggono un'amplissima varietà di
masse, dalla più piccola (la massa dell'elettrone) alla più grande, cioè la massa del quarktop (pari a circa
200.000 volte quella dell'elettrone). I valori delle diverse masse non sembrano avere una relazione fra loro;
non solo, ma la versione più semplice del Modello Standard richiede che tutte le particelle abbiano massa
pari a zero. Il campo di Higgs è stato introdotto per conciliare queste due esigenze.
Higgs ha proposto che tutto lo spazio-tempo sia permeato da un campo, il campo di Higgs, simile per
alcuni versi a un campo elettromagnetico. Quando le particelle si muovono nello spazio-tempo si muovono
anche nel campo di Higgs e, interagendo con esso, acquisiscono una massa. Più è grande l'interazione delle
particelle con il campo e più la massa acquisita è grande. Questa interazione può essere considerata simile
all'azione di forze viscose che agiscono su particelle che si muovono in un liquido denso: più è grande
l'interazione con il liquido e maggiore sembra essere la loro massa, dato che la massa può essere vista anche
come la resistenza alle variazioni di moto.
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Immerse nel campo di Higgs, le particelle “assorbirebbero” la massa in relazione alla propria capacità e
alle proprietà del campo. Questo è un campo a valore costante, anche nel vuoto, e di tipo scalare (cioè non
vettoriale, ossia determinato soltanto da un valore numerico e non anche da una direzione).
Poiché dalla teoria dei quanti discende che ogni campo ha una particella associata a esso, un bosone (come
il fotone per il campo elettromagnetico), il campo di Higgs prevede l'esistenza della particella o bosone di
Higgs. Per individuare il bosone di Higgs sono stati proposti esperimenti basati sulle interazioni reciproche
dei bosoni W.
Altro che introvabile! Il bosone di Higgs
è in vendita su internet a meno di 10 dollari...
La straordinaria importanza dell'esperimento risiede nel fatto che l'esistenza del campo di Higgs
giustificherebbe un fenomeno avvenuto, si ipotizza, dieci miliardesimi di secondo dopo il big-bang,
quando si sarebbe verificata una rottura spontanea di simmetria nell'Universo che avrebbe portato alla
costituzione delle forze fondamentali della natura e delle particelle così come oggi noi le vediamo. Per
spiegare questa rottura spontanea di simmetria è necessario introdurre un nuovo campo di forza, per
l'appunto il campo di Higgs.
In questo campo i fotoni, particelle prive di massa che sono i mediatori dell'elettromagnetismo,
viaggerebbero secondo la direzione del campo (il termine “direzione” non ha il significato fisico del nostro
spazio tridimensionale, ma è una proprietà interna del campo) e pertanto non acquisiscono massa e
vengono osservati da noi, appunto, come fotoni.
Le stesse particelle, quando si muovono in direzione opposta, hanno bisogno di più energia (cioè massa),
che viene assorbita dal campo di Higgs; diventano quindi bosoni W e Z, i mediatori della forza nucleare
debole.
Questa visione consente di unificare anche sotto tale aspetto l'elettromagnetismo e la forza nucleare debole
(di cui Enrico Fermi fornì la prima descrizione matematica nel 1933) nella teoria elettrodebole, giustificando
l'attuale diversità dei rispettivi mediatori, che sarebbero quindi due aspetti della stessa particella, che noi
vediamo come fotoni o come W e Z a seconda della loro interazione col campo di Higgs.
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Tornando all'LHC, il grande anello di collisione del CERN, uno dei compiti fondamentali a cui esso è
destinato, come s'è detto, è la creazione e osservazione del Bosone di Higgs, che ci consentirebbe di
"sbirciare" le origini dell'Universo; curiosità non esente da rischi, visto che secondo alcuni scenziati, tra cui il
professor Otto Rossler, un chimico tedesco della Eberhard Karls University, esisterebbe il rischio concreto
che, come effetto collaterale dell’esperimento, si formino dei buchi neri in grado di inghiottire la terra entro
poco tempo! Per questo Rossler ha anche presentato un ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani.
Ma qualcosa (o qualcuno) congiura contro la creazione della fatidica "Particella di Dio": l'HCD infatti si è
inspiegabilmente fermato per due volte. La seconda volta, alla fine del 2009, ci hanno trovato una mollica
di pane. Per l'esattezza, la briciola di una baguette.
Si è saputo che una briciola aveva messo fuori uso una delle unità esterne di raffreddamento che
mantengono la temperatura 1,9 gradi sopra lo zero assoluto. Si suppone che la briciola sia stata persa da un
volatile o che sia caduta da un aereo (!).
La vicenda ad una prima lettura sembrerebbe assurda e paradossale: una macchina progettata per accelerare
i protoni e gli ioni presenti, fino al 99,9% della velocità della luce e scoprire l’origine del multiverso, è stata
bloccata da una briciola di pane!
Il più grande e costoso esperimento della moderna fisica, sconfitto da una panetteria anonima. Si potrebbe
tirare in ballo il principio d'indeterminazione di Heisenberg, per il quale i sistemi più sono complessi, più
facilmente collassano. Giusto! Comunque quanto accade sembra materiale per il Vernacoliere o per
scienziati fortemente dotati del senso dell’umorismo.
Ma c’è un precedente che rende più inquietante la storia. Quando l’LHC venne inaugurato, il 10 settembre
del 2008, un’esplosione di scintille, fiamme ed elio refrigerato lo ha spento. Fu un incidente bislacco e mai
esaurientemente chiarito.
Solo tre settimane prima della fatidica briciola, precisamente il 13 ottobre del 2009, Denis Overbiye del N.Y.
Times ha scritto: “il LHC è pronto per ripartire, sarà il momento di verificare una delle più bizzarre e
rivoluzionarie teorie scientifiche mai sentite. Sto parlando dell’ipotesi secondo la quale, a sabotare il
travagliato sincrotrone, sarebbe niente meno che il suo stesso futuro. Una coppia di affermati fisici ha
suggerito che l’ipotetico Bosone di Higgs, che gli scienziati sperano di produrre grazie all’LHC, potrebbe
essere a tal punto scabroso per la natura che la sua creazione sarebbe sufficiente a produrre un ritorno al
passato, tale da fermare il sincotrone prima che ne produca uno. Come un viaggiatore del tempo che
tornasse indietro per uccidere il proprio nonno.”
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I fisici di cui si parla nell'articolo sono Holger Bech Nielsen dell’Istituto Niels Bohr di Copenaghen e il
giapponese Masao Ninomiya dell’Istituto Yukawa di fisica teorica di Kyoto.
Nielsen scrive: “È nelle nostre previsioni che ogni macchina che produca Bosoni di Higgs abbia cattiva
fortuna. Si potrebbe quasi dire che abbiamo un modello di Dio. Anche Lui odia alquanto le particelle di
Higgs e cerca di evitarle”.
Tornando a Titor, egli afferma che, nella sua linea temporale, le microsingolarità ottenute dal LHC sono state
la base della tecnologia dei viaggi nel tempo. Se questo susseguirsi di fattori improbabili e incongrui
continuerà a verificarsi al fine d’impedire la funzionalità del LHC, si potrebbe ipotizzare che una linea
temporale del multiverso stia operando per far sì che la nostra realtà non riesca a realizzare la
funzionalità dell’LHC e di conseguenza resti tagliata fuori dalla tecnologia dei viaggi del tempo.
Una scena del film Ritorno al futuro del 1985
Ovviamente i fisici del Cern non la pensano così: mentre i quotidiani disquisivano sul pezzo di pane
nell'acceleratore, i tecnici proseguivano i loro test, iniettando fasci di protoni in due nuovi settori, il 7-6 e il 65. I protoni sono entrati pure nel CMS, il grande rivelatore (anche lui cercherà il bosone di Higgs) frutto di
una collaborazione di 2.500 fisici appartenenti a oltre 80 paesi del mondo. E i risultati sono stati molto
incoraggianti.
A Ginevra, dunque, si guarda al futuro con ottimismo... baguette vaganti permettendo!
Ma, scherzi a parte, anche senza voler avallare la teoria fantascientifica della "censura" del bosone di Higgs
da parte di Dio o della natura, non si riesce proprio a condividere tale ottimismo, che sembra parente della
spensierata incoscienza con cui si parla di nucleare in Italia. Il perché è implicito nell'osservazione fatta da
un lettore della rivista Focus, tecnico progettista di impianti di trattamento dell'aria: "è possibile che non sia
prevista una serranda di blocco alla suddetta griglia di aereazione su un'enorme macchina che costa
miliardi e miliardi di euro??".
Appunto.
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APPENDICE
OSCAR WILDE, DE PROFUNDIS
De Profundis
...Suffering is one very long moment. We cannot divide it by seasons. We can only record its moods, and
chronicle their return. With us time itself does not progress. It revolves. It seems to circle round one centre of
pain. The paralysing immobility of a life every circumstance of which is regulated after an unchangeable
pattern, so that we eat and drink and lie down and pray, or kneel at least for prayer, according to the
inflexible laws of an iron formula: this immobile quality, that makes each dreadful day in the very minutest
detail like its brother, seems to communicate itself to those external forces the very essence of whose
existence is ceaseless change. Of seed-time or harvest, of the reapers bending over the corn, or the grape
gatherers threading through the vines, of the grass in the orchard made white with broken blossoms or
strewn with fallen fruit: of these we know nothing and can know nothing.
For us there is only one season, the season of sorrow. The very sun and moon seem taken from us. Outside,
the day may be blue and gold, but the light that creeps down through the thickly-muffled glass of the small
iron-barred window beneath which one sits is grey and niggard. It is always twilight in one's cell, as it is
always twilight in one's heart. And in the sphere of thought, no less than in the sphere of time, motion is no
more. The thing that you personally have long ago forgotten, or can easily forget, is happening to me now,
and will happen to me again to-morrow. Remember this, and you will be able to understand a little of why I
am writing, and in this manner writing...
A week later, I am transferred here. Three more months go over and my mother dies. No one knew how
deeply I loved and honoured her. Her death was terrible to me; but I, once a lord of language, have no
words in which to express my anguish and my shame. She and my father had bequeathed me a name they
had made noble and honoured, not merely in literature, art, archaeology, and science, but in the public
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history of my own country, in its evolution as a nation. I had disgraced that name eternally. I had made it a
low by-word among low people. I had dragged it through the very mire. I had given it to brutes that they
might make it brutal, and to fools that they might turn it into a synonym for folly. What I suffered then, and
still suffer, is not for pen to write or paper to record. My wife, always kind and gentle to me, rather than that
I should hear the news from indifferent lips, travelled, ill as she was, all the way from Genoa to England to
break to me herself the tidings of so irreparable, so irremediable, a loss. Messages of sympathy reached me
from all who had still affection for me. Even people who had not known me personally, hearing that a new
sorrow had broken into my life, wrote to ask that some expression of their condolence should be conveyed to
me...
Three months go over. The calendar of my daily conduct and labour that hangs on the outside of my cell
door, with my name and sentence written upon it, tells me that it is May...
Prosperity, pleasure and success, may be rough of grain and common in fibre, but sorrow is the most
sensitive of all created things. There is nothing that stirs in the whole world of thought to which sorrow does
not vibrate in terrible and exquisite pulsation. The thin beaten-out leaf of tremulous gold that chronicles the
direction of forces the eye cannot see is in comparison coarse. It is a wound that bleeds when any hand but
that of love touches it, and even then must bleed again, though not in pain.
Where there is sorrow there in holy ground. Some day people will realise what that means. They will know
nothing of life till they do, - and natures like his can realise it. When I was brought down from my prison to
the Court of Bankruptcy, between two policemen, - waited in the long dreary corridor that, before the whole
crowd, whom an action so sweet and simple hushed into silence, he might gravely raise his hat to me, as,
handcuffed and with bowed head, I passed him by. Men have gone to heaven for smaller things than that. It
was in this spirit, and with this mode of love, that the saints knelt down to wash the feet of the poor, or
stooped to kiss the leper on the cheek. I have never said one single word to him about what he did. I do not
know to the present moment whether he is aware that I was even conscious of his action. It is not a thing for
which one can render formal thanks in formal words. I store it in the treasure-house of my heart. I keep it
there as a secret debt that I am glad to think I can never possibly repay. It is embalmed and kept sweet by the
myrrh and cassia of many tears. When wisdom has been profitless to me, philosophy barren, and the
proverbs and phrases of those who have sought to give me consolation as dust and ashes in my mouth, the
memory of that little, lovely, silent act of love has unsealed for me all the wells of pity: made the desert
blossom like a rose, and brought me out of the bitterness of lonely exile into harmony with the wounded,
broken, and great heart of the world. When people are able to understand, not merely how beautiful -'s
action was, but why it meant so much to me, and always will mean so much, then, perhaps, they will realise
how and in what spirit they should approach me.
The poor are wise, more charitable, more kind, more sensitive than we are. In their eyes prison is a tragedy
in a man's life, a misfortune, a casuality, something that calls for sympathy in others. They speak of one who
is in prison as of one who is 'in trouble' simply. It is the phrase they always use, and the expression has the
perfect wisdom of love in it. With people of our own rank it is different. With us, prison makes a man a
pariah. I, and such as I am, have hardly any right to air and sun. Our presence taints the pleasures of others.
We are unwelcome when we reappear. To revisit the glimpses of the moon is not for us. Our very children
are taken away. Those lovely links with humanity are broken. We are doomed to be solitary, while our sons
still live. We are denied the one thing that might heal us and keep us, that might bring balm to the bruised
heart, and peace to the soul in pain.
I must say to myself that I ruined myself, and that nobody great or small can be ruined except by his own
hand. I am quite ready to say so. I am trying to say so, though they may not think it at the present moment.
This pitiless indictment I bring without pity against myself. Terrible as was what the world did to me, what I
did to myself was far more terrible still.
I was a man who stood in symbolic relations to the art and culture of my age. I had realised this for myself at
the very dawn of my manhood, and had forced my age to realise it afterwards. Few men hold such a
position in their own lifetime, and have it so acknowledged. It is usually discerned, if discerned at all, by the
historian, or the critic, long after both the man and his age have passed away. With me it was different. I felt
it myself, and made others feel it. Byron was a symbolic figure, but his relations were to the passion of his
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age and its weariness of passion. Mine were to something more noble, more permanent, of more vital issue,
of larger scope.
The gods had given me almost everything. But I let myself be lured into long spells of senseless and sensual
ease. I amused myself with being a FLANEUR, a dandy, a man of fashion. I surrounded myself with the
smaller natures and the meaner minds. I became the spendthrift of my own genius, and to waste an eternal
youth gave me a curious joy. Tired of being on the heights, I deliberately went to the depths in the search for
new sensation. What the paradox was to me in the sphere of thought, perversity became to me in the sphere
of passion. Desire, at the end, was a malady, or a madness, or both. I grew careless of the lives of others. I
took pleasure where it pleased me, and passed on. I forgot that every little action of the common day makes
or unmakes character, and that therefore what one has done in the secret chamber one has some day to cry
aloud on the housetop. I ceased to be lord over myself. I was no longer the captain of my soul, and did not
know it. I allowed pleasure to dominate me. I ended in horrible disgrace. There is only one thing for me
now, absolute humility.
I have lain in prison for nearly two years. Out of my nature has come wild despair; an abandonment to grief
that was piteous even to look at; terrible and impotent rage; bitterness and scorn; anguish that wept aloud;
misery that could find no voice; sorrow that was dumb. I have passed through every possible mood of
suffering. Better than Wordsworth himself I know what Wordsworth meant when he said 'Suffering is permanent, obscure, and dark And has the nature of infinity.'
But while there were times when I rejoiced in the idea that my sufferings were to be endless, I could not bear
them to be without meaning. Now I find hidden somewhere away in my nature something that tells me that
nothing in the whole world is meaningless, and suffering least of all. That something hidden away in my
nature, like a treasure in a field, is Humility.
It is the last thing left in me, and the best: the ultimate discovery at which I have arrived, the starting-point
for a fresh development. It has come to me right out of myself, so I know that it has come at the proper time.
It could not have come before, nor later. Had any one told me of it, I would have rejected it. Had it been
brought to me, I would have refused it. As I found it, I want to keep it. I must do so. It is the one thing that
has in it the elements of life, of a new life, VITA NUOVA for me. Of all things it is the strangest. One cannot
acquire it, except by surrendering everything that one has. It is only when one has lost all things, that one
knows that one possesses it.
Now I have realised that it is in me, I see quite clearly what I ought to do; in fact, must do. And when I use
such a phrase as that, I need not say that I am not alluding to any external sanction or command. I admit
none. I am far more of an individualist than I ever was. Nothing seems to me of the smallest value except
what one gets out of oneself. My nature is seeking a fresh mode of self-realisation. That is all I am concerned
with. And the first thing that I have got to do is to free myself from any possible bitterness of feeling against
the world.
I am completely penniless, and absolutely homeless. Yet there are worse things in the world than that. I am
quite candid when I say that rather than go out from this prison with bitterness in my heart against the
world, I would gladly and readily beg my bread from door to door. If I got nothing from the house of the
rich I would get something at the house of the poor. Those who have much are often greedy; those who have
little always share. I would not a bit mind sleeping in the cool grass in summer, and when winter came on
sheltering myself by the warm close-thatched rick, or under the penthouse of a great barn, provided I had
love in my heart. The external things of life seem to me now of no importance at all. You can see to what
intensity of individualism I have arrived - or am arriving rather, for the journey is long, and 'where I walk
there are thorns.'
Of course I know that to ask alms on the highway is not to be my lot, and that if ever I lie in the cool grass at
night-time it will be to write sonnets to the moon. When I go out of prison, R- will be waiting for me on the
other side of the big iron-studded gate, and he is the symbol, not merely of his own affection, but of the
affection of many others besides. I believe I am to have enough to live on for about eighteen months at any
rate, so that if I may not write beautiful books, I may at least read beautiful books; and what joy can be
greater? After that, I hope to be able to recreate my creative faculty.
But were things different: had I not a friend left in the world; were there not a single house open to me in
pity; had I to accept the wallet and ragged cloak of sheer penury: as long as I am free from all resentment,
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hardness and scorn, I would be able to face the life with much more calm and confidence than I would were
my body in purple and fine linen, and the soul within me sick with hate.
And I really shall have no difficulty. When you really want love you will find it waiting for you.
I need not say that my task does not end there. It would be comparatively easy if it did. There is much more
before me. I have hills far steeper to climb, valleys much darker to pass through. And I have to get it all out
of myself. Neither religion, morality, nor reason can help me at all.
Morality does not help me. I am a born antinomian. I am one of those who are made for exceptions, not for
laws. But while I see that there is nothing wrong in what one does, I see that there is something wrong in
what one becomes. It is well to have learned that.
Religion does not help me. The faith that others give to what is unseen, I give to what one can touch, and
look at. My gods dwell in temples made with hands; and within the circle of actual experience is my creed
made perfect and complete: too complete, it may be, for like many or all of those who have placed their
heaven in this earth, I have found in it not merely the beauty of heaven, but the horror of hell also. When I
think about religion at all, I feel as if I would like to found an order for those who CANNOT believe: the
Confraternity of the Faithless, one might call it, where on an altar, on which no taper burned, a priest, in
whose heart peace had no dwelling, might celebrate with unblessed bread and a chalice empty of wine.
Every thing to be true must become a religion. And agnosticism should have its ritual no less than faith. It
has sown its martyrs, it should reap its saints, and praise God daily for having hidden Himself from man.
But whether it be faith or agnosticism, it must be nothing external to me. Its symbols must be of my own
creating. Only that is spiritual which makes its own form. If I may not find its secret within myself, I shall
never find it: if I have not got it already, it will never come to me.
Reason does not help me. It tells me that the laws under which I am convicted are wrong and unjust laws,
and the system under which I have suffered a wrong and unjust system. But, somehow, I have got to make
both of these things just and right to me. And exactly as in Art one is only concerned with what a particular
thing is at a particular moment to oneself, so it is also in the ethical evolution of one's character. I have got to
make everything that has happened to me good for me. The plank bed, the loathsome food, the hard ropes
shredded into oakum till one's finger-tips grow dull with pain, the menial offices with which each day
begins and finishes, the harsh orders that routine seems to necessitate, the dreadful dress that makes sorrow
grotesque to look at, the silence, the solitude, the shame - each and all of these things I have to transform into
a spiritual experience. There is not a single degradation of the body which I must not try and make into a
spiritualising of the soul.
I want to get to the point when I shall be able to say quite simply, and without affectation that the two great
turning-points in my life were when my father sent me to Oxford, and when society sent me to prison. I will
not say that prison is the best thing that could have happened to me: for that phrase would savour of too
great bitterness towards myself. I would sooner say, or hear it said of me, that I was so typical a child of my
age, that in my perversity, and for that perversity's sake, I turned the good things of my life to evil, and the
evil things of my life to good.
What is said, however, by myself or by others, matters little. The important thing, the thing that lies before
me, the thing that I have to do, if the brief remainder of my days is not to be maimed, marred, and
incomplete, is to absorb into my nature all that has been done to me, to make it part of me, to accept it
without complaint, fear, or reluctance. The supreme vice is shallowness. Whatever is realised is right.
When first I was put into prison some people advised me to try and forget who I was. It was ruinous advice.
It is only by realising what I am that I have found comfort of any kind. Now I am advised by others to try on
my release to forget that I have ever been in a prison at all. I know that would be equally fatal. It would
mean that I would always be haunted by an intolerable sense of disgrace, and that those things that are
meant for me as much as for anybody else - the beauty of the sun and moon, the pageant of the seasons, the
music of daybreak and the silence of great nights, the rain falling through the leaves, or the dew creeping
over the grass and making it silver - would all be tainted for me, and lose their healing power, and their
power of communicating joy. To regret one's own experiences is to arrest one's own development. To deny
one's own experiences is to put a lie into the lips of one's own life. It is no less than a denial of the soul.
For just as the body absorbs things of all kinds, things common and unclean no less than those that the priest
or a vision has cleansed, and converts them into swiftness or strength, into the play of beautiful muscles and
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the moulding of fair flesh, into the curves and colours of the hair, the lips, the eye; so the soul in its turn has
its nutritive functions also, and can transform into noble moods of thought and passions of high import what
in itself is base, cruel and degrading; nay, more, may find in these its most august modes of assertion, and
can often reveal itself most perfectly through what was intended to desecrate or destroy.
The fact of my having been the common prisoner of a common gaol I must frankly accept, and, curious as it
may seem, one of the things I shall have to teach myself is not to be ashamed of it. I must accept it as a
punishment, and if one is ashamed of having been punished, one might just as well never have been
punished at all. Of course there are many things of which I was convicted that I had not done, but then there
are many things of which I was convicted that I had done, and a still greater number of things in my life for
which I was never indicted at all. And as the gods are strange, and punish us for what is good and humane
in us as much as for what is evil and perverse, I must accept the fact that one is punished for the good as
well as for the evil that one does. I have no doubt that it is quite right one should be. It helps one, or should
help one, to realise both, and not to be too conceited about either. And if I then am not ashamed of my
punishment, as I hope not to be, I shall be able to think, and walk, and live with freedom.
Many men on their release carry their prison about with them into the air, and hide it as a secret disgrace in
their hearts, and at length, like poor poisoned things, creep into some hole and die. It is wretched that they
should have to do so, and it is wrong, terribly wrong, of society that it should force them to do so. Society
takes upon itself the right to inflict appalling punishment on the individual, but it also has the supreme vice
of shallowness, and fails to realise what it has done. When the man's punishment is over, it leaves him to
himself; that is to say, it abandons him at the very moment when its highest duty towards him begins. It is
really ashamed of its own actions, and shuns those whom it has punished, as people shun a creditor whose
debt they cannot pay, or one on whom they have inflicted an irreparable, an irremediable wrong. I can claim
on my side that if I realise what I have suffered, society should realise what it has inflicted on me; and that
there should be no bitterness or hate on either side.
Of course I know that from one point of view things will be made different for me than for others; must
indeed, by the very nature of the case, be made so. The poor thieves and outcasts who are imprisoned here
with me are in many respects more fortunate than I am. The little way in grey city or green field that saw
their sin is small; to find those who know nothing of what they have done they need go no further than a
bird might fly between the twilight and the dawn; but for me the world is shrivelled to a handsbreadth, and
everywhere I turn my name is written on the rocks in lead. For I have come, not from obscurity into the
momentary notoriety of crime, but from a sort of eternity of fame to a sort of eternity of infamy, and
sometimes seem to myself to have shown, if indeed it required showing, that between the famous and the
infamous there is but one step, if as much as one.
Still, in the very fact that people will recognise me wherever I go, and know all about my life, as far as its
follies go, I can discern something good for me. It will force on me the necessity of again asserting myself as
an artist, and as soon as I possibly can. If I can produce only one beautiful work of art I shall be able to rob
malice of its venom, and cowardice of its sneer, and to pluck out the tongue of scorn by the roots.
And if life be, as it surely is, a problem to me, I am no less a problem to life. People must adopt some attitude
towards me, and so pass judgment, both on themselves and me. I need not say I am not talking of particular
individuals. The only people I would care to be with now are artists and people who have suffered: those
who know what beauty is, and those who know what sorrow is: nobody else interests me. Nor am I making
any demands on life. In all that I have said I am simply concerned with my own mental attitude towards life
as a whole; and I feel that not to be ashamed of having been punished is one of the first points I must attain
to, for the sake of my own perfection, and because I am so imperfect.
Then I must learn how to be happy. Once I knew it, or thought I knew it, by instinct. It was always
springtime once in my heart. My temperament was akin to joy. I filled my life to the very brim with
pleasure, as one might fill a cup to the very brim with wine. Now I am approaching life from a completely
new standpoint, and even to conceive happiness is often extremely difficult for me. I remember during my
first term at Oxford reading in Pater's RENAISSANCE - that book which has had such strange influence over
my life - how Dante places low in the Inferno those who wilfully live in sadness; and going to the college
library and turning to the passage in the DIVINE COMEDY where beneath the dreary marsh lie those who
were 'sullen in the sweet air,' saying for ever and ever through their sighs -
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'Tristi fummo
Nell aer dolce che dal sol s'allegra.'
I knew the church condemned ACCIDIA, but the whole idea seemed to me quite fantastic, just the sort of
sin, I fancied, a priest who knew nothing about real life would invent. Nor could I understand how Dante,
who says that 'sorrow remarries us to God,' could have been so harsh to those who were enamoured of
melancholy, if any such there really were. I had no idea that some day this would become to me one of the
greatest temptations of my life.
While I was in Wandsworth prison I longed to die. It was my one desire. When after two months in the
infirmary I was transferred here, and found myself growing gradually better in physical health, I was filled
with rage. I determined to commit suicide on the very day on which I left prison. After a time that evil mood
passed away, and I made up my mind to live, but to wear gloom as a king wears purple: never to smile
again: to turn whatever house I entered into a house of mourning: to make my friends walk slowly in
sadness with me: to teach them that melancholy is the true secret of life: to maim them with an alien sorrow:
to mar them with my own pain. Now I feel quite differently. I see it would be both ungrateful and unkind of
me to pull so long a face that when my friends came to see me they would have to make their faces still
longer in order to show their sympathy; or, if I desired to entertain them, to invite them to sit down silently
to bitter herbs and funeral baked meats. I must learn how to be cheerful and happy.
The last two occasions on which I was allowed to see my friends here, I tried to be as cheerful as possible,
and to show my cheerfulness, in order to make them some slight return for their trouble in coming all the
way from town to see me. It is only a slight return, I know, but it is the one, I feel certain, that pleases them
most. I saw R- for an hour on Saturday week, and I tried to give the fullest possible expression of the delight
I really felt at our meeting. And that, in the views and ideas I am here shaping for myself, I am quite right is
shown to me by the fact that now for the first time since my imprisonment I have a real desire for life.
There is before me so much to do, that I would regard it as a terrible tragedy if I died before I was allowed to
complete at any rate a little of it. I see new developments in art and life, each one of which is a fresh mode of
perfection. I long to live so that I can explore what is no less than a new world to me. Do you want to know
what this new world is? I think you can guess what it is. It is the world in which I have been living. Sorrow,
then, and all that it teaches one, is my new world.
I used to live entirely for pleasure. I shunned suffering and sorrow of every kind. I hated both. I resolved to
ignore them as far as possible: to treat them, that is to say, as modes of imperfection. They were not part of
my scheme of life. They had no place in my philosophy. My mother, who knew life as a whole, used often to
quote to me Goethe's lines - written by Carlyle in a book he had given her years ago, and translated by him, I
fancy, also:'Who never ate his bread in sorrow,
Who never spent the midnight hours
Weeping and waiting for the morrow, He knows you not, ye heavenly powers.'
They were the lines which that noble Queen of Prussia, whom Napoleon treated with such coarse brutality,
used to quote in her humiliation and exile; they were the lines my mother often quoted in the troubles of her
later life. I absolutely declined to accept or admit the enormous truth hidden in them. I could not understand
it. I remember quite well how I used to tell her that I did not want to eat my bread in sorrow, or to pass any
night weeping and watching for a more bitter dawn.
I had no idea that it was one of the special things that the Fates had in store for me: that for a whole year of
my life, indeed, I was to do little else. But so has my portion been meted out to me; and during the last few
months I have, after terrible difficulties and struggles, been able to comprehend some of the lessons hidden
in the heart of pain. Clergymen and people who use phrases without wisdom sometimes talk of suffering as
a mystery. It is really a revelation. One discerns things one never discerned before. One approaches the
whole of history from a different standpoint. What one had felt dimly, through instinct, about art, is
intellectually and emotionally realised with perfect clearness of vision and absolute intensity of
apprehension.
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I now see that sorrow, being the supreme emotion of which man is capable, is at once the type and test of all
great art. What the artist is always looking for is the mode of existence in which soul and body are one and
indivisible: in which the outward is expressive of the inward: in which form reveals. Of such modes of
existence there are not a few: youth and the arts preoccupied with youth may serve as a model for us at one
moment: at another we may like to think that, in its subtlety and sensitiveness of impression, its suggestion
of a spirit dwelling in external things and making its raiment of earth and air, of mist and city alike, and in
its morbid sympathy of its moods, and tones, and colours, modern landscape art is realising for us pictorially
what was realised in such plastic perfection by the Greeks. Music, in which all subject is absorbed in
expression and cannot be separated from it, is a complex example, and a flower or a child a simple example,
of what I mean; but sorrow is the ultimate type both in life and art.
Behind joy and laughter there may be a temperament, coarse, hard and callous. But behind sorrow there is
always sorrow. Pain, unlike pleasure, wears no mask. Truth in art is not any correspondence between the
essential idea and the accidental existence; it is not the resemblance of shape to shadow, or of the form
mirrored in the crystal to the form itself; it is no echo coming from a hollow hill, any more than it is a silver
well of water in the valley that shows the moon to the moon and Narcissus to Narcissus. Truth in art is the
unity of a thing with itself: the outward rendered expressive of the inward: the soul made incarnate: the
body instinct with spirit. For this reason there is no truth comparable to sorrow. There are times when
sorrow seems to me to be the only truth. Other things may be illusions of the eye or the appetite, made to
blind the one and cloy the other, but out of sorrow have the worlds been built, and at the birth of a child or a
star there is pain.
More than this, there is about sorrow an intense, an extraordinary reality. I have said of myself that I was
one who stood in symbolic relations to the art and culture of my age. There is not a single wretched man in
this wretched place along with me who does not stand in symbolic relation to the very secret of life. For the
secret of life is suffering. It is what is hidden behind everything. When we begin to live, what is sweet is so
sweet to us, and what is bitter so bitter, that we inevitably direct all our desires towards pleasures, and seek
not merely for a 'month or twain to feed on honeycomb,' but for all our years to taste no other food, ignorant
all the while that we may really be starving the soul.
I remember talking once on this subject to one of the most beautiful personalities I have ever known: a
woman, whose sympathy and noble kindness to me, both before and since the tragedy of my imprisonment,
have been beyond power and description; one who has really assisted me, though she does not know it, to
bear the burden of my troubles more than any one else in the whole world has, and all through the mere fact
of her existence, through her being what she is - partly an ideal and partly an influence: a suggestion of what
one might become as well as a real help towards becoming it; a soul that renders the common air sweet, and
makes what is spiritual seem as simple and natural as sunlight or the sea: one for whom beauty and sorrow
walk hand in hand, and have the same message. On the occasion of which I am thinking I recall distinctly
how I said to her that there was enough suffering in one narrow London lane to show that God did not love
man, and that wherever there was any sorrow, though but that of a child, in some little garden weeping over
a fault that it had or had not committed, the whole face of creation was completely marred. I was entirely
wrong. She told me so, but I could not believe her. I was not in the sphere in which such belief was to be
attained to. Now it seems to me that love of some kind is the only possible explanation of the extraordinary
amount of suffering that there is in the world. I cannot conceive of any other explanation. I am convinced
that there is no other, and that if the world has indeed, as I have said, been built of sorrow, it has been built
by the hands of love, because in no other way could the soul of man, for whom the world was made, reach
the full stature of its perfection. Pleasure for the beautiful body, but pain for the beautiful soul.
When I say that I am convinced of these things I speak with too much pride. Far off, like a perfect pearl, one
can see the city of God. It is so wonderful that it seems as if a child could reach it in a summer's day. And so
a child could. But with me and such as me it is different. One can realise a thing in a single moment, but one
loses it in the long hours that follow with leaden feet. It is so difficult to keep 'heights that the soul is
competent to gain.' We think in eternity, but we move slowly through time; and how slowly time goes with
us who lie in prison I need not tell again, nor of the weariness and despair that creep back into one's cell, and
into the cell of one's heart, with such strange insistence that one has, as it were, to garnish and sweep one's
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house for their coming, as for an unwelcome guest, or a bitter master, or a slave whose slave it is one's
chance or choice to be.
And, though at present my friends may find it a hard thing to believe, it is true none the less, that for them
living in freedom and idleness and comfort it is more easy to learn the lessons of humility than it is for me,
who begin the day by going down on my knees and washing the floor of my cell. For prison life with its
endless privations and restrictions makes one rebellious. The most terrible thing about it is not that it breaks
one's heart - hearts are made to be broken - but that it turns one's heart to stone. One sometimes feels that it
is only with a front of brass and a lip of scorn that one can get through the day at all. And he who is in a state
of rebellion cannot receive grace, to use the phrase of which the Church is so fond - so rightly fond, I dare
say - for in life as in art the mood of rebellion closes up the channels of the soul, and shuts out the airs of
heaven. Yet I must learn these lessons here, if I am to learn them anywhere, and must be filled with joy if my
feet are on the right road and my face set towards 'the gate which is called beautiful,' though I may fall many
times in the mire and often in the mist go astray.
This New Life, as through my love of Dante I like sometimes to call it, is of course no new life at all, but
simply the continuance, by means of development, and evolution, of my former life. I remember when I was
at Oxford saying to one of my friends as we were strolling round Magdalen's narrow bird-haunted walks
one morning in the year before I took my degree, that I wanted to eat of the fruit of all the trees in the garden
of the world, and that I was going out into the world with that passion in my soul. And so, indeed, I went
out, and so I lived. My only mistake was that I confined myself so exclusively to the trees of what seemed to
me the sun-lit side of the garden, and shunned the other side for its shadow and its gloom. Failure, disgrace,
poverty, sorrow, despair, suffering, tears even, the broken words that come from lips in pain, remorse that
makes one walk on thorns, conscience that condemns, selfabasement that punishes, the misery that puts
ashes on its head, the anguish that chooses sack-cloth for its raiment and into its own drink puts gall:- all
these were things of which I was afraid. And as I had determined to know nothing of them, I was forced to
taste each of them in turn, to feed on them, to have for a season, indeed, no other food at all.
I don't regret for a single moment having lived for pleasure. I did it to the full, as one should do everything
that one does. There was no pleasure I did not experience. I threw the pearl of my soul into a cup of wine. I
went down the primrose path to the sound of flutes. I lived on honeycomb. But to have continued the same
life would have been wrong because it would have been limiting. I had to pass on. The other half of the
garden had its secrets for me also. Of course all this is foreshadowed and prefigured in my books. Some of it
is in THE HAPPY PRINCE, some of it in THE YOUNG KING, notably in the passage where the bishop says
to the kneeling boy, 'Is not He who made misery wiser than thou art'? a phrase which when I wrote it
seemed to me little more than a phrase; a great deal of it is hidden away in the note of doom that like a
purple thread runs through the texture of DORIAN GRAY; in THE CRITIC AS ARTIST it is set forth in many
colours; in THE SOUL OF MAN it is written down, and in letters too easy to read; it is one of the refrains
whose recurring MOTIFS make SALOME so like a piece of music and bind it together as a ballad; in the
prose poem of the man who from the bronze of the image of the 'Pleasure that liveth for a moment' has to
make the image of the 'Sorrow that abideth for ever' it is incarnate. It could not have been otherwise. At
every single moment of one's life one is what one is going to be no less than what one has been. Art is a
symbol, because man is a symbol.
It is, if I can fully attain to it, the ultimate realisation of the artistic life. For the artistic life is simply selfdevelopment. Humility in the artist is his frank acceptance of all experiences, just as love in the artist is
simply the sense of beauty that reveals to the world its body and its soul. In MARIUS THE EPICUREAN
Pater seeks to reconcile the artistic life with the life of religion, in the deep, sweet, and austere sense of the
word. But Marius is little more than a spectator: an ideal spectator indeed, and one to whom it is given 'to
contemplate the spectacle of life with appropriate emotions,' which Wordsworth defines as the poet's true
aim; yet a spectator merely, and perhaps a little too much occupied with the comeliness of the benches of the
sanctuary to notice that it is the sanctuary of sorrow that he is gazing at.
I see a far more intimate and immediate connection between the true life of Christ and the true life of the
artist; and I take a keen pleasure in the reflection that long before sorrow had made my days her own and
bound me to her wheel I had written in THE SOUL OF MAN that he who would lead a Christ-like life must
be entirely and absolutely himself, and had taken as my types not merely the shepherd on the hillside and
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LA PAROLA NEGATA
the prisoner in his cell, but also the painter to whom the world is a pageant and the poet for whom the world
is a song. I remember saying once to Andre Gide, as we sat together in some Paris CAFE, that while metaphysics had but little real interest for me, and morality absolutely none, there was nothing that either Plato
or Christ had said that could not be transferred immediately into the sphere of Art and there find its
complete fulfilment.
Nor is it merely that we can discern in Christ that close union of personality with perfection which forms the
real distinction between the classical and romantic movement in life, but the very basis of his nature was the
same as that of the nature of the artist - an intense and flamelike imagination. He realised in the entire sphere
of human relations that imaginative sympathy which in the sphere of Art is the sole secret of creation. He
understood the leprosy of the leper, the darkness of the blind, the fierce misery of those who live for
pleasure, the strange poverty of the rich. Some one wrote to me in trouble, 'When you are not on your
pedestal you are not interesting.' How remote was the writer from what Matthew Arnold calls 'the Secret of
Jesus.' Either would have taught him that whatever happens to another happens to oneself, and if you want
an inscription to read at dawn and at night-time, and for pleasure or for pain, write up on the walls of your
house in letters for the sun to gild and the moon to silver, 'Whatever happens to oneself happens to another.'
Christ's place indeed is with the poets. His whole conception of Humanity sprang right out of the
imagination and can only be realised by it. What God was to the pantheist, man was to Him. He was the first
to conceive the divided races as a unity. Before his time there had been gods and men, and, feeling through
the mysticism of sympathy that in himself each had been made incarnate, he calls himself the Son of the one
or the Son of the other, according to his mood. More than any one else in history he wakes in us that temper
of wonder to which romance always appeals. There is still something to me almost incredible in the idea of a
young Galilean peasant imagining that he could bear on his own shoulders the burden of the entire world;
all that had already been done and suffered, and all that was yet to be done and suffered: the sins of Nero, of
Caesar Borgia, of Alexander VI., and of him who was Emperor of Rome and Priest of the Sun: the sufferings
of those whose names are legion and whose dwelling is among the tombs: oppressed nationalities, factory
children, thieves, people in prison, outcasts, those who are dumb under oppression and whose silence is
heard only of God; and not merely imagining this but actually achieving it, so that at the present moment all
who come in contact with his personality, even though they may neither bow to his altar nor kneel before his
priest, in some way find that the ugliness of their sin is taken away and the beauty of their sorrow revealed
to them.
I had said of Christ that he ranks with the poets. That is true. Shelley and Sophocles are of his company. But
his entire life also is the most wonderful of poems. For 'pity and terror' there is nothing in the entire cycle of
Greek tragedy to touch it. The absolute purity of the protagonist raises the entire scheme to a height of
romantic art from which the sufferings of Thebes and Pelops' line are by their very horror excluded, and
shows how wrong Aristotle was when he said in his treatise on the drama that it would be impossible to
bear the spectacle of one blameless in pain. Nor in AEschylus nor Dante, those stern masters of tenderness,
in Shakespeare, the most purely human of all the great artists, in the whole of Celtic myth and legend, where
the loveliness of the world is shown through a mist of tears, and the life of a man is no more than the life of a
flower, is there anything that, for sheer simplicity of pathos wedded and made one with sublimity of tragic
effect, can be said to equal or even approach the last act of Christ's passion. The little supper with his
companions, one of whom has already sold him for a price; the anguish in the quiet moon-lit garden; the
false friend coming close to him so as to betray him with a kiss; the friend who still believed in him, and on
whom as on a rock he had hoped to build a house of refuge for Man, denying him as the bird cried to the
dawn; his own utter loneliness, his submission, his acceptance of everything; and along with it all such
scenes as the high priest of orthodoxy rending his raiment in wrath, and the magistrate of civil justice calling
for water in the vain hope of cleansing himself of that stain of innocent blood that makes him the scarlet
figure of history; the coronation ceremony of sorrow, one of the most wonderful things in the whole of
recorded time; the crucifixion of the Innocent One before the eyes of his mother and of the disciple whom he
loved; the soldiers gambling and throwing dice for his clothes; the terrible death by which he gave the world
its most eternal symbol; and his final burial in the tomb of the rich man, his body swathed in Egyptian linen
with costly spices and perfumes as though he had been a king's son. When one contemplates all this from the
point of view of art alone one cannot but be grateful that the supreme office of the Church should be the
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playing of the tragedy without the shedding of blood: the mystical presentation, by means of dialogue and
costume and gesture even, of the Passion of her Lord; and it is always a source of pleasure and awe to me to
remember that the ultimate survival of the Greek chorus, lost elsewhere to art, is to be found in the servitor
answering the priest at Mass.
Yet the whole life of Christ - so entirely may sorrow and beauty be made one in their meaning and
manifestation - is really an idyll, though it ends with the veil of the temple being rent, and the darkness
coming over the face of the earth, and the stone rolled to the door of the sepulchre. One always thinks of him
as a young bridegroom with his companions, as indeed he somewhere describes himself; as a shepherd
straying through a valley with his sheep in search of green meadow or cool stream; as a singer trying to
build out of the music the walls of the City of God; or as a lover for whose love the whole world was too
small. His miracles seem to me to be as exquisite as the coming of spring, and quite as natural. I see no
difficulty at all in believing that such was the charm of his personality that his mere presence could bring
peace to souls in anguish, and that those who touched his garments or his hands forgot their pain; or that as
he passed by on the highway of life people who had seen nothing of life's mystery, saw it clearly, and others
who had been deaf to every voice but that of pleasure heard for the first time the voice of love and found it
as 'musical as Apollo's lute'; or that evil passions fled at his approach, and men whose dull unimaginative
lives had been but a mode of death rose as it were from the grave when he called them; or that when he
taught on the hillside the multitude forgot their hunger and thirst and the cares of this world, and that to his
friends who listened to him as he sat at meat the coarse food seemed delicate, and the water had the taste of
good wine, and the whole house became full of the odour and sweetness of nard.
Renan in his VIE DE JESUS - that gracious fifth gospel, the gospel according to St. Thomas, one might call it says somewhere that Christ's great achievement was that he made himself as much loved after his death as
he had been during his lifetime. And certainly, if his place is among the poets, he is the leader of all the
lovers. He saw that love was the first secret of the world for which the wise men had been looking, and that
it was only through love that one could approach either the heart of the leper or the feet of God.
And above all, Christ is the most supreme of individualists. Humility, like the artistic, acceptance of all
experiences, is merely a mode of manifestation. It is man's soul that Christ is always looking for. He calls it
'God's Kingdom,' and finds it in every one. He compares it to little things, to a tiny seed, to a handful of
leaven, to a pearl. That is because one realises one's soul only by getting rid of all alien passions, all acquired
culture, and all external possessions, be they good or evil.
I bore up against everything with some stubbornness of will and much rebellion of nature, till I had
absolutely nothing left in the world but one thing. I had lost my name, my position, my happiness, my
freedom, my wealth. I was a prisoner and a pauper. But I still had my children left. Suddenly they were
taken away from me by the law. It was a blow so appalling that I did not know what to do, so I flung myself
on my knees, and bowed my head, and wept, and said, 'The body of a child is as the body of the Lord: I am
not worthy of either.' That moment seemed to save me. I saw then that the only thing for me was to accept
everything. Since then - curious as it will no doubt sound - I have been happier. It was of course my soul in
its ultimate essence that I had reached. In many ways I had been its enemy, but I found it waiting for me as a
friend. When one comes in contact with the soul it makes one simple as a child, as Christ said one should be.
It is tragic how few people ever 'possess their souls' before they die. 'Nothing is more rare in any man,' says
Emerson, 'than an act of his own.' It is quite true. Most people are other people. Their thoughts are some one
else's opinions, their lives a mimicry, their passions a quotation. Christ was not merely the supreme
individualist, but he was the first individualist in history. People have tried to make him out an ordinary
philanthropist, or ranked him as an altruist with the scientific and sentimental. But he was really neither one
nor the other. Pity he has, of course, for the poor, for those who are shut up in prisons, for the lowly, for the
wretched; but he has far more pity for the rich, for the hard hedonists, for those who waste their freedom in
becoming slaves to things, for those who wear soft raiment and live in kings' houses. Riches and pleasure
seemed to him to be really greater tragedies than poverty or sorrow. And as for altruism, who knew better
than he that it is vocation not volition that determines us, and that one cannot gather grapes of thorns or figs
from thistles?
To live for others as a definite self-conscious aim was not his creed. It was not the basis of his creed. When he
says, 'Forgive your enemies,' it is not for the sake of the enemy, but for one's own sake that he says so, and
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because love is more beautiful than hate. In his own entreaty to the young man, 'Sell all that thou hast and
give to the poor,' it is not of the state of the poor that he is thinking but of the soul of the young man, the soul
that wealth was marring. In his view of life he is one with the artist who knows that by the inevitable law of
self-perfection, the poet must sing, and the sculptor think in bronze, and the painter make the world a mirror
for his moods, as surely and as certainly as the hawthorn must blossom in spring, and the corn turn to gold
at harvest-time, and the moon in her ordered wanderings change from shield to sickle, and from sickle to
shield.
But while Christ did not say to men, 'Live for others,' he pointed out that there was no difference at all
between the lives of others and one's own life. By this means he gave to man an extended, a Titan
personality. Since his coming the history of each separate individual is, or can be made, the history of the
world. Of course, culture has intensified the personality of man. Art has made us myriad-minded. Those
who have the artistic temperament go into exile with Dante and learn how salt is the bread of others, and
how steep their stairs; they catch for a moment the serenity and calm of Goethe, and yet know but too well
that Baudelaire cried to God 'O Seigneur, donnez moi la force et le courage
De contempler mon corps et mon coeur sans degout.'
Out of Shakespeare's sonnets they draw, to their own hurt it may be, the secret of his love and make it their
own; they look with new eyes on modern life, because they have listened to one of Chopin's nocturnes, or
handled Greek things, or read the story of the passion of some dead man for some dead woman whose hair
was like threads of fine gold, and whose mouth was as a pomegranate. But the sympathy of the artistic
temperament is necessarily with what has found expression. In words or in colours, in music or in marble,
behind the painted masks of an AEschylean play, or through some Sicilian shepherds' pierced and jointed
reeds, the man and his message must have been revealed.
To the artist, expression is the only mode under which he can conceive life at all. To him what is dumb is
dead. But to Christ it was not so. With a width and wonder of imagination that fills one almost with awe, he
took the entire world of the inarticulate, the voiceless world of pain, as his kingdom, and made of himself its
eternal mouthpiece. Those of whom I have spoken, who are dumb under oppression, and 'whose silence is
heard only of God,' he chose as his brothers. He sought to become eyes to the blind, ears to the deaf, and a
cry in the lips of those whose tongues had been tied. His desire was to be to the myriads who had found no
utterance a very trumpet through which they might call to heaven. And feeling, with the artistic nature of
one to whom suffering and sorrow were modes through which he could realise his conception of the
beautiful, that an idea is of no value till it becomes incarnate and is made an image, he made of himself the
image of the Man of Sorrows, and as such has fascinated and dominated art as no Greek god ever succeeded
in doing.
For the Greek gods, in spite of the white and red of their fair fleet limbs, were not really what they appeared
to be. The curved brow of Apollo was like the sun's disc crescent over a hill at dawn, and his feet were as the
wings of the morning, but he himself had been cruel to Marsyas and had made Niobe childless. In the steel
shields of Athena's eyes there had been no pity for Arachne; the pomp and peacocks of Hera were all that
was really noble about her; and the Father of the Gods himself had been too fond of the daughters of men.
The two most deeply suggestive figures of Greek Mythology were, for religion, Demeter, an Earth Goddess,
not one of the Olympians, and for art, Dionysus, the son of a mortal woman to whom the moment of his
birth had proved also the moment of her death.
But Life itself from its lowliest and most humble sphere produced one far more marvellous than the mother
of Proserpina or the son of Semele. Out of the Carpenter's shop at Nazareth had come a personality infinitely
greater than any made by myth and legend, and one, strangely enough, destined to reveal to the world the
mystical meaning of wine and the real beauties of the lilies of the field as none, either on Cithaeron or at
Enna, had ever done.
The song of Isaiah, 'He is despised and rejected of men, a man of sorrows and acquainted with grief: and we
hid as it were our faces from him,' had seemed to him to prefigure himself, and in him the prophecy was
fulfilled. We must not be afraid of such a phrase. Every single work of art is the fulfilment of a prophecy: for
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every work of art is the conversion of an idea into an image. Every single human being should be the
fulfilment of a prophecy: for every human being should be the realisation of some ideal, either in the mind of
God or in the mind of man. Christ found the type and fixed it, and the dream of a Virgilian poet, either at
Jerusalem or at Babylon, became in the long progress of the centuries incarnate in him for whom the world
was waiting.
To me one of the things in history the most to be regretted is that the Christ's own renaissance, which has
produced the Cathedral at Chartres, the Arthurian cycle of legends, the life of St. Francis of Assisi, the art of
Giotto, and Dante's DIVINE COMEDY, was not allowed to develop on its own lines, but was interrupted
and spoiled by the dreary classical Renaissance that gave us Petrarch, and Raphael's frescoes, and Palladian
architecture, and formal French tragedy, and St. Paul's Cathedral, and Pope's poetry, and everything that is
made from without and by dead rules, and does not spring from within through some spirit informing it.
But wherever there is a romantic movement in art there somehow, and under some form, is Christ, or the
soul of Christ. He is in ROMEO AND JULIET, in the WINTER'S TALE, in Provencal poetry, in the ANCIENT
MARINER, in LA BELLE DAME SANS MERCI, and in Chatterton's BALLAD OF CHARITY.
We owe to him the most diverse things and people. Hugo's LES MISERABLES, Baudelaire's FLEURS DU
MAL, the note of pity in Russian novels, Verlaine and Verlaine's poems, the stained glass and tapestries and
the quattro-cento work of Burne-Jones and Morris, belong to him no less than the tower of Giotto, Lancelot
and Guinevere, Tannhauser, the troubled romantic marbles of Michael Angelo, pointed architecture, and the
love of children and flowers - for both of which, indeed, in classical art there was but little place, hardly
enough for them to grow or play in, but which, from the twelfth century down to our own day, have been
continually making their appearances in art, under various modes and at various times, coming fitfully and
wilfully, as children, as flowers, are apt to do: spring always seeming to one as if the flowers had been in
hiding, and only came out into the sun because they were afraid that grown up people would grow tired of
looking for them and give up the search; and the life of a child being no more than an April day on which
there is both rain and sun for the narcissus.
It is the imaginative quality of Christ's own nature that makes him this palpitating centre of romance. The
strange figures of poetic drama and ballad are made by the imagination of others, but out of his own
imagination entirely did Jesus of Nazareth create himself. The cry of Isaiah had really no more to do with his
coming than the song of the nightingale has to do with the rising of the moon - no more, though perhaps no
less. He was the denial as well as the affirmation of prophecy. For every expectation that he fulfilled there
was another that he destroyed. 'In all beauty,' says Bacon, 'there is some strangeness of proportion,' and of
those who are born of the spirit - of those, that is to say, who like himself are dynamic forces - Christ says
that they are like the wind that 'bloweth where it listeth, and no man can tell whence it cometh and whither
it goeth.' That is why he is so fascinating to artists. He has all the colour elements of life: mystery,
strangeness, pathos, suggestion, ecstasy, love. He appeals to the temper of wonder, and creates that mood in
which alone he can be understood.
And to me it is a joy to remember that if he is 'of imagination all compact,' the world itself is of the same
substance. I said in DORIAN GRAY that the great sins of the world take place in the brain: but it is in the
brain that everything takes place. We know now that we do not see with the eyes or hear with the ears. They
are really channels for the transmission, adequate or inadequate, of sense impressions. It is in the brain that
the poppy is red, that the apple is odorous, that the skylark sings.
Of late I have been studying with diligence the four prose poems about Christ. At Christmas I managed to
get hold of a Greek Testament, and every morning, after I had cleaned my cell and polished my tins, I read a
little of the Gospels, a dozen verses taken by chance anywhere. It is a delightful way of opening the day.
Every one, even in a turbulent, ill-disciplined life, should do the same. Endless repetition, in and out of
season, has spoiled for us the freshness, the naivete, the simple romantic charm of the Gospels. We hear
them read far too often and far too badly, and all repetition is anti-spiritual. When one returns to the Greek;
it is like going into a garden of lilies out of some, narrow and dark house.
And to me, the pleasure is doubled by the reflection that it is extremely probable that we have the actual
terms, the IPSISSIMA VERBA, used by Christ. It was always supposed that Christ talked in Aramaic. Even
Renan thought so. But now we know that the Galilean peasants, like the Irish peasants of our own day, were
bilingual, and that Greek was the ordinary language of intercourse all over Palestine, as indeed all over the
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Eastern world. I never liked the idea that we knew of Christ's own words only through a translation of a
translation. It is a delight to me to think that as far as his conversation was concerned, Charmides might
have listened to him, and Socrates reasoned with him, and Plato understood him: that he really said [Greek
text which cannot be reproduced], that when he thought of the lilies of the field and how they neither toil
nor spin, his absolute expression was [Greek text which cannot be reproduced], and that his last word when
he cried out 'my life has been completed, has reached its fulfilment, has been perfected,' was exactly as St.
John tells us it was: [Greek text which cannot be reproduced] - no more.
While in reading the Gospels - particularly that of St. John himself, or whatever early Gnostic took his name
and mantle - I see the continual assertion of the imagination as the basis of all spiritual and material life, I see
also that to Christ imagination was simply a form of love, and that to him love was lord in the fullest
meaning of the phrase. Some six weeks ago I was allowed by the doctor to have white bread to eat instead of
the coarse black or brown bread of ordinary prison fare. It is a great delicacy. It will sound strange that dry
bread could possibly be a delicacy to any one. To me it is so much so that at the close of each meal I carefully
eat whatever crumbs may be left on my tin plate, or have fallen on the rough towel that one uses as a cloth
so as not to soil one's table; and I do so not from hunger - I get now quite sufficient food - but simply in order
that nothing should be wasted of what is given to me. So one should look on love.
Christ, like all fascinating personalities, had the power of not merely saying beautiful things himself, but of
making other people say beautiful things to him; and I love the story St. Mark tells us about the Greek
woman, who, when as a trial of her faith he said to her that he could not give her the bread of the children of
Israel, answered him that the little dogs - ([Greek text which cannot be reproduced], 'little dogs' it should be
rendered) - who are under the table eat of the crumbs that the children let fall. Most people live for love and
admiration. But it is by love and admiration that we should live. If any love is shown us we should recognise
that we are quite unworthy of it. Nobody is worthy to be loved. The fact that God loves man shows us that
in the divine order of ideal things it is written that eternal love is to be given to what is eternally unworthy.
Or if that phrase seems to be a bitter one to bear, let us say that every one is worthy of love, except him who
thinks that he is. Love is a sacrament that should be taken kneeling, and DOMINE, NON SUM DIGNUS
should be on the lips and in the hearts of those who receive it.
If ever I write again, in the sense of producing artistic work, there are just two subjects on which and
through which I desire to express myself: one is 'Christ as the precursor of the romantic movement in life':
the other is 'The artistic life considered in its relation to conduct.' The first is, of course, intensely fascinating,
for I see in Christ not merely the essentials of the supreme romantic type, but all the accidents, the
wilfulnesses even, of the romantic temperament also. He was the first person who ever said to people that
they should live 'flower-like lives.' He fixed the phrase. He took children as the type of what people should
try to become. He held them up as examples to their elders, which I myself have always thought the chief
use of children, if what is perfect should have a use. Dante describes the soul of a man as coming from the
hand of God 'weeping and laughing like a little child,' and Christ also saw that the soul of each one should
be A GUISA DI FANCIULLA CHE PIANGENDO E RIDENDO PARGOLEGGIA. He felt that life was
changeful, fluid, active, and that to allow it to be stereotyped into any form was death. He saw that people
should not be too serious over material, common interests: that to be unpractical was to be a great thing: that
one should not bother too much over affairs. The birds didn't, why should man? He is charming when he
says, 'Take no thought for the morrow; is not the soul more than meat? is not the body more than raiment?'
A Greek might have used the latter phrase. It is full of Greek feeling. But only Christ could have said both,
and so summed up life perfectly for us.
His morality is all sympathy, just what morality should be. If the only thing that he ever said had been, 'Her
sins are forgiven her because she loved much,' it would have been worth while dying to have said it. His
justice is all poetical justice, exactly what justice should be. The beggar goes to heaven because he has been
unhappy. I cannot conceive a better reason for his being sent there. The people who work for an hour in the
vineyard in the cool of the evening receive just as much reward as those who have toiled there all day long
in the hot sun. Why shouldn't they? Probably no one deserved anything. Or perhaps they were a different
kind of people. Christ had no patience with the dull lifeless mechanical systems that treat people as if they
were things, and so treat everybody alike: for him there were no laws: there were exceptions merely, as if
anybody, or anything, for that matter, was like aught else in the world!
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That which is the very keynote of romantic art was to him the proper basis of natural life. He saw no other
basis. And when they brought him one, taken in the very act of sin and showed him her sentence written in
the law, and asked him what was to be done, he wrote with his finger on the ground as though he did not
hear them, and finally, when they pressed him again, looked up and said, 'Let him of you who has never
sinned be the first to throw the stone at her.' It was worth while living to have said that.
Like all poetical natures he loved ignorant people. He knew that in the soul of one who is ignorant there is
always room for a great idea. But he could not stand stupid people, especially those who are made stupid by
education: people who are full of opinions not one of which they even understand, a peculiarly modern
type, summed up by Christ when he describes it as the type of one who has the key of knowledge, cannot
use it himself, and does not allow other people to use it, though it may be made to open the gate of God's
Kingdom. His chief war was against the Philistines. That is the war every child of light has to wage.
Philistinism was the note of the age and community in which he lived. In their heavy inaccessibility to ideas,
their dull respectability, their tedious orthodoxy, their worship of vulgar success, their entire preoccupation
with the gross materialistic side of life, and their ridiculous estimate of themselves and their importance, the
Jews of Jerusalem in Christ's day were the exact counterpart of the British Philistine of our own. Christ
mocked at the 'whited sepulchre' of respectability, and fixed that phrase for ever. He treated worldly success
as a thing absolutely to be despised. He saw nothing in it at all. He looked on wealth as an encumbrance to a
man. He would not hear of life being sacrificed to any system of thought or morals. He pointed out that
forms and ceremonies were made for man, not man for forms and ceremonies. He took sabbatarianism as a
type of the things that should be set at nought. The cold philanthropies, the ostentatious public charities, the
tedious formalisms so dear to the middle-class mind, he exposed with utter and relentless scorn. To us, what
is termed orthodoxy is merely a facile unintelligent acquiescence; but to them, and in their hands, it was a
terrible and paralysing tyranny. Christ swept it aside. He showed that the spirit alone was of value. He took
a keen pleasure in pointing out to them that though they were always reading the law and the prophets,
they had not really the smallest idea of what either of them meant. In opposition to their tithing of each
separate day into the fixed routine of prescribed duties, as they tithe mint and rue, he preached the
enormous importance of living completely for the moment.
Those whom he saved from their sins are saved simply for beautiful moments in their lives. Mary Magdalen,
when she sees Christ, breaks the rich vase of alabaster that one of her seven lovers had given her, and spills
the odorous spices over his tired dusty feet, and for that one moment's sake sits for ever with Ruth and
Beatrice in the tresses of the snow-white rose of Paradise. All that Christ says to us by the way of a little
warning is that every moment should be beautiful, that the soul should always be ready for the coming of
the bridegroom, always waiting for the voice of the lover, Philistinism being simply that side of man's nature
that is not illumined by the imagination. He sees all the lovely influences of life as modes of light: the
imagination itself is the world of light. The world is made by it, and yet the world cannot understand it: that
is because the imagination is simply a manifestation of love, and it is love and the capacity for it that
distinguishes one human being from another.
But it is when he deals with a sinner that Christ is most romantic, in the sense of most real. The world had
always loved the saint as being the nearest possible approach to the perfection of God. Christ, through some
divine instinct in him, seems to have always loved the sinner as being the nearest possible approach to the
perfection of man. His primary desire was not to reform people, any more than his primary desire was to a
relieve suffering. To turn an interesting thief into a tedious honest man was not his aim. He would have
thought little of the Prisoners' Aid Society and other modern movements of the kind. The conversion of a
publican into a Pharisee would not have seemed to him a great achievement. But in a manner not yet
understood of the world he regarded sin and suffering as being in themselves beautiful holy things and
modes of perfection.
It seems a very dangerous idea. It is - all great ideas are dangerous. That it was Christ's creed admits of no
doubt. That it is the true creed I don't doubt myself.
Of course the sinner must repent. But why? Simply because otherwise he would be unable to realise what he
had done. The moment of repentance is the moment of initiation. More than that: it is the means by which
one alters one's past. The Greeks thought that impossible. They often say in their Gnomic aphorisms, 'Even
the Gods cannot alter the past.' Christ showed that the commonest sinner could do it, that it was the one
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
thing he could do. Christ, had he been asked, would have said - I feel quite certain about it - that the moment
the prodigal son fell on his knees and wept, he made his having wasted his substance with harlots, his
swineherding and hungering for the husks they ate, beautiful and holy moments in his life. It is difficult for
most people to grasp the idea. I dare say one has to go to prison to understand it. If so, it may be worth while
going to prison.
There is something so unique about Christ. Of course just as there are false dawns before the dawn itself,
and winter days so full of sudden sunlight that they will cheat the wise crocus into squandering its gold
before its time, and make some foolish bird call to its mate to build on barren boughs, so there were
Christians before Christ. For that we should be grateful. The unfortunate thing is that there have been none
since. I make one exception, St. Francis of Assisi. But then God had given him at his birth the soul of a poet,
as he himself when quite young had in mystical marriage taken poverty as his bride: and with the soul of a
poet and the body of a beggar he found the way to perfection not difficult. He understood Christ, and so he
became like him. We do not require the Liber Conformitatum to teach us that the life of St. Francis was the
true IMITATIO CHRISTI, a poem compared to which the book of that name is merely prose.
Indeed, that is the charm about Christ, when all is said: he is just like a work of art. He does not really teach
one anything, but by being brought into his presence one becomes something. And everybody is predestined
to his presence. Once at least in his life each man walks with Christ to Emmaus.
As regards the other subject, the Relation of the Artistic Life to Conduct, it will no doubt seem strange to you
that I should select it. People point to Reading Gaol and say, 'That is where the artistic life leads a man.' Well,
it might lead to worse places. The more mechanical people to whom life is a shrewd speculation depending
on a careful calculation of ways and means, always know where they are going, and go there. They start
with the ideal desire of being the parish beadle, and in whatever sphere they are placed they succeed in
being the parish beadle and no more. A man whose desire is to be something separate from himself, to be a
member of Parliament, or a successful grocer, or a prominent solicitor, or a judge, or something equally
tedious, invariably succeeds in being what he wants to be. That is his punishment. Those who want a mask
have to wear it.
But with the dynamic forces of life, and those in whom those dynamic forces become incarnate, it is
different. People whose desire is solely for self-realisation never know where they are going. They can't
know. In one sense of the word it is of course necessary, as the Greek oracle said, to know oneself: that is the
first achievement of knowledge. But to recognise that the soul of a man is unknowable, is the ultimate
achievement of wisdom. The final mystery is oneself. When one has weighed the sun in the balance, and
measured the steps of the moon, and mapped out the seven heavens star by star, there still remains oneself.
Who can calculate the orbit of his own soul? When the son went out to look for his father's asses, he did not
know that a man of God was waiting for him with the very chrism of coronation, and that his own soul was
already the soul of a king.
I hope to live long enough and to produce work of such a character that I shall be able at the end of my days
to say, 'Yes! this is just where the artistic life leads a man!' Two of the most perfect lives I have come across in
my own experience are the lives of Verlaine and of Prince Kropotkin: both of them men who have passed
years in prison: the first, the one Christian poet since Dante; the other, a man with a soul of that beautiful
white Christ which seems coming out of Russia. And for the last seven or eight months, in spite of a
succession of great troubles reaching me from the outside world almost without intermission, I have been
placed in direct contact with a new spirit working in this prison through man and things, that has helped me
beyond any possibility of expression in words: so that while for the first year of my imprisonment I did
nothing else, and can remember doing nothing else, but wring my hands in impotent despair, and say, 'What
an ending, what an appalling ending!' now I try to say to myself, and sometimes when I am not torturing
myself do really and sincerely say, 'What a beginning, what a wonderful beginning!' It may really be so. It
may become so. If it does I shall owe much to this new personality that has altered every man's life in this
place.
You may realise it when I say that had I been released last May, as I tried to be, I would have left this place
loathing it and every official in it with a bitterness of hatred that would have poisoned my life. I have had a
year longer of imprisonment, but humanity has been in the prison along with us all, and now when I go out
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LA PAROLA NEGATA
I shall always remember great kindnesses that I have received here from almost everybody, and on the day
of my release I shall give many thanks to many people, and ask to be remembered by them in turn.
The prison style is absolutely and entirely wrong. I would give anything to be able to alter it when I go out. I
intend to try. But there is nothing in the world so wrong but that the spirit of humanity, which is the spirit of
love, the spirit of the Christ who is not in churches, may make it, if not right, at least possible to be borne
without too much bitterness of heart.
I know also that much is waiting for me outside that is very delightful, from what St. Francis of Assisi calls
'my brother the wind, and my sister the rain,' lovely things both of them, down to the shop-windows and
sunsets of great cities. If I made a list of all that still remains to me, I don't know where I should stop: for,
indeed, God made the world just as much for me as for any one else. Perhaps I may go out with something
that I had not got before. I need not tell you that to me reformations in morals are as meaningless and vulgar
as Reformations in theology. But while to propose to be a better man is a piece of unscientific cant, to have
become a deeper man is the privilege of those who have suffered. And such I think I have become.
If after I am free a friend of mine gave a feast, and did not invite me to it, I should not mind a bit. I can be
perfectly happy by myself. With freedom, flowers, books, and the moon, who could not be perfectly happy?
Besides, feasts are not for me any more. I have given too many to care about them. That side of life is over for
me, very fortunately, I dare say. But if after I am free a friend of mine had a sorrow and refused to allow me
to share it, I should feel it most bitterly. If he shut the doors of the house of mourning against me, I would
come back again and again and beg to be admitted, so that I might share in what I was entitled to share in. If
he thought me unworthy, unfit to weep with him, I should feel it as the most poignant humiliation, as the
most terrible mode in which disgrace could be inflicted on me. But that could not be. I have a right to share
in sorrow, and he who can look at the loveliness of the world and share its sorrow, and realise something of
the wonder of both, is in immediate contact with divine things, and has got as near to God's secret as any
one can get.
Perhaps there may come into my art also, no less than into my life, a still deeper note, one of greater unity of
passion, and directness of impulse. Not width but intensity is the true aim of modern art. We are no longer
in art concerned with the type. It is with the exception that we have to do. I cannot put my sufferings into
any form they took, I need hardly say. Art only begins where Imitation ends, but something must come into
my work, of fuller memory of words perhaps, of richer cadences, of more curious effects, of simpler
architectural order, of some aesthetic quality at any rate.
When Marsyas was 'torn from the scabbard of his limbs' - DELLA VAGINA DELLA MEMBRE SUE, to use
one of Dante's most terrible Tacitean phrases - he had no more song, the Greek said. Apollo had been victor.
The lyre had vanquished the reed. But perhaps the Greeks were mistaken. I hear in much modern Art the cry
of Marsyas. It is bitter in Baudelaire, sweet and plaintive in Lamartine, mystic in Verlaine. It is in the
deferred resolutions of Chopin's music. It is in the discontent that haunts BurneJones's women. Even
Matthew Arnold, whose song of Callicles tells of 'the triumph of the sweet persuasive lyre,' and the 'famous
final victory,' in such a clear note of lyrical beauty, has not a little of it; in the troubled undertone of doubt
and distress that haunts his verses, neither Goethe nor Wordsworth could help him, though he followed
each in turn, and when he seeks to mourn for THYRSIS or to sing of the SCHOLAR GIPSY, it is the reed that
he has to take for the rendering of his strain. But whether or not the Phrygian Faun was silent, I cannot be.
Expression is as necessary to me as leaf and blossoms are to the black branches of the trees that show
themselves above the prison walls and are so restless in the wind. Between my art and the world there is
now a wide gulf, but between art and myself there is none. I hope at least that there is none.
To each of us different fates are meted out. My lot has been one of public infamy, of long imprisonment, of
misery, of ruin, of disgrace, but I am not worthy of it - not yet, at any rate. I remember that I used to say that
I thought I could bear a real tragedy if it came to me with purple pall and a mask of noble sorrow, but that
the dreadful thing about modernity was that it put tragedy into the raiment of comedy, so that the great
realities seemed commonplace or grotesque or lacking in style. It is quite true about modernity. It has
probably always been true about actual life. It is said that all martyrdoms seemed mean to the looker on. The
nineteenth century is no exception to the rule.
Everything about my tragedy has been hideous, mean, repellent, lacking in style; our very dress makes us
grotesque. We are the zanies of sorrow. We are clowns whose hearts are broken. We are specially designed
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LA PAROLA NEGATA
to appeal to the sense of humour. On November 13th, 1895, I was brought down here from London. From
two o'clock till half-past two on that day I had to stand on the centre platform of Clapham Junction in
convict dress, and handcuffed, for the world to look at. I had been taken out of the hospital ward without a
moment's notice being given to me. Of all possible objects I was the most grotesque. When people saw me
they laughed. Each train as it came up swelled the audience. Nothing could exceed their amusement. That
was, of course, before they knew who I was. As soon as they had been informed they laughed still more. For
half an hour I stood there in the grey November rain surrounded by a jeering mob.
For a year after that was done to me I wept every day at the same hour and for the same space of time. That
is not such a tragic thing as possibly it sounds to you. To those who are in prison tears are a part of every
day's experience. A day in prison on which one does not weep is a day on which one's heart is hard, not a
day on which one's heart is happy.
Well, now I am really beginning to feel more regret for the people who laughed than for myself. Of course
when they saw me I was not on my pedestal, I was in the pillory. But it is a very unimaginative nature that
only cares for people on their pedestals. A pedestal may be a very unreal thing. A pillory is a terrific reality.
They should have known also how to interpret sorrow better. I have said that behind sorrow there is always
sorrow. It were wiser still to say that behind sorrow there is always a soul. And to mock at a soul in pain is a
dreadful thing. In the strangely simple economy of the world people only get what they give, and to those
who have not enough imagination to penetrate the mere outward of things, and feel pity, what pity can be
given save that of scorn?
I write this account of the mode of my being transferred here simply that it should be realised how hard it
has been for me to get anything out of my punishment but bitterness and despair. I have, however, to do it,
and now and then I have moments of submission and acceptance. All the spring may be hidden in the single
bud, and the low ground nest of the lark may hold the joy that is to herald the feet of many rose-red dawns.
So perhaps whatever beauty of life still remains to me is contained in some moment of surrender,
abasement, and humiliation. I can, at any rate, merely proceed on the lines of my own development, and,
accepting all that has happened to me, make myself worthy of it.
People used to say of me that I was too individualistic. I must be far more of an individualist than ever I was.
I must get far more out of myself than ever I got, and ask far less of the world than ever I asked. Indeed, my
ruin came not from too great individualism of life, but from too little. The one disgraceful, unpardonable,
and to all time contemptible action of my life was to allow myself to appeal to society for help and
protection. To have made such an appeal would have been from the individualist point of view bad enough,
but what excuse can there ever be put forward for having made it? Of course once I had put into motion the
forces of society, society turned on me and said, 'Have you been living all this time in defiance of my laws,
and do you now appeal to those laws for protection? You shall have those laws exercised to the full. You
shall abide by what you have appealed to.' The result is I am in gaol. Certainly no man ever fell so ignobly,
and by such ignoble instruments, as I did.
The Philistine element in life is not the failure to understand art. Charming people, such as fishermen,
shepherds, ploughboys, peasants and the like, know nothing about art, and are the very salt of the earth. He
is the Philistine who upholds and aids the heavy, cumbrous, blind, mechanical forces of society, and who
does not recognise dynamic force when he meets it either in a man or a movement.
People thought it dreadful of me to have entertained at dinner the evil things of life, and to have found
pleasure in their company. But then, from the point of view through which I, as an artist in life, approach
them they were delightfully suggestive and stimulating. The danger was half the excitement. . . . My
business as an artist was with Ariel. I set myself to wrestle with Caliban. . . .
A great friend of mine - a friend of ten years' standing - came to see me some time ago, and told me that he
did not believe a single word of what was said against me, and wished me to know that he considered me
quite innocent, and the victim of a hideous plot. I burst into tears at what he said, and told him that while
there was much amongst the definite charges that was quite untrue and transferred to me by revolting
malice, still that my life had been full of perverse pleasures, and that unless he accepted that as a fact about
me and realised it to the full I could not possibly be friends with him any more, or ever be in his company. It
was a terrible shock to him, but we are friends, and I have not got his friendship on false pretences.
110
FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
Emotional forces, as I say somewhere in INTENTIONS, are as limited in extent and duration as the forces of
physical energy. The little cup that is made to hold so much can hold so much and no more, though all the
purple vats of Burgundy be filled with wine to the brim, and the treaders stand knee-deep in the gathered
grapes of the stony vineyards of Spain. There is no error more common than that of thinking that those who
are the causes or occasions of great tragedies share in the feelings suitable to the tragic mood: no error more
fatal than expecting it of them. The martyr in his 'shirt of flame' may be looking on the face of God, but to
him who is piling the faggots or loosening the logs for the blast the whole scene is no more than the slaying
of an ox is to the butcher, or the felling of a tree to the charcoal burner in the forest, or the fall of a flower to
one who is mowing down the grass with a scythe. Great passions are for the great of soul, and great events
can be seen only by those who are on a level with them.
*****
I know of nothing in all drama more incomparable from the point of view of art, nothing more suggestive in
its subtlety of observation, than Shakespeare's drawing of Rosencrantz and Guildenstern. They are Hamlet's
college friends. They have been his companions. They bring with them memories of pleasant days together.
At the moment when they come across him in the play he is staggering under the weight of a burden
intolerable to one of his temperament. The dead have come armed out of the grave to impose on him a
mission at once too great and too mean for him. He is a dreamer, and he is called upon to act. He has the
nature of the poet, and he is asked to grapple with the common complexity of cause and effect, with life in its
practical realisation, of which he knows nothing, not with life in its ideal essence, of which he knows so
much. He has no conception of what to do, and his folly is to feign folly. Brutus used madness as a cloak to
conceal the sword of his purpose, the dagger of his will, but the Hamlet madness is a mere mask for the
hiding of weakness. In the making of fancies and jests he sees a chance of delay. He keeps playing with
action as an artist plays with a theory. He makes himself the spy of his proper actions, and listening to his
own words knows them to be but 'words, words, words.' Instead of trying to be the hero of his own history,
he seeks to be the spectator of his own tragedy. He disbelieves in everything, including himself, and yet his
doubt helps him not, as it comes not from scepticism but from a divided will.
Of all this Guildenstern and Rosencrantz realise nothing. They bow and smirk and smile, and what the one
says the other echoes with sickliest intonation. When, at last, by means of the play within the play, and the
puppets in their dalliance, Hamlet 'catches the conscience' of the King, and drives the wretched man in terror
from his throne, Guildenstern and Rosencrantz see no more in his conduct than a rather painful breach of
Court etiquette. That is as far as they can attain to in 'the contemplation of the spectacle of life with
appropriate emotions.' They are close to his very secret and know nothing of it. Nor would there be any use
in telling them. They are the little cups that can hold so much and no more. Towards the close it is suggested
that, caught in a cunning spring set for another, they have met, or may meet, with a violent and sudden
death. But a tragic ending of this kind, though touched by Hamlet's humour with something of the surprise
and justice of comedy, is really not for such as they. They never die. Horatio, who in order to 'report Hamlet
and his cause aright to the unsatisfied,'
'Absents him from felicity a while,
And in this harsh world draws his breath in pain,'
dies, but Guildenstern and Rosencrantz are as immortal as Angelo and Tartuffe, and should rank with them.
They are what modern life has contributed to the antique ideal of friendship. He who writes a new DE
AMICITIA must find a niche for them, and praise them in Tusculan prose. They are types fixed for all time.
To censure them would show 'a lack of appreciation.' They are merely out of their sphere: that is all. In
sublimity of soul there is no contagion. High thoughts and high emotions are by their very existence
isolated.
I am to be released, if all goes well with me, towards the end of May, and hope to go at once to some little
sea-side village abroad with R- and M-.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
The sea, as Euripides says in one of his plays about Iphigeneia, washes away the stains and wounds of the
world.
I hope to be at least a month with my friends, and to gain peace and balance, and a less troubled heart, and a
sweeter mood. I have a strange longing for the great simple primeval things, such as the sea, to me no less of
a mother than the Earth. It seems to me that we all look at Nature too much, and live with her too little. I
discern great sanity in the Greek attitude. They never chattered about sunsets, or discussed whether the
shadows on the grass were really mauve or not. But they saw that the sea was for the swimmer, and the sand
for the feet of the runner. They loved the trees for the shadow that they cast, and the forest for its silence at
noon. The vineyard-dresser wreathed his hair with ivy that he might keep off the rays of the sun as he
stooped over the young shoots, and for the artist and the athlete, the two types that Greece gave us, they
plaited with garlands the leaves of the bitter laurel and of the wild parsley, which else had been of no service
to men.
We call ours a utilitarian age, and we do not know the uses of any single thing. We have forgotten that water
can cleanse, and fire purify, and that the Earth is mother to us all. As a consequence our art is of the moon
and plays with shadows, while Greek art is of the sun and deals directly with things. I feel sure that in
elemental forces there is purification, and I want to go back to them and live in their presence.
Of course to one so modern as I am, 'Enfant de mon siecle,' merely to look at the world will be always lovely.
I tremble with pleasure when I think that on the very day of my leaving prison both the laburnum and the
lilac will be blooming in the gardens, and that I shall see the wind stir into restless beauty the swaying gold
of the one, and make the other toss the pale purple of its plumes, so that all the air shall be Arabia for me.
Linnaeus fell on his knees and wept for joy when he saw for the first time the long heath of some English
upland made yellow with the tawny aromatic brooms of the common furze; and I know that for me, to
whom flowers are part of desire, there are tears waiting in the petals of some rose. It has always been so with
me from my boyhood. There is not a single colour hidden away in the chalice of a flower, or the curve of a
shell, to which, by some subtle sympathy with the very soul of things, my nature does not answer. Like
Gautier, I have always been one of those 'pour qui le monde visible existe.'
Still, I am conscious now that behind all this beauty, satisfying though it may be, there is some spirit hidden
of which the painted forms and shapes are but modes of manifestation, and it is with this spirit that I desire
to become in harmony. I have grown tired of the articulate utterances of men and things. The Mystical in
Art, the Mystical in Life, the Mystical in Nature this is what I am looking for. It is absolutely necessary for
me to find it somewhere.
All trials are trials for one's life, just as all sentences are sentences of death; and three times have I been tried.
The first time I left the box to be arrested, the second time to be led back to the house of detention, the third
time to pass into a prison for two years. Society, as we have constituted it, will have no place for me, has
none to offer; but Nature, whose sweet rains fall on unjust and just alike, will have clefts in the rocks where I
may hide, and secret valleys in whose silence I may weep undisturbed. She will hang the night with stars so
that I may walk abroad in the darkness without stumbling, and send the wind over my footprints so that
none may track me to my hurt: she will cleanse me in great waters, and with bitter herbs make me whole.
112
FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
De Profundis
Un assai lungo momento è il soffrire.
Noi non possiamo dividerlo per stagioni, ma soltanto renderci conto de' suoi modi e calcolarne i ritorni. Per
noi, il tempo stesso non cammina; e sembra piuttosto descrivere un circolo intorno ad un centro di dolore. La
paralizzatrice immobilità di un'esistenza in cui ogni particolare è regolato da un immutevole despota (in
modo che noi mangiamo, beviamo, dormiamo e preghiamo o, almeno, c'inginocchiamo per pregare, secondo
le leggi di una formula ferrea); questo carattere statico che rende, fino nei più piccoli atti, ogni giornata
uguale alla precedente, pare che si comunichi a tutte quelle forze esterne delle quali l'essenza consiste
appunto in un mutamento continuo.
Noi non sappiano nulla del periodo della semina o del raccolto, dei mietitori proni in mezzo alle spighe, o
dei vendemmiatori sparsi tra i vigneti; nulla sappiamo dei prati verdi che gli alberi di primavera nevicano di
petali e che gli alberi del verziere, in autunno, cospargono di frutti maturi, e nulla mai ne possiamo sapere.
Per noi non c'è che una stagione: quella del dolore. Sembra che ci abbiano anche defraudato del sole e della
luna. Fuori il cielo può essere d'azzurro e d'oro, ma la grossa vetrata del piccolo abbaino dalle sbarre di ferro
sotto cui ci si accuccia non lascia filtrare appena appena che una povera luce sporca. Dentro le celle c'è
sempre semioscurità del crepuscolo; e il crepuscolo invade pure ogni cuore.
Nell'orbita del pensiero, come in quella del tempo, il moto non esiste più. La cosa stessa che da lungo tempo
voi, personalmente, avete dimenticato o che potete dimenticare con facilità, la medesima cosa mi succede
ancora in questo stesso momento e mi accadrà nuovamente domani.
Tenete presente tutto ciò e vi sarà possibile comprendere il perché io scrivo in questo tono...
Una settimana dopo mi trasferiscono qui... Passano ancora tre mesi e mia madre muore. Nessuno seppe
quanto profondamente io l'amassi e la venerassi.
La sua morte fu per me una cosa terribile; ma io, già un tempo principe dello stile, non trovo nemmeno una
parola per esprimere la mia angoscia e la mia vergogna. Essa e mio padre mi avevano lasciato in retaggio un
nome glorioso d'onore e di nobiltà, non solo nei campi della letteratura, dell'arte, dell'archeologia e della
scienza, ma anche nella storia del mio paese d'origine e nella sua evoluzione nazionale.
Ebbene, io ho macchiato questo nome d'un obbrobrio eterno. Io ne ho creato un epiteto ignobile per il volgo.
Io l'ho trascinato nel fango. Io l'ho dato in balìa dei bruti, affinchè lo rendano brutale ed ai nemici perché ne
facciano un sinonimo di follia. Quel che ho sofferto allora e lo strazio che ancor oggi io provo, no! nessuna
penna lo potrà scrivere, nessun foglio di carta lo potrà rivelare.
Mia moglie, sempre buona e nobile verso di me, temendo che la notizia della sciagura mi giungesse per
mezzo di estranei, quantunque tanto malata, si mise in viaggio da Genova per l'Inghilterra per venire essa
stessa ad annunciarmi questa perdita irreparabile, irrimediabile.
Lettere di simpatia mi arrivarono da tutti coloro che avevano ancora serbato dell'affetto verso di me. E
perfino delle persone che io non avevo mai conosciuto direttamente, quando seppero che una nuova
disgrazia era venuta ad abbattersi sulla mia vita, scrissero, pregando di comunicarmi ch'essi m'erano accanto
nel grande dolore...
Tre mesi passano. La tabella-calendario della mia condotta e del mio lavoro giornaliero, appesa
esternamente sull'uscio della mia cella, con scrittovi sopra il mio nome e la mia condanna, m'informa che
siamo giunti al mese di maggio...
La prosperità, il piacere e il successo possono essere volgari e refrattari, ma il dolore è la più sensibile di tutte
le cose create. Nulla succede nel mondo del pensiero cui il dolore non faccia eco con delle vibrazioni
infinitamente vive e terribili. In suo confronto, la sensibilissima foglia d'oro battuto, che indica la direzione
delle forze che l' occhio non riesce ad afferrare, è grossolana.
Il dolore è una ferita che sanguina quando una mano la tocca, tranne quella dell'amore, ed anche premuta da
una carezza buona essa fa sangue, quantunque non la strazi più la sofferenza.
Dovunque c'è il dolore qui santa è la terra. Un giorno si capirà ciò che questo significa. Nulla si saprà prima
di questo.... e delle indoli come la sua, sì, possono comprendere. Quando, costretto fra due gendarmi, io fui
condotto dalla mia prigione alla Corte dei Fallimenti,....attese nel lungo e tragico corridoio per potersi
togliere con atto grave il suo cappello davanti a me, in cospetto della folla che fu ridotta al silenzio da un
gesto così semplice e così dolce, mentre io passavo innanzi a lui colle manette ai polsi e colla testa china.
113
FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
Molti uomini si sono guadagnati il regno dei Cieli con delle opere assai meno meritevoli di questa. Non è
con tale spirito, forse, e animati da simile amore che i Santi si inginocchiavano per lavare i piedi dei poveri o
si curvavano per baciare sulle guance i lebbrosi? Io non gli ho mai detto una parola di ciò ch'egli fece quel
giorno. Non so nemmeno, in questo momento, s' egli pensa eh' io abbia potuto intravedere il suo atto.
Oh, non è una cosa per la quale si rivolgono dei ringraziamenti formali con delle parole formali! Io l'ho
racchiusa nel tesoro del mio cuore. Ivi la serbo come un debito segreto che sono felice di pensare che non
potrò assolvere mai. La imbalsamo e la rinfresco con la mirra e gli aromi d'infinite lacrime.
Guardate: la saggezza non mi riuscì di nessun profitto e la filosofia rimase infeconda e gli adagi e le frasi di
coloro che tentarono di consolarmi furono come della polvere e della cenere nella mia bocca, ma il ricordo di
quel piccolo gesto d'amore, adorabile e silenzioso, ha riaperto per me tutte le fonti della pietà, ha fatto fiorire
il deserto come una rosa, m'ha strappato dalla disperazione solitaria dell'esilio per mettermi in armonia col
grande cuore ferito e spezzato del mondo.
Quando gli uomini saranno capaci di comprendere non solo quanto quel gesto fu bello, ma pure quale
intimo significato ebbe per me e quale valore avrà per me sempre, allora forse essi sapranno in che modo e in
quale stato d'animo mi devono avvicinare.
I poveri sono saggi e più caritatevoli e più propensi alla bontà di noialtri. Per loro la prigionia è una tragedia
nella vita di un uomo, una sciagura, una disgrazia, qualche cosa, insomma, che merita la simpatia altrui. Essi
parlano di colui che è in carcere come di uno che «passa un guaio», semplicemente. È l'espressione che
adoperano sempre ed essa contiene la perfetta saggezza dell'amore. Invece, con le persone del nostro ceto, è
diverso. Per noi, la prigione trasforma un uomo in un paria. Io, e alcuni altri nel mio stesso caso, non
abbiamo diritto né all'aria, né al sole. La nostra presenza turba la gioia degli altri.
Siamo ricevuti come degli intrusi, quando ritorniamo nel mondo. Non ci si vorrebbe lasciar godere
nemmeno il chiaro di luna. E i nostri figlioli non ce li portano via? Così ci si spezzano questi dolcissimi
vincoli che ci ricollegano all'umanità. Siamo dannati alla solitudine, mentre i nostri figli sono pur vivi. Ci
rifiutano l'unico mezzo che potrebbe guarirci e farci rinascere, l'unica dolcezza che sarebbe in grado di
spandere un balsamo sul cuore angosciato e di mettere un po' di pace nell'anima in pena...
Bisogna, sì, ch'io mi dica che da me stesso io mi sono distrutto e che nessuno, piccolo o grande, non si può
rovinare che con le sue proprie mani. Io sono pronto a dirlo; mi sforzo di confessarlo, quantunque, forse, in
questo momento, non lo si creda. Senza alcuna compassione io sostengo contro di me l'implacabile accusa.
Per quanto terribile sia stato ciò che il mondo mi ha fatto di male, quel che io feci a me stesso fu più
tremendo ancora.
Ero in simbolica comunione con l'arte e con la cultura del mio tempo. Sul principio della mia virilità lo avevo
compreso e avevo, in seguito, forzato i miei contemporanei a comprenderlo. Pochi uomini, durante la loro
vita, hanno occupato un posto simile al mio col pieno riconoscimento altrui. La posizione ideale di un artista
è messa in luce, di solito (se pure lo è), dallo storico o dal critico, molto tempo dopo che l'artista e la sua età
sono scomparsi. Invece, per me, la cosa accadde diversamente. Io ne ebbi la coscienza e la diedi anche agli
altri.
Byron fu una figura simbolica, ma relativamente alla passione e alla stanchezza passionale della sua epoca.
Il mio rapporto col mio tempo fu più nobile, più costante, d'una importanza e d'un valore più grandi.
Gli dei m'avevano quasi tutto donato. Ma io mi lasciai poltrire e mi concessi dei lunghi periodi di tregua
insensata e sensuale. Mi divertii a fare l'ozioso, il dandy, l'uomo alla moda. Mi circondai di poveri caratteri e
di spiriti miserevoli. Divenni prodigo del mio proprio genio e provai una gioia bizzarra nello sperperare una
giovinezza eterna. Stanco di vivere sulle cime, discesi volontariamente in fondo agli abissi per cercarvi delle
sensazioni nuove. La perversità fu nell'orbita della passione quel che il paradosso era stato per me nella sfera
del pensiero.
Infine il desiderio si cambiò in una malattia, o in una follia, o in entrambe le cose. Divenni noncurante della
vita altrui. Colsi il mio bene dove mi piacque e passai oltre. Dimenticai che ogni più piccola azione
quotidiana forma o deforma il carattere e che, per conseguenza, ciò che si è compiuto nel segreto della
propria intimità si sarà poi costretti a proclamarlo al mondo intero. Così, non fui più padrone di me stesso.
Non riuscii più a dominare la mia anima e la ignorai. Permisi al piacere di governarmi e finii coll'essere
abbattuto da una sventura orrenda. Adesso non mi rimane più che una cosa: l'assoluta umiltà.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
Ecco quasi due anni, tra poco, che io sono in prigione! Da principio una selvaggia disperazione cominciò ad
impossessarsi di me; mi abbandonavo a una pena tale ch'era disprezzabile anche a vedersi, a un'ira terribile
ed impotente, all'angoscia e all'indignazione, alla tortura che mi strappava i più acuti singhiozzi, a una
miseria che non aveva nessuna voce per esprimersi, a un dolore muto. Sono passato attraverso tutte le forme
possibili della sofferenza. Meglio ancora di Wordsworth, io ben so ciò ch'egli intese di dire in quel suo
distico.
"La sofferenza è costante e oscura e misteriosa, e ha la natura dell'Infinito".
Ma quando, talvolta, io mi rallegravo all'idea che le mie sarebbero interminabili, non potevo, però,
sopportare ch'esse fossero prive di significato. Ora, io trovo riposta in un oscuro angolo della mia natura
qualcosa che mi dice: nulla c'è al mondo che sia vuoto di senso ed il soffrire meno di qualunque altra cosa.
Questo quid, nascosto nel più profondo del mio «io», come un tesoro in un campo, è l'Umiltà.
È l'ultima cosa che mi resta, e la migliore; è l'estrema scoperta alla quale io sono arrivato, è il punto di
partenza di tutto uno sviluppo nuovo. E' una verità che si è formata nel mio intimo essere e così pure io so
ch'essa è venuta in un momento favorevole. Se alcuno me ne avesse parlato, l'avrei respinta; ma siccome l'ho
trovata io stesso, ci tengo a conservarla. Bisogna ch'io la conservi! Ê l'unica cosa che ha in sé i germi della
vita, di una nuova esistenza, una Vita Nuova per me. Tra tutte le cose, essa è la più strana; non si può
acquistarla che a patto di rinunciare a tutto ciò che si possiede. E, solamente quando si è tutto perduto, ci si
accorge di averla guadagnata.
Ora che ho capito ch'essa è in me, io vedo assai chiaramente ciò che in realtà occorre ch'io faccia. E allorché
adopero una frase come questa, non ho bisogno di aggiungere che non alludo a nessuna sanzione, a nessun
ordine imperativo dal di fuori. Io non ne ammetto. Sono molto più individualista di quanto lo sia mai stato.
Niente mi sembra che abbia il minimo valore, tranne ciò che si estrae dalla propria intimità. La mia indole è
in traccia d'un nuovo mezzo di realizzazione: ecco tutto ciò di cui io devo preoccuparmi. E la prima cosa che
mi occorre è questa: liberarmi di qualsiasi risentimento amaro contro il mondo.
Io sono completamente senza denaro, assolutamente senza focolare. Eppure c'è qualcosa di peggio, sulla
terra. Sono del tutto sincero quando affermo che, piuttosto che lasciare questo carcere conservando nel mio
cuore dell'amarezza contro il mondo, preferirei di mendicare con gioia il mio tozzo di pane di porta in porta.
Se non ottengo nulla dal ricco, riceverò pur qualche cosa dal povero. Coloro che molto posseggono sono di
solito avari; ma quelli che hanno ben poco lo dividono volentieri. Non mi farebbe nessun caso il dormire
sulla fresca erba in estate e, al sopraggiungere dell'inverno, ripararmi al caldo in un mucchio di fieno o sotto
la tettoia di una capanna, purché avessi sempre dell'amore dentro il mio cuore.
Le cose esterne della vita mi pare ora che non abbiano più alcun valore. Voi vedete, dunque, a quale
intensità d'individualismo io sono arrivato, o, piuttosto, io vado accostandomi, poiché il viaggio è ancor
lungo e "sulla strada per la quale io cammino ci sono delle spine".
Certo, so bene che andare elemosinando per la via non sarà il fatto mio e che, se io mi stendessi la sera
sull'erba fresca vi comporrei dei sonetti alla luna. Quando uscirò di prigione, R ../Ross/ mi aspetterà al di là
dell'enorme portone ferrato ed egli è il simbolo non solo del suo proprio affetto, ma anche di quello di molti
altri. Credo, ad ogni modo, che avrò da vivere per circa diciotto mesi e, se non potrò per il momento scrivere
de' bei libri, almeno potrò leggerne; e quale felicità sarà più grande?
In seguito spero d'essere capace di riacquistare le mie facoltà creatrici.
Ma se accadesse altrimenti, se non mi restasse più un amico al mondo, se nessuna casa mi fosse più aperta,
neanche per pietà, se dovessi prendere la bisaccia e il tabarro logoro della miseria assoluta fino a quando io
fossi libero da ogni risentimento, da ogni rancore, da ogni indignazione, potrei sempre affrontare la vita con
molta più calma e fiducia che se il mio corpo fosse coperto di porpora e di lino prezioso e la mia anima
scoppiasse di odio.
Né avrò, veramente, nessuna difficoltà. Quando si desidera con fede l'amore, lo si trova là, che ci attende.
Inutile dire che il mio compito non termina qui. Se così fosse, sarebbe troppo facile. c'è ben altro davanti a
me. Devo scalare delle montagne assai più irte; ho da attraversare delle valli infinitamente più cupe. E mi
bisogna trarmi d'impaccio colle mie sole mani. Né la religione, né la morale, nè la ragione mi possono dare
alcun giovamento.
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LA PAROLA NEGATA
No, la morale non mi aiuta. Io sono un antinomista nato. Sono di quelli che son fatti per le eccezioni e non
per le regole. Ma mentre io vedo che non c'è niente di male in ciò che si compie, mi accorgo però che c'è
qualcosa di cattivo in ciò che si diventa. Ê bene anche aver imparato questo.
La religione non mi aiuta. La fede che altri nutrono per ciò che è invisibile io la dedico a quel che si può
toccare e osservare. I miei dei abitano nei templi costruiti dalla mano dell'uomo ed è solo nell'ambito
dell'esperienza reale che la mia fede si definisce e si completa: essa è troppo integra, forse, perché, come
molti di coloro o tutti coloro che hanno collocato il loro cielo sopra la terra, io vi ho scoperto non pure la
bellezza del paradiso, ma anche dell'inferno.
Quando penso alla religione, sento che mi piacerebbe fondare un ordine monastico per coloro che non
possono credere: si dovrebbe chiamare la Congrega degl'Infedeli e nei suoi riti, davanti a un altare, privo di
qualsiasi fiamma di ceri, un prete senza pace nel cuore, celebrerebbe l'officio con del pane profano o un
calice vuoto.
Ogni cosa, per essere vera, deve diventare una religione, e l'agnosticismo, come una qualunque altra
religione, dovrebbe avere le sue cerimonie. Non ha esso seminato dei martiri? Ebbene, dovrebbe mietere i
suoi santi e lodare ogni giorno il Signore d'essersi nascosto agli occhi degli uomini. Ma, sia la fede o
l'agnosticismo, nè l'una nè l'altro mi devono rimanere due fatti esterni. Bisogna che i loro simboli siano una
mia creazione stessa.
Spirituale è soltanto ciò che foggia la sua propria forma. Se non posso riuscire a trovarne il segreto nel mio
intimo «io», non lo scoprirò giammai: se non lo reco con me, non mi si rivelerà mai più.
La ragione non mi aiuta. Essa mi dice che le leggi secondo le quali mi hanno condannato sono ingiuste e
crudeli e che il sistema sociale per cui ho sofferto è ingiusto e malvagio. Ma, tuttavia, occorre ch'io le creda
giuste e rette. E, precisamente come nel campo dell'arte non ci si occupa se non del valore che un fatto
particolare ha di per sé stesso in un particolare momento, così succede nell'evoluzione etica del carattere.
Occorre ch'io ritenga come un bene per me tutto ciò che mi e accaduto. Il letto di tavole, il cibo nauseabondo,
le dure funi che si devono sfilacciare in istoppa sino a che le dita indolenzite divengono insensibili, le vili
«corvées» con le quali cominciano e finiscono le giornate, gli aspri comandi che sembrano una necessità
dell'ordine, l'orribile casacca che rende persino grottesco il dolore, il silenzio, la solitudine, la vergogna tutto questo bisogna ch'io lo trasformi in esperienza spirituale. Non c'è neppure una degradazione del
corpo che non contribuisca a spiritualizzare l'anima.
Voglio arrivare ad un punto tale che mi sia possibile dire semplicemente e senza ostentazione di sorta che le
due grandi date della mia vita corrispondono ai giorni in cui mio padre mi mandò ad Oxford e in cui entrai
in galera. Io non dirò che la prigionia sia la miglior cosa che mi sia capitata, perché questa frase avrebbe un
sapore di eccessiva amarezza verso di me. Preferirei dire o sentir dire di me stesso ch'io sono stato una
natura così tipica del mio tempo che, nella mia perversità e per l'amore di questa perversità, ho mutato le
buone cose della mia vita in male e le cattive in bene.
Tuttavia, ciò che gli altri dicono o che io dico interessa poco. La cosa importante che mi si offre e che devo
fare - se il breve periodo dei miei giorni a venire non sarà sciupato, né perduto, né troncato - consiste nel
l'assorbire in me tutto ciò che mi è stato fatto e d'incorporarmelo e di accettarlo senza rimpianto, senza
paura, senza ripugnanza. Il male supremo è la superficialità. Tutto ciò di cui ci si rende conto è bene.
Nei primi tempi della mia prigionia, alcuni mi consigliarono di dimenticare chi io ero. Disastroso consiglio!
Invece, soltanto rendendomi ragione di quel che sono ho potuto trovare un po' di conforto.
Adesso, altri mi esortano a dimenticare, quando sarò libero, d'essere mai stato in carcere. So bene che sarà
fatale ugualmente. Ciò significa che io sarei senza tregua torturato da un sentimento intollerabile di sventura
e che tutte le cose create per me come per gli altri: la bellezza del sole e della luna, il corteo delle stagioni, la
musica dell'aurora e il silenzio della notte fonda, la pioggia che scroscia tra le foglie o la rugiada che
inargenta i prati, tutte queste meraviglie diventerebbero opache per me, perderebbero il loro potere di
guarire e di comunicare la gioia.
Rammaricarsi delle esperienze fatte, vuol dire arrestare il proprio sviluppo; negarle equivale a mettere
una menzogna sulle labbra della nostra vita. Sarebbe come rinnegare l'anima.
Perché, come il corpo assorbe sostanze di ogni sorta, cose volgari ed impure, ed anche quelle che un
sacerdote o una visione hanno purificato, e le converte in forza e in agilità, in gioco armonico di muscoli, in
carni delicate, in capelli ricciuti e multicolori, in labbra, in occhi ridenti, così l'anima a sua volta ha le proprie
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funzioni nutritive e può trasformare in nobiltà di pensieri e in passioni di gran valore ciò che per sé stesso è
vile, crudele e degradante; e a maggior ragione essa può trovarvi i suoi più efficaci mezzi di affermazione e
rivelarsi più perfettamente mediante ciò che era destinato alla profanazione e alla distruzione.
Mi occorre sottomettermi francamente al fatto d'essere stato il carcerato ordinario d'una ordinaria prigione e,
quantunque ciò sembri curioso, bisognerà ch'io impari a non provarne nessuna vergogna. È necessario
accettare la cosa come un castigo, e, se uno è vergognoso della pena sofferta, tanto valeva non averla mai
nemmeno patita.
Certamente, ci sono molte colpe di cui mi hanno accusato e che io non ho mai commesso; ma ce n'è gran
numero che mi hanno rimproverato e che in realtà ho compiuto e un numero più grande ancora di quelle
che ho commesso e delle quali non sono mai stato accusato. E poiché gli dei sono strani e ci puniscono tanto
per ciò che è umano e buono in noi quanto per ciò che e cattivo e perverso, io devo sottomettermi alla legge
che fa pagare il fio sì per il bene che per il male compiuto.
Non ho nessun dubbio sulla perfetta giustizia di ciò. Questo giova o dovrebbe giovare a comprendere le due
cose e a non provare nessuna vanità né per l'una nè per l'altra. Se, dunque, io non ho alcuna vergogna del
mio castigo (come spero), sarò capace di pensare, di camminare e di vivere libero.
Non pochi uomini, dopo la loro liberazione, portano con sé la prigione nell'aria che li circonda, e, alla fine,
come delle povere creature avvelenate, si cacciano in qualche buco per morirvi. É ben triste ch'essi siano
ridotti a questo e la società che ve li costringe è ingiusta, tremendamente ingiusta. La società s'arroga il
diritto d'infliggere all'individuo dei castighi spaventevoli, ma essa ha anche il difetto supremo d'essere
superficiale e di non giungere a comprendere ciò che fa.
Quando il castigo è subìto, la società abbandona l'Homo a se stesso, vale a dire proprio nel momento nel
quale dovrebbe cominciare il suo più alto dovere verso di lui. Essa ha paura delle sue azioni e rifugge da
coloro che ha punito come si evita un creditore del quale non ci si può liberare, o l'uomo a cui si è imposta
una irreparabile sorte. Da parte mia io esigo che, se mi rendo ragione di quanto ho sofferto, la società deve
capire ciò che mi ha inflitto, e, per conseguenza, non c'è amarezza né odio da una parte né dall'altra.
Oh, lo riconosco che, da un certo angolo visuale, le cose saranno per me molto diverse da quel che sono per
gli altri; ed è necessario, per la natura stessa del mio caso, ch'esse siano così. I poveri ladri e gli ammoniti,
incarcerati qui con me, sono, sotto molti rispetti, assai più felici ch'io non sia. Il cantuccio di città oscura o di
campo verdeggiante che assistette alla loro colpa è piccolo. Per trovare gente che ignori il loro delitto essi
non hanno da superare una distanza maggiore di quella che un uccello percorre dal crepuscolo all'alba. Ma,
per me, il mondo è ridotto ad un palmo e, da qualsiasi lato io mi volga, il mio nome è vergato con lettere di
piombo sulla roccia. Poiché io non sono entrato dall'oscurità nella sfera di luce effimera del delitto, ma bensì
da una specie di eternità di gloria in una specie di eternità d'infamia, e mi sembra talvolta d'aver dimostrato
- se pure occorre questa prova - che tra l'uomo famoso e l'infame non c'è che un passo e forse anche meno
d'un passo.
Pertanto, nel fatto che gli uomini mi riconosceranno dovunque io vada e che conosceranno la mia vita,
almeno nelle sue ore di follia, io vedo un bene per me; ciò mi costringerà ad affermarmi nuovamente come
artista e al più presto possibile. Se riuscirò a creare una sola e bella opera d'arte, mi sarà possibile di trovare
un antidoto al veleno della malizia, di smontare i sarcasmi dei vili e di sradicare la lingua del disprezzo.
Se la vita, com'essa è sicuramente, deve anche per me essere un problema, io non sono un quesito di
minor valore per la vita stessa. Gli uomini dovranno assumere qualche attitudine a mio riguardo, attraverso
un giudizio su sé medesimi e su di me. Non faccio nessuna allusione personale. I soli con i quali mi
piacerebbe di trovarmi in compagnia, ora, sono gli artisti e coloro che hanno sofferto: coloro che sanno cos'é
la bellezza e che sanno cos'e il dolore; tranne costoro, nessun altro m'interessa.
E non domando più niente alla vita. In tutto ciò che ho affermato fin qui, io non mi preoccupo che della mia
attitudine mentale verso la vita considerata nel suo insieme. Sento che non vergognarmi d'essere stato
punito è uno dei primi punti che devo toccare per la mia propria perfezione, e perché io sono così
imperfetto.
In seguito bisognerà imparare ad essere felice. Un tempo conoscevo la felicità per istinto o almeno credevo
di conoscerla. C'era sempre la primavera, nel mio cuore, una volta! Mi occorreva la gioia ed ero nato per
essa. Sino all'estremo limite io riempivo la mia vita di piacere, come si colma sino all'orlo una coppa di vino.
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Adesso è da un punto di partenza del tutto nuovo che mi accosto alla vita, ed anche il concepire la felicità mi
riesce, spesso, difficile. Mi ricordo, durante il mio primo semestre a Oxford, di aver letto nel Rinascimento di
Walter Pater - un libro che ebbe sulla mia vita una così strana influenza! - che Dante pone nel profondo
Inferno coloro che vivono spontaneamente nella tristezza. Andai subito in biblioteca e cercai quel passo della
Divina Commedia, là dove è detto che al di sotto della sinistra palude giacciono quelli che furono "tristi nella
dolcezza dell'aria" ripetendo
Tristi fummo
Nell'aer dolce che dal sol s'allegra.
Sapevo che la chiesa condannava l'accidia, ma questa idea mi pareva assolutamente fantastica, come un
genere di peccato inventato da un sacerdote ignorante della vita reale. Non potevo neppure capire come
Dante, il quale dice che "il dolore ci unisce a Dio", fosse così aspro verso gli innamorati della melanconia,
dato che davvero ne esistessero. Non sospettavo allora che questa diverrebbe un giorno una delle più grandi
tentazioni della mia vita.
Durante la mia permanenza nel carcere di Wandsworth, io ero malato d'un languore di morte. Era il mio
unico desiderio morire.
Poi, quando fui trasferito qui, dopo due mesi d'infermeria, e m'accorsi che la mia salute andava migliorando
a poco a poco, fui preso dall'ira. Decisi di suicidarmi il giorno stesso in cui sarei uscito di prigione. Dopo
qualche tempo, questo furioso accesso si calmò e stabilii, invece, di vivere, ma di fasciarmi tutto di tristezza
come un re si panneggia nella sua porpora, di mutare in un luogo di pianto ogni casa della quale avessi
varcato la soglia, di imporre ai miei amici la sottile tortura della mia ipocondria, d'insegnar loro che la
tristezza è il vero segreto della vita, di tormentarli con un dolore che fosse loro estraneo, di soffocarli con la
mia pena.
Ora ho i sentimenti molto diversi. Capisco che sarebbe un'ingratitudine ed una crudeltà da parte mia
atteggiarmi in modo che, quando i miei amici m'incontrassero, fossero costretti a mostrarsi ancora più
melanconici di me per testimoniarmi la loro simpatia; oppure - per riceverli e offrir loro un degno
trattamento - invitarli a sedersi silenziosamente davanti a delle erbe amare o a dei cibi funerari. No; bisogna
ch'io impari ad essere gaio e felice.
Le due ultime volte che io ebbi il permesso di vedere qui i miei amici, provai d'essere allegro per quanto
m'era possibile e di mostrare la mia gaiezza per compensarli, un poco, del disturbo che essi s'erano presi,
venendo sin qua dalla capitale. Non fu che un compenso molto, molto lieve, lo so, ma son certo che a loro
piacque. Son passati otto giorni sabato da che ho visto R ... per un'ora e ben mi sforzavo di mostrare nel
modo più espressivo possibile la gioia che provavo in quell'incontro.
Il fatto che ora, per la prima volta in tutta la mia prigionia, io sento un reale desiderio di vivere, mi prova
che ho ragione nelle idee e nelle opinioni che formulo qui per me stesso.
Tanto lavoro ho davanti a me che mi parrebbe una terribile tragedia il morire prima d'averne potuto
compiere almeno una parte! Scorgo nell'arte e nella vita degli sviluppi imprevisti di cui ciascuno è un nuovo
mezzo di perfezione.
Bramo di vivere per esplorare questo mondo nuovo per me. Volete dunque sapere in che consiste questo
nuovo mondo? Credo che lo possiate anche indovinare. E' il mondo nel quale ho vissuto. Il dolore, infine, e
tutto ciò che il dolore insegna: ecco il mio nuovo mondo.
Vivevo, un tempo, esclusivamente per il piacere. Allontanavo da me i patimenti e il dolore in ogni loro
aspetto; li odiavo; avevo risoluto d'ignorarli sino a quando mi fosse stato possibile - vale a dire di
considerarli come delle forme d'imperfezione. Sofferenza e dolore non sarebbero entrati nell'orbita della mia
vita. Non avevano nemmeno un posto nella mia fisolofia. Mia madre, che conosceva la vita intera, mi citava
spesso i versi di Goethe scritti da Carlyle su una pagina d'un libro ch'egli le aveva donato una volta e tradotti
così da lui stesso:
Colui che non ha mai mangiato il suo pane nel dolore,
Che non ha mai passate le ore della notte ad attendere piangendo il mattino che tarda,
Colui non vi conosce, o potenze del Cielo!
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LA PAROLA NEGATA
Erano i versi che quella nobile regina di Prussia - trattata da Napoleone con tanta grossolana brutalità recitava nella sua umiliazione e nel suo esilio; erano i versi che mia madre mi ripeteva spesso nel tormento
della sua vita, prossima a spegnersi. Io rifiutai, allora, assolutamente, di riconoscere o d'ammettere l'enorme
verità che essi contenevano. Mi rammento molto bene ch'io le ripetevo di non aver nessun desiderio di
mangiare il mio pane nel dolore e di trascorrere le notti aspettando in pianto un'alba d'amarezza.
Non avevo nessuna idea che proprio là vi era nascosta una delle singolari sorprese tenute in serbo dal
destino per me e che, veramente, non altro io farei se non mangiare il mio pane nel dolore per un anno
intero. Ma è così che anch'io ho avuto la mia parte; e che, durante questi ultimi mesi, ho potuto
comprendere, mercé ostacoli e lotte senza pari, qualcuno degli insegnamenti che si celano nell'intimo del
dolore.
Preti e gente che adoperano frasi senza misura parlano, alle volte, della sofferenza come d'un mistero.
Invece essa è una rivelazione. Fa distinguere delle cose che non si erano mai vedute prima e permette di
considerare l'insieme della storia da un punto di vista tutt'affatto diverso. Quel che intorno all'arte, ad
esempio, si era sentito in modo vago e per istinto, ora lo si afferra intellettualmente ed emozionalmente con
una chiarezza perfetta di visione e con una intensità assoluta, comprensiva.
Oramai io sono persuaso che, poiché il dolore è la suprema emozione di cui è suscettibile l'uomo, esso è ad
un tempo il tipo e il modello di ogni grande arte. Ciò che l'artista ricerca continuamente e quella certa
maniera d'essere nella quale anima e corpo divengono uni e indivisibili; nella quale l'esteriore è l'espressione
dell'intimità, in cui la forma stessa è una rivelazione. Tali maniere d'essere non sono numerose; in un dato
momento ci possono servire di modello la giovinezza e l'arte che si preoccupa della giovinezza; in un altro
noi possiamo credere invece che, per la sua finezza e sensibilità d'espressione, per l'idea che suggerisce d'uno
spirito diffuso negli oggetti esterni e che si riveste a volta a volta d'aria e di terra, di nebbia e di volumi e per
la morbidezza de' suoi atteggiamenti, de' suoi toni, de' suoi colori - l'arte del paesaggio moderno realizza per
noi pittoricamente ciò che i Greci ottennero con tanta perfezione plastica. La musica, nella quale ogni
soggetto è assorbito dall'espressione e non può separarsene, è un esempio complesso di quel che io voglio
dire, così come un fiore o un fanciullo sono degli esempi semplici; ma il dolore è il tipo più alto nella vita e
nell'arte.
Dietro la gioia e il sorriso ci può essere un temperamento ruvido, aspro e scaltro. Ma dietro il dolore non c'è
che il dolore. L'angoscia, contrariamente al piacere, non si maschera mai. La verità, in arte, non consiste in
una corrispondenza tra l'idea madre e l'esistenza accidentale; essa non è la identità della forma con l'ombra o
della forma riflessa dal cristallo con la forma stessa; non è l'eco rinviata dall'anfratto d'una collina - così come
non è, nella valle, una sorgente d'acqua argentata che mostra la luna alla luna e Narciso a Narciso. La verità
in arte è l'unità d'una cosa con sé stessa, è l'esteriore come diretta emanazione dell'interiore; è l'anima
connaturata con la carne e il corpo con lo spirito. Per questa ragione non esiste nessuna verità che sia
comparabile al dolore. Ci sono alcuni momenti in cui il dolore sembra divenire la Verità Unica. Le altre cose
possono essere delle illusioni dell'occhio o del desiderio, create per accecare l'uno e soddisfare l'altro, ma è
solo col dolore che si sono creati i mondi e alla nascita di un fanciullo o di una stella presiede il dolore.
Ma, di più: v'è nel dolore una realtà intensa, straordinaria. Ho detto di me stesso ch'ero in comunione
simbolica coll'arte e colla cultura della mia età. Ebbene: non c'è un solo infelice, chiuso con me in questa
galera miserabile, che non si trovi in comunione simbolica col segreto stesso della vita. Perche il segreto della
vita è di soffrire. È questo che si nasconde in tutte le cose. Quando cominciamo a vivere, quel che è dolce a
noi sembra tanto dolce e quel che è amaro ci sembra tanto amaro che noi rivolgiamo inevitabilmente tutti i
nostri sforzi verso il piacere e non cerchiamo soltanto di «nutrirci di miele per un mese o due», ma non
vogliamo altro alimento, in tutta la nostra vita, ignorando così che corriamo rischio d'affamare la nostra
anima.
Mi sovviene d'essere entrato una volta in questo argomento con una delle più belle figure che abbia mai
conosciuto, una donna di cui e indicibile la simpatia, la nobile bontà verso di me, prima e dopo la tragedia
della mia prigionia; essa mi ha realmente aiutato, quantunque ella lo ignori, a portare il fardello delle mie
pene più di qualsiasi altra creatura al mondo; e tutto ciò con il solo fatto della sua esistenza, perché essa è
quello che è : un ideale e una forza influente ad un tempo, una suggestione di ciò che si potrebbe divenire
quanto un aiuto effettivo per divenirlo, un'anima che comunica la sua dolcezza all'aria che si respira e fa
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sembrare il mondo dello spirito semplice e naturale come la limpidità del sole e del mare; per lei la bellezza e
il dolore camminano dandosi la mano e recano la stessa novella.
Nell'occasione di cui parlavo mi ricordo d'averle detto che c'era in una sola strada-budello di Londra
abbastanza sofferenza per mostrare che Dio non ama l'uomo e che, in qualunque luogo il dolore si rivelasse,
(fosse pure quello d'un fanciullo piangente in un piccolo giardino per una colpa non commessa) la faccia
intera della creazione ne era completamente sfigurata.
Ebbene, avevo del tutto torto. Ella me lo disse, ma io non le credetti. Non ero nell'ordine d'idee nel quale si
arriva a una simile scoperta. Adesso constato che l'amore e la sola spiegazione possibile della somma
straordinaria di dolore che esiste nel mondo. Non posso concepire nessun'altra spiegazione. Sono convinto
che non ce n'è una diversa, e se veramente il mondo è stato costruito col dolore, le mani che lo hanno
edificato son quelle dell'amore, perché l'anima dell'uomo, per cui il mondo fu creato, non poteva altrimenti
raggiungere il limite della sua perfezione. Il piacere per un bel corpo, ma il dolore per una bella anima.
Ma quando dico che sono convinto di queste cose, io parlo con troppo orgoglio. Di lontano, simile a una
perla perfetta, si scorge la città di Dio. La vista ne è così meravigliosa che sembra che un fanciullo possa
raggiungerla in un giorno d'estate. Ma per me e per coloro che sono simili a me, è differente. Si può, sì,
assimilarsi una cosa in un solo istante; ma poi la si perde nelle lunghe ore che seguono interminabili, con
piedi di piombo. È troppo difficile rimanere sulle "cime su cui l'anima sa d'innalzarsi".
Noi pensiamo sotto la specie dell'eterno, ma pure noi procediamo lentamente col tempo e il tempo come
lentamente cammina, per noi che siamo in prigione! Non occorre ch'io ne parli ancora e nemmeno della
stanchezza e dello scoraggiamento che s'insinuano dentro le celle o nella cella del nostro cuore con una così
strana insistenza che bisogna (per così dire) lustrare e adornare la casa, affinché essi entrino come ospiti
volgari o padroni crudeli dei quali si è, per caso o per elezione, lo schiavo.
Benché ora i miei amici non lo credano, è pur vero che per essi (che vivono liberi, nell'ozio e nelle comodità)
è più facile imparare lezioni d'umiltà che per me, per me che comincio la mia giornata mettendomi in
ginocchio a lavare il pavimento della mia cella. Perché la vita della prigione, colle sue privazioni e i suoi
sacrifici innumerevoli, spinge alla rivolta. E il più terribile non è già che essa spezzi il cuore - i cuori non sono
fatti per essere infranti? - ma che lo trasformi in una pietra.
Talvolta, si sente che solo con una fronte di bronzo e delle labbra sprezzanti si può arrivare alla fine della
giornata. Ma colui che si trova in stato di ribellione non può ricevere il dono della grazia, (per usare la frase
che la Chiesa ama, con tanta ragione, oserei dire), perché, nella vita come nell'arte, lo stato di rivolta preclude
le vie dell'anima e non lascia passare i soffi del cielo. Tuttavia, se pur devo impararle in qualche luogo, è qui
che mi eserciterò nelle lezioni d'umiltà e devo essere pieno di gioia, se i miei piedi sono sulla buona via e il
mio volto guarda verso «la porta che e chiamata bella», sebbene io debba cadere ancora tante volte nel fango
e spesso disorientarmi in mezzo alla bruma.
Questa Vita Nuova, come la chiamo sovente per il mio amore di Dante, non è a rigore una vita nuova, ma
semplicemente la continuazione, per via di sviluppi e di evoluzioni, della mia prima vita. Quando ero ad
Oxford, l'ultimo anno, una mattina in cui passeggiavamo per gli stretti viali gorgheggianti del Magdalen
College, mi ricordo di aver detto a un amico che io volevo gustare tutti i frutti del giardino del mondo e che
stavo per metter piede nella vita con questo desiderio chiuso nel profondo della mia anima. È così, infatti,
che vi entrai e così che io vissi.
Il mio solo errore fu di limitarmi esclusivamente agli alberi di quel che mi parve il lato luminoso del giardino
e di fuggire l'altra parte, impaurito com'ero delle sue zone d'ombra e della sua oscurità. La non riuscita nel
mondo, la sventura, la povertà, il dolore, la disperazione, la sofferenza, le lagrime stesse e le parole monche
che sfuggono alle labbra in pena, il rimorso che costringe a camminare sui rovi, la coscienza che condanna, il
volontario umiliarsi che avvilisce, la miseria che ricopre i suoi capelli di cenere, l'angoscia che si lacera con
un cilicio e mescola il fiele nel calice della sua bevanda - di tutte queste cose insieme io ero spaventato.
E siccome ero risoluto a non sperimentarne mai nessuna, fui poi costretto a gustarle ad una ad una, a
nutrirmene e ad abbeverarmene, a non avere altro nutrimento durante una intera stagione.
Neppure per un istante io ho rimorso d'aver vissuto per il piacere. Pienamente mi abbandonai ad esso, come
è necessario fare tutto quel che si fa. Non c'è voluttà che io non conoscessi. In una coppa di vino gettai la
perla della mia anima. Discesi al suono dei flauti per il sentiero fiorito delle primavere. Mi cibai di miele. Ma
non sarebbe stato buon consiglio continuare la medesima vita, perché ciò sarebbe equivalso ad una
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
limitazione. Occorreva procedere oltre. Anche l'altra metà del giardino aveva dei segreti per me. Certo, tutto
ciò è detto e previsto nei miei libri. Una parte, nel Principe Felice; un'altra, nel Giovine Re, specialmente nel
passo nel quale il vescovo dice al fanciullo inginocchiato: "Colui che ha creato il dolore non è più saggio di
te?".
È una frase che, quando la scrissi, mi parve veramente più di una semplice frase. Una gran parte di verità è
dissimulata sotto l'accento fatale che, simile a un filo di porpora, serpeggia attraverso la trama di Dorian
Gray. Nel Critico considerato conte artista il presagio si rivela in molte maniere, nell'Anima dell'Uomo è
manifesto in chiare lettere, anche troppo facili a leggersi; e non è, esso mònito, uno dei ritornelli che ripetuti
motivi rendono Salomé simile ad uno squarcio musicale e le danno l'unità organica d'una ballata?; inoltre è
incarnato nel poema in prosa dell'uomo che, col bronzo della statua "Del piacere effimero" deve foggiare
l'immagine del "Dolore Eterno".
Non poteva essere diversamente. In ciascun momento della vita si è quel che si sta per essere, oltre a ciò che
si già stati. L'arte è simbolica, perché tutto un simbolo è l'uomo.
Se potrò conquistarla completamente, questa Vita Nuova, essa sarà la definitiva realizzazione della vita
artistica; in quanto la vita artistica è semplicemente lo sviluppo di se stesso. L'umiltà per l'artista consiste
nell'accettare con cuore franco tutte le esperienze, come l'amore per l'artista è il puro senso della bellezza che
rivela al mondo il suo corpo e la sua anima.
In Mario l'Epicureo, Walter Pater cerca nel senso profondo, solenne e dolce della parola, di riconciliare la vita
artistica con quella della religione. Ma Mario, quasi, non è che uno spettatore - uno spettatore ideale cui è
concesso «di contemplare lo spettacolo della vita con delle emozioni adeguate», ciò che Wordsworth
definisce lo scopo vero del poeta; tuttavia è uno spettatore un po' troppo preoccupato della delicata grazia
del santuario per fare attenzione al santuario del dolore che ha pur sotto gli occhi.
Io vedo un vincolo molto più intimo ed immediato tra la vera vita di Cristo e la vera vita dell'artista e provo
un grande piacere pensando che, assai tempo prima d'essere dominato e legato al carro del dolore, io avevo
scritto, nell'Anima dell'Uomo, che colui il quale volesse condurre una vita simile a quella di Cristo dovrebbe
essere interamente e assolutamente se stesso e avevo preso come esempi non solo il pastore sulla montagna e
il prigioniero nella sua cella, ma sì anche il pittore per cui il mondo e una festa di colori e il poeta per il quale
l'universo intero è un canto.
Mi rammento, una volta che si discuteva in un caffè di Parigi, d'aver detto ad Andrea Gide : la metafisica ha
poco interesse reale per me e la morale nessuno; ma tutto ciò che e uscito dalla bocca di Platone o di Cristo
può essere trasportato immediatamente nella sfera dell'arte e trovarvi la propria espressione integrale.
Non solo noi possiamo notare in Cristo quel vincolo intimo della personalità con la perfezione in cui consiste
la vera differenza tra il movimento classico e il romantico nella vita; ma è un fatto che la sua stessa natura era
identica a quella dell'artista - una immaginazione intensa come una fiamma.
Egli ebbe nel campo dei rapporti umani quella tale simpatia immaginativa che, nel dominio dell'arte, forma
il segreto unico della creazione. Comprese la lebbra del lebbroso, la tenebra del cieco, la crudeli miseria di
coloro che vivono non cercando altro che il piacere, la strana povertà del ricco. Qualcuno mi ha scritto,
durante il periodo più acuto delle mie angosce: "Caduto dal vostro piedistallo, non siete più interessante".
Oh, quanto egli era lontano; dicendo questo, dal "segreto Gesù"!-- per adoperare una espressione di Matteo
Arnold. L'uno e l'altro gli avrebbero potuto insegnare che ciò che succede, ad un uomo succede ugualmente
a voi e se volete una massima da leggere dall'alba alla notte, nelle ore di gioia e nelle ore di tristezza, incidete
sulle pareti della vostra casa queste lettere (che saranno dorati dal sole, inargentate dalla luna): "Tutto quel
chi capita a me stesso, capiterà anche ad altri".
Senza dubbio, Cristo va collocato assieme con i poeti. La sua concezione dell'Umanità era una risultante
diretta della sola immaginazione - che può comprenderla. Egli considerò l'uomo come il panteista aveva
considerato Dio. Fu il primo a concepire l'unità delle razze divise. Avanti ch'Egli apparisse, c'erano stati
degli dei e degli uomini, e Cristo, sentendo per mezzo della sua mistica simpatia che ciascuno di essi era
incarnato in se, si denomina, a seconda, o il figlio di Dio o il figlio dell'Uomo. Più di qualsiasi altro nella
storia Egli dista in noi quella facoltà del meraviglioso cui si rivolge sempre l'elemento romanzesco.
C'e ancora in me qualcosa d'incredibile nell'idea di questo giovane artigiano galileo che s'immagina di poter
portare sulle sue spalle il peso del mondo intero: tutto quel ch'era già stato compiuto e sofferto e tutto ciò che
dovrebbe ancora essere compiuto e sofferto, i delitti di Nerone, di Cesare Borgia, di Alessandro VI i di colui
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LA PAROLA NEGATA
che fu Imperatore di Roma e sacerdote del sole, le torture di coloro i cui nomi sono legioni e che riposano nei
cimiteri, le nazioni oppresse, i fanciulli martiri delle officine, i ladri, i carcerati, i proscritti, coloro che sono
diventati muti nel servaggio e dei quali solamente Dio comprende il silenzio; e tutto questo non era una
semplice immaginazione, ma un fatto vero, compiuto, in modo che ora tutti quelli che cercano di penetrare
nella sua personalità - quantunque non si curvino davanti ai suoi altari, ne s'inginocchino innanzi ai suoi
preti - s'avvedono, in qualche modo, che la macchia del loro peccato è lavata ed hanno la rivelazione della
bellezza del loro soffrire.
Dicevo che Cristo va messo assieme con i poeti. È vero. Shelley e Sofocle l'accompagnano. Ma tutta la sua
vita intera e il più meraviglioso dei poemi. Quanto a "pietà e terrore", non c'e niente di simile nel ciclo
complessivo della tragedia ellenica. La purità del protagonista innalza tutto il piano della sua vita ad
un'altezza d'arte romantica donde - a causa dell'orrore - sono eliminate le tribolazioni di Tebe e della schiatta
dei Pelòpidi ; ed essa mostra ancora quanto avesse torto Aristotile ad affermare, nel suo trattato sul dramma,
che riuscirebbe impossibile sopportare lo spettacolo d'un personaggio irreprensibile nel dolore.
Né in Eschilo né in Dante, questi geni austeri della più accorata poesia, né in Shakespeare, il più umano di
tutti i grandi artisti, e nemmeno nell'insieme dei miti e delle leggende celtiche (ne' quali la bellezza del
mando s'intravvede sotto un velo di lacrime e in cui la vita d'un uomo non e da più della vita d'un fiore) si
può trovare qualcosa che, per la semplice emozione unita alla sublimità dell'effetto tragico, stia alla pari o
soltanto s'approssimi all'ultimo atto della passione di Cristo.
La cena con i suoi discepoli, da uno dei quali è già stato venduto per una somma di danaro; l'angosciosa
agonia nell'orto tranquillo illuminato dalla luna; il falso amico che gli si avvicina per tradirlo con un bacio;
l'amico - che credeva ancora in Lui e sul quale Egli, come su una roccia granitica, aveva sperato di poter
costruire un rifugio per l'Uomo - che lo rinnega, invece, nell'ora in cui il gallo saluta l'aurora; il suo
isolamento assoluto, la sua sottomissione, la sua rassegnazione; inoltre: le scene nelle quali il gran sacerdote
dell'ortodossia gli lacera con furia le vesti, e il magistrato civile dell'impero chiede dell'acqua, sperando
invano di lavarsi quella macchia di sangue che dovrà contrassegnarlo come la rossa figura della storia; la
cerimonia dolorosa della corona di spine - una delle cose più meravigliose nella cronaca dei tempi; la
crocifissione dell'Innocente sotto gli occhi di sua madre e del discepolo che l'amava, i soldati che si giocano a
dadi gli abiti del martire; la morte terribile con la quale egli ha dato al mondo il suo più eterno simbolo; e poi
la sepoltura finale nella tomba dell'uomo ricco; il suo corpo fasciato di bende egiziane e profumato di aromi
costosi, come se fosse stato il figlio di un re...
Quando si considera tutto ciò unicamente dal punto di vista dell'arte, bisogna pure essere riconoscenti alla
Chiesa del fatto che il supremo rito della Chiesa stessa consista nella rappresentazione della tragedia senza
spargimento di sangue: mistica rappresentazione della Passione del Signore per mezzo di dialoghi, di
costumi e di gesti. Ed è per me una ragione di piacere e di rispetto commosso il pensare che il coro greco,
altrimenti perduto per l'arte, sia sopravvissuto infine nel chierico che risponde al prete celebratore della
messa.
E però la vita di Cristo - a tal punto dolore e bellezza si possono fondere nella loro manifestazione piena di
significato - e realmente un idillio, quantunque essa termini col velario del tempo che si lacera, colle tenebre
che si addensano sulla faccia della terra e colla pietra trascinata fino all'ingresso della sepoltura. Si pensa
sempre a Cristo come ad un fidanzato in mezzo ai suoi compagni e, d'altronde, è proprio così ch'egli si
compiace di chiamarsi in alcuni luoghi; come ad un pastore che trascorra di valle in valle col suo gregge alla
ricerca di verdi prati e di ruscelli d'argento; come a un cantore che provi colla sua musica di costruire le
mura della città di Dio; o come a una amante le cui capacità d'amore sono troppo vaste per il nostro piccolo
mondo.
I suoi miracoli mi sembrano squisiti come il primo soffio della primavera ed altrettanto naturali. Non ho
alcuna difficoltà a credere che il fascino della sua persona doveva essere tale da poter dare la pace alle anime
tormentate con la sua sola presenza e che coloro i quali gli toccavano la tunica e le mani dimenticavano le
proprie sofferenze; e che, quando egli passava sulla grande via della vita, uomini che non avevano mai visto
nulla nel mistero di vivere, ad un tratto si sentivano aprire gli occhi ed altri, rimasti sempre sordi a tutte le
voci, tranne che a quella della voluttà, udivano per la prima volta la voce dell'amore e la trovavano "così
musicale come la lira d'Apollo"; ne ho difficoltà a credere che le malvagie passioni s'involavano al suo
avvicinarsi e gli uomini, le esistenze dei quali erano sempre state meschine, simili alla morte, balzavano fuori
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LA PAROLA NEGATA
della tomba - per così dire - appena egli li chiamava; oppure, quando egli predicava sulla montagna, la
moltitudine obliava la fame, la sete e le cure del mondo; e quando egli conversava con gli amici e i discepoli
durante la cena, il cibo grossolano sembrava delicato e l'acqua assumeva il gusto del vino e tutta la casa si
riempiva del profumo dolce del nardo.
Nella Vita di Gesù - questo delizioso quinto evangelo, l'evangelo secondo San Tommaso, si potrebbe
chiamarlo - Renan dice in qualche passo che il grande segreto di Cristo fu quello di farsi amare dopo la
morte quanto era stato amato in vita.
Certamente, se il suo posto ètra i poeti, egli è il principe degli amanti. Egli vide che l'amore è il principio
primordiale del mondo, il segreto che cercavano i saggi - ed è soltanto per mezzo dell'amore che ci si può
accostare al lebbroso e al signore.
Ma, oltre a tutto ciò, Cristo è il supremo individualista. L'umiltà, in quanto accettazione artistica di ogni
esperienza, è un semplice modo di manifestarsi. E' l'anima dell'uomo che Cristo cerca di raggiungere senza
tregua. Egli la chiama «regno di Dio» e la trova in ciascuno di noi. La còmpara a delle piccole cose, a una
sottile semenza, a un pugno di lievito, ad una perla. E non si afferra la realtà della propria anima se non
liberandosi di tutte le passioni estranee, di ogni coltura sovrapposta, di ogni possesso acquisito - sia esso
buono o cattivo.
Io mi ostinai contro tutto, con tenacia e con ribellione, sino a che non restasse in me più che una sola cosa al
mondo. Avevo perduto il mio nome, la mia posizione, la mia felicità, la mia libertà, la mia ricchezza. Ero
povero e prigioniero. Ma mi rimanevano ancora i miei figli. A un tratto anch'essi mi furono tolti. Fu un colpo
così tremendo che non seppi più cosa fare; mi gettai in ginocchio, curvai la testa e piansi, esclamando: «Il
corpo del Signore è come quello d'un fanciullo; io non sono più degno né dell'uno né dell'altro». Ed ecco : in
questo istante mi parve di salvarmi. Vidi allora che la sola cosa per me era di accettare tutto. Da quel
momento in poi - per quanto ciò paia curioso - io fui più felice. Si è che io avevo toccato la mia anima nella
sua essenza suprema. In molte maniere me l'ero inimicata, ma essa mi attendeva ancora come un amico.
Quando si entra in comunione coll'anima, si diventa puri come fanciulli - Cristo l'ha detto.
Ê veramente tragico che così poche persone riescono a «possedere la loro anima» prima di morire. «Nulla e
più raro in un uomo - dice Emerson - di un'azione che sia proprio sua». È assolutamente vero. La maggior
parte degli esseri sono degli altri esseri. I loro pensieri sono l'opinione di qualcun altro, le loro esistenze una
parodia, le loro passioni un'eco di riflesso. Cristo non fu soltanto il supremo individualista, ma anche il
primo degl'individualisti della storia. Si e tentato di considerarlo come uno dei tanti filantropi e l'hanno pure
accomunato agli altruisti, come un'ignorante e un sentimentale.
Ma non fu, realmente, né una cosa, né l'altra. Certo, egli ha il senso della pietà per i poveri, per coloro che
sono relegati nelle prigioni, per gli umili, per i miserabili, ma egli ha molta più compassione per i ricchi, per
gli edonisti, per coloro che sacrificano la propria libertà e divengono gli schiavi delle cose, per quelli che
portano abiti preziosi e abitano in palazzi regali.
Le ricchezze e la voluttà a lui sembrano invero delle tragedie più grandi che la penuria e il dolore. Quanto
all'altruismo, poi, chi sapeva meglio di lui che non è la volontà, ma bensì la vocazione quella che ci spinge a
compiere il bene e che non si potrebbero cogliere dei grappoli su dei roveti, nè dei fichi sui cardi?
Vivere per gli altri, come scopo cosciente e definito, non era già la sua fede. Non era la base della sua fede.
Quando egli dice «perdonate ai vostri nemici», non afferma questo per amor del nemico, ma per amor di sè
stesso, perché l'amore è più bello dell'odio. Consigliando al giovane ricco: «va e vendi tutto ciò che possiedi e
donalo ai poveri» non è ai poveri che Cristo pensa, ma all'anima del ricco giovane, l'anima che era rovinata
dalla ricchezza. Nella visione della vita egli è d'accordo coll'artista il quale sa che, per l'inevitabile legge del
perfetto sviluppo di se stesso il poeta deve cantare, lo scultore pensare nel bronzo e il pittore fare del mondo
lo specchio delle proprie emozioni; appunto come il biancospino deve sbocciare in primavera, il grano
tingersi d'oro nel giugno e la luna, ne' suoi puntuali viaggi, deve cambiarsi di scudo in falce e di falce in
scudo.
Ma, mentre Cristo non ha mai detto agli uomini: "Vivete per gli altri" egli ha mostrato, però, che non c'è
nessuna differenza tra la nostra e l'altrui vita. Con questo mezzo egli ha dato all'uomo una personalità
estesissima e titanica. Dopo la sua apparizione, la storia di ogni individuo particolare si è trasformata o può
trasformarsi nella storia stessa del mondo. Senza dubbio, anche la cultura ha intensificato la personalità
dell'uomo. L'arte ci ha dato degli spiriti innumerevoli come miriadi. Coloro che hanno temperamento
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
artistico seguono Dante nell'esilio e imparano «come sa di sale - lo pane altrui e com'è duro calle - lo scender
e il salir per l'altrui scale» ; essi acquistano per un momento la serenità e la calma di Goethe e tuttavia non
ignorano quel che Baudelaire ha gridato a Dio:
"O Signore, dammi la forza e il coraggio di contemplare
il mio corpo e il mio cuore senza vergogna".
Con loro proprio svantaggio, forse, traggono dai sonetti di Shakespeare il segreto del suo amore e se ne
impadroniscono; essi contemplano con occhi nuovi la vita moderna, perché hanno ascoltato dei notturni di
Chopin o perché hanno maneggiato dei gioielli greci o hanno letto la storia della passione che un uomo ebbe
un tempo lontano per una donna dalla capigliatura fine come l'oro e dalla bocca simile a una melagrana. Ma
la simpatia del temperamento artistico si rivolge di necessità a ciò che ha trovato la sua propria espressione.
Con delle parole o con dei colori, con la musica o col marmo, dietro la maschera dei personaggi d'Eschilo o
con le fistule traforate d'un pastore siciliano, dovettero rivelarsi l'uomo e la sua intimità.
Per l'artista, l'espressione e il solo aspetto secondo il quale egli possa concepire la vita. Per lui ciò che è muto
è morto. Ma per Cristo, invece, non era così. Con una immaginazione meravigliosa e vasta, che talvolta
riempie di spavento, egli assunse per regno il mondo intero dell'immobilità, il mondo senza voce del dolore
e ne divenne l'interprete. Scelse come suoi fratelli coloro che sono muti sotto il servaggio e «il silenzio dei
quali non è inteso altro che da Dio». Egli volle divenire l'occhio dei ciechi, l'orecchio dei sordi e un grido
sulle labbra di coloro che avevano la lingua recisa. Il suo desiderio era d'essere una tromba per le miriadi
d'uomini che non avevano mai potuto esprimersi, una tromba con la quale egli lancerebbe il loro anelito
verso il cielo. Con la natura artistica d'un essere per il quale sofferenza e dolore erano mezzi, attraverso cui
giungere alla realtà della sua concezione del bello, egli sentì che un'idea non ha valore se non quando
s'incarna, se non quando se ne forma un immagine e fece di se stesso l'immagine dell'Uomo del Dolore; ed e
appunto con questa figura che egli ha affascinato e dominato l'arte come nessuna divinità greca era riuscita a
fare mai. Poiché gli dei dell'Ellade, nonostante il bianco ed il roseo delle loro agili membra, non erano, in
realtà, ciò che mostravano d'essere.
La fronte ben tornita d'Apollo era simile al disco del sole che sorge all'aurora dietro una collina e i suoi piedi
erano come i soffi della brezza del mattino, ma egli era stato crudele contro Marsia e aveva rapito a Niobe i
suoi figlioli ; nell'egida d'acciaio degli occhi di Minerva non c'era mai stata pietà per Aracne ; il fasto e i
pavoni di Giunone erano tutto ciò che esisteva di veramente nobile in lei e il Padre degli Dei esso stesso
mostrò troppa tenerezza per le figlie dei mortali.
Le due figure più profondamente suggestive della mitologia greca furono, per la religione, Demetra, dea
della Terra, che non era ammessa nell'Olimpo, e, per l'arte, Dionysos, figlio d'una dotta effimera che morì nel
darlo alla luce.
Eppure la vita stessa, nella sua più modesta e più umile sfera, produsse una meraviglia più ammirevole che
la madre di Proserpina o il figlio di Semele. Dalla bottega del falegname di Nazareth sorse una personalità
infinitamente più grande di tutte quelle create dalla leggenda e dal mito e destinata -- cosa strana! - a rivelare
al mondo il senso mistico del vino e delle reali bellezze del giglio nella valle, come nessuno aveva fatto
ancora, né sul Citerone, nè a Enna.
Il canto d'Isaia: "Egli è il disprezzato e l'ultimo degli uomini, un uomo di colore che conosce l'angoscia e noi
gli abbiamo nascosta la nostra faccia" gli era parso una profezia e la profezia fu compiuta nella sua persona.
Ogni opera d'arte che è creata è il compimento d'una profezia, perché ciascuna opera d'arte è la conversione
d'un 'idea in una immagine. Così pure ogni creatura umana dev'essere il compimento d'una profezia, perché
ciascuna creatura umana dovrebbe essere la realizzazione di qualche ideale, sia nello spirito di Dio che nello
spirito dell'uomo.
Cristo trovò il tipo e lo delineò; talchè il sogno d'un poeta virgiliano, a Gerusalemme o a Babilonia, nel lungo
cammino dei secoli, s'incarnò in colui che il mondo attendeva.
Per me, una delle cose più dolorose della storia si è che la vera rinascita di Cristo - che produsse la cattedrale
di Chartres, il ciclo delle leggende d'Artù, la vita di San Francesco d'Assisi, l'arte di Giotto e la Divina
Commedia di Dante - non abbia avuto la libertà di svilupparsi secondo le sue proprie linee interne, ma
invece sia stata interrotta e violentata dalla fredda rinascita classica che ci ha dato gli affreschi di Raffaello,
l'architettura del Palladio, la tragedia francese convenzionale, la cattedrale di S. Paolo, la poesia di Pope e
tutto ciò, insomma, che è creato dal di fuori, secondo regole morte, che non emana dall'intimo di un potente
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LA PAROLA NEGATA
soffio inspiratore. Ma dovunque si verifica un movimento romantico in arte, là, in un modo o nell'altro, si
trova Cristo o l'anima di Cristo. Egli è in Romeo e Giulietta, nel Racconto d'inverno, nella poesia provenzale,
nella -Ballata del Vecchio marinaio, nella Belle dame sans merci e nella Ballata della carità, di Chatterton.
Dobbiamo all'anima di Cristo le cose e i generi più diversi. I miserabili di Hugo, I fiori del male di
Baudelaire, la nota pietosa dei romanzi russi, Verlaine e i suoi poemi; le vetrate, le tappezzerie e i lavori
quattrocenteschi di Burne-Jones e di William Morris le appartengono non meno che il campanile di Giotto,
Lancillotto e Ginevra, Tannhauser e i marmi violenti di Michelangiolo, l'architettura gotica, l' amore per i
fanciulli e l'amore per i fiori.
A queste due ultime cose, veramente, l'arte classica non accorda che poco posto, appena quel tanto che basta
per farli crescere e giocare; eppure dal dodicesimo secolo ai nostri giorni essi non hanno mai cessato di
comparire nell'arte in attitudini varie e in età diverse, a un tratto e capricciosamente sorgendo, appunto
come i fanciulli ed i fiori la primavera dà sempre l'idea che i fiori si siano nascosti e che ricompaiano al sole
per la paura che gli uomini si stanchino di cercarli e vi rinuncino; e la vita d'un fanciullo non è altro che un
giorno d'aprile con delle piogge e delle zone di sole per i narcisi.
Ora è questo carattere immaginativo della natura di Cristo che lo rende il centro palpitante dello spirito
romantico. Le strane figurazioni del poema drammatico e della ballata sono create dalla fantasia d'un altro,
ma Gesù di Nazareth si è interamente creato per proprio conto. Il canto d'Isaia, in vero, aveva da fare con la
venuta di Cristo, tanto quanto il gorgheggio dell'usignolo coll'alzarsi della luna - nulla di più e nulla di
meno. Egli fu la negazione come pure l'affermazione della profezia. Per ogni speranza che realizzava,
un'altra ne distruggeva. «In ogni bellezza - dice Bacone - c'è qualche stranezza di proporzione» ; e di coloro
che nascono dallo spirito - vale a dire di coloro che, come lui, sono delle forze dinamiche - Cristo dice che
sono come il vento che «soffia dove gli pare e nessuno può dire, né donde venga, né dove vada». Perciò il
suo ascendente è così, grande sugli artisti. Egli ha tutti i colori della vita: il mistero, la stranezza, il patetico, la
suggestione, l'estasi e l'amore. Si rivolge allo spirito del miracolo e crea quel tale stato d'animo, solo nel quale
può essere compreso.
E per me è una gioia, ora, il considerare che s'egli è «tutta immaginazione» il mondo stesso è di una identica
sostanza.
Ho detto, nel Dorian Gray, che i grandi delitti del mondo accadono nell'intimo del cervello. Ma non è pure
nel cervello che tutto accade? Adesso sappiamo che noi non vediamo con gli occhi, né udiamo con le
orecchie. Essi non sono che dei canali per trasmettere con più o meno di esattezza le impressioni dei
sensi.
È dentro il cervello, che il papavero e rosso, e la mela odora e l'allodola canta.
Da qualche tempo io studio con cura i quattro poemi in prosa che riguardano la figura di Cristo. Per Natale
son riuscito a procurarmi un Testamento Greco ed ogni mattina, dopo aver spazzato la mia cella e forbito i
miei utensili, leggo un passo dei Vangeli, una dozzina di versetti presi a caso, non importa dove. E' una
deliziosa maniera di cominciar la giornata. Ciascuno, anche vivendo una vita turbinosa e disordinata,
dovrebbe fare così. Ripetizioni interminabili, ad ogni proposito e fuori scopo, ci hanno sciupato la
freschezza, l'ingenuità, la grazia semplice e romantica dei Vangeli. Li sentiamo leggere e citare troppo spesso
e troppo male, ed ogni insistenza di questo genere e anti-spirituale. Quando si torna al testo greco, pare di
entrare in un'aiuola di gigli, uscendo da una casa angusta ed oscura.
Il piacere è raddoppiato per me dal pensiero che è assai probabile che noi adoperiamo le medesime frasi,
ipsissima verba, usate da Cristo. Si ritenne per certo, a lungo, ch'egli si esprimesse in aràmico. Anche Renan
lo credeva. Ma ora sappiano che gli abitanti della Galilea, come gli Irlandesi dei nostri giorni, erano bilingui
e il greco era il linguaggio ordinario che serviva per le relazioni quotidiane da un capo all'altro della
Palestina e, veramente, da un punto all'altro di tutto il mondo orientale. Ero spiacente di non poter conoscere
le parole di Cristo, se non attraverso la traduzione di una traduzione. Sì, è per me una delizia pensare che,
almeno per la semplice conversazione, Carmide avrebbe potuto ascoltarlo e Socrate parlare con lui e Platone
comprenderlo; ch'egli pronunciò esattamente: "io sono il buon pastore"; e quando pensava ai gigli del
campo, i quali non lavorano e non filano, ma vivono, o la sua ultima parola, quando gridò: «Tutto è finito, la
mia vita è terminata, ha toccato il vertice della sua perfezione», fu proprio quella che ci riporta San Giovanni
e nulla più.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
Leggendo i Vangeli - specialmente il Quarto, quello di San Giovanni o del Gnostico, chiunque sia colui che
assunse il suo nome e il suo abito - io vedo di continuo che l'immaginazione è messa innanzi come la base di
ogni vita spirituale e materiale ; e, inoltre, per Cristo l'immaginazione era una semplice forma dell'amore e
l'amore era sovrano nel senso più esteso del termine.
Circa sei settimane fa il medico mi accordò il permesso di mangiare del pane bianco invece del ruvido pane
nero o bigio del regime ordinario. È una vera ghiottoneria. Parrà strano che del pane secco possa essere una
ghiottoneria. Per me lo è a tal punto che, alla fine di ciascun pasto, io mangio accuratamente le briciole
rimaste sul mio piatto di metallo o cadute sulla grossa salvietta che ci serve di tovaglia per non sporcare la
tavola; e non lo faccio per fame - il vitto che mi dànno è sufficiente - ma solo per non perdere nulla di ciò che
mi e dato. È in questo modo che bisogna considerare l'amore.
Cristo, come tutte le figure affascinanti, aveva il potere non soltanto di dire lui stesso delle cose belle, ma
anche di farsi dire delle belle cose dagli altri. E a me piace la storia, che ci racconta San Marco, d'una donna
greca la quale, dicendole Cristo (per mettere alla prora la sua fede) di non poterle dare il pane dei figli
d'Israele, - replicò che i piccoli cani accucciati sotto la tavola, si nutrono delle briciole, che i bimbi fanno
cadere.
La maggior parte degli uomini vivono per l'amore e per l'ammirazione, ma invece è per mezzo
dell'ammirazione e dell'amore che noi dovremmo vivere. Se alcuno ci mostra dell'amore, noi dovremmo
riconoscere che ne siamo perfettamente indegni. Nessuno è degno d'essere amato. Il fatto che Dio ama
l'uomo ci prova che, nell'ordine divino delle cose ideali, è stabilito che un eterno amore sarà dato a chi ne è
eternamente indegno. Ovvero, se questa frase sembra troppo amara, diciamo che tutti gli uomini sono degni
d'amore, tranne coloro che possono esserlo. L'amore è un sacramento che bisognerebbe accogliere in
ginocchio e Domine, non sum dignus dovrebbe essere la frase di coloro che lo ricevono, sulle loro labbra e
nel loro cuore.
Se io scriverò ancora, nel senso di creare un'opera d'arte, due sono i soggetti, soprattutto, sui quali e per
mezzo dei quali voglio esprimermi; uno è: "Cristo come precursore dell'atteggiamento romantico nella vita",
l'altro : "La vita artistica considerata ne' suoi rapporti con la condotta umana". II primo è, senza alcun
dubbio, assai seducente, perché io vedo in Cristo non solo il principio essenziale del supremo tipo
romantico, ma anche tutte le contingenze e le stesse perversità del temperamento romantico. Egli fu il primo
a dire agli uomini di vivere come i fiori e ha fissato per sempre la frase. Cristo prese i fanciulli come tipo e
modello per le aspirazioni umane. Li propose come esempio ai loro genitori - cosa che io ho sempre pensato,
se è vero che si deve giovarsi di ciò che è perfetto. Dante descrive l'anima dell'uomo come proveniente da
Dio «che piangendo e ridendo pargoleggia» ed anche Cristo aveva veduto che l'anima di ciascuno di noi
dovrebbe essere a modo di fanciulla - che piangendo e ridendo pargoleggia. Sentì che la vita è mutevole,
fluida, attiva e che permetterle di stereotiparsi in una forma qualsiasi, significa farla morire.
Cristo disse che gli uomini non devono preoccuparsi eccessivamente dei loro interessi materiali e comuni;
che solo il liberarsi dalle faccende pratiche è una cosa importante. Gli uccelli non si affannano per interesse
di sorta. Perché l'uomo, dunque, se ne cruccia? È delizioso, quando afferma: "Non curatevi del domani;
l'anima non val più che la carne? E il corpo più della veste?".
Un greco avrebbe potuto usare quest'ultima frase. Essa è piena di sentimento greco. Ma solo Cristo poteva
enumerarle tutte e due e riassumere così perfettamente la vita.
La sua morale è tutta di simpatia, appunto come dev'essere la morale. Se non avesse mai detto altro che
queste parole: "I suoi peccati le sono perdonati, perché ha molto amato", metterebbe il conto di morire per
averle dette. La sua giustizia è una giustizia tutta poetica, appunto come la giustizia dev'essere. Il malfattore
andrà in paradiso, perché è stato infelice; io non trovo una ragione migliore per mandarvelo. Gli artigiani
che non hanno lavorato che un'ora sola nella vigna e durante la fresca brezza della sera, riscuotono lo stesso
salario di coloro che hanno sudato tutto il giorno in mezzo ai tralci, sotto la sferza del sole. Probabilmente,
nessuno meritava di essere pagato. O, forse, gli artigiani erano differenti? Cristo non aveva nessun trasporto
per i sistemi meccanici, privi d'anima, che trattano gli uomini come se fossero degli oggetti e trattano tutto il
mondo alla stessa stregua: per lui non esistevano leggi; c'erano semplicemente delle eccezioni; come se ogni
uomo od ogni cosa non trovassero alcun simile.
Ciò che forma il tono stesso dell'arte romantica era per Cristo il vero fondamento della vita naturale. Non ne
scorgeva altro. E quando gli fu condotta innanzi una donna sorpresa in flagrante adulterio e gli fu indicata la
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LA PAROLA NEGATA
sentenza della legge e gli venne chiesto ciò che occorreva fare, egli continuò a scrivere col suo dito sulla
sabbia come se non avesse udito, e quando lo si esortò a rispondere, alzò la testa e disse: «Chi di voi è senza
peccato, scagli la prima pietra». Mette conto di vivere per pronunciare una simile frase.
Come tutte le nature poetiche, egli amava gl'ignoranti. Ben egli sapeva che nell'anima d'un essere ignorante
c'è sempre posto per una grande idea. Ma non poteva sopportare gli stupidi, specie coloro che sono resi tali
dall'educazione: gli uomini pieni d'opinioni delle quali non ne capiscono neppur una - tipo particolarmente
moderno, messo in luce da Cristo quando lo dipinge come il tipo di colui che possiede la chiave della
conoscenza, ma che, incapace di servirsene per conto proprio, impedisce anche agli altri di usarla,
quantunque essa possa aprire la porta del regno del Cielo.
Contro i Filistei egli condusse la sua più fiera campagna. È la guerra che devono combattere tutti i figli della
luce. Il Filisteo era la figura caratteristica dell'età e dell'ambiente nel quale Cristo viveva. Con la loro
massiccia inaccessibilità alle idee, la loro opaca rispettabilità, la loro noiosa ortodossia, con la loro esclusiva
preoccupazione del lato volgarmente materialistico della vita e la loro prosopopea di se stessi e della propria
importanza, i Giudei di Gerusalemme, al tempo di Cristo, erano l'immagine esatta del filisteismo britannico
del nostro tempo.
Cristo si beffò dei "sepolcri imbiancati" e la sua frase rimase eterna. Trattò il successo materiale come una
cosa da disprezzarsi assolutamente. Non voleva vedere in esso nulla d'importante. Considerava la ricchezza
come un ingombro per l'uomo. Non voleva affatto sentir parlare di sacrificio della vita a un qualunque
sistema di pensiero o di morale. Mostrò che le forme e le cerimonie erano fatte per l'uomo e non già l'uomo
per le forme, le convenzioni e le cerimonie. Prese l'idolatria del sabato a bersaglio delle sue sfide. Le
filantropie a freddo, le ostentate carità pubbliche, i massacranti formalismi così cari allo spirito dei mediocri tutto denunciò con uno sdegno implacabile. Per noi l'ortodossia e semplicemente un'acquiescenza facile e
idiota, ma per essi nelle loro mani era una tirannide terribile paralizzatrice. Cristo la ripudiò. Sostenne e
provò che soltanto lo spirito contiene un valore. Quasi con un maligno piacere dimostrava loro che,
malgrado lo studio continuo della legge e dei profeti, essi non avevano, in realtà, la più piccola idea di quel
che le une e gli altri significassero. Al contrario della loro suddivisione di ogni giornata in una serie fissa di
pratiche prescritte, come un tritume di menta e di ruta, egli predicò l'enorme valore di vivere per l'ora
presente.
Coloro ch'egli salvò dai peccati, furono salvi soltanto per merito di alcuni momenti belli nella loro vita. Nel
veder Cristo, Maria Maddalena spezza il ricco vaso, d'alabastro donatole da uno dei suoi amanti e sparge gli
aromi sui piedi stanchi e polverosi del Maestro; ed è appunto in forza di questo momento unico ch'ella è
posta per sempre, con Ruth e Beatrice, in mezzo alle ghirlande di rose bianche del Paradiso.
Tutto ciò che Cristo c'insegna con piccoli moniti si è che ogni istante della nostra vita deve essere bello, che
l'anima ha da essere pronta per l'arrivo dello sposo, sempre attenta alla voce dell'amante - poiché il
Filisteismo è semplicemente quel lato dell'indole dell'uomo che non s'illumina alla fiamma
dell'immaginazione. Cristo vede tutte le più splendide facoltà della vita come delle attitudini luminose: la
stessa immaginazione è la luce del mondo. Il mondo è creato da lei e tuttavia non la comprende; il che si
spiega, poiché l'immaginazione e un manifestarsi dell'amore ed è l'amore e la facoltà d'amare che
distinguono tra loro gli esseri umani.
Sennonché, gli è nelle sue relazioni con i peccatori che Cristo è sopra tutto romantico, nel senso più reale
della parola. Il mondo aveva sempre venerato i santi, perché sono i più prossimi alla perfezione di Dio.
Cristo, invece, guidato da un istinto divino, sembra che abbia sempre amato il peccatore come il più
prossimo alla perfezione dell'uomo.
Il suo desiderio originario non era già quello di redimere gli uomini - come non era di lenire il dolore.
Trasformare un ladro interessante in un onest'uomo noioso - non era proprio il suo scopo. Egli avrebbe
avuto una ben misera idea della Società per la Redenzione dei Carcerati e d'altre iniziative moderne del
medesimo genere. La conversione d'un pubblicano in un fariseo non gli sarebbe parsa un atto molto degno
di gloria. Ma egli considerava il peccato e la sofferenza in una maniera che il mondo non ha per nulla
compreso, come due cose belle e sante, come forme di perfezione.
Questa sembra un'idea pericolosa ed è pericolosa, di fatti, come tutte le grandi idee. Ma non c'è nessun
dubbio ch'era veramente il credo di Cristo. Ed io non esito a ritenerla una verità straordinaria.
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LA PAROLA NEGATA
Certo, occorre che il peccatore si penta. Ma perché? Per la semplice ragione che, altrimenti, non potrebbe
rendersi conto di ciò che ha fatto. L'istante del pentimento è quello stesso dell'iniziazione. È anche più: è il
mezzo col quale si muta il proprio passato. I Greci non reputavano possibile tutto ciò. Spesso affermano nei
loro aforismi gnòmici: "Nemmeno gli Dei potrebbero mutare il loro passato". Ebbene - Cristo ha mostrato
che il più comune dei peccatori può farlo e che anzi è l'unica cosa che può fare.
Se ne fosse stato richiesto, Cristo, ne sono sicuro, avrebbe risposto che nell'istante in cui il figlio prodigo
cadde in ginocchio davanti al padre e ruppe in singhiozzi, egli trasformò le sue orgie, le sue umiliazioni e la
sua degradazione in altrettanti momenti belli e santi della propria vita. E' difficile, lo so, per la maggior parte
degli uomini, l'afferrare un'idea siffatta. Oso dire che bisogna andare in prigione per poterla comprendere.
E se così è, vale veramente la pena di vivere in una galera.
C'è qualche cosa di così unico, in Cristo! Certo, come ci sono delle false aurore prima dell'aurora vera e dei
giorni d'inverno incredibilmente dolci di sole che ingannano il croco e gli fanno sciupare l'oro anzi tempo o
spingono il troppo ingenuo uccello al canto per invitare la sua compagna a costruire un nido su delle frasche
ignude - così ci furono dei cristiani avanti Cristo. E siamone loro riconoscenti. Ma il male si è che non ce ne
furono più dopo di lui. Faccio un'eccezione: San Francesco d'Assisi. Ma Dio gli aveva dato sin dalla nascita
un'anima di poeta ed egli stesso, nella sua prima giovinezza, aveva tolto in mistiche nozze la sua sposa
Povertà; con l'anima d'un poeta e il corpo d'un mendicante, San Francesco non percorre troppo difficilmente
la via della, perfezione. Egli comprese Cristo e così divenne simile a Lui. Non abbiamo bisogno del Liber
conforrmitatun per apprendere che la vita di San Francesco è la vera Imitazione di Cristo; poema che,
comparato al Liber, non è che una prosa.
Sicuramente, il fascino di Cristo si è ch'egli è in tutto e per tutto simile ad un'opera d'arte. Non c'insegna
nulla, in realtà; ma per il solo fatto d'essere condotti alla sua presenza si diventa qualcosa di più. E
ciascuno di noi è predestinato a questa presenza. Almeno una volta nella sua vita, ogni uomo cammina con
Cristo sino ad Emmaus.
Ora, per ciò che riguarda l'altro soggetto, vale a dire il rapporto della Vita Artistica con la Condotta Umana,
vi sembrerà certamente strano ch'io l'abbia scelto. La gente si mostra a dito il carcere di Reading e dice: "Ecco
là a che cosa conduce una vita artistica! " Che monta? essa potrebbe menare anche a dei luoghi peggiori. Gli
uomini meccanizzati per i quali la vita è una continua speculazione, dipendente da uno scrupoloso calcolo di
mezzi e di sistemi, essi lo sanno sempre dove vogliono arrivare e ci arrivano. Si mettono in cammino col
desiderio ideale d'essere sagrestani della loro parrocchia e, qualunque sia la sfera in cui agiscono, finiscono
sempre coll'essere sagrestani della loro parrocchia, e nulla più.
Un individuo che brama di divenire qualcosa di diverso da sé stesso, cioè: d'essere membro del Parlamento o
pizzicagnolo che s'arricchisce o avvocato famoso o giudice o qualche cos'altro d'ugualmente noioso, riesce
con ogni probabilità a divenire ciò che desidera. Ed è così che trova il suo castigo. Coloro che vogliono una
maschera sono condannati a portarla per sempre.
Ma con le energie dinamiche della vita e con coloro ne' quali queste forze s'incarnano, tutto è diverso. Quelli
che desiderano soltanto di essere se stessi non sanno mai dove vanno. Non possono saperlo. In un senso del
termine, è necessario e naturale il conoscere se stessi, - come disse l'oracolo ellenico questo è il primo passo
della conoscenza. Ma riconoscere che l'anima d'un uomo è inconoscibile - ecco l'ultimo risultato della
saggezza. Il mistero finale risiede in noi stessi. Dopo aver pesato il calore e la massa del sole, misurate le fasi
della luna, disegnate le mappe dei sette cieli, stella per stella, e ancora l'io in sé, che rimane.
Chi può calcolare l'orbita della propria anima? Quando il figlio si pose in cammino per rintracciare gli asini
di suo padre, egli non sapeva che l'uomo di Dio lo aspettava con la cresima della consacrazione e che la sua
anima era già quella di un re.
Spero di vivere abbastanza per produrre un'opera di tal carattere ch'io possa: dire alla fine dei miei giorni:
«Sì! ecco a che cosa può condurre un uomo, una vita Artistica!».
Due delle vite più perfette ch'io conosca sono quelle di Verlaine e del principe Kropotkine (1).
(1) Pëtr Alekseevič Kropotkin (Mosca 1842 - Dmitrov 1921), principe russo convertito al credo anarchico e
rivoluzionario, che agiva con lo pseudonimo di Boradin. Scoprire che dietro il rivoluzionario Boradin si
nascondeva il principe Kropotkin suscitò la sorpresa e lo sdegno dello zar, che lo fece imprigionare nel 1874;
riuscì ad evadere nel 1876, raggiungendo la Svizzera con lo pseudonimo di Levachov.
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LA PAROLA NEGATA
Entrambi hanno passato degli anni in prigione; il primo è l'unico poeta cristiano dopo Dante; l'altro possiede
una bella anima di Cristo candido, come ci si attende che debbano venirne dalla Russia. Durante gli ultimi
sette od otto mesi, - nonostante una serie di crucci che mi son venuti dal mondo esterno (quasi senza
interruzione) - mi sono messo in contatto immediato con uno spirito nuovo che agisce in questo carcere per
mezzo degli uomini e delle cose e che mi ha soccorso in modo indicibile; cosicché io, che per tutto il primo
anno della mia reclusione non ho fatto che torcermi le mani, ben mi ricordo, e gridare con una impotente
disperazione: «Quale tracollo! Quale spaventevole fine!», adesso invece tento di dirmi e, qualche volta,
quando non mi torturo da me stesso, realmente e sinceramente mi dico: "Quale nuovo principio! Quale
meraviglioso principio!". Può darsi che sia così, in realtà. Può darsi che la cosa divenga così. E allora quanto
io dovrei a questa personalità nuova che trasforma l'esistenza di ognuno, anche qua dentro!
Vi sarà possibile comprenderlo, quando vi dirò che, se fossi stato liberato nel maggio scorso (come
desideravo), avrei lasciato questo luogo con l'anima piena di amaro odio contro di esso e contro i carcerieri ma questo sentimento cattivo avrebbe poi avvelenato la mia vita. Ho subìto un anno di reclusione di più, ma
un senso vivo d'umanità è pur stato in carcere con tutti noi ed ora, quando me ne andrò, io mi rammenterò
sempre le grandi premure che quasi tutti qui hanno avuto per me; e il giorno della mia liberazione rivolgerò
un grazie a non pochi, e domanderò loro in ricambio che si ricordino qualche volta di me.
I sistemi della prigione sono assolutamente e interamente sbagliati. Molto darei per poterli cambiare. Ho
intenzione di fare questo tentativo. Ma quantunque un sistema sia così difettoso, lo spirito d'umanità che è
poi lo spirito d'amore (lo spirito di Cristo che non si trova dentro le chiese) - riesce almeno a farlo sopportare
senza troppa amarezza, se non proprio a mutarlo radicalmente.
So anche che, fuori, mi aspettano innumerevoli e deliziose cose, - da quelle che San Francesco chiama «frate
vento e sorella piova» alle vetrine dei negozi e ai tramonti delle grandi città. Se facessi un elenco di tutto ciò
che ancor mi rimane, non so dove mi fermerei, perché veramente Dio ha creato il mondo tanto per me
quanto per gli altri. Forse io uscirò di qui in possesso di qualche cosa che prima non avevo.
Non ho bisogno di dirvi che per me le riforme della morale sono insignificanti e volgari come quelle della
teologia. Ma, mentre la risoluzione d'essere un uomo migliore è un atto sperimentale ed ipocrita - essere
divenuto, invece, più profondamelte uomo è il privilegio di coloro che hanno sofferto; - ed io credo
d'esserlo divenuto.
Se, quando sarò libero, uno de' miei amici darà una festa senza invitarmi, io non troverò nulla da ridire.
Posso essere perfettamente felice solo con me stesso. Con la libertà, i fiori, i libri e la luna, chi non sarebbe
felice? D'altra parte, le feste non sono più fatte per me. Ne ho date troppe, perché debba curarmene ancora.
Questo lato della vita è finito per me - assai fortunatamente, oso dire. Ma se, quando sarò libero, uno de' miei
amici avesse un dolore e m'impedisse di prendervi parte, mi risentirei un'amarezza infinita. S'egli mi
sbarrasse le porte della casa in lutto, io ritornerei chissà quante volte a supplicarlo d'esservi ammesso, pur
d'avere la mia parte di ciò cui ho diritto. S'egli mi reputasse incapace e indegno di piangere con lui, ne
proverei l"umiliazione più sanguinosa; considererei la sua ripulsa come la maniera più terribile per
avvilirmi.
Ho un diritto di partecipare al dolore e colui che può contemplare la bellezza del mondo, sentendone
anche la sofferenza, comprendendo entrambe le meraviglie, - colui è in contatto con le cose divine e si è
avvicinato al segreto di Dio per quanto è possibile.
Giova credere che nella mia arte, non meno che nella mia vita, vi sarà una nota più profonda ancora - una
nota di più grande unità di passione e d'impulso. È l'intensità e non la latitudine lo scopo vero dell'arte
moderna. Nell'arte non dobbiamo più occuparci del tipo, ma dell'eccezione. Io non posso dare alle mie
sofferenze nessuna delle forme reali che assunsero. L'Arte comincia là dove l'Imitazione finisce; ma qualcosa
penetrerà nella mia opera, una pienezza di memoria verbale, di cadenze più ricche, di effetti più curiosi, di
un ordine architettonico più semplice - per lo meno di un'altra qualità estetica.
Quando Marsia fu "strappato dalla vagina delle sue membra", per usare la frase di Dante, d'una concisione
terribile, addirittura tacitiana, egli non ebbe più nessun canto sulle sue labbra, dicono i Greci. Apollo aveva
vinto. La lira aveva vinto la zampogna. Ma forse i Greci si sono ingannati. Io odo il grido di Marsia in una
gran parte dell'arte moderna. È amaro in Baudelaire, dolce e lamentevole in Lamartine, mistico in Verlaine.
Si ritrova nelle catharsi lente della musica di Chopin. E nelle donne di Burne Jones. Anche Matteo Arnold ce
lo fa udire, sebbene egli ci parli, nel suo canto di Callicle, del trionfo "della dolce e suadente lira e della
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LA PAROLA NEGATA
famosa ultima vittoria", con una così bella, tersa nota di lirismo. Nel mormorio irrequieto di dubbio e di
affanno che pervade i suoi versi, né Goethe né Wordsworth giovarono in alcun modo a Matteo Arnold, per
quanto egli li abbia seguiti di volta in volta; e quando vuol dolersi del fato di Tirsi o celebrare lo scolaro
Gypsy, gli occorre pur prendere la zampogna per esprimere il suo tormento.
Ma, insomma, sia o non sia stato muto il fauno di Frigia - io non posso essere silenzioso. L'espressione mi è
tanto necessaria quanto le foglie e i fiori lo sono per i rami neri degli alberi che s'intravedono al di là delle
mura della prigione e che senza posa si agitano nel vento. Tra la mia arte e il mondo, c'è ora un vasto gorgo,
ma tra l'arte e me stesso non ce n'é alcuno, almeno io lo spero.
A ciascuno di noi - la sua sorte. Il mio destino è stato di pubblica infamia, di lunga prigionia, di miseria, di
rovina, di sventura, di fiele, ma io non ne sono degno - in ogni caso non ne sono ancor degno. Mi sovviene
d'aver detto spesso che avrei potuto sopportare una tragedia reale, pur ch'ella mi si presentasse con un
mantello di porpora e con la maschera d'un nobile dolore; ma ciò che v'è di orribile nella vita moderna è
ch'essa riveste la tragedia con i cenci della commedia, in modo che le più grandi realtà sembrano banali o
grottesche o prive di stile. Questa è la perfetta verità intorno all'esistenza moderna. Si dice che tutti i martiri
sembrano meschini a chi li osserva. Il secolo decimonono non fa eccezione alla regola.
Tutto, nella mia tragedia, è stato orrido, ripugnante, privo di stile: la nostra casacca stessa ci rende
grotteschi. Noi siamo i buffoni del dolore; siamo i pagliacci dal cuore spezzato. Siamo designati in modo
speciale per essere gli zimbelli dei belli-spiriti. Il 13 novembre 1895 fui condotto da Londra a qua. Quel
giorno, dalle due alle due e mezza, fui costretto a restare sulla banchina centrale della stazione di Clapham
Junction, in uniforme da prigioniero colle manette ai polsi - come uno spettacolo per la folla. Mi avevano
fatto uscire dall'infermeria senza darmi un momento di riposo.
Ero più grottesco di qualsiasi altro immaginabile oggetto. Nel vedermi, la gente si metteva a ridere. Ad
ogni treno, il circolo dei curiosi s'ingrossava. Nulla li avrebbe divertiti maggiormente. E tutto ciò, è naturale,
fino a che non seppero chi io ero; ma appena ne furono informati, risero ancor di più. Per una mezz'ora
intera io rimasi là, sotto la pioggia sottile di novembre, in mezzo alla folla che mi scherniva!
E durante un anno da quel giorno, ad ogni volger di sole, alla medesima, ora, io piangevo per uno stesso
spazio di tempo. Oh, non è una cosa tanto tragica come sembra! Per i prigionieri, le lacrime fanno parte
dell'esperienza quotidiana. Una giornata in carcere senza pianto è una giornata in cui il cuore è duro e non è
una giornata in cui il cuore possa essere felice.
Adesso, però, comincio a provare più rimorso per coloro che risero di me, che per me stesso. Certo, quando
essi mi videro, io non ero più sul mio piedestallo - ero alla gogna. Ma sono le nature assai poco fantasiose
che si preoccupano solamente degli uomini eretti su un piedistallo. Un piedistallo può essere una cosa
del tutto irreale. Una gogna; invece, - è una terribile realtà. Essi avrebbero dovuto saper meglio interpretare
il dolore. Ho detto già che dietro il dolore c'è sempre il dolore. Sarebbe più esatto dire che dietro il dolore c'è
sempre un'anima.
Ora - beffarsi di un'anima in pena è cosa terribile. Nell'economia stranamente semplice del mondo non si
riceve se non ciò che si dona e a coloro, che non hanno abbastanza forza, per penetrare l'aspetto esterno delle
cose e sentire la pietà, quale pietà si può dare se non quella del disprezzo?
Riferisco queste cose semplicemente perchè si comprenda quanto mi è stato difficile trarre dal mio castigo
ben altro che amarezza e disperazione. Eppure mi tocca estrarne una cosa diversa e, di quando in quando,
ho dei periodi di sottomissione e di rassegnazione. La primavera intera può essere racchiusa nell'unica
gemma d'una pianta e il nido dell'allodola a fior della terra può contenere la gioia che annuncerà la
comparsa di innumerevoli aurore color di rosa e di porpora. Così, forse, ciò che mi resta ancora di bellezza di
vita è racchiuso in qualche attimo d'abbandono, di diminuzione di me stesso e d'umiliazione. Tuttavia, io
posso semplicemente continuare a perseguire il mio proprio sviluppo e, accogliendo tutto ciò che mi è
accaduto, rendermene degno.
Alcuni avevano l'abitudine di dire ch'io ero troppo individualista. Ora, più che mai, mi occorre essere
individualista. Devo cavar fuori da me stesso molto di più di quel ch'io ne abbia tratto sin qui ed esigere
dal mondo assai meno di quanto gli abbia mai domandato. La mia rovina, in vero, deriva non da eccessivo
individualismo, ma dal suo difetto. L'azione ignominiosa, imperdonabile ed eternamente disprezzabile
della mia vita fu di avere accondisceso a rivolgermi alla società per ottenerne aiuto e protezione. Scendere
a questo sarebbe stato un errore, dal punto di vista dell'individualismo, ma quale scusante invocare dopo
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LA PAROLA NEGATA
aver compiuto una cosa simile? Naturalmente, una volta messe in moto le macchine della Società, essa si
rivolse contro di me e disse: "Come! tu hai vissuto fino ad ora disprezzando le mie leggi, ed ora vieni a
domandarmi aiuto per mezzo di queste leggi stesse? Bene: ti saranno applicate col massimo rigore. Sarai
obbligato a sottometterti alle leggi che hai invocato".
L'effetto è questo: ch'io sono in carcere. Certo, nessun uomo cadde così ignobilmente e con dei metodi tanto
ignobili.
L'elemento filisteo della vita non consiste nell'incapacità di comprendere l'arte. Ci sono degli esseri piacevoli,
come ad esempio i pescatori, i pastori, gli operai, i contadini ed altri che non s'intendono d'arte, e pure sono
il vero sale della terra. Filisteo è quegli che sostiene ed aiuta le forze meccaniche, pesanti, ingombranti e
cieche della società; e che non arriva ad ammettere un'energia dinamica quando s'imbatte in essa, sia
incarnata in un uomo o in un'azione qualunque.
Han giudicato spaventevole da parte mia il fatto d'aver invitato a pranzo dei cattivi soggetti e d'essermi
compiaciuto in loro compagnia. Ma, dal punto di vista nel quale io mi ponevo come uomo d'arte, essi erano
deliziosamente suggestivi ed eccitanti. Il pericolo formava la metà del piacere.... In quanto artista, avrei
dovuto interessarmi solo d'Ariele e non mettermi a lottare con Calibano...
Uno de' miei grandi amici - d'un'amicizia decennale - venne a trovarmi qualche tempo fa e disse che non
credeva nemmeno a una parola di tutto ciò che si era macchinato contro di me e s'augurava ch'io mi
persuadessi d'essere considerato da lui assolutamente innocente e vittima d'una vile congiura.
Non potei frenare le mie lacrime nell'ascoltarlo e gli risposi che, nonostante le accuse interamente false
formulate contro di me e a malgrado delle colpe attribuitemi per malvagità imperdonabile, tuttavia la mia
vita era stata piena di piaceri crudeli e che non m'era più possibile restare suo amico o trovarmi ancora in
sua compagnia altro che a patto ch'egli accettasse la mia confessione e vi credesse pienamente. Fu per lui un
grave colpo; ma noi siamo rimasti amici e almeno non ho ottenuto il dono della sua amicizia con l'ipocrisia.
Le forze dell'emozione, come ho detto in qualche passo delle "Intenzioni", sono altrettanto limitate in
latitudine ed in durata quanto le energie fisiche. La piccola coppa che è foggiata in modo da contenere una
data misura di liquido non può contenerne una stilla di più, anche se le cantine della Borgogna traboccassero
di vino e i vinaiuoli pestassero sino al ginocchio il raccolto dei sassosi vigneti di Spagna. Non c'è errore più
diffuso del pensare che coloro i quali sono le cause o le occasioni d'una grande tragedia siano poi
partecipi dei sentimenti che si convengono alla tragedia stessa; nessun errore è più fatale che aspettarsi
questi sentimenti da parte loro. Il martire, nel suo «sudario di fiamma», può contemplare il volto del Signore,
ma per colui che ammucchia le fascine o che attizza i ceppi affinché ardano, lo spettacolo non è più
impressionante della morte d'un bue per il macellaio, o della caduta d'un albero per il boscaiolo o d'un fiore
per il falciatore dei prati.
Le grandi passioni sono per coloro che hanno una grande anima e i grandi avvenimenti non possono
essere veduti e compresi se non da quelli che sono al loro stesso livello.
In tutto il dramma, dall'angolo visuale artistico, io non conosco nulla che sia da paragonarsi alla creazione
shakesperiana di Rosencrantz e Guildenstern, nulla che sia più suggestivo in quanto a finezza
d'osservazione. Essi sono i camerati di Amleto. Ne furono già i compagni. Recano con sé il ricordo delle
piacevoli giornate trascorse assieme. Nel momento in cui essi incontrano Amleto, nel dramma, egli vacilla
sotto un peso insostenibile per chiunque abbia il suo temperamento. I morti sono balzati in armi dalla tomba
per imporgli un compito al tempo stesso troppo grande e troppo angusto per lui. È un sognatore costretto
all'azione. Amleto è un poeta e gli si comanda di misurarsi con la doppia complessione della causa e
dell'effetto, con la vita nella sua contingenza pratica (della quale nulla conosce) e non con la vita nella sua
essenza ideale ch'egli penetra tanto bene. Egli non ha nessuna idea di ciò che convenga fare e la sua follia
consiste nel simulare la follia.
Bruto si servì della demenza come d'un mantello per nascondervi sotto la spada, la daga della sua volontà,
ma la pazzia d'Amleto è una semplice maschera per dissimulare la propria debolezza. Facendo dello spirito,
abbandonandosi a degli scherzi, egli crede di ottenere una via di scampo. Si ostina a giocare coll'azione come
un artista gioca con una teoria. Fa la spia ai suoi stessi atti e, sentendosi parlare, egli sa che non sono altro
che «parole, parole, parole». Invece di tentare d'essere l'eroe della sua storia, cerca d'essere lo spettatore della
sua tragedia. Dubita di tutto, compreso se stesso, e tuttavia il suo dubbio non l'aiuta, perché non è effetto di
uno scetticismo, ma di una volontà che si scinde.
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Di tutto ciò Rosencrantz e Guildenstern non capiscono niente. Essi sorridono, si piegano, fanno i graziosi e
quel che l'uno dice l'altro lo ripete, sempre sul medesimo tono. Quando, infine, per mezzo del dramma
intercalato nel dramma e delle tenerezze che si scambiano gli attori, Amleto «sorprende la coscienza» del Re
e lo caccia dal suo trono, miserabile e spaventato, Guildenstern e Rosencrantz non vedono nel suo gesto che
una penosa infrazione alle regole dell'etichetta di corte. Sino a questo punto e non più oltre essi possono
giungere «nella contemplazione dello spettacolo della vita con delle emozioni adeguate». Essi sono i più
vicini al suo segreto e non ne sanno nulla. E non gioverebbe a niente il rivelarlo loro. Essi sono la piccola
coppa che contiene una determinata misura e basta. Verso la fine, com'è detto, essi hanno trovato o
troveranno una morte improvvisa, caduti in un'insidia tesa per un altro. Ma una fine tragica di tal fatta,
benché lo spirito d'Amleto la sfiori un poco con la sorpresa e la giusta aria della commedia, non si conviene
realmente a dei personaggi come loro. Essi non muoiono mai. Horazio, il quale, per «difendere dinnanzi ai
malcontenti Amleto e la sua causa», (Absents him from felicity a while And in this harsh world draws his
breath in pain) muore, ma Guildenstern e Rosenerantz sono immortali come Angelo e Tartufo e devono
essere collocati assieme a loro. Essi sono la metamorfosi che la vita moderna ha fatto dell'antico ideale
dell'amicizia. Colui che scriverà un nuovo trattato "de Amicitia" dovrà serbar loro un cantuccio e tesserne
l'elogio in prosa tuscolana. Sono tipi oramai fissati per tutti i tempi. Censurarli equivarrebbe a mostrare «una
mancanza d'apprezzamento». Si trovano semplicemente fuori della loro sfera - ecco tutto. Quanto a
sublimità d'anima, non c'è pericolo di contagio. Gli alti pensieri e le grandi emozioni sono isolati dal fatto
stesso della loro esistenza.
Se tutto va bene, io sarò liberato verso la fine di maggio e spero di partir subito per qualche piccolo villaggio
marittimo straniero, con R... e M...
Il mare, come dice Euripide in Lino de'suoi poemi su Ifigenia, lava le macchie e le ferite del mondo.
Spero di vivere almeno un mese con i miei amici, di ritrovare la calma e l'equilibrio, un cuore meno torturato
e delle aspirazioni più tranquille. Provo uno strano desiderio per le grandi cose semplici e primordiali, come
il mare che è una madre per me al pari della terra. Mi sembra che tutti noialtri si contempli troppo la natura,
e, viceversa, si viva troppo poco in comunione con essa vedo una grande ragione nell'attitudine dei Greci.
Essi non ragionavano mai intorno ai tramonti del sole e nemmeno disputavano per decidere se le ombre sui
prati erano violacee o no. Ma vedevano che il mare è fatto per il nuotatore e la sabbia per il corridore.
Amavano gli alberi per l'ombra che diffondono e la foresta per il suo raccolto silenzio nell'ora del meriggio. Il
vignaiuolo intrecciava dell'edera ne' suoi capelli per difendersi dai raggi del sole, quando s'affaticava intorno
ai tralci appena nati; e l'artista e l'atleta, i due tipi che l'Ellade ci ha dato, intrecciavano in ghirlande le foglie
d'alloro amaro e la cicuta che non sarebbero state altrimenti utili all'uomo.
Siamo soliti denominare la nostra età utilitaria e non c'è una cosa sola di cui noi sappiamo esattamente gli
usi. Abbiamo dimenticato che l'acqua può pulire, il fuoco purificare e che la terra è la madre di noi tutti. Per
conseguenza - la nostra arte è priva di luce, come la luna, e si diverte con delle ombre, mentre l'arte dei Greci
ha i lampeggiamenti del sole e interpreta direttamente le cose. Sono convinto che c'è una purificazione nelle
forze elementari e voglio ritornare ad esse e con esse vivere.
Certo, per uno spirito moderno come me, «figlio del mio tempo», contemplare semplicemente il mondo sarà
sempre una delizia. Tremo di piacere, pensando che il giorno in cui sarò libero il citiso ed i lillà fioriranno nei
giardini ed io vedro il vento agitare, con una rabbrividente bellezza, l'oro dell'uno e la pallida porpora
dell'altro, in modo che la terra avrà per me tutti i profumi d'Arabia. Linneo cadde in ginocchio e pianse di
felicità, quando vide per la prima volta le estese brughiere d'un altopiano inglese tutte gialle dei fiori agresto
e aromatici dei giunchi, ed io so che per me, posseduto dallo stesso desiderio dei fiori, ci son delle lacrime
che m'aspettano nei petali d'una rosa.
È sempre stato così, sino dalla mia infanzia. Non c'è una sola sfumatura nascosta in fondo al calice d'un fiore,
non c'è la curva e molle linea d'una conchiglia cui la mia anima - per una misteriosa e sottile simpatia con
l'anima delle cose - non faccia eco. Come Teofilo Gauthier io son uno di quelli per i quali il mondo esterno
esiste.
Pur tuttavia, ora ho coscienza che sotto tutta questa bellezza, per quanto soddisfacente essa sia, c'è qualche
spirito nascosto le cui forme e i cui contorni dipinti non sono che pure manifestazioni ed è con questo spirito
ch'io voglio mettermi in armonia.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
Sono stanco delle formule fisse degli uomini e delle cose. Il Mistico nell'Arte, il Mistico nella Vita, il
Mistico nella Natura - ecco ciò che io cerco. Ho assolutamente bisogno di trovarlo in qualche luogo.
Ogni volta che si subisce un giudizio, tutta la vita vien giudicata - come tutte le sentenze sono delle sentenze
di morte; ed io sono stato ben tre volte in giudizio! La prima volta, lasciai la sala per essere arrestato; la
seconda, per essere ricondotto al carcere di detenzione; la terza, per venir cacciato in galera per due anni.
La società, come noi l'abbiamo costituita, non avrà più alcun posto da offrirmi; ma la Natura le cui sottili
piogge cadono dolcemente sui giusti e sugli ingiusti avrà nelle sue rocce delle fessure dentro cui mi
nasconderò e delle valli inesplorate nel silenzio delle quali potrò piangere senza essere distratto!
Essa appenderà delle stelle alle pareti della notte, affinché io possa camminare senza inciampi in mezzo alle
tenebre, e manderà il vento a soffiare sull'orma dei miei passi, in modo che nessuno mi dia una caccia a
morte; la natura mi laverà nelle sue grandi acque e mi risanerà con le sue erbe amare.
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FEDERICA BOGETTO
LA PAROLA NEGATA
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