pionieri della drammaterapia: peter slade

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pionieri della drammaterapia: peter slade
PIONIERI DELLA DRAMMATERAPIA: PETER SLADE
Peter Slade è nato il 7 novembre 1912 a Fleet, Hampshire, Inghilterra. Dopo le scuole superiori, ha
frequentato l’università a Bonn, in Germania, studiando tedesco, economia e psicologia.
Nel 1932 forma la prima compagnia professionale in Inghilterra di Teatro per Bambini (adulti che
recitano con e per i bambini). Nel 1936 forma la compagnia Parable Players, specializzata in teatro
sacro medioevale da eseguire nelle chiese. Lavora anche alla BBC in programmi radiofonici per
bambini.
Nel 1938 fonda il primo Arts Centre in Inghilterra, dove accoglie bambini “difficili”, e li aiuta
attraverso una forma di terapia artistica. L’esperimento ha talmente successo che Slade viene
invitato a parlare di dramma e terapia, poco prima dello scoppio della guerra, presso la British
Medical Association. In quel periodo incontra anche Maria Montessori, venuta in Inghilterra per
sapere di più del suo metodo.
Alla fine della guerra, dopo una convalescenza per una ferita, crea insieme allo psicanalista
junghiano William Kraemer la Guild of Pastoral Psychology, ed è in una conferenza tenuta per
questa associazione che Slade usa per la prima volta il termine Dramatherapy.
Nel 1947 fonda il Rea Street Drama Centre di terapia, educazione e teatro, che ha continuato a
dirigere per 30 anni.
Dopo il suo ritiro, è stato nominato Fellow della Royal Society of Arts e insignito della Queen's
Silver Jubilee Medal. I suoi archivi sono stati raccolti dalla Manchester University.
D: Può raccontarci dei suoi primi incontri con il potere trasformativo del dramma ?
Peter Slade: Probabilmente il primo incontro è stato nel gioco infantile, che è dramma
inconsapevole. Da bambino, mi piaceva molto giocare alla lotta e alla guerra. Ricordo che dopo
aver giocato questi giochi “violenti” mi sentivo molto sollevato.
Forse ho avuto una consapevolezza più precisa di ciò intorno ai 15 anni. Durante la scuola media
inferiore, che era una boarding school (convitto), ero stato molto felice e avevo avuto un buon
successo scolastico, ma con l’inizio della scuola superiore non fu più lo stesso. Forse non era la
scuola adatta a me. Con altri ragazzi, che erano altrettanto angosciati, creammo un club di suicidi.
Qualcuno realmente arrivò a togliersi la vita. Ma tutti quanti avevamo qualche interesse per
l’atletica, e quando potevamo, scappavamo sulle colline vicine e ci impegnavamo in violente danze
atletiche e dramma improvvisato, spesso danzando le storie dei miti greci e “uccidendo” nel
dramma gli insegnanti che non amavamo.
(Da questa esperienza, ho sviluppato, ancora prima di finire la scuola, un sistema che ho chiamato
Drama-Athletic-Movement, e più avanti, ho iniziato ad insegnarlo agli attori che formavo.)
Questo gioco violento aveva un effetto straordinario. Ci sentivamo sempre meglio dopo averlo
fatto, spesso euforici. Non ci ritiravamo mai. A poco a poco, ricominciammo a provare con lo
studio, alcuni di noi superarono gli esami: ma soprattutto quasi tutti iniziavamo nuovamente a
desiderare di vivere. Mi resi conto che questa esperienza era stata di estrema importanza. Ha
sicuramente salvato alcune vite, ed io ho iniziato ad usare da allora questa modalità dello “sputar
fuori” in terapia, particolarmente con i bambini disturbati e in special modo con i giovani
delinquenti.
Quelli che conoscono il mio lavoro, possono capire che questo è un esempio del modo di utilizzare
il Gioco Personale (Personal Play) per bilanciare lo stress delle attività proiettive.
D.: Quali sono a suo parere i principali fattori terapeutici del dramma?
Peter Slade: Il teatro sviluppa tanto l’immaginazione quanto il linguaggio. Promuove la
comunicazione, la chiarezza del movimento, l’interesse per gli altri. Favorisce la gioia, la speranza,
la fiducia in se stessi e l’autostima. Correttamente guidato, offre la possibilità di “sputare fuori” la
tristezza e la rabbia, e in particolar modo il male che ogni giorno insinuiamo nella mente dei nostri
bambini attraverso televisione, cinema e Internet. Avendo la possibilità e il luogo per tirare fuori il
male, anche se attraverso una finzione, le persone sono meno propense a farlo attraverso il violento
e indisciplinato dramma-della-strada.
D.: Qual’è la sua definizione di Drammaterapia? É un metodo terapeutico, una forma d’arte o
qualcos’altro?
Peter Slade: Il dramma è la base della vita. Il dramma spontaneo è piuttosto diverso dal teatro come
forma artistica, anche se entrambi condividono lo sviluppo della personalità profonda e la gioia
della realizzazione. Il primo dovrebbe costantemente essere utilizzato in tutte le scuole, insieme con
una forma di teatro come educazione alla socialità attraverso il gioco di ruolo. Il gioco drammatico
dei bambini (Child Drama) è qualcosa che io ritengo definibile come una forma d’arte in sé, ma è
anche una naturale forma di terapia. esso scandaglia le profondità dell’inconscio. Per la terapia
specifica, dovremmo ricordare che dramma deriva dal greco “drao”, agire, ma anche: lottare,
sforzarsi. Così la nostra definizione di Drammaterapia, tanto in ambito educativo quanto in ambito
clinico, potrebbe essere la seguente: la lotta che tutti noi, genitori, insegnanti, terapeuti, ingaggiamo
con la vita, per aiutare gli altri e noi stessi a vivere meglio.
D.: Quali sono, secondo lei, le qualità più importanti che un drammaterapista deve possedere?
Peter Slade: Serenità; pazienza; senso dell’humour; deve saper non giudicare; non perturbarsi
facilmente; essere capace di sopportare una certa disciplina; deve saper capire quando non
interferire; deve comprendere intuitivamente il gioco dei bambini (per un adulto può voler dire
ritrovare, o talvolta affrontare, il nostro bambino interiore).
Deve capire la differenza tra Projected Play e Personal Play; essere capace di percepire i bisogni
degli altri; essere capace di ispirare speranza e di accettare il peso del dolore degli altri. Ma
soprattutto deve possedere un genuino amore per l’umanità.
PIONIERI DELLA DRAMMATERAPIA: ROGER GRAINGER
Roger Grainger è nato a Leeds nel 1934. E’ uno dei più illustri teorici della Drammaterapia, sulla
quale ha scritto diversi importanti volumi. É inoltre sociologo, teologo e psicologo. Ha recitato in
teatro e in televisione, ed è stato per un ventennio cappellano dell’ospedale psichiatrico di
Wakefield. É stato il fondatore dell’Arts Therapies Research Committee, organismo del NCOAT
(National Coalition Of Arts Therapies), ed è membro del comitato di redazione della rivista
Dramatherapy journal, organo della BADTh (British Association of Dramatherapists). È inoltre tra
i fondatori del National Funeral College. Il suo approccio fonda il potenziale terapeutico della
Drammaterapia sul suo essere teatro, e costruisce un modello complesso che spiega il valore
curativo del teatro attraverso paradigmi filosofici e psicologici, e il mondo delle relazioni umane
attraverso il teatro.
D.: Cominciamo dall’inizio...
ROGER GRAINGER: Ho iniziato come attore. Già nell’infanzia e nell’adolescenza a scuola avevo
recitato testi classici, come Shakespeare, o su personaggi famosi come Abraham Lincoln, e mi era
piaciuto tantissimo. E sono stato da sempre incantato dall’evento teatrale: persone che creano
un’immagine del mondo. Più tardi, dopo le scuole, ho avuto una crisi d’identità alquanto distruttiva,
che mi ha condotto ad un ricovero in ospedale psichiatrico. Questo fu un episodio davvero
traumatico: pensavo che non ne sarei mai uscito, che avrei trascorso il resto della mia vita là dentro.
Quando uscii dall’ospedale, dopo sei mesi, mi resi conto che non sarebbe stato facile trovare lavoro,
perché la gente è molto diffidente con chi ha avuto a che fare con il manicomio. Inoltre, non ero per
niente sicuro che sarei riuscito a reggere un lavoro “normale”, e questo era un grosso problema per i
miei genitori. Qualcuno consigliò che forse mi sarebbe piaciuto fare l’attore. É piuttosto singolare
che questo sia stato l’inizio della mia carriera: mi mandarono a fare teatro allo scopo di “distrarmi”
e “farmi stare tranquillo”! Lo psichiatra che mi aveva in cura aveva assicurato che la causa dei miei
disturbi era lo studio ossessivo. Così iniziai a fare teatro. Quella dell’attore fu la mia professione per
sette anni, durante i quali non toccai un libro. Certo, imparavo le parti, anche molto lunghe. Più di
una volta mi tocco di imparare una parte estesa e complessa in una notte, per sostituire un attore che
si era ammalato: questo riuscivo a farlo, ma non ho più letto un libro per molto tempo.
D.: Ricordi qualche evento teatrale particolarmente significativo?
ROGER GRAINGER: C’è stato uno spettacolo teatrale che potrei dire mi ha cambiato la vita. Fu
una produzione di Sei personaggi in cerca d’autore che vidi a Manchester. Penso che la maestria di
Pirandello stia nel rendere lo spettatore insicuro di quello che realmente è un’opera d’arte, di quello
che realmente sta accadendo nel teatro. Questo comporta l’intuizione che esistono vari livelli di
realtà, vari livelli di verità: ciò che è vero e ciò che è falso dipende dal punto di vista: da chi sei tu, e
dove sei. E nel mezzo di questa confusione su ciò che è vero e ciò che non lo è, Pirandello inserisce
quella straordinaria scena in cui la figlia racconta di essere stata avvicinata in un bordello dal
patrigno, che le ha chiesto di spogliarsi. Ero giovane, allora, e fui assolutamente inchiodato da un
fatto: improvvisamente sentivo qualcosa di ciò che quella ragazza sentiva. Se qualcuno mi dice: “Il
teatro è potente, il teatro ha un effetto”, non posso fare a mano di pensare a quella scena. In quel
momento mi accorsi che tutto il teatro che avevo praticato fino allora era soltanto un “ego-trip”, che
non andava a fondo di quell’altro livello di realtà.
D.: Come sei arrivato alla Drammaterapia?
ROGER GRAINGER: Nell’ultimo periodo di quei sette anni, cominciavo a maturare l’idea di
entrare nella Chiesa d’Inghilterra, e i miei rapporti con il teatro diventavano sempre più sporadici.
Così m’iscrissi alla facoltà teologica, pensando che avrei abbandonato il teatro; dopo solo un paio di
mesi, mi fu richiesto di collaborare ad un gruppo teatrale della facoltà: ero stato di nuovo
scaraventato nel teatro! Dopo essere stato ordinato sacerdote, fui assegnato come cappellano
all’Ospedale Psichiatrico di Wakefield, un posto molto all’antica. Pensai che la mia esperienza
d’attore potesse rivelarsi utile in un posto dove molta gente è disturbata, ma molta altra gente è
semplicemente annoiata. Così cominciai ad andare in giro per il reparto accettazione, che era il
reparto in cui stavano le persone che si riteneva avessero qualche possibilità di essere dimesse, e
che dovevano rimanere per un periodo limitato, a volte pochi mesi. Ma in quel periodo, sembrava
che non avessero niente da fare, salvo che ciondolare per il reparto, che, peraltro, non era
particolarmente sgradevole, e annoiarsi ed avvilirsi sempre di più. E pensai che dovevo trovare un
modo di mettere insieme il mio essere nell’ospedale (anche se come sacerdote) e il mio essere
attore. Ma non riuscivo ad immaginare come. In biblioteca avevo trovato un libro sullo
psicodramma: ma per me era un linguaggio incomprensibile, non riuscivo a capire esattamente di
che cosa trattasse. Così andai a trovare una persona che aveva avuto una grandissima influenza su di
me nel passato, la regista e produttrice Joan Littlewood. Il giorno della mia visita, il teatro era
chiuso per gli spettacoli, e Joan era solita aprirlo ai bambini del quartiere, che potevano usare i
costumi, gli oggetti di scena, e tutto il resto, e potevano scatenarsi sul palco a loro piacimento. Joan
diceva che si divertivano a fare finta (“mocking about”): i bambini stanno tenendo una seduta di
“mocking about”, spiegava. E io mi dissi: ecco quello che voglio: voglio dare alle persone del
reparto la possibilità di avere delle sedute di “mocking about”! Così cominciai a proporre piccoli
giochi di teatro ai pazienti dell’ospedale. Poco tempo dopo sentii parlare di Drammaterapia, e
m’iscrissi ad un corso di formazione, a Manchester. Ma non fu un buon corso. Per fortuna, riuscii
ad avere l’aiuto di Sue Jennings, che mi prese in supervisione per alcuni anni dopo il corso.
D.: Vorrei che ci parlassi del tuo interesse per il rito.
ROGER GRAINGER: Quando studiavo teologia, ed ero vicino alla laurea, la mia tutor mi suggerì
che, date le mie esperienze teatrali, forse avrei potuto essere interessato a lavorare sul rito. Essendo
io un “cristiano professionista” e contemporaneamente un attore, avrei potuto riflettere sulle
connessioni tra la fede e l’azione teatrale, quindi, ovviamente, sul rito, che è un’azione teatrale che
promana da una fede. Il mio primo libro, derivato da quella tesi, fu una difesa del rito, da un punto
di vista abbastanza impopolare. Impopolare per gli psicologi, che lo considerano in qualche modo
nevrotico, puntando l’accento, ad esempio, sui rituali privati delle persone disturbate; per gli
antropologi, che lo vedevano come legato alla magia, alla costruzione della società attraverso la
credenza nei tabù; e perfino per i cristiani, che pensano che sia una specie di superstizione, e non
solo tra i protestanti, ma anche tra i cattolici: amano il rito, ma in qualche modo se ne vergognano
un po’. Io sostenevo che era assurdo pensare al rito come un fatto nevrotico, e altrettanto assurdo
vederlo come una superstizione. Pensavo che nel rito sia presente una sorta di collusione con Dio,
ma mai un forzare la sua mano per chiedere qualcosa. Mary Douglas lo definisce un “desiderio ben
espresso”: noi sappiamo quello che desideriamo, e lo esprimiamo in una potente forma attiva, di
fede e adorazione e preghiera. Tutto cominciava a prendere forma: essere un attore, la religione, il
gioco, la terapia, e il modo in cui il teatro è una celebrazione dell’essere creature umane. Ritengo
che il teatro non debba essere una tecnica di controllo: questo è un abuso. Il teatro è estremamente
potente, e non deve permettere che le persone coinvolte escano sentendosi meno umani di quello
che erano prima. Penso a certe straordinarie opere di Jean Gênet, in cui sembra che l’autore sfrutti
le sue conoscenze psicologiche per manipolare il pubblico!
D.: Un po’ come certi film americani...
ROGER GRAINGER: Esatto! Be’, il fatto che è che sono arrivato alla Drammaterapia da tre
differenti punti di partenza. Il primo è l’essere stato io stesso un paziente psichiatrico, e avere avuto
l’onore (anche se forse non dovrei dirlo) di essere dichiarato psicotico da tre diversi psichiatri con
tre differenti diagnosi. Naturalmente sto scherzando. Credo però che sia stato importante l’aver
sperimentato in prima persona come ci si sente ad essere un paziente psichiatrico, e mi ha aiutato
molto nel mio lavoro dentro l’ospedale. Il secondo è l’essere un teologo ed un sacerdote; il terzo è
l’essere un attore. I libri che ho scritto rappresentano tutte e tre queste posizioni.
D.: Qual’è il filo conduttore che unifica queste posizioni?
ROGER GRAINGER: Credo di poter affermare che quello in cui sono realmente interessato, direi
intimamente motivato, è il gesto umano di esprimere qualcosa di profondamente sentito, possiamo
chiamarlo rito, o possiamo chiamarlo teatro. Essi non sono la stessa cosa, ma sono collegati. Non
sono la stessa cosa nel senso che il teatro è fondato sul gesto di comunicazione e di relazione tra le
persone, tra le dramatis personae, tra un attore e l’altro, tra l’attore e il personaggio, tra il
personaggio e il pubblico, tra l’attore e il pubblico. Ma quando il gesto umano è rivolto a Dio, ed
eseguito in nome dell’intera umanità, queste divisioni – tra attore e personaggio, tra persone nel
dramma e persone che guardano il dramma –, passano in secondo piano, e la vera divisione è tra il
divino e l’umano. Questo può sembrare piuttosto approssimativo, ma quello che voglio sottolineare
è il tema della distanza. Il teatro dipende molto dalla distanza, perché il teatro è una tensione verso
l’altro; se la distanza è troppo ravvicinata, non possiamo raggiungerlo: semplicemente ci fondiamo
nell’altro, siamo inclusi in una specie di sintesi. Ma il teatro non è questo: è un tendere verso ma
non un attaccarsi. Se nel teatro c’è una distanza tra pubblico e scena, o tra attore e pubblico,
eccetera, nel rito la distanza è tra il genere umano e Dio: ogni azione rituale è fatta in nome di tutti,
e la distanza è ciò che unisce. E così la distanza nel teatro: il gesto è un gesto che tende verso, un
gesto che risponde. Se è vero teatro è vero rito: solo la distanza si manifesta in luoghi diversi. Per
alcuni teologi, come Martin Buber, neppure questo è vero: se tendiamo verso l’uomo, tendiamo
comunque verso Dio. In questo senso, quella tra teatro e rito sarebbe una falsa dicotomia.
D.: Mi ricorda la concezione buddista, secondo la quale in ogni essere senziente è contenuta la
natura del Buddha.
ROGER GRAINGER: Buber non dice che l’altro è Dio. Dio è nell’incontro, nella betweenness
(essere tra). L’essere umano è un gesto tra sé e l’altro, e tra l’altro e sé. Quando posso chiamare
l’altro Tu (e non più Esso), lo sto considerando un essere umano; quando questo accade Dio è tra
noi. La mente umana non vive sempre in contatto, vive anche nel ritirarsi e pensare. In questo caso
tu sei la persona vivente Salvo, e diventi l’idea di Salvo nella mia mente, e questa è l’idea di Esso.
La relazione tra esseri umani e un continuo andirivieni tra queste due posizioni. E Dio è là.
D.: Questo accade anche nella relazione della persona con se stessa.
ROGER GRAINGER: Oh, senza alcun dubbio. Questo è molto difficile da realizzare e da
concepire, perché noi incontriamo noi stessi e abbiamo una relazione con noi stessi, ma quando ne
prendiamo coscienza, cominciamo a rifletterci sopra, e ci ritiriamo da noi stessi per farlo. Ma
continuamente ritorniamo!
D.: Quando cerchi di possedere qualcosa, la perdi...
ROGER GRAINGER: “Esso è l’eterna crisalide; Tu l’eterna farfalla”, dice Buber. Quando
concepisco qualche cosa col pensiero, la sto oggettivando, ma da quell’oggettivazione deriva un
avvicinamento, e i due momenti si alternano ciclicamente. Questo non è uno stato patologico.
D.: All’interno di questa cornice, potrebbe essere possibile ridefinire il concetto di distanza in
Drammaterapia.
ROGER GRAINGER: Sono un po’ infastidito dal fatto che alcuni studiosi di Drammaterapia
tendano a considerare la distanza come uno strumento di protezione: è importante regolare la
distanza per le persone underdistanced (poco distanziate), che tendono ad essere turbati da un
eccesso di contatto umano; altre persone, overdistanced (troppo distanziate), che vivono in un
mondo tutto loro, hanno bisogno di essere aiutate a diminuire la distanza. Questo è molto giusto, ma
non è questa la mia concezione della distanza. La distanza, secondo me, è ciò che unisce.
D.: C’è un paradosso della distanza: più separa, più unisce.
ROGER GRAINGER: Questo è molto chiaro in teatro. Ricordo un attore, Alec Mc Cowan, nel
Riccardo II di Shakespeare. Nella scena in cui il re parla della sua prossima morte, pronuncia le
seguenti parole: “A little grave, a little little grave, an unknown grave”. Quando Alec arrivava a
questa frase, abbassava la voce, quasi sussurrava. Lui stava sul palco, e la battuta si sentiva
chiaramente fino alla galleria, per la pura intensità della concentrazione. Il fatto è che la distanza in
sé è magnetica. É la distanza che produce il gesto. Quando non c'è la distanza, non c’è
differenziazione, non c’è persona, c’è solo un fondersi indifferenziato. Ecco perché se chiedi a un
attore di parlare dell’interpretare un ruolo, spesso dirà: mi pace a volte interpretare persone molto
diverse da me. Kierkegaard, quando era studente, scrisse un libro intitolato “Un episodio della vita
di un’attrice”, in cui racconta di aver visto una messa in scena di Romeo e Giulietta, con un’attrice
quindicenne nella parte di Giulietta: esattamente l’età del personaggio. Be’, Kierkegaard tornò a
vedere la stessa attrice nella stessa parte venticinque anni dopo, e racconta che fu assolutamente
indimenticabile, perché aveva la distanza: una donna di quarant’anni che riesce ad immaginare se
stessa adolescente, e ad immaginare come ci si sente.
D.: C’è un qualche rapporto con quello che Stanislavskij chiamava “memoria emotiva”?
ROGER GRAINGER: Deve esserci una memoria, qualcosa che connette, deve esserci qualcosa che
ci appartiene personalmente, o che possiamo immaginare come nostra potenzialità. Io non sono mai
stato un attore brechtiano. Penso che Brecht truccasse le carte. Diceva che se tu interpreti una parte
e non metti te stesso dentro quella parte, il pubblico ti ci metterà dentro. L’impatto è molto più
potente di quando usi le tue emozioni. Il pubblico riempie i vuoti, fa il lavoro al posto tuo. Questo è
il trucco. La tua emozione non deve essere la guida.
D.: Rispetto a questo tema della distanza, come potremmo definire il ruolo del Drammaterapeuta?
ROGER GRAINGER: É un ruolo particolarmente potente. In una scena, tu puoi concedere ad una
persona il permesso di esplodere, senza averla mandata a studiare la parte per sei mesi, e senza che
sia costretta a fare un provino per quella parte. Dopo tutto è solo un gioco. Ma nonostante ciò,
spesso le persone nei gruppi di Drammaterapia riescono a fare cose che sono straordinariamente
potenti, e straordinariamente vere.
Bibliografia essenziale:
The language of rite, Darton, Longman & Todd, London, 1974
Watching for Wings. Theology and Mental Illness in a Pastoral Setting, Darton, Longman & Todd,
London, 1979
Presenting Drama in Church, Epworth, London, 1985
The Message of the Rite. The Significance of Christian Rites of Passage, Lutterworth, Cambridge,
1988
Drama and Healing. The Roots of Dramatherapy, Jessica Kingsley, London, 1990
The Glass of Heaven. The Faith of the Dramatherapist, Jessica Kingsley, London, 1995
Imagination, Identification and Catharsis in Theatre and Therapy, (con M. Duggan), Jessica
Kingsley, London, 1997
The Social Symbolism of Grief and Mourning, Jessica Kingsley, London, 1999
Researching the Arts Therapies. A Dramatherapist’s Perspective, Jessica Kingsley, London, 1999
Practical Approaches to Dramatherapy, (con M. Andersen-Warren), Jessica Kingsley, London,
2000
PIONIERI DELLA DRAMMATERAPIA: SUE JENNINGS
A cura di Salvo Pitruzzella e Fabrizio Fiaschini.
Sue Emmy Jennings PhD, RDTh, RDT (USA), è considerata una delle fondatrici della
Drammaterapia e della Playtherapy in Europa, e una delle sue rappresentanti più significative. Ha
scritto o curato più di una dozzina di libri sull’argomento, utilizzati praticamente in tutte le scuole di
Drammaterapia in Inghilterra e nel resto del mondo.
Ha realizzato il primo corso universitario di formazione in Drammaterapia in Gran Bretagna negli
anni 70 (University of St.Albans), e ha in seguito fondato il Rohehampton Institute of
Dramatherapy (University of Surrey).
Nel 1977 ha contribuito alla creazione della BADTh (British Association for Dramatherapists), di
cui è socio a vita.
Ha in seguito sviluppato programmi di formazione in Drammaterapia, oltre che in Gran Bretagna, in
Olanda, Irlanda, Stati Uniti, Grecia e Israele.
Da qualche anno ha iniziato tenere seminari a Lecco, presso il Centro di Formazione per le
ArtiTerapie, dove l’abbiamo incontrata.
Come hai iniziato?
Be’, ho fatto il mio primo lavoro drammatico in un ospedale psichiatrico quando avevo diciassette
anni e frequentavo la scuola di teatro. A quei tempi, l’unico modo di farsi accettare dentro
l’ospedale era essere inquadrata come infermiera ausiliaria; quindi mi diedero una bella divisa, con
il cappellino bianco, scarpe e tutto: ecco l’infermiera ausiliaria Jennings che il giovedì mattina fa
teatro nei reparti! Buffo, no? L’anno seguente iniziai a far parte di una compagnia di giro:
viaggiavamo su furgoni e roulotte per andare nei piccoli centri a mettere in scena Shakespeare ed
altri classici. Fu probabilmente allora che nacque il mio grande amore per Shakespeare.
Diversi anni dopo ebbi la mia prima esperienza di insegnante di teatro in una scuola secondaria. Era
una scuola “difficile”, ed io non ero minimamente attrezzata: aprendo la porta della classe, mi trovai
davanti ad una turba urlante, che lanciava missili di carta e altri proiettili, e mi mandava
amichevolmente a quel paese. Istintivamente, chiesi ai ragazzi di dividersi in due gruppi, e vedere
quello che riusciva ad urlare più forte, e poi iniziammo ad orchestrare quelle urla. Era qualcosa di
completamente diverso da quello che avevo imparato a scuola di teatro, ma era già lavoro
drammatico, e mi resi che poteva essere utile per contenere l’energia.
In seguito mi trovai a lavorare, sempre come insegnante di teatro, in una scuola speciale (per
ragazzi “ritardati”). Seguitavo a sperimentare, cercando al contempo di documentarmi su come si
potesse fare con quei ragazzi un teatro che avesse un senso. Iniziai a studiare psicologia
all’università, sperando che potesse aiutarmi a capire; il primo anno imparammo tutto sulla
psicologia dei topi, dei ratti e di altri graziosi animaletti, ma non fu molto utile per il mio lavoro.
Continuavo a cercare una cornice che potesse permettermi di dare un senso comune a quelle
esperienze teatrali in così diversi contesti.
Nei primi anni 70 hai aperto a Londra il “Remedial Drama Centre”, ispirato al Rea Street Centre
che Peter Slada gestiva a Birmingham. Vuoi parlarci di quell’esperienza?
Era in uno dei quartieri più poveri di Londra, dentro una vecchia chiesa sconsacrata. Avevamo
stabilito che le porte dovevano essere sempre aperte: l’unico problema era che molti ragazzi
marinavano la scuola per venire da noi. Così arrivammo ad un accordo con le scuole: i ragazzi
erano autorizzati a venire a far teatro (così davano meno fastidio in classe). Il pomeriggio e la sera
tenevamo corsi per adulti, e veniva gente di tutti i tipi, anche persone dell’ospedale psichiatrico.
Poi iniziai a studiare antropologia. Ero affascinata dagli studi sul rituale e sul simbolismo, tanto che
al termine del corso di laurea decisi di intraprendere una ricerca sul campo. Così presi i miei tre figli
e ci trasferimmo per due anni nella foresta della Malesia, a studiare la popolazione dei Senoi
Temiar. Al ritorno a Londra, a metà degli anni 70, mi accorsi che molti dei semi che avevo piantato
erano germogliati: erano sempre di più le persone che si avvicinavano alla Drammaterapia, e si
cominciava a lavorare per creare un’associazione nazionale. Il primo corso ufficiale fu presso
l’università di St. Albans: vi lavorai per nove anni. Nel frattempo continuavo a lavorare come
drammaterapista in una grande varietà di situazioni: psichiatria, persone disabili, anziani, bambini
in difficoltà, immigrati…
Quali sono i principi comuni che unificano il lavoro in contesti tanto diversi?
Bisogna partire dall’idea che il dramma non è solo un fenomeno culturale: è inscritto nella natura
stessa dell’essere umano. I bambini lo sanno bene, e lo praticano continuamente. Il problema è
quindi imparare di nuovo a giocare, a usare il dramma creativamente. Il nostro lavoro consiste
principalmente nell’aiutare persone che sono rimaste bloccate, fermate o intrappolate da qualche
parte della loro mente, a recuperare il proprio lato creativo e usarlo nella loro stessa vita. Non
rivangare il passato, ma anticipare un futuro in cui poter gioire.
Ritorniamo un attimo ai Temiar. Secondo l’antropologo A. Montague è una popolazione che non
conosce la guerra. Qual’è il loro segreto?
La cosa che più mi ha colpito è il loro modo di utilizzare il rituale drammatico come una sorta di
cura preventiva del malessere sociale e personale. Questa era forse la cornice che cercavo.
Che parte ha il rituale nel tuo lavoro?
Noi non possiamo creare un rituale; possiamo ritualizzare qualcosa: il suono, il movimento,
l’incontro. La ritualizzazione instaura il regime del conosciuto, della sicurezza, da cui poi possiamo
partire per esplorare l’ignoto, passare dal rituale al rischio.
C’è un altro aspetto del rituale che m’interessa; il suo essere un modo di connettere l’essere umano
con le sue radici cosmiche, a partire dai ritmi della natura e delle stagioni. Credo che tutti noi
trarremmo un gran beneficio dal riconciliarci con il mondo naturale. In Transilvania, dove vivo
parte dell’anno, in una zona in cui la cultura è ancora principalmente agricolo-pastorale, molta gente
è ancora in contatto con la terra: conoscono i segreti delle stagioni e degli uccelli.
Tu continui a fare l’attrice. L’esperienza della Drammaterapia ha influenzato il tuo modo di
guardare al teatro?
Credo proprio di sì. Mi ha insegnato a non psicologizzare il lavoro dell’attore. Ricordo un regista
della Royal Shakespeare Company che mi chiese un aiuto per la messa in scena di alcune opere di
Beckett. Pensava che una prospettiva terapeutica sarebbe stata utile. Così scoprii che il regista aveva
dato da leggere agli attori, per capire meglio le parti, ponderosi volumi di psicologia e psicoanalisi,
e gli attori erano completamente disorientati. Il mio contributo fu di chiedere agli attori di mettere
da parte tutto quello che sapevano, e cominciare semplicemente ad agire. Ad esempio c’è un’opera
di Beckett, Footfalls (Passi), in cui una persona cammina su e giù lungo il palcoscenico per tutto il
tempo. Perché lo fa? L’unico modo che ha un’attrice per saperlo, è cominciare a camminare, e da lì
partire.
Cosa può suggerire la Drammaterapia al teatro?
Io uso spesso la Drammaterapia per la preparazione degli attori, utilizzando quello che ho chiamato
“Paradigma EPR” (Embodiment, Projection, Role). A volte sono molto sorpresi quando chiedo loro
di dipingere il proprio personaggio utilizzando i colori a dito. Questi colori, che si usano con le
nude mani, sono meno controllabili di quelli a pennello, e men che mai di pastelli e matite: è
un’esperienza immediata, fortemente sensoriale. Si entra in contatto con la propria creatività più
primitiva. In fin dei conti, uso lo stesso metodo che uso con i pazienti. È l’azione che genera il
significato, e non viceversa.
Bibliografia essenziale:
Jennings, S., (1978) Remedial Drama, A. & C. Black, London
Jennings, S., (ed.), (1988) Dramatherapy.Theory and Practice 1, Routledge, London
Jennings, S., (1990) Dramatherapy with Families, Groups and Individuals, Jessica Kingsley,
London
Jennings, S., (ed.), (1992) Dramatherapy.Theory and Practice 2, Routledge, London
Jennings, S.& Minde, A. (1993), Art Therapy and Dramatherapy. Masks of the Soul, Jessica
Kingsley, London
Jennings, S., (1995) Theatre, Ritual and Transformation, Routledge, London
Jennings, S., (ed.), (1997) Dramatherapy.Theory and Practice 3, Routledge, London
Jennings, S. (1998) Introduction to Dramatherapy, Jessica Kingsley, London
Il progetto “Rowan Romania”
Sul finire degli anni 90, visitando la Romania, Sue Jennings s’innamorò della bellezza delle foreste
incontaminate della Transilvania, dove ancora è possibile incontrare orsi e lupi, e decise di investire
i suoi risparmi per acquistare una piccola casa sul margine del bosco, vicino ad un villaggio
chiamato Zarnesti. Ma oltre la selvaggia bellezza della natura, quell’area nascondeva profonde e
dolorose contraddizioni: la forzata industrializzazione iniziata da Ceausescu, che aveva impiantato
un’enorme fabbrica di munizioni, aveva dato vita ad una devastante metamorfosi sociale e culturale,
e infine, chiusa la fabbrica dopo il crollo del regime, ad una situazione di miseria e disagio sociale,
con una disoccupazione del 50%. Situazione ancora più accentuata nei due villaggi Rom poco
distanti. Il grande ospedale psichiatrico della regione, situato proprio in quell’area, è in stato di
abbandono, con carenza di personale, farmaci e servizi primari. Un temperamento generoso e
instancabile come quello di Sue non avrebbe potuto godersi un “buen retiro” ignorando tutto il
resto; così, all’età in cui solitamente si va in pensione, diventa promotrice di progetti sociali e
culturali per aiutare, sempre attraverso strumenti creativi, la popolazione locale a risollevarsi.
Promuove il rilancio di un turismo eco-culturale, valorizzando il patrimonio etnico dei Rom
(musica, danze, narrazioni e artigianato); inaugura interventi di sostegno artistico ai ricoverati
dell’ospedale psichiatrico e a gruppi di ragazzi disabili: progetti concordati con la municipalità di
Zarnesti, con lo staff dell’ospedale e con gli anziani delle due comunità Rom. Nel 2003 “Rowan
Romania” diventa ufficialmente una “Charity” (una specie di fondazione ONLUS), e lancia, con
l’aiuto di volontari provenienti da tutta Europa e dagli USA, molti dei quali arteterapeuti o esperti in
attività espressive, nuove iniziative, tra cui una rivolta ai bambini, per promuovere l’incontro tra
gruppi diversi (Rumeni e Rom). Sue continua a viaggiare per buona parte dell’anno, per finanziare
le iniziative. Per saperne di più: http://rowanromania.com/info/
PIONIERI DELLA DRAMMATERAPIA: ROBERT LANDY
Robert Landy è il più celebre drammaterapeuta americano, creatore di un modello e di un metodo
fra i più diffusi e applicati. Ha scritto numerosi libri, tra cui Dramatherapy: Concepts and
Practices, pubblicato anche in Italia. È stato per molti anni direttore della prestigiosa rivista The
Arts in Psychotherapy, ed è il fondatore e direttore del corso in Drammaterapia dell’Università di
New York.
Lo abbiamo incontrato a York (quella vecchia), durante la Conferenza nazionale della BADTh
(British Association of Dramatherapy), che quest’anno ha festeggiato il suo trentennale. Il professor
Landy ha presentato il film Three Approaches to Drama Therapy, in cui vengono messe a confronto
tre tecniche di terapia drammatica: il suo Role Method, lo psicodramma (rappresentato da Nina
Garcia), e il metodo detto Developmental Transformations, rappresentato dal suo fondatore, David
Read Johnson. I tre terapeuti conducono ciascuno una sessione sullo stesso soggetto (con un
paziente volontario), mostrando la validità e i limiti di ognuno dei tre approcci. La proiezione è stata
seguita da un seminario, in cui più di cento professionisti hanno discusso con passione i temi e i
punti critici che emergevano dalla visione del film.
Con Robert Landy abbiamo parlato dei fondamenti del suo metodo e della sua esperienza.
SP.
La mia prima domanda riguarda le tue radici come drammaterapeuta. Prima di approdare
alla Drama Therapy, hai studiato psicologia e hai lavorato in teatro. Quale di queste esperienze è
stata più significativa per costruire il tuo metodo?
RL.
Il teatro è stato la prima e la più importante. Ho fatto l’attore per molti anni, quando ero al
College, e forse ancora prima. Il teatro è stata la mia prima professione e la mia prima passione. Ho
seguito due percorsi diversi, nella mia formazione teatrale. Il primo è stato una formazione classica,
da attore shakespeariano. Negli anni sessanta, invece, sono stato coinvolto nel teatro sperimentale, il
movimento chiamato performance art che nasceva in quegli anni. Ma mi sono reso conto che fare
l’attore non era la mia vocazione: non mi sono mai sentito perfettamente a mio agio in scena.
Quindi più avanti ho iniziato a dirigere e a scrivere per il teatro. Quest’ultima è un’esperienza che
ho continuato, fino ad oggi. Non solo quando lavoro come drammaterapeuta, e quando rifletto sulla
drammaterapia, ma anche quando metto in funzione quella parte di me che è quella del
professionista della clinica, del ricercatore e del docente universitario, tutto quello che faccio è fatto
dal punto di vista del campo della creatività drammatica. Penso in termini teatrali; vedo lo spazio in
termini teatrali.
SP.
C’è un autore che ti ha maggiormente influenzato?
RL. Sicuramente Brecht, sia per un legame personale che come ispirazione delle mie teorie. La
mia prima moglie era tedesca, figlia di un regista brechtiano, che mi ha fatto conoscere in
profondità le opere del maestro. La mia teoria della distanza estetica nel processo terapeutico ha le
sue radici nella mia comprensione del teatro di Brecht.
SP.
Quello che è considerato il tuo maggiore contributo alla Drammaterapia è la tua teoria dei
ruoli. Puoi dirci qualcosa sulla sua genesi?
RL. Molte sono le fonti alle quali mi sono abbeverato. Una è la teoria junghiana: ho fatto una
psicoterapia personale con un anziano psicoanalista, allievo diretto di Jung. Un’altra è stata la mia
conoscenza dello psicodramma, e il confrontarmi con l’incompletezza della teoria di Moreno. La
sua teoria dei ruoli allo stesso tempo mi entusiasmava per le sue intuizioni, e mi frustrava per la sua
totale mancanza di coerenza. Mi sembrava importante completarla con un altro punto di vista, che
veniva fuori dagli archetipi junghiani e dai ruoli teatrali. Anche William Blake ha avuto
un’importante influenza nella formulazione della mia teoria. La sua dottrina dei contrari e della
dissonanza mi affascinava: “Senza contrari non c’è progresso”. E quando ho iniziato a costruire la
mia teoria, l’ho basata sulla sua riflessione intorno alla possibilità – o all’impossibilità – di integrare
le opposte polarità, che nei termini della metafora teatrale si possono identificare in ruolo e
controruolo oppure protagonista e antagonista, ma, allo stesso tempo, sulla ricerca di un principio
che tenesse insieme queste polarità. Nell’elaborazione della mia teoria dei ruoli, soprattutto negli
ultimi dieci anni, il concetto che mi ha intrigato di più è quello della guida, il personaggio che
potenzialmente media tra ruolo e controruolo, che può comporre la contraddizione: non integrare
completamente le polarità, ma muoversi verso la loro integrazione. Un’altra influenza sulla mia
teoria dei ruoli è quella della filosofia cinese: il mio maestro di T’ai Chi, un anziano signore nel
1949 era stato costretto ad espatriare, mi ha raccontato molte cose sulla cultura della Cina antica, e
ciò che mi ha colpito è l’idea che gli opposti non possono mai essere in un vero equilibrio, ma la
loro dinamica è una ricerca incessante di questo equilibrio, il loro continuo inseguirsi, avvicinarsi e
allontanarsi è il perpetuo movimento dell’universo. Il dramma è sempre la storia di un individuo
che è in cerca del proprio destino, e di qualcuno che gli sbarra la strada, e di come l’individuo,
attraverso il dramma, trova la propria strada aggirando o affrontando l’ostacolo, e quando è arrivato
alla meta, scopre quanta distruzione è stata necessaria. Dalla distruzione del vecchio viene il nuovo,
ma la distruzione è sempre accompagnata da un’intensa, insanabile tristezza, ma anche da una
profonda consapevolezza. Al suo livello più profondo, la mia teoria dei ruoli parla del convivere
con la consapevolezza dell’irriducibile inconciliabilità degli opposti. E per me questo è un mistero.
SP.
Il tuo ultimo libro, The Couch and the Stage, è il tentativo di collocare la Drammaterapia in
un contesto più ampio. Di che contesto si tratta?
RL. L’idea del libro è partita dopo la realizzazione del film. Ho iniziato a prendere in
considerazione quelle tre forme di terapia drammatica, analizzandole e mettendoli a confronto. Ma
mi sono reso conto che per capire a fondo i principi su cui si regge la Drammaterapia, c’è bisogno
di altri tipi di confronto.
Quindi ho cominciato innanzitutto ad interessarmi dei metodi di cura tradizionali, e ho viaggiato in
molti paesi non occidentali. Di recente, ad esempio, ho assistito ad una performance sciamanica in
Corea. Era una performance comunitaria: molti sciamani di quella area si erano riuniti in un piccolo
villaggio di pescatori per propiziare la nuova stagione di pesca. La performance era molto teatrale:
gli sciamani cantavano, danzavano raccontavano storie, impersonavano gli spiriti. Perché la cura
sciamanica consiste nell’imbrigliare il potere del mondo degli spiriti e condurlo dentro il corpo
dello sciamano, che a sua volta lo porterà alla gente. Questo è quello che fanno sia l’attore sia il
terapeuta. In un certo senso, si pongono in uno stato alterato di coscienza, alla ricerca di un potere
trasformativo dentro di sé, che stimola la crescita di un potere analogo nelle altre persone, pubblico
o pazienti, che entrano in contatto con loro. E mi sembra che le forme di cura tradizionali, che sono
ancora vive in moltissimi paesi, più di quanto possiamo immaginare, siano una metafora per tutte le
forme di cura, medicina occidentale inclusa.
SP.
Ma nel libro si parla anche della psicoanalisi delle origini…
RL. I primi psicoanalisti, che si riunivano intorno a Freud nella Vienna degli anni 20, erano quasi
tutti medici. L’idea di fondo della psicoanalisi era che l’inconscio, cioè i nostri processi mentali
interni, possono essere portati alla coscienza solo attraverso il linguaggio. Quindi ogni forma di
azione che non può essere verbalizzata è considerata una difesa, dannosa per il processo terapeutico.
Ogni manifestazione attiva da parte del paziente, Freud la chiamava acting out, che vuol dire: è
sbagliata, perché non è messa in parole, e mina il processo terapeutico. Ma molti dei suoi colleghi
avevano intuito che la cura non passa solo attraverso la parola, ma anche attraverso il corpo. Una
cosa che tutti gli sciamani conoscono bene. E ogni sciamano sa che la cura passa attraverso
l’immaginazione e attraverso l’azione. E molti di questi medici, come Otto Rank, Sandor Ferenczi,
Carl Gustav Jung e Wilhelm Reich sperimentavano tecniche di cura con l’azione: lavorando con il
gioco dei ruoli e con le inversioni di ruolo, col corpo e con l’immaginazione. Freud pensava che
questo fosse offensivo, e si trovò a scomunicare alcuni dei suoi più brillanti allievi, cercando
addirittura di impedire che continuassero il loro lavoro non in linea con l’ortodossia. E molti di loro,
come quelli che ho citato (tranne Jung, che è tuttora molto letto e seguito), furono dimenticati, e lo
sono tuttora, pur essendo di straordinaria attualità. Rank, per esempio, ha scritto delle pagine
memorabili sugli aspetti teatrali e rituali della cura; Reich, che fu perfino considerato matto e
rinchiuso in manicomio, lavorava sulla psiche attraverso il corpo: tutti questi maestri praticavano
una forma di Drammaterapia, o se preferiamo, Action Therapy, terapia d’azione.
Così ho cercato di tracciare un filo che lega l’idea sciamanica a varie forme di terapia attiva, dai
primi psicoanalisti che ho citato, fino alla Drammaterapia, attraverso Moreno e molte altre forme di
terapia d’azione, come certe applicazioni della terapia comportamentale, che usano il role-playing,
o il lavoro di George Kelly, che fu uno dei primi psicologi che avevano anche una formazione
teatrale, con il suo metodo del “ruolo stabilito”, consistente nell’aiutare il paziente a sviluppare un
ruolo che si contrasta i ruoli che egli assume nella vita quotidiana.
SP.
C’è un terzo filone interessante del tuo libro, che finora non era mai stato preso in
considerazione nella ricerca teorica della Drammaterapia, cioè il considerare l’aspetto
neurologico. Puoi farvene un accenno?
RL. Le ultime ricerche delle neuroscienze ci hanno fatto capire che il nostro cervello funziona in
un modo più complesso e integrato di quanto avessimo mai immaginato prima. Gli emisferi
cerebrali interagiscono tra di loro e con l’intero sistema nervoso per trattare il trauma, ad esempio, e
altre forme di sofferenza psichica in un modo che non può essere interamente compreso
cognitivamente, che ha a che fare col corpo (attraverso il sistema nervoso) e con l’immaginazione
(attraverso l’emisfero destro). Questo è alla base di quello che ho chiamato “la natura drammatica
del cervello”.
SP.
Un’ultima domanda, legata all’attualità. L’11 settembre, “il giorno che ferirono New
York”, per usare le parole del grande Leonard Cohen, è stato un trauma per l’intera città. Che
ricadute ha avuto sul tuo lavoro di drammaterapeuta?
RL. Come molti altri a New York in quei giorni, ho sentito il bisogno di dare una mano, e di
lavorare con quante più persone potevo aiutare. Ho partecipato ad un progetto nelle scuole per
sostenere i bambini che potenzialmente traumatizzati dall’evento. Una di queste scuole aveva una
finestra che guardava direttamente sulle torri, e i bambini avevano visto quell’inferno di fiamme e
di fumo. Con loro, ho realizzato la drammatizzazione di una storia, che hanno intitolato Standing
Tall, che vuol dire essere coraggiosi, camminare a testa alta. Questo era il nome di un villaggio
immaginario, in cui ognuno dei bambini aveva un ruolo. A poco a poco, abbiamo iniziato ad
accostare questo villaggio immaginario con la loro esperienza reale. E quando hanno messo in
scena questa storia davanti all’intera comunità, i loro genitori e i loro insegnanti per la prima volta
hanno cominciato a parlare dei propri vissuti, a dare voce ai propri sentimenti. Dal progetto è stato
realizzato un film con lo stesso titolo, che viene utilizzato in molte scuole d’America.
Ho lavorato molto con individui, gruppi e comunità. Non è detto che tutti quelli che hanno vissuto
simili esperienze sviluppi quello che è chiamato clinicamente PTSD (Post Traumatic Stress
Disorders), ma è sicuro che tutti hanno bisogno di parlarne, di esprimere le proprie emozioni per
poterle rielaborare, e il teatro è stato utilissimo in questo senso.
Bibliografia essenziale:
Drammaterapia, concetti, teorie e pratica, Edizioni Universitarie Romane,1999 (ed.or.1986)
Persona and Performance, Jessica Kingsley, London, 1993
The Double Life. Essays in Drama Therapy, Jessica Kingsley, London, 1996
New Essays in Drama Therapy, C.C.Thomas, Springfield, IL., 2001
The Couch and the Stage, Aronson, Lanham (MD), 2007
IL FOOL NOSTRO COMPAGNO
Intervista con Madeline Andersen-Warren ed Anna Seymour, organizzatrici della Conferenza
Nazionale della BADTh (British Association of Dramatherapy), che si è tenuta dal 4 all’8
Settembre 2005 a Wakefield, West Yorkshire, sul tema: I ruoli del Fool in teatro e in
drammaterapia.
A cura di Salvo Pitruzzella
Quando ci accomodiamo sui divanetti di quella che nell’antica dimora vittoriana era la sala della
musica, Bretton Hall sembra deserta. In realtà, ci sono ancora decine di persone che circolano nelle
ampie sale e nel parco (guardiani, inservienti, membri dello staff). Ma dopo quattro intense giornate
di voci, incontri, scambi, risate, discussioni accese, tutto appare silenzioso e fermo, e Bretton Hall
sembra tornata all’antica austerità. Ma nei nostri sguardi e nei nostri sorrisi sono ancora presenti gli
echi di quelle fantasmagoriche giornate, che hanno visto centinaia di persone, terapeuti e teatranti,
provenienti da tutte le parti del Regno Unito (con alcuni ospiti internazionali) accanirsi ad esplorare
la metafora del Fool, che è un personaggio dalle immense risonanze sia in teatro sia in terapia.
Nelle sue innumerevoli accezioni: lo sciocco, il sempliciotto delle fiabe che se la cava per la sua
ingenuità; il giullare, che scherzando dice la verità; il trickster, che confonde e svela; lo sciamano,
che fa il buffone per connettersi con il mondo spirituale. Tutto questo è stato analizzato dall’esterno,
attraverso relazioni e discussioni, e dell’interno, attraverso laboratori attivi. Io ho vissuto tutto
questo come una grande festa: il mio Giufà, il saggio e lo stolto, figura di forte impronta
mediterranea, che ho portato con me nel mio viaggio dalla Sicilia, si è incontrato con il suo
omologo Nasredin Hodja, raccontato in una delicata performance dall’artista israeliana Debra
Kaatz, ma anche con Parsifal, evocato da Roger Grainger attraverso un intenso workshop di ricerca
interiore, con la Comare di Bath di Chaucer, resa fedelmente, nella sua schiettezza al limite
dell’oscenità, dalla performance di Sue Jennings, con i Bouffons della tradizione francese, che il
prof. George Taylor ci ha presentato con ironico garbo e gran senso del gioco. Molti altri li ho solo
intravisti, e attendo con ansia la pubblicazione degli atti. Intanto, colgo l’occasione del primo
momento in cui Anna e Madeline sono finalmente libere, dopo quattro giorni di fatiche, per fare
quattro chiacchiere con loro.
S. Cominciamo con la domanda più ovvia: perchè il “Fool”? Come siete arrivate a scegliere
questo tema per il convegno?
M. Ci sono molti motivi. In primo luogo, ci interessava stabilire un confronto fra la tradizione
teatrale e la drammaterapia, e abbiamo cercato un personaggio che si collegasse con il grottesco,
una tradizione presente in molte culture nel teatro, nel carnevale e nel rito. Ed abbiamo lasciato
crescere quest’idea. Ma lo scopo principale era andare verso le basi teatrali della drammaterapia, e
ci è sembrato interessante mettere insieme sotto lo stesso tetto terapeuti e studiosi di teatro.
S. Come pensate che i partecipanti abbiano raccolto queste suggestioni?
M. Quando abbiamo pubblicato il primo avviso, con la richiesta di presentare proposte per relazioni
e workshop, eravamo realmente preoccupate se la cosa potesse davvero destare interesse. E quando
abbiamo avuto le prime risposte, è stato subito chiaro che i colleghi vedevano la figura del Fool da
punti di vista molto differenti, ma nessuno di loro era negativo: nessuno di loro vedeva il ridere o la
foolishness come qualcosa da analizzare, come meccanismi di difesa, ma come ricchezza. Tuttavia,
è anche in qualche modo difficile per il drammaterapeuta avere a che fare con questo personaggio:
siamo spaventati del fatto che si possa guardare al drammaterapeuta come fool, come sciocco in
molte sue manifestazioni. Così il nostro processo di comprensione è cominciato dal momento stesso
in cui sono iniziate ad arrivare le proposte. E penso che ognuno dei partecipanti abbia recepito le
nostre suggestioni secondo la propria prospettiva.
A. Penso che uno degli aspetti visibili di questo fatto è che in tutti gli eventi, che siano stati
workshop, relazioni o performance, si è sempre attivato un processo dinamico di discussione. E
questo è qualcosa che abbiamo fortemente auspicato. Il Fool è una figura dinamica; le strutture che
usiamo in drammaterapia devono offrire nel contenimento, ma anche apertura, in termini di favorire
la partecipazione: abbiamo provato a trovare modi interattivi fare partecipare il pubblico, per fornire
uno spazio in cui la gente può dare la voce alla propria prospettiva. Questo ci sembra importante,
perché è attraverso un processo di dialogo, in contesti come questo, che il campo della
drammaterapia si sviluppa.
S. Vorrei che sviluppaste l'analogia fra il drammaterapeuta e il Fool cui avete accennato prima.
Potrebbe essere un confronto infelice, poiché il Fool è spesso un emarginato.
M.. Qualcuno potrebbe vedere il drammaterapeuta come foolish, perché crede che lavorare con il
teatro sia efficace in terapia! Ma vorrei prendere in considerazione un altro aspetto del personaggio,
quello del “fool ingenuo”, che è un ruolo che il drammaterapista adotta spesso. Sembra dire: Non
sono foolish, non sono stupido, ma voglio incontrare il Fool che è dentro di me, che mi permette di
vedere l'altro senza interpretazione. Il drammaterapista è un "naïve inquirer", l’ingenuo che pone
domande. Siamo legati al teatro e alla sua tradizione di attori fuorilegge e marginali, ma anche con
lo sciamanesimo e l’arte della cura. I drammaterapeuti hanno accesso all’intera gamma delle
possibilità del Fool, e questo ci permette di incontrare più facilmente le persone che in qualche
modo sono state messe dalla vita in condizioni simili.
A. Penso inoltre che è molto importante che l’AGM (Annual General Meeting, il congresso annuale
dell’associazione) si sia tenuto all'interno di questo contesto. Tutte le discussioni teoriche e le
pratiche creative intorno al Fool, che abbiamo visto nelle relazioni, workshop e performance, hanno
avuto chiaramente un posto all'interno del dibattito formale dell’associazione. Così, alcune
problematiche sul ruolo del drammaterapista nella società, su come ci consideriamo
professionalmente e come dovremmo sviluppare la nostra professione, sono state illuminate
creativamente dalla metafora del Fool. Ha reso la discussione meno procedurale e più organica,
perché abbiamo lavorato col corpo, non solo con la mente.
S. Un ultimo punto: il rapporto fra il Fool e il potere, che è una caratteristica importante di questa
figura teatrale. Può aiutarci a comprendere meglio il ruolo del drammaterapeuta?
A. Penso che dobbiamo prendere in considerazione il Fool nei suoi contesti. Possiamo guardarlo in
termini puramente performativi e dire: il Fool è potente perché può spaventare il pubblico; può
minacciare, spiazzare ed essere imprevedibile, e quindi possiede un certo potere di manipolazione.
Ma c’è un altro aspetto, più connesso col senso di empowerment che col potere propriamente detto:
il Fool contiene in se stesso ruoli contraddittori. C’è un radicamento, in questo: il fatto che noi
possiamo contenere ruoli contradittori ed allo stesso tempo essere trasparenti a tale proposito. È una
figura che ci dà il coraggio di confrontarci con clienti che tutti gli altri hanno rifiutato, e la fiducia
che possiamo lavorare con loro, perché, a partire dal nostro assumere questo ruolo, possiamo
intravedere altre possibilità. Penso che vi siano molti sensi in cui il Fool può essere una metafora
interna per il drammaterapista, ma il più importante è questa funzione di tenere insieme ruoli
contraddittori, essere flessibili e dinamici, piuttosto che appiattiti su una posizione, che può renderci
fragili.
M.. Abbiamo avuto un workshop di TdO in questi giorni a Bretton Hall, e questo mi ha fatto
pensare al tema dell’oppressione. Il cliente che pensa: "tutto quello che posso fare è stare seduto e
guardare", è un oppresso; e quando la magia della drammaterapia lo porta a partecipare ad
un'azione, non dobbiamo dimenticare che là fuori c’è una realtà politica e sociale. Il Fool ha alle
spalle una storia di sopravvivenza in molte situazioni difficili. Non fa satira: la satira riflette e
commenta la situazione di fatto, mentre il Fool mette in moto qualcosa. Il Fool può mostrare la
follia degli altri, dello status quo politico. Trovo entusiasmante quando un cliente smette di praticare
la posizione del "natural fool", dello sciocco classico, il sempliciotto, e adotta quella del “wise
fool”, lo sciocco-saggio, che pone domande e lancia sfide a quelli che pensano di essere i veri saggi.
Penso che il Fool abbia anche un’importante valenza politica. Non è lo stessa cosa di dire: “il
personale è politico”, ma credo che sia pericoloso pensare che la terapia esista in un vuoto. Noi
veniamo a contatto con persone che soffrono come individui, ma non dobbiamo dimenticare che
molta gente vive in condizioni di grande disagio economico e sociale.
A. Condivido quello che Madeline ha appena detto. Dobbiamo essere consapevoli che viviamo in
un periodo in cui è veramente un miracolo che la gente non vada fuori di testa quotidianamente per
le condizioni di estrema povertà in cui molti vivono e non metta a ferro e fuoco le città. Penso che
uno degli aspetti liberatori del Fool è che una piccola persona può porre grandi domande.
Storie per mettere ordine nel caos
Conversazione con Ann Cattanach
A cura di Salvo Pitruzzella e Giancarlo Decimo
Il nome di Ann Cattanach è in qualche modo legato alla nascita della Drammaterapia e
della Play Therapy in Gran Bretagna. Vuoi raccontarci qualcosa di te e del tuo percorso di
ricerca?
Ho iniziato nei primi anni "60 come insegnante, anzi esattamente come insegnante di teatro
e formatrice in attività drammatiche per gruppi di insegnanti. In quel periodo sono entrata in
contatto con gruppi di bambini che presentavano difficoltà emozionali. Ho cercato delle strategie
per entrare in contatto con questi bambini, che, al di là della rabbia e delle manifestazioni
aggressive, lasciavano trasparire delle grandi potenzialità creative. Ed è apparso subito evidente che
il gioco teatrale poteva fornire a quei bambini una possibilità di esplorare molte delle cose che li
avevano resi così arrabbiati. Dopo questa esperienza, fu possibile iniziare in Scozia il primo corso
di formazione in Drammaterapia. Contemporaneamente, Sue Jennings iniziava un corso analogo
nell'Hertfordshire e un altro subito dopo presso l'università di York: il campo della Drammaterapia
in Gran Bretagna si andava espandendo. Anche in Olanda l'interesse per le terapie artistiche
cresceva, ed ebbi l'occasione di trascorrervi tre anni insegnando in un corso di Dramma e Musica in
terapia. Al mio ritorno in Gran Bretagna, decisi di dedicarmi interamente al lavoro clinico, e iniziai
una collaborazione con i Servizi Sociali di Norfolk, che mi concedevano una completa autonomia
rispetto ai casi da trattare. Ho avuto quindi l'occasione di confrontarmi con le più diverse
problematiche: donne anziane in case di riposo, bambini istituzionalizzati, pazienti dei servizi
psichiatrici, cercando sempre di approfondire i meccanismi interni del teatro e del gioco come
possibilità di entrare in relazione e di comunicare.
Come hai iniziato a lavorare con i bambini maltrattati e abusati?
Negli anni di Norfolk, il problema degli abusi sull'infanzia in Gran Bretagna diventava sempre più
visibile. Entrare in contatto con questi bambini è estremamente difficile, in quanto essi hanno
maturato dalle loro esperienze una grande sfiducia nei confronti degli adulti: era necessario quindi
trovare delle modalità di approccio in cui si sentissero sicuri e a loro agio. Molti di questi bambini
esprimevano dei disturbi nell'attaccamento, in quanto avevano subito abusi proprio dalle persone
che avrebbero dovuto prendersi cura di loro; bisognava trovare una strategia relazionale che non
fosse fondata sulla dipendenza. Molti erano stati allontanati dalle famiglie di origine e dati in
adozione o in affidamento; bisognava fare i conti col fatto che molte di queste nuove relazioni, a
prescindere dal loro essere "sufficientemente buone", non erano destinate a durare a lungo. Questi
bambini avevano un gran bisogno di capire che cosa era accaduto - non tanto al loro mondo
personale quanto al loro mondo sociale, e soprattutto di capire perché tanto dispiacere e
preoccupazione da parte degli adulti intorno a loro per ciò che era loro accaduto. E sembrava che il
loro più grande desiderio, in terapia, fosse di essere in condizione di poter spiegare a qualcuno come
ci si sente quando ti fanno del male.
La teoria della costruzione sociale si sviluppa dalla necessità di porre dei confini riconoscibili nel
contesto comunicativo che aiuti il bambino a sentirsi sicuro e a rendersi conto che c'è qualcuno che
può aiutarlo. Molti di questi bambini avevano un rapporto affettivo con le persone che avevano
abusato di loro, e questo era qualcosa di terribilmente difficile da esprimere, anche perché tutti gli
altri adulti mostravano disgusto per ciò che era accaduto.
Spesso i pedofili corteggiano e coccolano per molto tempo il bambino prima di abusarne: gli
prestano attenzione, giocano con lui, gli fanno dei regali e lo rassicurano. Scelgono di preferenza i
bambini più vulnerabili a causa di carenze affettive. Il processo di costruzione di una relazione
terapeutica con questi bambini è molto delicato, in quanto molte delle azioni e delle proposte del
play therapist sono simili a quelle dell'adulto abusante: il terapista dice: questo è un posto sicuro in
cui possiamo giocare; il pedofilo dice: questo è il nostro posto segreto in cui possiamo fare delle
cose insieme. Il terapista parla di riservatezza, il pedofilo di segreto. Nel gioco terapeutico il
bambino frequentemente proietta la relazione di abuso che ha vissuto: è importante quindi che limiti
e confini siano molto chiari e netti.
Quali sono le "regole del gioco" che consentono questa chiarezza?
Innanzi tutto il contratto terapeutico: è necessario esplicitare al bambino gli scopi del processo. Che
sono quelli di aiutarlo a tirare fuori e mettere ordine nelle cose che lo spaventano. Poi la
definizione dello spazio. Io utilizzo uno speciale materassino su cui ci sediamo: quello è lo spazio
del gioco. Io siedo ad una estremità e lui all'altra; lo spazio in mezzo è quello in cui mettere i
giocattoli. E quando siamo in questo spazio, il bambino è libero di dire, fare e giocare come vuole
senza timore. Quindi alcune semplici regole di comportamento: è proibito colpirsi o farsi del male
e, nel caso di abusi sessuali, perfino toccarsi. Io annuncio al bambino: "Nel nostro lavoro non
parleremo di te, ma faremo delle storie insieme. Però scommetto che le cose che accadono ai
personaggi delle storie somigliano molto a quelle che sono accadute a te."
Ricordo una bambina di sette anni con la quale ho lavorato per un anno, durante la attesa
dell'udienza in tribunale. Per un anno intero ha disegnato scatole e contenitori chiusi, spesso dorati e
argentati, eseguiti con molta arte. Dopo la sentenza, è venuta a ringraziarmi, dicendo: "Tu sei l'unica
persona con la quale ho potuto parlare dell'abuso che ho subito." In realtà non ne aveva mai parlato.
Nel suo lavoro del disegnare scatole e contenitori si era attivato un processo di comprensione dentro
di lei, anche se non era mai stato esplicitato verbalmente.
Che storie raccontano i bambini?
Soprattutto i bambini più piccoli raccontano storie di mostri e di piccole creature indifese. Spesso i
mostri divorano le piccole creature. Questo esprime il loro sentire rispetto all'abuso subito: essere
divorati. Non parlano mai di sesso: la loro paura è relativa soprattutto alla presenza di un grande
corpo che incombe e li minaccia.
Una cosa da tenere in mente è il fatto che quasi sempre noi non sappiamo cosa l'abusante abbia
detto al bambino. Una bambina ha passato tutto il primo periodo di terapia infilzando le bambole,
guardandomi costantemente. Io accettavo tranquillamente tutto questo, fino al momento in cui la
bambina mi ha raccontato che il padre aveva minacciato di ucciderla se avesse rivelato cosa era
successo. Io le ho assicurato che il padre era stato molto monello, e che se fosse venuto lì lo avrei
sculacciato. L'idea che io pensassi a questa figura minacciosa come a un bambino da sculacciare, e
di conseguenza non avessi paura di lui, ha avuto l'effetto di farla rilassare: da allora ha iniziato a
giocare.
Nel corso della terapia, spesso i bambini fanno domande: vogliono sapere del sesso, del perché
qualcuno ha toccato le loro parti private, perché tutti questi adulti si preoccupano per loro. E'
importante in questi casi comunicare delle corrette informazioni, adeguate al loro sviluppo
cognitivo. Questo li rassicura sulla sincerità della relazione e li aiuta a rilassarsi .
Come si trasformano le storie dei bambini nel corso del processo terapeutico?
I bambini devono essere liberi anche di ripetere la stessa storia per tutto il tempo che vogliono.
Spesso accade che un bambino ripeta la stessa storia per mesi e mesi, senza mai cambiarla, fino ad
un momento in cui dice: "Basta. Con questa ho finito."
La ripetizione consente loro di avere il controllo sul materiale del racconto, ed anche in qualche
modo di acquisire una certa distanza emotiva: una storia ripetuta molte volte diventa sempre meno
terrorizzante. Questo perché le storie raccontano in termini metaforici non solo le emozioni e i
sentimenti del bambino ma anche gli eventi reali da cui è necessario prendere le distanze.
Ho avuto in terapia un bambino figlio di genitori tossicodipendenti che quando erano sotto l'effetto
dell'eroina giravano dei video pornografici in cui il padre abusava del figlio. La sua storia era quella
di una famiglia così composta: il Bambino Spaziale, il Padre Karatèka e Supermamma. Tutti quanti
viaggiavano in automobile dal Mondo Buono a Mondo Cattivo. Nel Mondo Cattivo le persone
buone diventano cattive a causa di un serpente velenoso che li morde nel braccio. Il gioco che il
bambino usava per raccontare il Mondo Cattivo era una continua collisione dei pupazzi, che
venivano sbattuti violentemente l'uno contro l'altro, in una gran confusione. Ho cercato di chiedergli
di spiegare più esattamente che cosa accadeva nel Mondo Cattivo, ma era impossibile: quel mondo
era il Caos, e il caos non può essere spiegato, può solo essere esperito. Ha giocato con questa storia
per un anno intero, una volta alla settimana, fino a quando mi ha comunicato che quella storia era
finita.
Come interviene il terapista nella costruzione delle storie ?
Io non intervengo nello sviluppo della storia; mi limito a fare delle domande rispetto a cosa succede
dopo. Talvolta, quando il bambino conclude la storia, gli dico che non sono d'accordo sul suo finale
e che io avrei concluso in un altro modo, ma mettendo in chiaro che questa è la mia conclusione e
quella è la sua.
Ci dici qualcosa sull'armamentario del play-therapist?
Porto sempre con me due grossi sacchi di giocattoli. Ciascuno di essi contiene alcuni sacchetti più
piccoli, in cui i giocattoli sono organizzati per categorie. Uno è quello che contiene famiglie e
ambientazioni domestiche. Dico famiglie perché spesso è necessario averne parecchie, in quanto
molti dei miei bambini hanno rapporti con più famiglie (famiglia d'origine, famiglie affidatarie, che
spesso cambiano, famiglia adottiva). Ho diverse famiglie Simpson, che i bambini chiedono molto
spesso: è importante essere aggiornati per essere buoni terapisti. Se hai Batman e non Bart Simpson
non sei nessuno. Poi c'è un sacchetto di eroi e mostri, uno di bambole più grandi, uno di creature
mitiche, uno di animali e via dicendo. C'è anche un sacchetto di carta e colori di vario tipo:
principalmente pennarelli ma talvolta uso anche colori digitali.
Io non propongo al bambino il tipo di gioco. Gli dico soltanto: "Qui c'è il sacco: scegli quello che
preferisci." C'è però una regola: un sacchetto per volta. Una volta che il bambino ha esplorato il
contenuto di tutti i sacchetti gli è concesso di metterne insieme più d'uno. Quello che assolutamente
non può fare è di rovesciare il contenuto del sacco tutto insieme. Porto sempre con me anche una
vaschetta con la sabbia per ambientare le storie. Quando il bambino inizia a mettere i pupazzi nella
vaschetta, gli chiedo: "Che posto è questo? E' un buon posto o un cattivo posto?". Il bambino quasi
sempre risponde che è un posto cattivo; allora gli chiedo se è un posto caldo o freddo, e via dicendo.
Quando il clima è sufficientemente rassicurante, gli chiedo: "Raccontami una storia su questo posto.
Io la scriverò su un libro." Ho dei bellissimi quaderni (di produzione italiana, tra l'altro) in cui
trascrivo tutte le storie che i bambini raccontano, corredandole con i loro disegni. Talvolta il
bambino chiede perché io scriva la sua storia, ed io gli rispondo: "Perché tu sei importante, e io
voglio ricordare la tua storia per ricordarmi di te."
Per concludere questa conversazione, puoi sintetizzare quali sono a tuo parere i fattori
terapeutici nella Play-Therapy?
Nella teoria della costruzione sociale, l'identità si costruisce attraverso le storie che tu racconti di te
stesso e le storie che gli altri raccontano su di te. Le storie che esploriamo in terapia sono le storie
che soddisfano il bambino. Che raccontano la sua storia personale ma all'interno di un contenitore
immaginativo rassicurante. Le ricerche hanno dimostrato che ciò che produce un recupero psichico
del bambino è principalmente la relazione empatica, e il modo migliore per apprendere l'empatia è
attraverso il gioco immaginativo. Attraverso l'immaginazione è possibile prendere il ruolo dell'altro.
Giocare un gioco immaginativo insieme ad un bambino implica dargli ascolto e prestargli
attenzione. Attraverso questa relazione il bambino rinegozia la sua identità sociale e comprende che
può riguadagnarsi la possibilità di sopravvivere alle catastrofi che lo hanno colpito.
(I curatori ringraziano Melania Costa e Francesca Peri per la loro collaborazione)
Bibliografia di Ann Cattanach:
Play Therapy with abused children, 1992, London, Jessica Kingsley Publishers
Drama for people with special needs, 1992, London, A & C Black
Play Therapy; Where the sky meets the underworld, 1994, London, Jessica Kingsley
Publishers
Children's stories in Play Therapy, 1997, London, Jessica Kingsley Publishers
FONTI:
Pionieri della Drammaterapia: Peter Slade, Teatri delle Diversità/Catarsi, n.25, Pesaro-Urbino,
2003;
Pionieri della Drammaterapia: Roger Grainger, Teatri delle Diversità/Catarsi, n.26/27, PesaroUrbino, 2003;
Pionieri della Drammaterapia: Sue Jennings, Teatri delle Diversità/Catarsi, n.32, Pesaro-Urbino,
2004;
Pionieri della Drammaterapia: Robert J. Landy, Teatri delle Diversità/Catarsi, n.43, PesaroUrbino, 2007;
Il Fool nostro compagno, Teatri delle Diversità/Catarsi, n.36, Pesaro-Urbino, 2005
Storie per mettere ordine nel caos, Atti del convegno “Arte e Trasformazione. Le ArtiTerapie tra
promozione del benessere, cura e prevenzione”, Palermo, 8/9 dicembre 2000;