Enrico A. Valsecchi Mar di Sardegna tempeste, bastimenti, riviere

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Enrico A. Valsecchi Mar di Sardegna tempeste, bastimenti, riviere
Enrico A. Valsecchi
Mar di Sardegna tempeste, bastimenti, riviere
Editori Fratelli Frilli, Genova 2002
Capo Caccia, la barca del postino
Il faro di Capo Caccia, costruito dall’Ufficio del Regio Genio Civile e costantemente rimodernato,
non ha mai cessato di funzionare dal 1864. Era stato realizzato in seguito ad insistenti pressioni del
governo francese a causa dell’aumentato volume dei traffici tra Marsiglia e la Tunisia. Veniva
rifornito via mare da generazioni di marinai che alternavano la pesca al trasporto dei viveri e della
posta.
Dell’ultimo di costoro non si sarebbe saputo più nulla: si chiamava Francesco Lubrano ed era molto
conosciuto. Così non si sorprese nessuno, la mattina del 16 febbraio del 1924 quando quasi tutti i
marittimi e i pescatori di Alghero si avviarono verso una “loro” chiesa, quella della Madonna del
Rosario, per ricordare sia lui che il figlio Luigi, scomparsi inspiegabilmente negli ultimi giorni di
dicembre.
Il seicentesco edificio non avrebbe mai potuto contenere la folla che era via via convenuta: era
presente buona parte degli abitanti della città murata. Tragedie sul mare se ne erano sempre
verificate, ma aveva contribuito a dare eccezionalità all’evento sia la notorietà del Lubrano sia le
circostanze della sua scomparsa davvero “inammissibili”.
Lubrano era un uomo di mare che per anni e anni aveva navigato con la propria barca per assicurare
il servizio postale e i rifornimenti sia al faro che al semaforo di Capo Caccia. Tra un viaggio e
l’altro si era dedicato alla pesca, ma anche alla esplorazione delle innumerevoli cavità marine del
promontorio. A suo merito, soprattutto la scoperta di una nuova grotta di Capo Caccia,
straordinariamente ricca di delicate concrezioni tanto che le fu subito dato il nome di Grotta dei
Ricami. Successivamente si aggiunsero ai ricami i pizzi, per imitare di una nota rivista femminile
intitolata “Pizzi e Ricami” e tale denominazione è rimasta. Del Lubrano il gen. Raffaele Catardi
scrive “con sé porta due stranissimi arnesi da pesca: un sacco e una lenza lunghissima. Con il sacco
giunge silenziosissimo a prima sera sui gruppi di gabbiani addormentati e ne insacca fin che può
finché con l’allarme non si leva il generale e assordante coro di una protesta minacciosa. La lenza
gli guida, come il filo di Arianna, i passi del ritorno nelle peregrinazioni entro le viscere del tarlato
colosso”.
Di lui si diceva che sapesse di misteriosi nascondigli usati durante la Grande Guerra ma era una
persona riservata.
Per quanto riguarda la Grotta di Pizzi e Ricami, è possibile che in un passato indeterminabile della
nuova cavità qualcuno fosse già a conoscenza, ma è certo che la sua esistenza era stata
“dimenticata”. L’antro marino “ritrovato” non era e non è di facile accesso in quanto l’ingresso è
unicamente dal mare, a qualche metro di altezza. Le difficoltà d’accesso si riducono notevolmente
se si hanno giusti suggerimenti su dove mettere mani e piedi, altrimenti l’individuazione
dell’ingresso è piuttosto laboriosa.
Ma il Lubrano di tempo ne aveva abbastanza. Capo Caccia per lui non aveva segreti. Base di
partenza per le sue esplorazioni doveva essere il deposito della Marina della Dragunara. E di lì
sembra sia partito per quello che doveva essere il suo ultimo viaggio. Lo avrebbe compiuto questa
volta insieme al figlio, su quella stessa barca sulla cui vela aveva cucito un disco nero per farsi
riconoscere a grande distanza dal personale del faro. In cima all’albero aveva collocato un rametto
di palma benedetta. Il vento era di levante, a raffiche, insidioso se si vuole per persone inesperte,
non certo per chi aveva trascorso un’intera esistenza in quelle stesse acque. Lubrano sicuramente ne
faceva parte.
Scomparve insieme al figlio senza lasciare tracce. Non venne ritrovato nemmeno il più piccolo
relitto dell’imbarcazione. I suoi amici e colleghi di lavoro non si dettero pace e per anni cercarono
invano una ragione.
(pagg. 136-138)
***
La regata dell’Airel
II 22 aprile 1978 il dottor Hervè Ansaldi era uscito di casa di buon ora: doveva incontrare
all’aeroporto di Ajaccio un amico e collega medico, il dottor Francois Roullano. Entrambi avevano
deciso di svolgere ricerche personali e private sullo yacht a vela Airel, scomparso, durante una
regata, al largo di Marsiglia.
Dal 10 aprile non si avevano più notizie dell’imbarcazione lunga dieci metri, di colore bianco, con
la coperta dipinta di grigio. L’Airel partecipava ad una regata indetta da un giornale francese. Si
trattava dalla famosa Settimana del mare. A bordo dell’Airel si trovavano 7 velisti tutti medici di
varie regioni francesi.
Non ci furono incidenti, ma l’ultimo giorno della regata segnò il mancato rientro dell’Airel nel
porto di Marsiglia. Nessuno aveva visto nulla durante le giornate di gara, non c’erano state chiamate
radio, né razzi di segnalazione. Nemmeno un’improvvisa burrasca, a detta dei partecipanti alla
regata. Nessuna nave comunicò di essere entrata in collisione con una barca a vela. Non si
trovarono relitti di nessun tipo.
Il piano di volo dell’elicottero francese prevedeva una discesa lungo le coste occidentali di Corsica
e Sardegna, sino a Capo Caccia e una tappa per il rifornimento di benzina a Fertilia. Dall’elicottero,
un Hughes 269, alle 12 e 30 era in vista la pista, una sosta di meno di un’ora e successiva partenza.
Alle 13 e 30 l’elicottero era di nuovo in volo per perlustrare il tratto di mare esterno a Capo Caccia.
Giunto all’altezza della Foradada, l’Hughes perdeva rapidamente quota, si infilava in mare e andava
a fondo rapidamente. Il dottor Ansaldi riusciva a sciogliere la cintura di sicurezza e risaliva in
superficie allo stremo delle forze dopo aver cercato disperatamente di liberare il suo amico
prigioniero delle lamiere contorte. L’Ansaldi sarà salvato dall’equipaggio di un peschereccio
algherese, il Sant’Antonio accorso subito sul posto.
Il corpo del Roullano verrà ritrovato da un sub senza dubbio coraggioso, Alberto Cuniberti
incaricato dalla Capitaneria di Porto delle ricerche a 30 metri di profondità. Si svolse la solita
inchiesta che, come al solito rimase segreta. Voci raccolte a Parigi attribuirono la perdita
dell’elicottero ad un missile. Il disastro di Ustica non si era ancora verificato e nessuno credette a
questa versione definita fantasiosa. Il caso era chiuso.
Il 6 maggio il giornale francese “Le Provencal” pubblicava un avviso dei familiari delle vittime
dell’Airel che si rivolgevano a tutti gli uomini di buona volontà di Sardegna e Corsica “per avere
notizie dello yacht che avrebbe potuto essere ancora alla deriva o su qualche tratto deserto di costa.
Non venne ritrovato alcun relitto. Il caso era veramente chiuso”.
(pagg. 143-144)
***
Il 5 febbraio due pescatori, Costantino Tortura e Mario Satta, mentre recuperavano la rete presso
l’Isola Piana, avvistavano anche il corpo di un sub con indosso solo cappuccio e calzoni. Il recupero
era impossibile. Si pensò ad un marinaio del Minerve riuscito ad uscire dallo scafo. Commozione e
curiosità si sprecavano.
Dopo qualche giorno in un anfratto nella spiaggia di Porto Ferro veniva trovato un giubbotto da sub.
Il nome della fabbrica era lo stesso dei calzoni e del cappuccio trovati sul corpo dell’uomo
rinvenuto a Capo Caccia: Dykmaterial Goterber Sweden. Ma siccome nessuno è mai riuscito prima
a morire e poi a togliersi un giubbotto, si escludeva che il corpo fosse quello di un componente
l’equipaggio del Minerve.
Il sommergibile probabilmente si era perso in una ben nota fossa sottomarina, non di duecento ma
di duemila metri. Nessuno sapeva o voleva dire se a bordo ci fossero apparecchiature o armi
atomiche: quindi era tranquillizzante per tutti credere che l’unità fosse posata sul fondo di un abisso.
Se le illazioni sul Minerve erano già “in archivio”, quelle dell’Interpol fatte in Svezia riferivano in
prosieguo della scomparsa di un giovane, certo Carry Jan Gunnerus, ma nessuno verrà mai a
reclamarne il corpo. Sarà sepolto all’Argentiera.
Intanto il mito del marinaio scomparso ne aveva prodotto in quei giorni un altro: quello della
straordinaria sconvolgente bellezza del giovane nordico anche da morto. In attesa che venisse
disposta la rimozione della salma, cronisti e carabinieri che tornavano da una stradina di Porto Ferro
incontrarono delle giovani donne che si recavano sulla spiaggia. “Vogliamo vedere il marinaio
bello” dicevano ai militari infastiditi. Una Sardegna molto diversa da quella dei tempi dell’Orazio.
Di visitatori con ben altri propositi ne vedrà molti altri il panfilo Madette, trovato incagliato sugli
scogli di Cala Viola. Era stato completamente saccheggiato. Non erano stati trovati documenti. Le
autorità recuperarono solo una radio di grande potenza. Lo scafo in navigazione era di difficile
individuazione perché aveva la coperta di colore celeste chiaro alternato al bianco. L’identità degli
occupanti e il motivo del naufragio rimarranno un mistero. Il ping-pong delle ipotesi andava dai
giochini dei servizi segreti al contrabbando.
Negli anni 70 la situazione sarebbe ancora cambiata: a dominare la scena nei mari di Sardegna non
ci sarebbero stati più i venti di burrasca, gli incontri con il nemico, gli errori di rotta o gli incendi,
che non sarebbero scomparsi e non scompariranno mai, ma altri elementi, talvolta con aspetti di
difficile interpretazione.
Navigare su un’imbarcazione da diporto non era più un privilegio di pochi: chiunque poteva
noleggiare un battello per una breve crociera su uno dei circuiti più praticati: sud della Francia,
Corsica, Sardegna.
Attrezzato per questo genere di viaggi era il due alberi La Palombe, di proprietà del sig. Guy
Vacheret, marsigliese, di anni 30, il cui ultimo indirizzo conosciuto era a Gif sur Ivette. La Palombe
era partita da Cannes il 24 giugno 1973 con quattro passeggeri due ragazzi e due ragazze di Parigi,
tutti giovanissimi.
A causa del mare brutto iniziato subito dopo la partenza i quattro giovani erano rimasti quasi
sempre in cuccetta. Ma anche Vacheret quella notte era stanco ed aveva qualche dubbio sulla sua
esatta posizione; ma riconosciuto il faro di Capo Caccia si era sentito rinfrancato perché avrebbe
potuto finalmente riposare alla tranquilla insenatura di Porto Conte, a ridosso del maestrale. Quando
cominciò a schiarire, Vacheret chiamava i suoi ospiti per il caffè che aveva appena fatto. Il vento
era un po’ calato e la navigazione non presentava difficoltà.
A sei miglia circa di distanza dalla costa si metteva di traverso al Palombe una grossa imbarcazione
con una sola vela alzata che navigava in maniera pericolosa per sé e per gli altri. Si andava verso
una rotta di collisione, ma la Palombe riuscì a portarsi fuori pericolo. Vacheret faceva ululare il
corno da nebbia e poi compiva un giro intorno passando vicinissimo per una chiamata alla voce. La
barca sembrava abbandonata.
Vacheret per non avere fastidi si guardava bene dal prenderla a rimorchio pur sapendo che in base
alle leggi del mare una barca senza nessuno a bordo diventa di proprietà di chi la trova per primo.
Il capitano della Palombe riferiva quanto accaduto alle autorità marittime e non ebbe più alcun
problema perché in fin dei conti si era comportato in maniera corretta.
Durante la notte successiva, lo scafo misterioso di circa 12 metri, avvistato al largo, si avvicinava a
terra presso Alghero, sulle scogliere del Lungomare Dante, sempre navigando come se fosse alla
deriva e senza luci.
Quando sembrava ormai diretto a fracassarsi sugli scogli riusciva però a cambiare rotta salvandosi.
Alcuni giovani che avevano trascorso la notte in un locale da ballo avevano però assistito alla strana
navigazione del veliero e impensieriti avevano avvisato le autorità. La capitaneria di porto fece
uscire una motovedetta che perlustrò la costa sino a Poglina. Il veliero era scomparso. Era una
imbarcazione a vela e quindi era da escludere, come si era ritenuto in un primo tempo, che si
trattasse di un grosso motoscafo con una sola persona a bordo, partito il giorno 22 dalla Francia; un
messaggio per le ricerche era stato infatti inviato da Radio Marsiglia ed era stato ricevuto dalla
Radio Costiera di Porto Torres.
Il 20 ottobre 1976 un pescatore di Alghero, G.T. di 50, anni lasciava come di consueto la banchina
del porto peschereccio con la propria barca a motore sulla quale aveva con sé il suo compagno
abituale: un grosso cane bianco. Era diretto all’Isola di Maldiventre e aveva stabilito di rimanere in
mare qualche giorno. Dopo una settimana i familiari si impensierivano, anche se sapevano che era
un marinaio esperto. Dopo qualche esitazione, per non destare allarmi inutili, decidevano di
avvisare la Capitaneria di Porto. Venivano condotte ricerche accurate per diversi giorni ma
inutilmente. Si escludeva una disgrazia dovuta al maltempo perché il mare, sebbene ci fosse sempre
un insidioso scirocco, era rimasto comunque calmo.
Dovevano passare ancora molti giorni prima che finalmente la barca venisse ritrovata intatta dai
familiari, ma vuota e con la prua rivolta verso il porto; il serbatoio era a secco segno che il motore
aveva funzionato per molte ore sino alla località Le Croci. Del pescatore nessuna traccia e
nemmeno del suo cane. Nessuno si è mai potuto spiegare come fosse scomparso. Nessuno in
particolare credeva che potesse essere caduto in mare. Eppure “doveva” essere accaduto. Del cane
si era ipotizzato che avesse voluto volontariamente seguire il padrone. Ma era una settimana
sfortunata: il giorno 23 il catamarano Corsair II partiva dal porto di Ajaccio con destinazione finale
Palermo, ma non giunse mai in Sicilia e da nessuna altra parte: se ne persero completamente le
tracce.
[…] Il 14 novembre 1977, durante la notte, il panfilo Malamoc III gravemente danneggiato si
incagliava per la forte risacca tra le rocce di Torre Nera a Porto Ferro. L’imbarcazione, arredata
lussuosamente, lunga 16 metri, risultava iscritta al compartimento marittimo di Dunquerque. Il
panfilo era stato frettolosamente abbandonato dagli occupanti dopo il naufragio.
I carabinieri giunti sul posto troveranno degli indumenti sulla spiaggia e le impronte di un uomo e
di una donna. Non si sapranno mai i motivi per i quali il Malamoc fosse arrivato a Porto Ferro.
Informato dell’incidente giungerà in Sardegna, per compiere un sopralluogo insieme al capitano
Giuseppe Prandi della Capitaneria di Alghero, l’ing. Vincent Ballu, residente in Francia a Eperney,
in qualità di rappresentante del proprietario del panfilo al quale era stato rubato da un porto privato
di Tolone. La Sarda Sub si incaricherà del recupero con l’impiego di palloni idrostatici. Nel
frattempo il Malamoc era stato devastato e saccheggiato.
II comandante del cargo Vita Sea, battente bandiera greca, a un giorno di distanza dal porto di
destinazione aveva fatto il punto nave a circa 60 miglia a ovest di Capo Caccia e aveva comunicato
al suo armatore al Pireo il giorno e persino l’ora del previsto arrivo a Porto Buc, sulla costa
meridionale francese vicino a Marsiglia.
L’attracco era previsto per le ore 14 del 6 maggio 1978. Il mare non era buono ma certo non tanto
agitato da creare problemi ad una nave di 14.000 tonnellate. Diciotto anni non sono troppi per una
nave sottoposta a regolari interventi di manutenzione: il Vita Sea era infatti entrato di recente in
bacino a Singapore. Il cargo partito da Porto Said aveva a bordo 11.000 tonnellate di minerale di
cromo ammassato nelle stive, mentre in coperta era stato sistemato legname lavorato per decine di
metri cubi. Oltre all’equipaggio erano a bordo anche due donne e un bambino. In totale 22 persone.
La nave non arrivò mai a Marsiglia.
Le ricerche venivano condotte senza risparmio. L’armatore Spiros Varautsas noleggiava in
Sardegna un aereo e alcuni pescherecci. Dopo qualche giorno, una nave da guerra americana
recuperava il corpo senza vita di un naufrago al largo dell’Asinara. Nello stretto di Bonifacio un
pescatore di corallo trovava il corpo di un altro naufrago e quello di una delle due donne. Le
condizioni del mare e la manutenzione della nave erano i primi elementi su cui si sarebbe aperta
l’inchiesta delle autorità marittime. Non si trovava nessuna ragionevole spiegazione della
scomparsa. Anche l’incontro con un’onda anomala che avrebbe rotto la chiglia della nave era
scartata. Unico indizio il tipo di carico: il cromo stimato in circa due miliardi: importante nella
industria bellica. La circostanza più inquietante della tragedia era la mancanza di una qualsiasi
richiesta di soccorso: non solo dalla stazione radio di bordo ma nemmeno da un trasmettitore
automatico di emergenza. Tuttavia prima del misterioso avvenimento che precedette la scomparsa
della nave era intercorso qualche minuto il tempo necessario per prendere i salvagenti e allacciarli
correttamente come veniva accertato dall’esame sui corpi dei naufraghi.
La mancanza di ustioni o fratture portava ad escludere un incendio o un’esplosione a bordo. Sulla
stessa rotta era scomparso due anni prima in analoghe circostanze un altro mercantile spagnolo
l’Angel.
L’alto numero di imbarcazioni in difficoltà aveva fatto nascere una nuova figura professionale: il
soccorritore d’alto mare, un mestiere che sembrava prerogativa di olandesi e tedeschi. Giovanni
Camedda, pilota dei rimorchiatori Vincente e Tenace, era in grado di lasciare le banchine di Porto
Torres con qualsiasi tempo e di rimanere in mare per giorni navigando in condizioni proibitive. Il 7
maggio 1978 il ministro della Marina Mercantile Vittorino Colombo conferiva a Camedda, che
aveva allora 39 anni, il premio “Avanti Tutta”.
(pagg. 145-151)