Percorso - Educazione Scientifica nella Scuola

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Percorso - Educazione Scientifica nella Scuola
Eppur si muove…
Diario di un percorso didattico sugli aspetti dinamici della Terra
realizzato nella scuola secondaria di I grado
GRDF
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Daniela Sorgente, sc. sec. I grado “Pieraccini, Rosselli, Verdi”- Firenze
Fabio Olmi (coordinatore), SSIS Toscana-Università di Firenze-
Il Gruppo di ricerca didattica fiorentino (GRDF) è un Gruppo spontaneo che si occupa essenzialmente della progettazione
e sperimentazione di percorsi didattici che, per la scuola secondaria di I grado, hanno come discipline centrali di
riferimento la chimica e le scienze della Terra, ambiti particolarmente trascurati nell’i/a delle scienze sperimentali a questo
livello scolare.
Premessa
La principale finalità del percorso che qui viene affrontato è che gli studenti riconoscano terremoti e vulcani come
manifestazioni di un pianeta in continua evoluzione, che ne ricavino un primo modello che interpreti il loro
“funzionamento” e che possano collegare questi fenomeni ad una introduzione alla teoria della tettonica a zolle.
La dinamica terrestre è un argomento generalmente trascurato nella programmazione della scuola secondaria di primo
grado nonostante terremoti e eruzioni vulcaniche abbiano un grande impatto sugli adolescenti. Tenendo conto che questi
concetti in alcuni scuole secondarie di secondo grado non vengono affrontati prima dell’ultimo anno o non vengono
affrontati affatto, il rischio è che gli unici input che i ragazzi ricevano a riguardo derivino solo dalla televisione, dalla
conoscenza comune e da superstizioni, con conseguente formazione di idee errate.
Il percorso presentato intende sfruttare la carica emotiva che provocano questi fenomeni per sollecitare l’interesse degli
alunni, porre alcuni interrogativi (problemi) che questi fenomeni comportano e cercare di far giungere gli alunni a dare ad
essi risposte, rendendoli partecipi attivi della costruzione dei concetti e promuovendo un apprendimento efficace e
duraturo. I risultati largamente positivi conseguiti in alcune classi in due anni di lavoro sembrano mostrare che ciò è
possibile.
La narrazione che segue, ponendo in luce l’essenziale delle dinamiche reali di classe, rivela che l’approccio seguito è
quello proposto dal Piano nazionale “Insegnare Scienze Sperimentali” (ISS) il quale, muovendo dalla problematicità
costante che informa tutto il progetto di percorso, pone al centro dell’attenzione l’alunno e vede l’insegnante nel ruolo di
“accompagnatore” degli alunni stessi nel loro cammino di ricerca teorico-sperimentale (didattica laboratoriale). Il percorso
completo richiede circa19 ore di tempo scuola.
Un punto critico nell’affrontare la dinamica terrestre è la difficoltà di studiare alcuni fenomeni dei quali non si possono
effettuare esperienze e anche le simulazioni possibili sono difficili da realizzare e a volte poco significative: il tema
affrontato non si presta, nel suo insieme, a una intensa trattazione sperimentale come altri temi di tipo, ad esempio,
chimico e fisico; sono state allora affrontate alcune semplici simulazioni, senza comunque rinunciare ad una costante
problematizzazione e alla didattica laboratoriale, ricorrendo spesso anche all’uso di internet e di immagini attraverso il
computer.
Durata del percorso: 19 ore circa
“Cosa pensi che sia un vulcano?” (1 ora)
Ho iniziato il mio percorso con la presentazione in Power Point di immagini piuttosto forti, scaricate
da internet, di eruzioni vulcaniche e loro effetti. Mentre le immagini scorrono, ho letto alcuni brani
tratti dalle due lettere di Plinio il Giovane riguardanti l’eruzione del Vesuvio del 79 d.c. (Plinio il
Giovane, Lettere, VI, 16 e 20). Ho predisposto la presentazione in modo che alle mie parole
corrispondesse una immagine adeguata: nubi di cenere, strade coperte da cenere, i calchi di Pompei di
persone che fuggono, lapilli sparati in aria da una eruzione…. Lettura e presentazione durano circa 10
minuti. Mentre leggo, ogni tanto lancio un’occhiata ai miei alunni: l’attenzione di quasi tutti è
concentrata sulle immagini… bene!
A questo punto passo ad indagare quali sono le conoscenze che gli alunni posseggono sui vulcani ma
facendo in modo che rimanga memoria delle loro idee: chiedo loro di prendere un foglio e di scrivere
questa domanda “Cosa pensi che sia un vulcano? Rispondi e fai un disegno”.
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Questo provoca subito un bel po’ di domande, tra le quali anche quella: “Ci mette il voto?” Li
rassicuro subito su questo punto. Alla fine tutti si mettono al lavoro e li informo che hanno un tempo
massimo di un quarto d’ora.
Il lavoro si svolge abbastanza tranquillamente, però chi è a corto di idee sbircia il compagno e alcuni
lavori stanno venendo uguali... Li invito a lavorare ognuno per proprio conto. Finito il tempo ritiro gli
elaborati e li osservo velocemente.
Tutti gli alunni hanno disegnato il vulcano a forma conica, alcuni hanno disegnato fianchi così ripidi
da essere quasi verticali. Alcuni hanno disegnato fumo e lapilli, ma c’è anche chi ha disegnato un
cono e basta. Tutti i vulcani hanno fianchi nudi e rocciosi; osserverò i disegni con più attenzione in
seguito, intanto ritorno al computer e mostro una serie di filmati di eruzioni dell’Etna, scaricati dal
sito www.vulcanoetna.it. Le eruzioni sono spettacolari (c’è anche il sonoro), alcune sono notturne, e
c’è qualcuno che già comincia ad accorgersi che il suo disegno è in qualche modo… inadeguato!
Dopo la visione dei filmati, che durano in tutto pochi minuti, chiedo ai miei alunni se c’è qualcosa che
cambierebbero nei disegni che hanno fatto. In molti alzano la mano. Un alunno mi dice che si vede
bene dalle immagini che la lava esce da più fori, anche dai fianchi del vulcano e non solo dalla
sommità, come invece ha disegnato lui. Qualcun altro dice che aggiungerebbe più fumo o più lapilli.
Un alunno dice che avrebbe dovuto disegnarlo di notte perché ha visto che di notte la lava si vede
bene, è molto luminosa e non se lo aspettava. Scrivo alla lavagna il nome del sito
(www.vulcanoetna.it). Invito infine gli alunni a visitare il sito indicato perché dal sito si può accedere
alla webcam per vedere l’Etna in diretta.
Concludendo, senza commentare per il momento le definizioni date di vulcano, aggiungo che la
spaccatura dalla quale avvengono le eruzioni si chiama cratere; quindi abbiamo concluso che un
vulcano può avere anche più di un cratere. Inoltre abbiamo visto come un vulcano non emetta solo
materiali fluidi come la lava, ma anche gassosi e solidi (fumo e lapilli).
“Ma cosa è allora un vulcano?” (1 ora)
Riprendo il discorso della volta precedente, ricordando le immagini viste e le conclusioni cui siamo
arrivati. Oggi cercheremo di stabilire cosa è un vulcano, giungendo ad una sua prima definizione
condivisa. Leggo alcune delle definizioni scritte dagli allievi nella lezione precedente: “è una
montagna che contiene lava; è pericoloso perché brucia”; “è una montagna collegata ad una enorme
caverna piena di lava”; “è una montagna dal cui interno esce lava con pietre”; “è una montagna fatta
di lava secca”; “è una spaccatura della terra, dato che al centro della terra c’è il magma questo
fuoriesce dalla spaccatura”.
Quasi tutti percepiscono il vulcano come rilievo; pochi hanno considerato emissioni solide e gassose;
per molti il materiale di eruzione viene direttamente dal centro della terra; qualcuno parla di uno strato
liquido che si trova al di sotto della crosta terrestre.
Senza trarre delle conclusioni premature, per arrivare ad una definizione condivisa di vulcano con
l’apporto attivo da parte degli allievi, mostro alcune immagini: si tratta di immagini di diversi tipi di
vulcano (con i fianchi più o meno ripidi) e immagini di montagne dai fianchi ripidi che però non sono
vulcani e chiedo agli alunni “Quale di questi è un vulcano secondo voi? Si può riconoscere solo
dall’esterno che un rilievo è un vulcano?”
Nelle immagini dove si vede fumo o lava naturalmente rispondono tutti di sì, ma nelle immagini dove
non ci sono segni visibili di attività vulcanica molti rispondono categoricamente di no. In presenza di
rilievi poco pronunciati tutti negano che l’immagine rappresenti un vulcano.
Alcuni, dopo aver rilevato che i vulcani possono presentarsi in eruzione o in fase di quiete,
commentano che in effetti un vulcano è sempre un vulcano anche se non è in attività, in contrasto con
altri che sottolineano che se non è in eruzione non è più un vulcano, ma si può più propriamente
definire una montagna.
Faccio notare allora che non basta soffermarsi sulla sola osservazione di quello che è l’edificio
vulcanico esterno, ma bisogna pensare che il vulcano è rappresentato anche da tutto ciò che si trova
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all’interno della struttura visibile. Questo li fa riflettere e la maggioranza conclude che anche se il
vulcano non erutta più è pur sempre un vulcano.
Allora ripropongo immagini di rilievi senza fumo e senza lava e chiedo come farebbero a stabilire se
è un vulcano o no. Una alunna risponde che bisogna sapere dove si trova quel vulcano e poi bisogna
informarsi se ci sono state eruzioni, chiedendo alle persone che abitano lì vicino, guardando sui
giornali e sui libri di storia.
A questo punto mostro loro le immagini di alcuni vulcani hawaiani (che hanno una forma quasi piatta)
non in eruzione e chiedo se, secondo loro, sono vulcani. Naturalmente la maggior parte dice di no,
quindi passo a mostrare immagini dei vulcani hawaiani in eruzione. Un alunno dice allora che queste
immagini sono di vulcani giovani: il vulcano nasce come spaccatura della crosta, poi l’edificio a
cono si forma via via che si deposita la lava tutta intorno. Rispondo che nella prossima lezione
verificheremo se questa affermazione può essere fondata. Intanto, tenendo conto di quanto visto e
discusso, vediamo di arrivare a definire cosa è un vulcano, rivedendo alcune delle definizioni della
lezione precedente alla luce delle nuove conoscenze: non è corretto affermare che un vulcano è una
montagna, dal momento che abbiamo visto che esistono vulcani quasi piatti; non è’ corretto dire che
emette solo lava, perché abbiamo visto che può emettere anche materiali solidi e gassosi; non è
corretto dire che se non è in eruzione non è più un vulcano, perché dopo l’eruzione segue una fase di
quiete.
Arriviamo infine ad una nuova definizione di vulcano. Suggerisco io la parola “struttura” e
l’espressione “edificio vulcanico” e, dopo discussione generale, la definizione condivisa è questa:
“ un vulcano è una struttura costituita da un edificio di varia forma ma caratterizzato da emissioni di
materiali solidi, liquidi e gassosi ad alte temperature, attivo nel passato o nel presente”. Scrivo la
definizione alla lavagna e invito gli alunni a copiarla sul quaderno di scienze; poi restituisco loro il
foglio dove hanno fatto il disegno e scritto la loro definizione e do loro la consegna per casa di
incollarlo sul quaderno e spiegare sotto, in base a quello che abbiamo visto e abbiamo condiviso, cosa
c’era di non corretto nella loro definizione e nel loro disegno spiegandone i motivi.
Rimane aperta la questione della provenienza della lava. Li invito per ora a non correggere quella
parte (chi ne ha accennato) perché ne parleremo in seguito.
Nella prossima lezione vedremo perché esistono edifici vulcanici la cui forma può andare da quella a
cono a quella quasi piatta (forma a scudo).
“Come avvengono le eruzioni?” (1,5 ore)
A che punto eravamo arrivati? Dovevamo vedere perché esistono edifici vulcanici con una forma che
può andare da quella a cono a quella quasi piatta. Porto la classe in laboratorio e iniziamo osservando
immagini di eruzioni vulcaniche sia di tipo effusivo che esplosivo, con lava che viene proiettata in aria
ma anche con lava che scende tranquilla e lenta. Da queste immagini gli allievi si rendono conto che
le eruzioni possono avvenire in modo molto diverso. Alcuni alunni si chiedono: “Da cosa dipende?”
Sarebbe troppo facile che io dessi loro subito una risposta… Vediamo se sono in grado di darla loro
dopo aver osservato un’esperienza che simula la consistenza del materiale che effonde.
Esperienza n. 1. Simulazione di eruzioni
Sistemo sulla piastra elettrica tre beker: uno con acqua, uno con latte, infine un terzo con purè
istantaneo; i contenitori devono essere pieni, in modo che con il riscaldamento il contenuto fuoriesca .
Intorno alla piastra elettrica ho sistemato dei fogli di carta in modo che dopo sia più facile pulire da
eventuali schizzi (si può eventualmente proteggere anche il piano della piastra con un foglio di
alluminio).
Aspettando che i materiali si riscaldino controllo i quaderni per vedere come hanno svolto il compito
per casa e osservo che alcune risposte sono delle vere e proprie relazioni sulla scorsa lezione, come in
questi tre anni si sono abituati a fare.
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Quando inizia l'ebollizione tolgo gli altri beker lasciando solo quello con l'acqua; insieme ai ragazzi
osserviamo il comportamento dell'acqua e poi uno alla volta rimetto gli altri due beker che sono
ancora molto caldi e riprendono a bollire quasi subito.
I ragazzi fanno le seguenti osservazioni: l'acqua esce dal beker velocemente, e le bolle (di vapore)
salgono in superficie e escono “senza fatica”; nel latte il vapore rimane imprigionato sotto forma di
schiuma e questa poi trabocca tutta insieme e il latte poi travasa lentamente. Nel purè istantaneo il
vapore esce a sbuffi violenti e il purè, uscendo “a fatica”, si deposita intorno al beker simulando una
forma conica. Il comportamento del purè fa subito pensare a tutti ad una eruzione di tipo esplosivo.
Dalla discussione che segue emerge che se la lava può essere rappresentata dall’acqua, dal latte o dal
purè, allora vuol dire che, fuoriuscendo, può scivolare rapidamente sui fianchi del vulcano (caso
dell’acqua) oppure può scendere più lentamente e defluire rapidamente (caso del latte) oppure uscire
molto lentamente e quindi avere il tempo per raffreddarsi (caso del purè) e depositarsi
progressivamente vicino alla “bocca”.
Poiché gli alunni nella discussione utilizzano indifferentemente le parole “lava” e “magma”, prima di
proseguire preciso loro che la parte fluida prodotta si chiama magma finché rimane dentro il vulcano e
contiene al suo interno anche i gas; quando fuoriesce e perde i gas si chiama lava.
Concludiamo che, se il magma è meno fluido, si muoverà più lentamente, si raffredderà prima e
depositandosi determinerà una forma più ripida dell’edificio vulcanico; durante l’eruzione, inoltre,
libera i gas che uscendo danno luogo a esplosioni. Se il magma è più fluido, scorrerà assai
velocemente, eliminerà i gas progressivamente e darà una forma poco ripida all’edificio vulcanico.
Riprendendo la teoria di un alunno proposta la volta scorsa, i vulcani hawaiani non è detto che siano
allora più giovani: la loro forma poco pendente può essere dovuta al fatto che la lava da essi prodotta
scorre via velocemente.
A questo punto mostro alcune immagini (numerate) di vulcani chiedendo agli alunni di provare a
classificarli in base alla “consistenza” del magma, al tipo di eruzione e alla forma dell’edificio
vulcanico.
Negli ultimi dieci minuti, gli alunni iniziano a descrivere l’esperienza (apparecchiatura, materiali,
procedimento, osservazione, conclusioni condivise) e do la consegna per casa di terminare la
relazione.
“Da dove viene il magma?” (1 ora)
Riguardo alcune relazioni assegnata per casa; e ricordo alla classe che è rimasto insoluto ancora un
problema: da dove viene il magma? Invito gli alunni a ripetere quanto ipotizzato nella prima lezione:
per qualcuno il magma viene dal centro della terra, per altri esiste uno strato liquido al di sotto della
crosta terrestre; alcuni avevano parlato della crosta come involucro esterno della Terra, e confermo
che questo è corretto, aggiungendo che è uno strato roccioso spesso fino a 35-40 chilometri. Al di
sotto della crosta esiste uno strato nel quale in alcuni punti, ma solo in alcuni punti, la roccia si trova
allo stato fuso.
A questo punto se la roccia fusa è meno densa della roccia sovrastante tende a risalire e può formare
un serbatoio, la camera magmatica, che alimenta il vulcano. Insisto particolarmente sul fatto che non
esiste uno strato liquido sotto la crosta e successivamente chiedo loro: “Ci sono altri segnali in
superficie che suggeriscono che ”sotto terra” spesso c’è qualcosa di caldo?”. In molti alzano la
mano e illustrano esempi tratti dalla loro esperienza, come le acque termali in Toscana meridionale, i
soffioni di Larderello….Dico loro che questi sono chiamati fenomeni di vulcanesimo secondario in
quanto si manifestano in zone in cui in passato erano presenti attività vulcaniche e mostro fotografie
delle isole Eolie, di solfatare campane, delle terme di Saturnia e due filmati sul geyser Old Faithful di
Yellowstone Park (U.S.A.). Aggiungo che acque termali, solfatare, soffioni, geyser sono fenomeni
legati o alla presenza di attività vulcanica in via di estinzione.
La consegna per la prossima volta consiste nel relazionare sul quaderno di scienze quanto abbiamo
osservato e discusso oggi; suggerisco inoltre che gli alunni, utilizzando i mezzi a loro disposizione
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(libri di testo, enciclopedie, internet), ricerchino quali sono i vulcani italiani, dove si trovano, quali
sono le caratteristiche principali di ciascuno e quando è avvenuta la loro ultima eruzione ( ..si tratta
dei compiti per le vacanze di Pasqua!)
“Quali sono i vulcani italiani?” (1 ora)
Come prima cosa controllo quanto gli alunni hanno scritto sulla lezione precedente, passando tra i
banchi. Leggo alcune inesattezze a voce alta e discutiamo insieme concordando la forma corretta. La
maggior parte delle relazioni è accettabile o più che accettabile.
Chiedo poi agli alunni che mi sono sembrati più deboli di esporre i risultati della propria indagine
bibliografica e/o telematica sui vulcani italiani e, mentre questi descrivono i vulcani, mostro sul
videoproiettore immagini del vulcano corrispondente. Per ognuno di questi osserviamo insieme la
localizzazione e la forma facendo ipotesi sul tipo più o meno fluido di magma che l’ha determinata e,
per chi non l’ha trovata, precisiamo la data dell’ultima eruzione.
Tutti gli alunni hanno descritto l’Etna e il Vesuvio, non tutti hanno parlato di Stromboli e Vulcano, e
solo in pochi hanno localizzato il monte Amiata e i vulcani dei monti laziali. E’ l’occasione per far
notare che esistono vari tipi di vulcani: i vulcani attivi, quiescenti e estinti. Faccio osservare che la
distinzione tra quiescenti e estinti non sempre è facile e sicura, infatti i pompeiani probabilmente
credevano che il Vesuvio fosse estinto. Una alunna propone di chiamare estinti quelli che fino a dove
la memoria d’uomo può ricordare non hanno avuto eruzioni, quindi quelli non storicamente attivi. Le
rispondo che è una definizione accettabile, e spiego che gli scienziati hanno stabilito di chiamare
estinti quelli la cui ultima eruzione risale ad oltre 10.000 anni fa. Faccio notare che anche un vulcano
quindi ha una sua “vita”, un ciclo vitale con alternanza di attività e quiescenza e infine “morte”.
Rientrano quindi tra i vulcani estinti il monte Amiata in Toscana e i monti Cimini, Vulsini e Sabatini
nel Lazio; sono quiescenti, ovvero hanno avuto eruzioni negli ultimi 10.000 anni, ma sono attualmente
in fase di riposo, il Vesuvio, Vulcano; sono attivi invece l’Etna e lo Stromboli.
E’ questa l’occasione per rivedere insieme i concetti affrontati nelle precedenti lezioni e per me di
osservare come rispondono alle mie sollecitazioni (registrando le loro reazioni posso valutare quanto
sono stati assimilati i concetti affrontati). Si tratta di una verifica formativa in itinere che è stata tutto
sommato soddisfacente, per cui la prossima volta potremo proseguire il nostro percorso, rimandando
più avanti una verifica scritta sommativa..
Nei pochi minuti che mancano alla fine dell’ora racconto brevemente la storia dell’isola Fernandea
( sito: it.wikipedia.org/wiki/Isola_Ferdinandea) che, oltre ad essere una curiosità dal punto di vista
storico, mi è utile per ribadire il concetto che un vulcano è qualcosa di dinamico, che evolve di
continuo. A questo proposito mostro le immagini dell’isola Surtsey (Islanda), che ha una storia simile
a quella dell’isola Fernandea: sono immagini prese su internet che mostrano l’isola in corso di
formazione e qualche tempo dopo la sua nascita.
“Cosa è un terremoto?” (1 ora)
Riprendo il filo del nostro percorso e osservo che il vulcanesimo rappresenta senz’altro un esempio
del dinamismo che la Terra mostra con grande evidenza, ma ci sono altri fenomeni che rivelano, in
modo spesso distruttivo, a volte terribile, che il nostro pianeta è sede di ampi movimenti…. Quasi in
coro, interrompendomi, gli allievi dicono: i terremoti! Ho preparato allo scopo un’altra presentazione
in Power Point: questa volta oltre a immagini di danni provocati da terremoti ho inserito anche dei
filmati registrati mentre avveniva un terremoto.
Le immagini, e soprattutto i filmati, colpiscono molto gli alunni, e si vede anche dalle mani che si
alzano appena la presentazione finisce: alcuni chiedono di rivedere delle immagini e chi ha vissuto un
terremoto vuole raccontare le sensazioni che ha provato.
Al termine dei racconti chiedo: “ma che cosa è un terremoto?” In molti dicono che è un movimento
del terreno. Faccio osservare che siamo molto nel vago e invito a descrivere meglio questo
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movimento: un alunno propone l’aggettivo “improvviso”; una alunna aggiunge che bisognerebbe dire
che inizia ma che poi finisce e allora suggerisce l’aggettivo “temporaneo”. Arriviamo così ad una
prima definizione: “un terremoto è un movimento improvviso e temporaneo del terreno”. Gli alunni
scrivono questa prima definizione sul quaderno.
Suggerisco di effettuare (facendo un resoconto) un’indagine in casa per verificare chi abbia vissuto tra
i familiari un terremoto e quali ricordi ha dell’esperienza…
“Ricerchiamo insieme cosa provoca un terremoto” (1 ora)
Leggiamo in classe alcuni dei resoconti. Dopo avere ripetuto la prima definizione di terremoto chiedo
agli alunni se riescono a immaginare a cosa è dovuto un terremoto. Qualche alunno, evidentemente
informato dalla televisione, dice che esso è provocato dalla presenza di una “faglia”; gli chiedo se sa
cosa è e mi risponde che si tratta di una spaccatura nella roccia. E’ qualcosa che avviene in superficie
o in profondità? Sono tutti d’accordo nel dire che avviene in profondità. E’ proprio questo, dico, che
provoca un terremoto: una roccia che si spacca in profondità. Ma quanto in profondità? Ricordo loro
quello che abbiamo detto a proposito della crosta terrestre quando abbiamo parlato dei vulcani: la
crosta terrestre è spessa fino a 35-40 chilometri. Le registrazioni dei terremoti mostrano che possono
originarsi anche a profondità di centinaia di chilometri (fino a 700), quindi avvengono anche molto al
di sotto della crosta terrestre. Ma se questa è la causa del terremoto, come avviene la trasmissione del
movimento fino in superficie? Chiedo ai ragazzi di farmi qualche esempio in cui un movimento che
avviene in un certo posto provoca degli effetti anche a distanza: vengono fuori esempi come le
vibrazioni sulle rotaie di un treno in movimento, oppure una martellata sulla balaustra metallica di un
terrazzo, un salto sul pavimento di casa… Per dare agli alunni un’idea di come queste vibrazioni si
trasmettano faccio osservare il comportamento di una lunga molla quando questa viene sollecitata in
diversi modi.
Esperienza n. 2. Sollecitazione di una molla
Chiedo a due alunni di reggermi una grossa molla, tipo quelle che costituiscono il tubo dell’aria
compressa usato dai meccanici o dai gommisti, in modo che risulti sufficientemente tesa. Prendendo
poi vicino ad un’estremità, con entrambe le mani, un certo numero di spire della molla, le comprimo e
successivamente le rilascio. Poi, quando la molla è tornata in quiete, assesto un colpo secco
perpendicolarmente alla molla, sempre vicino ad una estremità, e lascio che questa si muova. Chiedo
allora ai ragazzi: cosa si può osservare da questa “simulazione”? Come si può descrivere il movimento
della molla nei due casi? Gli alunni osservano che in entrambi i casi il movimento si è propagato
lungo la molla, ma il modo in cui la molla propaga il moto è diverso…. a seconda di come viene
sollecitata. Sorvolando per il momento su questo, aggiungo che le rocce si comportano proprio come
quella molla, e trasmettono così il movimento.
A questo punto suggerisco loro un’altra esperienza, questa volta è possibile farla individualmente.
Esperienza n. 3. Rottura di una matita
Consegno ad un alunno una vecchia matita e invito a provare a piegarla, facendo forza lentamente e
osservando bene cosa accade. L’alunno nota che inizialmente la matita si piega leggermente e
successivamente si spezza. Invito anche altri alunni a provare (ho portato qualche vecchia matita in
più da casa) e chiedo loro: “Vi ricordate cosa è una forza? abbiamo svolto l’argomento un paio di mesi
fa…” Visto che gli allievi mostrano di avere un ricordo abbastanza chiaro, aggiungo che in termini
fisici l’alunno ha impresso alla matita una forza maggiore di quella che la matita era in grado di
sopportare senza rompersi.
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La rottura produce un rumore, inoltre, durante e immediatamente dopo la rottura, i due tronconi di
matita vibrano per un brevissimo periodo di tempo e questa vibrazione si può sentire nelle mani
attraverso la matita dopo la rottura.
Si può immaginare che le rocce che formano la crosta della terra abbiano un comportamento analogo a
quello della matita? Dalla discussione emerge la supposizione che se le rocce vengono sottoposte a
forze molto grandi si possono rompere e immediatamente dopo iniziare a vibrare in modo analogo a
quello che abbiamo osservato nella molla. Discutiamo: attraverso le due simulazioni che abbiamo
sperimentato, possiamo costruirci un modello di come possono andare le cose: le vibrazioni
determinate da una roccia che si rompe vengono comunicate alle rocce vicine e così via fino a che il
movimento si indebolisce e si esaurisce via via che ci si allontana dal punto di rottura.; quando
queste vibrazioni raggiungono la superficie terrestre prima di indebolirsi completamente noi
avvertiamo il terremoto.
Allora siamo arrivati a capire quale è la causa di un terremoto. Con un disegno alla lavagna aggiungo
che la zona in cui si origina in profondità il movimento si chiama ipocentro e il punto in cui sulla
superficie terrestre si avverte il movimento, prima di altri (sulla verticale dell’ipocentro), è chiamato
epicentro. Invito gli alunni a prendere nota sul loro quaderno di scienze di quanto discusso e detto.
Per casa do poi la consegna di descrivere le due esperienze che abbiamo fatto in classe, facendo anche
un disegno per ciascuna.
Prima di chiudere, però, qualcuno chiede: ma cosa provoca la frattura delle rocce in profondità? Cosa
imprime la forza? Rispondo che per avere una risposta a questa domanda dovranno pazientare ancora
un po’…. La troveremo insieme più avanti!
“Come si registra un terremoto” (1 ora)
Come al solito controllo i quaderni con le relazioni sulle esperienze eseguite in classe. Chiarisco
insieme a due alunne qualche punto poco chiaro, poi pongo una domanda alla classe: “Come si fa a
dire se un terremoto è più o meno forte di un altro? Ovvero, come si può misurare l’intensità di un
terremoto?” Molte mani sono alzate, ma tutti gli alunni propongono lo stesso approccio: valutare
quante case sono cadute, se i lampadari si sono mossi, se le persone si sono svegliate… Qualcuno
nomina i gradi Mercalli e i gradi Richter, ma non sa quale significato abbiano.
Discutiamo insieme sulla valutazione dei danni e chiedo di pensare a quali problemi pone la
valutazione dell’intensità di un terremoto attraverso l’osservazione dei danni prodotti.
Un alunno interviene dicendo che se lo stesso terremoto avviene in una città dove le case sono molto
solide e in una città dove le case sono molto vecchie e pericolanti, avremo più danni nella seconda ( a
pari distanza dall’epicentro preciso io!). Faccio allora notare che il problema è proprio questo, e porto
l’esempio di un forte terremoto nel deserto, dove non ci sono manufatti che con i loro danni possano
darmi l’idea dell’intensità della scossa: come è possibile valutare ugualmente l’intensità di un tale
terremoto?
Preciso a questo punto che esiste una scala dei terremoti, la scala Mercalli che dà un numero che
indica il grado di un terremoto basandosi sugli effetti del terremoto descrivendo con criteri soggettivi i
danni della qualità dei manufatti interessati. Aggiungo che questa scala è stata creata nel 1902 e
modificata in seguito da Cancani e Sieberg (per cui adesso si parla di scala MCS, Mercalli-CancaniSieberg) che migliorarono le descrizioni dei danni: aveva all’inizio dieci gradi ma successivamente ne
furono aggiunti due per cui ora ne ha dodici. La scala Mercalli si basa dunque su criteri soggettivi…
Prima che aggiunga io qualcosa un alunno chiede: “Come si fa allora a confrontare due terremoti
avvertiti da parte di persone diverse?” Aggiungo che la scala ha altri difetti: non è possibile un
confronto di intensità di terremoti che avvengono in località diverse poiché i danni variano
allontanandosi dall’epicentro, quindi si possono avere diversi gradi di scala Mercalli per lo stesso
terremoto.
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A questo punto consegno ad ognuno una copia della scala MCS e spiego loro che, nonostante tutto, è
ancora utilizzata, specialmente per potere confrontare terremoti recenti con quelli del passato, quando
era l’unica scala utilizzata.
Un alunno aveva precedentemente nominato la scala Richter: preciso che questa è una scala oggettiva,
l’intensità di un terremoto viene calcolata, cioè, in base ai dati registrati da appositi strumenti e viene
indicata con numeri naturali, in modo tale che tra un numero e l’altro l’intensità del terremoto varia di
un fattore dieci. La grandezza in questione si chiama magnitudo. Tra la scala Mercalli e la scala
Richter non è possibile fare confronti perché sono costruite con criteri diversi. Abbiamo parlato molto
in passato di misurazioni soggettive e oggettive, quindi la classe non fatica ad afferrare questo
concetto.
A questo punto chiedo agli alunni se sanno come si registra un terremoto; alcuni alzano la mano per
dire che si utilizza il sismografo. Poiché però il funzionamento dello strumento, anche in un suo
schema generale, non si presta ad essere facilmente compreso a questo livello, dico che per ora esso è,
come per noi un orologio, una “scatola nera”; vediamo invece quali sono i risultati che si ottengono da
tale strumento, i sismogrammi.
Mostro loro quattro sismogrammi (ho scelto sismogrammi di terremoti degli ultimi anni, tra i quali i
terremoti del Friuli e dell’Irpinia, e il terremoto di Giava e Sumatra), spiegando che essi costituiscono
la registrazione di un terremoto fornita da un sismografo e che l’allontanamento della traccia dalla
linea centrale è proporzionale all’intensità del terremoto stesso.
Confrontiamo questi diversi sismogrammi di terremoti più o meno forti e li consegno agli alunni che li
fanno girare e osservare a gruppi. Per la prossima volta do la consegna di scrivere sul quaderno quali
sono le differenze tra la scala Mercalli e quella Richter e spiegare cosa è un sismogramma.
“Il terremoto dalla finestra” (30 minuti) (dal sito earthlearningidea.com)
Oggi ho una supplenza nella mia classe e ho pensato di utilizzarla per effettuare una attività correlata
all’argomento che stiamo affrontando a scienze. Avviso la classe che la loro immaginazione sarà
messa alla prova ma dovranno anche ricordare alcune cose che abbiamo visto e detto.
Chiedo agli alunni di immaginare cosa succederebbe se avvenisse un terremoto, ponendo loro queste
domande: cosa vedrebbero dalla finestra (oggetti che si muovono, uccelli che volano via, calcinacci
che cadono…)? cosa accadrebbe agli edifici, al terreno, agli alberi (il terreno si muove, si possono
aprire delle crepe, gli edifici oscillano o crollano, i vetri delle finestre si rompono, gli alberi
oscillano…)? cosa farebbero le persone per la strada (si fanno prendere dal panico, corrono lontano
agli edifici…)? e quelle dentro gli edifici (corrono all’aperto)? cosa succederebbe dentro questo
edificio (tutto si muove, gli oggetti possono cadere, il soffitto e il pavimento crollano, ci può essere un
rombo, rumore di crolli e di persone che urlano spaventate)? come si sentirebbero (avrebbero molta
paura)? cosa farebbe ognuno di loro (si riparerebbero sotto i banchi, incoraggerebbero i compagni a
non lasciarsi prendere dal panico e a ripararsi, aspettando che il peggio sia passato per poi fuggire
dall’edificio)?
Richiamando alla memoria le immagini che hanno visto riguardo ai danni provocati da terremoti, tutti
gli alunni partecipano con molto entusiasmo a questa simulazione e approfitto di questa occasione per
parlare di quali possono essere i comportamenti giusti per la loro sicurezza in caso di terremoto.]
“I terremoti in Italia” (1 ora)
A conclusione del lavoro sui terremoti avviso che la prossima volta faranno una verifica scritta e porto
la classe nell’aula di informatica (gli alunni sono disposti a gruppi di tre di fronte ad ogni computer)
per fornire loro suggerimenti su alcuni siti che ho in precedenza visitato. Ho preparato allo scopo una
lista di siti internet che i ragazzi possono visitare per osservare materiale riguardante tre fra i maggiori
terremoti italiani: il terremoto di Messina del 1908, quello del Friuli del 1976 e quello dell’Irpinia del
1980:
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http://it.wikipedia.org/wiki/Lista_di_terremoti_in_Italia da questo sito, che propone un elenco dei
maggiori terremoti italiani, si accede a siti che descrivono le caratteristiche dei tre terremoti citati e
propongono ricostruzioni e fotografie come ad esempio:
http://xoomer.alice.it/alessandrofiorillo/friuli.htm,
http://www.23novembre1980.it/,
http://www.agendaonline.it/terremotoirpinia/,
http://cronologia.leonardo.it/storia/a1908b.htm.
Mentre i ragazzi navigano, passo di gruppo in gruppo, ritiro i quaderni e controllo che siano completi
e li restituisco; successivamente, prendendo spunto dalle immagini sui video, faccio qualche domanda
sulle cose che abbiamo fatto: questo controllo mi serve da verifica formativa. Constatato che il lavoro
è stato assimilato, fisso per la prossima volta una verifica su vulcani e terremoti.
Alla fine propongo un collegamento al sito http://www.ingv.it/ dell’Istituto Nazionale di Geofisica e
Vulcanologia dove sono riportati tutti gli eventi sismici italiani: questa attività è molto utile perché gli
alunni comprendono che il terremoto è un evento quasi quotidiano nelle zone sismiche come l’Italia,
anche se la maggior parte dei terremoti, essendo di debole intensità, non viene avvertita dalla
popolazione ma viene comunque registrata dai sismografi.
Verifica scritta (1 ora)
Il tempo assegnato per al prova è stato 1 ora. Al termine della verifica ho detto agli alunni di portare
per la prossima volta forbici e colla… lasciando sospesa la curiosità che si accende.
“Seguiamo i passi della scienza!” (1,5 ore)
Durante lo svolgimento della prima parte di questo percorso avevamo lasciato aperte alcune questioni:
qualche alunno aveva chiesto cosa provoca la rottura di rocce in profondità; alcuni alunni ogni tanto
hanno nominato la teoria della deriva dei continenti… Oggi inizieremo l’ultima parte del nostro
percorso affrontando i punti suddetti e questo ci porterà a seguire le orme di diversi importanti
scienziati.
Sono arrivata in classe con un fascio di fotocopie…l’ aspettativa comincia ad avere risposta.
Consegno a ciascun alunno una fotocopia di un planisfero muto in formato A3 da incollare sul
quaderno di scienze, tenendo una copia per me. Le linee di costa sono l’unica cosa riportata
nell’immagine, per cui, quando chiedo cosa notano nel disegno, in molti alzano la mano per dire che
alcune linee di costa (in particolare quelle dell’oceano Atlantico) sembrano combaciare come pezzi di
un puzzle, anche se non perfettamente. Aggiungo che questo è quello di cui si accorseRO lo studioso
Francis Bacon nel 1600 e successivamente Snider-Pellegrini nel 1800; proseguo dicendo che l’idea
venne poi ripresa dallo scienziato Alfred Wegener che, intorno ai primi anni del secolo scorso, portò
avanti studi e osservazioni per darne una spiegazione.
Wegener ipotizzò che una volta i continenti dovessero essere uniti e, per cercare le prove di questa sua
ipotesi, si rivolse in primo luogo alla paleontologia. E’ opportuno che l’insegnante faccia notare agli
alunni, ogni volta che se ne presenta il caso, come nella costruzione della teoria della tettonica a zolle
abbiano lavorato insieme diverse scienze ( fisica, chimica, geologia, mineralogia, paleontologia,
paleogreografia,…). Chiedo se qualcuno sa di cosa si occupa questa scienza. Alcuni dicono che si
occupa degli esseri viventi che hanno popolato la terra nel passato, qualcuno che studia i fossili.
Qualcun altro dice che i fossili sono i resti di esseri viventi estinti. Chiedo se tutti sono d’accordo con
quest’ultima affermazione e arriviamo a stabilire che i fossili sono resti conservati di esseri viventi,
che possono essere uguali a quelli presenti, simili o completamente diversi, quindi non
necessariamente estinti.
Proseguiamo quindi con gli studi di Wegener; egli studiò la distribuzione di fossili di animali e piante
al di là e al di qua dell’oceano Atlantico ma noi, per semplicità, osserveremo la distribuzione di un
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animale e di una pianta: l’animale sarà il mesosauro (mesosaurus), un piccolo rettile (50 cm max di
lunghezza) che viveva in acque basse 250 milioni di anni fa, e una felce arborea, la glossopteris, che
viveva 280-230 milioni di anni fa in climi umidi temperati. Consegno ad ognuno di loro piccole
immagini di mesosaurus e glossopteris e insieme li incolliamo sul planisfero bianco in corrispondenza
delle zone in cui furono ritrovati… e anch’io li attacco sul mio.
Una volta terminato il lavoro discutiamo sul suo significato: animali e piante simili sono vissuti in
passato in zone del pianeta attualmente molto lontane tra loro, qual è l’ipotesi più semplice che
possiamo formulare per rendere ragione di questo?
Non c’è stato bisogno di gran discussione perché i ragazzi formulassero una ipotesi analoga a quella di
Wegener, e cioè che i continenti fossero uniti all’epoca in cui vivevano i due organismi esaminati. E’
preferibile non utilizzare l’esempio delle rocce, perché è difficile che gli alunni a questo stadio delle
conoscenze possano comprendere che rocce uguali si formano in ambienti uguali. Ma, chiedo loro:
può essere questa l’unica spiegazione? Gli alunni si lanciano, con grande voglia di partecipare alla
soluzione dell’enigma, in spiegazioni alternative abbastanza fantasiose, ma che non si discostano
molto da quello che altri scienziati avevano pensato come possibili: l’esistenza, per brevi periodi, di
“ponti” di terra che univano i continenti, o il fatto che le uova dei rettili o le spore delle felci,
galleggiando, potevano raggiungere anche continenti molto distanti tra loro…
La mia copia del planisfero “muto”, con incollati i fossili nei punti di ritrovamento la faccio incollare
su un cartellone; lo appenderemo al muro a fine lezione e verrà continuamente aggiornato: servirà per
avere costantemente presente lo sviluppo del nostro percorso di indagine.
Mostro alla classe la fotocopia di un’immagine che riporta i continenti nella posizione in cui si
suppone fossero al tempo in cui vivevano questi due organismi esaminati, con la distribuzione dei
ritrovamenti fossili e consegno a ciascun alunno una copia da attaccare sul quaderno. Una delle
immagini viene incollata sul nostro cartellone di classe.
Spiego che Wegener chiamò la sua teoria “deriva dei continenti”, poiché ipotizzò che questi, in
passato uniti, si fossero poi separati… Questa teoria non ebbe successo perché Wegener non aveva
trovato un modo convincente di spiegare come avrebbero potuto muoversi i continenti: ne parlava
come se galleggiassero (da qui l’espressione “deriva”) su qualcosa di fluido e fossero stati spostati; i
motivi portati apparvero scientificamente poco fondati… la teoria di Wegener fu abbandonata poichè
non aveva convinto gli altri scienziati. La storia di Wegener può essere studiata sul libro di testo ma è
bene che l’intero percorso seguito sia segnato sul quaderno di scienze anche solo per brevi appunti
elaborati, dopo discussione, insieme all’insegnante. E qui …finisce la prima puntata!
Per casa do la consegna di scrivere sotto le figure attaccate sul quaderno le cose che sono state dette
riguardo a ciascuna immagine.
“Esplorando i fondali oceanici” (1 ora)
Riprendiamo il filo del discorso proseguendo il nostro lavoro di indagine.
Passarono molti anni e, dopo la seconda guerra mondiale, fu condotta una esplorazione accurata dei
fondali oceanici a fini bellici: era necessario conoscere con precisione l’andamento dei fondali per
consentire la navigazione dei sottomarini nucleari che, per la prima volta rispetto ai sommergibili
tradizionali, potevano navigare in immersione per lunghissimi periodi. Fino ad allora si credeva che i
fondali oceanici fossero piatti ma, intorno agli anni cinquanta, grazie anche ad apparecchiature più
moderne che in passato, si scoprì che non era così. Cosa trovarono questi esploratori dei fondali?
Consegno agli alunni una immagine altimetrica del planisfero contenente una mappa dei fondali
oceanici e la commentiamo insieme. Ci accorgiamo che i fondali oceanici non sono piatti ma hanno,
come le terre emerse, delle catene di rilievi e valli, fosse profonde e pianure…; le catene di rilievi
hanno una particolarità: per la maggior parte sono situate nel mezzo degli oceani, con lo stesso
andamento dei margini dei continenti. Proseguo dicendo che tra il 1950 e il 1960 si scoprì che queste
catene di rilievi sono in gran parte costituite da vulcani sottomarini.
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Quanto abbiamo affrontato oggi, cioè la conoscenza della struttura dei fondali oceanici, è un elemento
importante e che ci servirà in seguito; per ora l’immagine dei fondali oceanici la mettiamo insieme
alle altre, attaccando la figura sul quaderno e attaccandone una copia anche sul nostro cartellone.
“Lavoriamo di nuovo con vulcani e terremoti” (1,5 ore)
Mi ripresento in classe piena di fogli e foglietti! Questa volta ripartisco la classe in gruppi di 4 alunni
e consegno ad ogni gruppo un foglio che riporta un elenco dei terremoti più forti (magnitudo
maggiore di 7 della scala Richter) degli ultimi mille anni e la nazione dove sono avvenuti. Dico agli
alunni di esporre quello che suggerisce loro l’elenco dato. Ogni gruppo osserva l’elenco per qualche
minuto, poi iniziano le osservazioni: quasi tutti i gruppi notano che ci sono alcuni paesi il cui nome
ricorre con maggiore frequenza (Giappone, Iran, Cina..). In matematica abbiamo spesso parlato di
come le tabelle non siano il modo migliore per rappresentare dati numerosi: invito allora gli alunni a
trovare un modo per cui questi dati possono essere meglio interpretati. In molti alzano la mano
proponendo un grafico e li guido nella scelta del grafico più efficace che risulta l’istogramma. Ogni
alunno procede alla costruzione di un istogramma sul proprio quaderno di scienze e decidiamo di
rappresentare solo i paesi che hanno avuto almeno due forti terremoti negli ultimi mille anni: si tratta
di ventidue paesi.
Al termine del lavoro consegno loro un altro elenco simile, ma dei vulcani attualmente attivi e anche
in questo caso, dopo l’osservazione della tabella di dati, gli alunni notano che alcuni paesi sono più
ricorrenti rispetto ad altri. Anche in questo caso procediamo alla costruzione di un istogramma e
decidiamo di rappresentare i paesi con almeno otto vulcani attivi (sono in tutto ventuno). Per ciascun
istogramma ho una copia del grafico che avevo in precedenza elaborato con Excel: la consegno ai
ragazzi che le attaccano al nostro cartellone.
Dall’esame del grafico dei terremoti gli alunni notano che i paesi dove avvengono con maggior
frequenza sono Giappone, Cina, Iran, India, Turchia, Italia, California (U.S.A.), Cile, Ecuador,
Indonesia. Dall’esame del grafico dei vulcani vediamo che sono maggiormente presenti in Giappone,
Cile, Isole Curili e Aleutine, Giava e Sumatra, Islanda, ecc. Alcuni dei luoghi nominati sono
sconosciuti ai miei alunni, per cui procediamo a localizzarli sul planisfero che, come normalmente
nelle classi terze, è appeso al muro. Queste osservazioni vengono riportate sui quaderni.
A questo punto chiedo ai miei alunni: oltre all’istogramma ci può essere un altro modo per
rappresentare questi dati? L’idea in realtà era già venuta ad un paio di alunni mentre cercavano sul
planisfero la collocazione delle isole Curili e delle isole Aleutine: avevano infatti detto che avrebbero
voluto mettere una bandierina in corrispondenza dei vulcani. Ripeto questa osservazione per chi non
l’aveva sentita, e a partire da questa pensiamo che sarebbe utile mettere una bandierina di un colore
per i terremoti e di un altro per i vulcani.
A questo punto chiedo loro se questo è possibile in base ai dati che abbiamo. Un alunno dice che non
possiamo, perché ad esempio per i terremoti del Giappone non sappiamo se la bandierina va messa a
nord o a sud, insomma non conosciamo la collocazione precisa. Allora chiedo: facciamo finta di
essere veri scienziati; potremmo saperlo? La risposta è un unanime sì, qualcuno ricorda che nei
sismogrammi che abbiamo visto c’erano anche latitudine e longitudine degli epicentri. Spiego allora
che questo lavoro è già stato fatto per noi, quindi in questo caso approfittiamone!
Mostro alla classe, e poi procedo ad attaccarle sul cartellone, due immagini di un planisfero dove sono
riportate le distribuzioni dei vulcani attivi ed emersi e uno dove sono riportati i terremoti, anche i
terremoti più deboli.
Gli alunni notano subito che i vulcani attivi sono concentrati in alcune zone; lo stesso vale per i
terremoti. Consegno poi a ciascun alunno una carta che riporta i dati di distribuzione di vulcani e
terremoti insieme da incollare sul quaderno.
Ora che tutti hanno una immagine sul quaderno chiedo ai miei alunni: cosa notate nella distribuzione
di vulcani e terremoti sulla Terra? In molti alzano la mano per dire che i terremoti e i vulcani attivi
sono distribuiti lungo linee precise che dividono la superficie terrestre come un puzzle.
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A questo punto dico che siamo arrivati quasi alla fine del nostro percorso d’indagine: questo era uno
degli elementi che mancavano agli scienziati fino alla metà dello scorso secolo. Ma come si può
spiegare tutto questo? Preciso che i pezzi del puzzle che hanno individuato sono stati chiamati zolle.
Si è scoperto che le zolle sono frammenti di crosta terrestre e quindi si parla più propriamente di zolle
crostali.
Mostro loro, e poi attacco al cartellone, un’immagine che riporta la suddivisione in zolle della
superficie terrestre e faccio notare che alcune zolle sono formate solo da continenti, altre solo da
oceani, altre li contengono in parte tutti e due. Preciso che quelle riportate nel disegno sono solo le
zolle più importanti, quelle di dimensioni maggiori; in realtà ce ne sono molte altre più piccole.
Dico loro che il cartellone a questo punto riporta tutte le informazioni raccolte: nella prossima lezione
scopriremo come gli scienziati hanno utilizzato queste informazioni. Ci lasciamo quindi con molte
domande: cosa significa che la crosta terrestre è suddivisa in zolle? c’è un motivo per cui vulcani e
terremoti sono concentrati prevalentemente sui confini tra le zolle?
Per casa invito gli alunni a scrivere una relazione ripercorrendo, con l’aiuto delle figure, il cammino
fatto oggi.
“L’elaborazione della teoria della tettonica a zolle” (1 ora)
Riprendiamo il nostro percorso osservando il cartellone costruito: sollecito gli interventi degli allievi,
a turno, per ripercorrere il cammino fatto insieme, spiegando via via le immagini attaccate. Infine
pongo alla classe la domanda: gli elementi che abbiamo raccolto possono far pensare che le zolle
sono ferme o in movimento? I disegni sul cartellone che mostrano i continenti prima uniti e poi
separati fa pensare quasi a tutti che le zolle si siano mosse in passato e che, forse, si muovano ancora.
Ricollegandomi a quanto visto in precedenza (alcune zolle sono formate solo da continenti, altre solo
da oceani, altre li contengono in parte tutti e due) faccio osservare, prima di tutto, uno degli errori
della teoria della deriva dei continenti: non sono i continenti che si muovono (vanno alla deriva, come
diceva Wegener), ma sono le zolle, formate generalmente da terre emerse e sommerse, che si
muovono una rispetto all’altra. Dai disegni che abbiamo raccolto si può osservare che ci sono
sostanzialmente due tipi di movimento: le zolle si allontanano tra loro (come nel caso dell’America da
Europa e Africa) oppure si avvicinano (come nel caso della zolla di Nazca che va contro la costa ovest
del sud America).
Invito gli alunni a prendere di nuovo in esame i grafici costruiti sulla distribuzione di vulcani e
terremoti: ci sono confini tra zolle dove prevalgono forti terremoti, altri dove prevalgono vulcani
attivi, da cosa pensiamo possa dipendere? Un alunno risponde che dove due zolle si scontrano ci
saranno i terremoti. Preciso che l’ipotesi è abbastanza corretta: quando due zolle si scontrano si hanno
principalmente forti terremoti, ma si possono avere anche forti terremoti associati a eruzioni
vulcaniche: Giappone, Cina, Iran, India, Turchia, Italia, California (U.S.A.), Cile, Ecuador, Indonesia
sono situati sui margini di zolle che si scontrano. Aggiungo che se lo scontro avviene tra bordi
continentali si formano catene montuose: è il caso della catena dell’Himalaia, delle Alpi e degli
Appennini.
Quindi le zolle si avvicinano o si allontanano; se si avvicinano ci sono forti terremoti e si possono
avere formazione di montagne ed eruzioni vulcaniche. Allora chiedo: e se le zolle si allontanano? Li
invito a osservare l’immagine che riporta il continente americano unito a Europa e Africa e a
confrontarlo con la carta dei fondali oceanici. In questo caso, le zolle si sono allontanate. E cosa c’è
proprio nella parte mediana dell’oceano Atlantico? Seguono vari interventi che mostrano di
concordare sul fatto che queste zone, dove le zolle si allontanano, sono costituite da fondali oceanici
in cui sono presenti vulcani lineari e sono caratterizzate da terremoti più deboli. Queste zone si
chiamano dorsali, nel caso esaminato si tratta della dorsale medio-atlantica.
A questo punto pongo una domanda agli alunni: perché le zolle si allontanano dove ci sono le
dorsali? Prima di tentare una risposta vediamo come possiamo simulare il “funzionamento” delle
dorsali con questa esperienza.
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Esperienza n. 4. Simuliamo l’apertura di un oceano
Utilizziamo due banchi e due fogli di giornale dove in precedenza ho riportato le sagome dei
continenti che si affacciano sull’Atlantico meridionale (la sola America del sud e l’Africa). Inseriamo
i giornali nella fessura tra due banchi accostati e tiriamo lentamente i fogli verso l’esterno. Il nostro
modello potrebbe funzionare così: i vulcani lineari potrebbero eruttare il magma che, uscendo dalle
dorsali, solidifica formando nuovo fondale oceanico allontanandosi progressivamente rispetto alla
dorsale. Preciso che, naturalmente, la nostra è una semplificazione, perché in ogni caso le dorsali non
sono rettilinee; inoltre è probabile che l’oceano si sia aperto con un movimento a cerniera lampo, da
sud verso nord.
In questi casi l’allontanamento delle zolle porta alla formazione di un oceano tra una zolla
continentale e un’altra.
A questo punto propongo di osservare tre zone esemplificative di situazioni diverse, ad esempio
l’India come zona soggetta a forti terremoti, dove le zolle continentali si scontrano; l’Islanda come
zona interessata da estese eruzioni vulcaniche ma deboli terremoti, situata proprio sulla dorsale medio
atlantica dove si possono seguire “in diretta” l’allontanamento delle zolle; il Giappone come zona
dove sono presenti sia vulcani che forti terremoti, dove si avvicinano due zolle formate da crosta
oceanica.
Come conclusione mostro alla classe una figura che riporta la distribuzione di vulcani e terremoti
sovrapposta alla suddivisione della crosta terrestre in placche. Ogni alunno ne incolla una copia sul
quaderno e una viene messa sul cartellone.
Per casa gli alunni sono invitati a fare una relazione su questa ultima parte del nostro percorso sui
quaderni, rispondendo via via alle domande che erano rimaste finora senza risposta.
“Le zolle nel passato e nel futuro” (1 ora)
Prima di lasciare il tema sviluppato vorrei che i miei alunni si rendessero ben conto che le zolle sono
state in movimento, lo sono adesso, lo saranno in futuro!
Mi trasferisco con la classe in aula di informatica e invito gli alunni a collegarsi a internet, ai siti:
http://it.wikipedia.org/wiki/Deriva_dei_continenti
http://cronologia.leonardo.it/mondo02a.htm
In questi siti sono riportate simulazioni del movimento delle zolle dalla Pangea fino all’epoca attuale,
e nel futuro per altri 100 milioni di anni. Segnalo la zona del “rift” oceanico africano, dove si sta
creando una nuova zolla che tra diversi milioni di anni si staccherà da quella africana, e la zona
californiana, dove la California diventerà un’isola. Tutti naturalmente guardano cosa succede all’Italia
che, poveretta, verrà schiacciata tra Europa e Africa! Che brivido… Niente paura, noi non ci saremo
più da molto tempo! Prometto comunque che la prossima volta esamineremo più in dettaglio la
situazione di “movimento” dell’Italia perché anch’essa ..”eppur si muove”.
Intanto possono vedere dall’animazione che la placca adriatica si stacca dall’Africa e va contro la
placca europea formando l’Italia e successivamente il blocco sardo-corso che si stacca dalla Francia e
ruota verso l’Italia, raggiungendo l’attuale posizione.
Perché i miei alunni riescano a rendersi conto delle scale temporali coinvolte, leggo loro la prima
parte della storia della Terra rapportata ad un anno solare invitandoli a proseguire il cammino
consultando il sito http://www.geologia.com/area_raga/evoluzione/intro.html ( è stata da me
modificata riassumendola e inserendo le immagini del movimento dei continenti prese da
http://www.dst.unipi.it/didattica/GeologiaStratigrafica.htm)
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“E in Italia cosa succede?” (1 ora)
Come promesso, propongo agli alunni di puntare una lente d’ingrandimento sulla zona dell’Italia, per
osservare da quali zolle è composta e ricollegare gli eventi sismici e vulcanici alla presenza di confini
di zolla e ai loro movimenti. Ho intenzione di utilizzare questa ora anche per effettuare una verifica
formativa: vorrei rendermi conto se i miei alunni sono pronti per affrontare una verifica finale sulla
tettonica a zolle.
Consegno a ciascun alunno un foglio con tre immagini poste una accanto all’altra da attaccare sul
quaderno: la prima riporta la distribuzione dei terremoti in Italia, la seconda la distribuzione dei
vulcani, la terza la suddivisione in zolle che interessa la penisola.
Assegno loro una esercitazione da svolgere in classe in venti minuti. Le immagini ricalcano il
percorso che già abbiamo fatto con il planisfero, solo limitate alla zona italiana.
Sotto ciascuna immagine ogni alunno deve scrivere le proprie osservazioni.
Quando hanno terminato, chiedo a qualche alunno di leggere le sue osservazioni e discutiamo su
alcuni punti rimasti poco chiari. Gli alunni hanno individuato le zone maggiormente interessate dai
fenomeni sismici e vulcanici: i terremoti avvengono principalmente lungo l’Appennino e nelle zone
Alpine del Veneto e del Friuli; i vulcani attivi si trovano nel sud dell’Italia, circa nella stessa zona già
individuata per i terremoti; dalla terza figura hanno verificato che queste zone corrispondono ad un
margine tra zolle. Preciso che le due zolle sono la zolla africana a sud e la zolla eurasiatica a nord e
che l’immagine sulla suddivisione in placche è una semplificazione perché in realtà nell’area italiana
ci sono molte altre piccole zolle. Durante la discussione faccio in modo che i concetti trattati durante il
percorso vengano ripetuti e consolidati. Qualcuno in effetti non aveva studiato molto, ma spero che
questa esercitazione-ripetizione sia stata utile. I risultati mi sono sembrati tutto sommato
soddisfacenti, per cui fisso la verifica per la prossima lezione.
Verifica scritta (1 ora)
Concludiamo con una precisazione sulla valutazione dell’apprendimento: i due questionari di verifica
scritta presentati rappresentano gli strumenti formali di verifica del percorso, ma la valutazione
dell’apprendimento si è avvalsa anche di vari altri strumenti: l’analisi dei quaderni di lavoro degli
allievi, il modo con cui veniva svolto il lavoro di gruppo, il livello di partecipazione alla discussione
in classe e la puntualità con cui venivano svolte le consegne date via via, il tutto ricavato dal diario
dell’insegnante.
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