riflessioni sul karate

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riflessioni sul karate
L’agonia del karate sportivo
Riflessioni di veri praticanti del karate
Era il lontano 1978 e, di fronte a un’assemblea di tecnici rispettosi ma riluttanti, i dirigenti della Fesika
e il Maestro Shirai, commosso fino alle lacrime, spiegarono che la nostra gloriosa organizzazione andava
sciolta per il bene del karate italiano: solo così, confluendo nella FIK, la federazione riconosciuta dal
CONI, un’unica grande forza avrebbe rappresentato il karate italiano. Il riconoscimento del CIO
sarebbe stato pressoché automatico (ma era solo l’Italia a creare un inciampo?!), dopodiché il karate
sarebbe entrato nel programma olimpico e il tricolore avrebbe sventolato dal pennone più alto del podio.
Sono passati trent’anni, si è consumato il sacrificio della Fesika e di molte altre organizzazioni, e le
cose sono rimaste esattamente al punto in cui erano, anzi, almeno da noi, sono peggiorate: al posto di
due grandi federazioni antagoniste, c’è un pullulare di sigle che spesso rappresentano solo un gruppo di
palestre ed i loro insegnanti malati di protagonismo che naturalmente, al momento di dare vita
all’ennesimo aborto, dichiarano tutti di puntare idealmente “all’unificazione del karate italiano”!
Nonostante il riconoscimento da parte del CIO della WUKO (che nel frattempo ha anche cambiato
nome e si chiama WKF) come unica federazione mondiale autorizzata a rappresentare il karate
sportivo, la nostra disciplina è rimasta in lista d’attesa: il 13 agosto 2009, in vista dei Giochi Olimpici di
Rio del Janeiro 2016, il presidente Roggie e gli altri membri del CIO l’hanno bocciata per l’ennesima
volta, preferendole il golf e il rugby. Nonostante le promesse da marinai dei dirigenti, il fallimento era
nell’aria, accompagnato da quel clima di smobilitazione che da parecchi anni accompagna il karate
agonistico nel nostro Paese: i Gruppi militari vanno ad esaurimento, ridotti a specie protette in via di
estinzione: quattro carabinieri, quattro finanzieri, tre poliziotti…una realtà ben diversa dai gloriosi
squadroni degli anni 80! Tutte le risorse disponibili vanno ormai al Taekwondo, riconosciuto come
disciplina olimpica fin da Seoul 1988; il karate non è più invitato neppure alle Universiadi, né ai
campionati mondiali militari o alle altre manifestazioni sportive parallele alle Olimpiadi.
La notizia non mi ha sconvolto più di tanto: da quasi un ventennio quelli che ormai si è abituati a
chiamare i “tradizionalisti” hanno fatto le proprie scelte in direzione opposta e contraria, rifondando la
propria organizzazione. In una rivista specializzata il Maestro Perlati, da oltre 40 anni il loro
portabandiera più coerente, ha dichiarato che “il karate alle Olimpiadi, salvo miracoli che stento ad
intravedere, sarebbe un fatto molto negativo (…) perché le logiche dello sport olimpico sono anni luce
distanti dal karate”.
Non credo perciò che la bocciatura del CIO determinerà un tracollo per il karate tradizionale, già da
tempo ridimensionato ad attività di nicchia per maestri e praticanti che puntano alla crescita personale
e spirituale piuttosto che alle medaglie (anche se curiosamente la loro rivista dà un grande spazio alle
competizioni: sono certi che siano tanto gradite ai lettori?).
Mi interrogo piuttosto sulle motivazioni delle decine di migliaia di praticanti FIJLKAM, nonché sui dieci
milioni di tesserati che la WKF vanta in tutto il mondo, e che sono comunque – è giusto sottolinearlo una minoranza tra i cultori del karate. Che soddisfazione può dare loro praticare una disciplina, tuttora
chiamata karàte (sempre rigorosamente alla romana, con l’accento sulla seconda a!), ma ormai
lontanissima dalle proprie origini, il cui sbocco prevalente è l’agonismo, ma nella quale proprio gli agonisti
si vedono sbarrata la strada verso la meta più ambita, le Olimpiadi? Che piacere possono provare nel
praticare un combattimento dal quale è bandita l’efficacia, in cui conta solo “arrivare prima”
dell’avversario e nel quale l’esito finale non è più stabilito da uno o due colpi risolutori evidenti anche
agli spettatori, ma da un complicato conteggio, incomprensibile al pubblico e altamente soggettivo? Non
c’è sta stupirsi che chi è alla ricerca di strumenti validi per la difesa personale si orienti verso la kickboxing, la thai-boxe o addirittura il vecchio, glorioso pugilato, percorrendo in senso inverso la strada
compiuta da combattenti come Capuana, Tammaccaro o Parma quarantaquattro anni fa, all’arrivo in
Italia del Maestro Shirai. È forte il sospetto che si vada verso una “taekwondizzazione” del kumite, un
combattimento ibrido nel quale poco conterà l’arte marziale di provenienza.
Non minore dev’essere la frustrazione in quelle poche “enclaves” di karate sportivo dove si pratica il
kata, rigorosamente separato dal combattimento (come ammette tranquillamente il mio amico Claudio
Albertini, maestro delle sorelle Bottaro, uno dei migliori tecnici del settore) e sempre più proiettato
verso il funambolismo e l’eleganza formale, lontano dalla realtà delle tecniche. Indubbiamente abili gli
allenatori del kata FIJLKAM che, ormai privi da tempo dell’apporto dei tecnici provenienti dalla scuola
del Maestro Shirai, hanno saputo clonare degli atleti dotatissimi sul piano atletico, in grado di cogliere
allori mondiali ed europei in uno scenario mutato, in cui la teatralizzazione dell’evento prevale sul
realismo delle tecniche.
Nella gara di kata, la finale a otto è stata trasformata in una gara eliminazione diretta seguita da una
“sfida all’OK Corral” fra i due superstiti, arbitrata peraltro col sistema a punteggio. In uno scenario del
genere, vince il miglior attore, e il kata diventa una performance drammatica in cui l’ingresso in scena,
le pause spesso interminabili, i “beau gestes” spettacolari e acrobatici decidono il vincitore. Un esempio
fra tutti, l’Unsu di Maurino che sottopongo da un anno al giudizio dei frequentatori di Youtube,
contrapponendolo all’esecuzione di Carlo Fugazza. 15.000 “naviganti” hanno visionato il filmato e oltre
150 hanno espresso un giudizio di merito, dividendosi più o meno a metà tra i “fan” del M°Fugazza e
quelli di Maurino. È però significativo il fatto che, mentre i “filotradizionalisti” sono entrati nel merito
di errori ed omissioni, gli ammiratori di Maurino hanno dato un giudizio globale entusiasta,
enfatizzando la velocità e persino la creatività del loro campione.
Anche a grandi protagonisti come lui, Valdesi, la Battaglia e la Bottaro il CIO ha detto no: ma se gli
azzurri del kumite possono pensare prima o poi di riciclarsi nel taekwondo, a questi bravi epigoni di
Marchini e della Sasso non si può certo consigliare di darsi alla ginnastica a corpo libero…
Praticanti del karate sportivo meditate