MYTHOS E LOGOS: IL PASSAGGIO DALL`ORALITA

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MYTHOS E LOGOS: IL PASSAGGIO DALL`ORALITA
MYTHOS E LOGOS: IL PASSAGGIO DALL’ORALITA’ ALLA SCRITTURA E LA
NASCITA DELLA FILOSOFIA
Qualche lezione fa abbiamo sostenuto che mito significa, a livello etimologico, ‘parola’,
‘discorso’, allo stesso modo del logos. E’ il momento di tornare a quella questione
momentaneamente rimasta in sospeso. Facciamo subito notare come in Eraclito Logos
indichi sia il discorso che la ragione. Non è affatto un caso. Vediamo perché, affrontando
un percorso storico culturale di certo affascinante.
Il mito affonda le sue radici in un passato arcaico in cui ad essere centrale è la parola
orale, non scritta. In questo contesto, i sacerdoti prima, i poeti poi, gli aedi, trasmettono
oralmente agli uomini, di generazione in generazione, le vicende degli Dei e degli eroi,
sotto forma di messaggio divino che essi sono incaricati di annunciare ai contemporanei.
La loro memoria orale è legata al mythos, alla parola appunto: e tale parola è vincolata al
ritmo, alla recitazione, al canto, tramandata con variazione successive (il che spiega
perché i miti abbiano diverse varianti). Questo tipo di discorso è allusivo, suggestivo, ha
grande carica emozionale, colpisce il canale del pathos, inoltre, ha una funzione etica,
quella cioè di educare gli uomini facendoli partecipi del loro passato, delle loro radici, della
tradizione di un popolo. Una parola del genere si affida alla ripetizione, alle immagini, alla
recitazione: ha finalità etica perché mostra come si comporta l’eroe buono e coraggioso,
l’uomo pio e quello empio. Voci, immagini, suoni, gesti. Non astrazione e
concettualizzazione. Tale procedimento non si interroga infatti su cosa significhino virtù ed
empietà, su quale sia la loro essenza. Ad un certo punto, intorno al IX-VIII secolo, i Greci
inventano la scrittura alfabetica. Ai pittogrammi, in cui il messaggio viene significato con
un disegno, si erano sostituiti gli ideogrammi, dove il disegno, sempre più stilizzato,
assume un valore simbolico, nel senso che non rappresenta più scene di vita, ma parole
e con esse idee. La lettura diviene sempre più linguistica e sempre meno iconica, ma
comunque sia legata alla rappresentazione dell’esperienza, alla materialità della
percezione. Facciamo degli esempi. Se in una tavoletta di legno si trova il pittogramma
che raffigura una barca, un uomo che rema e tre lune, il messaggio significa: “sono partito
in barca e starò via tre notti”. In un ideogramma cinese possiamo trovare insieme il sole e
la luna, ma il suo messaggio, a differenza del pittogramma, non vale direttamente per il
suo effetto figurativo, cioè non significa direttamente sole e luna. Vuol dire chiaro,
brillante. Se lo poniamo accanto ad una tazza, l’ideogramma significa “la tazza brilla”. Allo
stesso modo un geroglifico egiziano che mostra una testa di bue può certo significare ciò
che raffigura, ma anche capo di bestiame e poi, per estensione ed astrazione, capo,
signore, padrone, ecc. L’ideogramma e il geroglifico valgono cioè per il messaggio che
trasmettono.
Poi venne la scrittura sillabica, in cui un segno rappresenta appunto una sillaba, che
tenta di riprodurre i suoni realmente emessi. In tale contesto non esiste ancora una chiara
consapevolezza della differenza tra vocali e consonanti e non esiste ancora il concetto di
lettera, che emergerà solo con la creazione dell’alfabeto. Infine, i Greci, che rielaborano in
modo radicalmente nuovo l’alfabeto fenicio. Qui una ventina o poco più di segni costituisce
l’elemento primo, l’atomo, che combinato con i suoi simili può comporre una varietà
indefinita di enunciati. Tale sistema è efficiente, funzionale, e soprattutto, ha capacità di
astrazione, è razionale. Lo studioso Alfred Kallir ha sostenuto che i nostri sistemi di
scrittura sono “pitture decadute”. Per esempio, la lettera alfa greca deriva dal fenicio alef,
parola che designava il bue e il suo respiro. I segni dei sillabari fenici sono il prodotto della
stilizzazione di pittogrammi antichi. Furono i Greci ad utilizzare il segno alfa solo per il
suono che esso rappresentava, senza più alcun riferimento concreto alla testa di bue a cui
anticamente faceva riferimento. L’alfabeto, nella successione non casuale delle lettere,
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narrerebbe implicitamente una storia inerente all’addomesticamento del toro e alla
diffusione dell’agricoltura, eventi in grado di innescare il bisogno della scrittura. Furono i
Greci a ridurre i segni della scrittura a puro strumento di registrazione al servizio della
voce e del pensiero. Il logos, appunto. Anche l’ideogramma può contenere molte varianti e
significare varie cose, ma non avrà mai la capacità di combinazione illimitata posseduta
dalle lettere, con le quali soltanto si può astrarre da contenuti concreti ed esprimere
concetti molto complessi e soprattutto non presenti fisicamente, come accade invece per
l’ideogramma e il pittogramma.
Peraltro, la diffusione dell’alfabeto fu assai lenta. Probabilmente, la sua funzione iniziale,
almeno nell’ambito della cultura, fu quella di fissare, intorno al V secolo, per iscritto i poemi
omerici. La scrittura venne così in aiuto degli aedi, nel loro arduo esercizio di memorizzare
migliaia e migliaia di versi. Questi professionisti della parola contribuiscono in modo
decisivo alla diffusione dell’alfabeto. Poi fu la volta della storia e della filosofia. Tucidide
ricostruì i fatti storici privilegiando i documenti scritti ai resoconti orali. Ciò che si afferra
con l’orecchio e si tramanda con la bocca è ingannevole, incerto, soggetto a mutazioni
continue. La parola oralmente riferita (mythos) si discosta dalla verità delle cose così come
queste si sono effettivamente verificate. Così nasce la storia. La cultura preistorica non
conosce, come dice il senso letterale di questa parola, una registrazione scritta delle
proprie vicende. E infine, la filosofia, il logos. L’alfabeto, con la sua capacità di astrazione,
di concettualizzazione, è funzionale all’elaborazione razionale, alla creazione di una mente
critica: la parola intesa come logos non è più legata alla ripetizione e alla memoria, ma alla
creazione di un senso nuovo, che giustifica quanto afferma, argomentandolo
rigorosamente. Resta il fatto che il mythos ha assunto il significato di racconto fantastico o
favola solo in un secondo momento: è il logos a definirlo così, la cultura storico – filosofica.
La cultura del logos, come sostiene Marcel Detienne, ha attribuito al mito il suo senso
fantastico, che tale non era per gli uomini di quel tempo, per gli aedi e il loro pubblico. Tale
significato vale soltanto per noi, figli del logos.
Si spiega così la duplice valenza semantica del logos eracliteo. Resta il fatto che il
passaggio dall’oralità alla scrittura fu lento e graduale, come quello dal mito al logos: la
scrittura come pratica diffusa fu tale, anche in filosofia, solo a partire da Platone. Le opere
dei primi filosofi, purtroppo pervenute a noi solo sotto forma di frammenti, dovevano
essere non troppo lunghe e voluminose. Lo stesso linguaggio dell’aforisma in Eraclito e
del poema in Parmenide attestano la gradualità di questo passaggio e l’influenza che
almeno la forma dell’antica sapienza mitica continua ad esercitare presso i primi filosofi.
Perché soltanto forma? Perché ovviamente, l’involucro dell’aforisma e della parola
apparentemente oracolare, carica di forza suggestiva, nasconde un significato razionale,
filosofico: il logos, la forza della ragione come sostanza delle cose. Qui si assiste anche ad
una differenza radicale tra Eraclito e la sapienza sacerdotale: mentre i sacerdoti erano gli
unici depositari della verità, espressa attraverso formule di ardua comprensione per i più, il
pensatore di Efeso usa l’aforisma perché la verità e il suo apprendimento deve richiedere
sforzo, fatica del pensare, come dirà Hegel nel XIX secolo. Espressa in un altro modo si
sarebbe esposta al rischio della banalizzazione e del travisamento. Qui, tuttavia, i
dormienti sono i più e risultano tali non in quanto esclusi per nascita dalla verità, ma
perché non fanno buon uso del logos, per pigrizia e mancanza di volontà. La aletheia,
pertanto, è velata ai più per l’uso esclusivo della doxa: essa costituisce la patina che
impedisce il disvelamento, prerogativa esclusiva della ragione. In questo senso il mito e la
sua antica sapienza continuano a sopravvivere solo a livello formale nella filosofia di
Eraclito e come vedremo dello stesso Parmenide.
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