La citta 31.indd - CAN Capodistria

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La citta 31.indd - CAN Capodistria
Anno 15
Numero 31
Foglio della comunità italiana di Capodistria
Dicembre 2010
Foto: Danilo Fermo
Il Gruppo filodrammatico Cademia Castel Leon della
Comunità degli italiani di Capodistria, guidato da Bruna
Alessio, si è esibito il 15 ottobre alla Comunità di Umago.
L'incontro delle bande d'ottoni nell'ambito del programma
per le celebrazioni del centenario della Prima Esposizione
istriana. In primo piano i suonatori di Buie e Albona.
Foto: Il Mandracchio
Il Gruppo di canto La Porporela è composto da Giancarlo
Ernestini, Mario Gandusio, Evgen Gombač, Josip Bepi
Gregorovič, Luigi Maier, Bruno Pečarič e Narciso Stanič.
Delegazione del Comitato consultivo della Convenzione quadro
per la tutela delle minoranze nazionali del Consiglio d'Europa,
guidata da Rainer Hofmann, coi vertici della CNI in Comunità.
Il chitarrista e cantante blues Francesco Piu, ospite di
Lara Drčič nello studio 01 di Radio Capodistria.
Rivivono anche le calli minori di Capodistria. Nella foto
l'inaugurazione della Galleria artistica Svojc di Vojc
Sodnikar-Ponis in Calle Gruden, già Calletta S. Tommaso.
La Città è il periodico semestrale della Comunità degli Italiani Santorio Santorio di Capodistria. Viene pubblicato
nell’ambito dell’attività editoriale prevista dal programma culturale della Comunità autogestita della nazionalità
italiana di Capodistria cofinanziato dal Ministero per la Cultura della Repubblica di Slovenia e dal Comune
città di Capodistria, e con il contributo finanziario dell’Unione Italiana. Redattore responsabile: Alberto Cernaz.
Stampa: Pigraf s.r.l. Isola. Tiratura: 1.300 copie. Distribuzione gratuita a mezzo posta riservata ai soci della
Comunità. Indirizzo: Comunità degli italiani Santorio Santorio di Capodistria, Redazione de La Città, Via Fronte
di Liberazione 10, 6000 Koper-Capodistria (SLO). E-mail: [email protected]. Foto di copertina di Ivo Pervan.
La città
Inaugurato il “Salotto del libro italiano”
È culminata con l’inaugurazione dell’ “Infolibro – Salotto del libro italiano”, la giornata del 3 dicembre
dedicata alla presentazione al pubblico del progetto “JezikLingua”, finanziato nell’ambito del Programma per
la Cooperazione Transfrontaliera Italia-Slovenia 2007-2013.
Foto: Jana Belcijan
»Il Salotto del libro italiano« si trova di fronte a palazzo Carli. Aperto il lunedì, mercoledì e venerdì.
“Info-libro” informerà, per ora, Molti i punti previsti nel programma C’è poi il discorso del recupero dei
riguardo le pubblicazioni prodotte da svolgere sino al 2013 esposti libri antichi presso la biblioteca
della CNI in Slovenia e Croazia. dai
responsabili
Ivo
Corva, capodistriana. Preparati spazi e
Saranno così esposti i volumi Maurizio Tremul e da Suzana attrezzature necessari, nel 2011 si
dell’EDIT, quelli del Centro di Pertot: l’allestimento del Centro procederà alla digitalizzazione dei
Ricerche Storiche di Rovigno, ed i multimediale per la lingua slovena volumi. Il catalogo digitale verrà
più svariati libri, monografie, ricerche a San Pietro al Natisone, dei corsi di poi passato su un server. Tre i fondi
e giornalini editi dalle singole lingua italiana (in Slovenia) destinati antiquari in questione: il “Rara” Comunità degli Italiani. A lungo a gruppi target, come polizia, settore mille volumi e quattro incunaboli,
termine, invece, si vuole dar vita a sanitario ed operatori pubblici, la il “Fondo dei conventi di S. Anna e
una vera e propria libreria italiana. A traduzione di opere della minoranza S. Marta” – duemila volumi e più di
progetto europeo concluso il salotto italiana e slovena, la pubblicazione di 300 cinquecentine, il “Fondo della ex
potrà iniziare a svolgere un’attività un’antologia sugli illustri istriani e di Biblioteca civica”.
commerciale, periodo entro il quale modi di dire della parlata istro-veneta.
verrà intanto preparata un’apposita
pagina web.
L’iniziativa coinvolge l’Unione
Italiana di Capodistria, la CAN
Costiera, il Centro “Carlo Combi”,
la Biblioteca “Srečko Vilhar” di
Capodistria, il Centro di studi
“Jacques Maritain” di Portogruaro e
il Consorzio Universitario del FVG.
Importante pure l’apporto di ben
quattro poli universitari: Capodistria,
Udine, Trieste e Venezia. Obiettivo
di fondo: promuovere le lingue, le
culture italiana e slovena, attraverso la
Foto: Jana Belcijan
risorsa rappresentata dalle Comunità
Nazionali italiana in Slovenia e Biblioteca centrale: il direttore Markovič con il vicesindaco Scheriani, il presidente
Croazia e slovena in Italia.
della SSO Štoka, il Ministro per gli sloveni nel mondo Žekš e la Senatrice Blažina.
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La città
»Dal monolinguismo si può guarire«
Intervista al prof. Guido Križman, che all’inizio di quest’anno è subentrato alla prof. Oleandra Dekleva nella
carica di preside della Scuola elementare »Pier Paolo Vergerio il Vecchio«.
Ci vuoi raccontare qualcosa di te?
Da parte materna le mie origini sono
del Pinguentino, da parte paterna
invece da Portole. Il nonno parlava lo
slavo istriano, mentre la nonna, una
Persico, è stata quella che ha dato
l’impronta istro-veneta alla famiglia.
Io nasco a Capodistria il 20 agosto del
1968, frequento la scuola elementare
italiana di Strugnano, continuo
dalla quinta all’ottava a Isola. Poi
ho frequentato il ginnasio »Carli«
di Capodistria e mi sono laureato in
storia all’Università di Trieste. Sono
sposato ed ho due figli.
A Strugnano la scuola c’e’ ancora,
ma non ci sono iscritti. Ai tuoi
tempi?
Eravamo in tre, e in sezione combinata
in quattro.
Secondo te, frequentare un scuola
periferica è un vantaggio o no?
Ci sono vantaggi e svantaggi, ma
penso che prevalgano gli aspetti
positivi. Il fatto che ci sia un rapporto
diverso tra alunno e insegnante…
essendoci pochi alunni l’insegnante
diventa quasi uno di famiglia. Nelle
classi combinate gli alunni più piccoli
diventano una sorta di fratelli minori
dei più grandi. A quei tempi vivere
in campagna significava vivere un
mondo completamente diverso. Oggi
la campagna è diventata periferia e
questa grande differenza non c’è più.
Dicono che i bambini che vengono
dalle periferiche risultano nelle
classi superiori più calmi ed
educati.
Può essere. Ma comunque non si
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può generalizzare, ogni alunno è un
mondo a sé.
La »Vergerio« è di fatto la scuola
con lingua di insegnamento italiana
più grande in Slovenia. Che eredità
ti ha lasciato la ex preside, prof.
Dekleva?
Io entravo in carica quando l’anno
scolastico era già avviato, da questo
punto di vista è stato un po’ un
vantaggio. Per me è una situazione
del tutto nuova, prima ho insegnato
storia e scienze sociali. Il mio
primo anno di lavoro l’avevo fatto
proprio qui alla »Vergerio« dunque
l’ambiente, in parte, lo conoscevo.
Ora, per dirigerlo al meglio, bisogna
imparare tante cose. Devo dire che
una mano determinante me l’ho data
il collettivo: sia gli insegnanti che il
personale tecnico-amministrativo, in
particolare la vicepreside, che mi ha
aiutato a calarmi nel ruolo.
Qual’è la cosa più difficile?
Proprio quella di calarsi nel ruolo, fare
proprio il sistema che la ex preside
ha creato in questi 17 anni, e cercare
a quel punto di dare una personale
impronta di gestione.
Che rapporto hai con gli alunni?
Coi ragazzi ho sempre avuto un
rapporto aperto. Mi piace molto
scherzare. Penso che senza una dose
di ironia non sia possibile lavorare a
scuola.
Ma se scherzi, potrebbero non
prenderti sul serio.
Al contrario. Impostare un tipo di
approccio in cui è ben chiaro quando
si scherza e quando si lavora, porta
a buoni risultati. Bisogna trovare
un accordo e spiegare agli alunni
quali paletti non vanno superati.
L’atmosfera comunque non deve
influire sulla valutazione: chi sa sa,
chi non sa non sa. E poi un’altra cosa:
ogni classe è un pianeta differente;
bisogna adattare il proprio modo di
lavorare, la propria personalità ad
ogni classe, se non ad ogni singolo
ragazzo. Io penso di non aver mai
lavorato allo stesso modo in un
anno in classi diverse.E’ una cosa
comunque difficilissima.
Ti capita di parlare direttamente
con loro anche adesso che sei
preside?
Purtroppo spesso arrivano in
ufficio solo quando c’è qualcosa da
rimproverare. Gradirei incontrarli più
spesso, quando fanno cose meritevoli.
Comunque ogni colloquio, specie
quello che nasce da un problema, è
utile. Ogni rosa ha le sue spine, ma
quelle spine servono a farti capire
cosa non funziona.
Che rapporto ha la scuola
elementare italiana di Capodistria
con le altre scuole slovene del
territorio?
Se partiamo dai presidi, il Comune
di Capodistria ha un attivo dei presi
che si incontrano 3-4 volte all’anno.
Sono momenti in cui, nelle situazioni
più informali, ci si scambia idee,
opinioni, esperienze che nei libri
e nei vari manuali faresti fatica a
trovare. Certo la nostra scuola è
un po’ specifica, perchè abbiamo
meno alunni. La sfera nella quale
gravitiamo è molto varia: siamo a
Capodistria ma ci sono aspetti che ci
uniscono alla parte croata dell’Istria e
a Fiume, per altri aspetti siamo legati
a Muggia e Trieste.
La scuola è anche fattore di identità
linguistico-culturale?
Anni fa ci si chiedeva se le nostre
scuole siano »della nazionalità« o
»con lingua di insegnamento italiana«.
Io penso tutte e due. Noi comunque
portiamo avanti una tradizione che ha
origini secolari in queste terre, che si
identifica con la nazionalità e con la
minoranza italiana.
Ma questa scuola è frequentata
anche da alunni sloveni e di altre
nazionalità…
Chi si iscrive a questa scuola
abbraccia anche una certa filosofia.
Ha una scelta abbastanza vasta nel
Comune di Capodistria. Se sceglie
la nostra scuola, sia lui che i suoi
genitori, devono essere coscienti
che il ragazzo costruirà il loro primo
sapere in lingua italiana. Oltre alla
lingua la scuola porta avanti anche
dei valori che sono legati alla nostra
regione, alla nostra situazione, alla
nostra storia.
La città
Che rapporto ha, o vorrebbe avere,
con i genitori?
Il nuovo sistema da ai genitori maggori
possibilità di coinvolgimento nella
vita scolastica, ma questa opportunità
viene sfruttata poco. La famiglia
è un elemento fondamentale di
questo sistema-scuola. L’istituzione
è vista come un insieme di soggetti
che collaborano per condurre
gli alunni attreverso la scuola
dell’obbligo acquisendo le necessarie
competenze.
Come responsabilizzare di più i
genitori?
Basterebbe poco. Un amico, docente
universitario, di lavoro mi ha detto
che certe volte i genitori vengono
in facoltà per parlare dei figli. Le
cose son cambiate. Per certi aspetti
gli alunni di oggi sono »più avanti«
rispetto a quanto non lo eravamo
noi, per altre sono »indietro«. Più
riusciremo a responsabilizzare i
ragazzi e meno possibilità ci sarà che
crescano in dei ragazzi con difficoltà
di confrontarsi con le difficoltà di una
società complessa come la nostra.
La scuola ai tempi della Jugoslavia
ci dava meno nozioni, ma una
buona cultura generale. Ora mi
pare il contrario. A 14 anni i ragazzi
ti elencano nomi e caratteristiche
di tutti i batteri, ma si bloccano se
gli chiedi la capitale di un paese
europeo…
I nuovi curricula di insegnamento nelle
varie materie sono già stati preparati,
ma non vengono ancora utilizzati.
Si parla di snellire i programmi, di
puntare più sulle competenze e meno
sui nozionismi. Io mi aspetto che
questi programmi entrino in vigore
quanto prima. Noi abbiamo bisogno
di persone che ragionano, persone
capaci di uscire dai compartimenti
stagni di una volta in cui le materie
non venivano trasmesse in modo
interdisciplinare.
Cosa
intende
per
interdisciplinare?
Per dire…noi abbiamo previsto
per quest’anno più giornate in
cui adatteremo l’orario. Verranno
studiati determinati blocchi tematici,
nella stessa settimana, però attraverso
diverse discipline.
Quali obiettivi ti sei posto per i tuoi
cinque anni di mandato?
Di continuare il discorso di apertura
della scuola verso l’esterno,
dunque di far vedere che ci siamo,
anche collaborando con i mezzi di
informazione. Poi modernizzare
l’istituto, con la creazione di una
rete internet (ICT) e di ampliare le
rispettive competenze .
Tra l’altro avete rinnovato il sito
web della scuola (www.vergerio.
si).
Va detto che la ex preside, prof,
Dekleva, ha fatto molto, ha posto
alcune basi che ora intendiamo
portare avanti. Io ho ritenuto
subito che andava potenziata la
comunicazione con l’esterno. E il sito
internet scolastico è, e lo sarà sempre
di più, un mezzo attraverso il quale
ti fai conoscere nel mondo. Ci sono
genitori che chiamano dall’estero che
avevano conosciuto la nostra scuola
tramite internet e che chiedevano
informazioni. Era una priorità che
abbiamo realizzato.
Ora
però
aspettate
la
ristrutturazione
dell’interno
edificio elementare-ginnasio. Date
le scarse disponibilità finanziarie
del Paese, i tempi previsti di sono
un po’ allungati…
Prima o poi ci arriveremo. L’idea
è quella di ristrutturare l’edificio,
realizzando un nuovo piano nelle due
ali laterali dell’edificio. Si farà un
livellamento nei confronti del corpo
centrale della scuola – quello dove si
trova l’aula magna – che in effetti è più
alto. Questa operazione ci consentità
di guadagnare alcune centinaia di
metri quadri di superficie.
Qualche particolare?
Intanto avremo un ambiente nuovo e
rinnovato. Il giardino interno diverrà
coperto, verranno abbattuti i due
alberi e verranno tolte le vetrate dagli
archi in pietra bianca.
Quante generazioni sono stete
fotografate davanti a quegli alberi.
Non è un peccato abbatterli?
E’ un peccato, però non avendo
superfici fruibili dai ragazzi per fare
un po’ di movimento, d’inverno
ad esempio…la palestra è sempre
occupata, o per il ginnasio o per
lezioni o per esterni.
Poi?
L’aula magna verrà allargata allo
spazio dove adesso si trova la
biblioteca della scuola elementare.
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La città
Quest’ultima troverà posto in un’altra
aula del primo piano. L’aula magna
diventerà uno spazio enorme di 140
metri quadri. E’ prevista qualche aula
in più e l’ascensore.
Durante la ristrutturazioni, dove si
farà lezione?
Di questo non abbiamo ancora
parlato. Suppongo che si ricorrerà a
un rimedio, come è stato fatto per i
ragazzi della scuola slovena quando
si costruiva la scuola in Bonifica.
Scuola-Comunità degli italiani: si
può collaborare?
Ho avuto colloqui col presidente
della CI, Mario Steffè, e abbiamo
visto che si potrebbe avviare una
serie di attività extrascolastiche da
svolgersi anche nella sede della
Comunità. In questo periodo si stanno
avviando i corsi di »Tecniche audiovideo«, mentore Damian Fischer,
e di »Cucina istriana« a cura di
Mariella Zanco Tavernise. Si voleva
fare di più, ma c’è un problema di
orari. Generalmente le attività di
interesse che si svolgono a scuola, si
svolgono dalle 13.30 alle 16, specie
se riguardano l’uso della palestra.
Gli insegnanti che fanno attività
d’interesse lo fanno subito dopo le
lezioni. Per la Comunità è più pratico
accogliere i ragazzi dopo le 16, ma
per loro non lo è perchè a quell’ora
di solito sono già tornati a casa. Se
troveremo delle attività interessanti,
se ci sarà una buona risposta dei
ragazzi certamente proseguiremo il
discorso.
Potrebbe
essere
anche
un
pretesto per farli stare insieme,
dando un’alteriore occasione di
comunicare in italiano anche fuori
le mura scolastiche.
Certo. Ma anche di relazionare con
gli altri ragazzi. Io vedo questi ragazzi
che hanno finito per esempio la nona
classe, sono un gruppo, comunicano,
sono rimasti amici. Anche se
frequentano scuole diverse, restano
in contatto. I legami che maturano
nella scuola dell’obbligo potrebbero
trovare sede in queste situazioni
legate alla Comunità.
Ovviamente bisogna proporre dei
contenuti che incontrino l’interesse
dei ragazzi…
Dobbiamo discutere e cercare di
capirlo assieme a loro.
Come siete messi con gli insegnanti.
Riuscite a coprire agevolmente
tutte le materie?
Grossi problemi non ci sono.
Abbiamo due insegnanti che arrivano
dall’Italia, però soltanto uno tramite
la convenzione UI-UPT. I problemi
per alcune materie di presenteranno
tra qualche anno quando alcuni nostri
insegnanti andranno in pensione. Ad
esempio per le lezioni di musica.
Musica perchè? Perchè ci sono
poche ore e un maestro dunque
basterebbe per coprire le esigenze
delle scuole italiane di Capodistria,
Isola e Pirano. Bisogna pianificare:
abbiamo chiesto anche una borsa
studio per questo tipo di quadro, forse
qualcuno avrà interesse ad aderire e a
venire a lavorare a scuola. Devo dire
comunque che abbiamo insegnanti
molto validi.
Abbiamo anche alunni validi. Lo
dimostrano i piazzamenti nelle
gare a livello nazionale.
Le verifiche nazionali ci portano
ogni anno risultati diversi, pur con
gli stessi insegnanti. Dipende molto
dunque, anche dalla generazione.
Penso che dobbiamo lavorare di più
sulla lingua. Dovremmo impostare
un sistema di lavoro che presupponga
l’insegnamento della lingua a tutti
i livelli, in tutte le materie; con il
collegamento degli attivi professionali
in senso verticale, dalle inferiori
fino alle superiori. Sono discorsi
abbastanza difficili da impostare, ma
che credo li dovremo affrontare.
E’ difficile gestire, oltre alla sede
centrale, anche le tre sezioni
periferiche?
Il mio problema è proprio questo.
Vorrei essere molto più presente nelle
periferiche, ma per vari impegni ciò
non è possibile.
Possiamo essere soddifatti con il
livello delle iscrizioni?
Penso di sì, anche se bisogna tener
conto del fenomeno Crevatini. Per me
sarebbe importante tirare un po’ su il
numero delle iscrizioni a Bertocchi
e Capodistria. A Semedella stiamo
abbastanza bene.
Il
fenomeno-Crevatini
è
determinato dal fatto che in quella
scuola si iscrivono, negli ultimi
anni, anche bambini del vicino
Comune di Muggia.
Un fenomeno particolare, ma che non
mi sorprende. E’ chiaro che alcune
materie vengono insegnate in maniera
diversa rispetto all’Italia, tipo la
storia, ma per il resto…la matematica
resta la matematica.
Alcuni genitori di questi bambini
muggesani vedono per i loro
figli l’opportunità di imparare
lo sloveno pur frequentando una
scuola con lingua di insegnamento
italiana.
Una cosa che ho percepito anch’io.
E sono contento che questa nuova
generazione di genitori cominci ad
uscire da certi stereotipi, di chiusura
nei confronti della lingua slovena, che
erano diffusi oltreconfine. Mi piace
ricordare una frase detta da un docente
della Ca’ Foscari: »Il monolinguismo
è curabile«. E’ evidente che più lingue
apprendi e più sei ricco.
Direttore, tanti auguri.
E’ stato un piacere.
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La città
Le ragazze del “Carli” premiate per le poesie in inglese
Ancora una volta gli studenti del ginnasio italiano “Gian
Rinaldo Carli” di Capodistria si sono distinti in ambito
internazionale tenendo alto il nome della scuola grazie
alla loro padronanza della lingua inglese. Hanno vinto
infatti il primo premio al Concorso Internazionale di
poesia Castello di Duino (hanno partecipato 65 scuole
da tutto il mondo). L’edizione 2010 ha avuto come tema
“Luce/Ombre” – il ciclo naturale del tempo, i colori della
realtà e dell’anima, le metafore della vita, del pensiero e
del dubbio. Il gruppo, composto da Luisa Peress, Barbara
Jeretina Grbec, Mia Dellore, Krisel Božič, Angelina
Ćirković, Vita Valenti e Valentina Vatovec, ha proposto
una raccolta di liriche corredata da fotografie, sempre
legate alla tematica stabilita. “Per scrivere e capire la
poesia bisogna sentirla nel cuore” rileva Alenka Pišot,
professoressa di inglese nonché docente responsabile del
progetto stesso e da anni grande spronatrice dei talenti
linguistici che passano dal “Carli”, “E questo è ciò che
hanno i nostri alunni – quella sensibilità e tenerezza
dell’anima che permettono di sentire la vita ed i suoi
valori. Per cui mi fa tanto piacere che il loro livello della
conoscenza dell’inglese sia tale, da permettere loro di
esprimervi i propri sentimenti più profondi”.
Sono molti anni che i ragazzi dell’istituto capodistriano
ottengono eccellenti risultati, sempre animati ed
entusiasmati dalla professoressa Pišot, nelle varie
competizioni e progetti sia statali sia internazionali. Si
tratta di successi importanti, soprattutto se contrapposti
al rapporto proporzionale del piccolo numero di giovani
dell’istituzione CNI in confronto a quelli di altre grandi
scuole del Paese o d’oltreconfine.
Premio “Žagar” alla prof. Loredana Sabaz
Alla prof.Loredana Sabaz, docente di fisica e matematica, al Ginnasio “Carli” di Capodistria è stato conferito il Premio
Žagar – riconoscimento che la Repubblica di Slovenia dedica dal 1994 a istituzioni e insegnanti che si distinguono
per il loro operato. Nella motivazione si legge che la Prof. Sabaz si è prodigata per mantenere le tradizioni attraverso
la costituzione di un museo scolastico, ma ha rivolto il suo impegno anche all’innovazione sia nell’insegnamento
sostenendo in prima persona progetti nazionali ed internazionali. Nella foto la consegna del premio da parte del
Ministro Lukšič.
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La città
La »Festa delle zucche« all’asilo di Semedella
Giovedì, 28 ottobre, all’asilo di Semedella, anche quest’anno sotto Halloween abbiamo organizzato la
consueta “Festa delle zucche”.
E’ stata una giornata magica! La nostra aula per qualche ora si è trasformata in un castello stregato,
addobbato con ragnatele, pipistrelli, streghe, fantasmi, luci intermittenti e zucche intagliate.
Le maestre hanno cambiato sembianze in zucche birichine ed hanno preparato una simpatica scenetta.
“Siamo quattro zucche ballerine
dette anche birichine.
Siamo belle colorate
siam rotonde e ben formate.
Tante cose noi facciamo:
dai bambini noi andiamo
e con loro Halloween festeggiamo!”
Noi bambini non siamo stati da meno, e ci siamo
trasformati in fantasmini. Tra rumori inquietanti e
urla divertite abbiamo ballato e cantato: ci siamo
divertiti proprio tanto!
Giuria capodistriana a Potenza
Dipartimento di italianistica e scuole del territirio
Il Dipartimento di Italianistica
della Facoltà di Studi Umanistici
dell’Università del Litorale assieme
alle scuole italiane del nostro
territorio è stato invitato dallo scorso
anno accademico a partecipare in
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qualità di Giuria al Premio Nazionale
di Letteratura per ragazzi “Mariele
Ventre” (già direttrice del Coro
dei bambini dell’Antoniano di
Bologna) organizzato dal Comune
di Sasso di Castalda (Potenza)
e dal Circolo Culturale “Silvio
Spaventa Filippi” - Fondazione
Premio
Letterario
Basilicata.
Lo scorso anno (2009/2010) alla
manifestazione hanno partecipato
gli allievi della SE Vincenzo e
Diego de Castro di Pirano, quelli
del Ginnasio Gian Rinaldo Carli
di Capodistria e gli studenti del
Corso di Laurea in Italianistica
dell’Università
del
Litorale.
Quest’anno in qualità di giuria
studentesca hanno collaborato gli
allievi del Ginnasio Gian Rinaldo
Carli di Capodistria guidati dalla
docente Anita Dessardo e gli studenti
del Corso di Laurea in Italianistica
dell’Università del Litorale. Per il
Premio 2010 i ragazzi hanno dovuto
leggere 34 libri della categoria
narrativa per ragazzi che va da 9
agli 11 anni e 24 libri della categoria
narrativa per ragazzi da 12 a 16
anni. Alla cerimonia di premiazione,
svoltasi a Potenza il 23 maggio
hanno partecipato in qualità di giuria
del concorso 25 nostri ragazzi e 4
docenti.
La città
DIBATTITO TEMATICO A CAPODISTRIA
Sfide e opportunità del bilinguismo
Conoscere ambedue le lingue del Capodistriano e assimilare la ricchezza culturale offerta in regione, consente
ai cittadini di poter contare su una “marcia in più”. È la constatazione di fondo emersa al Forum europeo dei
cittadini intitolato “Opportunità e sfide della vita in territorio bilingue”. Organizzato presso il Centro “Rotunda”
di Capodistria, il momento di incontro e riflessione ha visto la partecipazione del deputato europeo, Zoran
Thaler, del presidente della Giunta esecutiva dell’Unione Italiana, Maurizio Tremul, e dell’ex eurodeputato
capodistriano, Aurelio Juri. A condurre la serata è stata chiamata la giornalista, Devana Jovan.
APERTURE - Ad aprire il dibattito
è stato l’eurodeputato Zoran Thaler,
eletto sulle liste socialdemocratiche,
che in Istria e precisamente a Padena,
ha stabilito la sua seconda residenza.
È proprio in Istria che ha potuto
toccare con mano la facilità con cui
i residenti nell’area passano da una
lingua all’altra e la ricchezza che
deriva dall’essere bilingui. La “piccola
torre di Babele” gli ricorda molto la
situazione che vive al Parlamento
europeo, dove al contrario di quanto
si temeva, le lingue dei popoli
più piccoli, come lo sloveno, non
senza contare i vantaggi che ciò può
comportare nel mondo del lavoro.
MARCIA IN PIÙ - Per Maurizio
Tremul crescere in territorio bilingue
è una possibilità in più perché tale
condizione apre la strada a conoscere
due lingue, due culture, realtà
storiche diverse e a comprendere il
pensiero dell’altra comunità. Tremul
si è detto favorevole ad un’istruzione
plurilingue su tutto il territorio. A
suo avviso un approccio del genere
potrebbe contribuire a colmare
le lacune ancora esistenti in fatto
di comprensione della posizione
ha detto – le innumerevoli iniziative
promosse dalle nostre istituzioni
passano spesso inosservate sui mezzi
d’informazione sloveni, compresi
quelli che per statuto, come la RTV
Slovenia, dovrebbero seguirli”.
MONDO SCUOLA - Tra gli altri
temi affrontati in sede di dibattito
va menzionato quello incentrato sul
mondo della Scuola CNI. “È un tema
delicato, una sfida che va affrontata
vista la massiccia iscrizione di
bambini di altre nazionalità. La loro
carente competenza linguistica crea
problemi nei processi pedagogici,
Maurizio Tremul, Zoran Thaler, Devana Jovan e Aurelio Juri.
sono minacciate. Ciò fa capire che
nell’Europa unita si sente la necessità
di aperture in tema di uso delle lingue
e che gli eventuali problemi sono
innanzitutto delle sfide. Aurelio Juri
ha rilevato come, pur parlando in
italiano, si sente perfettamente inserito
nella realtà locale capodistriana e
compreso dalla maggioranza dei suoi
concittadini. Conoscere la lingua
dell’alta comunità è, però, a suo
avviso un segno di rispetto reciproco,
della Comunità Nazionale Italiana.
“Nonostante tutti i cambiamenti
avvenuti, la fine delle dittature
fascista e comunista, ci si chiede
ancora come mai vi sia una presenza
italiana in Istria. Servirebbe una
campagna d’informazione su quanto
accaduto nella regione, sul fatto
che per gli italiani rimasti dopo la
tragedia dell’esodo sia giustificato il
bilinguismo, il sistema scolastico e
gli altri diritti della CNI. Purtroppo –
specialmente se non si riesce
ad affermare l’importanza della
comunicazione in italiano, pur non
volendo negare le altre identità. La
CNI, però – ha concluso Tremul –, è
sempre stata e rimane contraria alla
chiusura delle proprie scuole per gli
alunni non italiani”.
Gianni Katonar
(La Voce del Popolo)
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La città
Koper-Capodistria, 15.10.2010
PRILOŽNOSTI IN IZZIVI ŽIVLJENJA NA DVOJEZIČNEM OBMOČJU
OPPORTUNITÀ E SFIDE DEL VIVERE SUL TERRITORIO BILINGUE
Vsem lep večer. A tutti buona sera.
Začnem naj svoj uvod z največjo prednostjo, ki jo prinaša živeti na dvojezičnem območju: posso parlare anche
in italiano e dalla maggioranza dei miei concittadini, di chi vive e abita il mio territorio, venir perfettamente
compreso. Almeno qui da noi. So non essere così subito oltre confine, concretamente a Trieste, non attrezzata,
pur vivendovi una consistente minoranza autoctona, quella slovena, a territorio bilingue. Lo sono alcune realtà
municipali minori nei dintorni, ove la comunità slovena è però in maggioranza.
Se vnaprej opravičujem, če bom preskakoval iz enega v
drug jezik, a ker je tema, ki k temu kliče, in ker je tu pri
nas tako preskakovanje pogosta praksa, verjamem, da mi
tega ne boste zamerili. Govorimo torej o priložnostih in
izzivih življenja na dvojezičnem območju. Priložnosti
se ponujajo same po sebi občanki in občanu, še zlasti
v mladosti, ko pričenjata poklicno ali karierno pot, če
obvladata oba tukajšnja jezika, poleg njiju pa še vsaj
enega od svetovnih. Kot prvo, z obvladovanjem obeh
jezikov okolja, izkazujeta pripadnost svojemu prostoru
in njegovi specifični zgodovinski-kulturni identiteti ter
spoštovanje soobčanke in soobčana druge narodnosti in
jezika, kar je ključ normalnega, ustvarjalnega in prijetnega
sobivanja. Kot drugo, je sporazumevanje lažje tako doma
kot do soseščine, kjer je pretežno v uporabi jezik tvojega
manjšinskega sokrajana.
E così vivi meglio il proprio spazio culturale e meglio
percepisci quello accanto o che interagisce col tuo, come
nel caso del territorio bilingue. Personalmente mi sento,
come appartenente a questo territorio, più ricco, più
completo, più a casa ovunque vada.
Abbandonando la dimensione metafisica e rientrando nel
concreto, chi conosce entrambe le lingue, oltre a possedere
la specifica qualifica richiesta, trova sul nostro territorio
lavoro prima, di chi ne conosce una sola. Do per scontato
ovviamente il rispetto delle regole. La conoscenza attiva
dell’ italiano è per altro prescritta per tutti quei posti di
lavoro nella struttura pubblica di servizio alla cittadinanza
ed è raccomandata anche per chi si impiega nelle aziende
e nei servizi privati, specie in quelle attività che operano
oltre confine e col resto d’Italia.
Raziskave pričajo, da kdo odrašča v dvojezičnem okolju,
pristopa lažje tudi k tujim jezikom, k učenju tujega ali
tujih jezikov. In kakšni so izzivi, če ne ostajamo le pri
priložnostih in prednostih življenja na dvojezičnem
območju? Ja, veliko jih je.
Za že odraslega priseljenca, ki če iz tujine, mora pristopiti
na novo k obema jezikoma okolja, če iz notranjosti
Slovenije pa k njemu še tuji italijanščini… kako čim prej
do čim boljšega in temu prostoru primernega jezikovnega
znanja in boljših zaposlitvenih možnosti? Ob upadanju,
zavoljo asimilacije in drugih družbeno-kulturnih
procesov, števila avtohtonih Italijank in Italijanov, ki so
vendarle nosilci tukajšnjega drugega okoljskega jezika,
ob upadanju števila njihovih otrok v italijanski šolah in
poraščanju števila otrok druge jezikovne pripadnosti, ki
jim je italijanščina vsaj na začetku tuja, ki jo doma s starši
ne govorijo… kako do ohranjanja nivoja jezikovnega
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poučevanja, da ne bo tudi kakovost znanja italijanščine
upadala? Kako do tega, da se bo manjšinec opogumil
in bolj pogosto uporabljal svoj jezik v komunikaciji
z večinskim prostorom? Slednja se še vedno odvija
predvsem v slovenščini. Govorim o opogumljanju, ker
najdeš tu pa tam še ljudi, ki zaradi predsodkov, ignorance
in drugih razlogov, italijanščino sprejemajo silom prilike,
ti dajo vedeti, da jim je težko z njo občevati, ali jo celo
odkrito zavračajo. Pripadnica, oziroma pripadnik narodne
skupnosti se praviloma v taki situaciji jezikovno poskrije
ter spregovori v jeziku sogovornika, da ga ne bi izzival in
si delal težav.
Non ultima, un’ altra importante sfida in specie per
la comunità minoritarie... come fare perchè il suo
appartenente, oltre alle difficoltà che incontra sul territorio
coi concittadini avversi all’italiano e, se vogliamo, con la
carenza di cura dei suoi diritti costituzionali da parte delle
istituzioni preposte, non si ritrovi estromesso, emarginato,
»scomunicato« nel suo essere esponente della minoranza,
per quanto non eletto, anche dalla comunita stessa, ovvero
da chi la rappresenta e ne gestisce formalmente le sorti, nel
momento in cui, parimenti ai cittadini della maggioranza,
entra in politica, entra in un partito politico, che se opera
in un contesto nazionale o globale multiculturale non
può che essere sovranazionale, e quindi attento a tutti i
cittadini, sloveni, italiani e di altra etnia.
Ho avuto l’ onore di esser stato, eletto sulle liste
socialdemocratiche, sindaco per quasi due mandati
di questa città, successivamente per tre legislature
consecutive deputato al parlamento nazionale e per una
supplenza di 9 mesi, prima dell’amico Thaler, anche a
quello europeo, ma sento dire di non aver soddisfatto,
almeno come sindaco, le aspettative dei miei connazionali
capodistriani. Non mi si spiega il perchè, ma ne prendo
atto. Ad ognuno il diritto di giudizio e scernita. Ma non è
questo che mi si è rinfacciato quando mi sono candidato al
seggio specifico alla Camera di stato. Non ero il candidato
giusto e qualificato a rappresentare la comunità italiana
solo perchè per lunghi anni esponente anche di spicco del
partito socialdemocratico.
Evo, tudi kako iz predsodka, da ko vstopiš v strankarsko
politiko se idejno okužiš in izgubiš objektivnost v presoji
manjšinske problematike, zatorej narodne skupnosti ne
moreš več predstavljati, je eden od pomembnih izzivov
življenja na dvojezičnem, oziroma narodnostno mešanem
območju, s katerim se mora pa spopasti manjšina sama.
Aurelio Juri
La città
Costruite cent’anni fa, ma le chiamano ancora
Le Case nove
Abbiamo incontrato la signora Irene Kravos, nata Paoli, residente dal 1933 alle Case nove. Il caseggiato venne
costruito nel primo decennio del secolo scorso per accogliere operai e impiegati. Delle 28 famiglie che lo abitavano
fino agli anni ‘50, oggi ne rimangono due.
Ci parli di lei, signora Irene?
Son nata del 1929. Mio papà xe
morto che gavevo 4 anni, quasi no lo
ga gnanca conossù che ‘l iera sempre
pei ospedai ch’el iera tubercoloso.
Se ciamava Antonio Paoli, nativo de
Santa Domenica de Visinada. El iera
vegnù a Capodistria per lavorar, el
iera guardian dele carceri.
E ha sposato una capodistriana?
Maria Kosir. Sua mama, mia nona,
che la nasseva Marsich – prima
cugina del dotor - se gaveva sposà
co’ un de Lubiana, e dopo i taliani de
Kosir i ghe ga messo Cossi. La stava
in quela casa de l’Ospedaleto. Iera
l’ospedaleto per le malatie infetive;
iera un fradel de mia nona, Cesare,
che fasseva infermier. Là stava anca
una certa Adele, che la xe restada
dopo l’esodo, e la se ocupava de tanti
gati.
La ga fradei o sorele.
‘Vevo un fradel che xe morto a
Trieste. Anca mia mama xe andada
a Trieste, che se no la andava no la
gaveva la pension de guera de mio
papà.
E la xe restada sola?
Sì, ma mi iero za sposada, qua.
Da quando abita alle Case nove?
De quando gavevo 4 anni…nel 1933.
Qua in piassaleto giogavimo la fefa.
E’ passato un secolo da quando
hanno costruito questi palazzi, ma
i capodistriani li chiamano ancora
le Case nove.
No cambierà più questo nome. Case
nove restarà sempre.
Per chi vennero costruiti questi
edifici?
De una parte, qua dove stago mi, iera
tuto guardiani delle carceri, de l’altra
iera per i impiegati…che lavorava in
banca, maestri, professori…
Gente del posto o che veniva da
fuori?
No no, iera dela Sicilia, anca un
napoletan…insoma della bassa.
Voi siete venuti subito in questo
appartamento?
Sì, perché xe morta una portinaia e
dopo i ga trovà mia nona. La ga fato
la portinaia e dopo che la xe morta xe
restada mia mama. E dopo son restada
mi perché mia mama xe andada via.
Tre generassioni de portinaie. Me
ricordo che mia mama xe andada via
in otobre del ’55; e in novembre, un
mese dopo, la iera za a Capodistria.
Dopo che la se ga fato el passaporto.
La stava tre quatro giorni e dopo la
andava a Trieste.
Ricorda qualche vicino di casa di
allora?
Me ricordo i Tòdero, del altra parte
iera i Iacuzzi – lu iera maestro e
diretor de questi blocchi – el maestro
Cherini che stava al numero 6 in
pianteren, el vecio maestro Venturini
in secondo pian co’ la moglie Pinota
che fasseva teatro e la sonava el piano.
La iera soto el Circolo italian, mi so,
me ricordo che la andava al Circolo
italian; e in più la fasseva teatro.
Perché chiamavano il Venturini col
soprannome di Calcaovi?
Sàpola-ovi ghe disevimo, per el suo
modo de caminar, come che ghe
mancassi l’apogio.
Le Case nove sorgono su un terreno
che prima era un grande orto.
Sì, dela casa vecia (casa Baseggio,
ex Vida e Gravisi-Tiepolo, ndR) qua
de drio che adesso i la sta metendo
a posto fina in Carantan. Per andar a
scola, in via Combi (oggi Via Krelj,
ndR), passavo per l’atrio de quela
casa. No me ocoreva gnanca meter el
capoto. Nella via, oggi Via Pobega,
ma in quela volta Calle dei Benedettini
(fino al 1956, ndR), per vegnir in qua
ti dovevi verzer el porton, che ‘desso
no ‘l xe più.
Accanto alle Case nove c’era la
lavanderia…
Tuti vegniva qua a lavar. Nela casa
che i sta governando adesso iera, al
11
La città
pianteren, due grandi cisterne per
scaldar l’acqua. Mi quando che son
vegnuda qua iera za l’acqua in casa,
ma se andava cior anche ale pompe.
Una iera zo de Betalè.
Come si lavava la biancheria?
Ingrumavo la roba in mastela, e
lavavo con savon. Quando che iera
mace, metevimo senera e acqua de
boio. Vigniva bel bianco e profumà.
Suo marito Franc di dov’è?
De Aidùščina. Ga trovà lavor ala
Frutus…
Fra voi parlate sloveno o italiano?
Sempre italian. Mio marì ga fato
le scole italiane, l’aviamento e el
ginasio. Saveva parlar in lingua, con
mi ga imparà el nostro dialeto.
Quali erano le mansioni del
portinaio delle Case nove?
Scovar le scale, de inverno se serava
i portoni ale 9 de sera, d’estate se
portava l’aqua…perché bisognava
domandarghe ala gente che ne
daghi l’aqua per fregar le scale. Noi
‘vevimo l’aqua in casa che gran parte
a Capodistria ancora no i ‘veva. Solo
in tempo de guera iera serade le pipe,
alora andavimo cior dove che iera…
ala Muda, che vegniva dal Bolàs che
xe una campagna fora che se ciama
Bolàs. Go fato tante ciacolade con tua
nona (Stefania, ndR).
La conosceva?
Mama mia, quante volte son andà de
ela a bever cafè. Go anca lavorà con
ela nela fabrica del pesse.
Mi diceva che, per un periodo, lei
ha frequentato l’Istituto Grisoni…
Perché mia mama la voleva che
divento qualcossa, che studio. Go
fato l’Istituto fina la quinta e dopo
son vegnuda qua de drio, che iera la
scola feminile. E là go fato ancora
due classi. E lei dove la sta?
Mi son qua rente. Mani Galinassa
me ga dito che la iera la vecia
casa dei Scoci, Schìpiza. La se li
ricorda?
Come no? Se capissi. E che manzi
che i ‘veva! Caro grande per andar in
campagna. Iera paolani.
Ma iera tanti paolani in questa
zona?
No tanti, i più iera ala Muda. In
piassal de Bartoli…presenpio gavevo
la sorela de mia mama che la stava
propio visavi l’Ospedaleto, la iera
sposada Vascotto.
Dove andavate in chiesa voi delle
Case nove?
In Domo, in Sant’Ana e i Capussini.
La nona de Graziela (Ponis, ndR) la
12
gaveva le ciave dela cesa.
Quando si è sposata?
Nel ’54.
Quando i capodistriani erano
ancora a casa.
Sì, mia mama xe andada via nel ’55.
Dopo aver fatto la portinaia, cos’ha
fatto nella vita, Irene?
In fabrica de pesse e dopo go fato la
pulitrice ala scola economica slovena,
qua de drio. I me ga sempre rispetà, i
maestri, i diretori…come Novak, e i
altri.
I suoi figli hanno fatto la scuola
slovena o italiana?
Sia Liliana che Bruno ga fato la scola
slovena in Belveder, però i sa parlar
italian, anca scriver e leger.
Ha mai raccontato loro della
Capodistria di una volta?
Ghe parlava più mia mama. Ela ghe
piaseva contar come che iera prima.
Irene, di fronte a lei abitava Nicolò
Vascon…
Nicolò e i sui iera amici de tuta la
familia de mia mama. Ma sì, lu xe
vignù dela Russia qua.
Dalla Russia?
Ai tempi del fassismo xe scampà
in Russia che a iera comunista. Xe
restà no so quanto tempo e dopo xe
tornà a Capodistria c’una russa…una
bela dona. Ma no i ga vudo fioi. La
xe sepelida qua in Canzan. Iera una
bon’anima iera, Nicolò.
A distanza di cent’anni, oggi come
si sta nelle Case nove?
I austriaci ti sa che i costruiva come
se devi. Ottima anche la struttura,
no iera de cossa lamentarse. Stanze
spaziose, ogni quartier ga un suo toco
de cantina, e un suo toco de sofita.
Una vicina di casa, la professoressa
Graziella Ponis-Sodnikar, presente
all’incontro,
s’inserisce
nella
conversazione e rileva quanto
segue.
GRAZIELLA – Problemi sono
venuti dopo, quando ci sono stati
Foto del 1910
altri interventi, alcune persone hanno
chiuso quelle che erano aperture
normali dove circolava l’aria.
L’hanno chiusa e dunque s’è formata
poi l’umidità. Ciò ha provocato la
caduta di intonaci e altri danni.
Gli appartamenti hanno superfici
diverse?
Quei che sta in mezo xe più pici rispeto
alle ale laterali. L’altro palazzo aveva
sempre doppi servizi perché era
destinato agli impiegati, mentre da
questa parte c’erano gli operai. E’ per
questo che l’altro palazzo ha meno
famiglie, perché gli appartamenti sono
più grandi. Hanno anche un cortile
interno che dà sul Carantan; anche
la nostra casa aveva un cortile cinto
da mura che purtroppo ci passano
tutti: hanno costruito dei parcheggi
chiaramente abusivi, sono state fatte
delle aperture di casa di appartamenti
che lì non c’erano una volta. Quello
una volta era il cortile interno della
nostra casa. Era tutto prato che la
gente utilizzava per stendere i panni.
E poi anche qui davanti, tra i due
palazzi, c’erano quattro sentierini
lastricati che portavano alle entrate;
tutto il resto era erba.
IRENE: Grasiella, ma vara che l’erba
la xe ancora?
GRAZIELLA – Sì…quella che
nasce tra il cemento.
Siora Irene, cossa ghe manca dela
Capodistria de una volta?
Ma (lunga pausa, ndR)…niente!
Ghe piasi la cità come che la xe
ogi?
Logico che me piase. Se i podessi far
altrimenti saria bon anca quel ha ha
(ride, ndR)…ma per dir la verità mi
no me interessa. Oramai go otantaun
ani, quel che sarà sarà… intanto
vegnarò bisnonna. Spero che rivarò:
ancora un mese manca.
A metà novembre è nata Živa.
Auguri bisnonna Irene!
La città
Prima Esposizione Provinciale Istriana:
riflessioni e confronti sull’Istria e la «finis Austriae»
di Kristjan Knez*
Quest’anno si stanno celebrando i cent’anni della Prima Esposizione Provinciale Istriana che, concepita sul
modello di altre esposizioni universali – come quelle di Londra (1851), Filadelfia (1876) e Parigi (1900) – fu
inaugurata a Capodistria il 1.mo maggio 1910. La mostra, divisa in sette sezioni – Agraria, Industriale, Marittima
(con acquario), Didattica, Belle arti-scienze-lettere, Stabilimenti balneari-stazioni climatiche-villeggiatura
sportiva, Corporazioni autonome-istituzioni sanitarie –, presentava al pubblico lo sviluppo culturale, storico ed
economico della regione dalla Preistoria al XX secolo. Per ricordare l’importante anniversario sono state allestite,
a partire dalla primavera/estate 2010, diverse mostre, organizzati eventi, conferenze, incontri e visite organizzate.
Uno degli appuntamenti più significativi è stato il convegno scientifico internazionale tenutosi a Palazzo Gravisi,
sede della Comunità degli Italiani “Santorio Santorio” di Capodistria, in quanto ha rappresentato un momento
di riflessione su quell’accadimento di un secolo or sono, nonché sul contesto storico in cui si colloca. Le iniziative
rievocative, che hanno portato all’attenzione della cittadinanza, e non solo, una pagina di storia regionale, si sono
concluse con due giornate di studio che hanno proposto vari tasselli attraverso i quali è stata ricostruita la cornice
di quell’epoca.
Gli interventi hanno analizzato i più svariati aspetti: dai
disaccordi politici tra le varie etnie del Litorale austriaco
al patrimonio culturale, dall’agricoltura all’istruzione,
dalla pesca alla sanità, dall’archeologia al turismo e alla
fotografia e potremmo continuare ancora. L’Esposizione,
infatti, si era prefissata di presentare quanto la nostra
penisola offriva agli albori del Novecento, proponendo
sia una sintesi del suo retaggio del passato sia l’offerta del
momento. L’evento tenutosi nel centro storico della città
di San Nazario, tra maggio ed ottobre del 1910, si annovera
tra le maggiori e più interessanti iniziative promosse
in Istria, che riscontrò giudizi positivi e l’interesse del
pubblico. Grazie ad uno sforzo non indifferente e a un
progetto chiaro e ben definito, i promotori furono in grado
di riunire un numero elevatissimo di espositori, di prodotti,
di oggetti e manufatti in generale che spaziavano in tutti
i settori ed abbracciavano un arco temporale vastissimo,
che dalla protostoria arrivava al Ventesimo secolo.
Quell’iniziativa, come pure altre manifestazioni coeve, era
figlia del suo tempo, pertanto non dobbiamo osservarla e
considerarla con i nostri parametri. Anche la sua genesi
non fu facile, ma accompagnata da polemiche e dissidi
tra le forze politiche delle tre anime della penisola, che
continuarono anche nei mesi in cui la mostra era in corso
ed esplosero con notevole violenza una volta terminata,
cioè nel momento in cui i rappresentanti italiani avrebbero
invitato i membri della Dieta provinciale ad approvare
il finanziamento attraverso il quale saldare il disavanzo
prodotto.
l’“Atene dell’Istria”, per cinque mesi si esaltò l’italianità.
L’appuntamento giustinopolitano fu un ottimo strumento
di promozione nazionale e al contempo rientra nel
novero di quelle iniziative collettive che alimentarono
l’irredentismo giuliano e promossero l’idea secessionista.
La parzialità della Prima Esposizione Provinciale Istriana
fu una conseguenza diretta dei dissapori esistenti tra le
etnie della regione, che non seppero accantonare la carica
nazionalistica e di conseguenza si trincerarono dietro
alle loro posizioni, che divennero baluardi inespugnabili.
Come scrisse lo storico Ernesto Sestan, il periodo che
precedette il Primo conflitto mondiale fu contraddistinto
Levate di scudi nel campo politico
Nel campo politico sloveno e croato ci fu una levata di
scudi e prevalse il rifiuto categorico; essi mai avrebbero
accolto quella proposta in quanto l’esposizione, benché
si fregiasse dell’aggettivo “provinciale”, a loro dire non
rispecchiava le caratteristiche di tutto il territorio. Essa,
ricordiamolo, era una “vetrina” in cui si presentarono
gli Italiani, fu un momento in cui essi esposero i frutti
del loro lavoro e le testimonianze del passato ancora
gelosamente conservate e attribuite quasi sempre alla
componente romanza. In quella che un tempo era definita
Lo storico Kristjan Knez, organizzatore del simposio.
13
La città
da un’esaltazione patologica dell’identità nazionale,
caratteristica che non fu assente in alcun popolo. Il
capitano provinciale, Lodovico Rizzi, s’impegnò con
veemenza e, grazie alla mediazione del governo e dell’i.
r. Luogotenenza, intavolò le trattative con gli ambienti
politici. Si era quasi arrivati ad un accordo; Matko Laginja
non accantonò la proposta della collaborazione, anzi
riteneva che, sebbene l’evento dovesse avere un carattere
prevalentemente italiano, anche la componente slava
doveva essere in qualche misura coinvolta. Al contempo,
però, si attendeva un sostegno reciproco da parte italiana,
qualora si fosse proposta un’esposizione croata. Alla fine
non si fece nulla perché la posizione radicale di Vjekoslav
Spinčić prevalse e questi invitò pubblicamente i Croati a
non partecipare e addirittura a non visitarla.
Il naufragio dei tentativi di conciliazione
Un’iniziativa che avrebbe potuto costituire un momento
di incontro dopo tante polemiche, diatribe e contrasti,
naufragò completamente. L’Esposizione di Capodistria,
altresì, se da un lato era nata emulando i grandi
appuntamenti che da tempo si stavano promuovendo, con
spirito positivistico, in varie parti del vecchio continente,
dall’altro fu espressione di miopia. La proposta di
una collaborazione tra Italiani, Sloveni e Croati, che si
auspicava potesse andare in porto e contribuisse anche alla
buona riuscita di un compromesso nazionale, che avrebbe,
finalmente, portato ad una vita politica meno burrascosa
in seno alla Dieta, fallì definitivamente. La penisola
istriana, terra plurale ed intreccio di presenze, lingue e
culture, pertanto non trovò alcun spazio. L’intransigenza
politica croata non fu da tutti giudicata come una buona
strategia. Una volta inaugurata l’esposizione, l’“Edinost”
di Trieste, ad esempio, criticò quella ostinazione,
evidenziando che, accanto al patrimonio storicoartistico legato agli Italiani, anche gli slavi avrebbero
potuto esporre le testimonianze della loro presenza,
come le iscrizioni glagolitiche oppure i testamenti o
ancora i libri battesimali redatti con quell’alfabeto.
Peter Štoka, responsabile del settore Storia-patria della
Biblioteca centrale »Srečko Vilhar« mostra il libro
manoscritto titolato a penna »Trasporto degli oggetti
per la Prima Esposizione provinciale istriana«.
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Quella decisione politica aveva quindi lasciato gli Italiani
a decidere da soli e di conseguenza impostarono l’evento
in base alle loro aspettative, proponendo la loro visione ed
i valori che erano tipici dei liberalnazionali. La rinuncia
fu poi vista come una sorta di timore di fronte ad un
popolo “evoluto” che poteva fare riferimento sulla forza
del presente e sulle glorie del passato. Non deve, allora,
sorprendere se quella circostanza fu da subito utilizzata
per accusare gli slavi di “inferiorità” e la manifestazione
divenne un momento importante per decantare il primato
degli Italiani, che al tempo stesso avrebbe costituito
la prova tangibile di chi dovesse tenere le redini della
provincia. Era la logica imperante perseguita dagli
ambienti politici, che difficilmente prevedeva la possibilità
di una comune collaborazione, seppure a livello pratico
fosse poi facile riscontrare alleanze tra i partiti italiani e
sloveni in cui la questione nazionale scendeva in secondo
piano e a prevalere erano soprattutto gli esiti elettorali.
Malgrado lo scoglio rappresentato dagli interessi legati
alle singole etnie, che impedirono un avvicinamento tra i
popoli, l’evento giustinopolitano fu un’occasione in cui la
parte economicamente più evoluta dalla penisola espose
i risultati delle proprie attività, dell’offerta culturale e
didattica nonché quanto ogni singolo segmento della vita
italiana del territorio proponeva. La Prima Esposizione
Provinciale Istriana fu, pertanto, una festa italiana del
lavoro e della cultura. Dalle relazioni e dalle discussioni
emerse anche un altro aspetto, cioè quello dell’ultima
fase della duplice monarchia che non può essere definita
proprio con l’espressione di “Austria Felix”. Tra Otto
e Novecento l’impero di Francesco Giuseppe non era
contraddistinto da quell’immagine edulcorata, come
ci è stata trasmessa da una certa produzione letteraria e
cinematografica, rappresentata dalla corte viennese, dalle
feste e dai giri di valzer nonché da un senso di ordine
generale.
Il lato meno nobile e più cinico della politica viennese
Va considerato anche il lato meno nobile e la politica
sovente cinica con la quale furono gestiti i problemi di
quella compagine entro la quale si trovavano popoli diversi
con aspirazioni sempre più definite. A seconda del contesto
un’etnia veniva appoggiata oppure contrastata, cosa che
stimolò non poco lo scontro ed alimentò i dissapori. Era
la logica del “divide et impera”, la risposta a problemi
vieppiù manifesti che la corte e l’entourage della capitale
non erano in grado di risolvere in chiave moderna. Allo
scoppio della Grande guerra quella stessa esperienza fu
utilizzata anche lungo il fronte austro-italiano, che con
abilità fu trasformato in uno scontro etnico tra l’Italia e
il mondo slavo meridionale. Grazie all’impiego di una
propaganda studiata a tavolino, di un meticoloso lavoro
di intelligence e dei fattori psicologici, come il timore
sloveno di venir fagocitati dal Regno sabaudo, l’imperial
e regio esercito si assicurò una difesa efficace costituita
da soldati, per lo più slavi, che si “battevano come leoni”
pur di impedire il passaggio alle truppe di Cadorna.
Quella pagina poco nota e divulgata fu ampiamente
studiata dallo storico militare di origine piranese Antonio
Sema, ma non fu accolta da tutti con la dovuta attenzione.
La città
Anzi, fu giudicata una valutazione esagerata, rifiutando
il concetto dello scontro etnico. Eppure lungo l’Isonzo,
sul versante alpino e sulle pietraie del Carso i rancori
che avevano caratterizzato la vita negli anni antecedenti
il conflitto furono incanalati ed ulteriormente fomentati
con l’intento di rafforzare l’esercito asburgico, obiettivo
alla fine raggiunto, dato che ancora a Vittorio Veneto quei
reparti si mostrarono ostinati nei combattimenti e leali
all’aquila imperiale.
Don Giovanni Gasperutti
(1925-2010)
Ricompattare le memorie e collaborare a livello
transfrontaliero
L’idea di formare una Jugoslavia assieme alla Serbia non
era molto seguita, e anche i leader sloveni, sino a poche
settimane prima del crollo del fronte, attendevano ancora
un possibile riassetto dell’impero danubiano. I contributi e
le argomentazioni hanno poi evidenziato un altro aspetto,
e cioè quello della stretta unione tra l’Istria e Trieste, città,
quest’ultima, che era considerata una sorta di capitale
dell’intero territorio. L’area costiera in particolare, grazie
anzitutto ai rapporti marittimi, aveva intessuto una serie
di rapporti che interessavano praticamente ogni singolo
settore: dall’istruzione alla politica, dallo smercio dei
prodotti agricoli alla cultura e ai legami umani in senso
lato. Quelle due realtà formavano un corpo unico,
inscindibile e complementare. Nemmeno mezzo secolo
più tardi un confine imposto avrebbe reciso quel territorio,
alterato gli equilibri e mutato il contesto, depauperando
quello spazio geografico della sua componente autoctona,
in primo luogo quella italiana, che quasi scomparve. Lo
studio del passato deve cogliere e studiare gli errori dei
nostri predecessori, non deve, invece, rappresentare un
freno anacronistico. Le memorie di tutti vanno rispettate
e al contempo dovrà esserci una maggiore sensibilità
da parte delle istituzioni competenti nei confronti di
coloro che ancora attendono giustizia per i torti subiti.
Oggi quella stessa area geografica sta lentamente
ricomponendosi, seppure con non poche difficoltà. La
mobilità delle persone, delle merci, delle idee e della
cultura la chiamiamo “collaborazione transfrontaliera”,
anche se sarebbe più opportuno parlare di un ritorno agli
“antichi sentieri”, che si auspica possa contribuire a far sì
che questa terra torni nuovamente a formare uno spazio
comune – a prescindere dalle sovranità statali – in cui la
gente non si sentirà più “straniera” dall’una o dall’altra
parte di quello che non era stato solo un semplice confine.
* Già pubblicato sulla Voce del Popolo il 17.11.2010
Avviso d'altri tempi.
“Senza don Gasperutti la Festa della Semedella non
sarà più la stessa”. E’ il commento che si sente nelle
vie di Capodistria tra quanti hanno conosciuto questo
sacerdote nato 85 anni fa nei palazzoni austro-ungarici
delle Case nove. Ultimo prete italiano ad abbandonare
la città con l’esodo, don Giovanni Gasperutti arriva
a Trieste riuscendo prima a realizzare, nella sacrestia
del Duomo, un calco in gesso del patrono San Nazario
utilizzando il busto originale del ‘600. Alla guardia
confinaria disse che il busto raffigurava un suo parente.
Continuò la sua missione spirituale nel campo profughi
di Opicina. Nel 1959 è all’oratorio di Muggia dove
opera a stretto contatto con i giovani. Nel ‘75 la nomina
a parroco di Aquilinia. Persona buona e schietta, sapeva
sdrammatizzare situazioni con una battuta, ma sapeva
anche emozionarsi. Come quando dieci anni fa celebrò nel
Duomo di Capodistria una messa di ringraziamento nel
50.mo anniversario della sua consacrazione sacerdotale,
organizzata dalla locale Comunità degli italiani. Don
Giovanni veniva a Capodistria almeno due volte all’anno:
per Ognissanti - l’ultima volta poche settimane fa - e per
la festa della Madonna di Semedella. Nelle sue omelie
ricordava sempre l’importanza di adeguarsi ai tempi
moderni senza dimenticare le tradizioni. Ci mancherà,
don Gasperutti.
15
La città
L’INTRODUZIONE DEL BILINGUISMO (TRILINGUISMO)
NEL CAPODISTRIANO (1945–1948)
Aleksandro Burra
Il presente articolo, sintesi dell’articolo pubblicato sull’Acta Histriae, tratta uno degli aspetti di maggior valenza
nazionale in un’area di frontiera come quella del Litorale: la lingua. Il tema in questione, ovvero l’introduzione
del bilinguismo, o meglio del trilinguismo, nel distretto di Capodistria è stato studiato nell’immediato dopoguerra,
contestualizzato e calato all’interno delle complesse vicende che caratterizzarono il confine orientale d’Italia che si
protrassero con l’annosa questione di Trieste.
La liberazione di queste terre di confine non rappresentò l’inizio di una nuova stagione di pace e di distensione, bensì
esse divennero subito un nuovo focolaio di tensione tra le potenze. Questi territori furono testimoni di una nuova
visione del mondo che avrebbe segnato il continente ed il mondo per quasi mezzo secolo. Sullo sfondo della guerra
fredda, localmente, invece, s’infiammava sempre più la lotta tra jugoslavi e italiani per l’appartenenza del territorio,
sviluppatasi rispettivamente lungo le linee di contrapposizione nazionale e ideologica.
Le vicende che portarono all’introduzione del bilinguismo sono collegate con le vicende che caratterizzarono queste
terre durante la guerra e nel dopoguerra.
Con sorpresa degli stessi alleati, le truppe armate jugoslave riuscirono a liberare tutta la Venezia Giulia, realizzando
anche sul campo quanto si erano proposti nelle risoluzioni del Plenum supremo del Fronte di Liberazione (OF)1 e nella
dichiarazione del secondo congresso del Consiglio antifascista di liberazione popolare della Jugoslavia (AVNOJ).
Laddove si rivendicò l’annessione di tutto il Litorale sloveno e di quello croato con l’Istria e Trieste.
Tito, arrivando per primo a Trieste e nella Venezia Giulia, era consapevole, per dirla alla Churchill, che “il possesso
costituisce nove decimi del diritto”, dimostrando inizialmente tutta la sua intransigenza e sollevando non poco le
ire degli alleati, prima dell’improvviso cambio di rotta2. Dopo alcune dure note degli alleati, le truppe di Tito dopo
quaranta giorni di presenza furono costrette a ritirarsi dal capoluogo il 12 giugno 1945. Nelle disposizioni previste
nell’accordo di Belgrado del 9 giugno 1945 e in quello successivo di Duino, la Venezia Giulia veniva divisa in due
amministrazioni militari civili provvisorie: la zona A sotto la giurisdizione della GMA o Governo militare alleato;
invece la zona B, sotto il controllo della VUJA o Governo militare jugoslavo con sede ad Albona.
I primi comitati sorti durante la guerra partigiana coprivano capillarmente il territorio e rappresentavano un potente
mezzo di controllo su ogni aspetto della vita personale, civile e delle istituzioni, poiché deliberavano sulle materie più
diverse, tra cui le confische dei beni e le epurazioni (Križman, 2004). Questi facevano riferimento nell’area al Comitato
regionale di Liberazione nazionale del Litorale (PNOO), sorto nel settembre del 1944 da parte dell’Avnoj con l’avallo
del Consiglio di Liberazione sloveno per colmare il vuoto di poteri nell’area della Venezia Giulia, rendendo possibile
l’annessione di queste terre alla Jugoslavia di Tito. Il PNOO realizzava le sue prerogative in maniera piramidale
attraverso i Comitati di Liberazione distrettuali, circoscrizionali e quelli nazionali locali. A liberazione avvenuta il
PNOO costituì tre circoscrizioni: Gorizia con 17 distretti; Trieste con 9 distretti (di cui faceva parte il distretto di
Capodistria), e la circoscrizione autonoma della città di Trieste. Dopo circa un mese i poteri popolari, a seguito degli
accordi con gli alleati, dovettero adeguarsi a questa nuova divisione riformando la rete amministrativa, che da allora
ebbe una funzione politico-ammistrativa (Gombač, 2003, 277-278). Il distretto capodistriano, oggetto del presente
articolo, costituito dalle aree della zona B comprese nel Litorale sloveno, dai municipi di Capodistria, Isola e Pirano,
era a larghissima maggioranza italiana nelle cittadine (pari a circa il 90% stando ai censimenti austriaci del 1900),
mentre possedeva un contado prettamente sloveno (Cadastre national, 1946; Perselli, 1993).
Dopo quasi un anno dalla presa della città di Capodistria, gli organi dirigenti del partito erano consapevoli della
fragilità dei poteri popolari nel Capodistriano. Della presente situazione si trova conferma dalla relazione del Comitato
Cittadino capodistriano del Partito comunista regionale giuliano (d’ora in poi P.C.R.G.) al Comitato Circondariale
del P.C.R.G. di Aidussina, datato 22 gennaio del 1946, in cui “[...] Capodistria ha speciali tradizioni servili perché la
maggior parte è vissuta delle briciole della borghesia capodistriana per cui ancor oggi la gran parte della popolazione
parla bene delle famiglie borghesi e dei padroni in genere. A causa di questa mancanza di coscienza sociale è facile
comprendere che la gente capodistriana non ha potuto né seguire né comprendere la lotta di liberazione, tanto più che
a Capodistria in proporzione al numero di abitanti abbiamo la più forte percentuale di fascisti convinti, che in tutte le
altre cittadine della costa” (ARC, 1).
Pertanto, la politica seguita dagli jugoslavi si caratterizzò per una ricerca del consenso seguendo la linea della
Tale atto dichiarativo aveva un carattere prettamente simbolico, fondamentalmente politico e senza alcun valore dal punto di vista del diritto
internazionale. Infatti, in un telegramma inviato da Tito, il 1° ottobre del 1943, al Comando militare generale di Croazia, si afferma che “la
dichiarazione sull’unione dei territori annessi alla Croazia in linea generale è ben concepita. Non va bene però il punto in cui si parla dell’autonomia
alla minoranza italiana. Se si tratta di autonomia culturale era necessario dirlo. Mentre non c’è posto per alcuna autonomia politica, in quanto
questa minoranza è sparpagliata. È necessario sottolineare che alla minoranza italiana si garantisce la piena libertà e la parità dei diritti” (Zbornik
NOR, 1954–1956; Giuricin, 1990, 13–14; Bogliun-Debeljuh, 1994, 128).
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Per una breve storia sul periodo in questione si vedano: Gombač, 2003; La Perna, 1993; Paola Romano, 2005.
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fratellanza italo-slava e con l’introduzione graduale della “nuova democrazia”. Questa doveva avvicinare oltre alle
masse degli operai italiani (nella maggioranza meglio disposti ad abbandonare la prerogativa nazionale a favore della
rivoluzione sociale), anche quelli che non contrastavano l’adesione alla nuova Jugoslavia; operazione che non fu priva
di difficoltà3. Politica di conquista delle istituzioni non facile quando si cercava di inserire elementi estranei alla città:
“Un incidente non indifferente è stato il fatto che molti elementi non capodistriani hanno dovuto essere impiegati nei
vari uffici per cui la reazione ha speculato generando una campagna diffamatoria in base alla quale faceva credere che
ci fossero delle ingerenze nazionalistiche nella cittadina italiana della costa” (ARC, 1).
Dalla nota apprendiamo che era cominciato il graduale inserimento nelle amministrazioni cittadine dell’elemento
sloveno, argomento che per la sua importanza verrà approfondito in seguito. Comunque, nell’opera di graduale
conquista delle istituzioni e di consenso delle masse italiane l’inserimento dell’elemento italiano fedele al regime
nell’organigramma partitico assumeva un ruolo di primaria importanza. È altresì vero che tale presenza era di tipo
proporzionale negli organi di potere, subordinata per grado a quella slovena, a cui faceva seguito un atteggiamento
linguistico “accondiscendente” verso l’elemento italiano: in seno ai vari comitati l’italiano rimaneva la lingua di
discussione anche in presenza di un solo membro italiano4. Tali “concessioni” ritenute indispensabili ai fini della
politica rivoluzionaria, avevano lo scopo di “attutire” i mutamenti sociali onde non trasformarli inevitabilmente in
questioni nazionali, garantendo una parvenza di continuità, in quanto, come afferma l’austromarxista Otto Bauer “se
il funzionario o il giudice appartiene ad un’altra nazione, se parla una lingua straniera, allora il fatto che la massa del
popolo è soggiogata da un potere straniero risulta lampantemente visibile e quindi insopportabile” (Bauer, 1999, 109).
Fu la VUJA e l’amministrazione civile sempre nell’ambito della politica della fratellanza italo-slava, a riconoscere
l’autoctonia dell’elemento italiano e in via di principio ad introdurre il bilinguismo (Troha, 1996, 74). La denominazione
di “principio” è allo stato delle ricerche sicuramente appropriata, in quanto, dallo studio fatto sui fondi dell’Archivio
regionale di Capodistria e da quella di Nevenka Troha sui decreti del Comitato regionale di liberazione nazionale per
il Litorale (CRLNL) non risulta promulgato nessun provvedimento legislativo riguardante il bilinguismo.
Dalla ricerca svolta presso l’Archivio regionale di Capodistria, a partire dal periodo che va dall’instaurarsi dei nuovi
poteri popolari, nella zona B il primo documento che parla di bilinguismo è la circolare della Presidenza del Comitato
popolare distrettuale di Capodistria del 28 febbraio del 1947. Questa, emanata a soli 18 giorni dalla firma del trattato di
pace di Parigi, siglato il 10 febbraio del 1947, – nel quale veniva a cessare per il diritto internazionale l’autorità italiana
a favore della creazione del mai nato Territorio libero di Trieste (TLT) – serviva a preparare gli organi amministrativi
specificando ambiti e modi di applicazione del bilinguismo: una sorta di guida operativa sul bilinguismo prima che
questo, per applicazione dell’articolo 7 dello statuto del TLT, si formalizzasse e diventasse in seguito oggetto del decreto
del Comitato popolare circondariale dell’Istria (CPCI) del 14 settembre del 1947. Quest’ultimo decreto, considerato
il “deliberato” sul bilinguismo, trilinguismo nell’area, definiva tre lingue ufficiali nel Circondario dell’Istria: italiano,
sloveno e croato, e autorizzava il Comitato popolare esecutivo del circondario dell’Istria a rendere esecutivo il decreto.
Oltre ad introdurre la cornice formale legislativa necessaria a garantire la pariteticità delle tre lingue, quest’atto
legislativo andò a colmare un vuoto giuridico in materia, costituito solo da dichiarazioni di principio, fornendo in tal
modo anche una formale giustificazione ad un bilinguismo che si era già affermato nella prassi, stando alla mole di
documenti bilingui redatti dalle varie organizzazioni partitiche dell’epoca. Il legislatore non articolava ulteriormente
la proposta, né definiva gli ambiti di applicazione del bilinguismo e trilinguismo. L’elaborazione antecedente alla
presente normativa, l’abbiamo riscontrata in maniera più diffusa sia nella circolare della Presidenza del Comitato
popolare distrettuale di Capodistria, appena citato, relativa all’amministrazione e alle istituzioni pubbliche, che nella
relazione della conferenza del Partito comunista del TLT per il distretto capodistriano del marzo 1947. Accanto a
questi documenti saranno presentati altri documenti successivi al cosiddetto “deliberato” sul bilinguismo, che mettono
ulteriormente luce sull’applicazione della normativa.
Come riferimento del contesto operativo dei poteri popolari tra i ceti sociali nel capodistriano, dalla medesima relazione possiamo notare che la
massa dei contadini seguiva il clero e frequentava l’associazioni cattoliche mentre era staccata dal partito e dai poteri popolari, dato che questa era
composta solo da operai. Per quanto riguarda gli operai si ravvisava che “…sono poi ostili ai contadini perche’ questi ultimi nel periodo di guerra
hanno avuto modo di guadagnare più di loro”. Sempre sugli operai: “Ad essi manca la coscienza sociale e la comprensione per lo stato popolare.
Contemporaneamente però temono il ritorno dell’Italia in queste terre per cui non vogliono compromettersi con le nostre organizzazioni. Questa
mentalità è abbastanza diffusa…”Gli artigiani invece “…sono simpatizzanti per la bandiera rossa ma decisamente ostili all’UAIS. I ceti medi
sono indicati come “…le forze di linea della democrazia cristiana. Hanno avuto parte attiva nell’organizzazione dello sciopero. Seguono da
vicino la politica della Voce libera e sono quelli che sperano più vivamente di tutti il ritorno di queste terre all’Italia. Ai ceti medi fanno parte
anche gli intellettuali i quali rappresentano la parte ideologica dell’irredentismo locale e sono di conseguenza per l’Italia.” La borghesia rurale
”…in gran parte nobile, che hanno un largo seguito fra il ceto impiegatizio e l’intellettuale sono il fulcro dell’irredentismo capodistriano.” Le
classi degli impiegati “…che ha dato il maggior numero di fascisti, ancora oggi questi sentimenti sono vivi in questo ceto e perciò è specialmente
ostile a noi.” Il Clero “…in Capodistria è molto sviluppato…” e rappresenta il reparto dove si organizza la reazione (ARC, 1).
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Nel verbale della seconda riunione ordinaria del Comitato esecutivo circondariale per l’Istria, datata 26 agosto 1947, viene riportato che la
“…riunione si tiene in italiano, dato che è comprensibile a tutti, salvo esplicita richiesta dei singoli membri di chiarimenti in lingua slovena e
rispettivamente croata.” Dopo venti anni di fascismo, caratterizzati dalla soppressione di tutte le scuole slovene e croate, è più che comprensibile
che anche per gli stessi sloveni e croati era più semplice usare correttamente l’italiano che la loro lingua madre, da qui l’uso di detta lingua nella
discussione.
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Nel primo documento in applicazione delle nuove norme
statutarie del TLT si evidenziava che nell’area due erano
le lingue ufficiali e uguali nell’amministrazione: italiano
e sloveno; norma che rendeva paritetico lo sloveno
all’italiano. Di conseguenza, si affermava, “[...] bisogna
utilizzare dappertutto e con coerenza il principio del
bilinguismo, non sottomettendo né danneggiando una delle
due nazionalità, operando sulla base dell’uguaglianza. A
quest’eguaglianza dobbiamo dargli anche una parvenza
esteriore” (ARC, 2). Nella circolare si raccomandava che
tutti i comitati e le sezioni si disponessero come segue:
ogni scritta, quelle sulle porte, quelle davanti ai locali o alle
istituzioni, quelle dell’amministrazione pubblica o quelle
a carattere privato, nonché gli avvisi e i moduli devono
essere redatti in lingua italiana e slovena o viceversa (nel
documento questo passaggio relativo alle lingue d’uso
è sottolineato, dimostrando la sensibilità del regime alla
tematica) e mai solo in lingua italiana o slovena.
Dal documento, nota assai importante, si evince che
il principio del bilinguismo riguardava anche “il
rapporto dell’amministrazione con l’utenza” (ARC,
2)5. Tali direttive inauguravano il bilinguismo visivo
nelle istituzioni e l’uso paritetico dello sloveno accanto
all’italiano come lingua d’uso nell’amministrazione (sia
scritta sia di comunicazione) con le parti. Dell’esecuzione
della circolare e della comunicazione delle applicazioni
rispondevano personalmente i capisezione e le istituzioni
del Comitato popolare circondariale esecutivo dell’Istria
(ARC, 2). È appunto quest’ultimo organo, in un verbale
del 22 ottobre del 1947, quindi a circa otto mesi dalla prima circolare, a ribadire fermamente la volontà di introdurre
la bilinguità in tutti i comitati e sezioni amministrative, in cui si “[...] dovranno adottare le due lingue.” Si parla,
inoltre, di deficienze nei quadri amministrativi, dell’esigenza di assumere un impiegato sloveno e si afferma che “tutti
i timbri ora esistenti dovranno essere ritirati per essere sostituiti con quelli nuovi bilingui” (ARC, 4). Il 22 dicembre
del 1947, dal reparto circondariale per le questioni interne a Capodistria si emana una nota in cui si ribadisce che i libri
dell’anagrafe per il Capodistriano devono essere redatti in lingua slovena-italiana, mentre per il Buiese rispettivamente
in quella croata-italiana. Le diciture bilingui devono tenere conto della composizione etnica sul territorio: nei territori
a prevalenza italiana i formulari devono riportare prima la dicitura italiana seguita da quella slovena; mentre in quelli
a prevalenza slovena, la prima lingua a comparire deve essere quella slovena seguita dall’italiana. La procedura viene
adottata anche nel Buiese (ARC, 5).
La determinazione geografica del bilinguismo, “[...] in tutto il territorio [...]”, con l’annesso esempio chiarificatore,
non lascia dubbi che su tutta l’area, quindi indipendentemente dalla composizione etnica, si applica la bilinguità.
Sulle forme e modi di applicazione un altro documento getta luce sull’ampliamento del raggio d’azione del bilinguismo
rispetto al precedente nella seguente misura: “Tutti gli scritti delle istituzioni pubbliche, private e statali, debbono
essere fatte nelle due lingue. I formulari, in tutti gli uffici pubblici, statali, nei comitati popolari devono essere
stampati in ambedue le lingue, e non come erroneamente si è fatto finora che erano stati stampati soltanto in sloveno
rispettivamente in italiano. Anche i proclami, manifesti, pubblicazioni ufficiali, reclami ecc. devono mettere in rilievo
il bilinguismo. È raccomandabile (qui il tono diventa meno risoluto N.d.A) che anche i negozianti italiani, giacché
gli acquirenti sono in maggioranza sloveni, espongano le scritte bilingui. In questo modo sarà esteriormente evidente
l’eguaglianza bilingue, cioè il rispetto reciproco” (ARC, 6).
La bilinguità compie un ulteriore salto di qualità interessando non solo la sfera amministrativa pubblica ma andando
a toccare anche gli altri ambiti della vita sociale, dimostrando la volontà concreta del regime di entrare nelle cittadine
italiane della costa, attraverso la liberalizzazione della lingua slovena.
Il documento si occupa anche del bilinguismo scolastico affermando la necessità in tutte le scuole di introdurre la
lingua italiana e la lingua slovena. Da un verbale del Comitato Circondariale Agit-prop dell’Istria, datato 27 marzo
1947, si evince che “la lingua slovena è solo facoltativa sia ad Isola, Capodistria che Pirano e non si ha avuto nessuna
iscrizione. Sarà dunque molto difficile l’introduzione dello sloveno, anche perché molte difficoltà le trovano i direttori
In un’altra ordinanza del Comitato esecutivo popolare circondariale dell’Istria, datato 5 dicembre del 1947, si ribadisce che per la qualifica
professionale nel ramo amministrativo si rende necessario il superamento dell’esame per ogni candidato nella propria lingua materna (ARC, 3).
Si tratta comunque di un atto importante, il quale stabilisce una particolare disciplina nelle assunzioni, basati sul principio della pariteticità delle
due lingue, che dovrebbe permettere ad ognuno di sostenere l’esame nella sua lingua madre.
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delle scuole, specialmente quelli del liceo. È da notarsi che quale lingua facoltativa insegnano il tedesco” (ARC, 7).
Il bilinguismo nelle scuole viene introdotto quindi sulla base dei valori dell’eguaglianza, risolvendosi nello studio della
lingua e quindi della cultura (“[...] per la cognizione reciproca”) dell’altro gruppo in tutte le istituzioni scolastiche
sia slovene che italiane. Tale normativa non sembra trovare riscontro nelle scuole italiane.
La liberalizzazione delle lingue di riferimento ai gruppi etnici, non corrispondeva comunque ad una libera circolazione
dei mezzi di informazione, dato che era concessa solo la pubblicazione di giornali favorevoli al nuovo regime. Anche
la diffusione della carta stampata rifletteva questo stato di cose: circolavano nella zona B il “Primorski Dnevnik”
e l’italiano “Il Lavoratore” quotidiano comunista soppresso dopo la scissione del 1948. Altri fogli erano in lingua
slovena e croata, a parte “La Nostra lotta” quotidiano filo-Tito la cui pubblicazione iniziò dopo il settembre del 1948
(Pradelli, 2004, 44).
L’informazione bilingue pertanto, anche se garantita nella lingua, per la presenza di fogli italiani veniva negata sulla
base della libertà d’espressione per entrambe le nazionalità.
Sul finire dell’anno, per la precisione il 7 dicembre del 1947, in un verbale del Comitato esecutivo popolare circondariale
dell’Istria, viene toccata e affrontata anche la delicata questione della toponomastica. Nell’assise si evidenzia la
volontà di procedere alla definitiva introduzione dei toponimi sloveni accanto a quelli italiani in tutto il distretto di
Capodistria.
Su alcuni di questi punti il documento fornisce degli esempi pratici assai interessanti. Così, Buie d’Istria diventerà
semplicemente Buie, perché è venuta meno l’utilità distintiva dovuta al contesto italiano. Si afferma anche l’esigenza
di eliminare, dove possibile, il termine “Stanzia” e “Villa”: Villa Decani così in sloveno diventa Dekani, mentre in
italiano semplicemente Decani. Inoltre, ad esempio il toponimo italiano Santa Lucia, secondo il crisma ideologico
imperante, si trasforma in sloveno semplicemente in Lucija (ARC, 8).
A tal punto è interessante verificare se nella pratica la normativa si dimostrò davvero capace di conseguire tali obiettivi.
In quanto, “[...] il pluralismo linguistico e culturale, il perseguimento di tale obiettivo non dovrebbe avvenire in modo da
pregiudicare irragionevolmente i diritti degli altri cittadini (o per estensione di una delle comunità N.d.A.)” (Piergigli,
2005, 173). Affinché uno strumento legislativo non produca effetti contrari ai suoi propositi per qualsivoglia delle parti,
riteniamo che, oltre ad una delicata opera di bilanciamento del provvedimento, il contesto operativo e l’applicazione
della normativa siano davvero determinanti nella valutazione complessiva della bontà della legge e della coerenza dei
principi che persegue, rappresentando per tale via anche un indicatore importante sui reali propositi del regime.
Se analizziamo l’ambiente sociale, si nota che la normativa s’inseriva in “[...] un clima generale di intimidazione
(verso gli italiani N.d.A), punteggiato da un continuo stillicidio di violenze ed angherie, fino a diventare componente
abituale di una quotidianità intessuta di sospetto, di angosciosa incertezza nel futuro, di timore per sé, per i propri
famigliari, per la propria comunità [...]” (Pupo, 1994, 139). La dimensione della paura e dell’insicurezza appare una
componente centrale, fomentata anche dalle tante misure, quali: l’introduzione della jugolira, che scatenò le violenze a
Capodistria; l’abolizione del colonato e la riforma agraria, la quale andò inevitabilmente a colpire l’elemento italiano,
data la struttura sociale; il bavaglio ad ogni forma di espressione e politica che contrastasse con l’ideologia dominante
e via discorrendo (comune per altro a tutti quelli, italiani, sloveni e croati, che non erano pienamente conformi al
regime).
Tutte misure che provocarono la trasformazione rivoluzionaria della società istriana, la quale andò a saldarsi con la
perdita della sovranità italiana, con un drastico mutamento delle condizioni economiche, con la trasformazione di ruoli
e il ribaltamento di gerarchie sociali ed etniche consolidate, con la sommersione dei valori e lo scompaginamento del
tessuto di rapporti tradizionali. Politica che si attuò attraverso non solo l’eliminazione della precedente classe politica,
ma anche con la progressiva scomparsa dei soggetti sociali più rappresentativi e via via di figure chiave quali religiosi,
insegnanti, professionisti, di modo che i pubblici poteri furono percepiti inevitabilmente quali estranei e avversari
(Pupo, 1994, 138).
In un tale clima di avversione e paura per gran parte degli italiani verso il potere costituito venivano a mancare le
premesse necessarie per il bilinguismo: i poteri popolari,
al di là della facile retorica, non furono capaci di creare un
clima di reciproca fiducia tra le due nazionalità e nemmeno
di fornire una visione della società non più tesa agli
etnocentrismi estremi, che tanto avevano contraddistinto
l’epoca precedente. Il risultato di tale politica è che la
parte italiana finì per recepire la normativa sulla bilinguità
come l’ennesimo sopruso perpetuato da un potere ostile. In
questo modo la normativa non poté in alcun modo diventare
la base su cui costruire una forma avanzata di convivenza
ed eguaglianza all’interno della realtà plurinazionale del
distretto capodistriano, data proprio la mancanza di fiducia
(da parte di una componente), elemento imprescindibile
per tessere qualsivoglia interazione tra gruppi distinti.
Al contempo, sembra opportuno precisare che per gli
sloveni e i croati l’introduzione del bilinguismo fu
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percepita in maniera diametralmente opposta agli italiani.
I primi videro nel provvedimento il coronamento di una
giustizia sociale attesa da oltre venti anni. Soprattutto la
negazione del diritto alla diversità linguistica, promossa e
attuata con estremo zelo dal regime fascista, era apparsa
essere il provvedimento più irritante per le popolazioni non
italiane, perché imponeva un’ulteriore compressione delle
libertà individuali e di gruppo muovendosi sul terreno di
una manifesta discriminazione su base nazionale.
Per quanto riguarda la componente italiana essa fu
danneggiata in particolar modo dall’introduzione del
bilinguismo a causa del diverso grado di conoscenza
linguistica e dai tempi d’introduzione della norma.
Innanzitutto, il bilinguismo fu applicato in un contesto
diversificato per conoscenza linguistica – la popolazione
italiana era sostanzialmente monolingue a differenza
di quella slovena prevalentemente bilingue – e non fu
sostenuto da un adeguato periodo di formazione linguistica delle scuole italiane, basti pensare che la lingua slovena
fu introdotta come materia obbligatoria unicamente nell’aprile del 1947 e solo per le medie (Troha, 1996), anche se
il termine d’applicazione, come abbiamo visto precedentemente, sarebbe da far slittare ancora nel tempo. La stessa
Troha ci conferma che, anche dopo l’arrivo delle forze jugoslave, l’uso della lingua italiana rimaneva nelle cittadine
prevalente in tutti gli ambiti dell’amministrazione e anche nella pratica sino al 15 settembre del 1947 (Troha, 1996,
74) (termine temporale che va a coincidere sostanzialmente proprio con l’introduzione del plurilinguismo da parte
del CPCI, datato 14 settembre dello stesso anno). Nonostante la presente situazione, non ci fu un adeguato periodo
di transizione o gradualità d’attuazione della norma: come si è potuto vedere, questa fu introdotta in tutti gli ambiti
più importanti della vita sociale in appena dieci mesi. Infatti, se prendiamo in considerazione il primo documento sul
bilinguismo del 28 gennaio fino agli ultimi documenti in materia del dicembre del 1947, possiamo affermare che tale
processo poteva dirsi in sostanza completato nel periodo sopra considerato.
A tal punto è lecito chiedersi per quale motivo fu introdotta una normativa così importante in un clima sociale quanto
meno proibitivo (almeno per la gran parte degli italiani), senza alcuna gradualità, dato il diverso grado di conoscenza
linguistica e con tempi di realizzazione assai sostenuti? Perché tale strumento, dietro il paravento della roboante
propaganda del regime, fu applicato senza una giusta riflessione sulle conseguenze che avrebbe comportato sulla
comunità italiana? Mancò davvero la dovuta riflessione sul tema o attraverso il bilinguismo si perseguì un altro
obiettivo?
Dai materiali esaminati, allo stato attuale dell’analisi, si evince che l’introduzione del bilinguismo, strumento legislativo
garante dell’elevazione della pari dignità di tutte le lingue, oltre ad essere un ulteriore passo di avvicinamento alla
Jugoslavia, colpì, come si è potuto vedere, soprattutto per la modalità con cui fu introdotto, maggiormente l’elemento
italiano; non può pertanto sfuggire la discriminazione dell’atto volto a creare tutt’altro che le premesse di uguaglianza
tra i popoli della regione, così caldamente sbandierati dal regime, bensì a rendere ineguale la posizione di questi,
basandosi proprio sulla disparità di conoscenza linguistica.
Attaccando la lingua italiana nelle sue roccaforti veniva completata quell’operazione di penetrazione nel tessuto
delle cittadine italiane, che ebbe come risultato davvero importante quello di insediare progressivamente una
nuova amministrazione “più conforme” al nuovo corso e nazionalmente affine, consolidando così la presa di potere
sugli organi cittadini dimostratisi non sempre affidabili. Difficile pertanto non ravvisare un’ulteriore forzatura in
senso snazionalizzante nei palazzi delle istituzioni, in cui il bilinguismo veniva adoperato come base formale per
l’insediamento graduale di funzionari sloveni o jugoslavi, discriminando l’elemento italiano monolingue.
Insomma, come si è potuto vedere, anche il bilinguismo finì per essere vittima o meglio strumento di un potere
che perseguiva finalità contrarie a quelle a cui diceva di ispirarsi. Dietro gli slogan formali di libertà, fratellanza e
uguaglianza, anche il principio formalmente avanzato sulla carta come il bilinguismo, privato della necessaria libertà e
sicurezza individuale, non solo fu svuotato d’ogni valenza positiva, ma si rivelò essere un potente strumento di politica
nazionale del regime; preda, come altre misure, di assolutismi nazional-ideologici, in piena collisione con i valori di
dignità della persona.
Chi vi scrive ritiene, tuttavia, che una comprensione più approfondita del bilinguismo, della sua applicazione e dei
contesti sociali in cui esso è stato calato richiede un’ analisi che sappia abbracciare un periodo di tempo maggiore
rispetto a quello considerato; importante oltremodo per valutare gli effetti a lungo termine di una siffatta normativa
nella società. Pianificare uno studio sul bilinguismo nel lungo periodo appare giustificato per svariate ragioni. Oltre
ad essere segno di maturità e consapevolezza e di grande importanza ed utilità scientifica nonche’ storica, darebbe una
maggiore organicità e sistematicità alla grande quantità di studi settoriali prodotti sul bilinguismo locale riversandoli
in una nuova opera specifica sul tema, capace di dare uno sguardo complessivo all’evoluzione del bilinguismo nel
Capodistriano, estensibile anche all’Istria, dal dopoguerra ad oggi, ripercorrendo per sommi capi anche il periodo
antecedente sino agli albori del risveglio nazionale in queste terre.
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Si tratterebbe di un’opera che accanto alle vicende
storiche si addentrerebbe anche nel campo del diritto
e dell’evoluzione del concetto dei diritti linguistici e
comunitari, tenendo in debito conto i cambiamenti e le
trasformazioni intervenuti nella società istriana attraverso i
secoli. Un lavoro di questo tipo richiederebbe una squadra di
ricercatori di varia formazione e avrebbe il pregio di calare
il diritto e il concetto della bilinguità nel contesto sociale
dei vari periodi storici analizzati (recuperando gli aspetti
innovativi assieme all’impatto provocato dalle normative
nella società nei vari periodi trattati), di aumentare la
consapevolezza del fattore linguistico in queste terre, di
proporre la lingua assieme alla diversità culurale delle
popolazioni che qui vi risiedono come un tratto a sua
volta caratterizzante la cultura stessa ed espressione del
territorio, di lasciare testimonianza dell’esperienza locale
di ricomposizione delle diversità etnica e linguistica (che
potrebbe costituire anche un modello di convivenza avanzato pluri-comunitario su un medesimo territorio) nonché di
contribuire a fare chiarezza sulle tante prospettive spesso nebulose che circondano il futuro del plurilinguismo, proprio
attraverso il confronto con le esperienze del passato e l’armonizzazione di queste con le attuali direttrici europee in
materia di salvaguardia del patrimonio linguistico e culturale autoctono locale.
Bibliografia
ARC, 1 - Archivio regionale di Capodistria (ARC), Comitato distrettuale della Lega dei comunisti della Slovenia
di Capodistria (SI PAK KP 450), b.3, Relazione del Comitato cittadino capodistriano del P.C.R.G. al Comitato
Circondariale del P.C.R.G. di Aidussina, 22.1.1946.
ARC, 2 – ARC, Commissione distrettuale per la riforma agraria (SI PAK KP 521), b. 24, Circolare della Presidenza
del Comitato popolare distrettuale Capodistria, 28.2.1947.
ARC, 4 – SI PAK KP 23, b.1, Verbale del Comitato esecutivo popolare distrettuale di Capodistria, 22.10.1947.
ARC, 5 – SI PAK KP 23, b.1, Relazione del Comitato popolare distrettuale per gli Affari Interni Capoistria,
22.12.1947.
ARC, 6 – SI PAK KP 450, b.3, Relazione sul bilinguismo della conferenza di partito del Comitato rionale di Capodistria,
2.3.1947.
ARC, 7 – SI PAK KP 450, b.3, Verbale Commissione circondariale Agit-Prop per l’Istria, 27.3.1947.
ARC, 8– SI PAK KP 23, b.3, Verbale Comitato esecutivo popolare circondariale dell’Istria, 7.12.1947.
BU – Bollettino Ufficiale del Circondario di Trieste, di Gorizia e della città di Trieste, N.1, (9.6.1945), D. N. 1, Art.
4. Trieste.
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21
La città
In visita gli sbandieratori del Palio di Ferrara
Su iniziativa della »Dante« che ha organizzato anche un incontro col regista Martusciello
Il rullio dei tamburi ed il suono delle fanfare hanno attirato il 9 ottobre l’attenzione dei capodistriani.
La compagnia del Palio di Ferrara ha attraversato la città, proponendo a più riprese lo spettacolo degli
sbandieratori, accompagnati dal corteo storico in costumi d’epoca. Le loro evoluzioni hanno richiamato il
pubblico, in mattinata e nel primo pomeriggio, in Piazza Ukmar. In serata il Palio di Ferrara ha fatto visita alla
Comunità degli Italiani, dov’è stata allestita la mostra del fotografo Sergio Pesci, intitolata “La mia Ferrara”. Il
turbinio delle bandiere multicolori e gli splendidi abiti medievali sono stati riproposti sullo spiazzo antistante
la Radiotelevisione di Capodistria, accolti con entusiasmo da numerosi connazionali accorsi per l’occasione.
L’iniziativa è stata promossa dal Comitato capodistriano della Società “Dante Alighieri”, in collaborazione
con il Comune. A fare gli onori di casa è stato il vicesindaco, Alberto Scheriani, che ha ricordato i lunghi
legami d’amicizia con la città gemellata di Ferrara. Gli ospiti erano guidati dall’assessore alla Mobilità ed ai
Lavori Pubblici, Aldo Modenesi, che ha ringraziato per l’accoglienza tributata.
Gli sbandieratori del Palio di Ferrara si esibiscono
lungo la riva.
22
L'incontro con il regista napoletano Luca Martusciello
organizzato a Isola. Alla sua sinistra il cantante Mirko
Cetinski, la presidente della »Dante« capodistriana
Vanja Vitošević ed il Console, Marina Simeoni.
La città
Nel 60.mo di Radio Capodistria erano andati in onda diversi gustosi aneddoti di Giorgio Visintin sui primi
decenni di Radio e TV, pubblicati pure dalle Primorske Novice. Tra questi, uno che vide protagonista il
compianto Ferdi Vidmar, dal sibillino titolo di
»Harošaja luka«
Come tutti i turisti che si rispettino, anche Tito apprezzava
molto passare »dal mare - ai monti«, dalle isole Brioni
cioè, a Brdo in Gorenjska, ovviamente transitando per
Capodistria.Nell’occasione se la godevano specie gli
scolari, che vivevano una ben organizzata »scappola
da scuola«, e sventolando bandierine, salutavano, lungo
la strada dell’Istria, i veloci convogli delle automobili
nere. Quando poi c’erano ospiti stranieri più importanti,
capitava spesso nel porto la nave Galeb, o rombando, coi
suoi due motori da 300 cavalli, il panfilo Primorka.
Una volta è così capitato agli inquilini di quella casa, che
oggi in Piazza Ukmar non c’è più, e ospitava anticamente
la Trattoria al Vaporetto (suoi clienti furono anche i
guardiani dell’imperial-regio Carcere del Belvedere) era
stata quindi una sorpresa vedere scendere dal Primorka,
del tutto inattesi - non c’era neppure la Polizia - una
consistente parte della delegazione sovietica con Bulganin
e Mikojan, che avevano accompagnato Hruščov a Belgrado
nel maggio 1955, per porgere le scuse di Mosca per la
scomunica del Cominform del 1948. Nella casa abitavano
diversi appartenenti alla Radio; un regista, il capotecnico
Poberaj, il giornalista Klasinc, ed ancor prima, anche il
fonico Ferdi Vidmar, primo attore dell’aneddoto.
Attraverso Capodistria erano passati comunque molti
protagonisti della storia. Chi non ricorda il »lider
maximo« Castro? Qualcuno al ristorante Capris, al
pianterreno del Palazzo Pretorio, s’era seduto sul suo
kepì, come aveva raccontato l’allora sindaco Mario
Abram, e non è del tutto da escludere che sia stato proprio
lui lo sbadato ad infrangere il protocollo. Il giorno dopo
i giornali, anche di Trieste, annotavano soprattutto che
a Castro era tanto piaciuta… la »putizza«. Davanti alle
festanti »venderigole« del mercato di Capodistria erano
daltronde già sfilati in auto scoperta il Negus d’Etiopia
Haile Selassie e, nell’aprile 1955, l’indiano Pandit Nehru,
con in testa l’eterna bustina bianca copricalvizie.
L’aneddoto che riguarda il compianto Ferdi Vidmar, risale
a una domenica del giugno 1955. Era stato preannunciato
l’arrivo per mare di Tito e Hruščov alle 4 del pomeriggio.
In redazione s’era deciso che l’avvenimento lo coprisse
il giornalista Vesel, secondato, a causa dei ben sette chili
del necessario magnetofono, appunto da Ferdi,che - tra
l’altro - era l’unico a masticare un po’ di russo. Vestito l’
abito della festa, lui si avvia da Semedella con la sua bici
più di mezz’ora prima. Raggiunta l’odierna
passeggiata a mare, scorge subito, non più lontana,
l’inconfondibile silhouette della nave Galeb, in arrivo con
rilevante anticipo. Accelera le pedalate, arriva al porto,
mentre la nave già attracca. Supera il cordone di polizia,
lascia la bici e si affretta verso il molo. Naturalmente il
giornalista incaricato non si vede. Ferdi è sì, un esperto
di magnetofoni e magari di elettroni, non però di politica
estera; ma si fa ugualmente coraggio. Dopo i soliti
omaggi floreali - c’era anche Jovanka - chiede «pažalsta«
a Hruščov il suo »pačutljenje«. Per tradurre: quali sono
le sue sensazioni, le sue impressioni. E non era mica una
domanda sbagliata! Perchè è storia, che per Hruščov
venire a Belgrado nel 1955, era come per Enrico IV
andare a Canossa a chiedere perdono a Papa Gregorio
VII, che l’aveva scomunicato. Si è anzi scritto che Tito
l’avesse accolto freddamente a Belgrado, risentito per i
sette anni di truce ostilità del Cominform e dell’intero
blocco orientale, che avevano reso l’ex Jugoslavia uno
strategico cuscinetto della Cortina di ferro.
Al microfono di Ferdi quindi, Nikita snocciola bonario
ma conciso, due o tre frasi…
Più tardi, i giornalisti - arrivati sì - ma con rovinoso
ritardo, gli si ammassano intorno, perchè ceda l’intervista
anche a loro.
No problem! Ma fatta su due piedi la traduzione, risulta
che Hruščov afferma »sic et simpliciter» che Capodistria,
vista dal mare è bella, anche il porto è «harošaja« e che
avrà sicuramente un positivo sviluppo.Tutto qui. Chi
tardi arriva, si sa, sempre male alloggia!
Giorgio Visintin
23
La città
Il nuovo Capossela nasce a Capodistria
Dal Piccolo — 16 ottobre 2010 pagina 34 sezione: CULTURA - SPETTACOLO
Vinicio Capossela ha sempre manifestato una forte simpatia per Trieste e per l’Est in generale. Tanto da scegliere
lo studio Hendrix di Radio Capodistria, in Slovenia, per lavorare alla pre-produzione del suo nuovo album. «Qui mi
piace perché si trovano ancora le cose che in Italia non esistono più da anni», dice il cantante nei corridoi di Radio
Capodistria, per ricordare poi molteplici concerti triestini, fino a quello al Rossetti a febbraio 2009 «Pieno di sorprese:
alla fine avevo perfino chiuso il giornalista Paolo Rumiz dentro ad una gabbia sul palco!». Capossela è venuto a
Capodistria anche per lavorare con lo sloveno Andrea F, musicista, autore ed appassionato di musica. Negli anni 80,
con la sua band (Idiogen: all’attivo tre album, usciti anche in Italia per Toast Records e Supporti Fonografici, ed in
Gran Bretagna per Rough Trade) ha scoperto il fascino del lato tecnico del fare musica, dello studio di registrazione
come strumento creativo. Da lì, è venuta poi la carriera di producer e la collaborazione con Radio e Tv Capodistria
(come redattore musicale, conduttore, autore e regista di molte trasmissioni); oggi è anche su TV SLO 1, con il
programma”Nlp” (di cui cura e conduce la parte musicale e live). Andrea F, ha lavorato con Vinicio Capossela nello
Studio Hendrix di Radio Capodistria.
Com’è andata?
«È stato molto intenso ma anche
stravagante e divertente, come sempre
con Vinicio e con gli artisti veramente
“Artisti” del suo calibro. Insieme al
suo produttore, Taketo Gohara, ed
al suo arrangiatore, abbiamo fatto
un lavoro di pre-produzione del suo
prossimo album, passando in rassegna
ed al setaccio tutti i vari demo e
testi, trovandone struttura e stesura
definitive, e registrandone varie takes
fino ad una quasi definitiva, con una
traccia di pianoforte o chitarra e voce
che può fungere da fondamenta per la
registrazione dell’album. Dovremmo
ritrovarci a breve per fare altrettanto
con un paio di brani ancora rimasti, e
poi forse per delle session di alcuni
degli strumenti per il disco, visto
che l’intesa con tutto il team c’è, e
soprattutto Vinicio a Capodistria si
trova bene e si sente ispirato». Che
tipo è Capossela?
«Ha una natura estrosa, spesso
bizzarra, ma sempre molto ispirata
e fedele al suo ricchissimo mondo
interiore; il cuore di un vero poeta,
con gli occhi e la capacità di stupirsi
e di stupire di un bambino. È sempre
molto bello lavorare con chi ha
talento a tonnellate. Ancora di più
se poi la mattina prima di arrivare
in studio si preoccupa di comperare
burek o mirtilli per tutti, o se si finisce
a mangiare a mezzanotte sulla costa
del Quarnero con le chitarre in spalla
ed un valigione di cartone pieno di
testi, tastiere e computer in attesa di
un traghetto che non arriva!».
Perché ha scelto proprio lei?
«Penso che da una parte c’è il lato
umano, perché ci siamo incontrati
tante volte, anche in ruoli diversi,
per qualche mia trasmissione TV e
radio, e poi per lavorare di filigrana
al suo pianoforte in studio (nel 2005
abbiamo registrato insieme e da soli
Andrea F nell'obiettivo di Marko Žigon.
24
quello che sarebbe poi diventato
“Dove siamo rimasti a terra Nutless”
sull’album “Ovunque Proteggi”
del 2006), quindi oramai una certa
fiducia ed amicizia esistono, e sa di
poter contare sul mio lavoro tecnico e
sul mio giudizio».
E perché Radio Capodistria?
«A Capodistria so che gli piacciono
varie cose, dalla location ad un passo
dal mare alla relativa tranquillità
del luogo o al cibo ed alcuni vini
locali, oltre che lo studio che ha un
fascino particolare, con tantissime
apparecchiature
vintage
oggi
rarissime accanto ad altre nuovissime
ed ipertecnologiche, e con una sala
di ripresa come quelle di una volta,
grande, con l’acustica fatta dagli
ingegneri americani della RCA negli
anni 50 per farci suonare le big band,
e con un bellissimo pianoforte a coda
Steinway».
Elisa Russo
La città
I tre presidenti a Trieste
La dichiarazione congiunta del Presidente della Repubblica di Slovenia, Danilo Türk, del Presidente della
Repubblica Italiana, Giorgio Napoletano e del Presidente della Repubblica di Croazia, Ivo Josipović, in
occasione del “Concerto dell’amicizia” diretto dal maestro Riccardo Muti, tenutosi a Trieste il 13.7.2010.
“Noi Capi di Stato di Italia, Slovenia e Croazia abbiamo
accolto con piacere e interesse l’invito del Maestro Muti
a presenziare al Concerto dell’Amicizia che avrà luogo
a Trieste il 13 luglio nella piazza dell’Unità d’Italia,
consapevoli dell’alto messaggio di pace e fratellanza di
cui è portatrice l’iniziativa. In tale occasione il Maestro
Muti dirigerà l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini e
l’Orchestra Giovanile Italiana arricchite dalla presenza di
numerosi giovani musicisti provenienti dalle Accademie
Musicali Universitarie di Lubiana e di Zagabria, oltre a
coristi italiani, sloveni e croati.
Prima del concerto, deporremo una corona di alloro al
Narodni Dom, orribilmente incendiata il 13 luglio 1920,
e al monumento all’esodo dalle terre natali degli Istriani,
Fiumani e Dalmati, nel doveroso ricordo delle tragedie
del passato e nel comune impegno a costruire insieme un
futuro di libera e feconda cooperazione tra i nostri paesi e
i nostri popoli nell’Europa unita.
Con la nostra presenza intendiamo testimoniare la ferma
volontà di far prevalere quel che oggi ci unisce su quel
che ci ha dolorosamente diviso in un tormentato periodo
storico, segnato da guerre tra Stati ed etnie. Ormai, Italia,
Slovenia e Croazia si incontrano nel contesto dell’Unione
Europea, per sua natura portatrice di rispetto delle diversità
e di spirito di convivenza tra popolazioni, culture e lingue
che hanno già operosamente e lungamente convissuto
per secoli. Di qui il nostro impegno a coltivare sempre il
rispetto dei diritti di tutte le minoranze. In ciascuno dei
nostri paesi, coltiviamo com’è giusto la memoria delle
sofferenze vissute e delle vittime di cieche violenze, e
siamo vicini al dolore dei sopravvissuti a quelle sanguinose
vicende del passato.
Il nostro sguardo è volto all’avvenire che con il decisivo
apporto delle generazioni più giovani vogliamo e possiamo
edificare in un’Europa sempre più rappresentativa delle
sue molteplici tradizioni e sempre più saldamente integrata
dinanzi alle nuove sfide della globalizzazione”.
Inaugurata la nuova sede dell’Istituto Italiano di cultura di Lubiana
Una nuova casa - a parte la fatica
del trasloco - è sempre un evento da
festeggiare. E lo è a maggior ragione
quando si tratta di una casa ancora più
bella di quella appena lasciata. Com’è
appunto nel caso dell’Istituto Italiano
di Cultura di Lubiana, che dopo dieci
anni trascorsi in piazza del Congresso
si è trasferito in un elegante palazzo
storico sulle rive della Ljubljanica.
Il nuovo indirizzo è Breg 12,
lo stesso del centro culturale
francese, che si trova al piano
superiore.
L’inaugurazione è avvenuta
il 16 settembre, alla presenza
dell’ambasciatore
d’Italia
Alessandro
Pietromarchi,
del vicesindaco del Comune
di Lubiana Aleš Čerin, e
naturalmente della direttrice
dell’Istituto, Roberta Ferrazza.
Non c’è stata una cerimonia vera
e propria, piuttosto una festa tra
amici, italiani e sloveni, dell’Istituto
Italiano, accompagnata dall’apertura
di una mostra curata dall’associazione
goriziana Graphiti,”Obiettivo Divina
Commedia”. La giornata però si
è configurata soprattutto come un
momento di incontro con il pubblico.
Fin dalla mattinata i visitatori hanno
potuto assistere a lezioni dimostrative
di lingua italiana per adulti e bambini,
alla proiezione della “Dolce vita” di
Federico Fellini, e consultare libri
e altro materiale conservato nella
biblioteca e nella mediateca. Una
manifestazione di “porte aperte”,
dunque, volta a far conoscere a
tutti gli interessati l’importante
istituzione, nata nel 1999 e ben
inserita nella realtà slovena grazie
ad una fitta rete di collaborazioni sul
territorio. Collaborazioni che
coinvolgono e abbracciano, da
sempre, anche le strutture della
nostra Comunità. Pochi giorni
dopo l’informale taglio del
nastro alla nuova sede, l’Istituto
Italiano di Cultura di Lubiana
ha proposto a Casa Tartini di
Pirano un applaudito concerto
del pianista toscano Giuseppe
Tavanti, primo di una serie di
appuntamenti dedicati ai 150
anni dell’Unità d’Italia.
Ornella Rossetto
25
La città
Il presente articolo poggia su documenti veri, custoditi presso l’Archivio regionale di Capodistria (Busta
№31, unità documentaria №32, Diplomi e carte diverse dei conti Grisoni (164-1850) – inventario Ivan
Filipovič). Per scrivere una storia che potesse attirare l’attenzione dei più, mi sono servita della teoria
manzoniana del romanzo storico. Abbiamo il vero per soggetto, l’utile per scopo e l’interessante per mezzo.
L’invenzione qui è intesa come racconto che riempie i vuoti lasciati dalla documentazione, non dalla storia.
La cornice storica è stata volutamente omessa, si è preferito parlare delle varie famiglie nobili capodistriane.
Dove è stato possibile, si è integrato le informazioni con Monumenta heraldica Iustinopolitana. I vari fatti
storicamente veri, sono stati uniti agli indizi desunti dalla lettura degli atti; ne nasce una cronistoria di una
faida durata ben 200 anni … Buona lettura!
Grisoni e Vergerio, due famiglie, un’eredità
e 200 anni di storia
di Valentina Petaros Jeromela
Un libro. Un libro contenente fogli. Ogni foglio qui sapientemente rilegato, è un documento o atto
notarile, che racconta una vicenda e che qui darà vita ad una storia. Sfogliando, lasciando girare le
pagine, sembra quasi che le storie si animino. È come un libro tridimensionale, con le figure, che da
piatte, si alzano e si mostrano. Qui non raccontiamo una favola, però. Che cosa può mai nascondere
l’ultima pagina di un libro manoscritto? La fine di una storia, oppure il suo inizio? Non si desidera
dare una fine alla storia narrata, ma solo descriverne l’incominciamento e tracciarne le sfaccettature
che hanno contraddistinto la vita di due generazioni e una città tutta.
Il tutto comincia con il testamento
di Giovanni Andrea I Vergerio, in
una caldissima giornata di agosto,
il quattro nell’anno di grazia 1562.
“Gli eredi di veramente ogni e
qualunque sorte dei beni mobili,
come stabili e di ogni ragione e
azione istituisce, e esser volse
messer Colmano, suo dilettissimo
fratello, e Gerolamo, nipote suo
carissimo, figlio del fu Domenico
suo fratello, per egual porzione
con questa condizione: che
mancando uno de loro senza eredi
maschi non solamente la porzione
di esso testatore della possessione
di Oltra ritorni al sopravivente,
ovvero ai suoi eredi maschi, ma
quella del morto ancora senza
eredi maschi, con questo che colui
che vorrà ad aver la porzione della
detta possessione sia tenuto dar
agli eredi del defunto se fossero
femmine altrettanti beni in alcun
altro luogo de egual valore, e
queste fa e ordina acciò che la
detta possessione rimanga in casa
e famiglia de Vergeri maschi.”
Poche ma chiarissime parole
che determineranno le sorti di
alcune tra le più illustri famiglie
Capodistriane: Vergerio, Grisoni,
Gavardo, Gravisi, Petronio, Brutti
e Contesini Ettoreo e, nei rami più
recenti anche Tarsia, Belgramoni
26
e i Morosini. Due, tre generazioni
che continueranno la lotta per il
possesso della Val d’Oltra…
I Vergerio, questa nobile e
illustre famiglia Capodistriana,
vede l’estinzione del ramo con
discendenza maschile nel 1678,
con la morte di Girolamo, il
dottore, che svolgeva la sua
professione a Padova. Il libro
racconta di tre fratelli (Giovanni
Andrea I, Colmano e Domenico)
e di un testamento, quello del
fratello
maggiore.
Giovanni
Andrea I, non avendo figli maschi,
lascia tutto in eredità al figlio del
fratello, Gerolamo; unico nipote
in vita al momento della stesura
del detto testamento. Negli anni a
venire, Colmano, avendo anche lui
procreato figli (figli maschi e altre
due femmine), pretende e ottiene
la divisione dell’eredità. A questo
lascito si aggiungono le proprietà
di Caterina Gravisi (vedova di
Cristoforo Zarotti de Sereni). Una
dote molto importante, giacché
portava la proprietà del Mulino,
quello che confinava con le terre
dei Borisi … Tenuto da una
contadina detta “Buttazza” che
andava tutto a favore di Gerolamo,
suo marito, così come desiderava
il padre di lei, Giovanni Gravisi.
La famiglia Vergerio possedeva
i feudi di Cuberton (Kuberton)
e Toppole (Topolovec) e nel
1650 Padena (Padna), Morosina
(Movraž), S. Sirico (Sočerga),
Covedo (Kubed) e Villanova
(Nova Vas). Tra gli antenati
illustri figura Pier Paolo Vergerio
il Seniore (1370-1444), uno dei
più illustri umanisti italiani,
professore di dialettica a Padova
e Bologna, precettore dei Carrara
e celebre pedagogo. È da ritenere,
grazie all’indizio contenuto nel
contratto
matrimoniale
della
Susana con Francesco Grisoni
(per uno scherzo del destino i
nipoti che continueranno questa
faida, portano gli stessi nomi), che
questa sia proprio la discendenza
del ramo del Vescovo di
Capodistria. In una riga c’è scritto
che proprio un certo Aurelio
lascia in dote alla Susana ducati
cinquanta. A ragione possiamo
concludere che la discendenza
qui trattata sia del ramo diretto
dell’Apostata in quanto, Giacomo
Vergerio (il notaio) ebbe 5 figli
e tre figlie. Il primogenito è
Iacomo (il francescano), Alvise,
Giovanni Battista (Vescovo di
Pola), Aurelio (monsignore) e Pier
Paolo (Vescovo di Capodistria).
Non si sono dati certi, non si può
determinare chi sia l’antenato,
La città
escludendo (per pura formalità)
gli uomini consacrati al celibato,
rimangono le tre figlie (delle
quali non sono indicati i nomi) e
l’Alvise.
Purtroppo, se per la morte di Pier
Palo si sospettò un avvelenamento,
la morte di Aurelio è certa:
rinchiuso nelle segrete a Roma da
Papa Clemente VII. Di lui non si
ebbero più notizie.
Gerolamo muore nel 1622, ma
sposa Caterina Gravisi il due
ottobre 1606. Da quest’unione
nascono nove figli: quattro
femmine e cinque maschi. Non
posso assicurare la correttezza
della successione delle nascite, ma
intanto la discendenza va divisa
tra il ceppo nato dalle figlie e
quello nato dai maschi. Abbiamo,
da una parte: Susana, Paula,
Elena e Felice; mentre dall’altra:
Colmano
(padre
Comodo),
Giovanni Andrea II, Giovanni
Nicola, Capitan Carlo e, il figlio
nato postumo, Girolamo. Un nome
che conviene ricordarsi è quello
di Susana Vergerio, perché è la
primogenita, sposerà Francesco
Grisoni e in base al diritto di
primogenitura darà al conflitto una
svolta decisiva e inaspettata, e ci
terrà in sospeso con continui colpi
di scena. Conviene anche tenere
a memoria la dote di Caterina, la
quale sarà contestata e, in modo
subdolo, tolta alla discendenza
del ramo maschile. Purtroppo
anche nel ceppo maschile vi è
una Susana, quella che osteggerà
la primogenitura femminile e
perseguirà le proprie ragioni sino
alla morte. Per evitare confusione,
decidiamo di chiamarla Suor
Nezza. Non vi sono notizie
inconfutabili circa il monacato di
questa, ma vi è un chiaro indizio
di ciò in un documento. Viene,
infatti, nominata Susana detta
Suor Nezza.
Complotti, intrighi, congiure, …
la vita della nostra tranquilla città,
presto, ci sembrerà un ricordo
lontano.
Nel 1606, il non più giovane
Gerolamo, dunque, s’innamora!
accanto alla felicità manifesta per
un evento così gioioso, abbiamo
un fiorire di contratti e patti e
convenzioni tra le due famiglie:
quella di lui e la di lei. Tanto
per non dover litigare. Caterina
Gravisi, vedova di pochi mesi
di Cristoforo Zarotti de Sereni
(morto forse all’inizio del 1606),
ottiene la restituzione della dote
(di danari 3.500!!!) e essendo
nuovamente sola e ricca, viene
ben presto concupita dal baldo
Gerolamo! Ecco il contratto,
scusate, il termine usato è
“Convenzione
tra
Gerolamo
Vergerio e suoi cognati Gravisi per
dote di Caterina”. Questo accade
nel marzo del 1615, possiamo a
ragione ritenere che l’amore abbia
regnato sovrano per alcuni anni
prima che l’avidità si rendesse
complice e partecipe di questo
così grande sentimento. Solo in
apparenza. In verità si tratta della
cessione, a favore della coppia e
in completamento della dote, del
27
La città
Mulino e delle terre sotto Villa
de Cani (Dekani). Il notaio Pietro
Toffanis stila questo passaggio di
proprietà e la rinuncia dei fratelli
di Caterina (Ferdinando, Giovanni
Battista,
Giulio,
Camillo,
Benvenuto, Dioniso) dei proventi
di questo molino tenuto da una
certa “Bottazza”. Le terre invece
erano “tenute” da Luca Verzier e
per le quali paga d’affitto “stara
due formento”. Si scopre che
c’è anche un campetto in Risano
(Rižana), che confina con la ragion
di Francesco Borisi, altre grande
casata Capodistriana.
Alcuni giorni prima di morire,
Gerolamo fece testamento e, come
da consuetudine, lega l’eredità
a una clausola. È il 25 settembre
1622 e Gerolamo (“giacendo in
letto sano per l’Iddio grazia della
Mente, senso, veder e intelletto
… sapendo non essere cosa più
certa della morte e più incerta
dell’ora di quella”…) ordina
il suo testamento. Ciò che in
precedenza fu chiaro, mi riferisco
al testamento del 1562, qui si
complica. Qui origina anche la
nostra vicenda.
Gerolamo lasciò in eredità, a
ognuna delle sue figlie Ducati 500
e Ducati 200 di mobili e stabili.
Mentre, ai figli, lascia tutti i suoi
possedimenti siti in Val d’Oltra.
Tutti i campi, le vigne, i prati, i
baredi a patto che, mancando la
discendenza maschile, il tutto
ritorni ai maschi in vita. Con un
secondo vincolo: di non vendere,
impegnare, permutare né affittare
ma che questi beni vadano sempre
ai figli ed eredi maschi. Condizione
perpetua. Nel caso in cui mancasse
proprio la discendenza maschile,
allora vuole che i discendenti
delle sue figliole siano padroni
dei predetti beni con condizione
di non poter “permutar gli stessi”.
Gli stessi beni poi, in mancanza
d’altro, possono essere “utilizzati
come dote per maritar le figlie”
… Più che risolvere, qui abbiamo
la nascita della confusione. A
decidere le sorti saranno gli
avvocati, entrati a far parte della
famiglia in circostanze diverse.
Il Grisoni sposa la primogenita
Susana, Giovanni Andrea II
sposerà Gioia Gavardo e Caterina
28
nata Gravisi. Tutte e tre le famiglie
(Gravisi, Grisoni e Gavardo)
hanno una lunga tradizione
come azzeccagarbugli, ma uno
in particolare si distinguerà:
Francesco Grisoni.
Il testamento termina con la solita
formula, in cui l’usufruttuaria
di tutti i beni è la consorte. I
commissari del testamento sono il
reverendo padre Comodo Vergerio
(il figlio), Ferdinando Gravisi e
Piero Gavardo (il cognato). Come
detto sopra, Gerolamo muore il 30
settembre 1622.
Negli anni a seguire, dal 1625
al 1632, l’attività principe della
“relitta” (vedova) Caterina fu di
organizzare matrimoni. Questi, si
sa, costano e con 4 figlie … Lei
discende da una antica famiglia, il
capostipite scongiurò il complotto
ordito da alcuni padovani contro
la Repubblica Veneta nella città
di Pirano. Questo comportò
l’investitura del marchesato di
Pietrapelosa. Erano anche, nel
secolo XVII, signori della Torre
di Padena; la stessa Torre, parte
della quale, Caterina portò come
dote.
Non lasciandosi sopraffare dal
dolore, oppure volendo reagire alla
seconda vedovanza, la “relitta” si
attiva nella ricerca di capitali. È
datato fine marzo 1623 un livello
(affitto) con la città di Rovigno,
dove Caterina ottiene la rinuncia
su tutti i profitti, sia dei dazi sia dei
torchi, da parte del figlio Colmano
(padre Comodo). In seguito, vi
è una procura di Caterina per
riscuotere il credito dalla famiglia
Gaspari di Udine. Parliamo di
circa 240 Ducati. Ed ecco la prima
data, che corrisponde al primo
esborso: il 15 marzo 1625 si sposa
Susana con Francesco Grisoni in
cui vi sono 700 Ducati di dote
più cinquanta lasciati da Aurelio
Vergerio. In più la madre della
sposa deve ancora completare la
dote con 1.500 Ducati e alcuni
“cavedini di saline della Valle
d’Oltra”. Punto nodale della
vicenda. La seguono le sorelle,
in ordine di nascita: Paula con
Barnabà Brutti, nel 1626, ed Elena
con Antonio Petronio nel 1632.
Ultima è la Felice che si sposa con
Nicolò Zarotti nel 1637 dove in
dote porta anche parte del Molino
della Bottazza. L’amicizia che lega
le famiglie Vergerio e Zarotti, va
molto indietro nel tempo, si parla
dei tempi di Pier Paolo Vergerio,
l’apostata. A renderli celebri fu
Giacomo Zarotti, probabilmente
il cognato, che col suo testamento
(21 giugno 1660) fondò un nuovo
canonicato (presso il Capitolo
Giustinopolitano) ed accordò al
vescovo pro tempore il diritto
di elezione, con la condizione
di dare la preferenza a sacerdoti
discendenti
dalle
famiglie
Gavardo, Zarotti, Grisoni e
Vergerio. L’eletto canonico è
obbligato a portare il nome della
famiglia Zarotti alla celebrazione
quotidiana della Santa Messa.
Per ogni figlia maritata, la dote
data era, approssimativamente,
intorno a 1.500 Ducati. Oltre ai
contanti, ognuna ottiene, come da
testamento, anche parte delle saline
e il magazzino in Piazza da Ponte,
che va a Paula. Così il lignaggio
femminile prospera, nascono figli
maschi, fondamentali per l’asse
ereditario.
A questo punto, i Grisoni sono
entrati in questa famiglia e della
quale, ne segneranno la sorte.
Questa antica, illustre e doviziosa
famiglia nobile della nostra città, è
fregiata del titolo di Conte, ma si è
estinta in linea maschile nel 1841,
con Francesco Grisoni (anche
se in verità lui ebbe un figlio,
Pompeo, il quale morì nel 1833).
Che il matrimonio di Susana con
un Grisoni non fosse una buona
idea, era opinione condivisa in
famiglia. Questo anche per una
vecchia ruggine, risalente al secolo
XVI. Mi riferisco ad Annibale
Grisoni, dottore dei Sacri Canoni,
canonico della Cattedrale di
Capodistria, Inquisitore per la S.
Fede nell’Istria (1523), nominato
nel 1549 commissario per l’eretica
pravità, fu il principale persecutore
del vescovo Pier Paolo Vergerio.
Queste le premesse, che già non ci
fanno ben sperare.
“Fu egli spinto da un eccedente
zelo di religione, e forse di
passione, diventando il primario
persecutore del proprio vescovo,
l’apostata Pier Paolo? Quanto
La città
ardito, e dannato fosse il trasporto
del canonico Annibale basterà
giudicarlo dal fatto, che la
domenica alla celebrazione della
conventuale, inveì predicando
contro il vescovo, ch’era pure
in Capodistria, attribuendogli,
perché eretico, i mali tutti e le
disgrazie che soffriva il popolo
nella sterilità dei raccolti, nella
siccità, e nella mortalità degli
animali, fatto sedizioso che
obbligò la pubblica autorità del
principe a reprimerla.”
Ritornando alle ragioni che
alimenteranno questa lotta per
aggiudicarsi l’asse ereditario,
posso forse aggiungere la mania
di grandezza che ha portato la
famiglia Grisoni a investire sempre
più capitale a Daila. Francesco
di Santo era ricchissimo, perciò
seguì l’esempio della nobiltà
veneta in fatto di migliorie agrarie
e edilizie. Il latifondo di Daila,
immiserito dalla malaria, era
semi-incolto, i maggiori proventi
erano l’affitto invernale delle terre
a pascolo, l’olio e l’esportazione
della legna da ardere. Volle farsi
una villa gentilizia, secondo i gusti
dell’epoca, sul posto delle antiche
e squarciate costruzioni. Esisteva
il cosiddetto “castello di Daila”,
cioè un palazzotto-casa dominicale
– quadrangolare con quattro
torrette agli angoli e feritoie sulla
cortina, racchiudente il capace
cortile e la cisterna. Dal 1775,
intanto demolì alcune case rustiche
adiacenti e la vecchia chiesa di
San Giovanni. Fece costruire i due
corpi di fabbrica laterali: la nuova
chiesa barocca (inaugurata nel
1783), e, di fronte, l’alloggio del
cappellano, del fattore, e via via,
i granai, il torchio, le cantine, i
magazzini, le scuderie, l’alloggio
dei famigliari. I trambusti politici
e la morte precoce impedirono
a Francesco di Santo Grisoni di
completare il progetto. Toccò
al figlio, conte Francesco. Sul
luogo del castello innalzò la
villa-palazzo, verso l’anno 1830.
Purtroppo non si è conservato
nulla delle testimonianze che
accompagnarono per secoli le
precedenti costruzioni. Abbiamo
però, e la stiamo ricostruendo, una
storia parallela, in altre parole la
cronaca di come si mantengono e si
alimentano i fondi per continuare
questo tipo di ambizioni.
Dalla parte del lignaggio maschile
invece, non vi sono solo eventi
piacevoli. Nel 1634 muore
Giovanni Nicola, il terzogenito,
a soli diciannove anni. Nel 1638
è un anno di gioia, poiché si
celebrano le nozze di Giovanni
Andrea II con Gioia Gavardo, del
fu Niccolò. Matrimonio molto
importante, poiché è da qui che
si ha la discendenza dei Contesini
Ettoreo, e non solo. Da questo
matrimonio nascono due figlie:
Franceschina che sposa Andrea
Contesini Ettoreo appunto, e
Susana, forse monaca Nezza,
la quale da inizio alla lunga
controversia. Nello stesso anno, un
mese più tardi, il ceppo maschile
subisce un altro duro colpo: muore
Colmano, monaco Cassinese.
Caterina dai suoi avi ereditò la
praticità e l’arguzia. Volendo
ottemperare alle ultime volontà
del marito, ma non sapendo
come fare, scelse di affidarsi alla
fortuna. Scelse la sorte, divise in
parti uguali sia i beni terreni che
materiali; compilò tre bollettini
e li mise in un capello. La posta
era alta, molto desiderata erano la
casa Vergeria e, naturalmente, i
possedimenti in Valle d’Oltra. Fece
scegliere prima al più giovane,
quel figlio nato dopo la morte
dell’amato marito: Girolamo.
Toccò poi a Carlo e infine, al
primogenito: Giovanni Andrea
II. A tutti sembrò una buona
idea, soprattutto alla discendenza
maschile. Ciò che non andò in
dote, fu equamente diviso.
Le cose cominciano a complicarsi
con la morte di Giovanni Andrea
II, padre di Suor Nezza. Siamo
nel 1659 e, purtroppo, non fece
in tempo a redigere il testamento.
“In mancanza di figli maschi il
tutto vada equamente distribuito
alle figlie femmine”; vi è però una
postilla: per far si che la Val d’Oltra
rimanga in famiglia, si cerca di
non dividere il possedimento
tra i vari famigliari. Per le figlie
vale la regola di ottenere beni in
proporzione al valore dei terreni.
Suor Nezza (cioè Susana Vergerio
Gavardo) sarà estromessa e
continuerà a sostenere le proprie
ragioni fino all’ultimo. Lotta
che poi sarà consegnata alle
generazioni future, ai nipoti
Tommaso, Giovanni Andrea e
Lelio Contesini Ettoreo.
Dopo la morte di Caterina i rapporti
s’inasprirono. Giovanni Andrea
II (padre di Suor Nezza) morì
improvvisamente nel 1659, senza
lasciare testamento. Caterina vergò
il proprio nel 1668, ma non morì
subito. Condivise le pene terrene
con i propri figli ancora per quattro
anni. Li lasciò alla veneranda – e
invidiabile per i tempi – età di
ottantaquattro anni. Lasciò tutto,
poiché era usufruttuaria di tutti
i beni del defunto marito, ai soli
figli maschi. Alle proprie figlie
non lasciò che ricordi. Con la
specifica che alla nipote Suor
Nezza, dopo aver avuto i 300
Ducati (e tanti stabili in valore
caso mai mancassero contanti)
“non debba haver altro”.
Le pretese di Suor Nezza
cominciarono proprio dopo il
testamento, anzi, dopo la morte
della nonna Caterina, avvenuta
nel 1672. Questa, infatti, non
aveva lasciato quasi nulla alle due
nipoti. Fatto che fu inteso come
ingiusto, per porvi rimedio però,
Suor Nezza cominciò una lunga
contestazione per veder rispettate
le proprie ragioni e i diritti circa
l’eredità del padre.
La disputa generazionale ruota
attorno alla decisione del buon
Giovanni Andrea I Vergerio
(decisione espressa nel suo
testamento del 1562), che tutta la
Valle d’Oltra restasse nella casa
e famiglia dei Vergerio. Questa
decisione abbastanza semplice
fu complicata dal testamento di
Gerolamo Vergerio (erede di
maggioranza del lascito dello
zio Giovanni Andrea I). Voleva
che tutti, figli e figlie, avessero
qualcosa. Morto il primogenito
nel 1659 (Giovanni Andrea II
ereditò la primogenitura dopo
la morte di Colmano – padre
Comodo, deceduto nel 1638), il
secondogenito Giovanni Nicola
morì nel lontano 1634, gli unici
rimasti in vita erano Carlo e
Girolamo. Così, in base alla
sentenza del 3 novembre 1672 e
29
La città
in base ai mandati per il possesso
(del 29.5 e 14.7. 1672), tale
patrimonio andò proprio ai fratelli
sopravissuti alla sorte: Carlo e
Girolamo. Essendo morto senza
testamento il padre di Suor Nezza,
Giovanni Andrea II, essa tenta di
appellarsi alle ragioni contenute
nella divisione dei possedimenti
fatta da Caterina nel 1641. Si
doveva, infatti, dividere tutti i
possedimenti, anzi, la Val d’Oltra
in eque parti tra i tre fratelli.
Morendo Giovanni Andrea II,
il maggiore dei tre ancora in
vita, e senza figli maschi, la sua
eredità spettava di diritto a Suor
Nezza. La condizione espressa
nel testamento prevedeva anche
i casi in cui a uno dei figli non
nascono eredi maschi - ma anche
un eventuale decesso- in questo
caso la porzione del parente
deceduto senza figli maschi, deve
ritornare ai viventi. Alle eredi
vada, invece, “egual porzione di
eredità espressa però in valore,
non in terreni”. Non avendo
alcun testamento, Suor Nezza si
appellava anche alla bontà degli
zii, poiché i proventi dei coloni
siti nelle saline, sono per lei unico
sostentamento. Toltole ciò, non
le rimarrebbe di che mantenersi,
essendosi la sorella maggiore
maritata con Andrea Contesini
Ettoreo, lei doveva provvedere
da sola al proprio mantenimento,
oppure a non perdere la dote per la
monacatura. A questa sua disperata
e accorata richiesta risponde lo
zio, il capitano Carlo, il quale le
cede alcuni terreni. Questo dono
nasconde un inganno. I terreni
in questione sono un campo in
Villa san Piero (Sveti Peter) e uno
a Carcase (Krkavče) nonché un
campetto nel distretto della città.
A ben guardare però, si scoprì che
questi fondi erano carichi di tasse
arretrate. Nuovamente senza soldi,
Suor Nezza coraggiosamente
impugnò l’ennesima sentenza
e chiese una perizia sui beni in
Val d’Oltra, poiché in base al
testamento del bis nonno questi
le appartenevano; ma anche in
base alla divisione di Caterina
nel 1641. Per far si che il tutto
sia imparziale, richiede un terzo
perito.
30
Nel 1673 sembra che la vicenda
sia conclusa. Susana ottiene
quanto chiesto, compreso un
terzo della casa Vergeria e una
piccola rendita da pagarsi in dieci
anni. Ben presto le circostanze
sarebbero cambiate.
Nei primi giorni del mese di luglio
1676, zio Carlo detta le sue ultime
volontà. Cosa mai potrà cambiare
per una delle discendenti del
ceppo maschile, nulla? Oppure
tutto? Capitan Carlo designa come
eredi il fratello Girolamo e i figli
maschi legittimi. Come al solito,
in mancanza di questi tutto vada
alle figlie; mancando la prole,
ed è qui che abbiamo il primo
grande colpo di scena, l’eredità va
alle sorelle Paula (la primogenita
Susana è già passata a miglior
vita), Elena e Felice! Ovvero,
al ceppo femminile. E non solo,
morte loro, tutto va agli eredi
maschi di Susana, Paula Elena e
Felice, cioè alle casate Grisoni,
Brutti, Petronio e Zarotti in “egual
porzione”.
Sembra che tutto debba essere
nuovamente messo in discussione.
Così non é. Forse, non ne ho la
certezza assoluta, forse Suor Nezza
non era a conoscenza di queste
particolari clausole testamentarie,
e magari del testamento in
particolare.
Ennesima
sorpresa,
alcuni
mesi dopo le ultime volontà di
Carlo, lo zio Girolamo propone
un accordo di transazione dei
beni a favore di Suor Nezza. Si
tratta della conferma di tutte le
spettanze dovutele. Non ci sono
altre notizie intorno a questo
fatto, si potrebbe supporre un
tentato riappacificamento prima
di incontrare gli avi? Oppure lo
zio, dopo il rifiuto dei Vergerio di
Verona a trasferirsi a Capodistria,
cercava una madre surrogata
del figlio adottivo? Peccato per
Suor Nezza che questo figlio
morirà molto presto, nel 1678.
Fatto sta che firmano, accettano
e fanno si che la discussione
finisca amichevolmente. Senza
trabocchetti o tranelli, Suor Nezza
finalmente può dirsi soddisfatta.
Per lunghi anni ha cercato giustizia
e ora, finalmente, l’ha ottenuta. La
sentenza diventa legge, nel marzo
1688, segue un’“apprensione
esecutiva” con cui si pone la
parola “fine” alla faccenda. Le è
riconosciuto, in toto, ciò che fu
già sentenziato e deliberato anni
prima.
A questo punto però, bisogna
ricordarsi del ramo “femminile”
della genealogia, il quale ebbe
figli maschi. Ci ritorna allora
utile consultare le ultime volontà
dell’ultimo Vergerio maschio,
Girolamo,
testamento
scritto
nel dicembre del 1678. Dottore
a Padova, non ebbe figli, però
decise di adottarne uno. Non solo,
decise anche che tutto ciò che
ereditò, come ultimo discendente
maschio, trascorsi 20 anni
dalla sua morte, vada tutto alla
primogenitura! Sono passati meno
di due anni dall’accordo stipulato
e che chiuse questa lunga disputa
avuta con Suor Nezza (unica
erede, insieme alla sorella, del
ramo maschile). Da buon genitore
pensò al futuro del proprio figlio,
desiderava assicurargli almeno
alcuni decenni di vita agiata.
Lo avrebbero aiutato a crescere
alcuni amici, con il prezioso aiuto
di Valerio Vergerio. Con questa
indicazione, abbiamo la conferma
dell’esistenza, poiché confermata
dal testatore, di un ramo Vergerio
anche a Verona. Quest’ultimo è
stato incluso nel testamento, a
patto però che si trasferisca, con
la famiglia tutta, a Capodistria.
Cosa che non fece. Essendo
il ramo maschile dei Vergerio
morto, cioè, essendoci solo
discendenti di genere femminile,
Franceschina e Susana – Suor
Nezza, volendo forse rispettare
le volontà del padre, prese una
decisione che diede una nuova
svolta a tutta la faccenda. Decise
che, la scelta della primogenitura
spettasse al destino! Proponendo
il gioco fatto dalla madre, scrisse
sopra tre fogli, i tre cognomi
più importanti: Grisoni, Brutti e
Petronio, ossia le sorelle maritate.
Omise Zarotti, forse perché non si
hanno notizie di nascite da quel
nucleo famigliare. Il primo estratto
sarà quello che determinerà, dopo
che saranno trascorsi i venti
anni, il diritto alla primogenitura
e, di conseguenza, ad avere
La città
tutto. Nominò poi i commissari:
Santo Grisoni, Antonio Brutti e
Francesco Petronio (i nipoti, figli
delle sue sorelle).
La situazione di Suor Nezza
è, un’altra volta, gravemente
compromessa. Ex novo dovrà
dimostrare la legalità e la
legittimità della sua eredità poiché
i tre nipoti si appellano e chiedono
di rivalutare il punto del testamento
della nonna Caterina in cui la
precedenza dell’asse ereditario
spetta ai soli figli maschi. Forti di
ciò, cominciano una nuova serie
di udienze e appelli.
Un primo durissimo colpo alle
certezze di Susana è la conversione
in legge del punto del testamento
di Caterina dove, come detto
sopra, si da precedenza ai figli
maschi.
Quasi ogni mese del 1688 è
rappresentato o da una scrittura dei
Commissari testamentari o da una
risposta di Susana. Vi è un fluire
di ricorsi e appelli. Se Gabriel
Venier, podestà di Capodistria
il 17 luglio intima ai cugini di
consegnare l’eredità; il 22 luglio
i cugini rispondono asserendo
che, “gli atti che comprovano la
legittimità di Suor Nezza, sono
disordinati e impropri, ecco
perché si ritiene indispensabile
impostare una nuova causa”.
L’alternativa è rappresentata dal
“taglio” (eliminazione) degli atti
datati 17 e 23 marzo. Guarda caso,
proprio quelli che confermano
e concedono a Suor Nezza un
terzo della casa. Il secondo atto
è rappresentato dal ricorso contro
quella transazione fatta dallo zio
nel 1676. Mentre si può ritenere
un gesto furbo quest’ammissione
parziale, in altre parole: le
concedono un terzo dell’eredità,
dalla quale però vanno detratte
diverse spese, ma soprattutto,
mettono in discussione la dote
della nonna Caterina. Questo
punto diventerà il nuovo centro
della discussione. La dote della
nonna, doveva rimanere separata
dai beni del marito, oppure doveva
sommarsi? Se diventava parte
del lascito, allora, l’un terzo di
tutto comprendeva anche i campi
in Risano, campo in Sermino,
ottocento ducati (controvalore in
immobili) come riconoscimento
per aver maritato le figliole.
Detrazioni che diminuiscono
di molto ciò che sembrava
appartenere a Suor Nezza. IL nove
marzo 1689 compare, per la prima
volta, il nome di Alvise Contesini,
il quale sostituisce la prozia, suor
Nezza. Un utile fonte per capire
l’entità di questo lascito, sono
i vari conteggi fatti dalle due
parti. Conti che, naturalmente,
differiscono non di poco.
Il litigio sembra non aver fine,
poiché il Podestà continuò a dar
ragione a Suor Nezza, i nipoti
continuarono
nell’insistere.
L’ultimo
documento,
infatti,
quello datato 12 marzo 1689,
addirittura “licenzia” gli avversari
dalla detrazione della dote della
nonna (si tratta di 3.500 Ducati).
L’aver un avvocato in famiglia
significa poter portare avanti una
causa persa. I Grisoni non si sono
fermati di fronte a nulla. Piovono
appelli sino al 1690, almeno
sino a luglio di quell’anno. Suor
Nezza, infatti, dopo “sessantotto
anni di sospiri e dopo nuove
dilazioni concesse ai cugini circa
i pagamenti inerenti l’eredità, e
per assicurarsi la quiete dopo un
così costoso raggiro”, chiede la
sospensione della vertenza con
un accordo. La parte avversa non
accetta, anzi, rincara e rende ancor
più amaro il tutto, affermando che
è Suor Nezza che indebitamente
insiste nel voler quello che non
è giusto e che non le spetta.
Considerano l’ultima scrittura
piena d’inutili e vane espressioni,
“onde alla medesima si protesta
di
nullità”.
Il
contenzioso
continua. Inutilmente Suor Nezza
protesta contro le “vane, inutili
e artificiose espressioni fatte
nell’ultima scrittura prodotta”.
Soprattutto quelle concernenti la
seconda parte del punto quattro: la
detrazione della dote della nonna
Caterina.
Suor Nezza è stanca e stufa. I
cugini, capeggiati dall’avvocato
Francesco Grisoni, non mostrano
segni di cedimento. Commuove
l’ultima
riga
dell’ennesimo
documento scritto da Suor Nezza:
“cessino, dunque, i signori eredi
e commissari testamentari di
maggiormente strusciar detta
povera signora, ch’è pure dello
stesso sangue, e acquietino a
giudizi già seguiti a di lei favore,
rinunciando all’appello, onde
possa la medesima ottenere ciò che
le spetta di diritto”. Parole dure
e sincere che forse colpiscono e
smuovono i sentimenti degli’avidi
cugini. Sembra proprio di sì.
L’atto seguente è un testamento,
si tratta delle ultime volontà di
Suor Nezza. Sono passati ben
diciassette anni senza litigi o
comunicazioni bellicose. Circa sei
mesi più tardi, anche Suor Nezza
cessa di vivere. Stanca e affaticata
da anni di lotte, si spegne la sera
del ventisette giugno 1709.
Non si sa bene perché, ma l’anno
1715 è l’anno in cui la lotta si
riaccende. Vi è l’”Assunzione
in giudizio” degli eredi di Suor
Nezza. Anzi, è Andrea (in verità
il suo nome completo è Giovanni
Andrea, ma potrebbe generare
confusione, si è deciso di usare
solo il secondo nome) Contesini
Ettoreo che ricomincia tutto
d’accapo;
come
procuratore
e in nome di Tommaso, Lelio
Arciprete - i suoi fratelli - e
in nome di Giovanni Tarsia
(consorte della sorella Angela),
Domenico Belgramoni (consorte
della sorella Gioia) e di Giacomo
Tarsia (consorte della sorella
Chiara). E qui scopriamo perché
il tutto ricomincia. Le spettanze
dovute a Suor Nezza, non sono
mai state liquidate! I Grisoni non
hanno mai adempiuto a ciò che la
legge ha imposto: saldare l’eredità
Vergerio.
L’origine della casata Contesini
Ettoreo si ritiene sia molto lontana,
risalente ai tempi delle lotte tra
guelfi e ghibellini. Proprio nel
tempo delle fazioni pro papato o
pro imperatore, questa famiglia
trovò un pacifico e sicuro asilo
nella città di Portogruaro. Nel
1550 un discendente si trasferì a
Isola d’Istria (Izola), dove morì
nel 1610, lasciando una numerosa
prole avuta da tre mogli, l’ultima
delle quali fu una de’ Moratti. La
loro posizione crebbe con l’eredità
fatta nel 1665, quando si estinse la
famiglia Ettoreo. Ciò risulterebbe
anche dal contratto di matrimonio
31
La città
stipulato nel 1711 fra il nobile
Giacomo Tarsia da Capodistria
e la nobile Chiara ContesiniEttoreo. Come da stemma allegato
… I Tarsia, invece, famiglia
importantissima in quanto diede
alla Repubblica Veneta due
dragomanni e undici capitani,
nonché venti sindaci alla comunità
Capodistriana. Questo poteva forse
favorire questa contesa? Poteva
forse il ceppo femminile contare
sulla fortuna generata da una
serie favorevole di circostanze/
matrimoni? Due sorelle che si
sposano con due fratelli Tarsia. La
sorella di mezzo, invece, si sposa
con Domenico Belgramoni. Altra
importantissima e antichissima
famiglia nobile Capodistriana,
e si spera, molto influente. Per
palesare i legami tra tutte queste
famiglie, diamo notizia delle varie
parentele, in modo superficiale:
Vergerio appunto, Gavardo, Brutti,
Tarsia, Contesini e, in un ramo del
nostro albero molto recente, anche
Verzi e Morosini.
Questa contesa ormai è diventata
una disputa generazionale che
coinvolge tutta la città. È la vera
eredità che la zia ha lasciato ai
nipoti. Almeno dalla parte dei
Vergerio. In questi anni, mentre il
casato Grisoni è impegnato a Daila,
abbiamo qui il rappresentante
del
ceppo
femminile
della
discendenza Vergerio, Francesco
Grisoni. L’ennesimo. In questa
famiglia vi son due nomi comuni
e che si ripresentano ciclicamente:
Santo e Francesco. Quando non
compare un Santo di Francesco,
abbiamo Francesco di Santo. A
noi basta sapere che nell’anno
1715, quando il podestà era un
certo Marco Magno, al foro di
Capodistria vi era l’avvocato
Francesco Grisoni. Accanto a
questo incarico, ricopriva anche
la carica di sindaco della nostra
città.
In previsione di un contenzioso
molto difficile, che durava già
da circa sessantacinque anni, i
Contesini Ettoreo fornirono un
esatto calcolo e stima di tutto
il patrimonio del bis nonno,
Girolamo Vergerio. Qui la disputa
assume un tono nuovo: non si
contesta semplicemente la terza
32
parte dell’eredità del bis nonno, ma
i Grisoni contestano la legittimità
del passaggio della dote della bis
nonna all’asse ereditario. Si tratta
di quei famosi 3.500 Ducati, più le
Saline di Sermino, i possedimenti
in Valle d’Oltra, il Mulino, il
magazzino in piazza da Ponte e la
casa. Un ammontare considerevole,
che poteva cambiare le sorti e gli
equilibri, non solo di queste due
famiglie, ma della città tutta.
Nel settembre del 1715, un foglio
appare solitario su un muro. Quasi
a non dover essere visto. Di solito,
lanciamo una stanca occhiata agli
avvisi così posti. Ma questo è
diverso. Si tratta di un richiamo
di comparizione per appellarsi
a una decisione, entro il termine
di otto giorni. Infatti, non è stato
notato. Francesco Grisoni, grazie
a questo ingannevole espediente
si è assicurato il passaggio della
dote di Caterina al proprio asse
ereditario! Possono continuare i
cugini a fare i conti, ma i giochi
sono ormai chiusi. Se questa
sentenza diventa legge, il ceppo
femminile della famiglia Vergerio,
non può più pretendere nulla.
Convinto di essere nel giusto,
Francesco Grisoni ripercorre le
tappe della vicenda e afferma che
Suor Nezza si è impossessata dei
beni, dal valore di un terzo, in
maggior quantità rispetto a quello
che le competeva. Non solo, nel
1690 ha esteso le sue ingiuste
spettanze sopra i beni dotali di
Caterina Vergerio, della quale
non era erede. E ora, i “coraggiosi
successori
della
medesima,
suscitano dopo lungo tratto di
tempo la derelitta e ingiusta
pretesa. Non può servirgli di alcun
appoggio il fallace e illusorio
calcolo prodotto”. Soprattutto
dopo che la sentenza, circa la
dote di Caterina, è divenuta legge.
Stando così le cose, “gli avversari
cesseranno le nuove e ingiuste
contese,
altrimenti
seguirà
l’appello alla sentenza del 1690 in
tutti i suoi punti”, non solo quelli
riguardanti il terzo dell’eredità.
Considerati stravaganti, agli occhi
dei Grisoni, gli atti e i calcoli
forniti e volutamente intesi come
una disperata continuazione delle
intenzioni che furono già della loro
zia. Sono definiti “chimerizzati” e
la loro costanza è reputata come
un “ostinato stancheggio”. I
Contesini Ettoreo rispondono con
un garbato “artifici mendicati”
dalla disperazione e confermano i
propri calcoli, come aderenti alla
realtà.
Suppongo,
vista
la
documentazione, che quest’ultima
asserzione abbia scatenato le
ire di Francesco Grisoni. Segue
una convulsa e frenetica ricerca
di documenti comprovanti le
varie proprietà nonché crediti,
debiti riscossi, “livelli” (affitti)
e contratti. Avvocato di grande
arguzia, aiutandosi un po’ con
la propria posizione, Francesco
ottiene molto. L’asse ereditario
è ridiscusso: i possedimenti di
Valle d’Oltra vanno ammessi per
il loro intero valore; anche la
torre portata in dote da Caterina
riappare come sostanza da
dividersi; così anche i crediti fatti
al tempo in cui il bis nonno era
ancora vivo e riscossi dalla moglie
dopo la sua morte; bisogna rifare
l’inventario dei mobili e questi,
poi, vanno decurtati dal credito
spettante a Suor Nezza. Gli eredi
Contesini Ettoreo ottengono solo
la ritrattazione della dote, che
a questo punto è ridotta circa
800 ducati. Dalla stessa sono
state tolte le somme date in dote
alle figlie … Non pago di una
vittoria così importante, forse
sempre sentendosi dalla parte
del giusto, Francesco impone un
altro controllo: quello delle spese
sostenute dalla bis nonna dopo la
morte del consorte. Non ha omesso
nemmeno le spese sostenute per il
dottorato di Girolamo Vergerio.
Ovvero, rimette in discussione,
in sostanza, tutte le sentenze
vinte da Suor Nezza! Prima che
si potessero organizzare con una
nuova causa o linea difensiva, la
sentenza diventa legge, grazie alla
decisione del Podestà Francesco
Battaglia. E i giochi sembrano
chiusi per sempre. Scavando fra
le vecchie carte, forse si sarà
ricordato anche di un’altra cosa:
sua nonna, quella Susana che
sposò Francesco Grisoni nel
lontano 1676, era la primogenita
di Gerolamo. Questo gli diede
La città
una nuova idea per una nuova
linea d’appello. Significa che in
base alla clausola contenuta nel
testamento di Giovanni Andrea
I, stilato nel 1562, la linea di
discendenza con priorità è quella
con prole di genere maschile. Si
prospetta un nuovo appello.
Purtroppo, la documentazione per
i seguenti due anni, è lacunosa.
Non vi sono notizie. Compare solo
un giuramento di un certo Alvise
Orsini come difensore della causa
Contesini Ettoreo contro Grisoni;
a seguito della morte fratelli.
In una giornata qualsiasi, nel
mese di maggio, Muore Marianna
Contesini Ettoreo; la pro pro nipote
di Gerolamo e Caterina Gravisi.
La data? L’anno? Siamo nel 1780.
Sono passati due secoli, e la lunga
faida non ha ancora termine.
Segna solo l’ultima vittima, ma
non in seguito a congiure, ma
di vecchiaia! Questa è l’ultima
notizia che il libro ci consegna.
Non la fine della vicenda, ma
l’ultimo decesso.
Marianna era l’ultima dei tre figli
di Tommaso, già nipote di quella
Susana Gavardo – Suor Nezza - che
alla lotta dette inizio. La famiglia
Gavardo entra a far parte di quella
dei Vergerio, tramite matrimonio.
Nel 1638 Giovanni Andrea sposa
Gioia Gavardo, del fu Nicolò.
Questa nobile e illustre famiglia
ebbe le signorie di S. Pietro o
Carcase (Krkavče) nel 1210
dal Patriarca Volchero (questa
signoria passò in seguito ai Vittori,
altra famiglia imparentata), di
Merischie (Merišče) con Oscursus
(Skorušica) dal secolo XV al
1828, di Castelnuovo del Carso
(Podgrad) dal 1463 (che nel 1521
passò all’Austria). Nel secolo XVII
i Gavardo possedevano anche le
ville di Zabavlje e Laura (Labor).
Questa stirpe gloriosa diede molti
e illustri guerrieri e letterati. Un
Gavardo era nel 1454 Vicedomio
del Comune di Capodistria,
un’alleanza molto importante.
Questa celebre famiglia si divise
nel XIV secolo in due rami: il
primo si estinse nel secolo XIX
con la nascita di due figlie; un
secondo è tuttora fiorente a Trieste.
Contrassero parentela con i conti
Tacco, conti Bruti, conti Borisi,
marchesi Gravisi, conti Tarsia ma
anche con i Vergerio. E in fine
troviamo anche un Alessandrone
Gavardo (a distinzione causa
continua ripetizione di questo
nome nei vari rami) giureconsulto
nelle
materie
criminali
ed
eloquente oratore. Ritiratosi a
Sanvincenti, dopo esserne stato,
per anni capitano e giudice e in
seguito anche a Venezia; dove,
però lo troviamo a convivere con
i fratelli Morosini, i di lui cugini.
Questo fatto diventa importante
quando leggiamo il testamento
dell’Alessandrone;
vediamo,
infatti, che lascia, in via di legati,
ai tre fratelli Morosini, tutti le di
lui facoltà esistenti nelle Province
di Venezia, Padova, Treviso e
Capodistria. Compare la famiglia
Morosini, la stessa che entrerà
nella genealogia del Vergerio
per matrimonio nell’ultimo ramo
descritto nel libro.
L’importanza di questo legame
risiede anche nelle vicende della
famiglia Gavardo, la quale, nel
corso dei secoli, ebbe a soffrire
anche difficoltà materiali, infatti,
nel 1655 è concesso agli eredi,
“per meriti e per la qualità
di quest’antico casato che
possono annoverarsi tra i più
ragguardevoli, sei ducati il mese”.
Essendosi trovati i supersiti in
tristi condizioni, si decreta di
accordar loro un aiuto, in modo
che possano dedicarsi con più
zelo al servizio della Repubblica.
Forse sono proprio queste precarie
condizioni che inducono la Suor
Nezza (figlia di Giovanni Andrea
II Vergerio e di Gioia Gavardo)
a impugnare il testamento del
bis nonno Giovanni Andrea I
Vergerio. Quello in cui tutte le
proprietà vadano, in mancanza di
figli maschi, equamente distribuite
alle figlie femmine.
Prima di chiudersi la copertina
ci lascia un ultimo segreto: un
foglietto con alcune note. Ho
visionato circa 120 documenti,
tra sentenze e verdetti. Un po’ in
latino e un po’ in lingua italiana
settecentesca. A un certo punto,
molte cose sono state omesse, ma
una riga con un tono maligno, più
delle altre, mi è rimasta impressa.
Non le ho dato bado, perché mi
sembrava solo una semplice accusa
nei confronti della già stremata
suor Nezza emanata dal solito
Grisoni. Queste poche parole,
press’a poco, erano queste: “la
somma degli averi dovrebbe essere
questa, tolto ciò che è stato celato”.
Cosa mai poteva nascondere la
povera suor Nezza? Riavvolgiamo
i fogli e, nel conteggio dei mobili
ereditati da Suor Nezza troviamo
la seguente descrizione: un forcier
coperto di pelle. Apparentemente
nulla da aggiungere. Guardando
con sospetto i conteggi fatti
dagli eredi, I Contesini Ettoreo,
vediamo che dalla somma totale
del capitale sono spariti circa 850
ducati e il forcier non appare più
… Appare però questo foglietto
con una nota, scritta da Pietro
Gavardo (zio di parte materna di
Suor Nezza), in cui elenca i danari
che si trovano nello scrigno:
zecchini, ongari, ducati d’oro e
scudi d’argento, ducati veneziani
con un sacchetto di moneta
grossa e uno di moneta diversa.
Un capitale di lire 5.312, ovvero
danari 856 Lire 4 e 16 quarti. Ed
è proprio la somma che entrambe
le famiglie si contestavano, anzi,
tra le molte cose, si accusavano a
vicenda di aver occultato.
Se sapessimo, con assoluta
certezza che Suor Nezza fu
davvero suora e in quale
convento dedicò la sua vita e le
sue preghiere al Signore, forse
potremmo anche noi ringraziarla
di qualcosa?
Stemma dei Vergerio-disegno
di A. Cherini.
33
La città
La CI di Crevatini a San Ginesio
E’ proprio in questo paese, sorto a cavallo tra il X el l’XI
secolo sul colle Esculano nelle Marche, che la Comunita’
degli Italiani di Crevatini ha, nel fine settimana di
ferragosto, organizzato una visita alla scoperta delle
bellezze, uniche, che questo borgo e alcuni altri paesi
limitrofi offrono.
La panoramica comincia proprio con la visita di San
Ginesio, borgo caratterizzato, nella costruzione dei propri
edifici medievali, dal giallo oro della pietra arenaria
che grazie allo sfondo dei monti Sibillini propone uno
spettacolo unico.
Il passato forte di questo insediamento si riconosce
immediatamente appena se ne intravede l’entrata
attraverso Porta Picena, una delle entrate che assieme
alle mura del castello, erano in passato indispensabili alla
difesa dagli attacchi dei popoli vicini.
Assieme alle altre attrative come l’Ospedale dei pellegrini
di San Paolo, il teatro Giacomo Leopardi e la Pinacoteca
Scipione Gentili, troviamo la Chiesa degli Agostiniani,
frequentata da San Nicola da Tolentino, nella quale e’
conservato uno dei quattro organi piu’ antichi d’Europa
( 1530). Posso definire, senza dubbio, questo paese come
piccolo gioiello di storia e cultura.
San Ginesio e’ stato la nostra casa per questo breve
periodo di permanenza, durante il quale la comitiva ha
visitato altri punti di interesse nei comuni limitrofi.
Di particolare rilievo ricorderemo la visita, nel comune di
Tolentino, alla Basilica di San Nicola da Tolentino.
Risalendo dalla parte bassa, verso la piazza centrale, si
presenta la seconda immagine caratterizzante il paese.
Si tratta della Collegiata,ovvero la chiesa principale
risalente al 1098, la cui facciata si accende di rosso al
tramonto. In questo scenario troviamo una presenza che
tiene sempre compagnia ai Sanginesini. E’ la statua di
Alberico Gentili, in ricordo del figlio piu’ famoso di San
Ginesio, autore questo del primo trattato sistematico
del »diritto delle genti«, base per la nascita del moderno
diritto internazionale.
34
La città
Di origine tardoduecentesca in stile gotico a navata unica,
caratterizzata dal soffitto ligneo a lacunari cassettonati, il
cui riflesso aureo rende unica la suggestione.
Basilica che tra le altre particolarita’ ospita Il museo
degli Ex Voto il quale raccoglie 378 tavolette votive, di
cui alcune della fine del Quattrocento, che testimoniano la
devozione per San Nicola. Inoltre il museo del Presepio
artistico presenta una raccolta proveniente da ogni parte
del mondo e attraverso varie ambientazioni ripercorre gli
episodi più importanti del Vangelo.
Altro sito di interesse, sempre nel comune di Tolentino
e’ stato il Castello della Rancia ( dal francese “grange”
ovvero fienile, in quanto veniva utilizzata dai monaci
cistercensi come deposito di derrate alimentari). Si tratta
di un castello, di forma quadrangolare, composto da una
cinta merlata. Famoso per la battaglia della Rancia del
1815 fra l’esercito austriaco comandato dal generale
Bianchi e Gioacchino Murat, re di Napoli, che tentava di
unificare l’Italia.
dimorarono nelle stanze che oggi sono aperte al pubblico
pur essendo sempre di proprieta’ della casata Pallotta.
Stanze nelle quali gli arredi e ogni altro dettaglio, sono
collocati nel proprio contesto originale.
Con questo ultimo ricordo concludo questa breve e
incompleta descrizione delle attrattive di queste terre,
volendo rimandare il seguito, magari, ad una successiva
visita.
E’ di dovere ringraziare il Comune di San Ginesio per
l’accoglienza, nella persona della cittadinanza e nella
persona del Sindaco e dei Consiglieri che hanno voluto, alla
fine della nostra permanenza, salutarci personalmente con
l’augurio di rivederci in un futuro non molto lontano.
Roberto Bonifacio
Avvenimento che fu definito da molti la prima battaglia
per l’indipendenza italiana.
Come ultimo punto di questo breve diario voglio ricordare
il comune di Caldarola e precisamente la visita del Castello
Pallotta. Modificato verso la fine del ‘500 quando il
Cardinale Evangelista Pallotta volle trasformarlo in modo
da adibirlo a propria residenza estiva. Questo al fine di
testimoniare il prestigio del casato e i legami con la curia
romana ed il mondo artistico. Ospiti importanti come il
pontefice Clemente VIII e la regina Cristina di Svezia
Crevatini ha ospitato la 39.ma edizione del Festival
della Canzone per l'infanzia »Voci Nostre«. Ha vinto il
trio di Verteneglio composto da Erika Paoletić, Elica
Starčević e Petra Grace Zoppolato (Foto Belvedere).
35
La città
BERTOCCHI: VIII INCONTRO DELLE TRE REGIONI
Anche quest’anno la CI di Bertocchi ha organizzato, nel
mese di novembre, l’Incontro delle tre regioni, giunto
ormai all’ottava edizione. Questa manifestazione è nata
col desiderio di unire realtà artistiche sia della minoranze
sia della maggioranza, provenienti dalla Slovenia,
dall’Italia e dalla Croazia.
Il Focolare – Trieste
Come tutti gli anni, ha preso parte all’evento il Coro
Brnistra-Ginestra, patrocinato proprio dalla CI di
Bertocchi. Il coro ha proposto sia canti italiani sia
sloveni. Il coro è stato diretto da Eliana Humar la quale,
al momento, sostituisce Marko Kocjančič, dirigente del
coro fin dalla sua nascita.
La CI di Bertocchi ha avuto il piacere di ospitare, per
la prima volta, anche la filodrammatica della CI di
Castelvenere. Il gruppo, composto da membri dai 10 ai
50 anni, ha proposto un divertentissimo sketch intitolato
“Una giornada quasi normale”, scritto e diretto dalla
mentore della filodrammatica, Tamara Tomasich.
Si è esibito per la prima volta sul palco di Bertocchi, anche
il gruppo di canto spontaneo popolare “La Porporela” che
opera in ambito della CI Santorio Santorio di Capodistria.
CI Castelvenere
“La Porporela” ha proposto pezzi della tradizione popolare
istriana.
Il gruppo che si è esibito successivamente è stata
l’Associazione giovanile, creativa e culturale Sveti
Anton, fondata nel 2009 nell’ambito della parrocchia di
S. Antonio. Il gruppo, composto da giovani, ha proposto
un divertente sketch intitolato “Šjora Karlina”, scritto da
Nelda Štok Vojska nel dialetto di Maresego. Il testo è
stato adattato dai membri del gruppo alla parlata del loro
paese.
L’ultimo a salire sul palco è stato l’Ensemble Vocale
femminile “Il Focolare” di Trieste, nato nel 2000. Il coro
è diretto, fin dal suo inizio, da Giampaolo Sion. Il coro
ha proposto, con successo, un repertorio di pezzi triestini,
friulani ed italiani.
Anche quest’anno l’evento ha attirato un gran numero di
persone che hanno seguito con entusiasmo le esibizioni
artistiche dei vari gruppi, quattro dei quali hanno varcato
il palco di Bertocchi per la prima volta. Un invito a tutti i
lettori a venire alla nona edizione dell’evento il prossimo
anno, sperando che sarà anche questa un successo.
MKUD Sveti Anton
36
La città
In collaborazione tra la »Vergerio« e la CI
è stato avviato un corso di cucina per alunni
delle elementari. Nella foto Mariella Zanco Tavernise
prepara dei biscotti.
Capodistria al Concorso Istria Nobilissima 2010.
Primo premio: Manuel Šavron (foto) per »Esecuzione
vocale o strumentale«. Secondi premi: Valentina
Vatovec nella categoria »Poesia-giovani« con la
raccolta »Vari«, Peter Lešnik nella sezione »Saggi
di argomento letterario« per »Platee trionfanti e
palcoscenici roventi«. Menzioni onorevoli: Claudio
Geissa nella sezione »Poesia in lingua italiana« per
la silloge »In smemoriam«, Edda Viler nella sezione
»Video e televisione« per il lavoro »Mentine«. Premi
giornalistici: Elio Radeticchio di Tv Capodistria, e la
Redazione italiana di Radio Capodistria.
Foto Primožič-FPA
Il 29 ottobre è stato inaugurato il nuovo stadio di
Capodistria. Munito di impianto di illuminazione, il
complesso ha acquisito gradinate con 4190 posti a
sedere di cui 3000 al coperto.
Il 27 ottobre si è svolta l’Assemblea dell’Associazione di
amicizia fra gli abitanti delle regioni confinanti. Nella
foto alcuni dei partecipanti – rappresentanti di varie
sigle sindacali slovene e italiane – in Piassal de Derin.
»Capodistria in immagini, storie e musica« è un
progetto multimediale sostenuto dalla CI. Musiche di
Marino Kranjac e Dario Marušić, lettura di Alberto
Cernaz e Kristina Menih. Un'ora di programma al
ridotto del teatro comunale con la lettura di brani
sulla storia, la pesca, l'agricoltura, i personaggi e le
tradizioni della nostra città. Intercalate da brani suonati
dal vivo e corredate da immagini proiettate, sono state
interpretate liriche di Edda Vergerio, Gavardo, Cherini,
Manzini, Muzio e un brano tratto dal »Sileno« di
Girolamo Vida.
37
La città
Compie dieci anni il Gruppo lavori creativi, guidato
da Biserka Forlani. Tecniche usate: patchwork senza
ago, decupage e fiori di vari materiali. Attualmente è
frequentato da nove membri. Ogni venerdì alle 17.30.
Primo dicembre. Concerto in Comunità della blues band
»Mississipi heat« di Chicago, organizzato e trasmesso
in diretta dai programmi italiano e sloveno di Radio
Koper-Capodistria.
Presso la sezione italiana della Biblioteca civica è stato
presentato il volume »Le perle del nostro dialetto«.
Nella foto, gli autori Marino Bonifacio e Ondina Lusa,
con l'illustratrice Fulvia Zudič.
Il 30 novembre è stata inaugurata la 26° edizione della
Fiera del Libro di Lubiana, che quest’anno ha visto per
la seconda volta la partecipazione del Centro Italiano
“Carlo Combi” di Capodistria nel ruolo di promotore
di pubblicazioni in lingua italiana, bilingui e plurilingui.
L’esposizione è stata realizzata in collaborazione
con la Libreria Libris di Capodistria e col supporto
finaziario del Ministero della cultura della Repubblica
di Slovenia. Oltre allo stand nello Cankarjev dom (nella
foto, con la capo programma Roberta Vincoletto), il
»Combi« ha organizzato anche una manifestazione
collaterale: il 2 dicembre il prof. Salvator Žitko ha
presentato il documentario sulla Prima Esposizione
provinciale istriana. Per l'occasione è stata allestita
anche un'escursione per 50 allievi dei Ginnasi »Carli«
di Capodistria e »Sema« di Pirano, con tappe al
Parlamento e alla Fiera del libro.
Otto secoli fa nasceva il Beato Monaldo da Capodistria,
insigne giurista francescano, che la CI, assieme al
Convento di S. Anna e la Biblioteca centrale nonchè la
parrocchia triestina di S. Maria Maggiore, intendono
ricordare con una serie di iniziative. Nella foto il portale
della chiesa conventuale di S.Anna.
38
La città
Il CD de La Porporela
Il gruppo di canto spontaneo La Porporela opera da ormai qualche anno con immutato impegno nell’ambito dei
gruppi amatoriali della Comunità degli italiani »Santorio Santorio« di Capodistria. Al nucleo storico dei componenti
è venuto a mancare proprio il promotore e fondatore di tale progetto, il presidente della Comunità Lino Cernaz,
ancora presente durante le registrazioni.
Il gruppo La Porporela, unito da un legame comunitario e generazionale che vab en oltre la pratica del canto,
continua un suo genuinopercorso musicale che mira innanzitutto alla schiettezza della proposta investendo anche la
sfera dell’aggregazione sociale e del mantenimento delle proprie origini e dell’dentità. A coronamento di tale attività
giunge ora questa testimonianza sonora, che desideriamo dedicare all’indimenticato Lino.
Mario Steffè
Il periodo del secondo dopoguerra e in particolare gli
anni ‘50, segnarono profondi mutamenti nelle cittadine
costiere dell’Istria. L’esodo e la successiva massiccia
immigrazione condussero alla radicale trasformazione
del contesto nazionale nella sua componente politica,
sociale e linguistica: l’Istro-veneto resse come lingua
franca, ma la vita culturale della minoranza italiana fu
relegata nell’ambito dei Circoli di cultura, segnandone un
lento ed inesorabile declino.
Una svolta importante fu l’avvento del gruppo musicale
Istranova con le proprie ricerche, motivate dal desiderio
di salvare un patrimonio in forte crisi, ma anche stimolate
dall’esigenza di recuperare una propria identità linguisticoregionale. Successivamente seguirono il solco di questa
esperienza anche altri progetti culturali e musicali, con
risultati più o meno fortunati.
Il gruppo La Porporela, segnato dalla grande passione
peri l canto, è nato da un’idea di Lino Cernaz proprio
con l’intento di mantenere viva e vitale la tradizione
del canto popolare, valorizzando il patrimonio canoro
»cavresano«.
Da un lato il gruppo si affida alla memoria, cioè a quello
che è rimasto tramandato per tradizione orale (vedi
»Varda che bel seren«, »Se savessi Giovanin« e »Vado in
convento«), dall’altro in forma mediata usufruisce delle
fonti annotate da vari ricercatori del passato, servandosi
principalmente della raccolta Canti popolari istriani di
Giuseppe Radole.
Sebbene siano proposte in un’epoca in cui è l’immagine
a primeggiare, per cui anche la tradizione tende ad essere
considerata principalmente in base a criteri di spettacolarità
»televisiva«, le esecuzioni de La Porporela restano fedeli
allo spirito del canto popolare, rifuggendo una prospettiva
commerciale. Questa concezione disinteressata e non
utilitaristica si riflette pure sulla scelta del repertorio che
spazia dal prettamente tradizionale al »popolareggiante«,
cioè quello che fu il repertorio cittadino capodistriano già
alla fine dell’Ottocento.
Nonostante la sua tendenza conservatrice nel tramandare
i vari fenomeni musicali, soprattutto in ambiente urbano,
la musica popolare mantenne comunque una notevole
ricettività. Tramite le comunicazioni e il commercio,
infatti, si diffondevano i canti che, spesso modificati
secondo il proprio gusto, venivano adottati da una certa
comunità. Su questa scia La Porporela, sotto la guida
artistica di Emil Zonta, rinnova ulteriormente e trasforma
questi canti, reinventando vecchi codici di comunicazione,
come dovrebbe accadere in ogni processo che sia realmente
spontaneo.
Il loro merito è principalmente quello di promuovere la
cultura del canto spontaneo dalla voce piena e libera, del
»cantare insieme«, condividendo l’ormai dimenticato o
quantomeno trascurato aspetto delle emozioni che al canto
spontaneo affidava la propria quotidianità. Organizzati a
livello amatoriale, nel contesto in cui operano e nella sentita
esigenza di rafforzare la propria identità istroveneta, sono
assolutamente prossimi all’esperienza popolare.
Oltre ai canti eseguiti da La Porporela si è voluto includere
nel CD altri quattro documenti sonori registrati da Alberto
Cernaz a Semedella e Muggia tra il 1997 e il 2002.
I quattro brani sono comunque cantati da capodistriani
e fanno parte del repertorio canoro della Capodistria di
ieri.
Dario Marušić
39
La città
Adesso ghe volessi che cantemo robe più ‘legre
Intervista con i coristi
Si chiama Porporela, richiamandosi al nome del principale mandracchio capodistriano, è composto attualmente
da sette persone soci della Comunità degli italiani “Santorio Santorio” di Capodistria. Il Coro nasce nel 2008
con il coinvolgimento di persone che hanno sentito la necessità di rispolverare i canti tradizionali di quest’area.
Canti che magari una volta si intonavano in osteria, in campagna o anche in chiesa e che con l’esodo del
dopoguerra si sono andati perdendo. Ho incontrato due componenti del gruppo vocale – non amano chiamarsi
coro, ma Gruppo vocale – Luigi Maier e Mario Gandusio – e il loro dirigente, il ben noto Emil Zonta, non nuovo
a esperienze di questo genere in altre zone dell’Istria.
Emil Zonta, come nasce l’esperienza
con la Porporela?
Questo era un mio intento già da
molti anni, di formare un gruppo
vocale per ridare voce a vecchi
motivi capodistriani. Dopo vari
tentativi siamo riusciti, ringraziando
anche lo scomparso presidente della
Comunità Lino Cernaz…anche lui
faceva parte di questo gruppo. Lui ci
ha aiutato molto, perché certamente
questa grande cultura capodistriana
se fosse andata dispersa, sarebbe
stato un peccato. Ho messo insieme
del materiale, abbiamo fatto tante
prove e il risultato lo abbiamo inciso
su un CD.
C’e’ abbastanza materiale scritto a
disposizione su cui lavorare?
Ho fatto parecchie ricerche anche da
solo, ma la fonte principale è costituita
senz’altro dall’opera “Canti popolari
istriani” di don Giuseppe Radole
dove sono annotate diverse villotte.
Si tratta di brani popolari antichi che
abbiamo imparato insieme, con tanta
buona volontà da parte dei coristi.
Il CD comincia con “Beviamo
gobeti”.
E’ un brano che si cantava in periodo
di Carnevale, quando i giovani
capodistriani si riversavano nelle calli
spingendo la sagoma di una donna
cantando appunto “Beviamo gobeti”.
E’ stato difficile mettere insieme
persone, che non hanno esperienze
da coristi?
Devo ammettere che all’inizio non
è stato facile. Ci abbiamo messo
tanta buona volontà e con il lavoro
i risultati arrivano. Questo CD è il
primo documento sonoro, storico
capodistriano. Ogni tanto portavo
qualche brano nuovo…“nuovo” di
qualche secolo fa, per intenderci…e
i coristi ci hanno messo l’anima per
impararlo e cercare di interpretarlo
al meglio. Ripeto, la volontà e
soprattutto l’amore per la loro città li
40
ha aiutati.
Luigi Maier, detto Gigi Moscamora.
Perchè?
Perché mio nono cantava la canson
de Moscamora. Mio nono Biaseto a
Capodistria iera come nonsolo – i lo
conosseva duti, Biaseto Moscamora –
po’ iera so fardel che stava in Salara,
Bepi Moscamora che ga fato rider tuta
Capodistria e i monti de Capodistria
in giro…a iera una vigneta a iera.
E’ stato veramente così difficile
cominciare a cantare, come dice
Zonta?
Iera sì una roba un poco difissilota,
perché noi semo oto che se conosseimo
che se vemo messo cantar tramite
Lino…quanto volte se vemo becà
anca co’ lu e col maestro…perché ste
vecie canson che ne ga portà le parla
solo de morti, no xe gnente de ‘legria;
noi pensavamo che canteremo robe
alegre…
Magari in un secondo momento…
Vemo comincià per la verità con
altre cansoni, ma vemo anca smesso
perché no iera considerade vecie
capodistriane. Alora col maestro
gavemo comincià a far ste canson
vecie del Otosento, difati quele che
cantemo ‘desso no le conossi nissun.
Dopo che xe morto el nostro caro
Lino, se gavemo messo ancora più
col cuor. Perché noi quando che
cantemo, lo vedemo, lo vemo sempre
davanti. Quando che fassevimo quei
acuti, no iera miga sempre bel, sa!?
Dopo finido, barufete, batibechi…
Però ricordo quanto il presidente
sforzava perché esca quanto prima
il CD…come un presentimento…
Mi quela matina che go ciapà la
telefonada me xe vignù un colpo
al cuor. Lui iera una persona che
ogi se becavimo, el giorno dopo
se brassavimo. Iera un omo che no
sentiva risentimenti, sempre alegro.
Iera lu’ che tirava avanti, lu’ iera
l’anima de questa Comunità, bisogna
dir la verità. Parla con qualsiasi, te
sentirà che Lino iera l’anima dela
Comunità. Ne manca sai. E proprio
per questo noi andremo sempre più
avanti, pensando a lui.
Gigi, approfitto delle tue origini
“paolane” per chiederti, quanto
era importante il canto una volta?
I paolani quando che i tornava a
casa stanchi se trovava ostaria,
specialmente la domenega i andava
de Rampin e iera la cantada. Ma chi,
istrian, no cantava? Tuti ghe piaseva
la cantada. Dopo l’esodo, a Trieste…
specialmente via Capodistria e de quele
parte là… i cantadori capodistriani se
trovava. Mio pare, i mii fradei - iera
in quatro i Moscamora – tante volte
che vigniva a casa, chi che vigniva
diseva “Madona! Come che canta sta
gente”. Ghe piaseva, iera gente che
ghe piaseva cantar e i saveva cantar.
C’è anche una canzone popolare che
parla del “Canal de Moscamora”,
no?
In Canal de Moscamora, dove che
gavevimo anche noi una campagna.
In Salara, in fondo, iera el Canal de
Moscamora.
Se la ricorda?
Poco. Go dito tante volte…mi
no go fato, perché no se se rendi
conto, quando che se xe giovani che
bisognaria prender dute ste robe qua.
Mio papà a Capodistria me spiegava
tuti i cantoni, tute le pissade che ga
fato a Capodistria lu’ le saveva tute.
E adesso che ‘l xe morto me ga tanto
dispiasso. Sta roba qua no bisogna mai
dismentegar. Sto qua xe importante.
Tante robe so, però tute quele robe
che me gavessi insegnù lu, mai più no
le savaremo. E questo qua go sempre
un rimorso dentro de mi perchè no lo
scoltavo tante volte.
Gigi, ma se c’era un coro
leggendario
a
Capodistria,
era quello del Duomo, che era
comunque composto soprattutto
La città
da paolani.
Il coro della ciesa iera una roba
meraviliosa. Anca la gente che no
iera credente i vigniva scoltarlo…
perché veramente tremava la ciesa;
ma no perché i cantava solo forte: i
saveva cantar. El coro de Capodistria
iera nominado, i podeva andar cantar
dove che i voleva.
Gente che zappava tutto il
giorno…
Gente che sapava duto el giorno e po’
se lavava e andava a cantar in Domo.
Mario Gandusio: invece la
tua famiglia è sempre vissuta
nell’immediata
periferia
di
Capodistria.
Mi son nato a Villesan e poi son vignù
a Semedela.
Anche fra i contadini di fuori c’era
questa passione per il canto?
Sens’altro. I giovanoti de Semedela,
San Marco e dintorni…prima de
tuto se cantava sui nostri loghi,
poi se veniva dimostrar la capacità
anche a Capodistria dove se trovava
ste companìe, che cantava, che se
divertiva. E iera le sfide se fasseva
proprio a cantando. Iera un piacere.
Mi me lo ricordo perché venivo a
scoltarli con piacer, a boca aperta.
Iero putel, me fermavo a scoltarli e
iera un gusto propio. Per questo me
ga preso volia de novo de tornar su ste
cansonete vecie, che xe bel scoltarli.
Mio amico Gigi, diceva che xe duto
cansonete che se piangi, ma una
volta se trovava gusto anche queste
canzonete a cantarle. E veramente
te veniva anche le lagrime ai oci; mi
me le ricordo ancora qualchiduna…
magari no so tute le parole.
Si
ricorda
qualcuna
in
particolare?
Me ricordo, per esenpio una faceva
“Io maledico la prima pietra di quel
convento”…che fa pianger.
Me la intona?
“Io maledisco papà e mama, fratel,
sorele. Una di quele mi ha tradì, in
quel convento dovrò morir”. Cussì,
me par.
Zonta, sono melodie che hanno
un’anda antica…
Ma certi brani si possono far risalire
al ‘600, ‘700. Altri sono ovviamente
molto più recenti, ma alcuni sono
veramente vecchi di secoli. Brani
che ritroviamo magari anche altrove,
specie in Istria, ma che variano nel
testo – a volte anche nella melodia
– a seconda della località in cui si
canta. La popolare “Dove ti vadi
bela bruneta”, ad esempio, l’abbiamo
interpretata nella versione peculiare
capodistriana.
Gigi, le piaccioni i testi?
Xe bei, ma no xe una che parla
qualcosa de bel!! Go dito tante volte a
Zonta, qua ghe vol un poca de alegria.
Cò’te vol bever un goto de vin co’
queste canson qua.
Mario?
Ma vara che una volta se cantava
cussì. Mi cantavo tante de queste.
Mi, se le me ven inamente, ghe ne
so…dieci drioman. “Torna ‘l marito
dela botega”, “Mia cara Lena”…Ben,
desso bisognarà far anca queste.
Dunque ci sarà ancora da lavorare
per mettere questi testi su carta e
impararli di nuovo, Gandusio.
Ma sì, col nostro maestro qua mi
credo che faremo ancora qualche
cosa de buono. Se daremo de far,
stemo lavorando. Adesso, ciamemo
cussì, semo ancora principianti, ma
impareremo.
(GIGI) E restaremo principianti! La
gente no devi aspetarse de noi chissà
cossa. Noi semo oto…oto cuchi! in
poche parole, che se ga messo insieme
sensa ver mai cantado. E perciò la
gente no devi aspetarse che semo
dei campioni. Ne piase! Ne piase la
companìa e perciò cantemo col cuor.
Principianti o no, sicuramente state
facendo un lavoro prezioso. Gigi,
una volta cantavano solo gli uomini
o anche le donne?
Ma più i omini. Dopo qualche volta
se tacava qualche dona, e le veva bele
vose, me ricordo. I omeni ghe dava
la vose forte, la vose dela dona iera
come un penel.
(MARIO) Una volta se cantava sai
per le ostarie. Iera solo che alegria;
che no se pol dimenticar le cose.
(GIGI) In quela volta, la gente con
poco se divertiva. No xe come ‘desso.
Anche i paolani indove i ‘ndava? I
‘ndava spoiar formenton, in stala,
quel quel l’altro, la sera i vigniva co’
la cantada, o le barselete qualcosa,
el goto de vin e la cantada. No iera
altro, no iera dischi, celulari…iera
tuta un’altra vita.
Avete inciso il CD. Lo farà sentire
ai nipoti che magari impareranno
qualcosa.
Sì, ma xe difficile che sta roba vadi
‘vanti. Tu papà ga sempre dito:
“Cerchemo, fassemo, se cercherà
de far, se farà, pian pian”, ma me
par invesse che se sta spegnendo un
poco ala volta. Purtropo, tante volte
go gavù anche dei dibattiti…saria bel
che andassi avanti! Però sarà dificile.
Ancora sta nostra generazion, dopo
no so più avanti come che andarà
finir.
Che fare Zonta?
Noi per adesso cantiamo per il gusto
di farlo. Bisogna rendersi conto che
la tradizione e il canto in questo caso
ti ricollegano alle radici di un luogo.
E se un posto o una persona perde le
radici, secondo me perde tutto.
Il paolan Checo Bussa in una
caricatura di Rino Rello pubblicata
sul giornale satirico Marameo!
il 6 1 1922.
I brani contenuti nel CD:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
Beviamo gobeti
In mezo ‘l mar
Varda che bel seren
La pesca dell’anello
La bevanda sonifera
Me voio maridar
La malattia dell’amata
Se savessi Giovanin
Che te vegnissi trata una
sassada
10. Barcarolo
11. Un’eroina
12. Vado in convento
13. Capodistriana bella
14. Canzone dei pescatori
15. In Canal de Moscamora
16. In piassal de Bossedraga
41
La città
Torna il suono del mandolino
A quasi trent’anni dalla scomparsa del maestro Scocir, un gruppo di entusiasti ha rispolverato gli strumenti e si
incontra ogni martedì sera nella mansarda della Comunità. L’idea è partita dal chitarrista Marino Orlando, seguito
poi dai fratelli Bruno (basso) e Giuliano (mandolino), e altri due mandolinisti: Alenka Orel e Gianfranco Riccobon.
Marino in che anni hai cominciato a suonare con la
mandolinistica?
Io ho cominciato abbastanza presto, sarà stato il ’57-’58.
Ho cominciato a conoscere i segreti della musica proprio
nel Circolo.
Come sei stato introdotto in questo gruppo?
Per puro caso, perché il mio desiderio era di suonare la
fisarmonica. Poi invece… naturalmente la fisarmonica
costa, e i miei m’hanno detto “Ti va di suonare? Va in
Circolo da Scocir e vedi cosa puoi fare”. E’ iniziato per
un caso fortuito, ma poi ho continuato per più di due
decenni.
Le mandolinistiche erano un pretesto, oltre che per
conoscere la musica, anche per stare insieme…
Di tutto, perché in quei tempi si andava a vedere la TV dei
ragazzi...perchè a Capodistria allora ci saranno stati duetre televisori. Anche la mandolinistica è stata un motivo
in più per stare assieme con gli amici.
Quanti eravate?
Il gruppo di Capodistria era molto nutrito, mi ricordo
ancora degli amici che se ne sono andati ai tempi
dell’esodo. Di solito eravamo sui 25-30 elementi.
42
Matteo Scocir ha insegnato ai ragazzi anche la teoria.
Sì, tutti quelli che hanno frequentato la mandolinistica di
Scocir, hanno imparato le basi teoriche, solfeggio. Queste
basi ci hanno consentito di proseguire poi da soli, alcuni
di studiare avanti e di allargare le competenze musicali.
E a distanza di trent’anni ti è venuta la voglia di
suonare…
Finita l’era Scocir, in quegli anni ’80 mi sono sposato,
ho avuto altri impegni e quindi ho messo il mandolino
un po’ da parte. Mentre l’anno scorso (2009) ho deciso
di riprendere il discorso della musica. Ho chiamato i miei
due fratelli più giovani e l’amico Gianni Riccobon, e
stiamo provando a formare un quartetto, con la musica di
allora e con alcuni pezzi che sto adattando per un quartetto
di mandolini e chitarra.
Come sta andando? Senti le dita un po’ arrugginite?
Si sono già riprese…è già quasi un anno che ci ritroviamo
ogni martedì e siamo soddisfatti.
Avremo modo di ascoltarvi dal vivo?
Per i momento suoniamo…per la nostra anima e per i
nostri sogni. Quindi ogni occasione e buona per poi fare
la suonatina, la cantatina. Chi vivrà vedrà.
La città
Sempre in collaborazione tra la scuola »Vergerio« e la CI
è stato inaugurato, a novembre, un corso di educazione
all'immagine foto-video. Mentore Damian Fischer.
Marino Orlando
Che cosa ha rappresentato Matteo Scocir per la vostra
generazione?
Per me è stato un grande maestro, di musica e di vita. Ha
lavorato coi giovani da sempre, quindi sapeva quali sono
i loro problemi e sapeva come indirizzarci. Sono ricordi
bellissimi.
Tra tanti concerti che avete fatto, quale ti è rimasto
più impresso nel ricordo?
Il più grande successo è stato il concerto delle tre
mandolinistiche istro-quarnerine riunite, quindi parliamo
di Capodistria, Fiume e Pola, che all’incirca nel 1965
furono invitate alla Filarmonica di Lubiana. Concerto
delle mandolinistiche riunite, più il coro della “Marco
Garbin” di Rovigno.
Come vi accolsero i lubianesi?
Con mezz’ora di ovazioni, una cosa incredibile. Purtroppo
non so se esista qualche traccia registrata di questo
concerto.
Negli ultimi anni avverto un certo revival del
mandolino.
Direi di sì. A Lubiana esiste da cinque anni l’orchestra
“Mandolina” che, da quanto ho potuto ascoltare sul CD che
ho trovato, sono veramente bravi. Sono ragazzi giovani,
hanno un repertorio ampio e variegato. Sarebbe auspicabile
veramente organizzare un incontro di mandolinisti di tutta
la regione…Slovenia, Istria eccetera.
Il 1 dicembre 2010 sono stati spenti in Slovenia tutti
i trasmettitori analogici terrestri e la diffusione
televisiva avviene tramite il segnale digitale
terrestre nel formato MPEG 4, sempre dalle stesse
postazioni di trasmissione. Per continuare a seguire
i programmi di TV Capodistria è necessario quindi
munirsi di un decoder MPEG-4 per il digitale
terrestre o di un televisore con integrato un
ricevitore MPEG-4. A chi già riceveva il segnale
di TV Capodistria non servirà spostare l’antenna.
Sarà necessario solo sintonizzare o risintonizzare
il ricevitore MPEG-4. Ricordiamo che i programmi
di TV Capodistria si possono seguire anche via
satellite su Hot Bird 13 gradi est e sulla piattaforma
satellitare italiana Tivu`Sat.
Informazioni: www.rtvslo.si/tvcapodistria
(tel. 00386- 5-6685102)
Il 7 dicembre la CI ha reso omaggio ad Pier Antonio
Quarantotti Gambini. Conversazione con Rosanna
Giuricin sui luoghi della memoria biografica e letteraria
e proiezione di filmati dall'archivio di TV Capodistria
con interviste d'epoca allo scrittore e trasposizioni
cinematografiche dalle sue opere letterarie.
43
La città
“Letere dal Siam”
Bangkok, 27 Ottobre 2010
Marocco: viagio nel paese de l’oio de cavra
Miei cari,
son pena tornà a casa, oviamente in Tailandia, ma son passà prima da un paese dove se trova e se usa l’oio
de cavra. No se scandalizi i animalisti, l’oio de cavra no se otien spremendo le cavre, come se podaria pensar
per analogia con l’oio de oliva. Anzi ultimamente le cavre le xe squasi lassade de parte e fra poco sarà solo
un ricordo, visto che adesso le più grandi dite de cosmesi se afreta a comprar e sfrutar, ma sensa cavre, con
sistemi industriali, le piantagioni de una certa pianta che se trova solo in Marocco. Perché sto paese xe apunto
el Marocco e quel famoso oio de cavra, adesso al se ciama uficialmente oio de argan. Ma fin a no tanti ani fa
prima de diventar oio, el fruto de l’argan passava esclusivamente attraverso el corpo delle cavre. Come jera (e
xe ancora, ma marginalmente) la procedura? Forse do parole su questa pianta, no saria mal dato che da noi no
la xe conossuda, a parte quei che se interessa de cosmesi, ma anca quei solo quei proprio del mestier.
In francese l’albero se ciama arganier (“argania spinosa”
in botanica) e al xe endemico del Marocco anca se tanti
milioni de ani fa se lo trovava anca de altre parti de
l’Africa occidentale (ma i disi che in Marocco se la trova
da “solo” 80 milioni de ani). Come disevo, con l’avansar
del deserto l’area su cui cressi sta pianta la se ga sempre
più ristreto e adesso la se trova praticamente solo int’un
triangolo che va da Marrakech a Essaouira, sul mar, e zo
lungo la costa fin a Agadir per risalir a Marrakech.
Dentro sto triangolo se trova la località de Argana da
cui i disi che deriva el nome dela pianta (arganier). Ma
altri la conta diversamente e i disi che in lingua berbera
“argan” vol dir semplicemente oio. Se trata de una bela
pianta granda che pol durar anca dosento ani. Se adata
perfetamente al clima secco, ma no arido, del Marocco
centro-meridionale e fin a no tantissimi anni fa, a vigniva
sfrutà solo dale popolazioni berbere dela zona, che usava
quel oio sia per alimento che per far andar via i dolori
(in particolare reumatici). Go a casa una botiglia de litro,
comprada tanti ani fa e devo dir che me ga sempre fato
efeto. Un massagin su le parti dove sentivo qualche dolorin
e duto passava. Forsi saria passà lo stesso anca sensa oio,
ma comunque al passava. L’albero ga foie verde scuro
tipo aghi e fa fruti che somiglia a le olive, ma no xe olive
e ogni baca ga tre ossi lunghi come quei dei dateri.
Ma cossa ghe entra le cavre? Le cavre iera de la massima
importanza per la produsion de quel oio. Cioè le cavre
va mate per le foie e i fruti de questa pianta. Le ga fin
imparà a rampegarse sui rami dei alberi per magnarle.
Ne la fotografia l’albero xe un poco scassà ma jera tante
44
cavre su un solo albero che meritava fotografarlo.
Una volta magnade le bache, le cavre le digerissi e dopo
le le espelli (disemo cussì) con le feci. Oviamente i ossi
resta ossi, ma i contadini berberi disi che per otener un oio
particolarmente efficace, ghe vol che al passi attraverso la
digestion. Le done (de solito le done xe quele che fa sto
lavor) le tira su i ossi digeridi de le bache, i li spaca e col
contenuto le fa l’oio. De quel che i m’à contà, par che ghe
vol circa un quintal de fruti per ricavar un chilo de oio.
No per gnente al xe sai caro. I berberi lo usa anche come
benvenuto sia per i ospiti che per i fioi ‘pena rivai su sto
mondo.
Adesso però le robe sta cambiando, le dite de cosmetici
no ga tempo de spetar che le cavre digerissi i ossi e alora
duto xe prodoto con sistemi industriai e l’oio de cavra
xe diventà oio de argan. Xe anca sai difficile trovar tante
cavre su un albero. Tanto che me xe vignù el sospeto
(anzi più che un sospeto) che se vedi cavre sui alberi,
solo lungo i percorsi turistici a beneficio esclusivo de le
machine fotografiche de questi. Xe robe viste un poco in
dute le parti del mondo. Quel che una volta al jera genuin,
adesso i lo presenta come folklore ma no ga più punti
de riferimento con la vita de duti i giorni. Son contento
de esser sta anca tanti ani fa, quando ste robe le jera
ancora vere e no “roba per turisti”. Adesso questi derivati
e sottoderivati de sto oio, i ven vendudi in profumerie,
farmacie, a prezzi che una volta i iera inimaginabili.
Questa xe una foto scatada in una profumeria e duto quel
che xe sui scafai al ven da questo benedetto oio: creme,
profumi, tisane ma anca botigliete de oio. Xe diventada
La città
cussì ciamà Sahara Occidentale. In effetti se trata de un
stato grando squasi una volta e meza l’Italia. Xe un stato
riconossù da l’Unione Africana, ma no dall’ONU, che lo
elenca fra i teritori “non indipendenti”. Sto stato ga un
nome “Repubblica Democratica Araba Sahrawi”, ga un
presidente de la repubblica ma …. ‘in pratica nol esisti.
I marochini ga ocupà e sta sfrutando (fosfati) una gran
parte de sto stato e po’ i ga costruì, per taiar fora el resto
dei Sahrawi (sti abitanti del Sahara), un “muro” de sabia
longo circa 2000 chilometri, che comprendi due argini,
alti 3 metri e proteti da campi minai e da fortilizi costruidi
ogni cinque chilometri. No mal, proprio nel periodo che i
butava zo i vari muri de Berlin.
Tramonto nel palmeto a la periferia de Marrakech
una industria, vera e propria.
Quei che ga leto le mie ultime “lettere dal Siam” se sarà
inacorto che se trova sempre qualche accenno alle varie
minoranze e magioranze che go trovà nei vari paesi e ai
modi che in sti paesi i gestissi la situasion. Più o meno
ben, più o meno mal! Qualche volta par che qualchidun
no sapi o no gabi proprio voia de gestirla. Quasi par che
mi ste situasioni le vado a sercar e invese penso che in
modo più o meno evidente, ste situasioni le xe in duto el
mondo. El fato xe che uno vedi mejo, in qualunque parte
del mondo al vadi, le robe che xe più presenti nei suoi
interessi e nella sua problematica. Come dir le robe che al
xe più portà a veder. I altri gnanca i se ne ‘corzi. Quel che
a uno no ghe interessa, lu proprio no lo vedi. Come dir che
qualchidun anca solo caminando per le strade, vedi duto
quel che xe in una vetrina (metemo de vestiti). Compreso
modello, color e prezzo, mi invesse, no me inacorzo
gnanca che jera una vitrina! Cussì anca nel campo dele
minoranze etniche.
In Marocco son sta con un gruppo de amici. Nissun ga
notà che anca in Marocco el problema de le minoranze
esisti e anca sai radicado, per serti versi, tanto che le
guide serca de evitar questo discorso coi turisti, cioé
del problema de queste minoranze, anzi in generale del
Nel cortile interno de un palazzo nel cuore de la medina
E questo xe una carateristica del Marocco ma... guai
parlar de sta roba. El problema uficialmente nol esisti
e duto quel teritorio le autorità lo considera parte del
Marocco stesso.
Ma xe un’altra situasion sai strana, strana nel senso
che xe dificile trovarla in altri paesi. Per duti quei
che riva qua (parlo de turisti, ma in generale per la
gente che no ga sti problemi per la testa), el Marocco
xe un paese arabo, dove se parla arabo, de cultura
quindi araba, insoma arabo a duti i efeti. E no se pol
darghe torto. I giornai xe scriti in arabo, la TV parla
in arabo, ne le cità ti senti parlar arabo.
Cossa ti vol de più? Ma invesse le aparenze,
ancora una volta le ingana. La maggioranza de la
popolasion, no xe araba, ma berbera! Qua no se parla
de magioranze relative, se trata che su 34 milioni
de abitanti che ga el Marocco, oltre 25 (forse 26)
xe berberi. Maggioranza assoluta, ma qua el potere
politico, religioso e cultural, xe completamente in
man de la minoranza. Tanto che oramai solo el 40%
parla lingue o dialetti berberi, dato che scole, giornai
e TV xe sempre stai solo in arabo, tanto che l’unica
TV in lingua berbera che esisteva fino a poco tempo
fa, trasmeteva da la Francia “Berber TV”. Solo de
poco tempo in qua, anca in Marocco xe in funsion
un canal televisivo berbero, ma nissun giornal, anca
se i berberi ga sempre bu la scritura za a partir del I
milenio prima de la nostra era (i la ciamava scritura
libica). Ma sora duto solo da pochissimo tempo xe
sta introdoto a scola l’insegnamento del berbero
anche se no i ga nissuna intension de riconosserlo
come lingua uficial del paese.
Un ultimo accenno a sto argomento: noi “occidentali”
li ciamemo “berberi” ma lori no se ciama cussì, ma
Imazighen (che volaria dir “omini liberi”) e la loro
lingua tamazight. La parola “berbero”, con la quale
noi li ciamemo deriva dal francese berbère, che a sua
volta deriva dall’arabo “barbar” che, sai facile, xe la
continuasion della parola romana “barbarus”, parola
che i antichi Romani usava per indicar duti quei che
no parlava latin. Perfin el scritor roman Sallustio, nel
suo “Bellum Iugurthinum” (capitolo 18) al ciamava la
lingua dei nativi, “barbara lingua”. Metemo però ben
in evidenza che i “berberi” rapresenta la popolasion
autoctona del Nord Africa. Autoctona, ma sensa
diritti. Dopo de lori xe rivai i Fenici, i Greghi e dopo
ancora i Romani, i Vandali. Fin che i Arabi xe rivai
45
La città
Particolari segnai stradali ne la medina: »divieto de
accesso per i mussi«
atorno all’ano 800, i ga portà la religion islamica che,
da quela volta, xe la religion dominante ne la region, i
se ga fato paroni, i ga resistì a le invasioni portoghesi,
spagnole e francesi, per tornar dominanti da un
secolo a sta parte. Ma i Berberi xe restai dominai e
praticamente sensa diritti anche se, paradossalmente,
i ga lassà ne la toponomastica nomi importanti. La
più conossuda città del Marocco, Marrakech, ga un
nome che deriva dal berbero “mur akush” che vol dir
“tera de dio”, e perfin una città europea ga un nome
che xe almeno in parte berbero e cioè Gibilterra. Infati
deriva da “gebel el tarik” (monte de Tarik) dove gebel
xe arabo, ma Tariq xe un nome tipicamente berbero
e jera el nome de un general berbero che ga portà i
Arabi a conquistar la Spagna.
Giremo pagina! E serchemo de dar una idea de
una tipica città marocchina. Se riferimo, per forsa,
a la parte vecia dele cità, perché la parte nova ze
fata sul tipo dele nostre, con viai alberadi, giardini
e magari ville con piscina incorporada. Ma la vera
atmosfera marocchina se respira ne la medina (che
saria la “cità sacra” dove duta la vita se basa sul
Un vicolo de la medina
46
modo de vita mussulman e le case se ingruma atorno
a le moschee e a la medersa (la scola coranica). In
reparti netamente separai, abitava una volta i ebrei
(la mellah, che corispondi al gheto de le nostre parti),
ma adesso però, ebrei no ghe xe squasi più. Sensa
alcool, sensa edifici de culto de altre religioni; anca
quei che ghe abita dovaria esser duti mussulmani. Xe
duto un groviglio de vicoli streti, dove l’unico mezo
de trasporto, oltre a le spale dell’omo, xe el mus. E
se senti spesso un che siga “balek”, atension, per far
strada al so mus ne le strade strete e batude de gente.
Perché la vita ne la medina (e ancora de più nel suq,
rion del “mercato”) se svolgi ne le strade. El vicolo,
per l’abitante de la medina, no xe solo un logo de
passagio; xe anca e forse principalmente un logo de
incontro, de scambio de merci e de pareri, un logo
tipico per la socializasion. E el suq xe l’esasperasion
comerciale de la medina, dove se vendi e se compra
duto.
Nel suq de le spezie
Per facilitar le compravendite, el suq xe sempre
diviso in compartimenti dove ogni grupo de strade
xe specializà ne la vendita de un tipo de prodotti. E
alora gavemo el suq de le spezie con quel odor acre
che te acompagna per duto, che te sembra de caminar
in una immensa drogheria, el suq dei tapei, quel de
i vestiti, quel dei artigiani del rame e naturalmente
tanti altri. Duto in un continuo vociar, contratar, zigar
e pur in duta questa confusion, te se para davanti,
de tanto in tanto, un vecio palasso dei notabili del
posto, con giardini meravigliosi, fontane, arabeschi
incantevoli, el duto in un silenzio squasi assoluto.
Te sembra impossibile che, a pochi metri, verta una
porta, se svolgi la vita più caotica che mente umana
pol imaginar. In Maroco par veramente de passar
atraverso un continuo susseguirse de porte che se
spalanca, man man che ti vadi ‘vanti.
Ma impossibile verzerle dute in un solo viagio.
Tornaremo? Inshallah (se dio al vol) come che i disi
qua.
Lucio Nalesini
La città
Piran-Pirano, ovvero “Italiani raus!”
Preceduto da una promozione greve di aspettative e un impalpabile senso di timore per possibili spiazzanti derive da
parte del ragazzo terribile della nuova cinematografia slovena Goran Vojnović, il lungometraggio Piran-Pirano ha
aperto a Portorose la 13. edizione del festival cinematografico sloveno. Il film ha valso all’autore il premio della giuria
per la sceneggiatura, quando probabilmente questi mirava al ben più prestigioso premio per la miglior regia. Ricordare
che il giovane cineasta Goran Vojnović si era guadagnato con l’esordio letterario Čefurji raus! uno strabiliante e
insperato successo di vendita oltre che il plauso della critica, giova per rintracciare una possibile chiave di lettura per
questo suo film, che altrimenti potrebbe venir frettolosamente liquidato nel genere drammatico a sfondo storico di un
nuovo filone che dichiara negli intenti di voler praticare un linguaggio cinematografico politicamente corretto.
La trama verte su un nucleo centrale
tutto sommato semplice ma di difficile
rappresentazione, quale l’incontroscontro tra due etnie, culture, lingue (e
nel film due ideologie) contrapposte,
impersonificate dall’italiano Antonio
e dal bosniaco Veljko, interpretati
rispettivamente da Boris Cavazza e
Mustafa Nadarević. Va soprattutto
a quest’ultimo, in un film che ha un
procedere lento ed introspettivo, il
grosso merito di fornire una prova
di rilievo pescando dal proprio
bagaglio attoriale per dar corpo a
un’interpretazione ironica e amara,
a tratti quasi surreale. In una casa
piranese che già fu dell’esule
Antonio e nella quale risiede ormai
da tempo il suo nuovo inquilino
Veljko prende corpo un confronto
tra i due anziani, che a tratti si
scontrano, a tratti si ritrovano in una
memoria comune, pur impossibilitati
a comprendersi realmente per le
differenze linguistiche e culturali.
Il confronto personale e le tensioni
irrisolte tra i due ricalcano quello dei
tanti anonimi interpreti della Grande
Storia in questo lembo di terra. Gli
elementi della contrapposizione
ideologica ed etnica di una storia
recente e dolorosa sono messi a nudo
dal film di Vojnović, e questa è già
di per se’ un’operazione che ancora si
pensava di difficile approccio, anche
se il racconto storico è interpretato in
termini sin troppo semplicistici con
la logica a senso unico di due blocchi
contrapposti. Nella lettura di Vojnović
non c’è spazio per i chiaroscuri, per
le sfumature di ruolo: italiani e slavi
sono divisi da un solco di appartenenza
etnica ed ideologica profondo e
invalicabile (ma dove sarà sparita
l’utopia della fratellanza italo-slava
nel disegno progressista dell’epoca
e la mancata rappresentazione di un
tessuto urbano italiano protrattosi ben
oltre la conclusione del conflitto). Il
regista inscena piuttosto un Vae victis
asservito alla logica del film, che tende
a far defluire tutto in termini manichei
nel riscatto di un’etnia e di una classe
sociale fino allora subalterna e nella
conseguente rivalsa sull’elemento
italiano. Più che l’esodo, intuito ma
non rappresentato, a parte la fuga
simbolica per mare del giovane
Antonio, viene messa in scena una
giustizia di guerra sommaria al
servizio dell’ideologia pragmatica e
spicciola praticata dai vincitori nella
contingenza storica del periodo.
Ebbene, un momento forte della
percezione intellettiva ed estetica
è legato all’esigenza per la quale
tendiamo a riportare i fatti al prorio
territorio, al proprio ambito emotivo.
In questa chiave di lettura, come
preannunciato, il regista Vojnović,
sloveno di nuova foggia cresciuto
nella difficile ed emarginata periferia
lubianese di Fužine dove regna
l’orgoglio balcanico degli immigrati
di seconda generazione, non può
che essere più vicino e partecipe alle
sorti del bosniaco Veljko. L’italiano
Antonio ha perso una guerra, una
casa, un luogo e gli affetti che a questi
legano, e continua a fissare l’attimo di
tale lacerazione in una sorta di eterna e
frustrata ricerca di ricongiungimento
con il suo essere più intimo. Il
bosniaco Veljko ha trovato, attraverso
altre crude sofferenze, un luogo dove
reinventarsi una vita e darsi un senso
di nuova appartenenza. Incontratisi
lungo direzioni opposte del crocevia
generato dalla storia, ambedue
devono dare una risposta a uno dei
quesiti tra i più difficili dell’uomo:
come è possibile concludere la
propria esistenza con un senso di pace
e (ri)conciliazione? Per tutte queste
ragioni il film Piran-Pirano è più che
un film sulla nostalgia e sulla storia,
un film sulla morte e sul sentimento
dell’appartenenza. Alla fine del film
il nuovo venuto si riconcilia con il
luogo e si sente finalmente partecipe
di un mondo mai pienamente
metabolizzato.
Per l’italiano Antonio così come
per tanti di noi, non resta forse che
aspettare migliori occasioni per dare
voce a quel sentimento di sottile
disagio nel percepirsi a tratti sradicati
e avulsi in una realtà dalla quale siamo
stati, nostro malgrado, esautorati e
relegati di fatto ad entità marginale e
minoritaria.
Mario Steffé
Foto Roberto Francomano
47
La città
Freschi di stampa
»La valigia per Trieste« di
Salvatore Egidio Di Grazia.
»La valigia per Trieste« è un libro
uscito a fine luglio per »Pazzini
editore« di Rimini. 165 pagine in
cui Salvatore Egidio Di Grazia (nato
nel 1945 a Žrnjovec) racconta la sua
infanzia vissuta nel paesino vicino a
Topolovec, alle spalle di Capodistria.
Figlio di un siciliano e di un’istriana,
Egidio ha un ricordo nitido di
quell’ambiente che nei turbolenti
anni Cinquanta del secolo scorso
abbandonò con la famiglia, dopo una
breve sistemazione a Capodistria,
Il presidente Mario Steffè e
Salvatore Egidio Di Grazia.
per finire esule a Rimini dove oggi
è un affermato avvocato. »Occorre
avere rispetto per chi non riesce a
dimenticare o a perdonare. – dice
Di Grazia, aggiungendo che – »Non
è ammissibile tuttavia, sprecare
l’occasione per offrire ai giovani la
possibilità di conoscere le ragioni per
le quali, alla fine della seconda guerra
mondiale in una terra così vicina, si
è pervenuti ad un siffatto livello
di degradazione di umanità«. »Le
emozioni di un bambino, raccontate
dalla voce di quello stesso bambino
diventato adulto – leggiamo nella
postfazione – le esperienze dei
48
primi anni di vita ravvivate da una
competenza storica acquisita solo in
un secondo tempo, le vicende di un
paese che contiene in sé l’incanto
della prima infanzia e il rimpianto del
profugo, ci regalano un libro che non
finisce con la sua ultima pagina«.
Il 30 novembre la Comunità degli
italiani ha organizzato un incontro
pubblico con l’autore. Salvatore di
Grazia vive dal 1953 a Rimini, dove
svolge la professione di avvocato
matrimonialista. Già docente di diritto
canonico ed ecclesiastico presso
l’Università di Bologna è autore di
pubblicazioni scientifiche nel campo
del diritto di famiglia e dei rapporti
tra Stato e Chiesa.
Trio Kras (gli altri due membri erano
Felice Šepić e Umberto Pucer (Berto
Mazul). Il materiale audio è stato
registrato tra il 1987 e il 1990. Un
piccolo omaggio a un grande artista.
Ottavio – Monografia su
Štokovac, indimenticato
liutaio istriano
ACTA HISTORICA ADRIATICA
Qualche anno fa avevamo ospitato una
mostra dei bassetti istriani costruiti da
Ottavio Štokovac. Ora la Comunità
degli italiani »Santorio Santorio«
dedica all’eccentrico liutaio di Kolari
(Grisignana) una monografia, redatta
da Andrea Rigodanzo, che comprende
un’introduzione di Mario Steffè,
testi biografici di Marino Kranjac
e Dario Marušić. Il tutto corredato
da splendide foto Organizzatore
di Jaka
Jeraša e
/ Prireditelj
da un CD contenente
una
selezione
Società di studi storici
e geografici,
Pirano
Društvo za zgodovinske in geografske študije, Piran
di brani in cui
Ottavio suona il bajs
e la fisarmonicaIn collaborazione
a bocca
al
con / assieme
V sodelovanju s
Comunità degli Italiani “Santorio Santorio” nell’ambito
del programma culturale della Comunità Autogestita della
Nazionalità Italiana di Capodistria.
Skupnost Italijanov “Santorio Santorio”
v okviru kulturnega programa Samoupravne skupnosti
italijanske narodnosti Koper.
L’Istria e le province illiriche
nell’età Napoleonica
a cura di Denis Visintin
Il quarto libro della collana Acta
Historica Adriatica raccoglie gli atti
del convegno svoltosi nel 2006 nel
bicentenario del Codice napoleonico.
Su iniziativa della Società studi storici
di Pirano, 17 studiosi di Slovenia,
Italia e Croazia hanno presentato i
loro contributi su un periodo breve
IV
L’ISTRIA E LE PROVINCE ILLIRICHE
NELL’ETÀ NAPOLEONICA
a cura di Denis Visintin
SOCIETÀ DI STUDI STORICI E GEOGRAFICI PIRANO
ma molto intenso nella storia di
queste terre. I vent’anni che seguirono
alla caduta di Venezia maturarono
nuovi tipi di società, nuove idee,
visioni della storia e dell’uomo. Tra
i contributi anche quelli di due storici
purtroppo scomparsi, come Giulio
Cervani e di Antonio Miculian,
attento quest’ultimo all’aspetto della
pubblica amministrazione. Il volume
- di quasi 300 pagine - si occupa dei
vari aspetti del dominio francese
e ripoducendo anche documenti
originali
custoditi
all’Archivio
regionale di Capodistria.
La città
Freschi di stampa
»Cara Lidia – Draga Lidija«
di Anna Rosa Rugliano
»La Jugoslavia, il basket e un
telecronista« di Sergio Tavčar.
Realizzato con il patrocinio ed
il contributo della Provincia di
Trieste, il volume raccoglie le
testimonianze dell’attrice Lidia
Kozlovich (Momiano 8 ottobre
1938 – Trieste 1 giugno 2009),
interprete, in italiano ed in sloveno,
di centinaia di personaggi di autori
italiani e stranieri, prodotti dalla
RAI per trasmissioni radiofoniche
e televisive, da vari teatri. Il
saggio-intervista è così suddiviso:
La Parte prima è dedicata a La
persona, La vita e la carriera; la
Parte seconda a Il personaggio e
Le interpretazioni; la Parte terza
a Il teatro, Gli autori, i registi, il
pubblico; la Parte quarta a Sogni,
Pensieri e immagini. Ogni capitolo
è introdotto da una testimonianza,
rispettivamente di Mila Nortman,
Gianni Gori, Ugo Amodeo e
Marko Sosič.
Sergio Tavčar con l'inseparabile
Gazzetta dello sport.
Lidia Kozlovich in una foto dello
Stabile sloveno di Trieste.
Sono tre le storie che si intrecciano
nel racconto di questo libro.
Quella principale, racconta della
pallacanestro jugoslava, vista con
gli occhi di chi l’ha conosciuta
seguendola prima soltanto per
passione e poi anche per professione
per oltre 50 anni. La seconda storia
è quella della Jugoslavia, delle sue
genti, dei suoi popoli e delle loro
peculiarità. Una storia raccontata
per aneddoti ed episodi, senza
nessun intento storiografico. La
terza storia è quella personale
dell’autore – storica voce di
Tv Capodistria – che racconta
fatti, emozioni, disavventure e
ricordi. Un libro di pallacanestro
quindi, adatto non soltanto agli
amanti del basket ma anche – si
legge sul sito sergiotavcar.com
– “a chi è interessato a conoscere
sfumature e sfaccettature di gente
che, nonostante la vicinanza, gli
italiani hanno sempre conosciuto
e capito poco”.
Il fotografo Alfredo Pettener.
Di Lea Škerlič.
Era tempo che qualcuno ci
pensasse! Da tempo, anche a
livello di documentazione oltre
che di interesse vero e proprio per
l’argomento trattato, si progettava
l’istituzione di una raccolta delle
tesi di laurea dei nostri giovani
connazionali: non fosse altro che
per avere una visuale nel tempo
della nostra crescita collettiva ed
individuale. Una crescita che negli
ultimi decenni è riuscita a colmare
quel vuoto intellettuale provocato
negli anni 50 del secolo scorso
dall’esodo da queste terre della
popolazione italiana.
Il primo volume di questa nuova
serie (introdotta dalle Edizioni
“Il Madracchio” di Isola, ndR)
è della neolaureata Lea Škerlič
che ha difeso con successo la tesi
dedicata al fotografo piranese
Alfredo Pettener e che nel 2009 è
riuscita ad aggiudicarsi il premio
Prešeren per studenti della Facoltà
di filosofia dell’Università di
Lubiana. Nei prossimi anni, al
ritmo di uno all’anno, dovrebbero
seguire altri volumi dedicati alle
tesi di laurea conseguite negli
ultimi anni dai nostri laureati,
in modo da dar vita ad una vera
e propria collana di testi sui più
diversi argomenti.
Silvano Sau
49
La città
CAPODISTRIA 2010: FOTO D’IDENTITÀ
La Comunità degli Italiani “Santorio Santorio” di Capodistria ha organizzato nei mesi di maggio e giugno
2010 un progetto di interpretazione/investigazione fotografica della città, invitando 12 fotografi dalla Regione
autonoma Friuli Venezia Giulia (Marco Citron, Massimo Crivellari, Roberto Francomano) dalla Slovenia
(Herman Čater, Darinka Mladenovič, Matjaž Prešeren), dalla Croazia (Ivan Balić, Ivica Pervan, Tomislav
Rastić) e in rappresentanza della Comunità Nazionale Italiana istro-quarnerina (Remigio Grižonič, Egon
Hreljanović, Guido Stocco).
Il progetto è stato realizzato con il finanziamento del
Ministero Affari Esteri della Repubblica Italiana, per il
tramite dell’Unione Italiana, in applicazione della Legge
21 marzo 2001, n. 73, e con il cofinanziamento locale del
Comune città di Capodistria e del Ministero per la Cultura
della Repubblica di Slovenia nell’ambito del programma
culturale della Comunità autogestita della nazionalità
italiana di Capodistria.
Nell’ultima settimana di maggio i fotografi partecipanti al
progetto hanno effettuato un’approfondita fotosessione,
dalla quale è stata estrapolata una selezione finale di 12
fotografie per ogni fotografo partecipante.
Un’ulteriore scelta di tali scatti d’autore sono ora confluiti
in una mostra fotografica collettiva che verrà presentata a
Capodistria presso la galleria Loggia (30.6. – 6.7.2010)
e lo spazio espositivo di palazzo Gravisi, sede della
Comunità degli Italiani (12.7. – 14.8.2010).
A fine esposizione verrà presentato il catalogo fotomonografia con un’ampia selezione del materiale
fotografico realizzato nell’ambito del progetto tematico
Capodistria 2010: foto d’identità.
L’idea alla base del progetto è stata quella di coinvolgere
i fotografi in una realtà urbana e sociale diversa dalle
rispettive aree di provenienza geografica, favorendone
il contatto e l’inserimento nelle dinamiche della città
ospitante, che ognuno ha interpretato attraverso il
filtro della propria cifra stilistica e approccio tecnico
fotografico.
Guido Stocco di Pola
50
La città
L’intento dell’organizzatore è stato quello di cogliere
attraverso la particolare prospettiva d’indagine dei
fotografi coinvolti, soltanto temporaneamente residenti in
loco e privi di condizionamenti determinati dal rapporto
“affettivo” e di familiarità con i luoghi, gli elementi a loro
giudizio caratterizzanti e marcanti della città ospitante.
Tale operazione ha inteso aprire la strada a inediti approcci
fotografici al soggetto d’indagine, che permettono di
acquisire sensibilità diverse nell’interpretazione sia dei
caratteri tipici della tradizione e della storia cittadina, sia
dei mutamenti che hanno investito e tuttora rimodellano
la configurazione di Capodistria.
Alla base del processo si sono rivelati, inevitabilmente,
la modalità d’approccio del fotografo verso la città e i
processi d’indagine, riconoscimento e interpretazione
degli elementi del paesaggio urbano.
Egon Hreljanović di Fiume
Il tema sul quale gli artisti si sono cimentati è stato
L’identità cittadina e i caratteri marcanti del territorio
alla luce dei mutamenti storico-sociali.
In questo contesto sono state ulteriormente definite le
seguenti aree di indagine tematica che hanno compreso:
- interazione uomo-ambiente
(gli aspetti del vivere lo spazio urbano: come lo
spazio urbano condiziona la vita sociale e come
l’uomo ha voluto e saputo adattare lo spazio
urbano alle proprie esigenze)
- paesaggio reale e memoria dei luoghi
(l’ambiente urbano oggi e le memorie e
rappresentazioni d’esso che sopravvivono ai suoi
mutamenti)
- innesti tra passato e presente
(come la vita cittadina contemporanea s’innesta
su molti strati architettonici, socio-politici,
urbanistici, etc. appartenenti ad epoche diverse e
con connotazioni sovrapposte)
- dinamiche interculturali
(le interazioni tra culture differenti che convivono
nella Capodistria d’oggi, ma che vivono
“Capodistrie” diverse, tra contatti, ibridazioni e
contrasti)
Remigio Grižonič di Isola
A tale scopo è interessante far notare che gli organizzatori
hanno fornito delle essenziali linee guida che potevano
aiutare i partecipanti al progetto ad approcciarsi ai temi
proposti, ma che si è cercato di non condizionare o limitare
in alcun modo la scelta del soggetto per non interferire
con la sfera interpretativa dei fotografi.
51
La città
Repertorio italiano di corrispondenza
alle voci dialettali capodistriane
Tratto dall’appendice al Dizionario storico fraseologico
etimologico del dialetto di Capodistria di Giulio Manzini
Pacato – calmo
Pacca – paca, boto, colpo
Pacchia – bobana
Pacioccone – bonato
Padella – fersora
Padiglione da giardino – gloriét
Padre – pare
Padrino – santolo, (del figlio)
conpare
Paese – vila, paiese
Pagello (itt.) – ribon e mormora
Paglia – paja
Pagliaccio – paiasso, pupinoto
Pagliaio – mieda de paja
Pagliericcio – paion
Pagnotta – pagnoca
Pago – contento
Paio – per, par
Paiolo – caldiera
Pala – badil, pala
Palamita (itt.) – palamida
Palamito (mar.) – parangal
Palemone (artopode) – schila
Palese – in vista, ciaro, verto
Pallina (colorata) – vaga, s’cinca
Palmo (delle mani) – palma
Palo – pal, forcada, (della bica)
miedil, (di sostegno) soponta, vaso
Palombaro – sotàiro
Palombo (itt.) – cagneto
Palpebra – palpièra
Palude – palù
Pampino – banpeno
Panca – banco, bancheto; banca
Panciotto – gilè
Pane – pan, panéto, biga, pagnoca
Panetteria – pistorìa
Panettiera – pancogola
Panettiere – pistor, pek
Pania – vis’ciada, vergon
Paniere – çesto, çesta, panier
Panno – strassa
Pannocchia – panàncola
Pannolino – panusso
Pantaloni – braghe, braghesse
Pantano – paltàn, ploc’
Panzana – busia, bala, fiaba
Paonazzo – rovàn
Parabordo (mar.) – vardalài
Paralisi – colpo
52
Paranco – bosèl; vinc’
Parapiglia – barafùsa
Pareggiare – far pata; valisàr
Pargolo – putel, picio
Parlantina – sbàtola
Parlato (mar.) – parlato, mesavolta
Parotite – mal del molton, orecioni
Parroco – pàreco
Parsimonioso – strento
Parteggiare – tegnir
Partita – partida, partìa
Passaggio – passajo, canisela
Passeggiare – spassisàr
Passeggio – listòn, spassìso
Passera – (itt.) passera, (barca)
passera, caìcio
Passero (ucc.) – panegariòl
Pasticca – silela
Pasticciare – pastrociàr, sbrodegàr
Pastrano – capoto, codegugno
Patinare – lustrar
Patrimonio – sostansa
Pattumiera – scovassera
Paura – paura, pipìo, sbigola,
spagheto
Pauroso – pauroso, bruto
Pavimento – paimento, (di natante)
paiòl
Pazzerello – maturlo
Pazzo – mato
Pece – pegola
Pecora – piegora
Pedante – piedego
Pedata – piada, scalso, pintelcul
Pedinare – andar drio, far la sguaita
Peduncolo – manigo, pipiòl
Pelare – spelar
Pelato – pelà, spelà
Peluria - pelùgo
Peluzzo – pelùco
Pena – trbolo
Pencolare – scantinar, zinzolar
Pendere – pindolar, picar
Pendìo – rato, piàio
Pene – binbin
Pensiero – pinsier
Pentola – pignata
Penzolo (veg.) – spiròn
Penzoloni – a pindolon
Pepato – inpeverà
Pepola (ucc.) – pacagnoso
Per (prep.) – per, par
Pera (veg.) – pero
Perbene – desesto
Percepire – sintìr
Perché – perché, parchè, parcossa
Percorrere – passar
Percorso – strada
Percossa – legnada, bota
Percuotere – bastonar, onzer
Perforare – sbusar
Per lo più – el più de le volte
Permanere – star, fermarse
Permettere – lassar
Pernice (ucc.) – pernisa
Perno (del timone) – màscolo
Perno tirante – piròn
Perno (della ruora) – perno, asso
Pero (veg.) – perèr
Perplesso – imatunì
Pertanto – persiò, donca
Pertosse – tosse pagana
Perturbazione – stratenpo
Pesante – grevo
Pesca (veg.) – persego
Pesce – pesse, (el) pessi
Pescecane – cagniga
Pescheria – pescaria
Pesco (veg.) – perseghèr
Pessimo – ‘ssai cativo
Pesta – pedega
Pestare – pestar, bater, mastrussar,
sapolar, tibiar
Petraia – masiera
Pettegolare – ciacolar, babàr
Pettegolezzo – ciacola, babesso
Pettinare – petenar
Pettirosso (ucc.) – pataross(o)
Pezzo – toco, feta, slepa
Piacevole – bel
Piacevolmente – ben, pulito
Piagnisteo – lagna, nàina
Piagnone – fifoto, piansòto
Pialla – spiana, (lunga) soramàn
Pianale (del carro) – tavolasso
Piantare – inpiantàr
Pianto – pianzàda, fifada
Piastrella – piastrela, quadrel
Piatto – piato, piatel, piatin, (liscio)
sparto, (fondo) fondina
La città
Piazza – piassa, (non selciata) brolo
Picchiare – bater, bastonar, dar bote,
cresimar, onzer, castagnar
Picchiotto – batocio, batador
Piccino – picinin
Picciòlo – manego, pirulìc’
Piccionaia – colonbèra
Piccione (ucc.) – colonbo
Piccoletto – pisdrùl, stropolo
Pidocchio – pedocio
Piede – pìe, piè
Piega – piega, pièta, alsèta
Piegare – storzer, scavassàr, (rifl.)
cufarse
Piena – montana, brentana
Pieno – pien, batù
Pietà – conpassion, pecà
Pietraia – masiera
Pigiare – sburtar; folar
Pigliare – ciapar
Pila – (dell’olio) pila, (dell’acqua
santa) pilela
Pinna (mollusco) – stura
Pino (veg.) – pin
Pinolo – pignol
Piolo – cavìa, grisèla
Pioppo (veg.) – talpòn
Piovigginare – schissolàr
Pipistrello – barabastèl
Piroetta – giravolta
Pisello (veg.) – biso
Pisolino – pisoloto, sparèto
Pspoletta (ucc.) – calandrina
Piuttosto – pitosto
Pizzicore – bèca
Placare – chietar, calmar
Plumbeo – scuro
Poco – un fià, iòsso, ninìn, scàia,
s’cianta, fregola, un bic’
Podere – cortivo – canpagna
Poggiare – pusar; (mar.) poiar
Poi – po, podopo
Poiché – che, perché, parchè
Polenta – polenta, (liquida) suf, slufi
Polipo – folpo
Polla – bolass(o)
Pollaio – puliner, caponera
Pollice – deo grosso
Pollino (insetto) – pelisson
Pollo – polastro
Pollone (veg.) – buto, bastardo, bilfo
Polpaccio o polpastrello – pùpola
Polsino – damàn
Poltiglia – mantèca; ploc(io)
Poltrire – tirar la fiaca, omega
Pomeridiano – de dopopranso
Pomodoro (veg.) – pomidoro
Ponderare – pensar; pesar
Pontile – mol, ponte
Poppa – teta, (mar.) pupa
Poppare – ciuciar
Porcata – porcada, scrovada
Porcile – stala del porco
Porco – porco, porsèl, porsìn
Porgere – dar
Porre – meter
Portamonete – tacuin
Porticato – (i) volti
Posapiano – camoma
Posdomani – dopodoman, doman
passando
Possedere – gaver
Posteri – quei che vegnarà, nevodi
Posteriore (s. m. di luogo)
– postèrno
Postino – postin, postier
Posto – posto, logo, sito
Potare – podar, bruscar
Povero – povaro, misero
Pozzanghera – possa, busa
Pozzo – posso
Pranzare – pranzar, desnar
Prato – prà, (dim.) pradisel
Precauzione – ocio
Precedentemente – prima, ‘vanti
Precipitare – cascar, tonbolarse
Precipitazione – furia
Precipizio – buron, rivasso
Precisare – dir, contar justo
Preciso – justo
Precoce – bonorivo
Predare – robar
Prefazione – capel
Premere – fracar
Preminenza – soravento
Prendere in giro – cior pel cul,
coionar, remenar
Preoccuparsi – esser/star in pensier,
bazilar
Preparare – preparare, prontar
Prescindere – lassar de parte
Presepe – presepio
Pressa – torcio
Presso – vizin, rente, tacà
Presto – presto; svelto; bonora
Presumere – creder
Presuntuoso – pien de sé
Pretenzioso – pien de bava
Prevaricatore – inbroion, smafaro
Prezzemolo (veg.) – persemolo
Prezzp – costo
Prigione – preson, galera, cheba
Prima (avv.) – prima, ‘vanti
Primaticcio – bonorivo
Privare – cavar, cior
Probabile – (che pol capitar) fazile
Problema – quistion
Procedere – andar avanti
Procella – neverin
Prodotto (agr.) – entrada, fruto
Professione – mistier
Profezia – strigaria
Profittatore – ludro
Profondità – altessa
Profondo – fondo, alto
Progressivamente – a leva a leva
Proibire – no lassar
Prolificare – far fioi
Prolisso – longo, sbrodoloso
Prolungare – slongar
Promontorio – ponta
Promuovere – mandar ‘vanti
Proprietà – ben, sostansa
Proprio – propio
Prora (mar.) – prova
Prosciugare – sugar, secar
Prosciutto – parsuto, persuto
Prospiciente – che varda
Protrarre – tirar in longo
Protuberanza – goba, bugnòn
Proveniente – che ven de…
Provocante – stusseghin, stussegon
Prua (mar.) – prova
Prugna (veg.) – susin, amolo, ranglò
Pruno (veg.) – susinèr, amoler
Pubblicare – meter fora, stanpar
Puerile – de fioi
Pugno – pugno, castagna
Pula (agr.) – bula
Pulce – pùliso
Puleggia – bosèl
Pulire – netar, forbir
Pulito – neto
Pungere – ponzer, sponzer, becar
Pungiglione – spin
Pungitopo (veg.) - bruscàndolo
Punire – castigar
Punta – ponta
Puntellare – puntar, sopontar
Puntello – ponta, soponta, piron
Punteruolo – pontariol, (della vite)
uriol
Punto (sost. e agg.) – ponto
Puntura – ponzon, ponzo, sponta,
becada, becon
Pupazzo – pupolo
Pure – anca
Purè – pirè
Pus – materia
Pusillanime – cagon, cagheta
Pustola – brusco
Putiferio – batibòio, casoto
Putrefare – marsir
Puzzare – spussar
Puzzolente – spussente
53
La città
In memoriam
Ferdi Vidmar – Era nato a Idrija il 27 gennaio del 1927 da Ivanka e Ferdinand. Lascia la
famiglia giovanissimo per proseguire gli studi a Gorizia e poi a Pordenone, dove frequenta
il Ginnasio classico del collegio Don Bosco. Giovane idealista entra nelle file partigiane e
lotta per un mondo libero e migliore. Dopo la guerra sostiene l’esame di perito industriale
elettrotecnico e trova lavoro alla Radio Tv di Lubiana. La conoscenza della lingua italiana gli
permette di lavorare a Radio Capodistria come tecnico addetto al ripetitore di Croce Bianca.
E’ il primo passo di una carriera che lo porterà a commentare i più svariati avvenimenti
sportivi nazionali e internazionali. Aperto alle novità, curioso per natura, Ferdi è stato un
pioniere del giornalismo sportivo. Le sue telecronache non avevano nulla da invidiare a nomi
forse più noti del suo. Commenta con entusiasmo, precisione e pacatezza. La sua non era
parvenza televisiva, perché il Ferdi che incontravi per strada era fatto così.
Nel privato Ferdi aveva la sua famiglia alla quale era legatissimo. Nel 1953 sposa Anita
Deponte, una ragazza capodistriana piena di brio, sportiva di successo. Dalla loro felice unione sono nate Laura,
Annamaria e Silvia. Quando il papà era lontano per qualche servizio, erano orgogliose di sentirlo e vederlo apparire
sullo schermo. Lo ascoltavano con interesse quando a tavola raccontava dei suoi viaggi. Erano favole vere. Oltre che
per i suoi nipoti, Ferdi ha trovato tempo anche per altri ragazzi ai quali ha insegnato ginnastica e sci. Li spronava a non
aver paura della neve e a lasciarsi andare con leggerezza.
Malgrado l’età Ferdi aveva una carica vitale invidiabile. Sempre presente in Comunità, pronto a porre domande, a
ricordare fatti del passato; ad esempio che suo padre e quello di Anita, sotto il fascismo furono compagni di cella nel
carcere di Capodistria. L’ultima sua battaglia era stata quella per l’intitolazione di una via al pittore Oreste Dequel.
Ornella Derin – A soli 49 anni ci ha lasciati in seguito
ad una tragica fatalità Ornella Novak Derin. Una folla
commossa di amici e parenti le ha reso l’estremo saluto al
cimitero di Bertocchi, la località in cui era nata e vissuta.
Ornella aveva frequentato insieme al fratello gemello
Vili, le scuole elementari a Bertocchi e a Capodistria,
diplomandosi quindi all’Economica di Isola. Aveva
Armida Peroša – Nata 58 anni fa a
Sermino, Armida è stata impiegata a
Radio Capodistria dal 1971 al 2008
in qualità di pianificatrice nel reparto
realizzazione radiofonica.
54
anche fatto parte del coro guidato dal maestro Stancich.
Molto stimata nell’ambiente di lavoro, lascia il marito e
un figlio, Marko, ancora adolescente. Gli ex compagni
di scuola vogliono ricordarla con questa foto della VII
classe – anno scolastico 1973/74 – insieme all’insegnante
di sloveno, professoressa Hočevar. Ornella Derin è la
terza da sinistra accovacciata in prima fila.
Gianpaolo Opara – 94 anni di
Crevatini. Già operaio al cantiere
navale S. Rocco di Muggia, dopo la
guerra agricoltore. Un’intervista sul
numero 11 de La Città.
Santo Favento – Classe 1931, del
ramo dei Guzzi. E’ stato impiegato al
porto di Capodistria. Abitava in uno
dei blocchi sorti tra la chiesetta di
Semedella e casa Gambini.
La città
55
La chiesetta di S. Tommaso
restaurata di recente a spese della
parrocchia. Vi si conserva una statua
prodotta in Val Gardena e un affresco
attribuito al Clerigino (sec. XV).
Dopo due anni di chiusura è stato
finalmente riaperto il Caffè della
Loggia. Il »salotto« di Capodistria
èstato affidato in gestione alla
società Kolosej.
E' in via di demolizione questa casa,
un tempo locale pubblico, vicino allo
stadio. La posizione era nota come
»a la Tappa«. La foto è degli ultimi
giorni di novembre.
Una comitiva della Comunità degli Italiani »Santorio Santorio« di Capodistria composta da 25 partecipanti ha
partecipato dall'11 al 13 settembre scorso all'escursione di studio in Trentino, organizzata nell'ambito del piano
permanente di collaborazione tra Unione Italiana e Università Popolare di Trieste. In compagnia dei connazionali
di Cherso e di Lussino, i nostri soci hanno visitato le località di Trento, della Val Rendena e di Pinzolo, prendendo
contatto con le tipicità artistiche, storiche e paesaggistiche del posto e apprezzando in generale l'alto grado di
cultura dell'ospitalità nel Trentino. Nella foto ricordo (cortesia della C.I. di Lussinpiccolo) è ritratta la comitiva
dinanzi alla chiesa di San Vigilio a Pinzolo, conosciuta per la famosa raffigurazione della danza macabra.