La citta 31.indd - CAN Capodistria
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Anno 15 Numero 31 Foglio della comunità italiana di Capodistria Dicembre 2010 Foto: Danilo Fermo Il Gruppo filodrammatico Cademia Castel Leon della Comunità degli italiani di Capodistria, guidato da Bruna Alessio, si è esibito il 15 ottobre alla Comunità di Umago. L'incontro delle bande d'ottoni nell'ambito del programma per le celebrazioni del centenario della Prima Esposizione istriana. In primo piano i suonatori di Buie e Albona. Foto: Il Mandracchio Il Gruppo di canto La Porporela è composto da Giancarlo Ernestini, Mario Gandusio, Evgen Gombač, Josip Bepi Gregorovič, Luigi Maier, Bruno Pečarič e Narciso Stanič. Delegazione del Comitato consultivo della Convenzione quadro per la tutela delle minoranze nazionali del Consiglio d'Europa, guidata da Rainer Hofmann, coi vertici della CNI in Comunità. Il chitarrista e cantante blues Francesco Piu, ospite di Lara Drčič nello studio 01 di Radio Capodistria. Rivivono anche le calli minori di Capodistria. Nella foto l'inaugurazione della Galleria artistica Svojc di Vojc Sodnikar-Ponis in Calle Gruden, già Calletta S. Tommaso. La Città è il periodico semestrale della Comunità degli Italiani Santorio Santorio di Capodistria. Viene pubblicato nell’ambito dell’attività editoriale prevista dal programma culturale della Comunità autogestita della nazionalità italiana di Capodistria cofinanziato dal Ministero per la Cultura della Repubblica di Slovenia e dal Comune città di Capodistria, e con il contributo finanziario dell’Unione Italiana. Redattore responsabile: Alberto Cernaz. Stampa: Pigraf s.r.l. Isola. Tiratura: 1.300 copie. Distribuzione gratuita a mezzo posta riservata ai soci della Comunità. Indirizzo: Comunità degli italiani Santorio Santorio di Capodistria, Redazione de La Città, Via Fronte di Liberazione 10, 6000 Koper-Capodistria (SLO). E-mail: [email protected]. Foto di copertina di Ivo Pervan. La città Inaugurato il “Salotto del libro italiano” È culminata con l’inaugurazione dell’ “Infolibro – Salotto del libro italiano”, la giornata del 3 dicembre dedicata alla presentazione al pubblico del progetto “JezikLingua”, finanziato nell’ambito del Programma per la Cooperazione Transfrontaliera Italia-Slovenia 2007-2013. Foto: Jana Belcijan »Il Salotto del libro italiano« si trova di fronte a palazzo Carli. Aperto il lunedì, mercoledì e venerdì. “Info-libro” informerà, per ora, Molti i punti previsti nel programma C’è poi il discorso del recupero dei riguardo le pubblicazioni prodotte da svolgere sino al 2013 esposti libri antichi presso la biblioteca della CNI in Slovenia e Croazia. dai responsabili Ivo Corva, capodistriana. Preparati spazi e Saranno così esposti i volumi Maurizio Tremul e da Suzana attrezzature necessari, nel 2011 si dell’EDIT, quelli del Centro di Pertot: l’allestimento del Centro procederà alla digitalizzazione dei Ricerche Storiche di Rovigno, ed i multimediale per la lingua slovena volumi. Il catalogo digitale verrà più svariati libri, monografie, ricerche a San Pietro al Natisone, dei corsi di poi passato su un server. Tre i fondi e giornalini editi dalle singole lingua italiana (in Slovenia) destinati antiquari in questione: il “Rara” Comunità degli Italiani. A lungo a gruppi target, come polizia, settore mille volumi e quattro incunaboli, termine, invece, si vuole dar vita a sanitario ed operatori pubblici, la il “Fondo dei conventi di S. Anna e una vera e propria libreria italiana. A traduzione di opere della minoranza S. Marta” – duemila volumi e più di progetto europeo concluso il salotto italiana e slovena, la pubblicazione di 300 cinquecentine, il “Fondo della ex potrà iniziare a svolgere un’attività un’antologia sugli illustri istriani e di Biblioteca civica”. commerciale, periodo entro il quale modi di dire della parlata istro-veneta. verrà intanto preparata un’apposita pagina web. L’iniziativa coinvolge l’Unione Italiana di Capodistria, la CAN Costiera, il Centro “Carlo Combi”, la Biblioteca “Srečko Vilhar” di Capodistria, il Centro di studi “Jacques Maritain” di Portogruaro e il Consorzio Universitario del FVG. Importante pure l’apporto di ben quattro poli universitari: Capodistria, Udine, Trieste e Venezia. Obiettivo di fondo: promuovere le lingue, le culture italiana e slovena, attraverso la Foto: Jana Belcijan risorsa rappresentata dalle Comunità Nazionali italiana in Slovenia e Biblioteca centrale: il direttore Markovič con il vicesindaco Scheriani, il presidente Croazia e slovena in Italia. della SSO Štoka, il Ministro per gli sloveni nel mondo Žekš e la Senatrice Blažina. 3 La città »Dal monolinguismo si può guarire« Intervista al prof. Guido Križman, che all’inizio di quest’anno è subentrato alla prof. Oleandra Dekleva nella carica di preside della Scuola elementare »Pier Paolo Vergerio il Vecchio«. Ci vuoi raccontare qualcosa di te? Da parte materna le mie origini sono del Pinguentino, da parte paterna invece da Portole. Il nonno parlava lo slavo istriano, mentre la nonna, una Persico, è stata quella che ha dato l’impronta istro-veneta alla famiglia. Io nasco a Capodistria il 20 agosto del 1968, frequento la scuola elementare italiana di Strugnano, continuo dalla quinta all’ottava a Isola. Poi ho frequentato il ginnasio »Carli« di Capodistria e mi sono laureato in storia all’Università di Trieste. Sono sposato ed ho due figli. A Strugnano la scuola c’e’ ancora, ma non ci sono iscritti. Ai tuoi tempi? Eravamo in tre, e in sezione combinata in quattro. Secondo te, frequentare un scuola periferica è un vantaggio o no? Ci sono vantaggi e svantaggi, ma penso che prevalgano gli aspetti positivi. Il fatto che ci sia un rapporto diverso tra alunno e insegnante… essendoci pochi alunni l’insegnante diventa quasi uno di famiglia. Nelle classi combinate gli alunni più piccoli diventano una sorta di fratelli minori dei più grandi. A quei tempi vivere in campagna significava vivere un mondo completamente diverso. Oggi la campagna è diventata periferia e questa grande differenza non c’è più. Dicono che i bambini che vengono dalle periferiche risultano nelle classi superiori più calmi ed educati. Può essere. Ma comunque non si 4 può generalizzare, ogni alunno è un mondo a sé. La »Vergerio« è di fatto la scuola con lingua di insegnamento italiana più grande in Slovenia. Che eredità ti ha lasciato la ex preside, prof. Dekleva? Io entravo in carica quando l’anno scolastico era già avviato, da questo punto di vista è stato un po’ un vantaggio. Per me è una situazione del tutto nuova, prima ho insegnato storia e scienze sociali. Il mio primo anno di lavoro l’avevo fatto proprio qui alla »Vergerio« dunque l’ambiente, in parte, lo conoscevo. Ora, per dirigerlo al meglio, bisogna imparare tante cose. Devo dire che una mano determinante me l’ho data il collettivo: sia gli insegnanti che il personale tecnico-amministrativo, in particolare la vicepreside, che mi ha aiutato a calarmi nel ruolo. Qual’è la cosa più difficile? Proprio quella di calarsi nel ruolo, fare proprio il sistema che la ex preside ha creato in questi 17 anni, e cercare a quel punto di dare una personale impronta di gestione. Che rapporto hai con gli alunni? Coi ragazzi ho sempre avuto un rapporto aperto. Mi piace molto scherzare. Penso che senza una dose di ironia non sia possibile lavorare a scuola. Ma se scherzi, potrebbero non prenderti sul serio. Al contrario. Impostare un tipo di approccio in cui è ben chiaro quando si scherza e quando si lavora, porta a buoni risultati. Bisogna trovare un accordo e spiegare agli alunni quali paletti non vanno superati. L’atmosfera comunque non deve influire sulla valutazione: chi sa sa, chi non sa non sa. E poi un’altra cosa: ogni classe è un pianeta differente; bisogna adattare il proprio modo di lavorare, la propria personalità ad ogni classe, se non ad ogni singolo ragazzo. Io penso di non aver mai lavorato allo stesso modo in un anno in classi diverse.E’ una cosa comunque difficilissima. Ti capita di parlare direttamente con loro anche adesso che sei preside? Purtroppo spesso arrivano in ufficio solo quando c’è qualcosa da rimproverare. Gradirei incontrarli più spesso, quando fanno cose meritevoli. Comunque ogni colloquio, specie quello che nasce da un problema, è utile. Ogni rosa ha le sue spine, ma quelle spine servono a farti capire cosa non funziona. Che rapporto ha la scuola elementare italiana di Capodistria con le altre scuole slovene del territorio? Se partiamo dai presidi, il Comune di Capodistria ha un attivo dei presi che si incontrano 3-4 volte all’anno. Sono momenti in cui, nelle situazioni più informali, ci si scambia idee, opinioni, esperienze che nei libri e nei vari manuali faresti fatica a trovare. Certo la nostra scuola è un po’ specifica, perchè abbiamo meno alunni. La sfera nella quale gravitiamo è molto varia: siamo a Capodistria ma ci sono aspetti che ci uniscono alla parte croata dell’Istria e a Fiume, per altri aspetti siamo legati a Muggia e Trieste. La scuola è anche fattore di identità linguistico-culturale? Anni fa ci si chiedeva se le nostre scuole siano »della nazionalità« o »con lingua di insegnamento italiana«. Io penso tutte e due. Noi comunque portiamo avanti una tradizione che ha origini secolari in queste terre, che si identifica con la nazionalità e con la minoranza italiana. Ma questa scuola è frequentata anche da alunni sloveni e di altre nazionalità… Chi si iscrive a questa scuola abbraccia anche una certa filosofia. Ha una scelta abbastanza vasta nel Comune di Capodistria. Se sceglie la nostra scuola, sia lui che i suoi genitori, devono essere coscienti che il ragazzo costruirà il loro primo sapere in lingua italiana. Oltre alla lingua la scuola porta avanti anche dei valori che sono legati alla nostra regione, alla nostra situazione, alla nostra storia. La città Che rapporto ha, o vorrebbe avere, con i genitori? Il nuovo sistema da ai genitori maggori possibilità di coinvolgimento nella vita scolastica, ma questa opportunità viene sfruttata poco. La famiglia è un elemento fondamentale di questo sistema-scuola. L’istituzione è vista come un insieme di soggetti che collaborano per condurre gli alunni attreverso la scuola dell’obbligo acquisendo le necessarie competenze. Come responsabilizzare di più i genitori? Basterebbe poco. Un amico, docente universitario, di lavoro mi ha detto che certe volte i genitori vengono in facoltà per parlare dei figli. Le cose son cambiate. Per certi aspetti gli alunni di oggi sono »più avanti« rispetto a quanto non lo eravamo noi, per altre sono »indietro«. Più riusciremo a responsabilizzare i ragazzi e meno possibilità ci sarà che crescano in dei ragazzi con difficoltà di confrontarsi con le difficoltà di una società complessa come la nostra. La scuola ai tempi della Jugoslavia ci dava meno nozioni, ma una buona cultura generale. Ora mi pare il contrario. A 14 anni i ragazzi ti elencano nomi e caratteristiche di tutti i batteri, ma si bloccano se gli chiedi la capitale di un paese europeo… I nuovi curricula di insegnamento nelle varie materie sono già stati preparati, ma non vengono ancora utilizzati. Si parla di snellire i programmi, di puntare più sulle competenze e meno sui nozionismi. Io mi aspetto che questi programmi entrino in vigore quanto prima. Noi abbiamo bisogno di persone che ragionano, persone capaci di uscire dai compartimenti stagni di una volta in cui le materie non venivano trasmesse in modo interdisciplinare. Cosa intende per interdisciplinare? Per dire…noi abbiamo previsto per quest’anno più giornate in cui adatteremo l’orario. Verranno studiati determinati blocchi tematici, nella stessa settimana, però attraverso diverse discipline. Quali obiettivi ti sei posto per i tuoi cinque anni di mandato? Di continuare il discorso di apertura della scuola verso l’esterno, dunque di far vedere che ci siamo, anche collaborando con i mezzi di informazione. Poi modernizzare l’istituto, con la creazione di una rete internet (ICT) e di ampliare le rispettive competenze . Tra l’altro avete rinnovato il sito web della scuola (www.vergerio. si). Va detto che la ex preside, prof, Dekleva, ha fatto molto, ha posto alcune basi che ora intendiamo portare avanti. Io ho ritenuto subito che andava potenziata la comunicazione con l’esterno. E il sito internet scolastico è, e lo sarà sempre di più, un mezzo attraverso il quale ti fai conoscere nel mondo. Ci sono genitori che chiamano dall’estero che avevano conosciuto la nostra scuola tramite internet e che chiedevano informazioni. Era una priorità che abbiamo realizzato. Ora però aspettate la ristrutturazione dell’interno edificio elementare-ginnasio. Date le scarse disponibilità finanziarie del Paese, i tempi previsti di sono un po’ allungati… Prima o poi ci arriveremo. L’idea è quella di ristrutturare l’edificio, realizzando un nuovo piano nelle due ali laterali dell’edificio. Si farà un livellamento nei confronti del corpo centrale della scuola – quello dove si trova l’aula magna – che in effetti è più alto. Questa operazione ci consentità di guadagnare alcune centinaia di metri quadri di superficie. Qualche particolare? Intanto avremo un ambiente nuovo e rinnovato. Il giardino interno diverrà coperto, verranno abbattuti i due alberi e verranno tolte le vetrate dagli archi in pietra bianca. Quante generazioni sono stete fotografate davanti a quegli alberi. Non è un peccato abbatterli? E’ un peccato, però non avendo superfici fruibili dai ragazzi per fare un po’ di movimento, d’inverno ad esempio…la palestra è sempre occupata, o per il ginnasio o per lezioni o per esterni. Poi? L’aula magna verrà allargata allo spazio dove adesso si trova la biblioteca della scuola elementare. 5 La città Quest’ultima troverà posto in un’altra aula del primo piano. L’aula magna diventerà uno spazio enorme di 140 metri quadri. E’ prevista qualche aula in più e l’ascensore. Durante la ristrutturazioni, dove si farà lezione? Di questo non abbiamo ancora parlato. Suppongo che si ricorrerà a un rimedio, come è stato fatto per i ragazzi della scuola slovena quando si costruiva la scuola in Bonifica. Scuola-Comunità degli italiani: si può collaborare? Ho avuto colloqui col presidente della CI, Mario Steffè, e abbiamo visto che si potrebbe avviare una serie di attività extrascolastiche da svolgersi anche nella sede della Comunità. In questo periodo si stanno avviando i corsi di »Tecniche audiovideo«, mentore Damian Fischer, e di »Cucina istriana« a cura di Mariella Zanco Tavernise. Si voleva fare di più, ma c’è un problema di orari. Generalmente le attività di interesse che si svolgono a scuola, si svolgono dalle 13.30 alle 16, specie se riguardano l’uso della palestra. Gli insegnanti che fanno attività d’interesse lo fanno subito dopo le lezioni. Per la Comunità è più pratico accogliere i ragazzi dopo le 16, ma per loro non lo è perchè a quell’ora di solito sono già tornati a casa. Se troveremo delle attività interessanti, se ci sarà una buona risposta dei ragazzi certamente proseguiremo il discorso. Potrebbe essere anche un pretesto per farli stare insieme, dando un’alteriore occasione di comunicare in italiano anche fuori le mura scolastiche. Certo. Ma anche di relazionare con gli altri ragazzi. Io vedo questi ragazzi che hanno finito per esempio la nona classe, sono un gruppo, comunicano, sono rimasti amici. Anche se frequentano scuole diverse, restano in contatto. I legami che maturano nella scuola dell’obbligo potrebbero trovare sede in queste situazioni legate alla Comunità. Ovviamente bisogna proporre dei contenuti che incontrino l’interesse dei ragazzi… Dobbiamo discutere e cercare di capirlo assieme a loro. Come siete messi con gli insegnanti. Riuscite a coprire agevolmente tutte le materie? Grossi problemi non ci sono. Abbiamo due insegnanti che arrivano dall’Italia, però soltanto uno tramite la convenzione UI-UPT. I problemi per alcune materie di presenteranno tra qualche anno quando alcuni nostri insegnanti andranno in pensione. Ad esempio per le lezioni di musica. Musica perchè? Perchè ci sono poche ore e un maestro dunque basterebbe per coprire le esigenze delle scuole italiane di Capodistria, Isola e Pirano. Bisogna pianificare: abbiamo chiesto anche una borsa studio per questo tipo di quadro, forse qualcuno avrà interesse ad aderire e a venire a lavorare a scuola. Devo dire comunque che abbiamo insegnanti molto validi. Abbiamo anche alunni validi. Lo dimostrano i piazzamenti nelle gare a livello nazionale. Le verifiche nazionali ci portano ogni anno risultati diversi, pur con gli stessi insegnanti. Dipende molto dunque, anche dalla generazione. Penso che dobbiamo lavorare di più sulla lingua. Dovremmo impostare un sistema di lavoro che presupponga l’insegnamento della lingua a tutti i livelli, in tutte le materie; con il collegamento degli attivi professionali in senso verticale, dalle inferiori fino alle superiori. Sono discorsi abbastanza difficili da impostare, ma che credo li dovremo affrontare. E’ difficile gestire, oltre alla sede centrale, anche le tre sezioni periferiche? Il mio problema è proprio questo. Vorrei essere molto più presente nelle periferiche, ma per vari impegni ciò non è possibile. Possiamo essere soddifatti con il livello delle iscrizioni? Penso di sì, anche se bisogna tener conto del fenomeno Crevatini. Per me sarebbe importante tirare un po’ su il numero delle iscrizioni a Bertocchi e Capodistria. A Semedella stiamo abbastanza bene. Il fenomeno-Crevatini è determinato dal fatto che in quella scuola si iscrivono, negli ultimi anni, anche bambini del vicino Comune di Muggia. Un fenomeno particolare, ma che non mi sorprende. E’ chiaro che alcune materie vengono insegnate in maniera diversa rispetto all’Italia, tipo la storia, ma per il resto…la matematica resta la matematica. Alcuni genitori di questi bambini muggesani vedono per i loro figli l’opportunità di imparare lo sloveno pur frequentando una scuola con lingua di insegnamento italiana. Una cosa che ho percepito anch’io. E sono contento che questa nuova generazione di genitori cominci ad uscire da certi stereotipi, di chiusura nei confronti della lingua slovena, che erano diffusi oltreconfine. Mi piace ricordare una frase detta da un docente della Ca’ Foscari: »Il monolinguismo è curabile«. E’ evidente che più lingue apprendi e più sei ricco. Direttore, tanti auguri. E’ stato un piacere. 6 La città Le ragazze del “Carli” premiate per le poesie in inglese Ancora una volta gli studenti del ginnasio italiano “Gian Rinaldo Carli” di Capodistria si sono distinti in ambito internazionale tenendo alto il nome della scuola grazie alla loro padronanza della lingua inglese. Hanno vinto infatti il primo premio al Concorso Internazionale di poesia Castello di Duino (hanno partecipato 65 scuole da tutto il mondo). L’edizione 2010 ha avuto come tema “Luce/Ombre” – il ciclo naturale del tempo, i colori della realtà e dell’anima, le metafore della vita, del pensiero e del dubbio. Il gruppo, composto da Luisa Peress, Barbara Jeretina Grbec, Mia Dellore, Krisel Božič, Angelina Ćirković, Vita Valenti e Valentina Vatovec, ha proposto una raccolta di liriche corredata da fotografie, sempre legate alla tematica stabilita. “Per scrivere e capire la poesia bisogna sentirla nel cuore” rileva Alenka Pišot, professoressa di inglese nonché docente responsabile del progetto stesso e da anni grande spronatrice dei talenti linguistici che passano dal “Carli”, “E questo è ciò che hanno i nostri alunni – quella sensibilità e tenerezza dell’anima che permettono di sentire la vita ed i suoi valori. Per cui mi fa tanto piacere che il loro livello della conoscenza dell’inglese sia tale, da permettere loro di esprimervi i propri sentimenti più profondi”. Sono molti anni che i ragazzi dell’istituto capodistriano ottengono eccellenti risultati, sempre animati ed entusiasmati dalla professoressa Pišot, nelle varie competizioni e progetti sia statali sia internazionali. Si tratta di successi importanti, soprattutto se contrapposti al rapporto proporzionale del piccolo numero di giovani dell’istituzione CNI in confronto a quelli di altre grandi scuole del Paese o d’oltreconfine. Premio “Žagar” alla prof. Loredana Sabaz Alla prof.Loredana Sabaz, docente di fisica e matematica, al Ginnasio “Carli” di Capodistria è stato conferito il Premio Žagar – riconoscimento che la Repubblica di Slovenia dedica dal 1994 a istituzioni e insegnanti che si distinguono per il loro operato. Nella motivazione si legge che la Prof. Sabaz si è prodigata per mantenere le tradizioni attraverso la costituzione di un museo scolastico, ma ha rivolto il suo impegno anche all’innovazione sia nell’insegnamento sostenendo in prima persona progetti nazionali ed internazionali. Nella foto la consegna del premio da parte del Ministro Lukšič. 7 La città La »Festa delle zucche« all’asilo di Semedella Giovedì, 28 ottobre, all’asilo di Semedella, anche quest’anno sotto Halloween abbiamo organizzato la consueta “Festa delle zucche”. E’ stata una giornata magica! La nostra aula per qualche ora si è trasformata in un castello stregato, addobbato con ragnatele, pipistrelli, streghe, fantasmi, luci intermittenti e zucche intagliate. Le maestre hanno cambiato sembianze in zucche birichine ed hanno preparato una simpatica scenetta. “Siamo quattro zucche ballerine dette anche birichine. Siamo belle colorate siam rotonde e ben formate. Tante cose noi facciamo: dai bambini noi andiamo e con loro Halloween festeggiamo!” Noi bambini non siamo stati da meno, e ci siamo trasformati in fantasmini. Tra rumori inquietanti e urla divertite abbiamo ballato e cantato: ci siamo divertiti proprio tanto! Giuria capodistriana a Potenza Dipartimento di italianistica e scuole del territirio Il Dipartimento di Italianistica della Facoltà di Studi Umanistici dell’Università del Litorale assieme alle scuole italiane del nostro territorio è stato invitato dallo scorso anno accademico a partecipare in 8 qualità di Giuria al Premio Nazionale di Letteratura per ragazzi “Mariele Ventre” (già direttrice del Coro dei bambini dell’Antoniano di Bologna) organizzato dal Comune di Sasso di Castalda (Potenza) e dal Circolo Culturale “Silvio Spaventa Filippi” - Fondazione Premio Letterario Basilicata. Lo scorso anno (2009/2010) alla manifestazione hanno partecipato gli allievi della SE Vincenzo e Diego de Castro di Pirano, quelli del Ginnasio Gian Rinaldo Carli di Capodistria e gli studenti del Corso di Laurea in Italianistica dell’Università del Litorale. Quest’anno in qualità di giuria studentesca hanno collaborato gli allievi del Ginnasio Gian Rinaldo Carli di Capodistria guidati dalla docente Anita Dessardo e gli studenti del Corso di Laurea in Italianistica dell’Università del Litorale. Per il Premio 2010 i ragazzi hanno dovuto leggere 34 libri della categoria narrativa per ragazzi che va da 9 agli 11 anni e 24 libri della categoria narrativa per ragazzi da 12 a 16 anni. Alla cerimonia di premiazione, svoltasi a Potenza il 23 maggio hanno partecipato in qualità di giuria del concorso 25 nostri ragazzi e 4 docenti. La città DIBATTITO TEMATICO A CAPODISTRIA Sfide e opportunità del bilinguismo Conoscere ambedue le lingue del Capodistriano e assimilare la ricchezza culturale offerta in regione, consente ai cittadini di poter contare su una “marcia in più”. È la constatazione di fondo emersa al Forum europeo dei cittadini intitolato “Opportunità e sfide della vita in territorio bilingue”. Organizzato presso il Centro “Rotunda” di Capodistria, il momento di incontro e riflessione ha visto la partecipazione del deputato europeo, Zoran Thaler, del presidente della Giunta esecutiva dell’Unione Italiana, Maurizio Tremul, e dell’ex eurodeputato capodistriano, Aurelio Juri. A condurre la serata è stata chiamata la giornalista, Devana Jovan. APERTURE - Ad aprire il dibattito è stato l’eurodeputato Zoran Thaler, eletto sulle liste socialdemocratiche, che in Istria e precisamente a Padena, ha stabilito la sua seconda residenza. È proprio in Istria che ha potuto toccare con mano la facilità con cui i residenti nell’area passano da una lingua all’altra e la ricchezza che deriva dall’essere bilingui. La “piccola torre di Babele” gli ricorda molto la situazione che vive al Parlamento europeo, dove al contrario di quanto si temeva, le lingue dei popoli più piccoli, come lo sloveno, non senza contare i vantaggi che ciò può comportare nel mondo del lavoro. MARCIA IN PIÙ - Per Maurizio Tremul crescere in territorio bilingue è una possibilità in più perché tale condizione apre la strada a conoscere due lingue, due culture, realtà storiche diverse e a comprendere il pensiero dell’altra comunità. Tremul si è detto favorevole ad un’istruzione plurilingue su tutto il territorio. A suo avviso un approccio del genere potrebbe contribuire a colmare le lacune ancora esistenti in fatto di comprensione della posizione ha detto – le innumerevoli iniziative promosse dalle nostre istituzioni passano spesso inosservate sui mezzi d’informazione sloveni, compresi quelli che per statuto, come la RTV Slovenia, dovrebbero seguirli”. MONDO SCUOLA - Tra gli altri temi affrontati in sede di dibattito va menzionato quello incentrato sul mondo della Scuola CNI. “È un tema delicato, una sfida che va affrontata vista la massiccia iscrizione di bambini di altre nazionalità. La loro carente competenza linguistica crea problemi nei processi pedagogici, Maurizio Tremul, Zoran Thaler, Devana Jovan e Aurelio Juri. sono minacciate. Ciò fa capire che nell’Europa unita si sente la necessità di aperture in tema di uso delle lingue e che gli eventuali problemi sono innanzitutto delle sfide. Aurelio Juri ha rilevato come, pur parlando in italiano, si sente perfettamente inserito nella realtà locale capodistriana e compreso dalla maggioranza dei suoi concittadini. Conoscere la lingua dell’alta comunità è, però, a suo avviso un segno di rispetto reciproco, della Comunità Nazionale Italiana. “Nonostante tutti i cambiamenti avvenuti, la fine delle dittature fascista e comunista, ci si chiede ancora come mai vi sia una presenza italiana in Istria. Servirebbe una campagna d’informazione su quanto accaduto nella regione, sul fatto che per gli italiani rimasti dopo la tragedia dell’esodo sia giustificato il bilinguismo, il sistema scolastico e gli altri diritti della CNI. Purtroppo – specialmente se non si riesce ad affermare l’importanza della comunicazione in italiano, pur non volendo negare le altre identità. La CNI, però – ha concluso Tremul –, è sempre stata e rimane contraria alla chiusura delle proprie scuole per gli alunni non italiani”. Gianni Katonar (La Voce del Popolo) 9 La città Koper-Capodistria, 15.10.2010 PRILOŽNOSTI IN IZZIVI ŽIVLJENJA NA DVOJEZIČNEM OBMOČJU OPPORTUNITÀ E SFIDE DEL VIVERE SUL TERRITORIO BILINGUE Vsem lep večer. A tutti buona sera. Začnem naj svoj uvod z največjo prednostjo, ki jo prinaša živeti na dvojezičnem območju: posso parlare anche in italiano e dalla maggioranza dei miei concittadini, di chi vive e abita il mio territorio, venir perfettamente compreso. Almeno qui da noi. So non essere così subito oltre confine, concretamente a Trieste, non attrezzata, pur vivendovi una consistente minoranza autoctona, quella slovena, a territorio bilingue. Lo sono alcune realtà municipali minori nei dintorni, ove la comunità slovena è però in maggioranza. Se vnaprej opravičujem, če bom preskakoval iz enega v drug jezik, a ker je tema, ki k temu kliče, in ker je tu pri nas tako preskakovanje pogosta praksa, verjamem, da mi tega ne boste zamerili. Govorimo torej o priložnostih in izzivih življenja na dvojezičnem območju. Priložnosti se ponujajo same po sebi občanki in občanu, še zlasti v mladosti, ko pričenjata poklicno ali karierno pot, če obvladata oba tukajšnja jezika, poleg njiju pa še vsaj enega od svetovnih. Kot prvo, z obvladovanjem obeh jezikov okolja, izkazujeta pripadnost svojemu prostoru in njegovi specifični zgodovinski-kulturni identiteti ter spoštovanje soobčanke in soobčana druge narodnosti in jezika, kar je ključ normalnega, ustvarjalnega in prijetnega sobivanja. Kot drugo, je sporazumevanje lažje tako doma kot do soseščine, kjer je pretežno v uporabi jezik tvojega manjšinskega sokrajana. E così vivi meglio il proprio spazio culturale e meglio percepisci quello accanto o che interagisce col tuo, come nel caso del territorio bilingue. Personalmente mi sento, come appartenente a questo territorio, più ricco, più completo, più a casa ovunque vada. Abbandonando la dimensione metafisica e rientrando nel concreto, chi conosce entrambe le lingue, oltre a possedere la specifica qualifica richiesta, trova sul nostro territorio lavoro prima, di chi ne conosce una sola. Do per scontato ovviamente il rispetto delle regole. La conoscenza attiva dell’ italiano è per altro prescritta per tutti quei posti di lavoro nella struttura pubblica di servizio alla cittadinanza ed è raccomandata anche per chi si impiega nelle aziende e nei servizi privati, specie in quelle attività che operano oltre confine e col resto d’Italia. Raziskave pričajo, da kdo odrašča v dvojezičnem okolju, pristopa lažje tudi k tujim jezikom, k učenju tujega ali tujih jezikov. In kakšni so izzivi, če ne ostajamo le pri priložnostih in prednostih življenja na dvojezičnem območju? Ja, veliko jih je. Za že odraslega priseljenca, ki če iz tujine, mora pristopiti na novo k obema jezikoma okolja, če iz notranjosti Slovenije pa k njemu še tuji italijanščini… kako čim prej do čim boljšega in temu prostoru primernega jezikovnega znanja in boljših zaposlitvenih možnosti? Ob upadanju, zavoljo asimilacije in drugih družbeno-kulturnih procesov, števila avtohtonih Italijank in Italijanov, ki so vendarle nosilci tukajšnjega drugega okoljskega jezika, ob upadanju števila njihovih otrok v italijanski šolah in poraščanju števila otrok druge jezikovne pripadnosti, ki jim je italijanščina vsaj na začetku tuja, ki jo doma s starši ne govorijo… kako do ohranjanja nivoja jezikovnega 10 poučevanja, da ne bo tudi kakovost znanja italijanščine upadala? Kako do tega, da se bo manjšinec opogumil in bolj pogosto uporabljal svoj jezik v komunikaciji z večinskim prostorom? Slednja se še vedno odvija predvsem v slovenščini. Govorim o opogumljanju, ker najdeš tu pa tam še ljudi, ki zaradi predsodkov, ignorance in drugih razlogov, italijanščino sprejemajo silom prilike, ti dajo vedeti, da jim je težko z njo občevati, ali jo celo odkrito zavračajo. Pripadnica, oziroma pripadnik narodne skupnosti se praviloma v taki situaciji jezikovno poskrije ter spregovori v jeziku sogovornika, da ga ne bi izzival in si delal težav. Non ultima, un’ altra importante sfida in specie per la comunità minoritarie... come fare perchè il suo appartenente, oltre alle difficoltà che incontra sul territorio coi concittadini avversi all’italiano e, se vogliamo, con la carenza di cura dei suoi diritti costituzionali da parte delle istituzioni preposte, non si ritrovi estromesso, emarginato, »scomunicato« nel suo essere esponente della minoranza, per quanto non eletto, anche dalla comunita stessa, ovvero da chi la rappresenta e ne gestisce formalmente le sorti, nel momento in cui, parimenti ai cittadini della maggioranza, entra in politica, entra in un partito politico, che se opera in un contesto nazionale o globale multiculturale non può che essere sovranazionale, e quindi attento a tutti i cittadini, sloveni, italiani e di altra etnia. Ho avuto l’ onore di esser stato, eletto sulle liste socialdemocratiche, sindaco per quasi due mandati di questa città, successivamente per tre legislature consecutive deputato al parlamento nazionale e per una supplenza di 9 mesi, prima dell’amico Thaler, anche a quello europeo, ma sento dire di non aver soddisfatto, almeno come sindaco, le aspettative dei miei connazionali capodistriani. Non mi si spiega il perchè, ma ne prendo atto. Ad ognuno il diritto di giudizio e scernita. Ma non è questo che mi si è rinfacciato quando mi sono candidato al seggio specifico alla Camera di stato. Non ero il candidato giusto e qualificato a rappresentare la comunità italiana solo perchè per lunghi anni esponente anche di spicco del partito socialdemocratico. Evo, tudi kako iz predsodka, da ko vstopiš v strankarsko politiko se idejno okužiš in izgubiš objektivnost v presoji manjšinske problematike, zatorej narodne skupnosti ne moreš več predstavljati, je eden od pomembnih izzivov življenja na dvojezičnem, oziroma narodnostno mešanem območju, s katerim se mora pa spopasti manjšina sama. Aurelio Juri La città Costruite cent’anni fa, ma le chiamano ancora Le Case nove Abbiamo incontrato la signora Irene Kravos, nata Paoli, residente dal 1933 alle Case nove. Il caseggiato venne costruito nel primo decennio del secolo scorso per accogliere operai e impiegati. Delle 28 famiglie che lo abitavano fino agli anni ‘50, oggi ne rimangono due. Ci parli di lei, signora Irene? Son nata del 1929. Mio papà xe morto che gavevo 4 anni, quasi no lo ga gnanca conossù che ‘l iera sempre pei ospedai ch’el iera tubercoloso. Se ciamava Antonio Paoli, nativo de Santa Domenica de Visinada. El iera vegnù a Capodistria per lavorar, el iera guardian dele carceri. E ha sposato una capodistriana? Maria Kosir. Sua mama, mia nona, che la nasseva Marsich – prima cugina del dotor - se gaveva sposà co’ un de Lubiana, e dopo i taliani de Kosir i ghe ga messo Cossi. La stava in quela casa de l’Ospedaleto. Iera l’ospedaleto per le malatie infetive; iera un fradel de mia nona, Cesare, che fasseva infermier. Là stava anca una certa Adele, che la xe restada dopo l’esodo, e la se ocupava de tanti gati. La ga fradei o sorele. ‘Vevo un fradel che xe morto a Trieste. Anca mia mama xe andada a Trieste, che se no la andava no la gaveva la pension de guera de mio papà. E la xe restada sola? Sì, ma mi iero za sposada, qua. Da quando abita alle Case nove? De quando gavevo 4 anni…nel 1933. Qua in piassaleto giogavimo la fefa. E’ passato un secolo da quando hanno costruito questi palazzi, ma i capodistriani li chiamano ancora le Case nove. No cambierà più questo nome. Case nove restarà sempre. Per chi vennero costruiti questi edifici? De una parte, qua dove stago mi, iera tuto guardiani delle carceri, de l’altra iera per i impiegati…che lavorava in banca, maestri, professori… Gente del posto o che veniva da fuori? No no, iera dela Sicilia, anca un napoletan…insoma della bassa. Voi siete venuti subito in questo appartamento? Sì, perché xe morta una portinaia e dopo i ga trovà mia nona. La ga fato la portinaia e dopo che la xe morta xe restada mia mama. E dopo son restada mi perché mia mama xe andada via. Tre generassioni de portinaie. Me ricordo che mia mama xe andada via in otobre del ’55; e in novembre, un mese dopo, la iera za a Capodistria. Dopo che la se ga fato el passaporto. La stava tre quatro giorni e dopo la andava a Trieste. Ricorda qualche vicino di casa di allora? Me ricordo i Tòdero, del altra parte iera i Iacuzzi – lu iera maestro e diretor de questi blocchi – el maestro Cherini che stava al numero 6 in pianteren, el vecio maestro Venturini in secondo pian co’ la moglie Pinota che fasseva teatro e la sonava el piano. La iera soto el Circolo italian, mi so, me ricordo che la andava al Circolo italian; e in più la fasseva teatro. Perché chiamavano il Venturini col soprannome di Calcaovi? Sàpola-ovi ghe disevimo, per el suo modo de caminar, come che ghe mancassi l’apogio. Le Case nove sorgono su un terreno che prima era un grande orto. Sì, dela casa vecia (casa Baseggio, ex Vida e Gravisi-Tiepolo, ndR) qua de drio che adesso i la sta metendo a posto fina in Carantan. Per andar a scola, in via Combi (oggi Via Krelj, ndR), passavo per l’atrio de quela casa. No me ocoreva gnanca meter el capoto. Nella via, oggi Via Pobega, ma in quela volta Calle dei Benedettini (fino al 1956, ndR), per vegnir in qua ti dovevi verzer el porton, che ‘desso no ‘l xe più. Accanto alle Case nove c’era la lavanderia… Tuti vegniva qua a lavar. Nela casa che i sta governando adesso iera, al 11 La città pianteren, due grandi cisterne per scaldar l’acqua. Mi quando che son vegnuda qua iera za l’acqua in casa, ma se andava cior anche ale pompe. Una iera zo de Betalè. Come si lavava la biancheria? Ingrumavo la roba in mastela, e lavavo con savon. Quando che iera mace, metevimo senera e acqua de boio. Vigniva bel bianco e profumà. Suo marito Franc di dov’è? De Aidùščina. Ga trovà lavor ala Frutus… Fra voi parlate sloveno o italiano? Sempre italian. Mio marì ga fato le scole italiane, l’aviamento e el ginasio. Saveva parlar in lingua, con mi ga imparà el nostro dialeto. Quali erano le mansioni del portinaio delle Case nove? Scovar le scale, de inverno se serava i portoni ale 9 de sera, d’estate se portava l’aqua…perché bisognava domandarghe ala gente che ne daghi l’aqua per fregar le scale. Noi ‘vevimo l’aqua in casa che gran parte a Capodistria ancora no i ‘veva. Solo in tempo de guera iera serade le pipe, alora andavimo cior dove che iera… ala Muda, che vegniva dal Bolàs che xe una campagna fora che se ciama Bolàs. Go fato tante ciacolade con tua nona (Stefania, ndR). La conosceva? Mama mia, quante volte son andà de ela a bever cafè. Go anca lavorà con ela nela fabrica del pesse. Mi diceva che, per un periodo, lei ha frequentato l’Istituto Grisoni… Perché mia mama la voleva che divento qualcossa, che studio. Go fato l’Istituto fina la quinta e dopo son vegnuda qua de drio, che iera la scola feminile. E là go fato ancora due classi. E lei dove la sta? Mi son qua rente. Mani Galinassa me ga dito che la iera la vecia casa dei Scoci, Schìpiza. La se li ricorda? Come no? Se capissi. E che manzi che i ‘veva! Caro grande per andar in campagna. Iera paolani. Ma iera tanti paolani in questa zona? No tanti, i più iera ala Muda. In piassal de Bartoli…presenpio gavevo la sorela de mia mama che la stava propio visavi l’Ospedaleto, la iera sposada Vascotto. Dove andavate in chiesa voi delle Case nove? In Domo, in Sant’Ana e i Capussini. La nona de Graziela (Ponis, ndR) la 12 gaveva le ciave dela cesa. Quando si è sposata? Nel ’54. Quando i capodistriani erano ancora a casa. Sì, mia mama xe andada via nel ’55. Dopo aver fatto la portinaia, cos’ha fatto nella vita, Irene? In fabrica de pesse e dopo go fato la pulitrice ala scola economica slovena, qua de drio. I me ga sempre rispetà, i maestri, i diretori…come Novak, e i altri. I suoi figli hanno fatto la scuola slovena o italiana? Sia Liliana che Bruno ga fato la scola slovena in Belveder, però i sa parlar italian, anca scriver e leger. Ha mai raccontato loro della Capodistria di una volta? Ghe parlava più mia mama. Ela ghe piaseva contar come che iera prima. Irene, di fronte a lei abitava Nicolò Vascon… Nicolò e i sui iera amici de tuta la familia de mia mama. Ma sì, lu xe vignù dela Russia qua. Dalla Russia? Ai tempi del fassismo xe scampà in Russia che a iera comunista. Xe restà no so quanto tempo e dopo xe tornà a Capodistria c’una russa…una bela dona. Ma no i ga vudo fioi. La xe sepelida qua in Canzan. Iera una bon’anima iera, Nicolò. A distanza di cent’anni, oggi come si sta nelle Case nove? I austriaci ti sa che i costruiva come se devi. Ottima anche la struttura, no iera de cossa lamentarse. Stanze spaziose, ogni quartier ga un suo toco de cantina, e un suo toco de sofita. Una vicina di casa, la professoressa Graziella Ponis-Sodnikar, presente all’incontro, s’inserisce nella conversazione e rileva quanto segue. GRAZIELLA – Problemi sono venuti dopo, quando ci sono stati Foto del 1910 altri interventi, alcune persone hanno chiuso quelle che erano aperture normali dove circolava l’aria. L’hanno chiusa e dunque s’è formata poi l’umidità. Ciò ha provocato la caduta di intonaci e altri danni. Gli appartamenti hanno superfici diverse? Quei che sta in mezo xe più pici rispeto alle ale laterali. L’altro palazzo aveva sempre doppi servizi perché era destinato agli impiegati, mentre da questa parte c’erano gli operai. E’ per questo che l’altro palazzo ha meno famiglie, perché gli appartamenti sono più grandi. Hanno anche un cortile interno che dà sul Carantan; anche la nostra casa aveva un cortile cinto da mura che purtroppo ci passano tutti: hanno costruito dei parcheggi chiaramente abusivi, sono state fatte delle aperture di casa di appartamenti che lì non c’erano una volta. Quello una volta era il cortile interno della nostra casa. Era tutto prato che la gente utilizzava per stendere i panni. E poi anche qui davanti, tra i due palazzi, c’erano quattro sentierini lastricati che portavano alle entrate; tutto il resto era erba. IRENE: Grasiella, ma vara che l’erba la xe ancora? GRAZIELLA – Sì…quella che nasce tra il cemento. Siora Irene, cossa ghe manca dela Capodistria de una volta? Ma (lunga pausa, ndR)…niente! Ghe piasi la cità come che la xe ogi? Logico che me piase. Se i podessi far altrimenti saria bon anca quel ha ha (ride, ndR)…ma per dir la verità mi no me interessa. Oramai go otantaun ani, quel che sarà sarà… intanto vegnarò bisnonna. Spero che rivarò: ancora un mese manca. A metà novembre è nata Živa. Auguri bisnonna Irene! La città Prima Esposizione Provinciale Istriana: riflessioni e confronti sull’Istria e la «finis Austriae» di Kristjan Knez* Quest’anno si stanno celebrando i cent’anni della Prima Esposizione Provinciale Istriana che, concepita sul modello di altre esposizioni universali – come quelle di Londra (1851), Filadelfia (1876) e Parigi (1900) – fu inaugurata a Capodistria il 1.mo maggio 1910. La mostra, divisa in sette sezioni – Agraria, Industriale, Marittima (con acquario), Didattica, Belle arti-scienze-lettere, Stabilimenti balneari-stazioni climatiche-villeggiatura sportiva, Corporazioni autonome-istituzioni sanitarie –, presentava al pubblico lo sviluppo culturale, storico ed economico della regione dalla Preistoria al XX secolo. Per ricordare l’importante anniversario sono state allestite, a partire dalla primavera/estate 2010, diverse mostre, organizzati eventi, conferenze, incontri e visite organizzate. Uno degli appuntamenti più significativi è stato il convegno scientifico internazionale tenutosi a Palazzo Gravisi, sede della Comunità degli Italiani “Santorio Santorio” di Capodistria, in quanto ha rappresentato un momento di riflessione su quell’accadimento di un secolo or sono, nonché sul contesto storico in cui si colloca. Le iniziative rievocative, che hanno portato all’attenzione della cittadinanza, e non solo, una pagina di storia regionale, si sono concluse con due giornate di studio che hanno proposto vari tasselli attraverso i quali è stata ricostruita la cornice di quell’epoca. Gli interventi hanno analizzato i più svariati aspetti: dai disaccordi politici tra le varie etnie del Litorale austriaco al patrimonio culturale, dall’agricoltura all’istruzione, dalla pesca alla sanità, dall’archeologia al turismo e alla fotografia e potremmo continuare ancora. L’Esposizione, infatti, si era prefissata di presentare quanto la nostra penisola offriva agli albori del Novecento, proponendo sia una sintesi del suo retaggio del passato sia l’offerta del momento. L’evento tenutosi nel centro storico della città di San Nazario, tra maggio ed ottobre del 1910, si annovera tra le maggiori e più interessanti iniziative promosse in Istria, che riscontrò giudizi positivi e l’interesse del pubblico. Grazie ad uno sforzo non indifferente e a un progetto chiaro e ben definito, i promotori furono in grado di riunire un numero elevatissimo di espositori, di prodotti, di oggetti e manufatti in generale che spaziavano in tutti i settori ed abbracciavano un arco temporale vastissimo, che dalla protostoria arrivava al Ventesimo secolo. Quell’iniziativa, come pure altre manifestazioni coeve, era figlia del suo tempo, pertanto non dobbiamo osservarla e considerarla con i nostri parametri. Anche la sua genesi non fu facile, ma accompagnata da polemiche e dissidi tra le forze politiche delle tre anime della penisola, che continuarono anche nei mesi in cui la mostra era in corso ed esplosero con notevole violenza una volta terminata, cioè nel momento in cui i rappresentanti italiani avrebbero invitato i membri della Dieta provinciale ad approvare il finanziamento attraverso il quale saldare il disavanzo prodotto. l’“Atene dell’Istria”, per cinque mesi si esaltò l’italianità. L’appuntamento giustinopolitano fu un ottimo strumento di promozione nazionale e al contempo rientra nel novero di quelle iniziative collettive che alimentarono l’irredentismo giuliano e promossero l’idea secessionista. La parzialità della Prima Esposizione Provinciale Istriana fu una conseguenza diretta dei dissapori esistenti tra le etnie della regione, che non seppero accantonare la carica nazionalistica e di conseguenza si trincerarono dietro alle loro posizioni, che divennero baluardi inespugnabili. Come scrisse lo storico Ernesto Sestan, il periodo che precedette il Primo conflitto mondiale fu contraddistinto Levate di scudi nel campo politico Nel campo politico sloveno e croato ci fu una levata di scudi e prevalse il rifiuto categorico; essi mai avrebbero accolto quella proposta in quanto l’esposizione, benché si fregiasse dell’aggettivo “provinciale”, a loro dire non rispecchiava le caratteristiche di tutto il territorio. Essa, ricordiamolo, era una “vetrina” in cui si presentarono gli Italiani, fu un momento in cui essi esposero i frutti del loro lavoro e le testimonianze del passato ancora gelosamente conservate e attribuite quasi sempre alla componente romanza. In quella che un tempo era definita Lo storico Kristjan Knez, organizzatore del simposio. 13 La città da un’esaltazione patologica dell’identità nazionale, caratteristica che non fu assente in alcun popolo. Il capitano provinciale, Lodovico Rizzi, s’impegnò con veemenza e, grazie alla mediazione del governo e dell’i. r. Luogotenenza, intavolò le trattative con gli ambienti politici. Si era quasi arrivati ad un accordo; Matko Laginja non accantonò la proposta della collaborazione, anzi riteneva che, sebbene l’evento dovesse avere un carattere prevalentemente italiano, anche la componente slava doveva essere in qualche misura coinvolta. Al contempo, però, si attendeva un sostegno reciproco da parte italiana, qualora si fosse proposta un’esposizione croata. Alla fine non si fece nulla perché la posizione radicale di Vjekoslav Spinčić prevalse e questi invitò pubblicamente i Croati a non partecipare e addirittura a non visitarla. Il naufragio dei tentativi di conciliazione Un’iniziativa che avrebbe potuto costituire un momento di incontro dopo tante polemiche, diatribe e contrasti, naufragò completamente. L’Esposizione di Capodistria, altresì, se da un lato era nata emulando i grandi appuntamenti che da tempo si stavano promuovendo, con spirito positivistico, in varie parti del vecchio continente, dall’altro fu espressione di miopia. La proposta di una collaborazione tra Italiani, Sloveni e Croati, che si auspicava potesse andare in porto e contribuisse anche alla buona riuscita di un compromesso nazionale, che avrebbe, finalmente, portato ad una vita politica meno burrascosa in seno alla Dieta, fallì definitivamente. La penisola istriana, terra plurale ed intreccio di presenze, lingue e culture, pertanto non trovò alcun spazio. L’intransigenza politica croata non fu da tutti giudicata come una buona strategia. Una volta inaugurata l’esposizione, l’“Edinost” di Trieste, ad esempio, criticò quella ostinazione, evidenziando che, accanto al patrimonio storicoartistico legato agli Italiani, anche gli slavi avrebbero potuto esporre le testimonianze della loro presenza, come le iscrizioni glagolitiche oppure i testamenti o ancora i libri battesimali redatti con quell’alfabeto. Peter Štoka, responsabile del settore Storia-patria della Biblioteca centrale »Srečko Vilhar« mostra il libro manoscritto titolato a penna »Trasporto degli oggetti per la Prima Esposizione provinciale istriana«. 14 Quella decisione politica aveva quindi lasciato gli Italiani a decidere da soli e di conseguenza impostarono l’evento in base alle loro aspettative, proponendo la loro visione ed i valori che erano tipici dei liberalnazionali. La rinuncia fu poi vista come una sorta di timore di fronte ad un popolo “evoluto” che poteva fare riferimento sulla forza del presente e sulle glorie del passato. Non deve, allora, sorprendere se quella circostanza fu da subito utilizzata per accusare gli slavi di “inferiorità” e la manifestazione divenne un momento importante per decantare il primato degli Italiani, che al tempo stesso avrebbe costituito la prova tangibile di chi dovesse tenere le redini della provincia. Era la logica imperante perseguita dagli ambienti politici, che difficilmente prevedeva la possibilità di una comune collaborazione, seppure a livello pratico fosse poi facile riscontrare alleanze tra i partiti italiani e sloveni in cui la questione nazionale scendeva in secondo piano e a prevalere erano soprattutto gli esiti elettorali. Malgrado lo scoglio rappresentato dagli interessi legati alle singole etnie, che impedirono un avvicinamento tra i popoli, l’evento giustinopolitano fu un’occasione in cui la parte economicamente più evoluta dalla penisola espose i risultati delle proprie attività, dell’offerta culturale e didattica nonché quanto ogni singolo segmento della vita italiana del territorio proponeva. La Prima Esposizione Provinciale Istriana fu, pertanto, una festa italiana del lavoro e della cultura. Dalle relazioni e dalle discussioni emerse anche un altro aspetto, cioè quello dell’ultima fase della duplice monarchia che non può essere definita proprio con l’espressione di “Austria Felix”. Tra Otto e Novecento l’impero di Francesco Giuseppe non era contraddistinto da quell’immagine edulcorata, come ci è stata trasmessa da una certa produzione letteraria e cinematografica, rappresentata dalla corte viennese, dalle feste e dai giri di valzer nonché da un senso di ordine generale. Il lato meno nobile e più cinico della politica viennese Va considerato anche il lato meno nobile e la politica sovente cinica con la quale furono gestiti i problemi di quella compagine entro la quale si trovavano popoli diversi con aspirazioni sempre più definite. A seconda del contesto un’etnia veniva appoggiata oppure contrastata, cosa che stimolò non poco lo scontro ed alimentò i dissapori. Era la logica del “divide et impera”, la risposta a problemi vieppiù manifesti che la corte e l’entourage della capitale non erano in grado di risolvere in chiave moderna. Allo scoppio della Grande guerra quella stessa esperienza fu utilizzata anche lungo il fronte austro-italiano, che con abilità fu trasformato in uno scontro etnico tra l’Italia e il mondo slavo meridionale. Grazie all’impiego di una propaganda studiata a tavolino, di un meticoloso lavoro di intelligence e dei fattori psicologici, come il timore sloveno di venir fagocitati dal Regno sabaudo, l’imperial e regio esercito si assicurò una difesa efficace costituita da soldati, per lo più slavi, che si “battevano come leoni” pur di impedire il passaggio alle truppe di Cadorna. Quella pagina poco nota e divulgata fu ampiamente studiata dallo storico militare di origine piranese Antonio Sema, ma non fu accolta da tutti con la dovuta attenzione. La città Anzi, fu giudicata una valutazione esagerata, rifiutando il concetto dello scontro etnico. Eppure lungo l’Isonzo, sul versante alpino e sulle pietraie del Carso i rancori che avevano caratterizzato la vita negli anni antecedenti il conflitto furono incanalati ed ulteriormente fomentati con l’intento di rafforzare l’esercito asburgico, obiettivo alla fine raggiunto, dato che ancora a Vittorio Veneto quei reparti si mostrarono ostinati nei combattimenti e leali all’aquila imperiale. Don Giovanni Gasperutti (1925-2010) Ricompattare le memorie e collaborare a livello transfrontaliero L’idea di formare una Jugoslavia assieme alla Serbia non era molto seguita, e anche i leader sloveni, sino a poche settimane prima del crollo del fronte, attendevano ancora un possibile riassetto dell’impero danubiano. I contributi e le argomentazioni hanno poi evidenziato un altro aspetto, e cioè quello della stretta unione tra l’Istria e Trieste, città, quest’ultima, che era considerata una sorta di capitale dell’intero territorio. L’area costiera in particolare, grazie anzitutto ai rapporti marittimi, aveva intessuto una serie di rapporti che interessavano praticamente ogni singolo settore: dall’istruzione alla politica, dallo smercio dei prodotti agricoli alla cultura e ai legami umani in senso lato. Quelle due realtà formavano un corpo unico, inscindibile e complementare. Nemmeno mezzo secolo più tardi un confine imposto avrebbe reciso quel territorio, alterato gli equilibri e mutato il contesto, depauperando quello spazio geografico della sua componente autoctona, in primo luogo quella italiana, che quasi scomparve. Lo studio del passato deve cogliere e studiare gli errori dei nostri predecessori, non deve, invece, rappresentare un freno anacronistico. Le memorie di tutti vanno rispettate e al contempo dovrà esserci una maggiore sensibilità da parte delle istituzioni competenti nei confronti di coloro che ancora attendono giustizia per i torti subiti. Oggi quella stessa area geografica sta lentamente ricomponendosi, seppure con non poche difficoltà. La mobilità delle persone, delle merci, delle idee e della cultura la chiamiamo “collaborazione transfrontaliera”, anche se sarebbe più opportuno parlare di un ritorno agli “antichi sentieri”, che si auspica possa contribuire a far sì che questa terra torni nuovamente a formare uno spazio comune – a prescindere dalle sovranità statali – in cui la gente non si sentirà più “straniera” dall’una o dall’altra parte di quello che non era stato solo un semplice confine. * Già pubblicato sulla Voce del Popolo il 17.11.2010 Avviso d'altri tempi. “Senza don Gasperutti la Festa della Semedella non sarà più la stessa”. E’ il commento che si sente nelle vie di Capodistria tra quanti hanno conosciuto questo sacerdote nato 85 anni fa nei palazzoni austro-ungarici delle Case nove. Ultimo prete italiano ad abbandonare la città con l’esodo, don Giovanni Gasperutti arriva a Trieste riuscendo prima a realizzare, nella sacrestia del Duomo, un calco in gesso del patrono San Nazario utilizzando il busto originale del ‘600. Alla guardia confinaria disse che il busto raffigurava un suo parente. Continuò la sua missione spirituale nel campo profughi di Opicina. Nel 1959 è all’oratorio di Muggia dove opera a stretto contatto con i giovani. Nel ‘75 la nomina a parroco di Aquilinia. Persona buona e schietta, sapeva sdrammatizzare situazioni con una battuta, ma sapeva anche emozionarsi. Come quando dieci anni fa celebrò nel Duomo di Capodistria una messa di ringraziamento nel 50.mo anniversario della sua consacrazione sacerdotale, organizzata dalla locale Comunità degli italiani. Don Giovanni veniva a Capodistria almeno due volte all’anno: per Ognissanti - l’ultima volta poche settimane fa - e per la festa della Madonna di Semedella. Nelle sue omelie ricordava sempre l’importanza di adeguarsi ai tempi moderni senza dimenticare le tradizioni. Ci mancherà, don Gasperutti. 15 La città L’INTRODUZIONE DEL BILINGUISMO (TRILINGUISMO) NEL CAPODISTRIANO (1945–1948) Aleksandro Burra Il presente articolo, sintesi dell’articolo pubblicato sull’Acta Histriae, tratta uno degli aspetti di maggior valenza nazionale in un’area di frontiera come quella del Litorale: la lingua. Il tema in questione, ovvero l’introduzione del bilinguismo, o meglio del trilinguismo, nel distretto di Capodistria è stato studiato nell’immediato dopoguerra, contestualizzato e calato all’interno delle complesse vicende che caratterizzarono il confine orientale d’Italia che si protrassero con l’annosa questione di Trieste. La liberazione di queste terre di confine non rappresentò l’inizio di una nuova stagione di pace e di distensione, bensì esse divennero subito un nuovo focolaio di tensione tra le potenze. Questi territori furono testimoni di una nuova visione del mondo che avrebbe segnato il continente ed il mondo per quasi mezzo secolo. Sullo sfondo della guerra fredda, localmente, invece, s’infiammava sempre più la lotta tra jugoslavi e italiani per l’appartenenza del territorio, sviluppatasi rispettivamente lungo le linee di contrapposizione nazionale e ideologica. Le vicende che portarono all’introduzione del bilinguismo sono collegate con le vicende che caratterizzarono queste terre durante la guerra e nel dopoguerra. Con sorpresa degli stessi alleati, le truppe armate jugoslave riuscirono a liberare tutta la Venezia Giulia, realizzando anche sul campo quanto si erano proposti nelle risoluzioni del Plenum supremo del Fronte di Liberazione (OF)1 e nella dichiarazione del secondo congresso del Consiglio antifascista di liberazione popolare della Jugoslavia (AVNOJ). Laddove si rivendicò l’annessione di tutto il Litorale sloveno e di quello croato con l’Istria e Trieste. Tito, arrivando per primo a Trieste e nella Venezia Giulia, era consapevole, per dirla alla Churchill, che “il possesso costituisce nove decimi del diritto”, dimostrando inizialmente tutta la sua intransigenza e sollevando non poco le ire degli alleati, prima dell’improvviso cambio di rotta2. Dopo alcune dure note degli alleati, le truppe di Tito dopo quaranta giorni di presenza furono costrette a ritirarsi dal capoluogo il 12 giugno 1945. Nelle disposizioni previste nell’accordo di Belgrado del 9 giugno 1945 e in quello successivo di Duino, la Venezia Giulia veniva divisa in due amministrazioni militari civili provvisorie: la zona A sotto la giurisdizione della GMA o Governo militare alleato; invece la zona B, sotto il controllo della VUJA o Governo militare jugoslavo con sede ad Albona. I primi comitati sorti durante la guerra partigiana coprivano capillarmente il territorio e rappresentavano un potente mezzo di controllo su ogni aspetto della vita personale, civile e delle istituzioni, poiché deliberavano sulle materie più diverse, tra cui le confische dei beni e le epurazioni (Križman, 2004). Questi facevano riferimento nell’area al Comitato regionale di Liberazione nazionale del Litorale (PNOO), sorto nel settembre del 1944 da parte dell’Avnoj con l’avallo del Consiglio di Liberazione sloveno per colmare il vuoto di poteri nell’area della Venezia Giulia, rendendo possibile l’annessione di queste terre alla Jugoslavia di Tito. Il PNOO realizzava le sue prerogative in maniera piramidale attraverso i Comitati di Liberazione distrettuali, circoscrizionali e quelli nazionali locali. A liberazione avvenuta il PNOO costituì tre circoscrizioni: Gorizia con 17 distretti; Trieste con 9 distretti (di cui faceva parte il distretto di Capodistria), e la circoscrizione autonoma della città di Trieste. Dopo circa un mese i poteri popolari, a seguito degli accordi con gli alleati, dovettero adeguarsi a questa nuova divisione riformando la rete amministrativa, che da allora ebbe una funzione politico-ammistrativa (Gombač, 2003, 277-278). Il distretto capodistriano, oggetto del presente articolo, costituito dalle aree della zona B comprese nel Litorale sloveno, dai municipi di Capodistria, Isola e Pirano, era a larghissima maggioranza italiana nelle cittadine (pari a circa il 90% stando ai censimenti austriaci del 1900), mentre possedeva un contado prettamente sloveno (Cadastre national, 1946; Perselli, 1993). Dopo quasi un anno dalla presa della città di Capodistria, gli organi dirigenti del partito erano consapevoli della fragilità dei poteri popolari nel Capodistriano. Della presente situazione si trova conferma dalla relazione del Comitato Cittadino capodistriano del Partito comunista regionale giuliano (d’ora in poi P.C.R.G.) al Comitato Circondariale del P.C.R.G. di Aidussina, datato 22 gennaio del 1946, in cui “[...] Capodistria ha speciali tradizioni servili perché la maggior parte è vissuta delle briciole della borghesia capodistriana per cui ancor oggi la gran parte della popolazione parla bene delle famiglie borghesi e dei padroni in genere. A causa di questa mancanza di coscienza sociale è facile comprendere che la gente capodistriana non ha potuto né seguire né comprendere la lotta di liberazione, tanto più che a Capodistria in proporzione al numero di abitanti abbiamo la più forte percentuale di fascisti convinti, che in tutte le altre cittadine della costa” (ARC, 1). Pertanto, la politica seguita dagli jugoslavi si caratterizzò per una ricerca del consenso seguendo la linea della Tale atto dichiarativo aveva un carattere prettamente simbolico, fondamentalmente politico e senza alcun valore dal punto di vista del diritto internazionale. Infatti, in un telegramma inviato da Tito, il 1° ottobre del 1943, al Comando militare generale di Croazia, si afferma che “la dichiarazione sull’unione dei territori annessi alla Croazia in linea generale è ben concepita. Non va bene però il punto in cui si parla dell’autonomia alla minoranza italiana. Se si tratta di autonomia culturale era necessario dirlo. Mentre non c’è posto per alcuna autonomia politica, in quanto questa minoranza è sparpagliata. È necessario sottolineare che alla minoranza italiana si garantisce la piena libertà e la parità dei diritti” (Zbornik NOR, 1954–1956; Giuricin, 1990, 13–14; Bogliun-Debeljuh, 1994, 128). 2 Per una breve storia sul periodo in questione si vedano: Gombač, 2003; La Perna, 1993; Paola Romano, 2005. 1 16 La città fratellanza italo-slava e con l’introduzione graduale della “nuova democrazia”. Questa doveva avvicinare oltre alle masse degli operai italiani (nella maggioranza meglio disposti ad abbandonare la prerogativa nazionale a favore della rivoluzione sociale), anche quelli che non contrastavano l’adesione alla nuova Jugoslavia; operazione che non fu priva di difficoltà3. Politica di conquista delle istituzioni non facile quando si cercava di inserire elementi estranei alla città: “Un incidente non indifferente è stato il fatto che molti elementi non capodistriani hanno dovuto essere impiegati nei vari uffici per cui la reazione ha speculato generando una campagna diffamatoria in base alla quale faceva credere che ci fossero delle ingerenze nazionalistiche nella cittadina italiana della costa” (ARC, 1). Dalla nota apprendiamo che era cominciato il graduale inserimento nelle amministrazioni cittadine dell’elemento sloveno, argomento che per la sua importanza verrà approfondito in seguito. Comunque, nell’opera di graduale conquista delle istituzioni e di consenso delle masse italiane l’inserimento dell’elemento italiano fedele al regime nell’organigramma partitico assumeva un ruolo di primaria importanza. È altresì vero che tale presenza era di tipo proporzionale negli organi di potere, subordinata per grado a quella slovena, a cui faceva seguito un atteggiamento linguistico “accondiscendente” verso l’elemento italiano: in seno ai vari comitati l’italiano rimaneva la lingua di discussione anche in presenza di un solo membro italiano4. Tali “concessioni” ritenute indispensabili ai fini della politica rivoluzionaria, avevano lo scopo di “attutire” i mutamenti sociali onde non trasformarli inevitabilmente in questioni nazionali, garantendo una parvenza di continuità, in quanto, come afferma l’austromarxista Otto Bauer “se il funzionario o il giudice appartiene ad un’altra nazione, se parla una lingua straniera, allora il fatto che la massa del popolo è soggiogata da un potere straniero risulta lampantemente visibile e quindi insopportabile” (Bauer, 1999, 109). Fu la VUJA e l’amministrazione civile sempre nell’ambito della politica della fratellanza italo-slava, a riconoscere l’autoctonia dell’elemento italiano e in via di principio ad introdurre il bilinguismo (Troha, 1996, 74). La denominazione di “principio” è allo stato delle ricerche sicuramente appropriata, in quanto, dallo studio fatto sui fondi dell’Archivio regionale di Capodistria e da quella di Nevenka Troha sui decreti del Comitato regionale di liberazione nazionale per il Litorale (CRLNL) non risulta promulgato nessun provvedimento legislativo riguardante il bilinguismo. Dalla ricerca svolta presso l’Archivio regionale di Capodistria, a partire dal periodo che va dall’instaurarsi dei nuovi poteri popolari, nella zona B il primo documento che parla di bilinguismo è la circolare della Presidenza del Comitato popolare distrettuale di Capodistria del 28 febbraio del 1947. Questa, emanata a soli 18 giorni dalla firma del trattato di pace di Parigi, siglato il 10 febbraio del 1947, – nel quale veniva a cessare per il diritto internazionale l’autorità italiana a favore della creazione del mai nato Territorio libero di Trieste (TLT) – serviva a preparare gli organi amministrativi specificando ambiti e modi di applicazione del bilinguismo: una sorta di guida operativa sul bilinguismo prima che questo, per applicazione dell’articolo 7 dello statuto del TLT, si formalizzasse e diventasse in seguito oggetto del decreto del Comitato popolare circondariale dell’Istria (CPCI) del 14 settembre del 1947. Quest’ultimo decreto, considerato il “deliberato” sul bilinguismo, trilinguismo nell’area, definiva tre lingue ufficiali nel Circondario dell’Istria: italiano, sloveno e croato, e autorizzava il Comitato popolare esecutivo del circondario dell’Istria a rendere esecutivo il decreto. Oltre ad introdurre la cornice formale legislativa necessaria a garantire la pariteticità delle tre lingue, quest’atto legislativo andò a colmare un vuoto giuridico in materia, costituito solo da dichiarazioni di principio, fornendo in tal modo anche una formale giustificazione ad un bilinguismo che si era già affermato nella prassi, stando alla mole di documenti bilingui redatti dalle varie organizzazioni partitiche dell’epoca. Il legislatore non articolava ulteriormente la proposta, né definiva gli ambiti di applicazione del bilinguismo e trilinguismo. L’elaborazione antecedente alla presente normativa, l’abbiamo riscontrata in maniera più diffusa sia nella circolare della Presidenza del Comitato popolare distrettuale di Capodistria, appena citato, relativa all’amministrazione e alle istituzioni pubbliche, che nella relazione della conferenza del Partito comunista del TLT per il distretto capodistriano del marzo 1947. Accanto a questi documenti saranno presentati altri documenti successivi al cosiddetto “deliberato” sul bilinguismo, che mettono ulteriormente luce sull’applicazione della normativa. Come riferimento del contesto operativo dei poteri popolari tra i ceti sociali nel capodistriano, dalla medesima relazione possiamo notare che la massa dei contadini seguiva il clero e frequentava l’associazioni cattoliche mentre era staccata dal partito e dai poteri popolari, dato che questa era composta solo da operai. Per quanto riguarda gli operai si ravvisava che “…sono poi ostili ai contadini perche’ questi ultimi nel periodo di guerra hanno avuto modo di guadagnare più di loro”. Sempre sugli operai: “Ad essi manca la coscienza sociale e la comprensione per lo stato popolare. Contemporaneamente però temono il ritorno dell’Italia in queste terre per cui non vogliono compromettersi con le nostre organizzazioni. Questa mentalità è abbastanza diffusa…”Gli artigiani invece “…sono simpatizzanti per la bandiera rossa ma decisamente ostili all’UAIS. I ceti medi sono indicati come “…le forze di linea della democrazia cristiana. Hanno avuto parte attiva nell’organizzazione dello sciopero. Seguono da vicino la politica della Voce libera e sono quelli che sperano più vivamente di tutti il ritorno di queste terre all’Italia. Ai ceti medi fanno parte anche gli intellettuali i quali rappresentano la parte ideologica dell’irredentismo locale e sono di conseguenza per l’Italia.” La borghesia rurale ”…in gran parte nobile, che hanno un largo seguito fra il ceto impiegatizio e l’intellettuale sono il fulcro dell’irredentismo capodistriano.” Le classi degli impiegati “…che ha dato il maggior numero di fascisti, ancora oggi questi sentimenti sono vivi in questo ceto e perciò è specialmente ostile a noi.” Il Clero “…in Capodistria è molto sviluppato…” e rappresenta il reparto dove si organizza la reazione (ARC, 1). 4 Nel verbale della seconda riunione ordinaria del Comitato esecutivo circondariale per l’Istria, datata 26 agosto 1947, viene riportato che la “…riunione si tiene in italiano, dato che è comprensibile a tutti, salvo esplicita richiesta dei singoli membri di chiarimenti in lingua slovena e rispettivamente croata.” Dopo venti anni di fascismo, caratterizzati dalla soppressione di tutte le scuole slovene e croate, è più che comprensibile che anche per gli stessi sloveni e croati era più semplice usare correttamente l’italiano che la loro lingua madre, da qui l’uso di detta lingua nella discussione. 3 17 La città Nel primo documento in applicazione delle nuove norme statutarie del TLT si evidenziava che nell’area due erano le lingue ufficiali e uguali nell’amministrazione: italiano e sloveno; norma che rendeva paritetico lo sloveno all’italiano. Di conseguenza, si affermava, “[...] bisogna utilizzare dappertutto e con coerenza il principio del bilinguismo, non sottomettendo né danneggiando una delle due nazionalità, operando sulla base dell’uguaglianza. A quest’eguaglianza dobbiamo dargli anche una parvenza esteriore” (ARC, 2). Nella circolare si raccomandava che tutti i comitati e le sezioni si disponessero come segue: ogni scritta, quelle sulle porte, quelle davanti ai locali o alle istituzioni, quelle dell’amministrazione pubblica o quelle a carattere privato, nonché gli avvisi e i moduli devono essere redatti in lingua italiana e slovena o viceversa (nel documento questo passaggio relativo alle lingue d’uso è sottolineato, dimostrando la sensibilità del regime alla tematica) e mai solo in lingua italiana o slovena. Dal documento, nota assai importante, si evince che il principio del bilinguismo riguardava anche “il rapporto dell’amministrazione con l’utenza” (ARC, 2)5. Tali direttive inauguravano il bilinguismo visivo nelle istituzioni e l’uso paritetico dello sloveno accanto all’italiano come lingua d’uso nell’amministrazione (sia scritta sia di comunicazione) con le parti. Dell’esecuzione della circolare e della comunicazione delle applicazioni rispondevano personalmente i capisezione e le istituzioni del Comitato popolare circondariale esecutivo dell’Istria (ARC, 2). È appunto quest’ultimo organo, in un verbale del 22 ottobre del 1947, quindi a circa otto mesi dalla prima circolare, a ribadire fermamente la volontà di introdurre la bilinguità in tutti i comitati e sezioni amministrative, in cui si “[...] dovranno adottare le due lingue.” Si parla, inoltre, di deficienze nei quadri amministrativi, dell’esigenza di assumere un impiegato sloveno e si afferma che “tutti i timbri ora esistenti dovranno essere ritirati per essere sostituiti con quelli nuovi bilingui” (ARC, 4). Il 22 dicembre del 1947, dal reparto circondariale per le questioni interne a Capodistria si emana una nota in cui si ribadisce che i libri dell’anagrafe per il Capodistriano devono essere redatti in lingua slovena-italiana, mentre per il Buiese rispettivamente in quella croata-italiana. Le diciture bilingui devono tenere conto della composizione etnica sul territorio: nei territori a prevalenza italiana i formulari devono riportare prima la dicitura italiana seguita da quella slovena; mentre in quelli a prevalenza slovena, la prima lingua a comparire deve essere quella slovena seguita dall’italiana. La procedura viene adottata anche nel Buiese (ARC, 5). La determinazione geografica del bilinguismo, “[...] in tutto il territorio [...]”, con l’annesso esempio chiarificatore, non lascia dubbi che su tutta l’area, quindi indipendentemente dalla composizione etnica, si applica la bilinguità. Sulle forme e modi di applicazione un altro documento getta luce sull’ampliamento del raggio d’azione del bilinguismo rispetto al precedente nella seguente misura: “Tutti gli scritti delle istituzioni pubbliche, private e statali, debbono essere fatte nelle due lingue. I formulari, in tutti gli uffici pubblici, statali, nei comitati popolari devono essere stampati in ambedue le lingue, e non come erroneamente si è fatto finora che erano stati stampati soltanto in sloveno rispettivamente in italiano. Anche i proclami, manifesti, pubblicazioni ufficiali, reclami ecc. devono mettere in rilievo il bilinguismo. È raccomandabile (qui il tono diventa meno risoluto N.d.A) che anche i negozianti italiani, giacché gli acquirenti sono in maggioranza sloveni, espongano le scritte bilingui. In questo modo sarà esteriormente evidente l’eguaglianza bilingue, cioè il rispetto reciproco” (ARC, 6). La bilinguità compie un ulteriore salto di qualità interessando non solo la sfera amministrativa pubblica ma andando a toccare anche gli altri ambiti della vita sociale, dimostrando la volontà concreta del regime di entrare nelle cittadine italiane della costa, attraverso la liberalizzazione della lingua slovena. Il documento si occupa anche del bilinguismo scolastico affermando la necessità in tutte le scuole di introdurre la lingua italiana e la lingua slovena. Da un verbale del Comitato Circondariale Agit-prop dell’Istria, datato 27 marzo 1947, si evince che “la lingua slovena è solo facoltativa sia ad Isola, Capodistria che Pirano e non si ha avuto nessuna iscrizione. Sarà dunque molto difficile l’introduzione dello sloveno, anche perché molte difficoltà le trovano i direttori In un’altra ordinanza del Comitato esecutivo popolare circondariale dell’Istria, datato 5 dicembre del 1947, si ribadisce che per la qualifica professionale nel ramo amministrativo si rende necessario il superamento dell’esame per ogni candidato nella propria lingua materna (ARC, 3). Si tratta comunque di un atto importante, il quale stabilisce una particolare disciplina nelle assunzioni, basati sul principio della pariteticità delle due lingue, che dovrebbe permettere ad ognuno di sostenere l’esame nella sua lingua madre. 5 18 La città delle scuole, specialmente quelli del liceo. È da notarsi che quale lingua facoltativa insegnano il tedesco” (ARC, 7). Il bilinguismo nelle scuole viene introdotto quindi sulla base dei valori dell’eguaglianza, risolvendosi nello studio della lingua e quindi della cultura (“[...] per la cognizione reciproca”) dell’altro gruppo in tutte le istituzioni scolastiche sia slovene che italiane. Tale normativa non sembra trovare riscontro nelle scuole italiane. La liberalizzazione delle lingue di riferimento ai gruppi etnici, non corrispondeva comunque ad una libera circolazione dei mezzi di informazione, dato che era concessa solo la pubblicazione di giornali favorevoli al nuovo regime. Anche la diffusione della carta stampata rifletteva questo stato di cose: circolavano nella zona B il “Primorski Dnevnik” e l’italiano “Il Lavoratore” quotidiano comunista soppresso dopo la scissione del 1948. Altri fogli erano in lingua slovena e croata, a parte “La Nostra lotta” quotidiano filo-Tito la cui pubblicazione iniziò dopo il settembre del 1948 (Pradelli, 2004, 44). L’informazione bilingue pertanto, anche se garantita nella lingua, per la presenza di fogli italiani veniva negata sulla base della libertà d’espressione per entrambe le nazionalità. Sul finire dell’anno, per la precisione il 7 dicembre del 1947, in un verbale del Comitato esecutivo popolare circondariale dell’Istria, viene toccata e affrontata anche la delicata questione della toponomastica. Nell’assise si evidenzia la volontà di procedere alla definitiva introduzione dei toponimi sloveni accanto a quelli italiani in tutto il distretto di Capodistria. Su alcuni di questi punti il documento fornisce degli esempi pratici assai interessanti. Così, Buie d’Istria diventerà semplicemente Buie, perché è venuta meno l’utilità distintiva dovuta al contesto italiano. Si afferma anche l’esigenza di eliminare, dove possibile, il termine “Stanzia” e “Villa”: Villa Decani così in sloveno diventa Dekani, mentre in italiano semplicemente Decani. Inoltre, ad esempio il toponimo italiano Santa Lucia, secondo il crisma ideologico imperante, si trasforma in sloveno semplicemente in Lucija (ARC, 8). A tal punto è interessante verificare se nella pratica la normativa si dimostrò davvero capace di conseguire tali obiettivi. In quanto, “[...] il pluralismo linguistico e culturale, il perseguimento di tale obiettivo non dovrebbe avvenire in modo da pregiudicare irragionevolmente i diritti degli altri cittadini (o per estensione di una delle comunità N.d.A.)” (Piergigli, 2005, 173). Affinché uno strumento legislativo non produca effetti contrari ai suoi propositi per qualsivoglia delle parti, riteniamo che, oltre ad una delicata opera di bilanciamento del provvedimento, il contesto operativo e l’applicazione della normativa siano davvero determinanti nella valutazione complessiva della bontà della legge e della coerenza dei principi che persegue, rappresentando per tale via anche un indicatore importante sui reali propositi del regime. Se analizziamo l’ambiente sociale, si nota che la normativa s’inseriva in “[...] un clima generale di intimidazione (verso gli italiani N.d.A), punteggiato da un continuo stillicidio di violenze ed angherie, fino a diventare componente abituale di una quotidianità intessuta di sospetto, di angosciosa incertezza nel futuro, di timore per sé, per i propri famigliari, per la propria comunità [...]” (Pupo, 1994, 139). La dimensione della paura e dell’insicurezza appare una componente centrale, fomentata anche dalle tante misure, quali: l’introduzione della jugolira, che scatenò le violenze a Capodistria; l’abolizione del colonato e la riforma agraria, la quale andò inevitabilmente a colpire l’elemento italiano, data la struttura sociale; il bavaglio ad ogni forma di espressione e politica che contrastasse con l’ideologia dominante e via discorrendo (comune per altro a tutti quelli, italiani, sloveni e croati, che non erano pienamente conformi al regime). Tutte misure che provocarono la trasformazione rivoluzionaria della società istriana, la quale andò a saldarsi con la perdita della sovranità italiana, con un drastico mutamento delle condizioni economiche, con la trasformazione di ruoli e il ribaltamento di gerarchie sociali ed etniche consolidate, con la sommersione dei valori e lo scompaginamento del tessuto di rapporti tradizionali. Politica che si attuò attraverso non solo l’eliminazione della precedente classe politica, ma anche con la progressiva scomparsa dei soggetti sociali più rappresentativi e via via di figure chiave quali religiosi, insegnanti, professionisti, di modo che i pubblici poteri furono percepiti inevitabilmente quali estranei e avversari (Pupo, 1994, 138). In un tale clima di avversione e paura per gran parte degli italiani verso il potere costituito venivano a mancare le premesse necessarie per il bilinguismo: i poteri popolari, al di là della facile retorica, non furono capaci di creare un clima di reciproca fiducia tra le due nazionalità e nemmeno di fornire una visione della società non più tesa agli etnocentrismi estremi, che tanto avevano contraddistinto l’epoca precedente. Il risultato di tale politica è che la parte italiana finì per recepire la normativa sulla bilinguità come l’ennesimo sopruso perpetuato da un potere ostile. In questo modo la normativa non poté in alcun modo diventare la base su cui costruire una forma avanzata di convivenza ed eguaglianza all’interno della realtà plurinazionale del distretto capodistriano, data proprio la mancanza di fiducia (da parte di una componente), elemento imprescindibile per tessere qualsivoglia interazione tra gruppi distinti. Al contempo, sembra opportuno precisare che per gli sloveni e i croati l’introduzione del bilinguismo fu 19 La città percepita in maniera diametralmente opposta agli italiani. I primi videro nel provvedimento il coronamento di una giustizia sociale attesa da oltre venti anni. Soprattutto la negazione del diritto alla diversità linguistica, promossa e attuata con estremo zelo dal regime fascista, era apparsa essere il provvedimento più irritante per le popolazioni non italiane, perché imponeva un’ulteriore compressione delle libertà individuali e di gruppo muovendosi sul terreno di una manifesta discriminazione su base nazionale. Per quanto riguarda la componente italiana essa fu danneggiata in particolar modo dall’introduzione del bilinguismo a causa del diverso grado di conoscenza linguistica e dai tempi d’introduzione della norma. Innanzitutto, il bilinguismo fu applicato in un contesto diversificato per conoscenza linguistica – la popolazione italiana era sostanzialmente monolingue a differenza di quella slovena prevalentemente bilingue – e non fu sostenuto da un adeguato periodo di formazione linguistica delle scuole italiane, basti pensare che la lingua slovena fu introdotta come materia obbligatoria unicamente nell’aprile del 1947 e solo per le medie (Troha, 1996), anche se il termine d’applicazione, come abbiamo visto precedentemente, sarebbe da far slittare ancora nel tempo. La stessa Troha ci conferma che, anche dopo l’arrivo delle forze jugoslave, l’uso della lingua italiana rimaneva nelle cittadine prevalente in tutti gli ambiti dell’amministrazione e anche nella pratica sino al 15 settembre del 1947 (Troha, 1996, 74) (termine temporale che va a coincidere sostanzialmente proprio con l’introduzione del plurilinguismo da parte del CPCI, datato 14 settembre dello stesso anno). Nonostante la presente situazione, non ci fu un adeguato periodo di transizione o gradualità d’attuazione della norma: come si è potuto vedere, questa fu introdotta in tutti gli ambiti più importanti della vita sociale in appena dieci mesi. Infatti, se prendiamo in considerazione il primo documento sul bilinguismo del 28 gennaio fino agli ultimi documenti in materia del dicembre del 1947, possiamo affermare che tale processo poteva dirsi in sostanza completato nel periodo sopra considerato. A tal punto è lecito chiedersi per quale motivo fu introdotta una normativa così importante in un clima sociale quanto meno proibitivo (almeno per la gran parte degli italiani), senza alcuna gradualità, dato il diverso grado di conoscenza linguistica e con tempi di realizzazione assai sostenuti? Perché tale strumento, dietro il paravento della roboante propaganda del regime, fu applicato senza una giusta riflessione sulle conseguenze che avrebbe comportato sulla comunità italiana? Mancò davvero la dovuta riflessione sul tema o attraverso il bilinguismo si perseguì un altro obiettivo? Dai materiali esaminati, allo stato attuale dell’analisi, si evince che l’introduzione del bilinguismo, strumento legislativo garante dell’elevazione della pari dignità di tutte le lingue, oltre ad essere un ulteriore passo di avvicinamento alla Jugoslavia, colpì, come si è potuto vedere, soprattutto per la modalità con cui fu introdotto, maggiormente l’elemento italiano; non può pertanto sfuggire la discriminazione dell’atto volto a creare tutt’altro che le premesse di uguaglianza tra i popoli della regione, così caldamente sbandierati dal regime, bensì a rendere ineguale la posizione di questi, basandosi proprio sulla disparità di conoscenza linguistica. Attaccando la lingua italiana nelle sue roccaforti veniva completata quell’operazione di penetrazione nel tessuto delle cittadine italiane, che ebbe come risultato davvero importante quello di insediare progressivamente una nuova amministrazione “più conforme” al nuovo corso e nazionalmente affine, consolidando così la presa di potere sugli organi cittadini dimostratisi non sempre affidabili. Difficile pertanto non ravvisare un’ulteriore forzatura in senso snazionalizzante nei palazzi delle istituzioni, in cui il bilinguismo veniva adoperato come base formale per l’insediamento graduale di funzionari sloveni o jugoslavi, discriminando l’elemento italiano monolingue. Insomma, come si è potuto vedere, anche il bilinguismo finì per essere vittima o meglio strumento di un potere che perseguiva finalità contrarie a quelle a cui diceva di ispirarsi. Dietro gli slogan formali di libertà, fratellanza e uguaglianza, anche il principio formalmente avanzato sulla carta come il bilinguismo, privato della necessaria libertà e sicurezza individuale, non solo fu svuotato d’ogni valenza positiva, ma si rivelò essere un potente strumento di politica nazionale del regime; preda, come altre misure, di assolutismi nazional-ideologici, in piena collisione con i valori di dignità della persona. Chi vi scrive ritiene, tuttavia, che una comprensione più approfondita del bilinguismo, della sua applicazione e dei contesti sociali in cui esso è stato calato richiede un’ analisi che sappia abbracciare un periodo di tempo maggiore rispetto a quello considerato; importante oltremodo per valutare gli effetti a lungo termine di una siffatta normativa nella società. Pianificare uno studio sul bilinguismo nel lungo periodo appare giustificato per svariate ragioni. Oltre ad essere segno di maturità e consapevolezza e di grande importanza ed utilità scientifica nonche’ storica, darebbe una maggiore organicità e sistematicità alla grande quantità di studi settoriali prodotti sul bilinguismo locale riversandoli in una nuova opera specifica sul tema, capace di dare uno sguardo complessivo all’evoluzione del bilinguismo nel Capodistriano, estensibile anche all’Istria, dal dopoguerra ad oggi, ripercorrendo per sommi capi anche il periodo antecedente sino agli albori del risveglio nazionale in queste terre. 20 La città Si tratterebbe di un’opera che accanto alle vicende storiche si addentrerebbe anche nel campo del diritto e dell’evoluzione del concetto dei diritti linguistici e comunitari, tenendo in debito conto i cambiamenti e le trasformazioni intervenuti nella società istriana attraverso i secoli. Un lavoro di questo tipo richiederebbe una squadra di ricercatori di varia formazione e avrebbe il pregio di calare il diritto e il concetto della bilinguità nel contesto sociale dei vari periodi storici analizzati (recuperando gli aspetti innovativi assieme all’impatto provocato dalle normative nella società nei vari periodi trattati), di aumentare la consapevolezza del fattore linguistico in queste terre, di proporre la lingua assieme alla diversità culurale delle popolazioni che qui vi risiedono come un tratto a sua volta caratterizzante la cultura stessa ed espressione del territorio, di lasciare testimonianza dell’esperienza locale di ricomposizione delle diversità etnica e linguistica (che potrebbe costituire anche un modello di convivenza avanzato pluri-comunitario su un medesimo territorio) nonché di contribuire a fare chiarezza sulle tante prospettive spesso nebulose che circondano il futuro del plurilinguismo, proprio attraverso il confronto con le esperienze del passato e l’armonizzazione di queste con le attuali direttrici europee in materia di salvaguardia del patrimonio linguistico e culturale autoctono locale. Bibliografia ARC, 1 - Archivio regionale di Capodistria (ARC), Comitato distrettuale della Lega dei comunisti della Slovenia di Capodistria (SI PAK KP 450), b.3, Relazione del Comitato cittadino capodistriano del P.C.R.G. al Comitato Circondariale del P.C.R.G. di Aidussina, 22.1.1946. ARC, 2 – ARC, Commissione distrettuale per la riforma agraria (SI PAK KP 521), b. 24, Circolare della Presidenza del Comitato popolare distrettuale Capodistria, 28.2.1947. ARC, 4 – SI PAK KP 23, b.1, Verbale del Comitato esecutivo popolare distrettuale di Capodistria, 22.10.1947. ARC, 5 – SI PAK KP 23, b.1, Relazione del Comitato popolare distrettuale per gli Affari Interni Capoistria, 22.12.1947. ARC, 6 – SI PAK KP 450, b.3, Relazione sul bilinguismo della conferenza di partito del Comitato rionale di Capodistria, 2.3.1947. ARC, 7 – SI PAK KP 450, b.3, Verbale Commissione circondariale Agit-Prop per l’Istria, 27.3.1947. ARC, 8– SI PAK KP 23, b.3, Verbale Comitato esecutivo popolare circondariale dell’Istria, 7.12.1947. BU – Bollettino Ufficiale del Circondario di Trieste, di Gorizia e della città di Trieste, N.1, (9.6.1945), D. N. 1, Art. 4. Trieste. Cadastre national de L’Istrie (1946). Sušak, Edition de l’Institut Adriatique. Perselli, G. (1993): Censimenti- Istria, Fiume, Trieste e Dalmazia. Etnia, VI. Bauer, O., (1996): La questione nazionale, (trad. dal ted. di “Die Nationalitätenfrage und die Sozialdemokratie”), Roma, Editori riuniti. Bogliun-Debeljuh, L., (1994): L’identità etnica. Gli italiani dell’area istro-quarnerina, ETNIA V, Trieste-Rovigno, CRS. Gombač, M., (2003): Pokrajinski narodnosvobodilni odbor za slovensko primorje in Trst 1944-1947, Ljubljana, CIP. Križman G., Mauro I., Medeot M., Rogoznica D., (2004): Storia degli Sloveni. Manuale di storia per le scuole medie con lingua d’insegnamento italiana, Ljubljana, ZRSŠ. La Perna, G., (1993): Pola, Istria, Fiume 1943-1945. 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(cur.), Prispevki za novejšo zgodovino XXXVI, 36, 1/2, Ljubljana, pp. 67-93. 21 La città In visita gli sbandieratori del Palio di Ferrara Su iniziativa della »Dante« che ha organizzato anche un incontro col regista Martusciello Il rullio dei tamburi ed il suono delle fanfare hanno attirato il 9 ottobre l’attenzione dei capodistriani. La compagnia del Palio di Ferrara ha attraversato la città, proponendo a più riprese lo spettacolo degli sbandieratori, accompagnati dal corteo storico in costumi d’epoca. Le loro evoluzioni hanno richiamato il pubblico, in mattinata e nel primo pomeriggio, in Piazza Ukmar. In serata il Palio di Ferrara ha fatto visita alla Comunità degli Italiani, dov’è stata allestita la mostra del fotografo Sergio Pesci, intitolata “La mia Ferrara”. Il turbinio delle bandiere multicolori e gli splendidi abiti medievali sono stati riproposti sullo spiazzo antistante la Radiotelevisione di Capodistria, accolti con entusiasmo da numerosi connazionali accorsi per l’occasione. L’iniziativa è stata promossa dal Comitato capodistriano della Società “Dante Alighieri”, in collaborazione con il Comune. A fare gli onori di casa è stato il vicesindaco, Alberto Scheriani, che ha ricordato i lunghi legami d’amicizia con la città gemellata di Ferrara. Gli ospiti erano guidati dall’assessore alla Mobilità ed ai Lavori Pubblici, Aldo Modenesi, che ha ringraziato per l’accoglienza tributata. Gli sbandieratori del Palio di Ferrara si esibiscono lungo la riva. 22 L'incontro con il regista napoletano Luca Martusciello organizzato a Isola. Alla sua sinistra il cantante Mirko Cetinski, la presidente della »Dante« capodistriana Vanja Vitošević ed il Console, Marina Simeoni. La città Nel 60.mo di Radio Capodistria erano andati in onda diversi gustosi aneddoti di Giorgio Visintin sui primi decenni di Radio e TV, pubblicati pure dalle Primorske Novice. Tra questi, uno che vide protagonista il compianto Ferdi Vidmar, dal sibillino titolo di »Harošaja luka« Come tutti i turisti che si rispettino, anche Tito apprezzava molto passare »dal mare - ai monti«, dalle isole Brioni cioè, a Brdo in Gorenjska, ovviamente transitando per Capodistria.Nell’occasione se la godevano specie gli scolari, che vivevano una ben organizzata »scappola da scuola«, e sventolando bandierine, salutavano, lungo la strada dell’Istria, i veloci convogli delle automobili nere. Quando poi c’erano ospiti stranieri più importanti, capitava spesso nel porto la nave Galeb, o rombando, coi suoi due motori da 300 cavalli, il panfilo Primorka. Una volta è così capitato agli inquilini di quella casa, che oggi in Piazza Ukmar non c’è più, e ospitava anticamente la Trattoria al Vaporetto (suoi clienti furono anche i guardiani dell’imperial-regio Carcere del Belvedere) era stata quindi una sorpresa vedere scendere dal Primorka, del tutto inattesi - non c’era neppure la Polizia - una consistente parte della delegazione sovietica con Bulganin e Mikojan, che avevano accompagnato Hruščov a Belgrado nel maggio 1955, per porgere le scuse di Mosca per la scomunica del Cominform del 1948. Nella casa abitavano diversi appartenenti alla Radio; un regista, il capotecnico Poberaj, il giornalista Klasinc, ed ancor prima, anche il fonico Ferdi Vidmar, primo attore dell’aneddoto. Attraverso Capodistria erano passati comunque molti protagonisti della storia. Chi non ricorda il »lider maximo« Castro? Qualcuno al ristorante Capris, al pianterreno del Palazzo Pretorio, s’era seduto sul suo kepì, come aveva raccontato l’allora sindaco Mario Abram, e non è del tutto da escludere che sia stato proprio lui lo sbadato ad infrangere il protocollo. Il giorno dopo i giornali, anche di Trieste, annotavano soprattutto che a Castro era tanto piaciuta… la »putizza«. Davanti alle festanti »venderigole« del mercato di Capodistria erano daltronde già sfilati in auto scoperta il Negus d’Etiopia Haile Selassie e, nell’aprile 1955, l’indiano Pandit Nehru, con in testa l’eterna bustina bianca copricalvizie. L’aneddoto che riguarda il compianto Ferdi Vidmar, risale a una domenica del giugno 1955. Era stato preannunciato l’arrivo per mare di Tito e Hruščov alle 4 del pomeriggio. In redazione s’era deciso che l’avvenimento lo coprisse il giornalista Vesel, secondato, a causa dei ben sette chili del necessario magnetofono, appunto da Ferdi,che - tra l’altro - era l’unico a masticare un po’ di russo. Vestito l’ abito della festa, lui si avvia da Semedella con la sua bici più di mezz’ora prima. Raggiunta l’odierna passeggiata a mare, scorge subito, non più lontana, l’inconfondibile silhouette della nave Galeb, in arrivo con rilevante anticipo. Accelera le pedalate, arriva al porto, mentre la nave già attracca. Supera il cordone di polizia, lascia la bici e si affretta verso il molo. Naturalmente il giornalista incaricato non si vede. Ferdi è sì, un esperto di magnetofoni e magari di elettroni, non però di politica estera; ma si fa ugualmente coraggio. Dopo i soliti omaggi floreali - c’era anche Jovanka - chiede «pažalsta« a Hruščov il suo »pačutljenje«. Per tradurre: quali sono le sue sensazioni, le sue impressioni. E non era mica una domanda sbagliata! Perchè è storia, che per Hruščov venire a Belgrado nel 1955, era come per Enrico IV andare a Canossa a chiedere perdono a Papa Gregorio VII, che l’aveva scomunicato. Si è anzi scritto che Tito l’avesse accolto freddamente a Belgrado, risentito per i sette anni di truce ostilità del Cominform e dell’intero blocco orientale, che avevano reso l’ex Jugoslavia uno strategico cuscinetto della Cortina di ferro. Al microfono di Ferdi quindi, Nikita snocciola bonario ma conciso, due o tre frasi… Più tardi, i giornalisti - arrivati sì - ma con rovinoso ritardo, gli si ammassano intorno, perchè ceda l’intervista anche a loro. No problem! Ma fatta su due piedi la traduzione, risulta che Hruščov afferma »sic et simpliciter» che Capodistria, vista dal mare è bella, anche il porto è «harošaja« e che avrà sicuramente un positivo sviluppo.Tutto qui. Chi tardi arriva, si sa, sempre male alloggia! Giorgio Visintin 23 La città Il nuovo Capossela nasce a Capodistria Dal Piccolo — 16 ottobre 2010 pagina 34 sezione: CULTURA - SPETTACOLO Vinicio Capossela ha sempre manifestato una forte simpatia per Trieste e per l’Est in generale. Tanto da scegliere lo studio Hendrix di Radio Capodistria, in Slovenia, per lavorare alla pre-produzione del suo nuovo album. «Qui mi piace perché si trovano ancora le cose che in Italia non esistono più da anni», dice il cantante nei corridoi di Radio Capodistria, per ricordare poi molteplici concerti triestini, fino a quello al Rossetti a febbraio 2009 «Pieno di sorprese: alla fine avevo perfino chiuso il giornalista Paolo Rumiz dentro ad una gabbia sul palco!». Capossela è venuto a Capodistria anche per lavorare con lo sloveno Andrea F, musicista, autore ed appassionato di musica. Negli anni 80, con la sua band (Idiogen: all’attivo tre album, usciti anche in Italia per Toast Records e Supporti Fonografici, ed in Gran Bretagna per Rough Trade) ha scoperto il fascino del lato tecnico del fare musica, dello studio di registrazione come strumento creativo. Da lì, è venuta poi la carriera di producer e la collaborazione con Radio e Tv Capodistria (come redattore musicale, conduttore, autore e regista di molte trasmissioni); oggi è anche su TV SLO 1, con il programma”Nlp” (di cui cura e conduce la parte musicale e live). Andrea F, ha lavorato con Vinicio Capossela nello Studio Hendrix di Radio Capodistria. Com’è andata? «È stato molto intenso ma anche stravagante e divertente, come sempre con Vinicio e con gli artisti veramente “Artisti” del suo calibro. Insieme al suo produttore, Taketo Gohara, ed al suo arrangiatore, abbiamo fatto un lavoro di pre-produzione del suo prossimo album, passando in rassegna ed al setaccio tutti i vari demo e testi, trovandone struttura e stesura definitive, e registrandone varie takes fino ad una quasi definitiva, con una traccia di pianoforte o chitarra e voce che può fungere da fondamenta per la registrazione dell’album. Dovremmo ritrovarci a breve per fare altrettanto con un paio di brani ancora rimasti, e poi forse per delle session di alcuni degli strumenti per il disco, visto che l’intesa con tutto il team c’è, e soprattutto Vinicio a Capodistria si trova bene e si sente ispirato». Che tipo è Capossela? «Ha una natura estrosa, spesso bizzarra, ma sempre molto ispirata e fedele al suo ricchissimo mondo interiore; il cuore di un vero poeta, con gli occhi e la capacità di stupirsi e di stupire di un bambino. È sempre molto bello lavorare con chi ha talento a tonnellate. Ancora di più se poi la mattina prima di arrivare in studio si preoccupa di comperare burek o mirtilli per tutti, o se si finisce a mangiare a mezzanotte sulla costa del Quarnero con le chitarre in spalla ed un valigione di cartone pieno di testi, tastiere e computer in attesa di un traghetto che non arriva!». Perché ha scelto proprio lei? «Penso che da una parte c’è il lato umano, perché ci siamo incontrati tante volte, anche in ruoli diversi, per qualche mia trasmissione TV e radio, e poi per lavorare di filigrana al suo pianoforte in studio (nel 2005 abbiamo registrato insieme e da soli Andrea F nell'obiettivo di Marko Žigon. 24 quello che sarebbe poi diventato “Dove siamo rimasti a terra Nutless” sull’album “Ovunque Proteggi” del 2006), quindi oramai una certa fiducia ed amicizia esistono, e sa di poter contare sul mio lavoro tecnico e sul mio giudizio». E perché Radio Capodistria? «A Capodistria so che gli piacciono varie cose, dalla location ad un passo dal mare alla relativa tranquillità del luogo o al cibo ed alcuni vini locali, oltre che lo studio che ha un fascino particolare, con tantissime apparecchiature vintage oggi rarissime accanto ad altre nuovissime ed ipertecnologiche, e con una sala di ripresa come quelle di una volta, grande, con l’acustica fatta dagli ingegneri americani della RCA negli anni 50 per farci suonare le big band, e con un bellissimo pianoforte a coda Steinway». Elisa Russo La città I tre presidenti a Trieste La dichiarazione congiunta del Presidente della Repubblica di Slovenia, Danilo Türk, del Presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napoletano e del Presidente della Repubblica di Croazia, Ivo Josipović, in occasione del “Concerto dell’amicizia” diretto dal maestro Riccardo Muti, tenutosi a Trieste il 13.7.2010. “Noi Capi di Stato di Italia, Slovenia e Croazia abbiamo accolto con piacere e interesse l’invito del Maestro Muti a presenziare al Concerto dell’Amicizia che avrà luogo a Trieste il 13 luglio nella piazza dell’Unità d’Italia, consapevoli dell’alto messaggio di pace e fratellanza di cui è portatrice l’iniziativa. In tale occasione il Maestro Muti dirigerà l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini e l’Orchestra Giovanile Italiana arricchite dalla presenza di numerosi giovani musicisti provenienti dalle Accademie Musicali Universitarie di Lubiana e di Zagabria, oltre a coristi italiani, sloveni e croati. Prima del concerto, deporremo una corona di alloro al Narodni Dom, orribilmente incendiata il 13 luglio 1920, e al monumento all’esodo dalle terre natali degli Istriani, Fiumani e Dalmati, nel doveroso ricordo delle tragedie del passato e nel comune impegno a costruire insieme un futuro di libera e feconda cooperazione tra i nostri paesi e i nostri popoli nell’Europa unita. Con la nostra presenza intendiamo testimoniare la ferma volontà di far prevalere quel che oggi ci unisce su quel che ci ha dolorosamente diviso in un tormentato periodo storico, segnato da guerre tra Stati ed etnie. Ormai, Italia, Slovenia e Croazia si incontrano nel contesto dell’Unione Europea, per sua natura portatrice di rispetto delle diversità e di spirito di convivenza tra popolazioni, culture e lingue che hanno già operosamente e lungamente convissuto per secoli. Di qui il nostro impegno a coltivare sempre il rispetto dei diritti di tutte le minoranze. In ciascuno dei nostri paesi, coltiviamo com’è giusto la memoria delle sofferenze vissute e delle vittime di cieche violenze, e siamo vicini al dolore dei sopravvissuti a quelle sanguinose vicende del passato. Il nostro sguardo è volto all’avvenire che con il decisivo apporto delle generazioni più giovani vogliamo e possiamo edificare in un’Europa sempre più rappresentativa delle sue molteplici tradizioni e sempre più saldamente integrata dinanzi alle nuove sfide della globalizzazione”. Inaugurata la nuova sede dell’Istituto Italiano di cultura di Lubiana Una nuova casa - a parte la fatica del trasloco - è sempre un evento da festeggiare. E lo è a maggior ragione quando si tratta di una casa ancora più bella di quella appena lasciata. Com’è appunto nel caso dell’Istituto Italiano di Cultura di Lubiana, che dopo dieci anni trascorsi in piazza del Congresso si è trasferito in un elegante palazzo storico sulle rive della Ljubljanica. Il nuovo indirizzo è Breg 12, lo stesso del centro culturale francese, che si trova al piano superiore. L’inaugurazione è avvenuta il 16 settembre, alla presenza dell’ambasciatore d’Italia Alessandro Pietromarchi, del vicesindaco del Comune di Lubiana Aleš Čerin, e naturalmente della direttrice dell’Istituto, Roberta Ferrazza. Non c’è stata una cerimonia vera e propria, piuttosto una festa tra amici, italiani e sloveni, dell’Istituto Italiano, accompagnata dall’apertura di una mostra curata dall’associazione goriziana Graphiti,”Obiettivo Divina Commedia”. La giornata però si è configurata soprattutto come un momento di incontro con il pubblico. Fin dalla mattinata i visitatori hanno potuto assistere a lezioni dimostrative di lingua italiana per adulti e bambini, alla proiezione della “Dolce vita” di Federico Fellini, e consultare libri e altro materiale conservato nella biblioteca e nella mediateca. Una manifestazione di “porte aperte”, dunque, volta a far conoscere a tutti gli interessati l’importante istituzione, nata nel 1999 e ben inserita nella realtà slovena grazie ad una fitta rete di collaborazioni sul territorio. Collaborazioni che coinvolgono e abbracciano, da sempre, anche le strutture della nostra Comunità. Pochi giorni dopo l’informale taglio del nastro alla nuova sede, l’Istituto Italiano di Cultura di Lubiana ha proposto a Casa Tartini di Pirano un applaudito concerto del pianista toscano Giuseppe Tavanti, primo di una serie di appuntamenti dedicati ai 150 anni dell’Unità d’Italia. Ornella Rossetto 25 La città Il presente articolo poggia su documenti veri, custoditi presso l’Archivio regionale di Capodistria (Busta №31, unità documentaria №32, Diplomi e carte diverse dei conti Grisoni (164-1850) – inventario Ivan Filipovič). Per scrivere una storia che potesse attirare l’attenzione dei più, mi sono servita della teoria manzoniana del romanzo storico. Abbiamo il vero per soggetto, l’utile per scopo e l’interessante per mezzo. L’invenzione qui è intesa come racconto che riempie i vuoti lasciati dalla documentazione, non dalla storia. La cornice storica è stata volutamente omessa, si è preferito parlare delle varie famiglie nobili capodistriane. Dove è stato possibile, si è integrato le informazioni con Monumenta heraldica Iustinopolitana. I vari fatti storicamente veri, sono stati uniti agli indizi desunti dalla lettura degli atti; ne nasce una cronistoria di una faida durata ben 200 anni … Buona lettura! Grisoni e Vergerio, due famiglie, un’eredità e 200 anni di storia di Valentina Petaros Jeromela Un libro. Un libro contenente fogli. Ogni foglio qui sapientemente rilegato, è un documento o atto notarile, che racconta una vicenda e che qui darà vita ad una storia. Sfogliando, lasciando girare le pagine, sembra quasi che le storie si animino. È come un libro tridimensionale, con le figure, che da piatte, si alzano e si mostrano. Qui non raccontiamo una favola, però. Che cosa può mai nascondere l’ultima pagina di un libro manoscritto? La fine di una storia, oppure il suo inizio? Non si desidera dare una fine alla storia narrata, ma solo descriverne l’incominciamento e tracciarne le sfaccettature che hanno contraddistinto la vita di due generazioni e una città tutta. Il tutto comincia con il testamento di Giovanni Andrea I Vergerio, in una caldissima giornata di agosto, il quattro nell’anno di grazia 1562. “Gli eredi di veramente ogni e qualunque sorte dei beni mobili, come stabili e di ogni ragione e azione istituisce, e esser volse messer Colmano, suo dilettissimo fratello, e Gerolamo, nipote suo carissimo, figlio del fu Domenico suo fratello, per egual porzione con questa condizione: che mancando uno de loro senza eredi maschi non solamente la porzione di esso testatore della possessione di Oltra ritorni al sopravivente, ovvero ai suoi eredi maschi, ma quella del morto ancora senza eredi maschi, con questo che colui che vorrà ad aver la porzione della detta possessione sia tenuto dar agli eredi del defunto se fossero femmine altrettanti beni in alcun altro luogo de egual valore, e queste fa e ordina acciò che la detta possessione rimanga in casa e famiglia de Vergeri maschi.” Poche ma chiarissime parole che determineranno le sorti di alcune tra le più illustri famiglie Capodistriane: Vergerio, Grisoni, Gavardo, Gravisi, Petronio, Brutti e Contesini Ettoreo e, nei rami più recenti anche Tarsia, Belgramoni 26 e i Morosini. Due, tre generazioni che continueranno la lotta per il possesso della Val d’Oltra… I Vergerio, questa nobile e illustre famiglia Capodistriana, vede l’estinzione del ramo con discendenza maschile nel 1678, con la morte di Girolamo, il dottore, che svolgeva la sua professione a Padova. Il libro racconta di tre fratelli (Giovanni Andrea I, Colmano e Domenico) e di un testamento, quello del fratello maggiore. Giovanni Andrea I, non avendo figli maschi, lascia tutto in eredità al figlio del fratello, Gerolamo; unico nipote in vita al momento della stesura del detto testamento. Negli anni a venire, Colmano, avendo anche lui procreato figli (figli maschi e altre due femmine), pretende e ottiene la divisione dell’eredità. A questo lascito si aggiungono le proprietà di Caterina Gravisi (vedova di Cristoforo Zarotti de Sereni). Una dote molto importante, giacché portava la proprietà del Mulino, quello che confinava con le terre dei Borisi … Tenuto da una contadina detta “Buttazza” che andava tutto a favore di Gerolamo, suo marito, così come desiderava il padre di lei, Giovanni Gravisi. La famiglia Vergerio possedeva i feudi di Cuberton (Kuberton) e Toppole (Topolovec) e nel 1650 Padena (Padna), Morosina (Movraž), S. Sirico (Sočerga), Covedo (Kubed) e Villanova (Nova Vas). Tra gli antenati illustri figura Pier Paolo Vergerio il Seniore (1370-1444), uno dei più illustri umanisti italiani, professore di dialettica a Padova e Bologna, precettore dei Carrara e celebre pedagogo. È da ritenere, grazie all’indizio contenuto nel contratto matrimoniale della Susana con Francesco Grisoni (per uno scherzo del destino i nipoti che continueranno questa faida, portano gli stessi nomi), che questa sia proprio la discendenza del ramo del Vescovo di Capodistria. In una riga c’è scritto che proprio un certo Aurelio lascia in dote alla Susana ducati cinquanta. A ragione possiamo concludere che la discendenza qui trattata sia del ramo diretto dell’Apostata in quanto, Giacomo Vergerio (il notaio) ebbe 5 figli e tre figlie. Il primogenito è Iacomo (il francescano), Alvise, Giovanni Battista (Vescovo di Pola), Aurelio (monsignore) e Pier Paolo (Vescovo di Capodistria). Non si sono dati certi, non si può determinare chi sia l’antenato, La città escludendo (per pura formalità) gli uomini consacrati al celibato, rimangono le tre figlie (delle quali non sono indicati i nomi) e l’Alvise. Purtroppo, se per la morte di Pier Palo si sospettò un avvelenamento, la morte di Aurelio è certa: rinchiuso nelle segrete a Roma da Papa Clemente VII. Di lui non si ebbero più notizie. Gerolamo muore nel 1622, ma sposa Caterina Gravisi il due ottobre 1606. Da quest’unione nascono nove figli: quattro femmine e cinque maschi. Non posso assicurare la correttezza della successione delle nascite, ma intanto la discendenza va divisa tra il ceppo nato dalle figlie e quello nato dai maschi. Abbiamo, da una parte: Susana, Paula, Elena e Felice; mentre dall’altra: Colmano (padre Comodo), Giovanni Andrea II, Giovanni Nicola, Capitan Carlo e, il figlio nato postumo, Girolamo. Un nome che conviene ricordarsi è quello di Susana Vergerio, perché è la primogenita, sposerà Francesco Grisoni e in base al diritto di primogenitura darà al conflitto una svolta decisiva e inaspettata, e ci terrà in sospeso con continui colpi di scena. Conviene anche tenere a memoria la dote di Caterina, la quale sarà contestata e, in modo subdolo, tolta alla discendenza del ramo maschile. Purtroppo anche nel ceppo maschile vi è una Susana, quella che osteggerà la primogenitura femminile e perseguirà le proprie ragioni sino alla morte. Per evitare confusione, decidiamo di chiamarla Suor Nezza. Non vi sono notizie inconfutabili circa il monacato di questa, ma vi è un chiaro indizio di ciò in un documento. Viene, infatti, nominata Susana detta Suor Nezza. Complotti, intrighi, congiure, … la vita della nostra tranquilla città, presto, ci sembrerà un ricordo lontano. Nel 1606, il non più giovane Gerolamo, dunque, s’innamora! accanto alla felicità manifesta per un evento così gioioso, abbiamo un fiorire di contratti e patti e convenzioni tra le due famiglie: quella di lui e la di lei. Tanto per non dover litigare. Caterina Gravisi, vedova di pochi mesi di Cristoforo Zarotti de Sereni (morto forse all’inizio del 1606), ottiene la restituzione della dote (di danari 3.500!!!) e essendo nuovamente sola e ricca, viene ben presto concupita dal baldo Gerolamo! Ecco il contratto, scusate, il termine usato è “Convenzione tra Gerolamo Vergerio e suoi cognati Gravisi per dote di Caterina”. Questo accade nel marzo del 1615, possiamo a ragione ritenere che l’amore abbia regnato sovrano per alcuni anni prima che l’avidità si rendesse complice e partecipe di questo così grande sentimento. Solo in apparenza. In verità si tratta della cessione, a favore della coppia e in completamento della dote, del 27 La città Mulino e delle terre sotto Villa de Cani (Dekani). Il notaio Pietro Toffanis stila questo passaggio di proprietà e la rinuncia dei fratelli di Caterina (Ferdinando, Giovanni Battista, Giulio, Camillo, Benvenuto, Dioniso) dei proventi di questo molino tenuto da una certa “Bottazza”. Le terre invece erano “tenute” da Luca Verzier e per le quali paga d’affitto “stara due formento”. Si scopre che c’è anche un campetto in Risano (Rižana), che confina con la ragion di Francesco Borisi, altre grande casata Capodistriana. Alcuni giorni prima di morire, Gerolamo fece testamento e, come da consuetudine, lega l’eredità a una clausola. È il 25 settembre 1622 e Gerolamo (“giacendo in letto sano per l’Iddio grazia della Mente, senso, veder e intelletto … sapendo non essere cosa più certa della morte e più incerta dell’ora di quella”…) ordina il suo testamento. Ciò che in precedenza fu chiaro, mi riferisco al testamento del 1562, qui si complica. Qui origina anche la nostra vicenda. Gerolamo lasciò in eredità, a ognuna delle sue figlie Ducati 500 e Ducati 200 di mobili e stabili. Mentre, ai figli, lascia tutti i suoi possedimenti siti in Val d’Oltra. Tutti i campi, le vigne, i prati, i baredi a patto che, mancando la discendenza maschile, il tutto ritorni ai maschi in vita. Con un secondo vincolo: di non vendere, impegnare, permutare né affittare ma che questi beni vadano sempre ai figli ed eredi maschi. Condizione perpetua. Nel caso in cui mancasse proprio la discendenza maschile, allora vuole che i discendenti delle sue figliole siano padroni dei predetti beni con condizione di non poter “permutar gli stessi”. Gli stessi beni poi, in mancanza d’altro, possono essere “utilizzati come dote per maritar le figlie” … Più che risolvere, qui abbiamo la nascita della confusione. A decidere le sorti saranno gli avvocati, entrati a far parte della famiglia in circostanze diverse. Il Grisoni sposa la primogenita Susana, Giovanni Andrea II sposerà Gioia Gavardo e Caterina 28 nata Gravisi. Tutte e tre le famiglie (Gravisi, Grisoni e Gavardo) hanno una lunga tradizione come azzeccagarbugli, ma uno in particolare si distinguerà: Francesco Grisoni. Il testamento termina con la solita formula, in cui l’usufruttuaria di tutti i beni è la consorte. I commissari del testamento sono il reverendo padre Comodo Vergerio (il figlio), Ferdinando Gravisi e Piero Gavardo (il cognato). Come detto sopra, Gerolamo muore il 30 settembre 1622. Negli anni a seguire, dal 1625 al 1632, l’attività principe della “relitta” (vedova) Caterina fu di organizzare matrimoni. Questi, si sa, costano e con 4 figlie … Lei discende da una antica famiglia, il capostipite scongiurò il complotto ordito da alcuni padovani contro la Repubblica Veneta nella città di Pirano. Questo comportò l’investitura del marchesato di Pietrapelosa. Erano anche, nel secolo XVII, signori della Torre di Padena; la stessa Torre, parte della quale, Caterina portò come dote. Non lasciandosi sopraffare dal dolore, oppure volendo reagire alla seconda vedovanza, la “relitta” si attiva nella ricerca di capitali. È datato fine marzo 1623 un livello (affitto) con la città di Rovigno, dove Caterina ottiene la rinuncia su tutti i profitti, sia dei dazi sia dei torchi, da parte del figlio Colmano (padre Comodo). In seguito, vi è una procura di Caterina per riscuotere il credito dalla famiglia Gaspari di Udine. Parliamo di circa 240 Ducati. Ed ecco la prima data, che corrisponde al primo esborso: il 15 marzo 1625 si sposa Susana con Francesco Grisoni in cui vi sono 700 Ducati di dote più cinquanta lasciati da Aurelio Vergerio. In più la madre della sposa deve ancora completare la dote con 1.500 Ducati e alcuni “cavedini di saline della Valle d’Oltra”. Punto nodale della vicenda. La seguono le sorelle, in ordine di nascita: Paula con Barnabà Brutti, nel 1626, ed Elena con Antonio Petronio nel 1632. Ultima è la Felice che si sposa con Nicolò Zarotti nel 1637 dove in dote porta anche parte del Molino della Bottazza. L’amicizia che lega le famiglie Vergerio e Zarotti, va molto indietro nel tempo, si parla dei tempi di Pier Paolo Vergerio, l’apostata. A renderli celebri fu Giacomo Zarotti, probabilmente il cognato, che col suo testamento (21 giugno 1660) fondò un nuovo canonicato (presso il Capitolo Giustinopolitano) ed accordò al vescovo pro tempore il diritto di elezione, con la condizione di dare la preferenza a sacerdoti discendenti dalle famiglie Gavardo, Zarotti, Grisoni e Vergerio. L’eletto canonico è obbligato a portare il nome della famiglia Zarotti alla celebrazione quotidiana della Santa Messa. Per ogni figlia maritata, la dote data era, approssimativamente, intorno a 1.500 Ducati. Oltre ai contanti, ognuna ottiene, come da testamento, anche parte delle saline e il magazzino in Piazza da Ponte, che va a Paula. Così il lignaggio femminile prospera, nascono figli maschi, fondamentali per l’asse ereditario. A questo punto, i Grisoni sono entrati in questa famiglia e della quale, ne segneranno la sorte. Questa antica, illustre e doviziosa famiglia nobile della nostra città, è fregiata del titolo di Conte, ma si è estinta in linea maschile nel 1841, con Francesco Grisoni (anche se in verità lui ebbe un figlio, Pompeo, il quale morì nel 1833). Che il matrimonio di Susana con un Grisoni non fosse una buona idea, era opinione condivisa in famiglia. Questo anche per una vecchia ruggine, risalente al secolo XVI. Mi riferisco ad Annibale Grisoni, dottore dei Sacri Canoni, canonico della Cattedrale di Capodistria, Inquisitore per la S. Fede nell’Istria (1523), nominato nel 1549 commissario per l’eretica pravità, fu il principale persecutore del vescovo Pier Paolo Vergerio. Queste le premesse, che già non ci fanno ben sperare. “Fu egli spinto da un eccedente zelo di religione, e forse di passione, diventando il primario persecutore del proprio vescovo, l’apostata Pier Paolo? Quanto La città ardito, e dannato fosse il trasporto del canonico Annibale basterà giudicarlo dal fatto, che la domenica alla celebrazione della conventuale, inveì predicando contro il vescovo, ch’era pure in Capodistria, attribuendogli, perché eretico, i mali tutti e le disgrazie che soffriva il popolo nella sterilità dei raccolti, nella siccità, e nella mortalità degli animali, fatto sedizioso che obbligò la pubblica autorità del principe a reprimerla.” Ritornando alle ragioni che alimenteranno questa lotta per aggiudicarsi l’asse ereditario, posso forse aggiungere la mania di grandezza che ha portato la famiglia Grisoni a investire sempre più capitale a Daila. Francesco di Santo era ricchissimo, perciò seguì l’esempio della nobiltà veneta in fatto di migliorie agrarie e edilizie. Il latifondo di Daila, immiserito dalla malaria, era semi-incolto, i maggiori proventi erano l’affitto invernale delle terre a pascolo, l’olio e l’esportazione della legna da ardere. Volle farsi una villa gentilizia, secondo i gusti dell’epoca, sul posto delle antiche e squarciate costruzioni. Esisteva il cosiddetto “castello di Daila”, cioè un palazzotto-casa dominicale – quadrangolare con quattro torrette agli angoli e feritoie sulla cortina, racchiudente il capace cortile e la cisterna. Dal 1775, intanto demolì alcune case rustiche adiacenti e la vecchia chiesa di San Giovanni. Fece costruire i due corpi di fabbrica laterali: la nuova chiesa barocca (inaugurata nel 1783), e, di fronte, l’alloggio del cappellano, del fattore, e via via, i granai, il torchio, le cantine, i magazzini, le scuderie, l’alloggio dei famigliari. I trambusti politici e la morte precoce impedirono a Francesco di Santo Grisoni di completare il progetto. Toccò al figlio, conte Francesco. Sul luogo del castello innalzò la villa-palazzo, verso l’anno 1830. Purtroppo non si è conservato nulla delle testimonianze che accompagnarono per secoli le precedenti costruzioni. Abbiamo però, e la stiamo ricostruendo, una storia parallela, in altre parole la cronaca di come si mantengono e si alimentano i fondi per continuare questo tipo di ambizioni. Dalla parte del lignaggio maschile invece, non vi sono solo eventi piacevoli. Nel 1634 muore Giovanni Nicola, il terzogenito, a soli diciannove anni. Nel 1638 è un anno di gioia, poiché si celebrano le nozze di Giovanni Andrea II con Gioia Gavardo, del fu Niccolò. Matrimonio molto importante, poiché è da qui che si ha la discendenza dei Contesini Ettoreo, e non solo. Da questo matrimonio nascono due figlie: Franceschina che sposa Andrea Contesini Ettoreo appunto, e Susana, forse monaca Nezza, la quale da inizio alla lunga controversia. Nello stesso anno, un mese più tardi, il ceppo maschile subisce un altro duro colpo: muore Colmano, monaco Cassinese. Caterina dai suoi avi ereditò la praticità e l’arguzia. Volendo ottemperare alle ultime volontà del marito, ma non sapendo come fare, scelse di affidarsi alla fortuna. Scelse la sorte, divise in parti uguali sia i beni terreni che materiali; compilò tre bollettini e li mise in un capello. La posta era alta, molto desiderata erano la casa Vergeria e, naturalmente, i possedimenti in Valle d’Oltra. Fece scegliere prima al più giovane, quel figlio nato dopo la morte dell’amato marito: Girolamo. Toccò poi a Carlo e infine, al primogenito: Giovanni Andrea II. A tutti sembrò una buona idea, soprattutto alla discendenza maschile. Ciò che non andò in dote, fu equamente diviso. Le cose cominciano a complicarsi con la morte di Giovanni Andrea II, padre di Suor Nezza. Siamo nel 1659 e, purtroppo, non fece in tempo a redigere il testamento. “In mancanza di figli maschi il tutto vada equamente distribuito alle figlie femmine”; vi è però una postilla: per far si che la Val d’Oltra rimanga in famiglia, si cerca di non dividere il possedimento tra i vari famigliari. Per le figlie vale la regola di ottenere beni in proporzione al valore dei terreni. Suor Nezza (cioè Susana Vergerio Gavardo) sarà estromessa e continuerà a sostenere le proprie ragioni fino all’ultimo. Lotta che poi sarà consegnata alle generazioni future, ai nipoti Tommaso, Giovanni Andrea e Lelio Contesini Ettoreo. Dopo la morte di Caterina i rapporti s’inasprirono. Giovanni Andrea II (padre di Suor Nezza) morì improvvisamente nel 1659, senza lasciare testamento. Caterina vergò il proprio nel 1668, ma non morì subito. Condivise le pene terrene con i propri figli ancora per quattro anni. Li lasciò alla veneranda – e invidiabile per i tempi – età di ottantaquattro anni. Lasciò tutto, poiché era usufruttuaria di tutti i beni del defunto marito, ai soli figli maschi. Alle proprie figlie non lasciò che ricordi. Con la specifica che alla nipote Suor Nezza, dopo aver avuto i 300 Ducati (e tanti stabili in valore caso mai mancassero contanti) “non debba haver altro”. Le pretese di Suor Nezza cominciarono proprio dopo il testamento, anzi, dopo la morte della nonna Caterina, avvenuta nel 1672. Questa, infatti, non aveva lasciato quasi nulla alle due nipoti. Fatto che fu inteso come ingiusto, per porvi rimedio però, Suor Nezza cominciò una lunga contestazione per veder rispettate le proprie ragioni e i diritti circa l’eredità del padre. La disputa generazionale ruota attorno alla decisione del buon Giovanni Andrea I Vergerio (decisione espressa nel suo testamento del 1562), che tutta la Valle d’Oltra restasse nella casa e famiglia dei Vergerio. Questa decisione abbastanza semplice fu complicata dal testamento di Gerolamo Vergerio (erede di maggioranza del lascito dello zio Giovanni Andrea I). Voleva che tutti, figli e figlie, avessero qualcosa. Morto il primogenito nel 1659 (Giovanni Andrea II ereditò la primogenitura dopo la morte di Colmano – padre Comodo, deceduto nel 1638), il secondogenito Giovanni Nicola morì nel lontano 1634, gli unici rimasti in vita erano Carlo e Girolamo. Così, in base alla sentenza del 3 novembre 1672 e 29 La città in base ai mandati per il possesso (del 29.5 e 14.7. 1672), tale patrimonio andò proprio ai fratelli sopravissuti alla sorte: Carlo e Girolamo. Essendo morto senza testamento il padre di Suor Nezza, Giovanni Andrea II, essa tenta di appellarsi alle ragioni contenute nella divisione dei possedimenti fatta da Caterina nel 1641. Si doveva, infatti, dividere tutti i possedimenti, anzi, la Val d’Oltra in eque parti tra i tre fratelli. Morendo Giovanni Andrea II, il maggiore dei tre ancora in vita, e senza figli maschi, la sua eredità spettava di diritto a Suor Nezza. La condizione espressa nel testamento prevedeva anche i casi in cui a uno dei figli non nascono eredi maschi - ma anche un eventuale decesso- in questo caso la porzione del parente deceduto senza figli maschi, deve ritornare ai viventi. Alle eredi vada, invece, “egual porzione di eredità espressa però in valore, non in terreni”. Non avendo alcun testamento, Suor Nezza si appellava anche alla bontà degli zii, poiché i proventi dei coloni siti nelle saline, sono per lei unico sostentamento. Toltole ciò, non le rimarrebbe di che mantenersi, essendosi la sorella maggiore maritata con Andrea Contesini Ettoreo, lei doveva provvedere da sola al proprio mantenimento, oppure a non perdere la dote per la monacatura. A questa sua disperata e accorata richiesta risponde lo zio, il capitano Carlo, il quale le cede alcuni terreni. Questo dono nasconde un inganno. I terreni in questione sono un campo in Villa san Piero (Sveti Peter) e uno a Carcase (Krkavče) nonché un campetto nel distretto della città. A ben guardare però, si scoprì che questi fondi erano carichi di tasse arretrate. Nuovamente senza soldi, Suor Nezza coraggiosamente impugnò l’ennesima sentenza e chiese una perizia sui beni in Val d’Oltra, poiché in base al testamento del bis nonno questi le appartenevano; ma anche in base alla divisione di Caterina nel 1641. Per far si che il tutto sia imparziale, richiede un terzo perito. 30 Nel 1673 sembra che la vicenda sia conclusa. Susana ottiene quanto chiesto, compreso un terzo della casa Vergeria e una piccola rendita da pagarsi in dieci anni. Ben presto le circostanze sarebbero cambiate. Nei primi giorni del mese di luglio 1676, zio Carlo detta le sue ultime volontà. Cosa mai potrà cambiare per una delle discendenti del ceppo maschile, nulla? Oppure tutto? Capitan Carlo designa come eredi il fratello Girolamo e i figli maschi legittimi. Come al solito, in mancanza di questi tutto vada alle figlie; mancando la prole, ed è qui che abbiamo il primo grande colpo di scena, l’eredità va alle sorelle Paula (la primogenita Susana è già passata a miglior vita), Elena e Felice! Ovvero, al ceppo femminile. E non solo, morte loro, tutto va agli eredi maschi di Susana, Paula Elena e Felice, cioè alle casate Grisoni, Brutti, Petronio e Zarotti in “egual porzione”. Sembra che tutto debba essere nuovamente messo in discussione. Così non é. Forse, non ne ho la certezza assoluta, forse Suor Nezza non era a conoscenza di queste particolari clausole testamentarie, e magari del testamento in particolare. Ennesima sorpresa, alcuni mesi dopo le ultime volontà di Carlo, lo zio Girolamo propone un accordo di transazione dei beni a favore di Suor Nezza. Si tratta della conferma di tutte le spettanze dovutele. Non ci sono altre notizie intorno a questo fatto, si potrebbe supporre un tentato riappacificamento prima di incontrare gli avi? Oppure lo zio, dopo il rifiuto dei Vergerio di Verona a trasferirsi a Capodistria, cercava una madre surrogata del figlio adottivo? Peccato per Suor Nezza che questo figlio morirà molto presto, nel 1678. Fatto sta che firmano, accettano e fanno si che la discussione finisca amichevolmente. Senza trabocchetti o tranelli, Suor Nezza finalmente può dirsi soddisfatta. Per lunghi anni ha cercato giustizia e ora, finalmente, l’ha ottenuta. La sentenza diventa legge, nel marzo 1688, segue un’“apprensione esecutiva” con cui si pone la parola “fine” alla faccenda. Le è riconosciuto, in toto, ciò che fu già sentenziato e deliberato anni prima. A questo punto però, bisogna ricordarsi del ramo “femminile” della genealogia, il quale ebbe figli maschi. Ci ritorna allora utile consultare le ultime volontà dell’ultimo Vergerio maschio, Girolamo, testamento scritto nel dicembre del 1678. Dottore a Padova, non ebbe figli, però decise di adottarne uno. Non solo, decise anche che tutto ciò che ereditò, come ultimo discendente maschio, trascorsi 20 anni dalla sua morte, vada tutto alla primogenitura! Sono passati meno di due anni dall’accordo stipulato e che chiuse questa lunga disputa avuta con Suor Nezza (unica erede, insieme alla sorella, del ramo maschile). Da buon genitore pensò al futuro del proprio figlio, desiderava assicurargli almeno alcuni decenni di vita agiata. Lo avrebbero aiutato a crescere alcuni amici, con il prezioso aiuto di Valerio Vergerio. Con questa indicazione, abbiamo la conferma dell’esistenza, poiché confermata dal testatore, di un ramo Vergerio anche a Verona. Quest’ultimo è stato incluso nel testamento, a patto però che si trasferisca, con la famiglia tutta, a Capodistria. Cosa che non fece. Essendo il ramo maschile dei Vergerio morto, cioè, essendoci solo discendenti di genere femminile, Franceschina e Susana – Suor Nezza, volendo forse rispettare le volontà del padre, prese una decisione che diede una nuova svolta a tutta la faccenda. Decise che, la scelta della primogenitura spettasse al destino! Proponendo il gioco fatto dalla madre, scrisse sopra tre fogli, i tre cognomi più importanti: Grisoni, Brutti e Petronio, ossia le sorelle maritate. Omise Zarotti, forse perché non si hanno notizie di nascite da quel nucleo famigliare. Il primo estratto sarà quello che determinerà, dopo che saranno trascorsi i venti anni, il diritto alla primogenitura e, di conseguenza, ad avere La città tutto. Nominò poi i commissari: Santo Grisoni, Antonio Brutti e Francesco Petronio (i nipoti, figli delle sue sorelle). La situazione di Suor Nezza è, un’altra volta, gravemente compromessa. Ex novo dovrà dimostrare la legalità e la legittimità della sua eredità poiché i tre nipoti si appellano e chiedono di rivalutare il punto del testamento della nonna Caterina in cui la precedenza dell’asse ereditario spetta ai soli figli maschi. Forti di ciò, cominciano una nuova serie di udienze e appelli. Un primo durissimo colpo alle certezze di Susana è la conversione in legge del punto del testamento di Caterina dove, come detto sopra, si da precedenza ai figli maschi. Quasi ogni mese del 1688 è rappresentato o da una scrittura dei Commissari testamentari o da una risposta di Susana. Vi è un fluire di ricorsi e appelli. Se Gabriel Venier, podestà di Capodistria il 17 luglio intima ai cugini di consegnare l’eredità; il 22 luglio i cugini rispondono asserendo che, “gli atti che comprovano la legittimità di Suor Nezza, sono disordinati e impropri, ecco perché si ritiene indispensabile impostare una nuova causa”. L’alternativa è rappresentata dal “taglio” (eliminazione) degli atti datati 17 e 23 marzo. Guarda caso, proprio quelli che confermano e concedono a Suor Nezza un terzo della casa. Il secondo atto è rappresentato dal ricorso contro quella transazione fatta dallo zio nel 1676. Mentre si può ritenere un gesto furbo quest’ammissione parziale, in altre parole: le concedono un terzo dell’eredità, dalla quale però vanno detratte diverse spese, ma soprattutto, mettono in discussione la dote della nonna Caterina. Questo punto diventerà il nuovo centro della discussione. La dote della nonna, doveva rimanere separata dai beni del marito, oppure doveva sommarsi? Se diventava parte del lascito, allora, l’un terzo di tutto comprendeva anche i campi in Risano, campo in Sermino, ottocento ducati (controvalore in immobili) come riconoscimento per aver maritato le figliole. Detrazioni che diminuiscono di molto ciò che sembrava appartenere a Suor Nezza. IL nove marzo 1689 compare, per la prima volta, il nome di Alvise Contesini, il quale sostituisce la prozia, suor Nezza. Un utile fonte per capire l’entità di questo lascito, sono i vari conteggi fatti dalle due parti. Conti che, naturalmente, differiscono non di poco. Il litigio sembra non aver fine, poiché il Podestà continuò a dar ragione a Suor Nezza, i nipoti continuarono nell’insistere. L’ultimo documento, infatti, quello datato 12 marzo 1689, addirittura “licenzia” gli avversari dalla detrazione della dote della nonna (si tratta di 3.500 Ducati). L’aver un avvocato in famiglia significa poter portare avanti una causa persa. I Grisoni non si sono fermati di fronte a nulla. Piovono appelli sino al 1690, almeno sino a luglio di quell’anno. Suor Nezza, infatti, dopo “sessantotto anni di sospiri e dopo nuove dilazioni concesse ai cugini circa i pagamenti inerenti l’eredità, e per assicurarsi la quiete dopo un così costoso raggiro”, chiede la sospensione della vertenza con un accordo. La parte avversa non accetta, anzi, rincara e rende ancor più amaro il tutto, affermando che è Suor Nezza che indebitamente insiste nel voler quello che non è giusto e che non le spetta. Considerano l’ultima scrittura piena d’inutili e vane espressioni, “onde alla medesima si protesta di nullità”. Il contenzioso continua. Inutilmente Suor Nezza protesta contro le “vane, inutili e artificiose espressioni fatte nell’ultima scrittura prodotta”. Soprattutto quelle concernenti la seconda parte del punto quattro: la detrazione della dote della nonna Caterina. Suor Nezza è stanca e stufa. I cugini, capeggiati dall’avvocato Francesco Grisoni, non mostrano segni di cedimento. Commuove l’ultima riga dell’ennesimo documento scritto da Suor Nezza: “cessino, dunque, i signori eredi e commissari testamentari di maggiormente strusciar detta povera signora, ch’è pure dello stesso sangue, e acquietino a giudizi già seguiti a di lei favore, rinunciando all’appello, onde possa la medesima ottenere ciò che le spetta di diritto”. Parole dure e sincere che forse colpiscono e smuovono i sentimenti degli’avidi cugini. Sembra proprio di sì. L’atto seguente è un testamento, si tratta delle ultime volontà di Suor Nezza. Sono passati ben diciassette anni senza litigi o comunicazioni bellicose. Circa sei mesi più tardi, anche Suor Nezza cessa di vivere. Stanca e affaticata da anni di lotte, si spegne la sera del ventisette giugno 1709. Non si sa bene perché, ma l’anno 1715 è l’anno in cui la lotta si riaccende. Vi è l’”Assunzione in giudizio” degli eredi di Suor Nezza. Anzi, è Andrea (in verità il suo nome completo è Giovanni Andrea, ma potrebbe generare confusione, si è deciso di usare solo il secondo nome) Contesini Ettoreo che ricomincia tutto d’accapo; come procuratore e in nome di Tommaso, Lelio Arciprete - i suoi fratelli - e in nome di Giovanni Tarsia (consorte della sorella Angela), Domenico Belgramoni (consorte della sorella Gioia) e di Giacomo Tarsia (consorte della sorella Chiara). E qui scopriamo perché il tutto ricomincia. Le spettanze dovute a Suor Nezza, non sono mai state liquidate! I Grisoni non hanno mai adempiuto a ciò che la legge ha imposto: saldare l’eredità Vergerio. L’origine della casata Contesini Ettoreo si ritiene sia molto lontana, risalente ai tempi delle lotte tra guelfi e ghibellini. Proprio nel tempo delle fazioni pro papato o pro imperatore, questa famiglia trovò un pacifico e sicuro asilo nella città di Portogruaro. Nel 1550 un discendente si trasferì a Isola d’Istria (Izola), dove morì nel 1610, lasciando una numerosa prole avuta da tre mogli, l’ultima delle quali fu una de’ Moratti. La loro posizione crebbe con l’eredità fatta nel 1665, quando si estinse la famiglia Ettoreo. Ciò risulterebbe anche dal contratto di matrimonio 31 La città stipulato nel 1711 fra il nobile Giacomo Tarsia da Capodistria e la nobile Chiara ContesiniEttoreo. Come da stemma allegato … I Tarsia, invece, famiglia importantissima in quanto diede alla Repubblica Veneta due dragomanni e undici capitani, nonché venti sindaci alla comunità Capodistriana. Questo poteva forse favorire questa contesa? Poteva forse il ceppo femminile contare sulla fortuna generata da una serie favorevole di circostanze/ matrimoni? Due sorelle che si sposano con due fratelli Tarsia. La sorella di mezzo, invece, si sposa con Domenico Belgramoni. Altra importantissima e antichissima famiglia nobile Capodistriana, e si spera, molto influente. Per palesare i legami tra tutte queste famiglie, diamo notizia delle varie parentele, in modo superficiale: Vergerio appunto, Gavardo, Brutti, Tarsia, Contesini e, in un ramo del nostro albero molto recente, anche Verzi e Morosini. Questa contesa ormai è diventata una disputa generazionale che coinvolge tutta la città. È la vera eredità che la zia ha lasciato ai nipoti. Almeno dalla parte dei Vergerio. In questi anni, mentre il casato Grisoni è impegnato a Daila, abbiamo qui il rappresentante del ceppo femminile della discendenza Vergerio, Francesco Grisoni. L’ennesimo. In questa famiglia vi son due nomi comuni e che si ripresentano ciclicamente: Santo e Francesco. Quando non compare un Santo di Francesco, abbiamo Francesco di Santo. A noi basta sapere che nell’anno 1715, quando il podestà era un certo Marco Magno, al foro di Capodistria vi era l’avvocato Francesco Grisoni. Accanto a questo incarico, ricopriva anche la carica di sindaco della nostra città. In previsione di un contenzioso molto difficile, che durava già da circa sessantacinque anni, i Contesini Ettoreo fornirono un esatto calcolo e stima di tutto il patrimonio del bis nonno, Girolamo Vergerio. Qui la disputa assume un tono nuovo: non si contesta semplicemente la terza 32 parte dell’eredità del bis nonno, ma i Grisoni contestano la legittimità del passaggio della dote della bis nonna all’asse ereditario. Si tratta di quei famosi 3.500 Ducati, più le Saline di Sermino, i possedimenti in Valle d’Oltra, il Mulino, il magazzino in piazza da Ponte e la casa. Un ammontare considerevole, che poteva cambiare le sorti e gli equilibri, non solo di queste due famiglie, ma della città tutta. Nel settembre del 1715, un foglio appare solitario su un muro. Quasi a non dover essere visto. Di solito, lanciamo una stanca occhiata agli avvisi così posti. Ma questo è diverso. Si tratta di un richiamo di comparizione per appellarsi a una decisione, entro il termine di otto giorni. Infatti, non è stato notato. Francesco Grisoni, grazie a questo ingannevole espediente si è assicurato il passaggio della dote di Caterina al proprio asse ereditario! Possono continuare i cugini a fare i conti, ma i giochi sono ormai chiusi. Se questa sentenza diventa legge, il ceppo femminile della famiglia Vergerio, non può più pretendere nulla. Convinto di essere nel giusto, Francesco Grisoni ripercorre le tappe della vicenda e afferma che Suor Nezza si è impossessata dei beni, dal valore di un terzo, in maggior quantità rispetto a quello che le competeva. Non solo, nel 1690 ha esteso le sue ingiuste spettanze sopra i beni dotali di Caterina Vergerio, della quale non era erede. E ora, i “coraggiosi successori della medesima, suscitano dopo lungo tratto di tempo la derelitta e ingiusta pretesa. Non può servirgli di alcun appoggio il fallace e illusorio calcolo prodotto”. Soprattutto dopo che la sentenza, circa la dote di Caterina, è divenuta legge. Stando così le cose, “gli avversari cesseranno le nuove e ingiuste contese, altrimenti seguirà l’appello alla sentenza del 1690 in tutti i suoi punti”, non solo quelli riguardanti il terzo dell’eredità. Considerati stravaganti, agli occhi dei Grisoni, gli atti e i calcoli forniti e volutamente intesi come una disperata continuazione delle intenzioni che furono già della loro zia. Sono definiti “chimerizzati” e la loro costanza è reputata come un “ostinato stancheggio”. I Contesini Ettoreo rispondono con un garbato “artifici mendicati” dalla disperazione e confermano i propri calcoli, come aderenti alla realtà. Suppongo, vista la documentazione, che quest’ultima asserzione abbia scatenato le ire di Francesco Grisoni. Segue una convulsa e frenetica ricerca di documenti comprovanti le varie proprietà nonché crediti, debiti riscossi, “livelli” (affitti) e contratti. Avvocato di grande arguzia, aiutandosi un po’ con la propria posizione, Francesco ottiene molto. L’asse ereditario è ridiscusso: i possedimenti di Valle d’Oltra vanno ammessi per il loro intero valore; anche la torre portata in dote da Caterina riappare come sostanza da dividersi; così anche i crediti fatti al tempo in cui il bis nonno era ancora vivo e riscossi dalla moglie dopo la sua morte; bisogna rifare l’inventario dei mobili e questi, poi, vanno decurtati dal credito spettante a Suor Nezza. Gli eredi Contesini Ettoreo ottengono solo la ritrattazione della dote, che a questo punto è ridotta circa 800 ducati. Dalla stessa sono state tolte le somme date in dote alle figlie … Non pago di una vittoria così importante, forse sempre sentendosi dalla parte del giusto, Francesco impone un altro controllo: quello delle spese sostenute dalla bis nonna dopo la morte del consorte. Non ha omesso nemmeno le spese sostenute per il dottorato di Girolamo Vergerio. Ovvero, rimette in discussione, in sostanza, tutte le sentenze vinte da Suor Nezza! Prima che si potessero organizzare con una nuova causa o linea difensiva, la sentenza diventa legge, grazie alla decisione del Podestà Francesco Battaglia. E i giochi sembrano chiusi per sempre. Scavando fra le vecchie carte, forse si sarà ricordato anche di un’altra cosa: sua nonna, quella Susana che sposò Francesco Grisoni nel lontano 1676, era la primogenita di Gerolamo. Questo gli diede La città una nuova idea per una nuova linea d’appello. Significa che in base alla clausola contenuta nel testamento di Giovanni Andrea I, stilato nel 1562, la linea di discendenza con priorità è quella con prole di genere maschile. Si prospetta un nuovo appello. Purtroppo, la documentazione per i seguenti due anni, è lacunosa. Non vi sono notizie. Compare solo un giuramento di un certo Alvise Orsini come difensore della causa Contesini Ettoreo contro Grisoni; a seguito della morte fratelli. In una giornata qualsiasi, nel mese di maggio, Muore Marianna Contesini Ettoreo; la pro pro nipote di Gerolamo e Caterina Gravisi. La data? L’anno? Siamo nel 1780. Sono passati due secoli, e la lunga faida non ha ancora termine. Segna solo l’ultima vittima, ma non in seguito a congiure, ma di vecchiaia! Questa è l’ultima notizia che il libro ci consegna. Non la fine della vicenda, ma l’ultimo decesso. Marianna era l’ultima dei tre figli di Tommaso, già nipote di quella Susana Gavardo – Suor Nezza - che alla lotta dette inizio. La famiglia Gavardo entra a far parte di quella dei Vergerio, tramite matrimonio. Nel 1638 Giovanni Andrea sposa Gioia Gavardo, del fu Nicolò. Questa nobile e illustre famiglia ebbe le signorie di S. Pietro o Carcase (Krkavče) nel 1210 dal Patriarca Volchero (questa signoria passò in seguito ai Vittori, altra famiglia imparentata), di Merischie (Merišče) con Oscursus (Skorušica) dal secolo XV al 1828, di Castelnuovo del Carso (Podgrad) dal 1463 (che nel 1521 passò all’Austria). Nel secolo XVII i Gavardo possedevano anche le ville di Zabavlje e Laura (Labor). Questa stirpe gloriosa diede molti e illustri guerrieri e letterati. Un Gavardo era nel 1454 Vicedomio del Comune di Capodistria, un’alleanza molto importante. Questa celebre famiglia si divise nel XIV secolo in due rami: il primo si estinse nel secolo XIX con la nascita di due figlie; un secondo è tuttora fiorente a Trieste. Contrassero parentela con i conti Tacco, conti Bruti, conti Borisi, marchesi Gravisi, conti Tarsia ma anche con i Vergerio. E in fine troviamo anche un Alessandrone Gavardo (a distinzione causa continua ripetizione di questo nome nei vari rami) giureconsulto nelle materie criminali ed eloquente oratore. Ritiratosi a Sanvincenti, dopo esserne stato, per anni capitano e giudice e in seguito anche a Venezia; dove, però lo troviamo a convivere con i fratelli Morosini, i di lui cugini. Questo fatto diventa importante quando leggiamo il testamento dell’Alessandrone; vediamo, infatti, che lascia, in via di legati, ai tre fratelli Morosini, tutti le di lui facoltà esistenti nelle Province di Venezia, Padova, Treviso e Capodistria. Compare la famiglia Morosini, la stessa che entrerà nella genealogia del Vergerio per matrimonio nell’ultimo ramo descritto nel libro. L’importanza di questo legame risiede anche nelle vicende della famiglia Gavardo, la quale, nel corso dei secoli, ebbe a soffrire anche difficoltà materiali, infatti, nel 1655 è concesso agli eredi, “per meriti e per la qualità di quest’antico casato che possono annoverarsi tra i più ragguardevoli, sei ducati il mese”. Essendosi trovati i supersiti in tristi condizioni, si decreta di accordar loro un aiuto, in modo che possano dedicarsi con più zelo al servizio della Repubblica. Forse sono proprio queste precarie condizioni che inducono la Suor Nezza (figlia di Giovanni Andrea II Vergerio e di Gioia Gavardo) a impugnare il testamento del bis nonno Giovanni Andrea I Vergerio. Quello in cui tutte le proprietà vadano, in mancanza di figli maschi, equamente distribuite alle figlie femmine. Prima di chiudersi la copertina ci lascia un ultimo segreto: un foglietto con alcune note. Ho visionato circa 120 documenti, tra sentenze e verdetti. Un po’ in latino e un po’ in lingua italiana settecentesca. A un certo punto, molte cose sono state omesse, ma una riga con un tono maligno, più delle altre, mi è rimasta impressa. Non le ho dato bado, perché mi sembrava solo una semplice accusa nei confronti della già stremata suor Nezza emanata dal solito Grisoni. Queste poche parole, press’a poco, erano queste: “la somma degli averi dovrebbe essere questa, tolto ciò che è stato celato”. Cosa mai poteva nascondere la povera suor Nezza? Riavvolgiamo i fogli e, nel conteggio dei mobili ereditati da Suor Nezza troviamo la seguente descrizione: un forcier coperto di pelle. Apparentemente nulla da aggiungere. Guardando con sospetto i conteggi fatti dagli eredi, I Contesini Ettoreo, vediamo che dalla somma totale del capitale sono spariti circa 850 ducati e il forcier non appare più … Appare però questo foglietto con una nota, scritta da Pietro Gavardo (zio di parte materna di Suor Nezza), in cui elenca i danari che si trovano nello scrigno: zecchini, ongari, ducati d’oro e scudi d’argento, ducati veneziani con un sacchetto di moneta grossa e uno di moneta diversa. Un capitale di lire 5.312, ovvero danari 856 Lire 4 e 16 quarti. Ed è proprio la somma che entrambe le famiglie si contestavano, anzi, tra le molte cose, si accusavano a vicenda di aver occultato. Se sapessimo, con assoluta certezza che Suor Nezza fu davvero suora e in quale convento dedicò la sua vita e le sue preghiere al Signore, forse potremmo anche noi ringraziarla di qualcosa? Stemma dei Vergerio-disegno di A. Cherini. 33 La città La CI di Crevatini a San Ginesio E’ proprio in questo paese, sorto a cavallo tra il X el l’XI secolo sul colle Esculano nelle Marche, che la Comunita’ degli Italiani di Crevatini ha, nel fine settimana di ferragosto, organizzato una visita alla scoperta delle bellezze, uniche, che questo borgo e alcuni altri paesi limitrofi offrono. La panoramica comincia proprio con la visita di San Ginesio, borgo caratterizzato, nella costruzione dei propri edifici medievali, dal giallo oro della pietra arenaria che grazie allo sfondo dei monti Sibillini propone uno spettacolo unico. Il passato forte di questo insediamento si riconosce immediatamente appena se ne intravede l’entrata attraverso Porta Picena, una delle entrate che assieme alle mura del castello, erano in passato indispensabili alla difesa dagli attacchi dei popoli vicini. Assieme alle altre attrative come l’Ospedale dei pellegrini di San Paolo, il teatro Giacomo Leopardi e la Pinacoteca Scipione Gentili, troviamo la Chiesa degli Agostiniani, frequentata da San Nicola da Tolentino, nella quale e’ conservato uno dei quattro organi piu’ antichi d’Europa ( 1530). Posso definire, senza dubbio, questo paese come piccolo gioiello di storia e cultura. San Ginesio e’ stato la nostra casa per questo breve periodo di permanenza, durante il quale la comitiva ha visitato altri punti di interesse nei comuni limitrofi. Di particolare rilievo ricorderemo la visita, nel comune di Tolentino, alla Basilica di San Nicola da Tolentino. Risalendo dalla parte bassa, verso la piazza centrale, si presenta la seconda immagine caratterizzante il paese. Si tratta della Collegiata,ovvero la chiesa principale risalente al 1098, la cui facciata si accende di rosso al tramonto. In questo scenario troviamo una presenza che tiene sempre compagnia ai Sanginesini. E’ la statua di Alberico Gentili, in ricordo del figlio piu’ famoso di San Ginesio, autore questo del primo trattato sistematico del »diritto delle genti«, base per la nascita del moderno diritto internazionale. 34 La città Di origine tardoduecentesca in stile gotico a navata unica, caratterizzata dal soffitto ligneo a lacunari cassettonati, il cui riflesso aureo rende unica la suggestione. Basilica che tra le altre particolarita’ ospita Il museo degli Ex Voto il quale raccoglie 378 tavolette votive, di cui alcune della fine del Quattrocento, che testimoniano la devozione per San Nicola. Inoltre il museo del Presepio artistico presenta una raccolta proveniente da ogni parte del mondo e attraverso varie ambientazioni ripercorre gli episodi più importanti del Vangelo. Altro sito di interesse, sempre nel comune di Tolentino e’ stato il Castello della Rancia ( dal francese “grange” ovvero fienile, in quanto veniva utilizzata dai monaci cistercensi come deposito di derrate alimentari). Si tratta di un castello, di forma quadrangolare, composto da una cinta merlata. Famoso per la battaglia della Rancia del 1815 fra l’esercito austriaco comandato dal generale Bianchi e Gioacchino Murat, re di Napoli, che tentava di unificare l’Italia. dimorarono nelle stanze che oggi sono aperte al pubblico pur essendo sempre di proprieta’ della casata Pallotta. Stanze nelle quali gli arredi e ogni altro dettaglio, sono collocati nel proprio contesto originale. Con questo ultimo ricordo concludo questa breve e incompleta descrizione delle attrattive di queste terre, volendo rimandare il seguito, magari, ad una successiva visita. E’ di dovere ringraziare il Comune di San Ginesio per l’accoglienza, nella persona della cittadinanza e nella persona del Sindaco e dei Consiglieri che hanno voluto, alla fine della nostra permanenza, salutarci personalmente con l’augurio di rivederci in un futuro non molto lontano. Roberto Bonifacio Avvenimento che fu definito da molti la prima battaglia per l’indipendenza italiana. Come ultimo punto di questo breve diario voglio ricordare il comune di Caldarola e precisamente la visita del Castello Pallotta. Modificato verso la fine del ‘500 quando il Cardinale Evangelista Pallotta volle trasformarlo in modo da adibirlo a propria residenza estiva. Questo al fine di testimoniare il prestigio del casato e i legami con la curia romana ed il mondo artistico. Ospiti importanti come il pontefice Clemente VIII e la regina Cristina di Svezia Crevatini ha ospitato la 39.ma edizione del Festival della Canzone per l'infanzia »Voci Nostre«. Ha vinto il trio di Verteneglio composto da Erika Paoletić, Elica Starčević e Petra Grace Zoppolato (Foto Belvedere). 35 La città BERTOCCHI: VIII INCONTRO DELLE TRE REGIONI Anche quest’anno la CI di Bertocchi ha organizzato, nel mese di novembre, l’Incontro delle tre regioni, giunto ormai all’ottava edizione. Questa manifestazione è nata col desiderio di unire realtà artistiche sia della minoranze sia della maggioranza, provenienti dalla Slovenia, dall’Italia e dalla Croazia. Il Focolare – Trieste Come tutti gli anni, ha preso parte all’evento il Coro Brnistra-Ginestra, patrocinato proprio dalla CI di Bertocchi. Il coro ha proposto sia canti italiani sia sloveni. Il coro è stato diretto da Eliana Humar la quale, al momento, sostituisce Marko Kocjančič, dirigente del coro fin dalla sua nascita. La CI di Bertocchi ha avuto il piacere di ospitare, per la prima volta, anche la filodrammatica della CI di Castelvenere. Il gruppo, composto da membri dai 10 ai 50 anni, ha proposto un divertentissimo sketch intitolato “Una giornada quasi normale”, scritto e diretto dalla mentore della filodrammatica, Tamara Tomasich. Si è esibito per la prima volta sul palco di Bertocchi, anche il gruppo di canto spontaneo popolare “La Porporela” che opera in ambito della CI Santorio Santorio di Capodistria. CI Castelvenere “La Porporela” ha proposto pezzi della tradizione popolare istriana. Il gruppo che si è esibito successivamente è stata l’Associazione giovanile, creativa e culturale Sveti Anton, fondata nel 2009 nell’ambito della parrocchia di S. Antonio. Il gruppo, composto da giovani, ha proposto un divertente sketch intitolato “Šjora Karlina”, scritto da Nelda Štok Vojska nel dialetto di Maresego. Il testo è stato adattato dai membri del gruppo alla parlata del loro paese. L’ultimo a salire sul palco è stato l’Ensemble Vocale femminile “Il Focolare” di Trieste, nato nel 2000. Il coro è diretto, fin dal suo inizio, da Giampaolo Sion. Il coro ha proposto, con successo, un repertorio di pezzi triestini, friulani ed italiani. Anche quest’anno l’evento ha attirato un gran numero di persone che hanno seguito con entusiasmo le esibizioni artistiche dei vari gruppi, quattro dei quali hanno varcato il palco di Bertocchi per la prima volta. Un invito a tutti i lettori a venire alla nona edizione dell’evento il prossimo anno, sperando che sarà anche questa un successo. MKUD Sveti Anton 36 La città In collaborazione tra la »Vergerio« e la CI è stato avviato un corso di cucina per alunni delle elementari. Nella foto Mariella Zanco Tavernise prepara dei biscotti. Capodistria al Concorso Istria Nobilissima 2010. Primo premio: Manuel Šavron (foto) per »Esecuzione vocale o strumentale«. Secondi premi: Valentina Vatovec nella categoria »Poesia-giovani« con la raccolta »Vari«, Peter Lešnik nella sezione »Saggi di argomento letterario« per »Platee trionfanti e palcoscenici roventi«. Menzioni onorevoli: Claudio Geissa nella sezione »Poesia in lingua italiana« per la silloge »In smemoriam«, Edda Viler nella sezione »Video e televisione« per il lavoro »Mentine«. Premi giornalistici: Elio Radeticchio di Tv Capodistria, e la Redazione italiana di Radio Capodistria. Foto Primožič-FPA Il 29 ottobre è stato inaugurato il nuovo stadio di Capodistria. Munito di impianto di illuminazione, il complesso ha acquisito gradinate con 4190 posti a sedere di cui 3000 al coperto. Il 27 ottobre si è svolta l’Assemblea dell’Associazione di amicizia fra gli abitanti delle regioni confinanti. Nella foto alcuni dei partecipanti – rappresentanti di varie sigle sindacali slovene e italiane – in Piassal de Derin. »Capodistria in immagini, storie e musica« è un progetto multimediale sostenuto dalla CI. Musiche di Marino Kranjac e Dario Marušić, lettura di Alberto Cernaz e Kristina Menih. Un'ora di programma al ridotto del teatro comunale con la lettura di brani sulla storia, la pesca, l'agricoltura, i personaggi e le tradizioni della nostra città. Intercalate da brani suonati dal vivo e corredate da immagini proiettate, sono state interpretate liriche di Edda Vergerio, Gavardo, Cherini, Manzini, Muzio e un brano tratto dal »Sileno« di Girolamo Vida. 37 La città Compie dieci anni il Gruppo lavori creativi, guidato da Biserka Forlani. Tecniche usate: patchwork senza ago, decupage e fiori di vari materiali. Attualmente è frequentato da nove membri. Ogni venerdì alle 17.30. Primo dicembre. Concerto in Comunità della blues band »Mississipi heat« di Chicago, organizzato e trasmesso in diretta dai programmi italiano e sloveno di Radio Koper-Capodistria. Presso la sezione italiana della Biblioteca civica è stato presentato il volume »Le perle del nostro dialetto«. Nella foto, gli autori Marino Bonifacio e Ondina Lusa, con l'illustratrice Fulvia Zudič. Il 30 novembre è stata inaugurata la 26° edizione della Fiera del Libro di Lubiana, che quest’anno ha visto per la seconda volta la partecipazione del Centro Italiano “Carlo Combi” di Capodistria nel ruolo di promotore di pubblicazioni in lingua italiana, bilingui e plurilingui. L’esposizione è stata realizzata in collaborazione con la Libreria Libris di Capodistria e col supporto finaziario del Ministero della cultura della Repubblica di Slovenia. Oltre allo stand nello Cankarjev dom (nella foto, con la capo programma Roberta Vincoletto), il »Combi« ha organizzato anche una manifestazione collaterale: il 2 dicembre il prof. Salvator Žitko ha presentato il documentario sulla Prima Esposizione provinciale istriana. Per l'occasione è stata allestita anche un'escursione per 50 allievi dei Ginnasi »Carli« di Capodistria e »Sema« di Pirano, con tappe al Parlamento e alla Fiera del libro. Otto secoli fa nasceva il Beato Monaldo da Capodistria, insigne giurista francescano, che la CI, assieme al Convento di S. Anna e la Biblioteca centrale nonchè la parrocchia triestina di S. Maria Maggiore, intendono ricordare con una serie di iniziative. Nella foto il portale della chiesa conventuale di S.Anna. 38 La città Il CD de La Porporela Il gruppo di canto spontaneo La Porporela opera da ormai qualche anno con immutato impegno nell’ambito dei gruppi amatoriali della Comunità degli italiani »Santorio Santorio« di Capodistria. Al nucleo storico dei componenti è venuto a mancare proprio il promotore e fondatore di tale progetto, il presidente della Comunità Lino Cernaz, ancora presente durante le registrazioni. Il gruppo La Porporela, unito da un legame comunitario e generazionale che vab en oltre la pratica del canto, continua un suo genuinopercorso musicale che mira innanzitutto alla schiettezza della proposta investendo anche la sfera dell’aggregazione sociale e del mantenimento delle proprie origini e dell’dentità. A coronamento di tale attività giunge ora questa testimonianza sonora, che desideriamo dedicare all’indimenticato Lino. Mario Steffè Il periodo del secondo dopoguerra e in particolare gli anni ‘50, segnarono profondi mutamenti nelle cittadine costiere dell’Istria. L’esodo e la successiva massiccia immigrazione condussero alla radicale trasformazione del contesto nazionale nella sua componente politica, sociale e linguistica: l’Istro-veneto resse come lingua franca, ma la vita culturale della minoranza italiana fu relegata nell’ambito dei Circoli di cultura, segnandone un lento ed inesorabile declino. Una svolta importante fu l’avvento del gruppo musicale Istranova con le proprie ricerche, motivate dal desiderio di salvare un patrimonio in forte crisi, ma anche stimolate dall’esigenza di recuperare una propria identità linguisticoregionale. Successivamente seguirono il solco di questa esperienza anche altri progetti culturali e musicali, con risultati più o meno fortunati. Il gruppo La Porporela, segnato dalla grande passione peri l canto, è nato da un’idea di Lino Cernaz proprio con l’intento di mantenere viva e vitale la tradizione del canto popolare, valorizzando il patrimonio canoro »cavresano«. Da un lato il gruppo si affida alla memoria, cioè a quello che è rimasto tramandato per tradizione orale (vedi »Varda che bel seren«, »Se savessi Giovanin« e »Vado in convento«), dall’altro in forma mediata usufruisce delle fonti annotate da vari ricercatori del passato, servandosi principalmente della raccolta Canti popolari istriani di Giuseppe Radole. Sebbene siano proposte in un’epoca in cui è l’immagine a primeggiare, per cui anche la tradizione tende ad essere considerata principalmente in base a criteri di spettacolarità »televisiva«, le esecuzioni de La Porporela restano fedeli allo spirito del canto popolare, rifuggendo una prospettiva commerciale. Questa concezione disinteressata e non utilitaristica si riflette pure sulla scelta del repertorio che spazia dal prettamente tradizionale al »popolareggiante«, cioè quello che fu il repertorio cittadino capodistriano già alla fine dell’Ottocento. Nonostante la sua tendenza conservatrice nel tramandare i vari fenomeni musicali, soprattutto in ambiente urbano, la musica popolare mantenne comunque una notevole ricettività. Tramite le comunicazioni e il commercio, infatti, si diffondevano i canti che, spesso modificati secondo il proprio gusto, venivano adottati da una certa comunità. Su questa scia La Porporela, sotto la guida artistica di Emil Zonta, rinnova ulteriormente e trasforma questi canti, reinventando vecchi codici di comunicazione, come dovrebbe accadere in ogni processo che sia realmente spontaneo. Il loro merito è principalmente quello di promuovere la cultura del canto spontaneo dalla voce piena e libera, del »cantare insieme«, condividendo l’ormai dimenticato o quantomeno trascurato aspetto delle emozioni che al canto spontaneo affidava la propria quotidianità. Organizzati a livello amatoriale, nel contesto in cui operano e nella sentita esigenza di rafforzare la propria identità istroveneta, sono assolutamente prossimi all’esperienza popolare. Oltre ai canti eseguiti da La Porporela si è voluto includere nel CD altri quattro documenti sonori registrati da Alberto Cernaz a Semedella e Muggia tra il 1997 e il 2002. I quattro brani sono comunque cantati da capodistriani e fanno parte del repertorio canoro della Capodistria di ieri. Dario Marušić 39 La città Adesso ghe volessi che cantemo robe più ‘legre Intervista con i coristi Si chiama Porporela, richiamandosi al nome del principale mandracchio capodistriano, è composto attualmente da sette persone soci della Comunità degli italiani “Santorio Santorio” di Capodistria. Il Coro nasce nel 2008 con il coinvolgimento di persone che hanno sentito la necessità di rispolverare i canti tradizionali di quest’area. Canti che magari una volta si intonavano in osteria, in campagna o anche in chiesa e che con l’esodo del dopoguerra si sono andati perdendo. Ho incontrato due componenti del gruppo vocale – non amano chiamarsi coro, ma Gruppo vocale – Luigi Maier e Mario Gandusio – e il loro dirigente, il ben noto Emil Zonta, non nuovo a esperienze di questo genere in altre zone dell’Istria. Emil Zonta, come nasce l’esperienza con la Porporela? Questo era un mio intento già da molti anni, di formare un gruppo vocale per ridare voce a vecchi motivi capodistriani. Dopo vari tentativi siamo riusciti, ringraziando anche lo scomparso presidente della Comunità Lino Cernaz…anche lui faceva parte di questo gruppo. Lui ci ha aiutato molto, perché certamente questa grande cultura capodistriana se fosse andata dispersa, sarebbe stato un peccato. Ho messo insieme del materiale, abbiamo fatto tante prove e il risultato lo abbiamo inciso su un CD. C’e’ abbastanza materiale scritto a disposizione su cui lavorare? Ho fatto parecchie ricerche anche da solo, ma la fonte principale è costituita senz’altro dall’opera “Canti popolari istriani” di don Giuseppe Radole dove sono annotate diverse villotte. Si tratta di brani popolari antichi che abbiamo imparato insieme, con tanta buona volontà da parte dei coristi. Il CD comincia con “Beviamo gobeti”. E’ un brano che si cantava in periodo di Carnevale, quando i giovani capodistriani si riversavano nelle calli spingendo la sagoma di una donna cantando appunto “Beviamo gobeti”. E’ stato difficile mettere insieme persone, che non hanno esperienze da coristi? Devo ammettere che all’inizio non è stato facile. Ci abbiamo messo tanta buona volontà e con il lavoro i risultati arrivano. Questo CD è il primo documento sonoro, storico capodistriano. Ogni tanto portavo qualche brano nuovo…“nuovo” di qualche secolo fa, per intenderci…e i coristi ci hanno messo l’anima per impararlo e cercare di interpretarlo al meglio. Ripeto, la volontà e soprattutto l’amore per la loro città li 40 ha aiutati. Luigi Maier, detto Gigi Moscamora. Perchè? Perché mio nono cantava la canson de Moscamora. Mio nono Biaseto a Capodistria iera come nonsolo – i lo conosseva duti, Biaseto Moscamora – po’ iera so fardel che stava in Salara, Bepi Moscamora che ga fato rider tuta Capodistria e i monti de Capodistria in giro…a iera una vigneta a iera. E’ stato veramente così difficile cominciare a cantare, come dice Zonta? Iera sì una roba un poco difissilota, perché noi semo oto che se conosseimo che se vemo messo cantar tramite Lino…quanto volte se vemo becà anca co’ lu e col maestro…perché ste vecie canson che ne ga portà le parla solo de morti, no xe gnente de ‘legria; noi pensavamo che canteremo robe alegre… Magari in un secondo momento… Vemo comincià per la verità con altre cansoni, ma vemo anca smesso perché no iera considerade vecie capodistriane. Alora col maestro gavemo comincià a far ste canson vecie del Otosento, difati quele che cantemo ‘desso no le conossi nissun. Dopo che xe morto el nostro caro Lino, se gavemo messo ancora più col cuor. Perché noi quando che cantemo, lo vedemo, lo vemo sempre davanti. Quando che fassevimo quei acuti, no iera miga sempre bel, sa!? Dopo finido, barufete, batibechi… Però ricordo quanto il presidente sforzava perché esca quanto prima il CD…come un presentimento… Mi quela matina che go ciapà la telefonada me xe vignù un colpo al cuor. Lui iera una persona che ogi se becavimo, el giorno dopo se brassavimo. Iera un omo che no sentiva risentimenti, sempre alegro. Iera lu’ che tirava avanti, lu’ iera l’anima de questa Comunità, bisogna dir la verità. Parla con qualsiasi, te sentirà che Lino iera l’anima dela Comunità. Ne manca sai. E proprio per questo noi andremo sempre più avanti, pensando a lui. Gigi, approfitto delle tue origini “paolane” per chiederti, quanto era importante il canto una volta? I paolani quando che i tornava a casa stanchi se trovava ostaria, specialmente la domenega i andava de Rampin e iera la cantada. Ma chi, istrian, no cantava? Tuti ghe piaseva la cantada. Dopo l’esodo, a Trieste… specialmente via Capodistria e de quele parte là… i cantadori capodistriani se trovava. Mio pare, i mii fradei - iera in quatro i Moscamora – tante volte che vigniva a casa, chi che vigniva diseva “Madona! Come che canta sta gente”. Ghe piaseva, iera gente che ghe piaseva cantar e i saveva cantar. C’è anche una canzone popolare che parla del “Canal de Moscamora”, no? In Canal de Moscamora, dove che gavevimo anche noi una campagna. In Salara, in fondo, iera el Canal de Moscamora. Se la ricorda? Poco. Go dito tante volte…mi no go fato, perché no se se rendi conto, quando che se xe giovani che bisognaria prender dute ste robe qua. Mio papà a Capodistria me spiegava tuti i cantoni, tute le pissade che ga fato a Capodistria lu’ le saveva tute. E adesso che ‘l xe morto me ga tanto dispiasso. Sta roba qua no bisogna mai dismentegar. Sto qua xe importante. Tante robe so, però tute quele robe che me gavessi insegnù lu, mai più no le savaremo. E questo qua go sempre un rimorso dentro de mi perchè no lo scoltavo tante volte. Gigi, ma se c’era un coro leggendario a Capodistria, era quello del Duomo, che era comunque composto soprattutto La città da paolani. Il coro della ciesa iera una roba meraviliosa. Anca la gente che no iera credente i vigniva scoltarlo… perché veramente tremava la ciesa; ma no perché i cantava solo forte: i saveva cantar. El coro de Capodistria iera nominado, i podeva andar cantar dove che i voleva. Gente che zappava tutto il giorno… Gente che sapava duto el giorno e po’ se lavava e andava a cantar in Domo. Mario Gandusio: invece la tua famiglia è sempre vissuta nell’immediata periferia di Capodistria. Mi son nato a Villesan e poi son vignù a Semedela. Anche fra i contadini di fuori c’era questa passione per il canto? Sens’altro. I giovanoti de Semedela, San Marco e dintorni…prima de tuto se cantava sui nostri loghi, poi se veniva dimostrar la capacità anche a Capodistria dove se trovava ste companìe, che cantava, che se divertiva. E iera le sfide se fasseva proprio a cantando. Iera un piacere. Mi me lo ricordo perché venivo a scoltarli con piacer, a boca aperta. Iero putel, me fermavo a scoltarli e iera un gusto propio. Per questo me ga preso volia de novo de tornar su ste cansonete vecie, che xe bel scoltarli. Mio amico Gigi, diceva che xe duto cansonete che se piangi, ma una volta se trovava gusto anche queste canzonete a cantarle. E veramente te veniva anche le lagrime ai oci; mi me le ricordo ancora qualchiduna… magari no so tute le parole. Si ricorda qualcuna in particolare? Me ricordo, per esenpio una faceva “Io maledico la prima pietra di quel convento”…che fa pianger. Me la intona? “Io maledisco papà e mama, fratel, sorele. Una di quele mi ha tradì, in quel convento dovrò morir”. Cussì, me par. Zonta, sono melodie che hanno un’anda antica… Ma certi brani si possono far risalire al ‘600, ‘700. Altri sono ovviamente molto più recenti, ma alcuni sono veramente vecchi di secoli. Brani che ritroviamo magari anche altrove, specie in Istria, ma che variano nel testo – a volte anche nella melodia – a seconda della località in cui si canta. La popolare “Dove ti vadi bela bruneta”, ad esempio, l’abbiamo interpretata nella versione peculiare capodistriana. Gigi, le piaccioni i testi? Xe bei, ma no xe una che parla qualcosa de bel!! Go dito tante volte a Zonta, qua ghe vol un poca de alegria. Cò’te vol bever un goto de vin co’ queste canson qua. Mario? Ma vara che una volta se cantava cussì. Mi cantavo tante de queste. Mi, se le me ven inamente, ghe ne so…dieci drioman. “Torna ‘l marito dela botega”, “Mia cara Lena”…Ben, desso bisognarà far anca queste. Dunque ci sarà ancora da lavorare per mettere questi testi su carta e impararli di nuovo, Gandusio. Ma sì, col nostro maestro qua mi credo che faremo ancora qualche cosa de buono. Se daremo de far, stemo lavorando. Adesso, ciamemo cussì, semo ancora principianti, ma impareremo. (GIGI) E restaremo principianti! La gente no devi aspetarse de noi chissà cossa. Noi semo oto…oto cuchi! in poche parole, che se ga messo insieme sensa ver mai cantado. E perciò la gente no devi aspetarse che semo dei campioni. Ne piase! Ne piase la companìa e perciò cantemo col cuor. Principianti o no, sicuramente state facendo un lavoro prezioso. Gigi, una volta cantavano solo gli uomini o anche le donne? Ma più i omini. Dopo qualche volta se tacava qualche dona, e le veva bele vose, me ricordo. I omeni ghe dava la vose forte, la vose dela dona iera come un penel. (MARIO) Una volta se cantava sai per le ostarie. Iera solo che alegria; che no se pol dimenticar le cose. (GIGI) In quela volta, la gente con poco se divertiva. No xe come ‘desso. Anche i paolani indove i ‘ndava? I ‘ndava spoiar formenton, in stala, quel quel l’altro, la sera i vigniva co’ la cantada, o le barselete qualcosa, el goto de vin e la cantada. No iera altro, no iera dischi, celulari…iera tuta un’altra vita. Avete inciso il CD. Lo farà sentire ai nipoti che magari impareranno qualcosa. Sì, ma xe difficile che sta roba vadi ‘vanti. Tu papà ga sempre dito: “Cerchemo, fassemo, se cercherà de far, se farà, pian pian”, ma me par invesse che se sta spegnendo un poco ala volta. Purtropo, tante volte go gavù anche dei dibattiti…saria bel che andassi avanti! Però sarà dificile. Ancora sta nostra generazion, dopo no so più avanti come che andarà finir. Che fare Zonta? Noi per adesso cantiamo per il gusto di farlo. Bisogna rendersi conto che la tradizione e il canto in questo caso ti ricollegano alle radici di un luogo. E se un posto o una persona perde le radici, secondo me perde tutto. Il paolan Checo Bussa in una caricatura di Rino Rello pubblicata sul giornale satirico Marameo! il 6 1 1922. I brani contenuti nel CD: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. Beviamo gobeti In mezo ‘l mar Varda che bel seren La pesca dell’anello La bevanda sonifera Me voio maridar La malattia dell’amata Se savessi Giovanin Che te vegnissi trata una sassada 10. Barcarolo 11. Un’eroina 12. Vado in convento 13. Capodistriana bella 14. Canzone dei pescatori 15. In Canal de Moscamora 16. In piassal de Bossedraga 41 La città Torna il suono del mandolino A quasi trent’anni dalla scomparsa del maestro Scocir, un gruppo di entusiasti ha rispolverato gli strumenti e si incontra ogni martedì sera nella mansarda della Comunità. L’idea è partita dal chitarrista Marino Orlando, seguito poi dai fratelli Bruno (basso) e Giuliano (mandolino), e altri due mandolinisti: Alenka Orel e Gianfranco Riccobon. Marino in che anni hai cominciato a suonare con la mandolinistica? Io ho cominciato abbastanza presto, sarà stato il ’57-’58. Ho cominciato a conoscere i segreti della musica proprio nel Circolo. Come sei stato introdotto in questo gruppo? Per puro caso, perché il mio desiderio era di suonare la fisarmonica. Poi invece… naturalmente la fisarmonica costa, e i miei m’hanno detto “Ti va di suonare? Va in Circolo da Scocir e vedi cosa puoi fare”. E’ iniziato per un caso fortuito, ma poi ho continuato per più di due decenni. Le mandolinistiche erano un pretesto, oltre che per conoscere la musica, anche per stare insieme… Di tutto, perché in quei tempi si andava a vedere la TV dei ragazzi...perchè a Capodistria allora ci saranno stati duetre televisori. Anche la mandolinistica è stata un motivo in più per stare assieme con gli amici. Quanti eravate? Il gruppo di Capodistria era molto nutrito, mi ricordo ancora degli amici che se ne sono andati ai tempi dell’esodo. Di solito eravamo sui 25-30 elementi. 42 Matteo Scocir ha insegnato ai ragazzi anche la teoria. Sì, tutti quelli che hanno frequentato la mandolinistica di Scocir, hanno imparato le basi teoriche, solfeggio. Queste basi ci hanno consentito di proseguire poi da soli, alcuni di studiare avanti e di allargare le competenze musicali. E a distanza di trent’anni ti è venuta la voglia di suonare… Finita l’era Scocir, in quegli anni ’80 mi sono sposato, ho avuto altri impegni e quindi ho messo il mandolino un po’ da parte. Mentre l’anno scorso (2009) ho deciso di riprendere il discorso della musica. Ho chiamato i miei due fratelli più giovani e l’amico Gianni Riccobon, e stiamo provando a formare un quartetto, con la musica di allora e con alcuni pezzi che sto adattando per un quartetto di mandolini e chitarra. Come sta andando? Senti le dita un po’ arrugginite? Si sono già riprese…è già quasi un anno che ci ritroviamo ogni martedì e siamo soddisfatti. Avremo modo di ascoltarvi dal vivo? Per i momento suoniamo…per la nostra anima e per i nostri sogni. Quindi ogni occasione e buona per poi fare la suonatina, la cantatina. Chi vivrà vedrà. La città Sempre in collaborazione tra la scuola »Vergerio« e la CI è stato inaugurato, a novembre, un corso di educazione all'immagine foto-video. Mentore Damian Fischer. Marino Orlando Che cosa ha rappresentato Matteo Scocir per la vostra generazione? Per me è stato un grande maestro, di musica e di vita. Ha lavorato coi giovani da sempre, quindi sapeva quali sono i loro problemi e sapeva come indirizzarci. Sono ricordi bellissimi. Tra tanti concerti che avete fatto, quale ti è rimasto più impresso nel ricordo? Il più grande successo è stato il concerto delle tre mandolinistiche istro-quarnerine riunite, quindi parliamo di Capodistria, Fiume e Pola, che all’incirca nel 1965 furono invitate alla Filarmonica di Lubiana. Concerto delle mandolinistiche riunite, più il coro della “Marco Garbin” di Rovigno. Come vi accolsero i lubianesi? Con mezz’ora di ovazioni, una cosa incredibile. Purtroppo non so se esista qualche traccia registrata di questo concerto. Negli ultimi anni avverto un certo revival del mandolino. Direi di sì. A Lubiana esiste da cinque anni l’orchestra “Mandolina” che, da quanto ho potuto ascoltare sul CD che ho trovato, sono veramente bravi. Sono ragazzi giovani, hanno un repertorio ampio e variegato. Sarebbe auspicabile veramente organizzare un incontro di mandolinisti di tutta la regione…Slovenia, Istria eccetera. Il 1 dicembre 2010 sono stati spenti in Slovenia tutti i trasmettitori analogici terrestri e la diffusione televisiva avviene tramite il segnale digitale terrestre nel formato MPEG 4, sempre dalle stesse postazioni di trasmissione. Per continuare a seguire i programmi di TV Capodistria è necessario quindi munirsi di un decoder MPEG-4 per il digitale terrestre o di un televisore con integrato un ricevitore MPEG-4. A chi già riceveva il segnale di TV Capodistria non servirà spostare l’antenna. Sarà necessario solo sintonizzare o risintonizzare il ricevitore MPEG-4. Ricordiamo che i programmi di TV Capodistria si possono seguire anche via satellite su Hot Bird 13 gradi est e sulla piattaforma satellitare italiana Tivu`Sat. Informazioni: www.rtvslo.si/tvcapodistria (tel. 00386- 5-6685102) Il 7 dicembre la CI ha reso omaggio ad Pier Antonio Quarantotti Gambini. Conversazione con Rosanna Giuricin sui luoghi della memoria biografica e letteraria e proiezione di filmati dall'archivio di TV Capodistria con interviste d'epoca allo scrittore e trasposizioni cinematografiche dalle sue opere letterarie. 43 La città “Letere dal Siam” Bangkok, 27 Ottobre 2010 Marocco: viagio nel paese de l’oio de cavra Miei cari, son pena tornà a casa, oviamente in Tailandia, ma son passà prima da un paese dove se trova e se usa l’oio de cavra. No se scandalizi i animalisti, l’oio de cavra no se otien spremendo le cavre, come se podaria pensar per analogia con l’oio de oliva. Anzi ultimamente le cavre le xe squasi lassade de parte e fra poco sarà solo un ricordo, visto che adesso le più grandi dite de cosmesi se afreta a comprar e sfrutar, ma sensa cavre, con sistemi industriali, le piantagioni de una certa pianta che se trova solo in Marocco. Perché sto paese xe apunto el Marocco e quel famoso oio de cavra, adesso al se ciama uficialmente oio de argan. Ma fin a no tanti ani fa prima de diventar oio, el fruto de l’argan passava esclusivamente attraverso el corpo delle cavre. Come jera (e xe ancora, ma marginalmente) la procedura? Forse do parole su questa pianta, no saria mal dato che da noi no la xe conossuda, a parte quei che se interessa de cosmesi, ma anca quei solo quei proprio del mestier. In francese l’albero se ciama arganier (“argania spinosa” in botanica) e al xe endemico del Marocco anca se tanti milioni de ani fa se lo trovava anca de altre parti de l’Africa occidentale (ma i disi che in Marocco se la trova da “solo” 80 milioni de ani). Come disevo, con l’avansar del deserto l’area su cui cressi sta pianta la se ga sempre più ristreto e adesso la se trova praticamente solo int’un triangolo che va da Marrakech a Essaouira, sul mar, e zo lungo la costa fin a Agadir per risalir a Marrakech. Dentro sto triangolo se trova la località de Argana da cui i disi che deriva el nome dela pianta (arganier). Ma altri la conta diversamente e i disi che in lingua berbera “argan” vol dir semplicemente oio. Se trata de una bela pianta granda che pol durar anca dosento ani. Se adata perfetamente al clima secco, ma no arido, del Marocco centro-meridionale e fin a no tantissimi anni fa, a vigniva sfrutà solo dale popolazioni berbere dela zona, che usava quel oio sia per alimento che per far andar via i dolori (in particolare reumatici). Go a casa una botiglia de litro, comprada tanti ani fa e devo dir che me ga sempre fato efeto. Un massagin su le parti dove sentivo qualche dolorin e duto passava. Forsi saria passà lo stesso anca sensa oio, ma comunque al passava. L’albero ga foie verde scuro tipo aghi e fa fruti che somiglia a le olive, ma no xe olive e ogni baca ga tre ossi lunghi come quei dei dateri. Ma cossa ghe entra le cavre? Le cavre iera de la massima importanza per la produsion de quel oio. Cioè le cavre va mate per le foie e i fruti de questa pianta. Le ga fin imparà a rampegarse sui rami dei alberi per magnarle. Ne la fotografia l’albero xe un poco scassà ma jera tante 44 cavre su un solo albero che meritava fotografarlo. Una volta magnade le bache, le cavre le digerissi e dopo le le espelli (disemo cussì) con le feci. Oviamente i ossi resta ossi, ma i contadini berberi disi che per otener un oio particolarmente efficace, ghe vol che al passi attraverso la digestion. Le done (de solito le done xe quele che fa sto lavor) le tira su i ossi digeridi de le bache, i li spaca e col contenuto le fa l’oio. De quel che i m’à contà, par che ghe vol circa un quintal de fruti per ricavar un chilo de oio. No per gnente al xe sai caro. I berberi lo usa anche come benvenuto sia per i ospiti che per i fioi ‘pena rivai su sto mondo. Adesso però le robe sta cambiando, le dite de cosmetici no ga tempo de spetar che le cavre digerissi i ossi e alora duto xe prodoto con sistemi industriai e l’oio de cavra xe diventà oio de argan. Xe anca sai difficile trovar tante cavre su un albero. Tanto che me xe vignù el sospeto (anzi più che un sospeto) che se vedi cavre sui alberi, solo lungo i percorsi turistici a beneficio esclusivo de le machine fotografiche de questi. Xe robe viste un poco in dute le parti del mondo. Quel che una volta al jera genuin, adesso i lo presenta come folklore ma no ga più punti de riferimento con la vita de duti i giorni. Son contento de esser sta anca tanti ani fa, quando ste robe le jera ancora vere e no “roba per turisti”. Adesso questi derivati e sottoderivati de sto oio, i ven vendudi in profumerie, farmacie, a prezzi che una volta i iera inimaginabili. Questa xe una foto scatada in una profumeria e duto quel che xe sui scafai al ven da questo benedetto oio: creme, profumi, tisane ma anca botigliete de oio. Xe diventada La città cussì ciamà Sahara Occidentale. In effetti se trata de un stato grando squasi una volta e meza l’Italia. Xe un stato riconossù da l’Unione Africana, ma no dall’ONU, che lo elenca fra i teritori “non indipendenti”. Sto stato ga un nome “Repubblica Democratica Araba Sahrawi”, ga un presidente de la repubblica ma …. ‘in pratica nol esisti. I marochini ga ocupà e sta sfrutando (fosfati) una gran parte de sto stato e po’ i ga costruì, per taiar fora el resto dei Sahrawi (sti abitanti del Sahara), un “muro” de sabia longo circa 2000 chilometri, che comprendi due argini, alti 3 metri e proteti da campi minai e da fortilizi costruidi ogni cinque chilometri. No mal, proprio nel periodo che i butava zo i vari muri de Berlin. Tramonto nel palmeto a la periferia de Marrakech una industria, vera e propria. Quei che ga leto le mie ultime “lettere dal Siam” se sarà inacorto che se trova sempre qualche accenno alle varie minoranze e magioranze che go trovà nei vari paesi e ai modi che in sti paesi i gestissi la situasion. Più o meno ben, più o meno mal! Qualche volta par che qualchidun no sapi o no gabi proprio voia de gestirla. Quasi par che mi ste situasioni le vado a sercar e invese penso che in modo più o meno evidente, ste situasioni le xe in duto el mondo. El fato xe che uno vedi mejo, in qualunque parte del mondo al vadi, le robe che xe più presenti nei suoi interessi e nella sua problematica. Come dir le robe che al xe più portà a veder. I altri gnanca i se ne ‘corzi. Quel che a uno no ghe interessa, lu proprio no lo vedi. Come dir che qualchidun anca solo caminando per le strade, vedi duto quel che xe in una vetrina (metemo de vestiti). Compreso modello, color e prezzo, mi invesse, no me inacorzo gnanca che jera una vitrina! Cussì anca nel campo dele minoranze etniche. In Marocco son sta con un gruppo de amici. Nissun ga notà che anca in Marocco el problema de le minoranze esisti e anca sai radicado, per serti versi, tanto che le guide serca de evitar questo discorso coi turisti, cioé del problema de queste minoranze, anzi in generale del Nel cortile interno de un palazzo nel cuore de la medina E questo xe una carateristica del Marocco ma... guai parlar de sta roba. El problema uficialmente nol esisti e duto quel teritorio le autorità lo considera parte del Marocco stesso. Ma xe un’altra situasion sai strana, strana nel senso che xe dificile trovarla in altri paesi. Per duti quei che riva qua (parlo de turisti, ma in generale per la gente che no ga sti problemi per la testa), el Marocco xe un paese arabo, dove se parla arabo, de cultura quindi araba, insoma arabo a duti i efeti. E no se pol darghe torto. I giornai xe scriti in arabo, la TV parla in arabo, ne le cità ti senti parlar arabo. Cossa ti vol de più? Ma invesse le aparenze, ancora una volta le ingana. La maggioranza de la popolasion, no xe araba, ma berbera! Qua no se parla de magioranze relative, se trata che su 34 milioni de abitanti che ga el Marocco, oltre 25 (forse 26) xe berberi. Maggioranza assoluta, ma qua el potere politico, religioso e cultural, xe completamente in man de la minoranza. Tanto che oramai solo el 40% parla lingue o dialetti berberi, dato che scole, giornai e TV xe sempre stai solo in arabo, tanto che l’unica TV in lingua berbera che esisteva fino a poco tempo fa, trasmeteva da la Francia “Berber TV”. Solo de poco tempo in qua, anca in Marocco xe in funsion un canal televisivo berbero, ma nissun giornal, anca se i berberi ga sempre bu la scritura za a partir del I milenio prima de la nostra era (i la ciamava scritura libica). Ma sora duto solo da pochissimo tempo xe sta introdoto a scola l’insegnamento del berbero anche se no i ga nissuna intension de riconosserlo come lingua uficial del paese. Un ultimo accenno a sto argomento: noi “occidentali” li ciamemo “berberi” ma lori no se ciama cussì, ma Imazighen (che volaria dir “omini liberi”) e la loro lingua tamazight. La parola “berbero”, con la quale noi li ciamemo deriva dal francese berbère, che a sua volta deriva dall’arabo “barbar” che, sai facile, xe la continuasion della parola romana “barbarus”, parola che i antichi Romani usava per indicar duti quei che no parlava latin. Perfin el scritor roman Sallustio, nel suo “Bellum Iugurthinum” (capitolo 18) al ciamava la lingua dei nativi, “barbara lingua”. Metemo però ben in evidenza che i “berberi” rapresenta la popolasion autoctona del Nord Africa. Autoctona, ma sensa diritti. Dopo de lori xe rivai i Fenici, i Greghi e dopo ancora i Romani, i Vandali. Fin che i Arabi xe rivai 45 La città Particolari segnai stradali ne la medina: »divieto de accesso per i mussi« atorno all’ano 800, i ga portà la religion islamica che, da quela volta, xe la religion dominante ne la region, i se ga fato paroni, i ga resistì a le invasioni portoghesi, spagnole e francesi, per tornar dominanti da un secolo a sta parte. Ma i Berberi xe restai dominai e praticamente sensa diritti anche se, paradossalmente, i ga lassà ne la toponomastica nomi importanti. La più conossuda città del Marocco, Marrakech, ga un nome che deriva dal berbero “mur akush” che vol dir “tera de dio”, e perfin una città europea ga un nome che xe almeno in parte berbero e cioè Gibilterra. Infati deriva da “gebel el tarik” (monte de Tarik) dove gebel xe arabo, ma Tariq xe un nome tipicamente berbero e jera el nome de un general berbero che ga portà i Arabi a conquistar la Spagna. Giremo pagina! E serchemo de dar una idea de una tipica città marocchina. Se riferimo, per forsa, a la parte vecia dele cità, perché la parte nova ze fata sul tipo dele nostre, con viai alberadi, giardini e magari ville con piscina incorporada. Ma la vera atmosfera marocchina se respira ne la medina (che saria la “cità sacra” dove duta la vita se basa sul Un vicolo de la medina 46 modo de vita mussulman e le case se ingruma atorno a le moschee e a la medersa (la scola coranica). In reparti netamente separai, abitava una volta i ebrei (la mellah, che corispondi al gheto de le nostre parti), ma adesso però, ebrei no ghe xe squasi più. Sensa alcool, sensa edifici de culto de altre religioni; anca quei che ghe abita dovaria esser duti mussulmani. Xe duto un groviglio de vicoli streti, dove l’unico mezo de trasporto, oltre a le spale dell’omo, xe el mus. E se senti spesso un che siga “balek”, atension, per far strada al so mus ne le strade strete e batude de gente. Perché la vita ne la medina (e ancora de più nel suq, rion del “mercato”) se svolgi ne le strade. El vicolo, per l’abitante de la medina, no xe solo un logo de passagio; xe anca e forse principalmente un logo de incontro, de scambio de merci e de pareri, un logo tipico per la socializasion. E el suq xe l’esasperasion comerciale de la medina, dove se vendi e se compra duto. Nel suq de le spezie Per facilitar le compravendite, el suq xe sempre diviso in compartimenti dove ogni grupo de strade xe specializà ne la vendita de un tipo de prodotti. E alora gavemo el suq de le spezie con quel odor acre che te acompagna per duto, che te sembra de caminar in una immensa drogheria, el suq dei tapei, quel de i vestiti, quel dei artigiani del rame e naturalmente tanti altri. Duto in un continuo vociar, contratar, zigar e pur in duta questa confusion, te se para davanti, de tanto in tanto, un vecio palasso dei notabili del posto, con giardini meravigliosi, fontane, arabeschi incantevoli, el duto in un silenzio squasi assoluto. Te sembra impossibile che, a pochi metri, verta una porta, se svolgi la vita più caotica che mente umana pol imaginar. In Maroco par veramente de passar atraverso un continuo susseguirse de porte che se spalanca, man man che ti vadi ‘vanti. Ma impossibile verzerle dute in un solo viagio. Tornaremo? Inshallah (se dio al vol) come che i disi qua. Lucio Nalesini La città Piran-Pirano, ovvero “Italiani raus!” Preceduto da una promozione greve di aspettative e un impalpabile senso di timore per possibili spiazzanti derive da parte del ragazzo terribile della nuova cinematografia slovena Goran Vojnović, il lungometraggio Piran-Pirano ha aperto a Portorose la 13. edizione del festival cinematografico sloveno. Il film ha valso all’autore il premio della giuria per la sceneggiatura, quando probabilmente questi mirava al ben più prestigioso premio per la miglior regia. Ricordare che il giovane cineasta Goran Vojnović si era guadagnato con l’esordio letterario Čefurji raus! uno strabiliante e insperato successo di vendita oltre che il plauso della critica, giova per rintracciare una possibile chiave di lettura per questo suo film, che altrimenti potrebbe venir frettolosamente liquidato nel genere drammatico a sfondo storico di un nuovo filone che dichiara negli intenti di voler praticare un linguaggio cinematografico politicamente corretto. La trama verte su un nucleo centrale tutto sommato semplice ma di difficile rappresentazione, quale l’incontroscontro tra due etnie, culture, lingue (e nel film due ideologie) contrapposte, impersonificate dall’italiano Antonio e dal bosniaco Veljko, interpretati rispettivamente da Boris Cavazza e Mustafa Nadarević. Va soprattutto a quest’ultimo, in un film che ha un procedere lento ed introspettivo, il grosso merito di fornire una prova di rilievo pescando dal proprio bagaglio attoriale per dar corpo a un’interpretazione ironica e amara, a tratti quasi surreale. In una casa piranese che già fu dell’esule Antonio e nella quale risiede ormai da tempo il suo nuovo inquilino Veljko prende corpo un confronto tra i due anziani, che a tratti si scontrano, a tratti si ritrovano in una memoria comune, pur impossibilitati a comprendersi realmente per le differenze linguistiche e culturali. Il confronto personale e le tensioni irrisolte tra i due ricalcano quello dei tanti anonimi interpreti della Grande Storia in questo lembo di terra. Gli elementi della contrapposizione ideologica ed etnica di una storia recente e dolorosa sono messi a nudo dal film di Vojnović, e questa è già di per se’ un’operazione che ancora si pensava di difficile approccio, anche se il racconto storico è interpretato in termini sin troppo semplicistici con la logica a senso unico di due blocchi contrapposti. Nella lettura di Vojnović non c’è spazio per i chiaroscuri, per le sfumature di ruolo: italiani e slavi sono divisi da un solco di appartenenza etnica ed ideologica profondo e invalicabile (ma dove sarà sparita l’utopia della fratellanza italo-slava nel disegno progressista dell’epoca e la mancata rappresentazione di un tessuto urbano italiano protrattosi ben oltre la conclusione del conflitto). Il regista inscena piuttosto un Vae victis asservito alla logica del film, che tende a far defluire tutto in termini manichei nel riscatto di un’etnia e di una classe sociale fino allora subalterna e nella conseguente rivalsa sull’elemento italiano. Più che l’esodo, intuito ma non rappresentato, a parte la fuga simbolica per mare del giovane Antonio, viene messa in scena una giustizia di guerra sommaria al servizio dell’ideologia pragmatica e spicciola praticata dai vincitori nella contingenza storica del periodo. Ebbene, un momento forte della percezione intellettiva ed estetica è legato all’esigenza per la quale tendiamo a riportare i fatti al prorio territorio, al proprio ambito emotivo. In questa chiave di lettura, come preannunciato, il regista Vojnović, sloveno di nuova foggia cresciuto nella difficile ed emarginata periferia lubianese di Fužine dove regna l’orgoglio balcanico degli immigrati di seconda generazione, non può che essere più vicino e partecipe alle sorti del bosniaco Veljko. L’italiano Antonio ha perso una guerra, una casa, un luogo e gli affetti che a questi legano, e continua a fissare l’attimo di tale lacerazione in una sorta di eterna e frustrata ricerca di ricongiungimento con il suo essere più intimo. Il bosniaco Veljko ha trovato, attraverso altre crude sofferenze, un luogo dove reinventarsi una vita e darsi un senso di nuova appartenenza. Incontratisi lungo direzioni opposte del crocevia generato dalla storia, ambedue devono dare una risposta a uno dei quesiti tra i più difficili dell’uomo: come è possibile concludere la propria esistenza con un senso di pace e (ri)conciliazione? Per tutte queste ragioni il film Piran-Pirano è più che un film sulla nostalgia e sulla storia, un film sulla morte e sul sentimento dell’appartenenza. Alla fine del film il nuovo venuto si riconcilia con il luogo e si sente finalmente partecipe di un mondo mai pienamente metabolizzato. Per l’italiano Antonio così come per tanti di noi, non resta forse che aspettare migliori occasioni per dare voce a quel sentimento di sottile disagio nel percepirsi a tratti sradicati e avulsi in una realtà dalla quale siamo stati, nostro malgrado, esautorati e relegati di fatto ad entità marginale e minoritaria. Mario Steffé Foto Roberto Francomano 47 La città Freschi di stampa »La valigia per Trieste« di Salvatore Egidio Di Grazia. »La valigia per Trieste« è un libro uscito a fine luglio per »Pazzini editore« di Rimini. 165 pagine in cui Salvatore Egidio Di Grazia (nato nel 1945 a Žrnjovec) racconta la sua infanzia vissuta nel paesino vicino a Topolovec, alle spalle di Capodistria. Figlio di un siciliano e di un’istriana, Egidio ha un ricordo nitido di quell’ambiente che nei turbolenti anni Cinquanta del secolo scorso abbandonò con la famiglia, dopo una breve sistemazione a Capodistria, Il presidente Mario Steffè e Salvatore Egidio Di Grazia. per finire esule a Rimini dove oggi è un affermato avvocato. »Occorre avere rispetto per chi non riesce a dimenticare o a perdonare. – dice Di Grazia, aggiungendo che – »Non è ammissibile tuttavia, sprecare l’occasione per offrire ai giovani la possibilità di conoscere le ragioni per le quali, alla fine della seconda guerra mondiale in una terra così vicina, si è pervenuti ad un siffatto livello di degradazione di umanità«. »Le emozioni di un bambino, raccontate dalla voce di quello stesso bambino diventato adulto – leggiamo nella postfazione – le esperienze dei 48 primi anni di vita ravvivate da una competenza storica acquisita solo in un secondo tempo, le vicende di un paese che contiene in sé l’incanto della prima infanzia e il rimpianto del profugo, ci regalano un libro che non finisce con la sua ultima pagina«. Il 30 novembre la Comunità degli italiani ha organizzato un incontro pubblico con l’autore. Salvatore di Grazia vive dal 1953 a Rimini, dove svolge la professione di avvocato matrimonialista. Già docente di diritto canonico ed ecclesiastico presso l’Università di Bologna è autore di pubblicazioni scientifiche nel campo del diritto di famiglia e dei rapporti tra Stato e Chiesa. Trio Kras (gli altri due membri erano Felice Šepić e Umberto Pucer (Berto Mazul). Il materiale audio è stato registrato tra il 1987 e il 1990. Un piccolo omaggio a un grande artista. Ottavio – Monografia su Štokovac, indimenticato liutaio istriano ACTA HISTORICA ADRIATICA Qualche anno fa avevamo ospitato una mostra dei bassetti istriani costruiti da Ottavio Štokovac. Ora la Comunità degli italiani »Santorio Santorio« dedica all’eccentrico liutaio di Kolari (Grisignana) una monografia, redatta da Andrea Rigodanzo, che comprende un’introduzione di Mario Steffè, testi biografici di Marino Kranjac e Dario Marušić. Il tutto corredato da splendide foto Organizzatore di Jaka Jeraša e / Prireditelj da un CD contenente una selezione Società di studi storici e geografici, Pirano Društvo za zgodovinske in geografske študije, Piran di brani in cui Ottavio suona il bajs e la fisarmonicaIn collaborazione a bocca al con / assieme V sodelovanju s Comunità degli Italiani “Santorio Santorio” nell’ambito del programma culturale della Comunità Autogestita della Nazionalità Italiana di Capodistria. Skupnost Italijanov “Santorio Santorio” v okviru kulturnega programa Samoupravne skupnosti italijanske narodnosti Koper. L’Istria e le province illiriche nell’età Napoleonica a cura di Denis Visintin Il quarto libro della collana Acta Historica Adriatica raccoglie gli atti del convegno svoltosi nel 2006 nel bicentenario del Codice napoleonico. Su iniziativa della Società studi storici di Pirano, 17 studiosi di Slovenia, Italia e Croazia hanno presentato i loro contributi su un periodo breve IV L’ISTRIA E LE PROVINCE ILLIRICHE NELL’ETÀ NAPOLEONICA a cura di Denis Visintin SOCIETÀ DI STUDI STORICI E GEOGRAFICI PIRANO ma molto intenso nella storia di queste terre. I vent’anni che seguirono alla caduta di Venezia maturarono nuovi tipi di società, nuove idee, visioni della storia e dell’uomo. Tra i contributi anche quelli di due storici purtroppo scomparsi, come Giulio Cervani e di Antonio Miculian, attento quest’ultimo all’aspetto della pubblica amministrazione. Il volume - di quasi 300 pagine - si occupa dei vari aspetti del dominio francese e ripoducendo anche documenti originali custoditi all’Archivio regionale di Capodistria. La città Freschi di stampa »Cara Lidia – Draga Lidija« di Anna Rosa Rugliano »La Jugoslavia, il basket e un telecronista« di Sergio Tavčar. Realizzato con il patrocinio ed il contributo della Provincia di Trieste, il volume raccoglie le testimonianze dell’attrice Lidia Kozlovich (Momiano 8 ottobre 1938 – Trieste 1 giugno 2009), interprete, in italiano ed in sloveno, di centinaia di personaggi di autori italiani e stranieri, prodotti dalla RAI per trasmissioni radiofoniche e televisive, da vari teatri. Il saggio-intervista è così suddiviso: La Parte prima è dedicata a La persona, La vita e la carriera; la Parte seconda a Il personaggio e Le interpretazioni; la Parte terza a Il teatro, Gli autori, i registi, il pubblico; la Parte quarta a Sogni, Pensieri e immagini. Ogni capitolo è introdotto da una testimonianza, rispettivamente di Mila Nortman, Gianni Gori, Ugo Amodeo e Marko Sosič. Sergio Tavčar con l'inseparabile Gazzetta dello sport. Lidia Kozlovich in una foto dello Stabile sloveno di Trieste. Sono tre le storie che si intrecciano nel racconto di questo libro. Quella principale, racconta della pallacanestro jugoslava, vista con gli occhi di chi l’ha conosciuta seguendola prima soltanto per passione e poi anche per professione per oltre 50 anni. La seconda storia è quella della Jugoslavia, delle sue genti, dei suoi popoli e delle loro peculiarità. Una storia raccontata per aneddoti ed episodi, senza nessun intento storiografico. La terza storia è quella personale dell’autore – storica voce di Tv Capodistria – che racconta fatti, emozioni, disavventure e ricordi. Un libro di pallacanestro quindi, adatto non soltanto agli amanti del basket ma anche – si legge sul sito sergiotavcar.com – “a chi è interessato a conoscere sfumature e sfaccettature di gente che, nonostante la vicinanza, gli italiani hanno sempre conosciuto e capito poco”. Il fotografo Alfredo Pettener. Di Lea Škerlič. Era tempo che qualcuno ci pensasse! Da tempo, anche a livello di documentazione oltre che di interesse vero e proprio per l’argomento trattato, si progettava l’istituzione di una raccolta delle tesi di laurea dei nostri giovani connazionali: non fosse altro che per avere una visuale nel tempo della nostra crescita collettiva ed individuale. Una crescita che negli ultimi decenni è riuscita a colmare quel vuoto intellettuale provocato negli anni 50 del secolo scorso dall’esodo da queste terre della popolazione italiana. Il primo volume di questa nuova serie (introdotta dalle Edizioni “Il Madracchio” di Isola, ndR) è della neolaureata Lea Škerlič che ha difeso con successo la tesi dedicata al fotografo piranese Alfredo Pettener e che nel 2009 è riuscita ad aggiudicarsi il premio Prešeren per studenti della Facoltà di filosofia dell’Università di Lubiana. Nei prossimi anni, al ritmo di uno all’anno, dovrebbero seguire altri volumi dedicati alle tesi di laurea conseguite negli ultimi anni dai nostri laureati, in modo da dar vita ad una vera e propria collana di testi sui più diversi argomenti. Silvano Sau 49 La città CAPODISTRIA 2010: FOTO D’IDENTITÀ La Comunità degli Italiani “Santorio Santorio” di Capodistria ha organizzato nei mesi di maggio e giugno 2010 un progetto di interpretazione/investigazione fotografica della città, invitando 12 fotografi dalla Regione autonoma Friuli Venezia Giulia (Marco Citron, Massimo Crivellari, Roberto Francomano) dalla Slovenia (Herman Čater, Darinka Mladenovič, Matjaž Prešeren), dalla Croazia (Ivan Balić, Ivica Pervan, Tomislav Rastić) e in rappresentanza della Comunità Nazionale Italiana istro-quarnerina (Remigio Grižonič, Egon Hreljanović, Guido Stocco). Il progetto è stato realizzato con il finanziamento del Ministero Affari Esteri della Repubblica Italiana, per il tramite dell’Unione Italiana, in applicazione della Legge 21 marzo 2001, n. 73, e con il cofinanziamento locale del Comune città di Capodistria e del Ministero per la Cultura della Repubblica di Slovenia nell’ambito del programma culturale della Comunità autogestita della nazionalità italiana di Capodistria. Nell’ultima settimana di maggio i fotografi partecipanti al progetto hanno effettuato un’approfondita fotosessione, dalla quale è stata estrapolata una selezione finale di 12 fotografie per ogni fotografo partecipante. Un’ulteriore scelta di tali scatti d’autore sono ora confluiti in una mostra fotografica collettiva che verrà presentata a Capodistria presso la galleria Loggia (30.6. – 6.7.2010) e lo spazio espositivo di palazzo Gravisi, sede della Comunità degli Italiani (12.7. – 14.8.2010). A fine esposizione verrà presentato il catalogo fotomonografia con un’ampia selezione del materiale fotografico realizzato nell’ambito del progetto tematico Capodistria 2010: foto d’identità. L’idea alla base del progetto è stata quella di coinvolgere i fotografi in una realtà urbana e sociale diversa dalle rispettive aree di provenienza geografica, favorendone il contatto e l’inserimento nelle dinamiche della città ospitante, che ognuno ha interpretato attraverso il filtro della propria cifra stilistica e approccio tecnico fotografico. Guido Stocco di Pola 50 La città L’intento dell’organizzatore è stato quello di cogliere attraverso la particolare prospettiva d’indagine dei fotografi coinvolti, soltanto temporaneamente residenti in loco e privi di condizionamenti determinati dal rapporto “affettivo” e di familiarità con i luoghi, gli elementi a loro giudizio caratterizzanti e marcanti della città ospitante. Tale operazione ha inteso aprire la strada a inediti approcci fotografici al soggetto d’indagine, che permettono di acquisire sensibilità diverse nell’interpretazione sia dei caratteri tipici della tradizione e della storia cittadina, sia dei mutamenti che hanno investito e tuttora rimodellano la configurazione di Capodistria. Alla base del processo si sono rivelati, inevitabilmente, la modalità d’approccio del fotografo verso la città e i processi d’indagine, riconoscimento e interpretazione degli elementi del paesaggio urbano. Egon Hreljanović di Fiume Il tema sul quale gli artisti si sono cimentati è stato L’identità cittadina e i caratteri marcanti del territorio alla luce dei mutamenti storico-sociali. In questo contesto sono state ulteriormente definite le seguenti aree di indagine tematica che hanno compreso: - interazione uomo-ambiente (gli aspetti del vivere lo spazio urbano: come lo spazio urbano condiziona la vita sociale e come l’uomo ha voluto e saputo adattare lo spazio urbano alle proprie esigenze) - paesaggio reale e memoria dei luoghi (l’ambiente urbano oggi e le memorie e rappresentazioni d’esso che sopravvivono ai suoi mutamenti) - innesti tra passato e presente (come la vita cittadina contemporanea s’innesta su molti strati architettonici, socio-politici, urbanistici, etc. appartenenti ad epoche diverse e con connotazioni sovrapposte) - dinamiche interculturali (le interazioni tra culture differenti che convivono nella Capodistria d’oggi, ma che vivono “Capodistrie” diverse, tra contatti, ibridazioni e contrasti) Remigio Grižonič di Isola A tale scopo è interessante far notare che gli organizzatori hanno fornito delle essenziali linee guida che potevano aiutare i partecipanti al progetto ad approcciarsi ai temi proposti, ma che si è cercato di non condizionare o limitare in alcun modo la scelta del soggetto per non interferire con la sfera interpretativa dei fotografi. 51 La città Repertorio italiano di corrispondenza alle voci dialettali capodistriane Tratto dall’appendice al Dizionario storico fraseologico etimologico del dialetto di Capodistria di Giulio Manzini Pacato – calmo Pacca – paca, boto, colpo Pacchia – bobana Pacioccone – bonato Padella – fersora Padiglione da giardino – gloriét Padre – pare Padrino – santolo, (del figlio) conpare Paese – vila, paiese Pagello (itt.) – ribon e mormora Paglia – paja Pagliaccio – paiasso, pupinoto Pagliaio – mieda de paja Pagliericcio – paion Pagnotta – pagnoca Pago – contento Paio – per, par Paiolo – caldiera Pala – badil, pala Palamita (itt.) – palamida Palamito (mar.) – parangal Palemone (artopode) – schila Palese – in vista, ciaro, verto Pallina (colorata) – vaga, s’cinca Palmo (delle mani) – palma Palo – pal, forcada, (della bica) miedil, (di sostegno) soponta, vaso Palombaro – sotàiro Palombo (itt.) – cagneto Palpebra – palpièra Palude – palù Pampino – banpeno Panca – banco, bancheto; banca Panciotto – gilè Pane – pan, panéto, biga, pagnoca Panetteria – pistorìa Panettiera – pancogola Panettiere – pistor, pek Pania – vis’ciada, vergon Paniere – çesto, çesta, panier Panno – strassa Pannocchia – panàncola Pannolino – panusso Pantaloni – braghe, braghesse Pantano – paltàn, ploc’ Panzana – busia, bala, fiaba Paonazzo – rovàn Parabordo (mar.) – vardalài Paralisi – colpo 52 Paranco – bosèl; vinc’ Parapiglia – barafùsa Pareggiare – far pata; valisàr Pargolo – putel, picio Parlantina – sbàtola Parlato (mar.) – parlato, mesavolta Parotite – mal del molton, orecioni Parroco – pàreco Parsimonioso – strento Parteggiare – tegnir Partita – partida, partìa Passaggio – passajo, canisela Passeggiare – spassisàr Passeggio – listòn, spassìso Passera – (itt.) passera, (barca) passera, caìcio Passero (ucc.) – panegariòl Pasticca – silela Pasticciare – pastrociàr, sbrodegàr Pastrano – capoto, codegugno Patinare – lustrar Patrimonio – sostansa Pattumiera – scovassera Paura – paura, pipìo, sbigola, spagheto Pauroso – pauroso, bruto Pavimento – paimento, (di natante) paiòl Pazzerello – maturlo Pazzo – mato Pece – pegola Pecora – piegora Pedante – piedego Pedata – piada, scalso, pintelcul Pedinare – andar drio, far la sguaita Peduncolo – manigo, pipiòl Pelare – spelar Pelato – pelà, spelà Peluria - pelùgo Peluzzo – pelùco Pena – trbolo Pencolare – scantinar, zinzolar Pendere – pindolar, picar Pendìo – rato, piàio Pene – binbin Pensiero – pinsier Pentola – pignata Penzolo (veg.) – spiròn Penzoloni – a pindolon Pepato – inpeverà Pepola (ucc.) – pacagnoso Per (prep.) – per, par Pera (veg.) – pero Perbene – desesto Percepire – sintìr Perché – perché, parchè, parcossa Percorrere – passar Percorso – strada Percossa – legnada, bota Percuotere – bastonar, onzer Perforare – sbusar Per lo più – el più de le volte Permanere – star, fermarse Permettere – lassar Pernice (ucc.) – pernisa Perno (del timone) – màscolo Perno tirante – piròn Perno (della ruora) – perno, asso Pero (veg.) – perèr Perplesso – imatunì Pertanto – persiò, donca Pertosse – tosse pagana Perturbazione – stratenpo Pesante – grevo Pesca (veg.) – persego Pesce – pesse, (el) pessi Pescecane – cagniga Pescheria – pescaria Pesco (veg.) – perseghèr Pessimo – ‘ssai cativo Pesta – pedega Pestare – pestar, bater, mastrussar, sapolar, tibiar Petraia – masiera Pettegolare – ciacolar, babàr Pettegolezzo – ciacola, babesso Pettinare – petenar Pettirosso (ucc.) – pataross(o) Pezzo – toco, feta, slepa Piacevole – bel Piacevolmente – ben, pulito Piagnisteo – lagna, nàina Piagnone – fifoto, piansòto Pialla – spiana, (lunga) soramàn Pianale (del carro) – tavolasso Piantare – inpiantàr Pianto – pianzàda, fifada Piastrella – piastrela, quadrel Piatto – piato, piatel, piatin, (liscio) sparto, (fondo) fondina La città Piazza – piassa, (non selciata) brolo Picchiare – bater, bastonar, dar bote, cresimar, onzer, castagnar Picchiotto – batocio, batador Piccino – picinin Picciòlo – manego, pirulìc’ Piccionaia – colonbèra Piccione (ucc.) – colonbo Piccoletto – pisdrùl, stropolo Pidocchio – pedocio Piede – pìe, piè Piega – piega, pièta, alsèta Piegare – storzer, scavassàr, (rifl.) cufarse Piena – montana, brentana Pieno – pien, batù Pietà – conpassion, pecà Pietraia – masiera Pigiare – sburtar; folar Pigliare – ciapar Pila – (dell’olio) pila, (dell’acqua santa) pilela Pinna (mollusco) – stura Pino (veg.) – pin Pinolo – pignol Piolo – cavìa, grisèla Pioppo (veg.) – talpòn Piovigginare – schissolàr Pipistrello – barabastèl Piroetta – giravolta Pisello (veg.) – biso Pisolino – pisoloto, sparèto Pspoletta (ucc.) – calandrina Piuttosto – pitosto Pizzicore – bèca Placare – chietar, calmar Plumbeo – scuro Poco – un fià, iòsso, ninìn, scàia, s’cianta, fregola, un bic’ Podere – cortivo – canpagna Poggiare – pusar; (mar.) poiar Poi – po, podopo Poiché – che, perché, parchè Polenta – polenta, (liquida) suf, slufi Polipo – folpo Polla – bolass(o) Pollaio – puliner, caponera Pollice – deo grosso Pollino (insetto) – pelisson Pollo – polastro Pollone (veg.) – buto, bastardo, bilfo Polpaccio o polpastrello – pùpola Polsino – damàn Poltiglia – mantèca; ploc(io) Poltrire – tirar la fiaca, omega Pomeridiano – de dopopranso Pomodoro (veg.) – pomidoro Ponderare – pensar; pesar Pontile – mol, ponte Poppa – teta, (mar.) pupa Poppare – ciuciar Porcata – porcada, scrovada Porcile – stala del porco Porco – porco, porsèl, porsìn Porgere – dar Porre – meter Portamonete – tacuin Porticato – (i) volti Posapiano – camoma Posdomani – dopodoman, doman passando Possedere – gaver Posteri – quei che vegnarà, nevodi Posteriore (s. m. di luogo) – postèrno Postino – postin, postier Posto – posto, logo, sito Potare – podar, bruscar Povero – povaro, misero Pozzanghera – possa, busa Pozzo – posso Pranzare – pranzar, desnar Prato – prà, (dim.) pradisel Precauzione – ocio Precedentemente – prima, ‘vanti Precipitare – cascar, tonbolarse Precipitazione – furia Precipizio – buron, rivasso Precisare – dir, contar justo Preciso – justo Precoce – bonorivo Predare – robar Prefazione – capel Premere – fracar Preminenza – soravento Prendere in giro – cior pel cul, coionar, remenar Preoccuparsi – esser/star in pensier, bazilar Preparare – preparare, prontar Prescindere – lassar de parte Presepe – presepio Pressa – torcio Presso – vizin, rente, tacà Presto – presto; svelto; bonora Presumere – creder Presuntuoso – pien de sé Pretenzioso – pien de bava Prevaricatore – inbroion, smafaro Prezzemolo (veg.) – persemolo Prezzp – costo Prigione – preson, galera, cheba Prima (avv.) – prima, ‘vanti Primaticcio – bonorivo Privare – cavar, cior Probabile – (che pol capitar) fazile Problema – quistion Procedere – andar avanti Procella – neverin Prodotto (agr.) – entrada, fruto Professione – mistier Profezia – strigaria Profittatore – ludro Profondità – altessa Profondo – fondo, alto Progressivamente – a leva a leva Proibire – no lassar Prolificare – far fioi Prolisso – longo, sbrodoloso Prolungare – slongar Promontorio – ponta Promuovere – mandar ‘vanti Proprietà – ben, sostansa Proprio – propio Prora (mar.) – prova Prosciugare – sugar, secar Prosciutto – parsuto, persuto Prospiciente – che varda Protrarre – tirar in longo Protuberanza – goba, bugnòn Proveniente – che ven de… Provocante – stusseghin, stussegon Prua (mar.) – prova Prugna (veg.) – susin, amolo, ranglò Pruno (veg.) – susinèr, amoler Pubblicare – meter fora, stanpar Puerile – de fioi Pugno – pugno, castagna Pula (agr.) – bula Pulce – pùliso Puleggia – bosèl Pulire – netar, forbir Pulito – neto Pungere – ponzer, sponzer, becar Pungiglione – spin Pungitopo (veg.) - bruscàndolo Punire – castigar Punta – ponta Puntellare – puntar, sopontar Puntello – ponta, soponta, piron Punteruolo – pontariol, (della vite) uriol Punto (sost. e agg.) – ponto Puntura – ponzon, ponzo, sponta, becada, becon Pupazzo – pupolo Pure – anca Purè – pirè Pus – materia Pusillanime – cagon, cagheta Pustola – brusco Putiferio – batibòio, casoto Putrefare – marsir Puzzare – spussar Puzzolente – spussente 53 La città In memoriam Ferdi Vidmar – Era nato a Idrija il 27 gennaio del 1927 da Ivanka e Ferdinand. Lascia la famiglia giovanissimo per proseguire gli studi a Gorizia e poi a Pordenone, dove frequenta il Ginnasio classico del collegio Don Bosco. Giovane idealista entra nelle file partigiane e lotta per un mondo libero e migliore. Dopo la guerra sostiene l’esame di perito industriale elettrotecnico e trova lavoro alla Radio Tv di Lubiana. La conoscenza della lingua italiana gli permette di lavorare a Radio Capodistria come tecnico addetto al ripetitore di Croce Bianca. E’ il primo passo di una carriera che lo porterà a commentare i più svariati avvenimenti sportivi nazionali e internazionali. Aperto alle novità, curioso per natura, Ferdi è stato un pioniere del giornalismo sportivo. Le sue telecronache non avevano nulla da invidiare a nomi forse più noti del suo. Commenta con entusiasmo, precisione e pacatezza. La sua non era parvenza televisiva, perché il Ferdi che incontravi per strada era fatto così. Nel privato Ferdi aveva la sua famiglia alla quale era legatissimo. Nel 1953 sposa Anita Deponte, una ragazza capodistriana piena di brio, sportiva di successo. Dalla loro felice unione sono nate Laura, Annamaria e Silvia. Quando il papà era lontano per qualche servizio, erano orgogliose di sentirlo e vederlo apparire sullo schermo. Lo ascoltavano con interesse quando a tavola raccontava dei suoi viaggi. Erano favole vere. Oltre che per i suoi nipoti, Ferdi ha trovato tempo anche per altri ragazzi ai quali ha insegnato ginnastica e sci. Li spronava a non aver paura della neve e a lasciarsi andare con leggerezza. Malgrado l’età Ferdi aveva una carica vitale invidiabile. Sempre presente in Comunità, pronto a porre domande, a ricordare fatti del passato; ad esempio che suo padre e quello di Anita, sotto il fascismo furono compagni di cella nel carcere di Capodistria. L’ultima sua battaglia era stata quella per l’intitolazione di una via al pittore Oreste Dequel. Ornella Derin – A soli 49 anni ci ha lasciati in seguito ad una tragica fatalità Ornella Novak Derin. Una folla commossa di amici e parenti le ha reso l’estremo saluto al cimitero di Bertocchi, la località in cui era nata e vissuta. Ornella aveva frequentato insieme al fratello gemello Vili, le scuole elementari a Bertocchi e a Capodistria, diplomandosi quindi all’Economica di Isola. Aveva Armida Peroša – Nata 58 anni fa a Sermino, Armida è stata impiegata a Radio Capodistria dal 1971 al 2008 in qualità di pianificatrice nel reparto realizzazione radiofonica. 54 anche fatto parte del coro guidato dal maestro Stancich. Molto stimata nell’ambiente di lavoro, lascia il marito e un figlio, Marko, ancora adolescente. Gli ex compagni di scuola vogliono ricordarla con questa foto della VII classe – anno scolastico 1973/74 – insieme all’insegnante di sloveno, professoressa Hočevar. Ornella Derin è la terza da sinistra accovacciata in prima fila. Gianpaolo Opara – 94 anni di Crevatini. Già operaio al cantiere navale S. Rocco di Muggia, dopo la guerra agricoltore. Un’intervista sul numero 11 de La Città. Santo Favento – Classe 1931, del ramo dei Guzzi. E’ stato impiegato al porto di Capodistria. Abitava in uno dei blocchi sorti tra la chiesetta di Semedella e casa Gambini. La città 55 La chiesetta di S. Tommaso restaurata di recente a spese della parrocchia. Vi si conserva una statua prodotta in Val Gardena e un affresco attribuito al Clerigino (sec. XV). Dopo due anni di chiusura è stato finalmente riaperto il Caffè della Loggia. Il »salotto« di Capodistria èstato affidato in gestione alla società Kolosej. E' in via di demolizione questa casa, un tempo locale pubblico, vicino allo stadio. La posizione era nota come »a la Tappa«. La foto è degli ultimi giorni di novembre. Una comitiva della Comunità degli Italiani »Santorio Santorio« di Capodistria composta da 25 partecipanti ha partecipato dall'11 al 13 settembre scorso all'escursione di studio in Trentino, organizzata nell'ambito del piano permanente di collaborazione tra Unione Italiana e Università Popolare di Trieste. In compagnia dei connazionali di Cherso e di Lussino, i nostri soci hanno visitato le località di Trento, della Val Rendena e di Pinzolo, prendendo contatto con le tipicità artistiche, storiche e paesaggistiche del posto e apprezzando in generale l'alto grado di cultura dell'ospitalità nel Trentino. Nella foto ricordo (cortesia della C.I. di Lussinpiccolo) è ritratta la comitiva dinanzi alla chiesa di San Vigilio a Pinzolo, conosciuta per la famosa raffigurazione della danza macabra.