Tra tv e cinema Nella partita a tennis tra film e telefilm, adesso è il

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Tra tv e cinema Nella partita a tennis tra film e telefilm, adesso è il
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Tra tv e cinema
“SEX AND THE CITY”: DELUSIONE SUL GRANDE SCHERMO
Nella partita a tennis tra film e telefilm, adesso è il tempo delle serie televisive di
successo che si trasformano in pellicole strombazzatissime. Con risultati altalenanti.
Per un “Incredibile Hulk” che viene rilanciato con la regia di Louis Leterrier, c’è di
contro il flop narrativo delle quattro single più famose di New York. Tra depressioni,
compromessi, rassegnazioni e velleitarismi dov’è finita la brillante vita mondana e
sessuale di Carrie, Samantha, Miranda e Charlotte?
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di Alessandra Lo Russo
Un giorno uno spettatore al cinema non riusciva a stare attento per due ore di film: probabilmente
gli si stancavano gli occhi, non riusciva a seguire più la storia, voleva alzarsi a fare due passi. Così,
con la nascita della tv, processo naturale fu di trasportare il film in tv, rendendolo telefilm e
adattandolo alle esigenze dello spettatore televisivo: rispetto al film si ridusse la durata, la struttura
narrativa si convertì in episodi conclusi o collegati tra loro. Lo spettatore casalingo così poteva
alzarsi a sbadigliare o a sgranchire le gambe. Alfred Hitchcock fu tra i primi a intuire che si poteva
ridurre sul piccolo schermo un film, creando Alfred Hitchcock presents, una serie di gialli realizzati
dal 1955 al 1965 e mandati in tv anche negli anni successivi con grande successo. Questo però fu lo
stesso motivo che indusse i benpensanti dell'Academy Awards a non premiare mai con un vero
Oscar (a parte nel 1940 quello per Rebecca, la prima moglie, consegnato poi al produttore) il genio
del giallo, perché considerato un “autore televisivo”.
Cinema e tv, quindi, come nemiche-amiche: il telefilm e il film, da sempre relegati
rispettivamente sul piccolo e sul grande schermo, diventano protagonisti di scambi negli ultimi
anni. Se il percorso partiva dal cinema per sgonfiarsi in tv con il telefilm, oggi ritorna al cinema
rigonfiato a sua volta: diventa una partita a tennis quella tra cinema e tv, giocata per arricchirsi
oppure peggiorarsi. Se principio del telefilm e più in generale della fiction televisiva era proprio
quello di prestarsi all’attenzione discontinua di un pubblico di casa, che magari cucina, mangia o fa
altro durante la visione, alcune serie e sit-com di successo hanno ricreato una audience
concentratissima a seguire la matassa degli eventi, quasi a richiedere un approdo del telefilm sul
grande schermo.
Il pubblico si affeziona ai personaggi delle serie tv spesso in modo voyeuristico o
immedesimandosi nelle situazioni a tal punto da vivere vite parallele: questi personaggi
accompagnano i comuni mortali che si legano a loro in modo inconscio o meno rendendoli parte
delle loro esistenze. Le finte vite dei telefilm coinvolgono così tanto gli spettatori che alcuni di loro
amano più quelle che non le proprie, considerandole talvolta proiezioni straordinarie della realtà
seppur irreali perché dense di emozioni, amori, sentimenti contrastanti, buoni valori. I personaggi,
episodio dopo episodio, acquistano spessore, delineano un carattere vero: li conosciamo così bene
che siamo in grado di prevedere le loro mosse, sentire le loro emozioni. Spesso vogliamo bene a
questi volti in due dimensioni, li sogniamo la notte, vogliamo diventare loro, ci innamoriamo di
loro, troviamo somiglianze nelle persone reali. Molti dai pre ai post adolescenti recidivi sognavano
negli anni ’90 di vivere in Beverly Hills 90210, come molti giovani di questo millennio invece
sognano di essere Ryan e Marissa di O.C.
Il telefilm, soprattutto, ha cambiato (e sta cambiando ancora) il rapporto tra spettatori e finzione:
una finzione, quella seriale televisiva, che seguita giorno dopo giorno o con cadenza settimanale
spesso fa perdere allo spettatore attento il rapporto con la realtà. Inoltre, l’uso del cliffhanger
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(ovvero l’interruzione dell’episodio nel momento di maggiore suspence) ricatta gli spettatori fino
all’inizio della successiva puntata e poi fino alla stagione successiva. Fatto sta che quando questi
telefilm finiscono per cause naturali o morti premature (dovute a scarso successo delle stagioni
successive di una stessa serie o scioperi degli sceneggiatori, come quello che quest’anno ha
costretto alcuni set di serie tv a chiudere prima del tempo), gli spettatori rimangono soli, senza
quella finzione che faceva parte della loro realtà.
La palla passa perciò nel campo del cinema, un po’ per consolare i fans riproponendo un telefilm
in una versione cinematografica autoconclusiva o lapidaria, un po’ soprattutto per quel principio
cardine della cultura postmoderna che favorisce la rimasticatura delle opere del passato in chiave
pop.
Negli ultimi anni sono stati molti i telefilm ad essere proposti sul grande schermo, in modo
diverso, talvolta cambiando totalmente il genere di provenienza, altre volte mantenendolo. Basti
pensare a Starsky & Hutch, telefilm poliziesco di successo degli anni ’70 molto drammatico e
capace di affrontare tematiche impegnative e sentimenti dirompenti, ridotto sul grande schermo a
una parodia irrispettosa in chiave umoristica con Ben Stiller e Owen Wilson nei panni dei due
poliziotti. Il film ha utilizzato infatti la stessa chiave degli chiusure degli episodi, spesso tese a far
sorridere dopo 40 minuti di tensione. Insomma, Starsky e Hutch, nel telefilm bravi e seri poliziotti,
con il debole per le donne difficili, nel film sono due combinaguai che pensano solo a rimorchiare.
Hulk di Ang Lee non ebbe grande successo, ma l’ultimo con Edward Norton nei panni del mostro
verde è un buon film, al quale viene restituito di diritto l’aggettivo: L'incredibile Hulk di Louis
Leterrier, infatti, è capace infatti di regalare quelle stesse emozioni della serie degli anni ’80, in
particolare l’amore per una donna che non si può più amare a causa della propria bestialità
incontrollabile.
Il caso di Sex and the city, in particolare, rende la partita a tennis tra cinema e tv più che mai
attuale e interessante, dopo che la serie televisiva aveva chiuso i battenti nel 2003 mandando nel
panico totale i suoi fan. Infatti, questo telefilm lanciato dalla Hbo dieci anni orsono, diventato cult
episodio dopo episodio sdoganando tabù femminili imbarazzanti solo a pensarli (immaginare a
vederli), tanto brillante in 20 minuti di programmazione televisiva, al cinema perde la verve di quei
cookies quotidiani in una torta sacher di 140 minuti, cambiando però non solo nella forma, ma
anche nei suoi contenuti, regalandoci una morale sconcertante per chi ha seguito le sei stagioni del
telefilm: signore e signori, Sex and the city è la sconfitta del femminismo.
Sono le donne più emancipate del mondo: hanno un buon lavoro, sono indipendenti, hanno amiche
fidate, vanno a letto con gli uomini più interessanti di New York, fanno una vita mondana, eppure
sognano un matrimonio e una vita domestico-familiare.
Queste ragazze ormai quarantenni (Carrie, Charlotte, Miranda) e una che ne compie 50
(Samantha), dopo aver scorrazzato per le vie della città alla ricerca dell’amore, rinunciano al sesso?
Sì, in parte. Nacque come Sex and the city, perché il teatro e l’oggetto del telefilm erano i veri
protagonisti, insieme all’amicizia tra le quattro donne, ma il sesso nel film si sposta nella zona
d’ombra. Carrie, in una qualsiasi puntata della serie, dopo l’ennesima rottura con Mr. Big sarebbe
caduta tra le braccia di un musicista o di uno scrittore o di un commesso di una fumetteria; nel film
invece, dopo che Big non arriva al matrimonio, si rinchiude a casa, scurisce i capelli come se fosse
a lutto, prende un’assistente che la aiuta a credere nell’amore.
Charlotte, la più romantica di tutti, rimane finalmente incinta del marito per il quale ha cambiato
la sua fede religiosa dopo aver adottato prima un cane, poi una bimba cinese; Miranda, l’avvocato
di successo tradita dal marito barista con il quale non aveva rapporti da sei mesi, lo lascia per poi
riprenderlo con sé dopo la terapia di coppia. Questa morale “di rassegnazione” si era vista e capita
già dalle ultime puntate della sesta stagione, ma il lungometraggio ci dà un vero colpo di grazia.
Sono donne che si accontentano in certo modo di uomini imperfetti perché – ahimè – se ne
innamorano. La tragedia è che queste storie diventano più vicine alla realtà da quando le ragazze
rinunciano al sesso occasionale. Questo intristisce, perché il telefilm si basava comunque sulla non
assoluta credibilità delle storie. E Samantha? Lei è l’unica che rimane coerente con il suo
personaggio. Proprio lei che aveva trovato un uomo perfetto e con cui essere felice senza
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accontentarsi, Smith: più giovane di lei, attore, bello come il sole, le era stato vicino nelle situazioni
di difficoltà e con il quale si era trasferita a Los Angeles. Goccia che fa traboccare il vaso è il vicino
di casa di Samantha: il volgarissimo Dante che fa la doccia nudo e all’aperto. Quando in quello
stato le chiede: “Vuoi unirti a me?”, lei rinuncia per amore di Smith (nella serie invece non si
sarebbe fatta scrupoli...) a “una cosa per me naturale”, testuali parole della bionda. Alla fine,
Samantha si congeda dal suo giovane fidanzato così: “Io ti amo, ma amo di più me stessa”. Che
donna: il trionfo del femminismo, a costo di risultare ridicolo e patetico per una cinquantenne che
ha il coraggio di buttarsi a capofitto nella vita.
Le altre tre? Scontate: come dice Carrie, “pensavo di trovare l’anima gemella strombazzando per
New York?”. La risposta è una sola: assolutamente no.