L`anti-italiano. Alle origini di un`ideologia

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L`anti-italiano. Alle origini di un`ideologia
L’anti-italiano. Alle
origini di un’ideologia
di Massimo Borghesi
Docente di Filosofia
morale, Università
di Perugia
Il saggio del 1910 pubblicato ne “La Voce“ esprime bene un punto di vista su «L’Italia come oggi è non ci piace»1. L’affermazione di Giovanni Amendola esprime bene
il pensiero di una parte rilevante dell’intellighènzia italiana del Novecento e afferma riguardo all’Italia «che essa non ci piaccia si spiega soltanto in un modo che
è questo: il nostro ideale della vita pubblica e privata, i nostri valori intellettuali,
morali e politici non sono quelli degli uomini che oggi costituiscono la classe dirigente; essi stanno su di un livello sensibilmente più elevato»2.
Questa “elevatezza”, che si esprime nel «bisogno di oltrepassare nettamente l’Italia
attuale»3, si documenta in una tensione che dà luogo a una azione morale che «va
oltre i confini dell’individuo, e che permette, anzi incoraggia, il sacrificio stesso
della vita»4. Per Amendola «se questo valore morale non sorge e non prospera negli
individui, questi restano isolati e disgregati, poiché nulla è in essi che varchi i confini dell’individualità e li colleghi fra di loro: e allora si ha una collezione di uomini,
non una nazione. – Ora l’Italia soprattutto di questo soffre: che la nazione è poco
più di un mito che tramonta e di una speranza che sorge»5.
Il riferimento alla nazione come mito non realizzato è eloquente. L’idealismo etico
di Amendola si nutre, in realtà, del disincanto di fronte a un Paese che non corrisponde ai sogni e all’utopia del Risorgimento, agli ideali che dovevano presiedere
alla formazione dell’Italia post-unitaria. Non era certo il solo. Negli anni che precedono la Prima guerra mondiale una generazione di giovani, e tra essi molti intellettuali e politici, mostrano un’insofferenza verso l’esistente, il mondo prosaico e
borghese dell’Italia post-umbertina, tale da divenire rifiuto.
Da questo alla ribellione il passo è breve; la delusione del presente si richiama agli
ideali traditi, al mito della nuova Italia che, sulle ceneri di quella papalina e borbonica, doveva partorire, nella lotta e nel dolore, un popolo nuovo, fiero, orgoglioso,
capace di assolvere il proprio dovere verso la patria, impregnato nell’osservanza
mazziniana dei doveri e delle leggi, di altissimo spirito etico.
Non una “collezione di individui” ma una comunità organica. Si tratta, com’è evidente, di un ideale etico-religioso che trova i suoi riferimenti culturali nella filosofia classica tedesca, tradotta e recepita in Italia da Bertrando Spaventa e dalla
scuola napoletana, nel panteismo dello Stato etico, dio terreno cui l’individuo deve
consacrare tutte le proprie energie. Ideale che corrisponde però anche al modo in
cui il Risorgimento “costruisce” l’identità culturale italiana.
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Alberto M. Banti nel suo La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle
origini dell’Italia unitaria, ha mostrato molto bene come l’identità italiana sia stata
elaborata, durante il Risorgimento, da un gruppo di intellettuali che hanno utilizzato simboli e figure già presenti nella coscienza popolare. Tra essi assume un ruolo
di primo piano il modello cristologico della storia sacra, con la sua immagine di
martirio, sacrificio, purezza. Questo modello sacrificale serve a legittimare la figura
dell’eroe nazionale, del patriota martire e crocifisso. La letteratura, ricalcando immagini comuni alla fede popolare, ha una funzione essenziale nel formare la mitologia di una nazione inesistente. Massimo d’Azeglio è folgorato da Alfieri, Mazzini,
Ortis, Settembrini, Ricciardi, Minghetti e da scritti come l’Adelchi, I sepolcri, Le mie
prigioni.
L’idea di nazione nasce così non mediante l’«invenzione della tradizione», come
pensa Eric Hobsbawm, ma mediante la trasformazione della tradizione. I simboli del
cristianesimo, svuotati del loro contenuto originario, divengono le forme di un
nuovo ideale che deve giustificare sacrificio e dedizione alla comunità nazionale,
all’io collettivo che sorge dall’immolazione dell’io singolare. La nuova fede assume
le vesti di un idealismo etico teso a promuovere la nascita di un popolo nuovo,
unito e forte, in nulla inferiore agli Stati-potenza, come Francia e Inghilterra, che
hanno segnato la storia moderna dell’Europa.
Il fossato tra “ideale” e reale
Se questo è il contesto, si comprende la delusione di Amendola nel 1910. L’Italia
reale non corrisponde all’Italia “ideale”. Il mito nazionale, sorto in ambito letterario,
non trova corrispondenza nel «mondo della compiuta peccaminosità» (Fichte). È dal
fossato tra ideale e reale che prende forma l’ideologia dell’anti-italiano. Conformemente alle sue origini intellettuali essa esprime la visione di un’élite che elabora
l’idea di un’“altra” Italia, che deve sorgere, ri-sorgere, che comunque non è ancora
nata.
Delusa di fronte allo scacco della sua attuazione essa dà luogo alla diagnosi del “Risorgimento incompiuto” o, più radicalmente, del “Risorgimento tradito”. Il sogno di
un’altra Italia diviene, dopo il suo scacco, il punto di vista dell’“anti-italiano”, dello
straniero in patria.
Nel filone che si ricollega idealmente al protestantesimo esso diviene il punto di
vista dell’europeo, dell’uomo del Nord, che guarda con disprezzo all’uomo del Sud.
La critica ricalca, in qualche modo, i luoghi comuni di un certo mondo anglosassone
verso l’Italia: l’italiano come un cinico simpatico, privo del senso della legge e dello
Stato, ben raffigurato nei personaggi della commedia.
L’ideologia che sta dietro l’anti-italiano nasce, pertanto, da una delusione, da un risentimento conseguente a un tradimento ideale: l’italiano non è come deve essere. Questa
ideologia diviene la forma mentis della classe intellettuale degli inizi del Novecento,
così diffusa da costituire una sorta di ideologia italiana. Secondo Galli della Loggia,
«essa è il denominatore comune di un insieme di riflessioni peculiari e di interpretazioni
che i gruppi intellettuali italiani avviano a partire dall’Unità – ma riprendendo spesso
motivi di ben più antica data – sulla storia del Paese e sul loro ruolo in essa.
L’“ideologia italiana” è insieme un’analisi storica profondamente pessismistica e
una profezia di salvezza. Dagli anni Settanta-Ottanta del XIX secolo in particolare,
matura nella penisola una disposizione ideologico-emotiva destinata a fare sempre
più proseliti tra gli intellettuali letterati in specie, che guarda al passato storico italiano come a una serie di catastrofi e di fallimenti che, dalla donazione di Costantino al Risorgimento, passando per le egemonie straniere e la mancata riforma
religiosa, avrebbero impedito da un lato la nascita di un forte, autentico, Stato nazione, dall’altro […] la costruzione-rigenerazione del carattere degli italiani, afflitto
da una storica “corruzione”»6.
È dal fossato tra
ideale e reale che
prende forma
l’ideologia dell’antiitaliano, essa
esprime la visione di
un’élite che elabora
l’idea di un’“altra”
Italia, che deve
sorgere, ri-sorgere,
che comunque non è
ancora nata.
Questa corruzione si esprime come ipocrisia, retorica, servaggio cinismo, amore al
proprio “particolare”. Era stato Francesco de Sanctis che, in veste di pedagogo della
nuova Italia, aveva puntato il dito contro L’uomo del Guicciardini7. L’individuo
amante del proprio “particulare” diviene qui l’emblema di tutti i mali nazionali, il
rappresentante della vecchia Italia, sorda agli ideali, all’impegno, all’abnegazione.
Da De Sanctis in poi il riferimento a Guicciardini diventa un topos. «L’italiano –
scriverà Curzio Malaparte – finge di credersi sentimentale: e non è. Romantico: e
non è. Idealista: e non è.
L’italiano è realista, guarda al sodo, al proprio tornaconto, al proprio “particolare”
del Guicciardini. […] L’italiano ama credersi un uomo libero: e non è. Amante della
libertà: e non è. Devoto: e non è. Fedele: e non è. Pronto a sacrificarsi, per le proprie idee: e non è. L’italiano non si sacrifica neppure per i propri interessi»8.
Si tratta, com’è evidente, di un’immagine fortemente caricaturale. L’italiano è colui
che nasconde, dietro la retorica dei buoni sentimenti, cinismo e servilismo. Egli
cela, dentro di sé, un cuore “servile”, un atteggiamento “passivo”, una tendenza secolare a obbedire. È nel contesto proprio degli inizi del Novecento, fortemente contrassegnato da Nietzsche e da Stirner, i due dioscuri di Mussolini, che
l’“anti-italiano” può forgiare le sue armi, mettendo a fuoco un’immagine tragi-comica dell’italiano comune.
L’ammirazione, indotta dalla retorica risorgimentale prima e dalla guerra poi, per
gli eroi, per gli uomini eccezionali (i superuomini), le élites (Mosca, Pareto), le aristocrazie, diventa disprezzo dell’uomo “comune”, del piccolo “borghese”, del popolo
amorfo. L’uomo superiore non è il materialista ma l’idealista, colui che è “libero”
dalla paura della morte, che non esita a rischiare la propria vita per l’universale, il
tutto, lo Stato.
Questo coraggio gli conferisce un diritto di comando. Le minoranze sono l’avan-
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guardia del mondo nuovo. Nel contesto proprio dell’Italia degli anni Dieci-Venti,
questa posizione porta a una trasfigurazione del Risorgimento. L’immagine “religiosa” del medesimo, inizialmente funzionale all’unificazione tra élites e popolazione cattolica, viene ora riattualizzata in chiave etico-idealistica.
La presunzione delle élites
L’aristocrazia che sorge dalla “grande guerra”, che è andata in trincea con la persuasione del grande lavacro, della purificazione di una nazione giovane, ma già
colma di peccati, presume di cogliere il momento propizio per la grande rinascita.
La guerra consacra il rifiuto del vecchio mondo, la fine del materialismo borghese,
del liberalismo e delle sue istituzioni. La guerra è palingenesi, nascita dell’uomo
nuovo, è “Risorgimento”. La presunzione delle élites è quella di avere una tempra
morale tale da portare a termine il movimento risorgimentale, movimento verso
l’ethos collettivo, la nazione, lo Stato, la potenza. L’ideologia politica si ammanta di
afflato religioso, di vocazione etica.
L’ideologia italiana è una forma di religione civile che incide profondamente nella
cultura del primo Novecento. Giustamente Galli della Loggia osserva come è «da
questa peculiare disposizione ideologica, da codesta “ideologia italiana”, che traggono origine le tre peculiari culture politiche che l’Italia ha dato al Novecento: il
fascismo, il comunismo gramsciano, l’azionismo gobettiano»9. La figura che assume
qui un ruolo centrale, nel senso che tutte e tre queste culture ne risultano permeate, è Alfredo Oriani.
L’autore della Lotta politica in Italia (1892), ristampato da “La Voce” nel 1913, e de
La rivolta ideale (1908), è uno snodo essenziale per il formarsi dell’ideologia italiana. Con il libro del 1892 Oriani, criticando radicalmente tutto quanto si era realizzato dopo il 1860, aveva reso quasi impossibile identificarsi con l’Italia com’era
al presente.
«Dopo la Lotta politica la “rivoluzione italiana” tornava, prepotentemente, d’attualità: una rivoluzione destinata a vedere di fronte più che due Italie sociologicamente definite (per esempio, quella dei ”contadini” e quella dei “signori”, il “paese
reale” e il “paese ideale”), due Italie politiche, e in fin dei conti morali: l’Italia che si
accontentava di quello che era, e un’altra Italia che invece ancora attendeva quella
grande rinascita, quel rinnovamento complessivo, che il Risorgimento non era
stato»10.
Contro l’Italia che si accontenta era indirizzata La rivolta ideale, la rivolta dell’aristocrazia morale, capace della virtù del sacrificio, del coraggio, della competizione,
della lotta. Motivi questi che influenzeranno tanto Mussolini, per il quale «il 1912,
anno in cui Oriani e Pascoli muoiono, costituisce uno spartiacque tra l’Ottocento
già morto e il Novecento, ancora infante»11, quanto Gobetti il quale, sebbene durante La rivoluzione liberale avesse saldato il debito con Oriani era, tuttavia, «ancora e sempre alla sua maniera, se non anche alle sue tesi specifiche, che, senza
volerlo, e anzi volendo il contrario, egli ispirava il suo discorso»12.
In tal modo grazie a Oriani l’“ideologia italiana”, quell’ideologia che vede nell’élite
“anti-italiana” la guida palingenetica dell’Italia che non piace, ottiene la sua compiuta legittimazione. Essa dava forma a quella protesta ideale che sorgeva dalle
trincee, incanalando il sentire religioso in quello rivoluzionario. Lungo questa
strada il tema del nuovo Risorgimento doveva incrociarsi, singolarmente, con quelli
dell “Riforma” e della “Controriforma” dando luogo a una dialettica, culturale e politica, che segnerà la storia italiana durante tutto il XX secolo13.
1
G. Amendola, Il convegno nazionalista, “La Voce” (1-12-1910), in G. Prezzolini, La Voce 1908-1913. Cronaca, antologia e
fortuna, Rusconi, Milano 1974, p. 685.
2
G. Amendola, Il convegno..., cit., pp. 685-686.
3
G. Amendola, Il convegno..., cit., p. 687.
4
Ibidem.
5
Ibidem.
6
E. Galli della Loggia, Le lontane origini della ideologia italiana. Alfredo Oriani e “La Rivolta Ideale”, in “Nuova Storia Contem-
poranea”, 6, novembre-dicembre 1999, p. 17.
7
F. de Sanctis, L’uomo del Guicciardini (1869), in L’arte, la scienza e la vita, Einaudi, Torino 1972, pp. 93-117.
8
C. Malaparte, Muss. Il Grande imbecille, Luni, Milano 1999, p. 68.
9
E. Galli della Loggia, Le lontane origini della ideologia italiana..., cit., p. 18.
10
E. Galli della Loggia, Le lontane origini della ideologia italiana..., cit., p. 20.
11
Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, Il mulino, Bologna 1990, p. 26.
12
G. Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile, Il mulino, Bologna 1998, p. 82. Sull’orianesimo di Gobetti cfr. A. Radiconcini, Go-
betti e Oriani, in “Nuova Antologia”, 1271, luglio-settembre 1989, pp. 154-178; G. Spadolini, Gobetti. Un’idea dell’Italia, Longanesi, Milano 1993, pp. 149-165.
13
Cfr. M. Borghesi, L’anti-italiano. Riforma e Controriforma nella cultura politica del primo Novecento, in “Linea Tempo”, 3
(2002), pp. 56-67.
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